giovedì 21 novembre 2013

l’Unità 21.11.13
Pd, sale la tensione «Esecutivo indebolito»
Epifani: «Ora uno scatto»
Renzi: «Letta ha sbagliato. Da segretario avrei scelto la sfiducia»
Civati insulta Cuperlo: «Basta con chi fa lo stronzo con le minoranze». La replica: «Miserie»
di Simone Collini


Quello che pensa veramente Gugliemo Epifani lo dice in un breve colloquio in pieno Transatlantico: «Da oggi il governo è più debole». Non che non creda anche a quanto detto pochi minuti prima nell’aula di Montecitorio, e cioè che bisogna mettere l’esecutivo al riparo da «fibrillazioni continue» e che Annamaria Cancellieri deve «continuare il lavoro rimuovendo non con le parole ma con i fatti le critiche dell’opinione pubblica». Però il segretario del Pd è convinto che superato l’ostacolo della sfiducia alla Guardasigilli il governo debba comunque reagire con «uno scatto». Perché ci sono provvedimenti attesi da tempo che ora devono vedere la luce, perché questo esecutivo si regge se supera la prova dei fatti, ma non solo. Tra venti giorni il Pd che in questo passaggio ha detto sì all’appello di Letta a un atto di responsabilità non sarà più lo stesso. E le tensioni emerse nelle ultime 48 ore sono solo un assaggio di quel che può succedere dopo l’8 dicembre.
Matteo Renzi, dato per favorito alle primarie che eleggeranno il nuovo segretario del Pd, ha giocato questa partita guardando al futuro e ora sorride di fronte alle letture che lo danno come sconfitto in questo round con Letta. Il sindaco di Firenze dice che «da segretario Pd avrei dato indicazione di votare la sfiducia», che «Letta ha sbagliato a metterci la faccia». E però si è rimesso a quanto chiesto dal premier all’assemblea dei deputati Pd. Perché? Il principio sancito, spiega nei colloqui di queste ore, è il rispetto della decisione presa anche da parte di chi non la condivide. Principio tutt’altro che secondario per chi si sente segretario in pectore e però sa, come Renzi ha potuto verificare in questo passaggio, che nei gruppi parlamentari il rischio di restare in minoranza è alto.
A dimostrarlo è stato non solo il no alla sfiducia a Cancellieri, ma il modo in cui il Pd ci è arrivato. E cioè dopo un’assemblea in cui la stragrande maggioranza dei deputati, con l’eccezione della cinquantina di renziani presenti, ha accolto con grandi applausi l’intervento di Gianni Cuperlo. Lo sfidante del sindaco, contestando anche la scelta solitaria di Pippo Civati di presentare una mozione di sfiducia, ha criticato chi prova a «scaricare il senso di responsabilità solo su una parte», ha contestato ministri come Franceschini e Delrio che si preoccupano della stabilità del governo e contemporaneamente sostengono Renzi, «scelta congressuale che però, in alcuni momenti, confligge apertamente con il loro ruolo». Allo stesso sindaco Cuperlo ha contestato le uscite su tv e giornali: «Porti qui la sua riflessione e il suo contributo».
Gli applausi di questi passaggi, insieme all’allinearsi sul no alla sfiducia dei deputati anche di Area democratica (quella che fa capo a Franceschini) dimostrano che in caso di vittoria alle primarie Renzi dovrà poi comunque faticare

il Fatto 21.11.13
Niente onore, solo stabilità di governo
di Pino Corrias


MA DAVVERO Annamaria Cancellieri crede che incassare la fiducia da questo parlamento di disonorevoli soldatini al guinzaglio le restituisca l’onore? Neanche si accorge che il voto al quale si dovrà aggrappare da oggi in poi è pura ipocrisia, una finzione assolta per altri scopi, non riguardando in nulla la sua presunta colpa o la sua improbabile innocenza. Ma riguardando invece la più abusata tra le ragioni della politica: la stabilità di governo. Quella continuità verso il nulla che Enrico Letta auspica, Berlusconi consente, Epifani subisce e Napolitano pretende. Una politica che ogni giorno imbroglia le carte, imbroglia i conti, imbroglia le parole. Non bastando la buona educazione, la legge impone che ogni funzione pubblica vada svolta “con disciplina e o n o re ”. Quelle telefonate le vanificano, aggiungendovi la vergogna. E ancora peggio ha fatto il voto di ieri. Che presumendo di sanare quello spericolato esercizio del potere – maneggiato senza neppure sapere della malattia, ma millantando una preventiva e accorata “ragione umanitaria” – non fa altro che replicarlo. E per di più nella stessa forma, con la stessa protervia: quella dei molto potenti in favore di uno solo.

il Fatto 21.11.13
I Prefetti del Quirinale
di Marco Lillo


Il presidente Napolitano è riuscito a imporre la sua linea al Pd. Ma la scelta di Enrico Letta di legare il destino del governo a quello di Annamaria Cancellieri, oltre che sbagliata, è poco o nulla saggia. Non solo per la telefonata del 17 luglio alla compagna di Salvatore Ligresti, in cui la ministra piagnucolava “non è giusto”, mentre la Finanza cercava ancora Paolo Ligresti, fuggito in Svizzera. Non solo per le raccomandazioni a favore di Giulia o per l’interrogatorio lacunoso sui rapporti con Antonino.
Il rischio per il governo non sta in quello che già si sa, ma in quello che il ministro non ci ha raccontato e che i Ligresti potrebbero improvvisamente ricordare. A cosa allude Gabriella Fragni quando rammenta ad Annamaria Cancellieri la chiacchierata nella cascina dei Ligresti, quando le due amiche parlarono di quel “maledetto periodo” in cui il figlio della ministra lavorava in Fonsai? Cosa si dicono esattamente nei 13 minuti di conversazione non registrati Annamaria e l’amico Antonino Ligresti? Cosa dice il figlio della ministra, Piergiorgio Peluso, o la stessa Giulia Ligresti nelle telefonate intercettate a settembre e non ancora depositate? La fiducia al ministro e al governo resta appesa a troppe domande e a troppe inchieste aperte in ben tre procure della Repubblica. Un assaggio si è avuto ieri. Mentre la ministra scandiva in Parlamento: “Non ho contratto debiti di riconoscenza verso nessuno”, le agenzie di stampa pubblicavano le dichiarazioni di Salvatore Ligresti sulla sua raccomandazione a Berlusconi in favore dell’amica. Finché Annamaria Cancellieri resterà al suo posto, i giornali andranno a caccia di intercettazioni e verbali come questo. E pubblicheranno interviste come quella del quotidiano La Stampa all’ex direttore degli hotel dei Ligresti, Antonio Cavaletto, che cita di passaggio, tra gli ospiti più pesanti del Tanka Village, “un prefetto morto due anni fa del quale preferisco non fare il nome”. Forse perché è scomparso e non può dire: “Ho pagato”. O forse perché lo chiamavano tutti “il prefetto del Quirinale”.

il Fatto 21.11.13
Un monito vi governa: Letta e i partiti sudditi del Colle
Ecco come “re Giorgio” Napolitano, tra dichiarazioni pubbliche e incontri privati, ha condizionato le scelte di Palazzo Chigi, del Parlamento e delle Segreterie
di Carlo Tecce


Spifferi e moniti del Quirinale, incontri pubblici e privati. Ecco come il presidente della Repubblica ha commissariato governo e partiti. E protetto, da polemiche e scandali, i ministri Alfano e Cancellieri.
L'agenda Letta fabbricata al Quirinale 20 maggio 2013
“Il presidente della Repubblica ha ricevuto nel pomeriggio il ministro per le Riforme costituzionali, Gaetano Quagliariello, con i presidenti delle Commissioni Affari costituzionali dei due rami del Parlamento, Anna Finocchiaro e Francesco Paolo Sisto. L’incontro ha consentito di verificare la comune volontà di avviare senza indugio e di portare avanti in Parlamento un processo di puntuali modifiche costituzionali relative ad aspetti dell'ordinamento della Repubblica che richiedono di essere adeguati a esigenze da tempo individuate di un più lineare ed efficace funzionamento dei poteri dello Stato”.
Napolitano osserva la nascita del governo di Enrico Letta come se fosse, e nei fatti è, un’estensione del Quirinale. L'investitura includevaunprogrammadaeseguirein 18 mesi (al massimo) e, soprattutto, la riforma costituzionale che passa attraverso la modifica dell'articolo 138, la cassaforte della Carta: tempi più rapidi per il presidenzialismo. In più di un'occasione, in pubblico con gli ormai famosimonitieinprivatoconriunioni con i capi di partito (spesso democratici), Napolitano ha aumentato le pressioni su Parlamento e Palazzo Chigi. Il 2 di giugno ripeteva: “Vigilerò”. Il 3 giugno Napolitano fa sapere che il governo con un decreto vuole nominare una commissione di saggi per il riassetto costituzionale, precisa che “la composizione dell'organo è discrezione di Palazzo Chigi”. Ma l’appunto ufficiale ricorda che il Quirinale aveva già nominato dei saggi che possono tornare utili anche a Letta (suggerimento accolto). E il 23 ottobre, dopo aver rimproverato Matteo Renzi sulla legge elettorale, arringa: “Il fuoco di sbarramento non ci fermerà”.
Vietata la caccia ai caccia F-35 3 luglio 2013
Miliardi e armamenti. Scrive l’Ansa: “Il presidente della Repubblica, in piena sintonia con il governo e i ministri interessati, in una complessa nota ha spiegato come ‘tale facoltà del Parlamento non può tradursi in un diritto di veto su decisioni operative e provvedimenti tecnici che, per loro natura, rientrano tra le responsabilità costituzionali dell’Esecutivo’”.
A cosa si riferisce la “complessa nota”? A una commessa da decine di miliardi di euro che mezzo Parlamento vuole disdire, quella dei fragili (lo dicono svariate perizie di svariati eserciti) caccia F-35. Spesso il Quirinale consiglia al potere legislativo dove, come e quando agire. In questa circostanza, il presidente della Repubblica, capo delle Forze Armate, ammonisce deputati e senatori: la decisione spetta al governo. Che coincide con la decisione del Colle.
La benedizione a Elkann per Rcs 4 luglio 2013
La casa editrice Rcs soffre un faticoso aumento di capitale, mentre i debiti sono fuori controllo. La Fiat aumenta le quote in Rcs e John Elkann, presidente di Fiat, fa sapere di aver telefonato a Giorgio Napolitano per comunicare la quota di azioni raddoppiata al 20%. Il Quirinale non smentisce e non richiama alla discrezione. Il socio Diego Della Valle s’infuria: “Una cosa da Istituto Luce”.
Lo scudo kazako per Angelino Alfano 18 luglio 2013
“Dico che anche, ma non solo, per dei ministri è assai delicato e azzardato evocare responsabilità oggettive, ovvero consustanziali alla carica che si ricopre”.
Da una settimana l'Italia s'indigna per l’espulsione notturna, misteriosa e per tanti disumana, di Alma Shalabayeva, moglie di un dissidente kazako, e di una bambina di 7 anni, la figlia Alua. Alfano, ministro degli Interni, liquida uno scandalo internazionale con un pilatesco “non mi avevano informato”. Le notizie rincorrono anche la Farnesina e il ministro Emma Bonino. Così Napolitano interviene e, con un paio di frasi, salva Alfano, Bonino e Letta.
Cavaliere: grazia sì grazia no 1 agosto 2013
“Ritengo e auspico che possano ora aprirsi condizioni più favorevoli per l’esame, in Parlamento, di quei problemi relativi all'amministrazione della giustizia, già efficacemente prospettati nella relazione del gruppo di lavoro da me istituito il 30 marzo scorso”.
Non sono trascorse neanche due ore dal dispositivo in Cassazione letto dal giudice Esposito: Berlusconi, condannato a quattro anni per frode fiscale Mediaset. Il Quirinale detta una nota alle agenzie per sottolineare la reazione composta del Cavaliere e, come se fosse uno scambio, per evocare l’ennesima riforma, stavolta della giustizia. A Berlusconi non serve più a nulla. E così, il 13 agosto, il Colle illustra all’ex premier come chiedere la grazia. E lo rassicura: “A proposito della sentenza passata in giudicato, va innanzitutto ribadito che la normativa vigente esclude che Berlusconi debba espiare in carcere la pena detentiva irrogatagli e sancisce precise alternative, che possono essere modulate tenendo conto delle esigenze del caso concreto”. B. opterà per i servizi sociali.
Fuori tutti: amnistia e indulto 28 settembre 2013
Da Poggioreale: “Pongo al Parlamento un interrogativo: se esso ritenga di prendere in considerazione la necessità di un provvedimento di clemenza, di indulto e di amnistia”.
Le carceri italiane sono in condizioni pietose, ma anziché rivedere i termini di custodia cautelare e numerose leggi che rendono troppo affollati i penitenziari – come vorrebbe gran parte del Pd – Napolitano 'propone' il palliativo. Per un casuale gioco d'incastri, chissà se voluto, il provvedimento favorirebbe anche il condannato Berlusconi, imputato in altri processi. Il Parlamento non è entusiasta, protesta il Movimento Cinque Stelle e Napolitano li accusa: “Se ne fregano del Pa e s e”. Quando Renzi manifesta le sue perplessità, e si dice contrario, il presidente cerca di convincerlo con una telefonata.
La ministra dei Ligresti non si tocca 18 novembre 2013
“Il presidente della Repubblica ha apprezzato la chiarezza e il rigore delle decisioni e delle precisazioni venute dalla Procura di Torino”.
Mancano due giorni al voto a Montecitorio sulla mozione di sfiducia al ministro Anna Maria Cancellieri, un pezzo del Pd vuole le dimissioni. La Procura di Torino, nel trasferire gli atti ai magistrati competenti di Roma, non iscrive la Cancellieri nel registro degli indagati per una questione tecnica, e non di merito. Ma dal Colle arriva la segnalazione al governo: la faccenda è chiusa, la Cancellieri (in quota Quirinale) resta dov'è. Lo stesso Letta sarà costretto a immolarsi davanti all'assemblea del Pd, che si allinea.

il Fatto 21.11.13
Generazioni
Achab D’Alema e la balena Renzi
di Daniela Ranieri


Scrive Trotsky nell’autobiografia che la sua eliminazione non ebbe a un certo punto più niente a che fare con la strategia politica, ma obbediva a qualcosa di irrazionale, nello specifico la paranoia di Stalin. Ecco: la vicenda degli screzi tra D’Alema e Renzi, con D’Alema nevrastenico in posizione d’attacco e Renzi spavaldo e certo di vincere, non sembra più leggibile secondo categorie politiche.
E nemmeno antropologiche: sarebbe comodo tirare fuori Il ramo d’oro di Frazer, che individuava il prototipo della successione al potere nel rituale del giovane sfidante che uccideva il re del bosco, ormai inadatto al suo ruolo di guida e in preda alla decadenza fisica.
Il punto è che D’Alema non è da tempo più guida di niente, se non, come lui stesso dice, della sua fondazione. Tuttavia è stato sempre lui, più icona che padre nobile, il simbolo di un’eredità della sinistra una volta comunista e poi orizzonte di vaghi ideali da gestire e ammorbidire con realismo elastico al bando di ogni nostalgia. Un comunismo due camere e cucina insidiato da una parte dall’integrità inattuale dei foderi porta-occhiali di Bertinotti, che mentre gli operai si bevevano in massa il sogno barbaro della Lega andava da Vespa a citare Walter Benjamin; dall’altra dal filo-african-americanismo sentimental-pop ma anche rassegna-mattutina-dell’Azzurro-Scipioni di Veltroni, ragazzone da lasciar fare, ché prima o poi si sarebbe stancato di far passare come “una cosa di sinistra” la sua narrazione: mix di Vangeli-gadget, prefazioni di libri da Baglioni a Obama, inaugurazioni di festival culturali della porchetta, strette di mano a Berlusconi per la porcata della legge elettorale (di allora, e di adesso).
NON È UN CASO, forse, che l’eliminazione di Prodi, iniziata da quei due, sia stata portata a termine quest’anno stante l’ablativo assoluto di Massimo.
Yo no soy marinero, soy capitan, diceva ogni battuta, ogni “a parte”, ogni pausa studiatissima di D’Alema, in questi anni feroci. Ogni sua assenza dalla scena sfrigolava strategia; i corridoi del Copasir, quasi laurea ad honorem di un potere finalmente reso asettico, disinfettato dalle beghe interne e dalla volgarità dell’antiberlusconismo, dovevano ben tremare al suo passaggio sarcastico, come la ciurma del Pequod tremava al suono della gamba d’avorio del suo inquieto capitano sopra le assi del ponte. E adesso, Achab in disuso, si è ridotto (da sé, con un autolesionismo di cui quello di Monti è la versione in bianco e nero) a vittima della propria ossessione, a bastonare una marmaglia piena di malumori e intenta a fregarsi, che lo tratta come un fissato di una vendetta tutta sua. È che la Balena Bianca di D’Alema non si capisce più quale sia: i suoi nemici storici sono troppo inferiori da meritare la febbre della sua caccia. Gli avevamo affidato, a lui come a chi gli è succeduto, la nostra rotta: hai voglia a gridargli di virare un po’ più a sinistra. Sottovalutava i pirati, e noi pensavamo che fosse per albagia e savoir-faire, invece era per un calcolo imperscrutabile la cui freddezza era rabbia repressa. Si è fatto avanti Renzi, il bravo amministratore, poi capo rivolta e ideatore dell’ammutinamento, a promettere il rinnovo del menu di bordo e la presa del timone di un legno marcio e sfasciato, per imbarcare quanta più gente possibile e sterzare verso meno tristi Tropici, altro che lotte spezza-ossa col capodoglio nei gelidi mari del Sud.
D’Alema non vuole vincere: nella sua voluttà di scomparsa, vuole che Renzi perda. Ma quella nave che era la sinistra italiana, se mai è stata “veliero cannibale, che si ornava delle ossa cesellate dei suoi nemici”, oggi fa acqua da tutte le parti, non ha più viveri, vaga spettrale come la nave fantasma di Coleridge; tra noi che ci siamo saliti, chi a malincuore, chi in alternativa a un colpo di pistola, qualcuno si butta a mare, qualcuno toglie l’acqua col secchio, altri si danno al cannibalismo.
La Balena, che altro non è se non il potere, non può più tornare, e non per motivi anagrafici: ma perché è stato eroso, depredato fino all’ultimo grammo. Il popolo, carne e sangue della sinistra, non si fa più imbarcare, forse nemmeno dal giovanotto ambizioso, avendo compreso che è bistecca di popolo quella per la quale a bordo si litiga. Ci vorrebbe qualcuno che come Ismaele sussurrasse all’orecchio del fu capitano: “Moby Dick non ti cerca. Sei tu, tu, che insensato cerchi lei” e salvi lui con noi. E qualcuno di serio torni a bordo, cazzo.

l’Unità 21.11.13
Scontro sui dati dei congressi e a Salerno indaga la Procura
Inchiesta su tessere in bianco del 2012
Sentito il coordinatore di Cuperlo Mecacci che aveva parlato di brogli per l’enorme successo di Renzi
I cuperliani: senza quei voti Gianni sopra il 40%
di Vladimiro Frulletti


Che il Pd tenda al masochismo è noto, ma adesso c’è pure un’inchiesta della procura a dar manforte all’autolesionismo democratico. Il che non rappresenta un buon viatico per chi l’8 dicembre avesse voglia di andare in un gazebo a dire la propria sul futuro del Pd.
L’epicentro di questa nuova scossa sta a Salerno. Qui la procura della Repubblica ha aperto un fascicolo dopo aver trovato tessere del Pd in bianco datate 2012 e firmate (è una firma pre-stampata), come tutte le tessere, dall’allora segretario Pierluigi Bersani. Quelle tessere erano saltate fuori un mese fa durante una perquisizione legata ad un’altra inchiesta ed erano nella disponibilità di persone di cui la procura ha deciso di non rivelare l’identità.
Il punto è che in parallelo a questa indagine sono arrivate anche le denunce sui congressi di circoli che si erano svolti a Salerno. Congressi che hanno visto Renzi battere nettamente Cuperlo e che sia i sostenitori del deputato triestino che del terzo arrivato, Pippo Civati, hanno prima contestato (non firmando i verbali) in loco e su cui poi hanno inviato uno specifico esposto alla commissione per il congresso e ai garanti nazionali del Pd.
E ieri in procura per essere ascoltato su queste contestazioni dal pm Vincenzo Muntemurro è stato convocato Patrizio Mecacci, coordinatore nazionale della mozione Cuperlo. Del resto proprio Mecacci lunedì, mentre dai vertici nazionale del Pd venivano diffusi i dati quasi definitivi dei congressi fra gli iscritti, parlava esplicitamente di «brogli» e di «situazioni assolutamente fuori dal controllo democratico» segnalategli dai cordinatori della mozione Cuperlo di Salerno. Hanno calcolato (come raccontava ieri Repubblica) che in un circolo in 6 ore si sono avuti più di 1400 voti per Renzi: uno ogni 15 secondi.
Il segretario di federazione, Nicola Landolfi, si mostra tranquillo mentre spiega che “giochini” sulle tessere non ne sono stati fatti. Il deputato Enzo Amendola che guida il Pd campano invece si limita a esprimere «massima fiducia nella commissione di garanzia». Ma quelle accuse ieri Mecacci le ha confermate al magistrato facendo riferimento a fatti e circostanze apprese da esponenti salernitani del Pd che sostengono Cuperlo. E infatti il pm adesso vuole ascoltare anche il deputato Simone Valiante che rappresenta Cuperlo nel salernitano, nonché i membri della commissione di garanzia e lo stesso Bersani.
Un bel pasticcio che i cuperliani ovviamente imputano ai sostenitori di Renzi. E in primo luogo al sindaco Vincenzo De Luca, già sostenitore convinto di Bersani e oggi col sindaco «Ha voluto mettersi una medaglia per Renzi ma ha esagerato» dicono. Dove l’esagerazione sta nel numero di voti fatti avere a Salerno e provincia al sindaco di Firenze. In questa zona Renzi ha battuto Cuperlo per 9225 voti a 2611; 71% a 20%. Insomma troppo. Perplessità a cui De Luca ha risposto con un velenosissimo tweet in cui ricordava che nel congresso del 2009 a Salerno Bersani raggiunse il 71%. In verità la vittoria di Bersani nell’occasione fu ancora più grande: su poco più di 16mila votanti degli oltre 23mila iscritti, Bersani ottenne oltre 13mila voti pari all’82%. Il suo avversario (era Franceschini) si fermò al 15%.
I cuperliani chiedono che tutto il congresso di Salerno sia annullato. Questione di cui ieri notte (nel momento in cui andiamo in stampa la riunione è ancora in corso) hanno discusso la commissione per il congresso e i garanti. I renziani invece temono che i sostenitori di Cuperlo dopo aver perso fra gli iscritti e di fronte a una probabile sconfitta alle primarie dell’8 dicembre puntino a «avvelenare i pozzi». I sostenitori del sindaco fanno notare che anche togliendo tutti i voti di Salerno l’esito finale uscito dai congressi di circolo non cambierebbe sostanzialmente: «che cambia se Renzi invece di 8 punti di vantaggio ne ha 6 o 7 ?». Anche perché all’attenzione dei garanti i renziani avrebbero sollevato casi simili con la differenza che chi ne ha tratto giovamento è stato Cuperlo. In particolare sottolineano le situazioni di Enna dove il neo segretario Mirello Crisafulli è stato eletto con oltre il 90% dei voti e dove Cuperlo sfiora l’80% dei consensi, di Gela dove in un circolo Cuperlo ottiene 601 voti su 658 votanti, Vibo Valentia (congressi che risultano fatti senza essere stati convocati) e Frosinone.
Invece per i cuperliani annullando il voto di Salerno ci sarebbe una differenza di almeno 2 punti percentuali a favore di Cuperlo che alla fine risulterebbe sopra il 40% (oggi è al 38,4%). Una soglia simbolicamente importante, fanno notare, in vista del rush delle primarie.

Corriere 21.11.13
Tessere gonfiate, indaga l’Antimafia
E De Luca finisce nel mirino
Sentito dai pm un «cuperliano». Il Pd discute sull’annullamento
di Alessandro Trocino


ROMA — Non c’è pace a Salerno per il Pd. Non bastasse il ricorso interno dei democratici, lo scandalo delle tessere gonfiate al congresso democratico è finito sul tavolo della Procura antimafia di Salerno che indaga su centinaia di tessere di partito in bianco, trovate in mani evidentemente poco pulite. Nelle stesse ore arriva la notizia che il sindaco e sottosegretario alle Infrastrutture Vincenzo De Luca, gran portatore di voti tra gli iscritti per Matteo Renzi, è stato indagato con altri nella vicenda che riguarda il cantiere «Crescent». Tra le accuse, abuso d’ufficio, falso in atto pubblico e violazioni in materia urbanistica.
Il caso Salerno rischia di esplodere. In serata la Commissione congresso del Pd discute sul ricorso avanzato dal coordinatore del comitato Cuperlo Patrizio Mecacci. Un eventuale annullamento del congresso non rovescerebbe le sorti del voto tra gli iscritti, togliendo in sostanza soltanto un punto a Renzi, ma avrebbe un forte valore simbolico. «Vogliono sporcare il voto — denuncia un renziano —. È una manovra per delegittimare le primarie». Non la pensano così i sostenitori di Cuperlo.
In testa, Mecacci, che ieri è stato sentito per tre ore dai magistrati della procura antimafia di Salerno. L’indagine nasce dal ritrovamento nel corso di alcune perquisizioni nell’agro sarnese nocerino, avvenute un mese fa, nell’ambito di altre indagini, di un cospicuo numero di tessere originali del Pd in bianco con la firma del segretario nazionale Pier Luigi Bersani e relative al 2012. Tessere che non apparterrebbero al «pacchetto» consegnato dalla struttura nazionale per la campagna dello scorso anno. Il sostituto procuratore della Dda Vincenzo Montemurro ha letto del ricorso del Pd e ha convocato Mecacci. La prossima settimana sentirà anche Simone Valiante, deputato sul territorio, e avrebbe intenzione di andare a Roma e di sentire anche Bersani.
Mecacci racconta: «Il magistrato mi ha chiesto notizie sul funzionamento del tesseramento e del congresso. E dei casi che ho denunciato nel ricorso». Eccone un campione: «A Eboli, il presidente di seggio esce quando ci sono 100 voti e, dopo un’ora, al ritorno, ce ne sono centinaia per Renzi. Ad Atena Lucana ci sono stati più voti nel congresso del partito che al Pd alle Politiche. In un circolo di Salerno le operazioni di voto sono cominciate in assenza del presidente. In un altro caso ci sono risultati di un seggio, che però risulta inesistente».
Quanto basta, secondo Mecacci, per annullare il voto della provincia di Salerno, che ha dato a Renzi la percentuale più alta d’Italia. Lo sostiene anche Guglielmo Vaccaro, tra i deputati più vicini a Enrico Letta: «C’è un’articolazione del partito in cancrena, bisogna amputare subito. Bisogna espellere dalla comunità politica questa cricca. A cominciare da De Luca, che ormai è il Cito del Tirreno e tra tessere gonfiate, abusi e spese faraoniche spadroneggia da troppi anni». De Luca, però, sia pure da poco, appoggia Renzi. E i renziani lo difendono: «Spero che Renzi ci aiuti — dice Mecacci — È l’occasione giusta per dimostrare che è davvero un difensore della moralità, come dice. Altrimenti la predica è buona, ma il prete è sbagliato».
De Luca su Facebook decide di snobbare le polemiche sul congresso e si concentra sul caso Crescent. Oltre al sindaco sono indagate una trentina di persone tra assessori e funzionari, oltre ai responsabili delle imprese interessati alla costruzione del Crescent. Si tratta di un edificio a forma di mezzaluna, alto 30 metri, non lontano dalla spiaggia di Santa Teresa. Opera simbolo della trasformazione urbana, contestata dagli ambientalisti. De Luca replica con rabbia e ironia: «Sequestro di cantiere. Duecento operai senza lavoro. E un formidabile impulso agli investitori a lasciare l’Italia». E ancora: «Ogni opera pubblica, un procedimento giudiziario. Ogni variante urbanistica, un avviso di garanzia. Oggi arriva quello relativo al Crescent. Tranquilli!!! Siamo in perfetta media inglese».

Corriere 21.11.13
Vincenzo De Luca
Il viceministro-vicerè collezionista di voti. Anche dall’opposizione
di Fulvio Bufi


I consensi
Vincenzo De Luca, 64 anni, del Pd, è stato rieletto sindaco di Salerno nel 2011 con il 74% dei voti
È il quarto mandato per De Luca: già primo cittadino dal 1993 al 2001, aveva vinto anche alle amministrative del 2006
Al governo
De Luca è sottosegretario alle Infrastrutture e ai trasporti nell’esecutivo guidato da Letta. Deputato dal 2001 al 2008, è stato segretario provinciale del Pci prima e del Pds poi

SALERNO — Lui che le parole pesanti non ha mai evitato di lanciarle come pietre, ora deve preoccuparsi di scansarle. «Mi sa che stavolta è proprio alla fine, e qui la fine è buffa. Come non può che essere per un personaggio così: infausto e ridicolo». Se e quando Vincenzo De Luca leggerà il pensiero che gli manda il non amato compagno di partito Guglielmo Vaccaro, replicherà sicuramente a modo suo, e i suoi modi non sono mai gentili, figuriamoci in questo caso. Ma intanto l’altro insiste e la frase più dolce che gli consegna è che «il potere a quello gli ha dato alla testa ma ormai si è spinto al di là del bene e del male».
Certo, Vaccaro lo detesta perché il viceministro-eternamente sindaco è riuscito a impedirgli di candidarsi a Salerno, e lui, per entrare in Parlamento con la benedizione di Enrico Letta, si è dovuto spostare a Napoli. Ma è vero anche che cose così pesanti De Luca proprio non è abituato a sentirsele dire. E nemmeno più leggere. Perché a Salerno, almeno fino a pochissimo tempo fa, non c’era uno che provasse lontanamente a contraddirlo. Nemmeno quella che in consiglio dovrebbe essere l’opposizione. La sua blanda rivale alle ultime comunali, Anna Ferrazzano, del Pdl, lo appoggia quasi regolarmente: i provvedimenti del sindaco passano anche con i voti del centrodestra, non bastassero tutti quelli che già ha dalla sua parte ufficiale.
Gli unici che non lo temono — magistrati a parte — sono quei cittadini che si sono a lungo opposti alla realizzazione del Crescent e che alla fine hanno preso l’appello sprezzante che usava per loro il sindaco e ne hanno fatto il nome di un movimento: i «Figli delle chiancarelle».
Le chiancarelle sono le tavole di legno e nella zona del Crescent una volta c’erano laboratori di falegnameria che, secondo De Luca, chi lo contesta avrebbe voluto far riaprire. Da qui il soprannome. Che poi quelli ce l’avessero con lui anche per altre cose, tipo i duecentomila euro che sarebbe costato il logo della città commissionato al designer Massimo Vignelli, è un altro discorso, che il sindaco finge di ignorare. Continua ad accusarli di «finto ambientalismo», interpreta l’inchiesta a suo carico come l’ennesimo tentativo di fermarlo, e annuncia che appena gli avvocati gli daranno l’ok metterà in rete l’avviso di garanzia ricevuto, così «tutti potranno rendersi conto di cosa si tratta».
Perché De Luca, da perfetto uomo solo al comando, parla soltanto con i suoi elettori. E direttamente. La storia dei discorsi alla città che da anni fa ogni settimana dagli studi di una emittente televisiva salernitana, senza domande, senza contraddittorio, comincia molto prima che nascessero i social network. E continua ancora, anche se adesso i messaggi sono a getto continuo tramite Facebook e Twitter. Però una spiegazione al perché continui a trascinarsi nell’incompatibilità dei due incarichi di sindaco e viceministro alle Infrastrutture, ancora non l’ha data. Si è lamentato di non aver avuto deleghe, ha provato inutilmente ad ammorbidire l’ostilità di Letta tramite la mediazione di Bettini, ha ironizzato ai limiti dell’insulto con il suo ministro, Lupi («Somiglia alla figlia di Fantozzi»), ma intanto sta ancora lì. Pochissimo a Roma e moltissimo a Salerno, dove però alle prossime amministrative non potrà ricandidarsi a sindaco. Per farlo avrebbe dovuto già optare per l’incarico romano, e invece lui ha lasciato scadere i termini. Ma una scelta dovrà farla comunque, ed entro la fine di novembre. Altrimenti sarà fuorilegge.
Non che finora si sia preoccupato dell’ambiguità in cui ha scelto di restare, ma ormai non può più continuare a trascinarla . Difficile immaginare, però, che lasci la sua poltrona di sindaco. Proprio adesso che Salerno vive i suoi giorni di maggior gloria con le «Luci d’artista», quelle sì una cosa di cui De Luca può giustamente vantarsi. E anche della metropolitana appena inaugurata. E poi lui solo a Salerno può trovare argomenti solidi per riprovare a scalare la Regione, dopo aver fallito l’obiettivo nel 2010. Anche la scelta di diventare renziano senza che nemmeno Renzi glielo chiedesse può essere spiegata come il tentativo di farsi trovare dalla parte secondo lui vincente del Pd quando si tratterà di scegliere il candidato governatore della Campania. Perché la sconfitta contro Stefano Caldoro è per De Luca l’unica macchia di un ventennio di successi. E lui il suo ventennio (abbondante) lo vuole tutto vincente.

Repubblica 21.11.13
Salerno, De Luca indagato per abuso d’ufficio
Il viceministro: “Ogni opera un avviso”. Inchiesta dell’antimafia sulle tessere Pd
di Conchita Sannino


SALERNO — È il suo autunno nero, anche se il sindaco-sceriffo e viceministro alle Infrastrutture, ha già attivato la rituale difesa a colpi di sarcasmo e battute da showman. Ma una doppia tenaglia, politica e giudiziaria, stringe il leader salernitano Pd Vincenzo De Luca. Da un lato le accuse che i pm di Salerno gli notificano ieri per gravi violazioni relative alla costruzione del mega complesso Crescent: il “cantiere della grandeur” come lo chiamano i suoi avversari politici, un fronte edilizio di 300 metri affacciato sulla spiaggia di Santa Teresa. Dall’altro, la guerra delle primarie e del clamoroso exploit di Renzi nell’area controllata dal dominus De Luca, che sfocia in una distinta indagine. Sarà un pm antimafia, nelle prossime ore, a bussare alla porta del Pd nazionale: sia per acquisire documentazione sulle consultazioni, sia per ascoltare come testi, tra gli altri, anche l’ex segretario Bersani. Ma il fascicolo, per ora, non conta indagati né reati.
Il mercoledì nero comincia con una pioggia di avvisi di garanzia,oltre 30, firmati dai pm Rocco Alfano e Guglielmo Valenti: per il primo cittadino di Salerno, per sette assessori, per mezzo Comune, imprenditori. L’inchiesta riguarda il “Crescent”, complesso edilizio in costruzione alto 30 metri, con galleria di negozi, garage, servizi e 120 appartamenti che De Luca ha voluto con una piazza proprio sul mare, ingaggiando la lunga battaglia con gli ambientalisti. Le accuse: abuso d’ufficio, violazioni in materia urbanistica, falso ideologico, falso in atto pubblico. Tra gliindagati, anche tecnici della Soprintendenza, funzionari del demanio, l’amministratore della “Crescent”, Eugenio Rainone. Stando all’accusa, «gli ammini-stratori e i funzionari pubblici»avrebbero «consapevolmente e volontariamente» violato le procedure «sia per accelerare i tempi di realizzazione, sia per contenere i costi per gli appaltatori». Cantiere su cui pesavano 24 ricorsi, tra cui quelli di Italia Nostra. Eppure, De Luca, che ieri sera celebra in un convegno al Comune l’impegno della Comunità di Sant’Egidio, circondato da autorità e cardinale, reagisce a muso duro: «La sottocultura della mummificazione del territorio, il finto ambientalismo, la palude burocratica sono sempre di più un grande problema per lo sviluppo dell’Italia. Ogni opera pubblica un avviso di garanzia».
Ma la giornata nera ha un secondo tempo. Il pm antimafia Vincenzo Montemurro ascolta per tre ore Patrizio Mecacci, il coordinatore del comitato pro Cuperlo che aveva denunciato “stranezze” sul voto “bulgaro” per Renzi: che in provincia vola al 71,4 e addirittura a Salerno esplode al 97,1. Perfino morti che votavano, iscritti che non esistevano, stando a sospetti. Una consultazione, per Mecacci, «fuori da ogni controllo democratico». Commenta un rivale storico di De Luca, il deputato lettiano Guglielmo Vaccaro: «Ma il 97 per cento non si commenta: non è broglio, è uno scherzo, no?». L’inchiesta nasce comunque da un altro filone che un mese fa portò a perquisizioni nell’agro nocerino- sarnese. In ambienti dai legami sospetti con il cartello criminale dei Fezza-D’Auria-Petrosino, furono trovati pacchetti di tessere originali riferite al 2012 e firmate dall’ex segretario Bersani. Un’anomalia. Che spinge i pm a incrociare le due distinte stagioni del boom.


Corriere 21.11.13
Il sindaco esclude un patto per le riforme con Palazzo Chigi
L’obiettivo è la conquista del partito attraverso l’assemblea e la direzione
di Monica Guerzoni

ROMA — «Matteo, ti hanno spiegato che non c’è l’acqua nella piscina? Non vorrei che ti facessi male...». La battuta al veleno con cui Massimo D’Alema ha virtualmente immortalato Renzi, fermo sul «trampolino» della segreteria del Pd in attesa di potersi lanciare su Palazzo Chigi, rivela quanto alta sia l’onda dell’antipatia in quella parte del Pd che tifa per Enrico Letta. Bastava ieri farsi un giro nel Transatlantico di Montecitorio dopo lo scampato pericolo sul Guardasigilli e assistere, dal vivo, all’esultanza di un lettiano di ferro: «Renzi avrà pure vinto nei circoli, ma Enrico è il leader del Pd». Il voto su Annamaria Cancellieri è stata la prima battaglia parlamentare tra i duellanti, destinati a contendersi la guida del Pd e la premiership futura. Prova ne sia il fatto che a Palazzo Vecchio l’entourage renziano smentisce l’esistenza di un «patto per le riforme» e i lettiani, a loro volta, dicono di non fidarsi: «Quando mai Matteo ha rispettato un’intesa?».
Renzi ancora una volta conferma lealtà e rivendica di non aver alimentato tensioni, ma al tempo stesso sfida il premier, dice che il suo Pd con il 70 per cento è «l’azionista forte» della maggioranza e che quando sarà segretario, incoronato da «qualche milione» di elettori, imporrà una «agenda nuova». La sua. Che sarà molto diversa da quella di Alfano. Un avvertimento energico, che rivela come l’ansia di mettere fine alle larghe intese non sia evaporata. Ermete Realacci lo conferma senza filtri: «Non si può escludere che Matteo darà una botta al governo ogni volta che se ne presenterà l’occasione». Volete votare a febbraio? «Questo scenario Renzi non lo ha ancora chiaro». La partita è iniziata e nel Pd prevedono che sarà durissima, perché se Renzi è in forte sintonia con la base, il premier ha dalla sua Quirinale e Parlamento. «I gruppi parlamentari — è la sua assicurazione sulla vita — li controlliamo noi».
Il lettiano Marco Meloni prova a contenere l’entusiasmo per l’esito del voto sul Guardasigilli: «Non parlerei di trionfo, ma era la partita più difficile...». Paola De Micheli, vicepresidente vicaria del gruppo Pd, prevede che «Renzi intensificherà il bombardamento contro il governo» e anche per questo, in filo diretto con Letta, sta cercando nei meandri della legge di Stabilità «qualche soldino» per riconciliare il governo con gli elettori. Quel che tranquillizza i lettiani è che Renzi ha poco tempo, perché la finestra elettorale a gennaio si chiuderà e a quel punto il premier tirerà dritto fino alla fine del prossimo anno. I parlamentari del segretario in pectore rimandano il duello al 9 dicembre, quando si saprà «come» ha vinto Renzi. I lettiani sperano in un successo risicato e fissano l’asticella della vittoria dimezzata in «un milione e mezzo di votanti con meno del 60 per cento di consensi», ricordando come Matteo sia «il primo segretario che non ha la maggioranza assoluta nei circoli». Per contro l’obiettivo di Renzi è arrivare al 65%, perché con i due terzi dell’assemblea nazionale può dettare legge sulle liste con sui si eleggono i membri della direzione.
Il problema, per il premier, è questo. Se il sindaco vincesse le primarie alla grande avrebbe la forza di terremotare l’esecutivo già dalla legge di Stabilità e dalla riforma del Porcellum e, magari, anche la tentazione di chiedere un rimpasto di governo a suo favore. «Impossibile!», assicurano i lettiani. E il renziano Lorenzo Guerini dice che il sindaco non vuole rimpasti, vuole «il passo indietro della Cancellieri». Il che suona più una conferma, che una smentita. E se Beppe Fioroni ritiene che il premier abbia «sconfitto due a zero il fronte che vuole votare a febbraio col Porcellum», il renziano Ernesto Carbone è convinto che la partita non sia affatto chiusa: «Matteo farà una proposta sulla legge elettorale e se Letta ha paura di ballare prenda lui l’iniziativa».

Corriere 21.11.13
Cuperlo critica Civati replica e parte l’offesa

«L’intervento di Cuperlo ha sancito che il Pd, che prima non aveva una posizione, ora ne ha una sbagliata». Lo scrive sul suo blog Pippo Civati a proposito dell’assemblea sul caso Cancellieri. Il candidato alle primarie denuncia le «parole di disprezzo» verso la mozione di sfiducia al ministro che aveva proposto al gruppo.
«Il Pd si merita un altro gruppo dirigente. Persone che non facciano gli str... con le minoranze, non facciano i prepotenti con chi non la pensa come loro». Controbatte Gianni Cuperlo: «Non ho avuto alcuna espressione di disprezzo per nessuno, tanto meno verso Civati. Sono colpito e amareggiato dalla violenza verbale e culturale con cui si reagisce a una critica politica».
Repubblica 21.11.13
Le donne di LeG: speravamo nella Cancellieri, ci ha deluso
Base dem in rivolta sul web “Adesso non vi votiamo più”
di Carmine Saviano


ROMA — «Rappresentate noi o voi stessi?». La delusione dei militanti democratici contro i vertici del partito per il caso Cancellieri, annunciata da discussioni in rete e nei circoli aperti per il congresso, esplode nel pomeriggio di ieri. Non appena la Camera boccia la mozione di sfiducia contro il ministro della Giustizia, qualcosa di simile a un «tradimento » si fa largo nell’animo di molti sostenitori del Pd. Una critica rivolta a Renzi, Cuperlo, Civati, Epifani e via di seguito. Si chiedeva una posizione netta: dimissioni per le telefonate riguardanti il caso Giulia Ligresti. Così non è stato.
Il rischio ora è quello della disaffezione. Un problema tanto più grande quanto più si avvicinano le primarie. Da quiall’8 dicembre la strada è breve e il tempo per recuperare è poco. Basta scorrere alcuni post su Twitter. Semplici elettori. Come Giorgia Malacandra, che scrive: «Ci avete stufato tutti. Le solite figuracce all’italiana ». Tra le decine di «Non vi voto più», la riflessione di Elle: «Da elettrice del Pd sono sdegnata. La Cancellieri andava sfiduciata, punto». E per tutto il pomeriggio l’indignazione cresce, a nulla servono i distinguo dei leader. Ancora su Twitter, Cesare Brogi: «Caro Pd, ti ho votato da sempre ma non lo farò più. Neanche alle primarie ».
Poi i democratici devono anche far fronte alle critiche dei Cinque Stelle. È un assalto online. Fatto di accuse di «collusione », di tutte le declinazioni possibili della retorica sul «Pd meno L». In ordine: «Mar-ci», «Ridicoli», «Tutti uguali» e «Perdenti». Luigi Frigoli: «Votando per il no alla sfiducia avete fatto la stessa figura grama del Pdl con la nipote di Mubarak ». Non manca chi ironizza: «Dai, non esageriamo. Magari, tra le regole del loro statuto, hanno anche l’autodistru-zione».
Non manca il rimpianto. Tanti democratici ricordano il passo indietro fatto a giugno da Josefa Idem. Critiche al Pd, certo. Ma anche alla Cancellieri. Al suo ostinato «non lascio». Le donne di Libertà e Giustizia, l’associazione presieduta da Sandra Bonsanti e Gustavo Zagrebelsky, inviano una lettera aperta al Guardasigilli: «La sua nomina ci era sembrata una cosa positiva. Ma le sue telefonate, la sua storica amicizia con una famiglia che ha turlupinato migliaia di investitori, non si conciliano con la sua carica ». Ancora: «Speravamo che la sua sensibilità di donna l’avrebbe indotta a comportamenti più trasparenti. Così non è stato e, anche se rimarrà al suo posto, non avrà né la nostra stima né la nostra fiducia».

Corriere 21.11.13
Doria e l’«assalto»: l’odio della gente mi fa stare male
«Paghiamo tutti uno scarto brusco tra la corsa al potere e la sua gestione»
intervista di Marco Imarisio


GENOVA — Mancavano due giorni alle primarie. In quell’inizio di febbraio del 2012 sulla città tirava un vento gelido, che qui chiamano tramontana nera.
Marco Doria, docente di economia, ultimo erede di famiglia che più nobile non si può, era uscito di corsa dalla lezione. Aveva raggiunto i volontari che facevano campagna per lui in un mercato rionale. «Si avvicina un signore dall’aria per bene. Prende il volantino con sopra la mia faccia. La guarda con attenzione. Io aspetto con fiducia la sua reazione, mi preparo a sorridere. “Uno dei soliti politici di merda”, dice il signore. Accartoccia, getta per terra, e si allontana».
Il futuro sindaco di Genova raccolse quel volantino. È ancora in un cassetto della sua scrivania. «La scritta sotto alla faccia era uno slogan sulla mia provenienza dalla società civile. In quel momento realizzai che io, un non professionista della politica, sarei ben presto stato assimilato a una categoria alla quale ancora sento di non appartenere».
Sono giorni difficili, per Genova e per il suo sindaco, che martedì pomeriggio è stato strattonato e insultato durante il consiglio comunale, costretto a uscire scortato dalla «sua» aula. Lo sciopero selvaggio dei dipendenti dell’Azienda municipale dei trasporti ferma la città. La loro protesta contro l’ipotesi della privatizzazione fa emergere le contraddizioni di una giunta nata dalla vittoria di un fronte molto, forse troppo eterogeneo, dove speranze e convinzioni personali spesso devono cedere il passo alla brutale realtà. Alla fine il sindaco ha deciso che i privati entreranno nel trasporto locale, ma ha rinviato la scelta a dopo il 2014.
Marco Doria ha sempre confidato su un tratto austero che gli deriva dai cromosomi, creandosi fama di anti-personaggio, nostalgico del vecchio Pci, costretto solo dagli incarichi istituzionali a comprare il primo telefonino della sua vita, alla tenera età di 56 anni. Non è bastato. «Da quel lontano giorno delle primarie ho capito che a molta gente non interessa conoscere la persona, a valutarla da quel che fa. Il sindaco, per loro, diventa soltanto il catalizzatore della rabbia, il rappresentante più visibile di una categoria di nemici».
Se l’aspettava così dura?
«Ci sono cose che non avevo previsto. L’aggravarsi della crisi ha complicato tutto. Quando sono stato eletto, l’allora premier Mario Monti parlava di luce in fondo al tunnel. Forse si riferiva a un treno in arrivo. C’è in giro una disperazione cupa, aggressiva».
La crisi non è anche un alibi che maschera difficoltà politiche?
«Le condizioni della finanza locale sono critiche. Non abbiamo soldi. Questo balletto sull’Imu è indecente. Ancora non sappiamo su quante risorse possiamo contare per il 2013. E siamo alla fine di novembre».
La sorpresa più grande?
«Non potevo immaginare quanto la figura del sindaco sia un catalizzatore di aspettative. O meglio, non conoscevo l’intensità di tale sentimento, che oscilla facilmente dall’amore all’odio. È una altalena che mette a dura prova».
Il partito dei sindaci non se la passa bene.
«Paghiamo tutti uno scarto brusco tra la corsa al potere e la sua gestione. Non cerco alibi, ma insomma, di questi tempi la realtà è davvero brutale».
Non è che avete creato qualche illusione di troppo?
«In campagna elettorale si suscitano aspettative, questo è un dato di fatto. Ma io sono stato molto prudente, il più possibile realistico».
Qualche suo collega è spesso accusato di populismo.
«Lo detesto, il populismo. Penso che in un momento storico come questo sia pericoloso. Comunque tra noi sindaci esistono molte differenze».
La più evidente?
«Io e Giuliano Pisapia abbiamo vinto da indipendenti le primarie del centrosinistra, come Fassino, all’interno del Pd. Federico Pizzarotti, Leoluca Orlando e Luigi De Magistris hanno seguito un altro percorso, spesso in opposizione al candidato del centrosinistra. In fondo condividevamo solo una certa spinta al cambiamento».
Mai stato tentato dalla lista dei sindaci?
«Non ci ho mai creduto. Non mi interessa. Un progetto estraneo alla mia cultura».
Come giudica il recente assedio al consiglio comunale?
«Hanno attaccato una istituzione democratica. Pura prevaricazione. Una prepotenza inammissibile. Il mio è un giudizio politico».
Dica la verità: quanto le fa orrore l’idea di privatizzare un’azienda pubblica?
«Non ho un approccio ideologico di demonizzazione del privato. Siamo reduci da anni dove tutto il pubblico sembrava inefficiente, da ridurre ai minimi termini. Adesso c’è una inversione di tendenza. Io cerco di superare questa contrapposizione astratta. Decido un caso alla volta».
Rimandare la decisione sui trasporti al 2014 non è darla vinta a chi ha fatto la voce grossa?
«Non esiste un veto a priori. Non deciderò mai in base all’ideologia e alle prepotenze altrui».
Si chiede mai chi glielo ha fatto fare?
«Ogni tanto. La mia vita personale è decisamente peggiorata. Volevo essere utile, per spirito di servizio. Non avevo messo nel conto questa amarezza, questa rabbia che non fa distinzioni, che non tiene conto dei comportamenti delle persone. Ma io ci credo ancora. Sono obbligato a crederci, per il ruolo che rivesto».

Repubblica 21.11.13
L’amaca
di Michele Serra


La modesta caratura culturale di parecchi eletti delle Cinque Stelle può essere giudicata con indulgenza (sono attenuanti la giovane età e il reclutamento “dal basso”) fino a che non diventa oltraggiosa. È il caso della richiesta, inoltrata alla Commissione cultura della Camera, di cancellare l'attributo “socialista” per Giacomo Matteotti e Giuseppe Di Vagno, entrambi assassinati dai fascisti; rimpiazzando la parola “socialismo” con la ridicola perifrasi “cultura sociale, economica, ambientale”.
Immagino che l'incauto ideatore di questa scemenza censoria creda che “socialista” voglia dire “ladro”, come nelle battute di Grillo, e niente sappia della potenza liberatoria che quella parola e quel movimento hanno avuto per generazioni di povera gente. Per saperlo, del resto, bisogna avere letto un paio di libri e avere curiosità del passato, magari sollevando la testa dalla ininterrotta ciancia internautica che alla lunga inebetisce e inganna. Sarebbe molto bello che il M5S, in qualcuna delle sue misteriose forme di comunicazione verso il resto del mondo, chiedesse scusa per una così imbarazzante sortita. Distinguendosi così da un Razzi qualunque.

Corriere 21.11.13
Scontri con i No Tav al vertice Italia-Francia
Incidenti a Roma, centro bloccato. Assaltata la sede del Pd. Diversi feriti
di Rinaldo Frignani


ROMA — Volevano visibilità e l’hanno ottenuta. Pretendevano di muoversi in corteo e, in parte, sono stati accontentati. Almeno per raggiungere la metropolitana al Circo Massimo. Quattro pullman di No Tav e circa 3 mila attivisti dei centri sociali e dei movimenti di lotta per la casa hanno paralizzato il centro ieri pomeriggio, scontrandosi con la polizia in via dei Giubbonari per rompere l’accerchiamento delle forze dell’ordine a Campo de’ Fiori. Lo scenario dell’ennesima giornata di passione per la Capitale: traffico impazzito, serrata di negozi, un intero quartiere blindato per l’incontro fra il premier Enrico Letta e il presidente francese François Hollande a Villa Madama, resa inviolabile da circa 1.500 uomini delle forze dell’ordine.
Un imponente servizio di sicurezza utilizzato anche per contenere la protesta No Tav e antagonista che avrebbe dovuto puntare all’ambasciata francese di piazza Farnese e che, alla fine, oltre che sui celerini, si è invece sfogata sulle sedi del Pd: tentato assalto con bombe carta di un’ottantina di incappucciati all’ufficio centrale in via Sant’Andrea delle Fratte, respinto con le cariche, così come il blitz al Cipe (il Comitato interministeriale per la programmazione economica) in via della Mercede. Il primo atto di quattro ore ad alta tensione culminate nel duro confronto fra polizia e antagonisti in via dei Giubbonari dove alcuni giovani — «Avevano i fazzoletti No Tav», raccontano i testimoni — hanno provato a sfondare il portone della storica sezione Pci «Regola Campitelli», ora Pd Centro storico. «Erano bestie mosse da un odio bestiale — racconta la presidente Giulia Urso — ho tentato di parlare con quei ragazzi, capire le loro motivazioni, ma non mi stavano a sentire: per loro ero il Pd e mi odiavano per questo. Ci urlavano fascisti, pezzi di m.... — aggiunge —, hanno preso a pugni un militante. Volevano spaccare le finestre ma c’erano le grate e non ci sono riusciti. Mai successa una cosa del genere».
Le targhe all’ingresso — come il portone — sono state imbrattate con scritte «No Tav» e «Pci bastardi». Insulti simili a quelli lanciati, con i petardi, alla sede centrale. «Tutti possono criticare il Pd, ma quello che è successo non è tollerabile, un comportamento fascista», accusa Gianni Cuperlo, uno degli sfidanti alle primarie. E anche il segretario Guglielmo Epifani manifesta «riprovazione per azioni di estremisti che non ci intimidiscono». Immediata la replica di Paolo Di Vetta, uno dei leader romani della protesta: «Cuperlo pensi a Renzi: può giocare come vuole sul termine fascista, sta al governo e si deve prendere le responsabilità».
Nei tafferugli sei poliziotti sono rimasti feriti — fra i più gravi uno è stato colpito da un sampietrino, un altro da una fioriera —, contuso anche un cameraman. «Gravissimo che in prima fila i manifestanti abbiano messo persone disabili e donne incinta», accusano dalla questura dove la Digos esamina i video degli scontri per identificare i responsabili delle violenze. Dopo un’ora di trattativa il sit-in si è trasformato in un corteo scortato fino alla metropolitana. Al passaggio davanti al Campidoglio nuovi insulti — al sindaco Ignazio Marino —, poi cori e scritte sui muri. Infine il silenzio e la rabbia dei romani ancora incolonnati nel traffico. Con un elicottero a ronzare sulle loro teste.

Corriere 21.11.13
Piccoli gruppi sparpagliati
Così studenti e senza casa paralizzano la capitale
Polizia impegnata su troppi fronti
di Fiorenza Sarzanini

ROMA — Ottengono la massima visibilità con il minimo sforzo. Perché applicano una «strategia di distrazione» che costringe i responsabili della sicurezza ad impiegare un numero elevato di forze rispetto all’evento e soprattutto a dispiegarle di fronte a tutte le sedi istituzionali e nelle aree dove ci sono palazzi e simboli che potrebbero diventare bersaglio della protesta. Sono ormai in piena sintonia tra loro e appaiono perfettamente organizzati i gruppi che da settimane pianificano le manifestazioni a Roma e riescono a paralizzare la città. Nulla di eclatante per quanto riguarda gli atti violenti, ma un coordinamento che blocca quasi totalmente la circolazione e costringe poliziotti e carabinieri a continui spostamenti per cercare di evitare che la situazione degeneri. Proprio come è successo ieri.
Movimenti per il diritto alla casa, studenti, esponenti dei centri sociali, No Tav: l’appuntamento era per il «sit-in» di protesta a piazza Farnese per l’incontro bilaterale Italia-Francia in programma a Villa Madama che aveva come primo punto all’ordine del giorno proprio il progetto Alta Velocità. Non più di 2.000 persone, molti stranieri, decisi a far sentire in maniera pacifica le proprie ragioni.
Le intenzioni dei più agguerriti, intercettate dagli analisti alla vigilia della manifestazione, erano però quelle di «assaltare» uno dei luoghi del potere, possibilmente riuscendo a sfondare l’ingresso. Non a caso la questura ha dato disposizioni affinché fosse bloccata ogni via di accesso all’ambasciata francese e chiuse le strade che portano al Senato, di fatto blindando gran parte dell’area intorno a Campo de’ Fiori.
Dopo i primi tafferugli e il lancio di petardi che ha provocato la carica della polizia, è apparso evidente che altri potevano essere i rischi. Dunque si è deciso di potenziare ulteriormente la vigilanza già predisposta dei luoghi dove si riteneva potessero spostarsi i componenti dei gruppetti più determinati. Dunque non soltanto le sedi dei partiti e del Parlamento, ma anche i ministeri e in particolare quello degli Esteri dove qualcuno minacciava di voler arrivare e «sfondare». E poi le sedi della Confindustria, di Trenitalia, di tutte le istituzioni pubbliche e private che già in passato sono stati attaccati. Perché questa è la strategia di chi manifesta il proprio dissenso: staccarsi dal blocco principale e muoversi in pochi — 10, massimo 20 persone — in modo da sfuggire alla vigilanza e poter entrare in azione. Obbligando le forze dell’ordine a una continua rincorsa.
Il risultato è che in città — divisi sui vari turni — sono stati impiegati circa 3.000 uomini e in piazza ne sono stati schierati almeno 1.500 per fronteggiare non più di 5.000 manifestanti. E per tenere a bada appena un centinaio di violenti, giovani romani o arrivati da altre città che sono un’esigua minoranza che però riesce a tenere in scacco gli apparati.
Una situazione paradossale che provoca la reazione dura dei sindacati di polizia. Anche perché l’attività di prevenzione e di vigilanza si rende necessaria rispetto alla possibilità che la crisi e il malcontento espresso da chi protesta possano far salire il livello di tensione e di aggressione. Però tenendo conto, come sottolinea ormai da giorni il segretario del Sap Nicola Tanzi «che le risorse per gli agenti sono ormai finite e anche noi siamo stati costretti a scendere in piazza per protestare e per avvisare il governo e i cittadini che il sistema è prossimo al collasso, con pesantissime ed irreversibili ricadute sul mantenimento dei livelli minimi di efficienza e di erogazione dei servizi».
Il pericolo di un salto di qualità viene sottolineato dal segretario dell’Associazione funzionari Enzo Letizia secondo il quale «colpire un poliziotto con una fioriera usata come “ariete” significa non avere nessun rispetto per la vita altrui e dunque bisogna dotare le forze di polizia di strumenti tecnologici, ma soprattutto normativi come l’introduzione dell’arresto differito contro chi compie atti violenti in manifestazioni pubbliche». Esattamente quanto già accade negli stadi con la possibilità di procedere con la cattura di chi viene identificato attraverso fotografie e immagini entro 48 ore dalla manifestazione come se fosse stato colto in flagranza di reato. 

La Stampa 21.11.13
Maglia nera nei 27
Europa, undici bocciature in un giorno
L’Italia campione di indisciplina
Dalla scuola (soprattutto) ai medicinali, una lunga serie di infrazioni: siamo i peggiori
E intanto si aprono altre sei procedure, come quella della gestione dei rifiuti radioattivi
di Marco Zatterin


Un record di cui non si può andare fieri. L’Italia, in appena 24 ore, è stata destinataria di ben 11 infrazioni da parte della Commissione Ue: le procedure riguardano scuola, sanità e ambiente. Tra i rilievi di Bruxelles c’è anche un ricorso alla Corte di Giustizia per il mancato recupero di aiuti di Stato illegali concessi negli Anni 90.
Ne abbiamo mancate 11, questa volta, noi della Repubblica Italiana. Per esempio, non trattiamo i precari della scuola pubblica come gli assunti a tempo pieno, ma siamo anche in ritardo nell’adeguarci alle norme contro la tratta degli esseri umani. I nostri medicinali sono privi della tutela dal rischio falsificazione e i passeggeri che viaggiano in treno non possono contare su un’autorità che tuteli i loro diritti, cosa che invece l’Italia ha promesso a Bruxelles. Per questo la Commissione ci richiama, ci minaccia e in un caso ci manda alla Corte di Giustizia. È successo 11 volte, ieri, in un giorno solo. Roba da primato anche nella storia infinita di un Paese da sempre maglia nera nel recepire il diritto Ue.
I numeri sono contro di noi. L’ultimo rapporto sull’applicazione del diritto comunitarie pone l’Italia in testa alla classifica delle infrazioni, erano 99 alla fine del 2012, comprese 17 procedure da ritardato recepimento. Per fare il confronto, la Francia ha 63 contenziosi aperti, la Germania 61, l’Olanda 41. La differenza è palese, come pure si evince dalle denunce dei cittadini, altra graduatoria su cui il sistema italico svetta: ne abbiamo incassate 438; la Spagna, seconda, è quota 309.
Sono statistiche pessime, eppure stiamo facendo meglio di un tempo. In febbraio il quadro di valutazione del mercato interno segnalava come «degna di particolare nota» la prestazione dell’Italia, capace di ridurre il deficit di recepimento delle normative europee dal 2,4 allo 0,8% in sei mesi. Un passo avanti che impone ulteriori sforzi. «È una priorità accelerare, perché non è sopportabile avere record negativi di infrazioni», ha ribadito a più riprese il premier Enrico Letta. L’impegno è di arrivare al semestre di presidenza italiano di Ue, nel giugno prossimo, con un recupero, netto e consolante.
Sinora ha avuto la meglio la lentezza delle Camere e una qualche disattenzione ad ogni livello per le questioni comunitarie. Il meccanismo della legge omnibus comunitaria ha dimostrato parecchie carenze e solo di recente si è cominciato ad accelerare. Ciò non toglie che il mostro mostri la sua faccia peggiore ogni mese, quando la Commissione apre il dossier infrazioni. Ora ci ritroviamo gli undici «pareri motivati», seconda fase della procedura europea, che guarda caso non vengono da soli. Ieri ne sono state aperte altre sei, con lettere di messa in mora, in teoria confidenziali. Fra queste, secondo quanto risulta a La Stampa, ce n’è anche una per l’inadeguata gestione delle scorie radioattive sul territorio nazionale. Il fantasma di Caorso, per intenderci.
Il resto è una bestiario normativo. Rischia di costarci salato il rinvio alla Corte di giustizia Ue per la mancata esecuzione di una precedente sentenza con cui la Corte confermava che certi sgravi degli oneri sociali concessi alle imprese dei territori di Venezia e Chioggia costituivano un aiuto di Stato illegale e, pertanto, dovevano essere recuperati presso i beneficiari.
È una questione che risale agli Anni Novanta, soldi sociali erogati a chi non ne aveva diritto. Bruxelles propone una
mora giornaliera di 24.578 euro per ogni giorno trascorso dalla sentenza della Corte e la piena conformità da parte dello Stato o la seconda sentenza della Corte. Nonché il pagamento d’una penalità decrescente di 187.264 euro per ogni giorno trascorso dalla sentenza fino all’attuazione.
C’è poi che entro gennaio dovevamo recepire le norme per proteggere i farmaci. Che entro marzo erano da attuare quelle in materia di stoccaggio del mercurio metallico considerato rifiuto. Che abbiamo due mesi per rendere uguale part-time e assunti a tempo indeterminato nella Pubblica istruzione. Che è aperta anche la norma sulla prevenzione delle ferite da taglio o da punta nel settore ospedaliero e sanitario.
E via dicendo, così non è forse un caso se stamane il Consiglio dei ministri deve esaminare otto norme di attuazione comunitaria. La tratta degli umani è compresa. Sarebbe una di meno. Un passo avanti, importante non solo in nome dell’Europa.

La Stampa 21.11.13
Quanto costa non essere credibili
di Vladimiro Zagrebelsky


Ciò che colpisce, accanto al numero degli inadempimenti dell’Italia agli obblighi assunti nei confronti dell’Unione europea, è la grande varietà dei campi in cui essi si verificano. Ciò significa che il problema che affligge il nostro Paese è generalizzato e non riguarda questo o quello specifico settore in sofferenza, questo o quel ministero competente.
È quindi lecito domandarsi se non vi sia un problema di fondo nel rapporto tra l’Italia e l’Unione, una certa noncuranza, una certa svogliatezza come atteggiamento generale. Se la lettura delle informazioni fornite ieri dalla Commissione Europea giustificasse una simile conclusione, il commento dovrebbe essere molto amaro. E in effetti l’impressione che se ne ricava è sconsolante. Sconsolante ma non sorprendente.
Anche in altri campi risulta una certa facilità dell’Italia nel sottoscrivere impegni internazionali, salvo poi penare ad adempiere. C’è da chiedersi se, come fanno altri governi, quello italiano segua adeguatamente e preventivamente i lavori preparatori delle varie norme europee. E’ nota la difficoltà in cui, per la mancanza di preventive direttive politiche, si trovano spesso i funzionari italiani che si recano a Bruxelles o a Strasburgo per seguire la preparazione di ciò che diverrà una normativa dell’Unione o una convenzione. In quell’attività, a me è capitato con una certa frequenza, in anni andati, di sentire il collega rappresentante francese o britannico chiedere un rinvio, nel corso della discussione, per l’indiscutibile ragione di «non avere direttive sul punto» e di attendersi di riceverle. Ma una volta ottenuta la direttiva politica ed espresso il voto conseguente, il governo di quel funzionario avrebbe senza discussione o tentennamenti data esecuzione a quanto convenuto, poiché l’accordoerastatoraggiuntodopoapprofonditavalutazionedell’interesse nazionale e della pratica possibilità di adempiere gli obblighi assunti.
Vi sono poi esempi negativi dell’atteggiamento dell’Italia anche fuori dell’ambito dell’Unione Europea. Fin dal 1988 l’Italia ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura impegnandosi a introdurre tale gravissimo reato nel suo sistema penale. Ma ancora, dopo venticinque anni, non l’ha fatto. Il Comitato europeo contro la tortura l’ha ancora richiamata nel suo rapporto di pochi giorni orsono. Intanto gli atti di tortura che anche in Italia si commettono (in occasione del G8 di Genova, ad esempio) vanno in prescrizione, perché manca una legge che punisca la tortura come tale, con le pene adeguate alla sua gravità. E l’Italia si espone a una ripetuta e grave stigmatizzazione da parte della comunità internazionale.
Naturalmente le carenze e violazioni rispetto agli obblighi internazionali e, più particolarmente, europei non riguardano solo l’Italia. Ma dal comunicato della Commissione Europea risulta che l’Italia, tra tutti i ventotto Stati membri dell’Unione, è quello contro il quale è stato aperto il maggior numero di procedure. E poiché i numeri e le statistiche contano, ed anche le classifiche, essere anche questa volta in testa (o in coda) aggiunge a tutto il resto argomenti di tristezza. In Italia, se non l’opinione pubblica, di questi tempi, almeno il governo non lesina dichiarazioni di fede europea. Ma gli sforzi fatti per adeguarsi ai grandi e severi parametri economici imposti dall’Unione non bastano ad assicurare all’Italia la credibilità generale, come Paese. E la credibilità vale come diversi punti di Pil.

l’Unità 21.11.13
Ginevra, ultimo round per l’accordo con l’Iran
È ripreso ieri il confronto sul nucleare tra Teheran e i «5+1»
Khamenei indica la sua «linea rossa»
Obama prudente. Israele preme su Mosca
di Umberto De Giovannangeli


Ginevra è ripartita. Con forti aspettative, ma anche inquietanti ombre da diradare. Parte in salita la nuova sessione negoziale sul programma nucleare iraniano che si è aperta ieri pomeriggio a Ginevra.
A poche ore dalla ripresa dei lavori, la Guida Suprema del regime iraniano, Ali Khamenei, ha ribadito che Teheran «non arretrerà di un centimetro» dai suoi diritti nucleari e ha fatto sapere che, pur non intervenendo direttamente, ha già definito «le linee rosse» per i suoi negoziatori. È una doccia fredda su chi vorrebbe l’accordo. Khamenei ha anche attaccato la Francia, il Paese ritenuto responsabile dello stop alla precedente intesa giudicata troppo favorevole a Teheran per poi aggiungere minaccioso che l’Iran «colpirà sul volto i suoi aggressori con una violenza tale che non se lo dimenticheranno». Non ha chiarito, però, in che modo si espliciterebbe questa minaccia. E se non bastasse a innalzare la tensione diplomatica, ha attinto alla vecchia retorica degli ayatollah per attaccare Israele, «il regime sionista è destinato a crollare». Parlando davanti a 50.000 miliziani islamici, riuniti a Teheran, Khamenei ha sostenuto che «le fondamenta del regime sionista sono state indebolite notevolmente ed è destinato all’estinzione» ha scandito il leader religioso in un discorso trasmesso in diretta dalla televisione di Stato. E poi: «L’Iran non riconosce l’esistenza di Israele e sostiene i movimenti armati che combattono contro di lui».
Pronta la replica della Francia, già sostenitrice della linea dura nel negoziato con la Repubblica islamica. La portavoce del governo, Najat Vallaud-Belkacem, ha avvertito che «le parole di Khamenei sono inaccettabili e complicano i negoziati».
Un clima che ha reso più pesante il nuovo round di trattative sul programma nucleare iraniano tra Teheran e i cinque Paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu più la Germania che ha preso avvio nel pomeriggio, con una prima riunione di coordinamento tra le 6 potenze, seguita da un incontro bilaterale tra il capo della diplomazia europea, Catherine Ashton, e il ministro degli esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, capo negoziatore iraniano: il primo giro è durato una decina di minuti. I lavori potrebbero andare avanti fino a domani. «Inizieremo nel pomeriggio le discussioni sul processo negoziale e se queste andranno a buon fine i negoziati sul testo si svolgeranno probabilmente domani (oggi, ndr), spiega l’iraniano Abbas Aragshi.
CLIMA PESANTE
L’avvicinamento registrato tra Occidente e Teheran non ha precedenti nell’ultimo decennio, ma le differenze rimangono; e di fatto il negoziato sta entrando in una fase estremamente difficile, quella dei dettagli più tecnici.
Nell’ultimo incontro, l’intesa è sfumata sull’insistenza iraniana a vedere riconosciuto il suo diritto ad arricchire l’uranio, e sul mancato accordo sul reattore ad acqua pesante di Arak che, una volta operativo, potrebbe produrre plutonio per la bomba atomica.
Il presidente Usa, Barack Obama, riceverebbe un’iniezione di credibilità da un accordo e ha chiesto ai senatori Usa di non imporre nuove sanzioni per lasciar il tempo alla diplomazia di lavorare. Il capo della Casa Bianca non si è sbilanciato nella descrizione delle trattative con l’Iran, ma ha rispedito al mittente alcune delle critiche recentemente sollevate. Ha affermato che Teheran «fermerebbe il suo programma nucleare» e «ridurrebbe alcuni degli elementi che altrimenti le permetterebbero all’Iran di avvicinarsi a quello che noi definiamo “breakout capacity”(ossia la capacità di produrre una bomba atomica)». Il presidente Usa ha aggiunto che le ispezioni giornaliere da parte di enti indipendenti potrebbero rientrare nell’intesa. In cambio gli Stati Uniti «aprirebbero un pochino il rubinetto», intendendo che alcune delle sanzioni potrebbero venire meno. Il riferimento va al disgelo di asset iraniani detenuti presso banche estere.
NETANYAHU DA PUTIN
A puntare i piedi contro un accordo sul nucleare iraniano è Israele, il cui primo ministro, Benjamin Netanyahu si è recato ieri a Mosca per esprimere al presidente russo Vladimir Putin la «preoccupazione» di Israele, che teme la prosecuzione dell’arricchimento dell’uranio da parte di Teheran. Il premier si dice preoccupato che l’Iran potrebbe ancora realizzare un primo ordigno atomico «in un mese, o poco più». In serata si è aperta la sessione plenaria. La discussione è serrata, ad oltranza.
Una cosa è certa: da Ginevra stavolta si esce con un accordo o con un fallimento. Il terzo round non è previsto.

Repubblica 21.11.13
“Dodici volte la paga dell’operaio” ecco il tetto ai soldi per i manager la Svizzera vota la regola Olivetti
Domenica un referendum. E le aziende protestano
di Paolo G. Brera


L’HANNO un po’ ridisegnata, ma eccola lì, la “regola morale” di Adriano Olivetti. Quella, applicata nelle sue aziende, per cui «nessun dirigente, neanche il più alto in grado, deve guadagnare più di dieci volte l’ammontare del salario minimo ». Eccola pronta a volare via dal mondo delle utopie perplanare in Svizzera, solida come una legge costituzionale e rivoluzionaria come un sogno di civiltà. Domenica prossima si vota “l’Iniziativa 1:12”: se gli svizzeri diranno sì, in ogni impresa del Paese nessuno potrà guadagnare in un mese più di quanto il meno pagato dei dipendenti guadagna in un anno.
Per i top manager e i dirigenti rischia di essere il knock down, dopo il colpo d’ascia che gli pioverà in capo dal primo gennaio quando entrerà in vigore la legge nata da una consultazione popolare analoga. A marzo è stata infatti approvata una Inziativa (una consultazione propositiva che prevede una modifica costituzionale e un iter più complesso del semplice referendum abrogativo) che attribuisce agli azionisti lostabilire gli stipendi dei top manager e del Cda. Non potranno più assegnarsi lo stipendio l’un l’altro facendoli gonfiare come palloncini.
Ma stavolta, secondo i sondaggi la strada è impervia. «L’-I-niziativa 1:12 è nata dai giovani socialisti — spiega Rocco Bianchi, giornalista delCorriere del Ticino— ma difficilmente riuscirà a ottenere la doppia maggioranza richiesta: il 50 per cento più uno degli abitanti e almeno 13 cantoni. Ha contro tutti gli ambienti economici. Era perplessa anche la sinistra, hanno chiesto di ammorbidire il coefficiente a 1:18 o a 1:20, o di fare riferimento al salario medio: ma i giovani socialisti sono ventenni e ragionano perprincipi, più che per tattica».
La rivoluzione per le grandi aziende sarebbe drastica. Il rapporto attuale è un pugno nello stomaco: «Uno a 266 in Novartis, 1 a 215 per Nestlé, 1 a 213 per La Roche, 1 a 208 per Abb». «Con quali giustificazioni possono essere pagati salari milionari come quelli di certi manager? Secondo i dati delConsiglio federale — ha detto alGiornale del Popolo Marina Carobbio Guscetti del Ps spiegando il sì del suo partito, l’unico ad appoggiare l’Iniziativa tra un muro di “no” — il rapporto medio era 1:6 nel 1948, nel 2011 è aumentato a 1:43. In circa 1300 imprese supera l’1:12». Ma se i giovani socialisti difendono l’Iniziativaaffer-mando che le aziende risparmieranno e potranno reinvestire per crescere e ridurre ristrutturazioni e licenziamenti, per i contrari il “no” ha ragioni economiche e fiscali: non solo «stravolgerebbe radicalmente » la «libera contrattazione tra impresa e sindacati»; ma si teme che le multinazionali ne approfittino per delocalizzare, mentre amministrazioni e governo temono che abbassando gli stipendi «mancheranno ingenti entrate fiscali».
«Le associazioni economiche hanno dato cifre da capogiro », dice ancora Bianchi. «Uno studio dell’Università San Gallo stima perdite per 4 miliardi di franchi l’anno», 3,2 miliardi di euro». Dal testa a testa iniziale i sondaggi sono diventati negativi, gli opinionisti scettici. «Ma se non passasse di misura — continua — la portata simbolica sarebbe immensa e il mondo economico dovrebbe prenderne atto con modifiche importanti, anche se meno radicali». Intanto sono già partite altre due Iniziative ad alto voltaggio: l’introduzione di uno stipendio minimo e del reddito di cittadinanza.

Repubblica 21.11.13
Francia, la guerra della prostituzione
Da Lang alla Deneuve manifesti e appelli contro una legge per punire i clienti
di Anais Ginori


PARIGI — Maiali e sgualdrine, filles de joiee puritani, libertini e moralisti. Ormai il dibattito sulla prostituzione in Francia ha sconfinato in una questione tremendamente seria, quasi filosofica, con appelli, petizioni, dotte analisi che alimentano una battaglia delle idee come non si vedeva da tempo. Tutto è cominciato con la pubblicazione del manifesto dei 343 “salauds”. Tradotto: maiali, mascalzoni. E’ una citazione del celebre manifesto delle 343 “salopes”, sgualdrine, pubblicato nel 1971 per difendere la legalizzazione dell’aborto. Allora le femministe autodenunciavano, sul
Nouvel Observateur, di aver fatto un’interruzione di gravidanza, sfidando così la legge. Oggi alcuni uomini illustri, tra cui lo scrittore Fréderic Beigbeder e il polemista Eric Zemmour, rivendicano il loro diritto a poter comprare sesso «tra adulti consenzienti».
Sotto accusa c’è la proposta di legge in discussione la settimana prossima all’Assemblée Nationale e che prevede di punire i clienti di prostitute, sul modelloscandinavo, con un’ammenda di 1.500 euro, raddoppiata in caso di recidiva. «Pensiamo che ciascuno abbia il diritto di vendere liberamente le sue virtù, e persino di trovarlo appagante. Rifiutiamo che dei deputati emanino norme sui nostri desideri e sui nostri piaceri », scrivono i “mascalzoni” nel loro appello pubblicato su Caseur.
La direttrice della rivista, Elisabeth Levy, spiega: «Voglio vivere in un paese dove si può fare sesso come e quando si vuole sempre nel rispetto della legge». Se ci sono abusi, continua Levy, esistono già reati per punire stupro, violenza, prossenetismo, riduzione in schiavitù.
«Le 343 sgualdrine chiedevano di disporre del proprio corpo, i 343 mascalzoni vogliono disporre del corpo degli altri», ha commentato la ministra per i diritti delle Donne, Najat Vallaud-Belkacem. I toni del manifesto sono provocatori, forse troppo. Tanto che tra gli anti-abolizionisti è spuntato un nuovo appello concorrente, firmato anche da Charles Aznavour, Jack Lang, Claude Lellouche. «Senza voler favorire né approvare la prostituzione — sostiene quest’altra petizione — rifiutiamo la proposta di punire i clienti delle prostitute». Quest’ultimo appello è stato firmato da alcune donne, tra cui Jeanne Moreau e Catherine Deneuve, indimenticabile nel suo ruolo di prostituta occasionale in “Bella di giorno”.
E così il “più antico mestiere del mondo” sta alimentando una querelle culturale con posizioni trasversali anche tra le femministe. La filosofa Elisabeth Badinter ha criticato la riforma del governo. «Lo Stato — commenta — non deve legiferare sulla sessualità degli individui, decidendo cos’è bene o male». Secondo Badinter, la nuova legge aiuterà le organizzazioni criminali, rendendo clandestina e più ancor più insicura la vita delle prostitute. A sorpresa, la filosofa francese si schiera con i clienti. «La proposta di legge mi sembra una dichiarazione di odio contro la sessualità maschile ». Non si può, aggiunge Badinter, dare una visione stereotipata del desiderio degli uomini, come fosse sempre «dominatore e violento». A distanza, ha risposto la filosofa Sylviane Agacinski che definisce la prostituzione una «servitù arcaica». «In nessun altro campo lo Stato rende possibile vendere il proprio corpo». E poi aggiunge: «I mascalzoni dovrebbero passare qualche notte su un marciapiede per riflettere davvero».

Repubblica 21.11.13
Noi “maiali” sfidiamo l’ipocrisia
di Frédéric Beigbeder


CERTO, ce la siamo voluta noi. Ma il “Manifesto dei 343 maiali” ha scatenato tali attacchi e insulti che mi vedo costretto a precisare il mio pensiero. Nessuno rivendica il diritto di disporre del corpo altrui in un rapporto fra adulti consenzienti. È uno scambio tristemente chiaro (piacere contro denaro), il cui primo difetto è di non corrispondere alla morale repubblicana. Quanto alla prostituta che ha scelto la sua attività, non lotta forse per la libertà di disporre del proprio corpo? A mio umile avviso, solo la parola delle prostitute dovrebbe essere ascoltata.
Quel che viene taciuto in questo non-dibattito, è la miseria sessuale. Penalizzare i clienti significa umiliare individui già frustrati, poiché non hanno accesso al meraviglioso godimento promesso dalla pubblicità, il cinema,le riviste, la tv. Il cliente non è un maiale; è un impacciato solitario in un’epoca di festa sexy. La prostituzione è resa dalla caricatura di un sordido rapporto per la strada, e invece è anche un uomo depresso salvato in un bar da una donna che l’ascolta e gli tiene la mano per aiutarlo a superare la notte. Che succederà senza questa valvola di sicurezza? Qualcuno diventerà pericoloso?
E come procederà la polizia nell’arrestare gli ignobili porci? quando scatta l’illegalità? Quando abbordano la ragazza, quando la pagano? Chi li denuncerà: le prostitute, i vicini, la moglie? La prostituzione esiste per entrambi i sessi: molte donne sole contano sugli escort boy. E quid della prostituzione omosessuale? Ma l’argomento è troppo tabù e i tempi troppo puritani. C’è una straordinaria ipocrisia: una maggioranza di concittadini è ricorsa a una professionista, ma non l’ammetterà. Viviamo in un capitalismo di tartufi, la prostituzione ne è una grottesca metafora. La Francia ha proibito le case chiuse, ma non le ragazze della gioia. Scommetto che fra i tanti scandalizzati dal “Manifesto”, molti amano le muse di Baudelaire, Maupassant, Proust, Simenon, Henry Miller e Houellebecq, e piangono la morte di Lou Reed che celebrava i bassifondi cantando: «Hey babe, take a walk on the wild side».

Repubblica 21.11.13
Berlino minaccia l’Unione europea
di Guido Carandini


Sovente è bene dimenticare un brutto passato, ma è un errore cancellarlo per la insana paura di un suo ripetersi. Soprattutto quando il passato è quello degli ormai lontani anni in cui compariva in Germania il libro intitolato Mein Kampf di Hitler, colpevolmente ignorato fino alla sua presa del potere nel 1933, dato che conteneva l’intero programma al quale egli si sarebbe dedicato durante la dittatura nazista, associandosi a quella fascista, e scatenando la più micidiale e distruttiva guerra dell’intera storia umana. Venti milioni di vittime di guerra e razziali, e l’Europa in macerie.
Si, è verissimo, la storia non si ripete, e dal ritorno alla pace nel 1945 a oggi il mondo si è trasformato in modo così radicale da far apparire Mein Kampf– con i suoi progetti di sterminio e di conquista dell’Europa da parte della Germania, quale unica potenza in grado di fermare il temuto predominio degli Stati Uniti – una pura manifestazione di psicopatia paranoica. Ma che questa sia penetrata nell’anima dell’intero popolo tedesco, rendendolo totalmente complice di Hitler, è cosa che la storiografia non ha ancora spiegato in modo sufficiente, forse perché ha trascurato uno dei concetti essenziali che ispiravano il suo progetto. Quello di assicurare al popolo tedesco un lebensraum, uno spazio vitale per il suo sviluppo, enormemente maggiore di quello della sua patria, conquistandolo con le armi nell’est europeo. Hitler affermava esplicitamente in quel testo di voler dotare il suo popolo di un territorio non minore di quello di cui godeva negli Stati Uniti il suo avversario popolo americano. Insomma una espansione imperialista intra-europea che assicurasse ai tedeschi, il popolo ariano eletto, un dominio mondiale a scapito di quello giudaico-americano. Quando la guerra è finita il popolo tedesco si è risvegliato, ferito e in miseria, dall’incubo paranoide in cui era precipitato, e il suo unico spazio vitale si è rivelato essere quello di una nazione distrutta e divisa dal muro di Berlino, ma in una Europa pacificata e dedita alla ricostruzione morale e materiale.
A quel punto il popolo tedesco ha dovuto compiere la sua completa conversione, come quello italiano, ai valori della modernità e ai principi della civiltà capitalista democratica dell’Europa vincitrice. La quale, dopo la caduta di quel muro, avrebbe accolto anche la intera nazione tedesca fra i suoi membri più attivi e convinti di portare avanti il grande progetto federalista di una Unione continentale di popoli che per secoli si erano combattuti, ma ora dovevano gareggiare fra loro nella conquista dello sviluppo economico e del benessere sociale.
Ma il sogno tedesco di un suo lebensraum dove era finito nel frattempo? L’est europeo era perduto per sempre, ma era sorto inaspettatamente un nuovo gigantesco spazio vitale disponibile alla conquista non più da parte di panzer divisionen, ma di grandi industrie e di potenti finanze, cioè il mercato globale. E l’Europa unita era naturalmente candidata a essere uno dei maggiori contendenti nella conquista di occasioni di crescita in quel lebensraum mondiale, a condizione però di agire concordemente, dandosi le istituzioni politiche ed economiche di un vero grande Stato federale. Ma questo non è avvenuto, e per opposizione di chi? Della Germania ovviamente, la principale avversaria di una Banca Centrale Europea dotata di tutti i poteri di ogni vera Banca centrale, compreso quello, largamente usato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, di stampare moneta per finanziare una politica espansiva nelle fasi di recessione.
E perché mai la Germania è invece contro quella politica e impone, in accordo con il nord-Europa, la più rigida austerità ai danni del centro-Europa? È consentito sospettare che il precipizio economico che minaccia i Paesi di quest’area, l’Italia in primo luogo, e la loro progressiva deindustrializzazione, rientrino in un disegno di riservare il nuovo immenso lebensraum esclusivamente ai Paesi del Nord guidati dalla Germania? A pensar male si fa peccato, ma almeno può spingere qualcuno a pentirsi di aver inserito nella propria Costituzione un lucchetto alla ripresa e di aver gettato via la chiave.

l’Unità 21.11.13
«Io, Jack il rosso»
L’autore di «Zanna Bianca» racconta com’è diventato socialista
Raccolti in volume i discorsi politici di London: la lotta di classe, la necessità dell’emancipazione dei lavoratori, le battaglie per i portuali e gli operai la difesa dei vagabondi
di Jack London


Anticipiamo un brano di Jack London tratto da «Lotta di classe e altri saggi sul socialismo di inizio ’900» (collana Persistenze, prefazione di Goffredo Fofi, pagine 128, euro 14,00). Il libro è pubblicato da Malcor D’Edizione, una giovanissima casa editrice di saggistica.

È BENE SPIEGARE CHE SONO DIVENTATO SOCIALISTA IN UN MODO PIUTTOSTO SIMILE A QUELLO IN CUI I PAGANI TEUTONICI DIVENNERO CRISTIANI: MI FU SCOLPITO A FORZA. Non solo al momento della mia conversione non ero un simpatizzante del socialismo, ma lo stavo combattendo. Ero molto giovane e inesperto, non sapevo molto e anche se non avevo mai sentito parlare di una scuola chiamata «individualismo» elogiavo la forza con tutto il mio cuore.
Questo perché ero forte. Per forte intendo dire che godevo di ottima salute e avevo muscoli d’acciaio, caratteristiche ben visibili. (...) Il mio ottimismo era dovuto al fatto che fossi sano e forte, non avevo debolezze né venivo mai cacciato da un padrone perché non ero in forma; avevo sempre trovato un lavoro, che fosse spalare carbone o stare sulle navi, o qualsiasi altro lavoro manuale.
Per questo motivo, soddisfatto della mia giovane vita e in grado di mantenere il mio posto di lavoro e di vincere nella lotta, ero un individualista rampante. Era piuttosto naturale perché ero un vincente. Perciò consideravo la concorrenza e la competizione una cosa da veri uomini. Essere UOMO significava scrivere questa parola a caratteri cubitali nel mio cuore. Avventurarmi e combattere come un uomo, svolgere il lavoro di un uomo (anche per una paga da ragazzo), queste erano le cose che avevo raggiunto e che si facevano parte di me come nessun’altra. E guardando avanti all’orizzonte di un futuro nebuloso e interminabile, giocando a quello che ho concepito essere il gioco dell’uomo, avrei continuato a viaggiare, godendo di ottima salute, senza incidenti e con muscoli sempre vigorosi. Come dicevo, questo futuro appariva interminabile. Mi vedevo affrontare una vita senza fine come una delle bestie bionde di Nietzsche, desiderosa e conquistatrice di superiorità e di forza pura.
Devo confessare che non pensavo ai disgraziati, ai malati e agli uomini in difficoltà, ai vecchi e ai mutilati, se non maturando che, a meno di incidenti, avrebbero potuto essere efficienti nel lavoro quanto me, se lo avessero voluto realmente. Gli incidenti rappresentavano il fato, scritto anche in maiuscole e non c’era possibilità di evitarlo. Napoleone aveva avuto un incidente a Waterloo, fatto che non ha smorzato in me il desiderio di essere un novello Napoleone.
(...) La dignità del lavoro era per me la cosa più importante. Senza aver letto Carlyle o Kipling, formulai un vangelo del lavoro che avrebbe messo i loro in ombra. Il lavoro era tutto: santificazione e salvezza. Non potreste comprendere l’orgoglio che ottenevo da una dura giornata di lavoro. Ero uno fra gli schiavi salariati più coscienziosi che un capitalista avrebbe mai potuto sfruttare. Mostrarmi inoperoso agli occhi dell’uomo che mi pagava il salario era un peccato, in primo luogo, contro me stesso e in secondo luogo, contro di lui. Lo consideravo un crimine secondo solo al tradimento ma altrettanto malvagio. In breve, il mio individualismo eroico era dominato dall’etica ortodossia borghese. Leggevo giornali borghesi, ascoltavo i predicatori borghesi e non reagivo alle banalità urlate dai politici borghesi. Non dubito che se altri eventi non avessero cambiato la mia vita, mi sarei trasformato in un crumiro professionista (uno degli eroi americani del Presidente Eliot), la mia testa e le mie capacità di guadagno sarebbero state irrimediabilmente distrutte da un manganello nelle mani di qualche sindacalista militante.
Ma un giorno, di ritorno da un viaggio in mare lungo sette mesi, appena compiuti diciotto anni, pensai di cominciare a vagabondare per il mondo. Tra i bagagli dei treni merci abbandonai l’Occidente, dove gli uomini lottavano e il lavoro non mancava e cacciava l’uomo, mi avventurai verso i centri di lavoro industriali dell’Oriente, dove gli uomini erano inetti e cercavano lavoro. In questa avventura mi sono trovato a guardare alla vita da un punto di vista nuovo e completamente diverso. Ero passato dal proletariato a quello che i sociologi amano chiamare il «decimo sommerso», ed ero sorpreso di scoprire il modo in cui veniva reclutato questo sommerso.
Vi trovai ogni sorta di uomini, molti dei quali un tempo erano stati in buona salute come me, come le «bestie bionde»; marinai, soldati, operai, tutti lacerati e deformati dalla fatica, dal travaglio e dagli incidenti, alla deriva come cavalli alla fine della loro carriera. Ho mendicato, rabbrividivo con loro per il freddo sui carri merci e nei parchi pubblici, ho ascoltato storie di vita iniziate sotto i migliori auspici come la mia, con forza fisica pari o migliore alla mia, che si sono concluse sotto i miei occhi con lo sfascio e il risucchio nella parte più misera della fossa sociale.
E mentre ascoltavo queste storie ho iniziato a riflettere. Ero vicino alle donne di strada e agli uomini delle fogne. Ho visto l’immagine della fossa sociale tanto vividamente come se fosse una cosa concreta e li ho visti in fondo alla fossa, io sopra di loro, non lontano, appeso alla parete scivolosa con forza e sudore per non scivolare. Confesso di aver avuto paura. Che sarebbe successo quando non avrei avuto più le forze? Quando non sarei più stato in grado di lavorare al fianco di uomini giovani e forti? In quel momento decisi e formulai un giuramento simile a questo: «Ho sempre lavorato con tutte le forze, ma sono sempre più vicino al fondo della fossa. Uscirò fuori dalla fossa, ma non grazie ai muscoli del mio corpo; e non svolgerò più il lavoro duro e che Dio mi fulmini a morte se lavorerò ancora in modo duro, più di quanto il mio corpo possa sopportare o sia assolutamente necessario fare». E da quel momento mi sono dato da fare per sfuggire al duro lavoro.
Tra l’altro, durante un viaggio di circa diecimila miglia attraverso Stati Uniti e Canada, mi trovai a vagabondare alle Cascate del Niagara e fui beccato da un poliziotto borghese; mi è stato negato il diritto di difendermi, sono stato condannato a una pena detentiva di trenta giorni perché senza fissa dimora e senza mezzi visibili di sostentamento, sono stato ammanettato e incatenato a un gruppo di uomini nelle mie stesse condizioni, sono stato portato giù al paese di Buffalo e registrato presso il penitenziario di Erie County; mi hanno rasato la testa e i baffi e mi hanno vestito a strisce da carcerato, sono stato vaccinato obbligatoriamente da uno studente di medicina praticante, mi hanno fatto marciare incatenato e ho lavorato sorvegliato da guardie armate di fucili Winchester; il tutto per amore dell’avventura, come le «bestie bionde». Non ho altro da aggiungere sebbene possa affermare che questa esperienza ha attenuato il mio entusiastico patriottismo, abbandonando la mia anima. Ho compreso che per la mia vita uomini, donne e bambini erano più importanti delle linee geografiche immaginarie.
Ritornando alla mia conversione, penso sia evidente che l’ individualismo rampante mi aveva abbandonato e che adesso dentro di me nasceva qualcos’altro. Senza saperlo ero stato un individualista e adesso ero un socialista inconsapevole, di stampo non scientifico. Ero rinato senza cambiare nome e andavo in giro a scoprire cosa fossi diventato. Tornai di corsa in California e iniziai a leggere. Non mi ricordo quale fu la mia prima lettura, ma è un dettaglio irrilevante. Ero già quell’altro, qualunque fosse il mio nome; e con l’aiuto dei libri ho scoperto di essere diventato socialista. Da quel giorno ho letto parecchi libri, ma nessuno di argomento economico; nessuna dimostrazione lucida della logica e dell’inevitabilità del socialismo mi ha colpito così tanto profondamente e in modo talmente convincente quanto quel giorno in cui ho visto le pareti della fossa sociale crescere intorno a me fino a soffocarmi e io che scivolavo in fondo alla miseria più profonda.

Repubblica 21.11.13
La bellezza tradita della mia Sardegna così abbiamo consumato ogni speranza
di Marcello Fois


Nelle vie più colpite di Olbia, dove gli abitanti si sono messi al lavoro per rimediare ai danni causati dal ciclone
Il fango e cumuli di detriti invadono ancora strade e marciapiedi. Da via Cina a via Ungheria

IO SONO venuto al mondo perché mio padre e mia madre avevano una prospettiva di vita abbastanza stabile da potersi permettere un figlio. Erano gli anni Sessanta. Si ragionava in questi termini allora. Mio padre aveva esperienza di carpentiere, ed era scolarizzato. Mia madre era stata in continente, aveva studiato da puericultrice. Abitavano in Sardegna quando abitare in Sardegna significava vivere altrove, ma non se ne accorgevano. Abitavano a Nuoro, in una città che era ancora un paesone, e che confinava armonicamente con la campagna.
Qualche anno prima, da ragazzo, mio padre aveva lavorato per la Fondazione Rockfeller, era stato cioè uno di quei guardiani splendenti, armati di pompe al piretro, che avevano contribuito a liberare le coste della Sardegna dall’odiosa zanzara culex portatrice di malaria. Quei viaggi di lavoro cambiarono la vita di mio padre e anche, in seguito, la mia vita. S’innamorò perdutamente della sua terra, come non gli era mai successo, fino alla commozione. Le spiagge erano smaglianti allora, il mare era puro cristallo. Tutto era reso meraviglioso dallo sguardo della giovinezza. A ogni ritorno raccontava di una cala, di una baia, di un passaggio fra gli oleandri. E ogni volta prometteva di portarci mia madre. La stagione del loro innamoramento coincise in tutto con l’apice della purezza e dello splendore. Penso che mio padre pensasse a quanto era stato fortunato di amare una donna bellissima in una terra bellissima.
Io sono nato qualche tempo dopo. E da subito sono stato educato a sentirmi parte della natura che mi circondava. I miei si erano amati in mezzo alla bellezza e pensarono di amarmi insegnandomi a coltivare la bellezza. Spessissimo si organizzavano gite in campagna che da casa nostra si poteva raggiungere agevolmente a piedi; ed eravamo l’unica famiglia di tutto il quartiere che avesse l’abitudine di passare le vacanze al mare. Nei riservati barbaricini quell’abitudine attecchì più tardi. Così si partiva si caricavano le vettovaglie e si raggiungeva la spiaggia. Il paese costiero era dimesso, lindo, come disegnato dai bambini. Eravamo gli unici “cittadini” che si spingessero fino a quelle zone. Ci mostravano i terreni a mare sorpresi che ci piacessero a loro sembravano solo zolle sterili, i patrimoni formali per le figlie zitelle. Ai maschi di famiglia spettavano i terreni buoni, quelli in altura, da pascolo. Negli anni quell’abitudine ha prodotto le zitelle più ricche del Mediterraneo. Un giorno a mio padre proposero la vendita di un terreno a Ottiolu per cinque lire al metro quadro ed egli rifiutò perché certo amava la meravigliosa bellezza di quei posti, ma non pensava che avessero una prospettiva.
E questo è il motivo per cui per vivere devo fare lo scrittore. Esisteva una gratuità in quella bellezza che oggi si è definitivamente consumata, ma credo derivi dal fatto che in pochissimi anni il brutto ha totalmente preso il sopravvento. È stato un processo lento ma inesorabile. Erano gli inizi degli anni Ottanta quando mio padre mi propose di ripercorrere le strade della sua giovinezza, voleva che vivessi la sua meraviglia, nell’età stessa in cui lui l’aveva vissuta. Ma più che dai posti, che per me erano ancora bellissimi, compresi il mutamento dagli occhi di mio padre. A lui quei posti sembrarono improvvisamente cambiati, ma non, come si potrebbe pensare, perché il suo sguardo era cambiato, ma perché in quella natura si erano innestate le prime, costruzioni. Erano case spudoratamente in riva al mare, spesso lambivano la spiaggia. Erano alberghi imponenti a due passi dalla battigia. Erano edifici che si opponevano allo sguardo con arroganza. La sicumera dei pionieri che godevano di una completa deregulation.
I paesi costieri, ora presi d’assalto dal turismo di massa, parvero improvvisamente disegnati da geometri ripetenti. Quei terreni in altura si trasformarono da miniere d’oro a territori di massacro: si guadagnava di più con due giorni di affitto che con un mese di pastorizia. Nello sguardo di mio padre imparai a riconoscere la paura per una mutazione antropologica che ci stava afferrando, che stava spostando il nostro baricentro di sardi dall’identità vera a quella presunta, dalla memoria al folk, dall’autentico alla copia. Mio padre mi confessò di sentirsi tradito e io da quella confessione non sono mai più riuscito a liberarmi neanche adesso che le sue paure apparentemente incomprensibili si sono realizzate in tutta la loro drammaticità.
Credo che allontanarci dalla passione di quella bellezza semplice sia stato l’errore fatale. Perché oggi, che ogni possibilità di salvezza pare consumata, si vorrebbe ritornare a quell’infanzia lontana e irraggiungibile che ci faceva vivere la meravigliosa e delicatissima complessità del nostro territorio senza che ne avessimo una precisa coscienza. Era come respirare, era come quando ci si innamora.

l’Unità 21.11.13
L’Opera al verde sull’orlo del baratro
Il prestigioso teatro romano rischia il commissariamento per debiti
La situazione finanziaria è spaventosa: 18 milioni di deficit che si assommano all’ammanco accumulato negli anni passati per un totale di 46 milioni di euro Ora si cerca una soluzione per evitare il fallimento
di Luca Del Fra


ROMA L’OPERA DI ROMA (ODR) È SULL’ORLO DI UN BARATRO FINANZIARIO DI INGENTE MA INCERTA ENTITÀ, CAUSATO DA SCELTE DISSENNATE E OPACHE A OGNI LIVELLO, CHE POTREBBE PORTARLA A UN INGLORIOSO COMMISSARIAMENTO COINVOLGENDO LO STESSO RICCARDO MUTI, uno dei nostri più rappresentativi musicisti e direttore onorario a vita del teatro capitolino.
Quale è la situazione reale che si cela dietro le polemiche apparse in questi giorni sui maggiori quotidiani nazionali? Il Corriere della Sera, che non più di 8 mesi fa definiva l’OdR il miglior teatro italiano dove si riuscivano a fare 70 assunzioni senza gravare sull’erario, giovedì scorso ha denunciato un non meglio identificato buco di 28 milioni di euro, annunciando un possibile commissariamento, affidato probabilmente a Carlo Fuortes. Da allora cifre e dichiarazioni, soprattutto del vicepresidente del teatro Bruno Vespa e del sovrintendente Catello De Martino, si sono accavallate in un confuso chiacchiericcio, senza che l’OdR abbia prodotto uno straccio di documento ufficiale per chiarire la situazione.
La ricostruzione fatta da l’Unità si basa in parte su dati ufficiosi: ci sarebbe un debito di 28 milioni di euro che risale agli anni passati, an- che alla gestione an- tecedente a quella at- tuale. Ma il dato al- larmante è la critici- tà finanziaria per il 2013: non sono stati versati circa 9 milio- ni di contributi dei la- voratori; ci sarebbe- ro circa 7 milioni di fatture inevase; dul- cis in fundo, manche- rebbero i soldi per pagare i prossimi sti- pendi, un paio di mi- lioni. Totale: 18 mln di deficit che assom- mati al debito, fa po- co più di 46 milioni di euro.
La dirigenza dell’OdR per giustificarsi sostiene essere gli ultimi tre bilanci in pareggio e accampa il ritardo nell’erogazione dei contributi del Comune (circa 6 mln di euro) e della Regione (circa 8 mln con arretrati che risalgono al 2011). Ma anche così i conti non tornano e non soltanto perché per il 2013 comunque mancherebbero 4 mln di euro.
La voragine è ag- gravata dal fatto che l’OdR è uno dei tea- tri italiani con mag- giori finanziamenti pubblici, grazie a un poderoso esborso da parte del Comune: circa 20 mln l’anno, cresciuto vorticosamente durante la giunta Alemanno rispetto ai circa 12 della giunta Veltroni. A titolo di confronto: il comune meneghino alla Scala ne dà 7, quello partenopeo al San Carlo appena 1. Al netto dei debiti, potrebbe essere importante e perfino positivo che ogni anno una ingente quantità di danaro pubblico 46 mln tra Stato, Regione ed Enti locali più in termini modesti quella dei privati 1,7 mln sia investita nell’opera lirica a Roma: ma come viene spesa?Dalla fine del precedente commissariamento era il dicembre 2009 e l’allora sindaco Gianni Alemanno impose come sovrintendete un improbabile De Martino, dirigente di Italgas, da poco tempo divenuto direttore del personale presso l’OdR -, si è assistito a una stucchevole imbarcata di consulenti e dirigenti a contratto, con una energica moltiplicazione delle funzioni e degli stipendi: a titolo d’esempio: lo stesso De Martino ha mantenuto le deleghe a capo del personale, chiamando però un direttore alle risorse umane più un direttore generale.
Il tutto assomiglia a una prassi clientelare probabilmente maleodorante se, come denunciano alcuni dipendenti dell’OdR che vogliono restare anonimi, una parte dell’amministrazione è stata esternalizzata, proprio quella che si occupa degli stipendi degli imbarcati che risultano segretissimi. Tanta zavorra ha pesato sulla produttività del teatro, con una diminuzione delle aperture di sipario camuffata con concertini aperitivo e simili.
Non è perciò sfuggita a logiche disinvolte neppure la programmazione del direttore artistico Alessio Vlad, che appena giunto nel 2010 ha avuto lo stipendio pressoché raddoppiato rispetto al suo predecessore. In questi anni si è parlato troppo e forse a sproposito di un miglioramento dell’OdR: quando dirige Muti orchestra e coro suonano bene, anche benissimo, ma il resto? Nella recente Turandot i complessi del teatro hanno dato una prova modesta anche a causa di un direttore scelto non con criteri artistici, e quest’anno non è stata la prima volta.
Si è assistito a triangolazioni tra teatri talvolta neppure riuscite, come nel 2012, con una Butterfly affidata da Vlad alla regia di Giorgio Ferrara direttore al Festival dei 2 Mondi dove Vlad è direttore artistico del settore musicae annunciata come coprodotta dal Massimo di Palermo, dove direttore artistico era Lorenzo Mariani, gratificato con una ripresa all’OdR di un suo allestimento di Candide realizzato presso il San Carlo. Senonché, andato in scena a Roma il Candide con la partecipazione di Adriana Asti moglie del suddetto Ferrara, il teatro palermitano si è sfilato dalla produzione di Butterfly.
MUTI «PARAFULMINE»
Clientelismo? Opacità? Familismo? Il rischio è di travolgere lo stesso Muti, poiché il debutto alla regia nelle stagioni dell’OdR della figlia del maestro partenopeo forse una ingenuità da parte sua in un simile degrado può dare adito a sospetti, ma chi conosce Muti ha altre certezze. Infatti, in questi giorni è stato più volte chiamato in causa da Vespa e De Martino come parafulmine contro le saettanti critiche che piovono sulle loro teste: finora non ha speso una parola per loro, tenendosi fuori da una bega che rasenta il ridicolo considerando che un rappresentante della Cgil dell’OdR è il cognato di De Martino, cioè del direttore del personale nonché sovrintendente.
Il tutto è avvenuto con un Consiglio d’amministrazione eufemisticamente complice, che oltre a De Martino e Vespa vede la presenza di Jole Cisnetto, Giancarlo Cremonesi nonchè Salvatore Bellomia e Enzo Ciarravano, due rappresentanti, spiace dirlo, nominati da Giulia Rodano, assessore alla Cultura alla giunta regionale di centrosinistra presieduta da Marrazzo. Gli unici a inarcare il sopracciglio su tanto sfascio sono stati i revisori dei conti.
Le ragioni per un radicale cambiamento all’Opera di Roma dunque ci sono tutte, ma lo strumento del commissariamento lascia perplessi, tanto che sono al vaglio altre soluzioni. Le cose fin qui dette erano note e le abbiamo anche scritte: come accade negli altri paesi europei e in Italia alla Scala, cosa avrebbe impedito già da luglio di designare un nuovo sovrintendente che, in sintonia con le indicazioni delle giunte comunale e regionale appena insediate, mettesse a punto con anticipo le strategie da attuare alla scadenza dell’attuale direzione, cioè dal prossimo 4 dicembre? Dal Campidoglio si invoca una «discontinuità» che forse dovrebbe iniziare fuori dal teatro, perciò seguire la stessa strada percorsa cinque anni fa da Alemanno invocando l’intervento del Ministero (Mibac) con un commissariamento, può generare il sospetto di scarsa capacità di iniziativa.
I commissariamenti del resto sono alla base di annosi problemi per molti teatri italiani e talvolta origine della stessa loro rovina: ricordiamo i fondi pensione del San Carlo di Napoli e del Carlo Felice di Genova; consideriamo l’ultimo commissariamento all’OdR che ha dato la stura all’attuale situazione; rammentiamoci di Giampaolo Cresci, il sovrintendente che agli inizi degli anni ’90 aveva accumulato un enorme deficit e che venne nominato commissario di se stesso, con il risultato di ulteriori deficit divenuti la base dell’attuale debito; concludiamo con le recenti sventure del Maggio Musicale iniziate proprio da un commissariamento. E gli esempi potrebbero essere molti altri.

Corriere 21.11.13
Il traduttore è uscito dall’ombra
Bookcity celebra la nuova qualità
Quattro giorni per il mestiere più trascurato (e riscoperto)
di Cristina Taglietti


Il traduttore non è più un fantasma. Almeno per i quattro giorni di Bookcity, uno dei «mestieri del libro» più importanti (e trascurati) della filiera editoriale si prende il suo spazio. Sui palcoscenici milanesi si danno appuntamento i più noti e apprezzati traduttori italiani, da Ilide Carmignani a Daniele Petruccioli, da Martina Testa a Yasmina Melaouah. Si parlerà di come si diventa traduttori, di che cosa significhi tradurre i classici (con il poeta Milo De Angelis), delle sfumature (lessicali) del giallo. Mentre molti editori, da Einaudi a Voland, propongono classici della letteratura in nuove versioni, a Bookcity il traduttore risponde, racconta, insegna offrendo l’occasione di fare il punto sulla professione. Si comincia oggi, al Dipartimento di lingue della Fondazione Milano con la prima delle lezioni aperte. A condurla Bruno Osimo scrittore (Dizionario affettivo della lingua ebraica , Marcos y Marcos) , teorico della traduzione (ha scritto saggi e manuali, traduttore dal russo e dall’inglese: Cechov, Tolstoj, Steinbeck, Spender, da poco sono usciti da Voland Racconti di Odessa di Babel’).
Osimo su questo mestiere ha un’idea precisa: «Credo che stia succedendo qualcosa di simile a quello che è successo in campo enologico. Fino a qualche tempo fa la maggior parte delle persone non sapeva distinguere un vino nel cartone da un Brunello di Montalcino. Allo stesso modo spesso gli editori pensano che il lettore non sia in grado di distinguere una buona traduzione da una cattiva e puntano soltanto a pagarla il meno possibile. Con il risultato che persone che lavorano da venti o trent’anni si vedono rimpiazzate da giovani, magari loro allievi, che, anche giustamente, accettano tariffe da fame. Rispetto a questo tema ci sono i lamentosi e quelli, come me, che invece pensano che si debba lavorare sulla qualità. Come i vinificatori sono riusciti a imporla anche per il vasto pubblico, così possiamo fare anche noi». Di certo di traduzione non si vive. «Era possibile quando io ho iniziato, nel ‘ 78. Ho mantenuto una famiglia con due figli, oggi non si può più. Io infatti insegno e scrivo libri, attività che, rispetto alla traduzione, è anche più remunerativa».
Se dal punto di vista del riconoscimento economico la situazione è difficile, secondo Franca Cavagnoli, scrittrice e traduttrice dall’inglese (la indirizzò Pontiggia), in particolare di autori della letteratura post-coloniale (Coetzee, Naipaul, Mansfield, ma anche Francis Scott Fitzgerald) «oggi c’è un maggiore riconoscimento del nostro lavoro, da parte di critici e recensori. Siamo meno invisibili, anche se, per i più giovani, le condizioni di lavoro sono davvero difficili». Cavagnoli, che tiene corsi alla Statale e alla Fondazione Milano, crede molto all’insegnamento della teoria che, però, deve andare di pari passo con il confronto con il testo. Domenica parlerà della traduzione dei Racconti di Francis Scott Fitzgerald fatta per Feltrinelli: «Dopo Il grande Gatsby mi avevano chiesto Tenera è la notte , ma non riesco più a lavorare su testi molto lunghi, a tenermi dentro, per tanto tempo, tutti i rimandi, le isotopie. È come aver dentro un teatro molto affollato, è faticoso da un punto di vista psichico. Così ho controproposto questa raccolta che dovrebbe affiancare all’immagine classica di Fitzgerald cantore dell’età del jazz, quella, più malinconica, di cantore dell’età del blues. È un progetto a cui tengo molto, ho affidato la traduzione agli studenti migliori degli ultimi anni, di cui io poi ho fatto la revisione. È stato un modo molto utile e interessante di unire la pratica e la teoria».
Quello che è certo è che oggi lo spirito delle traduzioni è cambiato e, come dice Osimo, lo slogan francese «belle e infedeli» che sostanzialmente promuoveva l’invadenza della voce del traduttore su quella dello scrittore, è superato. Rigore e attenzione estrema al testo è il punto di partenza indispensabile anche per Cavagnoli: «Io devo capire fino in fondo il testo, scavare nella lettera, cogliere l’intenzione. Per me è molto importante che sia il lettore ad avvicinarsi all’autore, non viceversa».
Cercare un «punto di equilibrio tra fedeltà e bellezza» è quello che ha fatto anche Laura Frausin Guarino, da quasi quarant’anni traduttrice dal francese, mestiere a cui è arrivata attraverso Vittorio Sereni, suo professore di italiano al liceo, che la introdusse in Mondadori. Frausin Guarino ha cominciato con la saggistica (Foucault, Baudrillard) ma ha tradotto anche molta narrativa, soprattutto Simenon e ora Némirovsky. Con Adelphi ha un rapporto quasi esclusivo: «I loro tempi sono i tempi del traduttore, sanno quali autori sono nelle mie corde e quali no». Simenon è sempre una sfida: «Ha una scrittura apparentemente semplice, le sue frasi sono scandite, è capace di descrivere un’atmosfera, un personaggio, un odore, con una parola, un aggettivo,ma quando si tratta di trovare un equivalente sintattico in italiano è molto meno facile. Non è possibile sovrapporsi all’autore pensando di essere originali. Bisogna essere fedeli, anche alla punteggiatura, perché dietro c’è un pensiero».

Corriere 21.11.13
Michela Marzano: interrogare l’amore per capirne (anche) i limiti
di Elvira Serra


«Ancora un libro sull’amore? Per cortesia, scriviamo d’altro. E poi, che vuol dire un libro sull’amore? Un romanzo? Un saggio?». Non ha torto Michela Marzano quando ammette che «non si dovrebbe mai dire agli amici quello che si vuole scrivere prima di avere cominciato a farlo». Soprattutto su un tema così insidioso come l’amore, universale, sì, ma tanto, tanto personale. Perché «non si può parlare di amore se non si parte da sé, dalle proprie esperienze, dal proprio vissuto». E perché «l’unico amore che valga veramente la pena di essere raccontato è quello quotidiano, reale, concreto».
E allora sia, senza risparmiare niente, senza paura di essere banali, di dire troppo, o troppo poco. Nel suo L’amore è tutto: è tutto ciò che so dell’amore (Utet, pp. 206, e 14) che già dal titolo preso in prestito da Emily Dickinson rivendica uno sguardo personale e assoluto, Marzano parte da bambina, da quando l’amore lo sognava, era un principe, possibilmente vestito d’azzurro e in calzamaglia, ed era certa che lui sarebbe stato capace di riparare tutto.
Una scelta coraggiosa, l’ammissione del romanticismo di fondo, perché ritorna spesso, nelle pagine del libro, ogni volta che l’autrice dà voce alla bambina che è in sé, non la censura, le dà diritto di asilo e la difende, comprendendone volta per volta le paure e i vuoti di allora, che sembrano reali anche adesso.
Il racconto si snoda sui progressi e le retrocessioni nella storia d’amore con Jacques, cominciata in sordina, quasi senza importanza, ma già con delle aspettative precise. «Vorrei che durasse per sempre». Leggiamo dell’attesa, dell’idealizzazione, dei sorrisi e dei distacchi, di una donna «matta e capricciosa», ma in fondo solo «piena di paure e insicurezza», senza la vergogna di chiedere «mi ami, ma quanto mi ami?», perché c’è un’onestà di fondo, in questo saggio, ed è che le domande che si pone Michela Marzano ce le poniamo tutte, è inutile fingere il contrario.
Dai dialoghi con se stessa — i più duri — la protagonista passa a quelli con i suoi follower di Twitter, ai quali chiede cosa succede #quandolincantesimosispezza oppure cosa risponderebbero loro a chi chiede mi ami #matantoquanto: segue un percorso, e non lo fa da sola, si confronta. La prima nuova consapevolezza arriva quando scopre che i dubbi e le imperfezioni fanno parte dell’amore. «C’è stato un tempo in cui la contraddizione non la sopportavo. Pensavo che nell’amore si dovesse andare sempre d’accordo e che la critica fosse l’inizio della fine. Pensavo che amare significasse pensare e volere esattamente le stesse cose». Ma con Jacques impara ad accettare che quando si ama una persona, la si ama per quello che è. Ed è una scoperta incredibile, lo confessa lei stessa: «Ma come fa ad amarmi? Come fa a sopportarmi? Faccio fatica anch’io».
Non mancano momenti duri, di grande solitudine, con la domanda ricorrente sul figlio che non c’è, mentre Jacques li ha, i suoi, e ha una ex moglie che avrà sempre diritto di accesso alla vita dell’ex marito, che entrerà a gamba tesa nei weekend di lui e Michela più che altro per rabbia, perché non ha più quell’amore che ha fatto di tutto per meritare mentre l’altra lo ha ottenuto senza fare niente.
È un altro libro sull’amore, è vero. Ma siamo sicuri che qualcuno possa aver detto l’ultima su questo tema? Michela Marzano ne parlerà con i lettori a Bookcity domenica alla Società d’arti e mestieri di Milano (ore 14,30). Chi è stufo del tema, abbia il coraggio di dirlo lì.

Repubblica 21.11.13
Scissione
L’irresistibile tentazione della divisione politica
La nascita della formazione di Alfano, la secessione dal partito di Monti.
Tra lotte di potere e battaglie ideologiche ecco perché nel Palazzo spesso prevalgono le pulsioni centrifughe
di Sebastiano Messina


Quella che una volta era la malattia infantile del socialismo ha finito per contagiare anche la destra postfascista e poi il centro dei moderati
Fedeli alla teoria secondo cui più si è piccoli e più si è vicini alla purezza dell’essenza tengono regolarmente comizi e congressi movimenti dello 0,1%

Il segreto di ogni scissione, in politica come in fisica, è che la rottura dei legami che tengono insieme un atomo o un partito genera sempre nuova energia, rivoluzionando lo scenario esistente e disegnandone uno nuovo. Ma la vera differenza, tra le scissioni consumate a Montecitorio e quella sperimentata nei laboratori del “progetto Manhattan” è che dalla scomposizione di una delle mille sigle della politica italiana non è mai nata una bomba atomica, ovvero un superpartito che radesse al suolo tutti gli altri, trasformando miracolosamente le amarezze private della rottura in una irresistibile forza della novità.
Perché è vero che senza scissione non c’è vita, è vero che la storia della politica è piena di felici scissioni – a cominciare da quella del Partito Operaio Socialdemocratico Russo, che con la rottura tra bolscevichi e menscevichi fu all’origine della rivoluzione russa e dell’Unione Sovietica – eppure nel-l’Italia repubblicana le scissioni di partito sembrano aver preso in prestito l’omotetia dei frattali, quelle figure geometriche caratterizzate dal ripetersi sino all'infinito di uno stesso motivo su scala sempre più ridotta.
E col tempo, lo scissionismo che una volta era la malattia infantile del socialismo ha contagiato anche la destra postfascista e poi il centro dei moderati, fino al Nuovo Centro Destra appena battezzato da Angelino Alfano dopo la rottura con il “genitore A” della sua carriera politica, Silvio Berlusconi: un’altra scissione capace di generare nuova energia, se è vero che nei sondaggi la somma dei due nuovi partiti supera la percentuale dell’ormai sepolto Pdl.
È una storia che per quasi mezzo secolo – con l’unica eccezione della scissione socialdemocratica di Palazzo Barberini, che portò i socialdemocratici di Saragat nell’orbita del governo – non ha mai riguardato chi aveva le chiavi del Palazzo: nessuno si sognò mai di organizzare una scissione della Democrazia Cristiana, anche perché il suo segreto era quello di includere, assorbire, digerire e inglobare tutte le mille anime del moderatismo italiano.
La destra, al contrario, ha cominciato presto a fare i conti con le scissioni. In principio fu Democrazia Nazionale, una corrente che si fece partito agli ordini del demiurgo Ernesto De Marzio. Non andò bene, e la scia di quel movimento finì dentro la capiente pancia della Dc. Ci vollero altri vent’anni, prima che a destra qualcuno osasse pensare a una nuova scissione, e questa volta dalla parte opposta: accadde nel 1995, quando Fini seppellì coraggiosamente il vecchio Msi e alla sua destra si staccò la costola degli irriducibili, guidati dall’orgoglio fascista di Pino Rauti. Ma neanche il suo partitino, il “Movimento Sociale – Fiamma Tricolore” che riprendeva quasi interamente il nome e il simbolo appena archiviati da Alleanza Nazionale, ebbe la fortuna sperata (fermandosi allo 0,39 per cento alle politiche del 2001).
E siccome in politica, a differenza di quanto accade nella vita quotidiana, dalle sconfitte s’impara solo a sbagliare meglio, quando Rauti si accorse di essere minoranza anche nel suo nuovo partitino, fece un’altra scissione e fondò il Movimento Idea Sociale, di cui sono poi perse le tracce. Gli altri, quelli rimasti sotto la Fiamma Tricolore, si coalizzarono con Alessandra Mussolini sotto una nuova bandiera, Alternativa Sociale. Poi, dopo aver tentato l’alleanza con Berlusconi, ma senza riuscire a ottenere neanche un parlamentare, si sono fusi con La Destra – a sua volta nata dalla seconda scissione di Alleanza Nazionale, quella guidata dall’ex portavoce di Fini, Francesco Storace – quindi si sono scissi un’altra volta. E ancora oggi, fedeli alla teoria per cui più si è piccoli più ci si avvicina all’essenza, tengono regolarmente congressi e comizi, saldamente attaccati alla loro particella subatomica di consensi: 0,1 per cento, l’ultima volta.
E gli altri, quelli di Alleanza Nazionale, che nel 1996 aveva il 15,6 per cento? Anche loro hanno continuato a scindersi. Dopo la fusione nel Pdl berlusconiano, Meloni e La Russa se ne sono andati per creare Fratelli d’Italia, mentre Fini aveva già rotto col Cavaliere («Che fai, mi cacci?») per fondare Futuro e Libertà (dovendo a sua volta subire una nuova scissione, quella di Urso e Ronchi).
Incurante dell’irresistibile forza centrifuga che spappola ogni sigla, anche e soprattutto al centro, gli ex democristiani continuano invece a inseguire il sogno del Grande Centro. E lo fanno, instancabilmente, continuando a separarsi. Dopo il Bing Bang scudocrociato del 1993 ci fu il divorzio tra il Ppi di Martinazzoli e il Ccd della coppia Casini-Mastella. Ma poi dal Ppi si staccò il Cdu. E dal Ccd si sganciò il Cdr. Per formare, con la benedizione di Cossiga, l’Unione Democratica per la Repubblica. Un’unione breve, prestissimo disintegrata da nuove scissioni: Buttiglione (Cdu) e D’Antoni (Democrazia Europea) se ne andarono con il Ccd di Casini per formare un’Unione di destra (quella “dei Democratici Cristiani”) che finì sotto il tetto della Casa delle Libertà, mentre Mastella portò la sua Unione (l’Udeur) dalla parte opposta. Poi anche D’Antoni passò con Prodi, e Casini ruppe con Berlusconi, galleggiando al centro fino a fondere la sua Udc nella Scelta Civica di Monti. Uscendone, l’altro ieri, con una nuova scissione. Per continuare a sognare, di scissione in scissione, il superpartito a prova di scissione.

Repubblica 21.11.13
Da Livorno alla nascita del Pd
Il vizio antico della sinistra
di Massimo L, Salvadori


In Italia la spinta prevalente al frazionamento è venuta dalle forze più radicali
Il risultato è che nel nostro paese non si è mai avuta una rivoluzione e allo stesso tempo le correnti riformiste sono storicamente deboli

Quella della sinistra europea è una storia di molte scissioni, ma la sinistra italiana detiene in questo campo il primato assoluto. La molla di gran lunga prevalente dello scissionismo è stata la convinzione che occorresse affermare un più alto “tasso di sinistra”. Più debole, se pur presente, la molla che ha spinto alla divisione le componenti più moderate.
Ecco le tappe cruciali dello scissionismo nella storia della sinistra italiana: nel 1912 l’ala rivoluzionaria del Partito socialista, guidata da Mussolini, espelle quella che costituirà il Partito socialista riformista; nel 1921 la corrente comunista si stacca dal Partito socialista e dà vita al Partito comunista d’Italia; nel 1922 i riformisti espulsi dal Psi formano il Partito socialista unitario; nel 1947 Saragat abbandona Nenni e crea un proprio partito; nel 1964 la corrente contraria all’ingresso del Psi nell’area di governo reagisce facendo nascere il Psiup; nel 1969 il Partito socialista unificato, sorto dalla confluenza di socialisti e socialdemocratici, si scinde nuovamente. Il crollo del sistema partitico nei primi anni ’90 dà inizio ad una nuova stagione dello scissionismo nella sinistra. Nel 1991 lo scioglimento del Pci che porta la maggioranza a formare il Partito democratico della sinistra induce la minoranza a organizzarsi nel Partito della rifondazione comunista, da cui nel1998 si stacca la frazione che diventa il Partito dei Comunisti Italiani; nel 2007 al lancio del Partito democratico – che si innesta sul tronco del Pds e dei Democratici di sinistra – fa seguito, per reazione a quella che viene considerata un’involuzione moderata, la nascita della Sinistra, l’Arcobaleno, nucleo originario di Sinistra, Ecologia e Libertà.
È dunque lunga la vicenda delle scissioni nella sinistra italiana. Naturalmente, la fredda cronologia che precede non spiega nulla della logica e dei contenuti che l’hanno animata. In estrema sintesi si può dire questo. Ribadito che la spinta di gran lunga prevalente è venuta dalle correnti antiriformistiche, occorre sottolineare che lo spirito che ha costantemente animate queste ultime è stata l’opposizione intransigente all’ordine politico e sociale costituito, l’inseguire un fine di mutamento rivoluzionario o quanto meno radicale che ha sistematicamente cozzato contro le barriere vincenti del moderatismo quando non della reazione. Sennonché, come ben noto, la storia d’Italia si è caratterizzata – unico caso in quella dei maggiori paesi europei – per non aver conosciuto alcuna rivoluzione e neppure aver visto entrare in azione seri movimenti rivoluzionari superando la sfera ideologica. Ma, se le correnti ispirate a un’ideologia rivoluzionaria non hanno raggiunto il loro scopo, hanno però avuto un ruolo determinante nella generale sconfitta del riformismo sia socialdemocratico sia “democratico-borghese”. Un bilancio su cui riflettere.
E ora una domanda: è finita la spinta allo scissionismo nella sinistra italiana? Premesso che il Partito democratico – il quale nel dibattito pubblico attuale continua ad essere correntemente indicato come il maggior partito della sinistra – in effetti è una formazione che, da quando nata, è stata caratterizzata e travagliata dalle molte e irrisolte diatribe circa il suo essere o non essere propriamente di “sinistra”, a guardare alle sue divisioni interne si è indotti quanto meno a dubitare che una scissione al suo interno, promossa vuoi da chi vuole più sinistra e vuoi da chi essere di sinistra non lo vuole per niente, sia in futuro da escludersi.

Repubblica 21.11.13
Psicologia della separazione
Se l’identità è un’ossessione
La salute mentale di un individuo, e lo stesso vale per i gruppi e le istituzioni
di Massimo Recalcati


La salute mentale di un individuo, e lo stesso vale per i gruppi e le istituzioni, non consiste nel sopprimere le diverse istanze che contiene in sé ma nel saper dare a ciascuna un ruolo equilibrato

La grande sovversione psicoanalitica del soggetto consiste nel mostrare che l’Io, come affermava Freud, non è padrone in casa propria ma è una unità strutturalmente scissa. Il soggetto non coincide – come voleva tutta una tradizione che discendeva da Cartesio – con il cogito,ma è abitato da più istanze.
Esso appare come un parlamento nel quale vi sono partiti rappresentanti di diversi interessi: morali, pulsionali, cognitivi, critici, erotici, vitali, aggressivi. La salute mentale non consiste nella presenza della monarchia assoluta dell’Ego ma nel comporre una sintesi efficace delle istanze promosse nel proprio parlamento interno. In questo senso per Freud la psicoanalisi era un’autentica esperienza di democrazia. La scissione tra i diversi partiti che compongono il parlamento interno deve essere ricomposta dal soggetto in un equilibrio che non è mai assicurato una volta per tutte. Anzi, si potrebbe aggiungere, che la malattia mentale è legata all’impossibilità di trovare un punto di accordo tra le diverse istanze che compongono la personalità psichica perché una di queste si vuole imporre sulle altre costringendole a rimuovere la loro voce.
Ne deriva che la salute mentale di un individuo – ma si potrebbe benissimo allargare il concetto al funzionamento dei gruppi e delle istituzioni – non consiste nel sopprimere le diverse istanze di cui è costituito il soggetto ma nel saperle articolare tra loro in modo sufficientemente flessibile. Quando invece questa flessibilità – “plasticità” per Freud – viene meno si produce malattia, irrigidimento paranoico, intossicazione, patologia identitaria. Al posto di una vita psichica positivamente democratica si produce un rigetto violento delle “istanze di minoranza” che vengono espulse, bandite, allontanate dal soggetto. Si tratta di una espulsione violenta che anziché nutrire il dibattito interno del soggetto (di un gruppo o di una istituzione), finisce per generare una sorta di identità separata, alienata nella quale si cristallizzano, in una modalità scissionista, quelle parti interne del soggetto che questi non è più disposto ad ascoltare e a riconoscere come parti proprie.
La paranoia costituisce da questo punto di vista il regime più puro della scissione. In essa l’annullamento della scissione interna genera la scissione come espulsione, separazione di parti psichiche da sé e una loro proiezione verso l’esterno. Per questo la clinica psicoanalitica ci insegna che il nemico ha assai frequentemente il volto del simile e che l’odio più feroce e rabbioso di divora i fratelli, poiché l’oggetto massimamente detestato e rifiutato esprime la parte di noi stessi alla quale abbiamo tolto il diritto di parola. Nella vita dei gruppi tutto questo è massimamente evidente: quante volte la lotta contro un nemico esterno offre la ragione della propria stessa identità e garantisce il compattamento dei legami interni? È quello che accade in ogni forma di razzismo, compreso quello omofobico. La nostra identità deve essere preservata dalla contaminazione con l’altro. Ma questo altro in realtà non abita in un continente straniero ma in noi stessi.
Ne consegue una legge generale: più si è flessibili verso se stessi e più tolleranti si è verso l’altro e più la democrazia interna ed esterna si arricchisce di contributi. Più, al contrario, si espellono i traditori, gli indegni, i reietti, gli impuri, gli oppositori interni, più, insomma, si rifiutano le voci che animano il dibattito interno e più, inevitabilmente, si utilizzerà la scissione come manovra difensiva incoraggiando meccanismi fatali di irrigidimento paranoico dell’identità.

Repubblica 21.11.13
Dialogo con lo psichiatra Vittorio Lingiardi sull’ultimo episodio della saga di Edward St Aubyn “Un trattato sulla violenza e i disturbi della personalità”
Bambini smarriti
Casa Melrose, l’inferno si nasconde in famiglia
di Natalia Aspesi


E’ uscito in Italia per Neri Pozza (pagg. 208 euro 16) l’ultimo episodio della saga I Melrose di Edward St Aubyn (in tutto sono cinque volumi il primo è stato pubblicato da Einaudi). Lo scrittore britannico presenterà il romanzo a “Bookcity” a Milano domenica 24 novembre alle 10,30 nella Sala Viscontea del Castello Sforzesco
Il Venerdì in edicola domani dedica sei pagine a Stephen King con un’intervista in cui lo scrittore, che esce con il sequel di Shining, svela paure, manie e ossessioni

Quale vita sconnessa e disperata deve trascinare un uomo che ha conosciuto bambino la furente crudeltà di un padre, che a pochi mesi lo ha circonciso per puro sadismo sul tavolo di cucina, a tre l’ha buttato in piscina per vedere se riusciva a non annegare, lo ha regolarmente picchiato con una pantofola, ha goduto della sua sofferenza tenendolo sospeso per le orecchie e a cinque anni l’ha violentato: un bambino nato da uno stupro, da una madre umiliata, terrorizzata quanto lui da quell’altezzoso, vecchio assassino? Lo racconta Edward St Aubyn ne I Melrose, quattro romanzi pubblicati insieme l’anno scorso, il quinto e ultimo in libreria in questi giorni con il titolo italianoLieto fine.Vittorio Lingiadi, psichiatra e psicoanalista, docente di valutazione clinica e diagnosi alla Sapienza di Roma, ha letto tutta la saga e dice: «Mi ha colpito la capacità dell’autore di raccontare con prosa meravigliosa e humour crudele, il percorso disperato, insostenibile, di un uomo che cerca di liberarsi dall’orrore di un’infanzia devastante: alcune pagine sembrano le sedute di un lungo viaggio psicoanalitico. Il titolo italiano Lieto fine non mi sembra rispecchiare il significato più profondo di quello inglese, At Last, un “Finalmente” che contiene un’idea di compimento, una possibile pacificazione del protagonista con se stesso e il proprio passato».
Patrick Melrose, nell’ultimo e conclusivo romanzo, si avvicina ai 50 anni, ha assistito alla cremazione della vecchia madre, torna nel suo monolocale dove tenta di sopravvivere in solitudine e tormento, dopo essersi separato dalla moglie e dai suoi due amati bambini: legato ai farmaci che lo allontanano dal delirium tremens e dalle allucinazioni, è uscito da poco da una clinica per disintossicarsi dall’alcol e sottoporsi a terapia di gruppo assieme ad altri aspiranti suicidi. Davvero una ferita, sia pure orribile, dell’infanzia, è incancellabile, o si finisce con venirne a patti? «L’abuso infantile entra nella memoria del corpo lasciando tracce psichiche indelebili. L’adulto che fa violenza a un bambino ferisce irreparabilmente i sistemi di attaccamento e fiducia, e distorce lo sviluppo della personalità. Il trauma infrange l’idea di una base sicura e tradisce il senso dell’accudimento: il genitore da cui ti aspetti protezione è lo stesso che minaccia la tua sicurezza, i tuoi confini, la tua integrità. Ti trovi a dipendere da chi ti fa del male e passerai la vita a fare i conti con gli effettidi questo legame interiorizzato».
L’adulto sessantenne che tortura e violenta il piccolo Patrick è suo padre, che a un certo punto si chiede cinicamente se con i suoi amici aristocratici «ci si poteva vantare di un atto nel quale si sommavano incesto, omosessualità e pedofilia». La figura del padre-nonno torturatore si è vista nel doppiamente premiato alla Mostra di Venezia, film greco, Miss Violence, in cui le vittime del despota incestuoso sono la figlia e le figlie nate da quell’incesto. Ma anche in questi giorni, in televisione sulla Effe, nella bella fiction danese Borgen, il giovane assistente del primo ministro ricorda la sua infanzia umiliata da un padre violentatore. Del restonel 1998 dalla Danimarca era arrivato lo sconvolgente film Festen, in cui finalmente un figlio adulto rivela le nefandezze del padre di cui la ricca famiglia altoborghese sta festeggiando il compleanno. E lo stesso anno, nell’americano Happiness un padre sfoga la sua pedofilia sui piccoli amici dell’amato, intoccato figlioletto. Dice Lingiardi: «Inevitabilmente abusi e violenze si consumano in contesti patologici dove un genitore agisce e l’altro finge di non sapere. La saga dei Melrose è un trattato sui disturbi della personalità: il narcisismo sadico del padre, il masochismo della madre, la disregolazione borderline di Patrick che cerca di sedare angosce violente con droghe, alcol, sesso».
Edward St Aubyn (che sarà a Milano il 24 novembre per presentare Lieto finea Bookcity) è un bell’uomo poco più che cinquantenne, cortese e freddo, molto british upper class: la sua aristocratica famiglia risale alla conquista normanna, i suoi amici si chiamano Rothschild, Guinness, Spencer, ma anche Will Self e Alan Hollinghurst. Come Patrick Melrose (nel primo romanzo, Non importa) anche St Aubyn ha avuto una madre fragile, di ricca famiglia americana, ed è stato violentato dal padre dai 5 agli 8 anni, quando è riuscito, piccolo eroe solitario, a ribellarsi. Come Patrick (inCattive notizie), a 16 anni ha cominciato ad assumere cocaina, eroina e ogni droga possibile: a 25 ha tentato il suicidio, a 28 ha capito che doveva cercare aiuto nella psicoanalisi. Nei suoi romanzi ci sono scene, dice Lingiardi «che uno psicoterapeuta riconosce come tipiche descrizioni dell’esperienza traumatica, per esempio quando, durante l’abuso, Patrick-Edward si rifugia nella dissociazione, la fuga quando non c’è via di fuga, e “assiste” dall’alto alla violenza che lui stesso subisce, o “diventa” il geco vicino alla finestra, che crede di salvarsi scomparendo dietro il muro».
Quando è riuscito a cominciare a scrivere, come aveva sempre voluto, St Aubyn ha interrotto la psicoanalisi, anche se secondo Lingiardi «lui non si cura scrivendo, ma scrive perché è riuscito a curarsi, e così celebra lo strumento che lo ha aiutato a salvarsi: la competenza autobiografica e la capacità di narrare gli stati mentali propri e altrui». In tutti e cinque i romanzi le donne sono terribili, troppo ricche e avide, troppo vanesie e sprezzanti, troppo fragili e infelici, troppo dominatrici o troppo dominate. «Mi hanno colpito le figure opposte delle due madri: Eleanor, la madre di Patrick, prigioniera della relazione sadomasochistica con il marito, non riesce ad occuparsi del figlio e disperde la sua odiata ricchezza in ingannevoli iniziative diseredando il figlio che pure ama. E Mary, la donna che Patrick sposa e a cui chiede quell’amore materno che lui non ha conosciuto, ma che lei finisce inevitabilmente per rivolgere ai loro due figli (Latte materno)». IlLieto finedi una vita così angosciata è credibile? «Sarà una telefonata: non penso come happy ending, ma come primo atto “autonomo” dopo la sepoltura interiore dei propri genitori. Il lettore-analista può crederci o dubitarne». O sperarlo, come Patrick, o forse come St Aubyn.

Repubblica 21.11.13
Scalfari: “Io, Calvino e la nostra banda”
Il ricordo dello scrittore dall’amicizia al liceo alla collaborazione con “Repubblica”
di Raffaella De Santis


Gli anni del liceo a Sanremo, le discussioni insieme intorno ai libri, le prime ragazze, gli scambi epistolari. Così Eugenio Scalfari ha ricordato ieri alla Facoltà di Lettere e filosofia della “Sapienza” a Roma la sua amicizia con Italo Calvino, iniziata durante le scuole superiori e andata avanti per tutta la vita. Il fondatore diRepubblica è intervenuto alla presentazione delBollettino di italianistica dedicato a Calvino (Per Italo Calvino, Carocci), un’antologia di saggi critici che indagano nell’officina letteraria di uno degli scrittori più tradotti del ’900, frugando tra le sue lettere, nei suoi archivi e anche nella biblioteca privata. «Eravamo quasi coetanei, Calvino era più vecchio di me di qualche mese. Lui era un saturnino che avrebbe voluto essere un mercuriale e io un mercuriale che avrebbe voluto essere un saturnino », ha detto Scalfari. E poi le tappe di un’amicizia: il primo incontro al liceo Cassini di Sanremo, le serate al biliardo, lo “struscio” lungo il corso, le marce del sabato fascista: «Eravamo una gruppo di quindici amici. Con Italo diventammo i capi di quella banda. Di sera parlavamo di libri, di Montale e Ungaretti. Ci appassionammo ad Arthur Eddington, un astronomo inglese che aveva realizzato un’analisi divulgativa della fisica teorica. Altre volte disquisivamo intorno a Dio, che tra noi chiamavamo Filippo». Poi, quando al momento di andare all’università, le strade dei due amicisi dividono, inizia una fitta corrispondenza (Scalfari è l’interlocutore principale delle lettere redatte da Calvino tra gli anni ’40 e ’50 prese in esame nello studio contenuto nel Bollettino a cura di Myriam Trevisan; lettere contenute anche in un volume della Princeton University Press): in una lettera del ’45 Calvino racconta la sua Resistenza sulle montagne e in una del ’46 invita Scalfari a votare per la Repubblica in vista del referendum istituzionale, senza successo: «Pensavo che solo la monarchia potesse contrastare il Vaticano».
Ma l’incontro è stato soprattutto l’occasione per riaprire la discussione critica intorno a Calvino, in occasione dei 90 anni dalla nascita, lungo il filo rosso delle due anime dello scrittore: quella tradizionale e quella sperimentale. Ha ricordato Alberto Asor Rosa: «La ricerca del nuovo di Calvino non ha eguali nel secondo ’900 italiano». Da qui anche l’attenzione alla lingua e al problema della traduzione, sottolineata negli interventi di Paolo Di Giovine e Marina Zancan, e la disanima di Mauro Bersani intorno alla personalità antinomica di Calvino: «Un autore tragico, che procedeva per schemi ossimorici». Paolo Mauri ha ricordato invece gli anni della collaborazione aRepubblica, iniziata nel dicembre del 1979 e la vocazione di Calvino a trasformare la scrittura nel mezzo per conoscere la realtà: «Per Calvino scrivere era sempre un modo di fare politica, un modo per cambiareil mondo».

Repubblica 21.11.13
Camilleri - De Mauro, il dialetto è cosa seria
Conversazione tra il romanziere e il linguista su passato e futuro dell’italiano
di Raffaele Simone


Questo non è un libro per giovani. È un colloquio tra due grandi vecchi della nostra cultura, Andrea Camilleri scrittore e Tullio De Mauro linguista, che ragionano, discutono, argomentano della lingua che hanno vissuto (La lingua batte dove il dente duole, Laterza). Camilleri, naturalmente, ne parla da scrittore, cioè racconta della sua lingua, di quella speciale maniera siculo-italiana che ha inventato e che è diventata una sorta dikoinè tra i suoi ammiratori (e ammiratrici). A De Mauro invece sta più a cuore lo stato di salute culturale del paese, anche se ogni tanto anche lui lascia affiorare qualche vena di autobiografia linguistica. Tra le due prospettive, che si intrecciano, si incontrano, spuntano frammenti e episodi minuti (piccole storie, battute di persone illustri e no, schegge di vita) spesso di irresistibile comicità. Inoltre si costruisce, sempre più nitido, il quadro inquieto del nostro passato linguistico.
Anzitutto per quanto riguarda il posto del dialetto. «Il dialetto è sempre la lingua degli affetti» dice Camilleri, «un fatto confidenziale, intimo, familiare». Ma De Mauro lo contrasta: «A Venezia come a Palermo, quando il discorso si fa serio, si usa il dialetto». I dialoganti concordano però sul fatto che sui dialetti si è abbattuta nella storia italiana, dal fascismo in poi, una serie di attacchi che hanno finito per sfibrarli, senza riuscire a sopprimerli. Infatti (ricorda De Mauro) i dialetti esistono ancora e sono parlati diffusamente, ma non hanno più un supporto solido. Ciò che è andato perduto è «la trama di cultura materiale che era la cultura dei campi e la cultura dei mestieri». Il racconto della nostra storia linguistica recente quale affiora dagli interventi di De Mauro è del resto il racconto di una serie di sconfitte. Anzitutto quella di tutti i progetti educativi riguardanti la lingua e le capacità connesse: al fallimentare sforzo del fascismo di unificare linguisticamente il paese e di estirpare la “mala pianta” dialettale si somma lo scacco degli obiettivi concepiti a partire degli anni Settanta. De Mauro ne ricorda impietosamente gli effetti: oggigiorno «cinque italiani ogni cento sono incapaci di leggere e capire qualche parola scritta. Solo il 29% riesce a inoltrarsi nella lettura superando il secondo questionario [di alcune indagini internazionali] e a rispondere bene al terzo, quarto e quindi questionario. Il 71% non ce la fa...». Maliziosamente, Camilleri tira fuori un esempio dal linguaggio dei media: «Nei giorni del terremoto in Emilia il corrispondente [diSky Tg24] ha detto: ‘ci sono sciacalli in giro che vanno nelle case abbandonate, vuote perché la gente è scappata, a fare rappresaglia di tutto quello che trovano’». Nel dialogo i media appaiono del resto come uno dei principali avversari di una lingua di decente livello, insieme al radicato
animus burocratico del paese e la provinciale dipendenza nei confronti dell’inglese e di ogni infima moda originante da culture “forti”.
La natura della letteratura è un altro degli assi di questo intrigante volumetto. Camilleri, non a caso, ama nei Promessi sposi l’andamento cinematografico e la «narrazione visiva straordinaria». Si proclama «uno scrittore di cose» (anche se i suoi lettori sono attratti forse più dal suo linguaggio). E racconta di come si rese conto che non era l’italiano la lingua giusta per le sue storie: «Sentivo che il mio italiano aveva un respiro corto». A trovare la “sua” lingua arrivò quando, dopo aver raccontato la trama del suo primo romanzo al padre malato, questi gli suggerì di metterla per iscritto come l’aveva raccontata a lui, cioè con quel «misto di italiano e siciliano» che si usava nella sua famiglia, dove l’italiano «lo adoperavamo per sottolineare, per mettere in chiaro, per prendere le distanze, per dire ‘te lo dico una volta e per tutte’».
Ho detto all’inizio che questo non è un libro per giovani. La discussione di cui dà conto è infatti quasi per intero incentrata sul passato, recente o remoto. In questa dimensione, lo scrittore risulta per così dire più appagato del linguista: specchiandosi nel passato Camilleri ha guadagnato un linguaggio e una maniera; De Mauro invece ha dovuto registrare una serie di storiche sconfitte (circa l’alfabetizzazione, la diffusione della cultura di base, la qualità del linguaggio pubblico...). Poco o nulla si dice di quel che ci aspetta. Camilleri sembra fiducioso che le lingue di immigrazione possano arricchire l’italiano, anche se nulla finora dà conferma di questo fatto. L’emergere di nuovi ceti, nuovi media e nuovi set comunicativi, unito al degradarsi della qualità dell’istruzione e della trasmissione del sapere ci preparano sicuramente nuovi, non necessariamente affabili, modi di usare la lingua e le lingue. Che i due dialoganti abbiano deciso di non farne parola per non lasciare l’amaro in bocca al lettore?

IL LIBRO La lingua batte dove il dente duole,Laterza, pagg. 125, euro 14