venerdì 22 novembre 2013

l’Unità 22.11.13
Maurizio Landini:
«La costituente per un’Europa sociale e democratica»
Il leader della Fiom ha scritto un libro sulla crisi economica e politica di questi anni
Centralità del lavoro e Costituzione le strade per uscirne


L’idea che si possa risolvere tutto con nuove formule politiche ha stancato. Sono vent’anni che ci ripetono che ci stiamo avviando a una semplificazione del quadro politico “grazie” al sistema maggioritario e al bipolarismo, e invece assistiamo a una continua frammentazione. L’ingegneria politica e le costruzioni di nuove architetture istituzionali non hanno portato da nessuna parte, solo a una progressiva impotenza della politica. Ogni volta che qualcuno s’è posto il problema di costruire una nuova forza politica è successo che anziché una ne sono nate due o tre.
Una fase costituente serve a costruire le condizioni per la partecipazione di massa alla costruzione di un nuovo processo ispirato ai valori e ai princìpi della nostra Costituzione, che è antifascista, democratica, fondata sul lavoro e si pone l’obiettivo di estendere diritti e libertà. È su tali basi che si deve verificare la capacità di costruire la rappresentanza per un nuovo modello sociale. In Italia e in Europa.
È una proposta per le forze organizzate e i dirigenti, ma che si rivolge soprattutto alle tante persone che oggi ritengono impraticabile il terreno della politica e rivolgono il loro impegno al volontariato e all’associazionismo. Perché non è vero che questo sia ormai un paese di menefreghisti e anche il voto di protesta, come molta parte dell’astensionismo, sono una richiesta di cambiamento.
Noi oggi siamo impegnati in primo luogo nella costruzione di un sindacato democratico e nella riunificazione del lavoro, nella lotta per abbattere la precarietà e la disoccupazione e per affermare il lavoro con diritti, siamo nel pieno di una battaglia politica e sindacale, portando il contributo della Fiom a tutta la Cgil, per cambiarla e farla crescere. Così a chi periodicamente mi chiede perché non mi impegni di più in politica o più prosaicamente “perché non ti candidi” rispondo che la Fiom è già in campo da anni e grazie alle lotte dei metalmeccanici siamo diventati un punto di riferimento anche fuori dal mondo del lavoro: spesso giovani, precari, lavoratori di altre categorie e tanti cittadini ci chiedono “come si fa a iscriversi alla Fiom non essendo metalmeccanici”.
Una domanda tutta politica, che nasce da ciò che siamo stati in questi anni e che continuiamo a essere, rappresentando un punto di vista autonomo del lavoro subordinato, dando voce a chi non rinuncia ai diritti. E assumendo un’idea precisa del mondo fondata sulla giustizia sociale, sul conflitto come elemento costitutivo di ogni percorso democratico.
Oggi offriamo un contributo alla costruzione di una costituente per un’Europa sociale e democratica, e trovo assolutamente coerente farlo in qualità di segretario generale della Fiom, finché gli iscritti lo vorranno e lo statuto me lo concederà, perché questo per me è il compito di un vero sindacato confederale. Del resto, nei momenti più alti della storia della Fiom o della Cgil, ogni programma o proposta non si limitava alla contingenza o a risolvere un’emergenza: il piano del lavoro di Di Vittorio non si proponeva
“semplicemente” di dare un’occupazione a chi non ce l’aveva o di far avere un po’ di cibo agli affamati, ma attraverso il lavoro e i suoi diritti intendeva tenera aperta la possibilità di trasformare il paese e arrivare a una compiuta realizzazione dei valori della Costituzione. Da un certo punto di vista oggi siamo in una fase analoga: allora c’era da ricostruire il paese dopo la guerra: ora dobbiamo misurarci con le macerie della guerra sociale ancora in corso, che ha determinato un livello di diseguaglianze e di povertà paragonabili a quelli di un vero e proprio conflitto.
È utopia proporre una ricostruzione politica, sociale e culturale che oggi nel nostro paese può suonare come una rivoluzione? Forse, ma ci sono fasi storiche in cui senza utopia non si va da nessuna parte. Il problema è capire se nella pratica quotidiana, nella passione e nei punti di vista che mettiamo in campo, siamo in grado, qui e ora, di costruire una simile rivoluzione. Per cambiare la società e il quadro politico. Con la forza del lavoro.

l’Unità 22.11.13
Le tessere di Salerno, i carabinieri nella sede del Pd
L’Antimafia vuole acquisire documenti per l’indagine sulle tessere in bianco
Oggi i garanti del Pd decideranno sul voto bulgaro per Renzi in città
di Natalia Lombardo


Sono passaggi importanti, quelli di oggi, per il «caso» Salerno, che riguarda sia la validità dei congressi in vista delle primarie che un’inchiesta. Arriva a Roma infatti l’indagine della procura di Salerno sulle tessere del Pd (in bianco) datate 2012 e, parallelamente, la commissione congressuale del Partito democratico e il comitato di garanzia esamineranno i ricorsi sui risultati dei congressi nei circoli salernitani, che hanno visto la vittoria schiacciante di Matteo Renzi con il 71,3 per cento (sul 20% di Gianni Cuperlo). I garanti quindi decideranno se il congresso nei circoli sarà annullato e andrà rifatto, come chiedono i ricorrenti che sospettano e denunciano «brogli» e voti gonfiati, oppure no.
Sul versante giudiziario, oggi i carabinieri salernitani si recheranno nella sede nazionale del Pd a Roma, in via del Nazareno, per acquisire atti e documenti che riguardano la campagna per il tesseramento del 2012. Nei prossimi giorni dov dell’Antimafia è stata decisa dal sostituto procuratore della Dda di Salerno, Vincenzo Montemurro: l’inchiesta nasce dal ritrovamento di un bel pacchetto sospetto di tessere Pd del 2012 (prefirmate ma in bianco e senza numero di serie); la procura sta indagando sulla provenienza di queste tessere e sul loro uso, essendo state trovate in mano a un imprenditore edile di Nocera Inferiore ritenuto vicino alla camorra, il quale sembra avesse anche un elenco di nomi da «iscrivere» al Pd. Insomma, il caso potrebbe dilagare se fosse collegato a una più ampia partita di tessere.
Nell’ambito di questa inchiesta mercoledì è stato ascoltato Patrizio Mecacci, coordinatore nazionale della mozione Cuperlo, che ha denunciato la questione salernitana ai garanti del partito, mentre lunedì sarà la volta del coordinatore provinciale, il deputato salernitano Simone Valiant. «La magistratura mi ha chiamato perché ha trovato questi elementi e sta indagando, io da cittadino non posso che rispondere» per quel che sa sul meccanismo del tesseramento, spiega Mecacci, che separa la questione dei ricorsi sul voto nei circoli. Visti infatti i risultati «bulgari» per il sindaco di Firenze nella città campana, gli altri rappresentanti di lista hanno denunciato irregolarità, i cuperliani allo stesso Mecacci. Sono partiti poi i ricorsi alla commissione congressuale e al comitato dei garanti che, appunto, oggi esamineranno il voto in parte della federazione salernitana, nei circoli della città e in altri due. Dopodiché gli organismi di garanzia democratici dovrebbero decidere se annullare il congresso nel Pd di Salerno, come auspicano i sostenitori del candidato triestino, o se verrà considerato valido il voto con questi risultati. «La cosa importante è mettere in sicurezza l’8 dicembre», le primarie, spiega ancora Mecacci, «perché diventi una bella giornata di democrazia».
DE LUCA IRRIDE
Il sindaco di Salerno nonché viceministro alle Infrastrutture, Vincenzo De Luca, quasi deride i ricorrenti: mercoledì sul suo profilo Facebook (seguito da oltre 100mila persone), ha ricordato che già nel 2009 ci fu un caso di voto bulgaro nel Pd cittadino, a favore di Bersani e sempre con un 71% (in realtà l’82%). Sempre su Fb, inoltre, De Luca ha postato l’avviso di garanzia ricevuto per abuso d’ufficio e falso in atto pubblico riguardo al cantiere del Crescent, il mega albergo sulla costa: una sfida, quella del sindaco «sceriffo», che invoca la «modernità» contro «un Paese mummificato».
Sulla sfida nella città campana per la segreteria del Pd e sul sospetto di brogli, invece, si dice tranquillo il segretario della federazione Nicola Landolfi. Certo per i cuperliani rivedere il congresso nei circoli di Salerno potrebbe rimescolare le carte, anche se non arriverebbe in testa comunque. Il candidato triestino potrebbe forse recuperare circa il 2% di voti sul piano nazionale, se la consultazione venisse annullata, arrivando fino al 40%, mentre Renzi calerebbe dall’attuale 46,7 per cento.
Oltre a quello di Salerno, oggi la commissione congressuale e il comitato di garanzia esamineranno gli altri casi in cui il voto è stato contestato: il più clamoroso è a Catanzaro, dove è tutto sospeso, poi Vibo Valentia, Enna e Gela.

Corriere 22.11.13
I carabinieri nella sede pd per le tessere
Oggi la resa dei conti in commissione
Ipotesi annullamento, dirigenti divisi. E D’Alema si candida a Bari
di Alessandro Trocino


ROMA — In un ufficio, la riunione della commissione congresso del Pd. In un altro, i carabinieri del nucleo investigativo di Salerno, inviati dalla Direzione antimafia. Sarà una mattinata intensa oggi al Nazareno, la sede nazionale democratica. Nel mirino, giudiziario e politico, i voti degli iscritti pd di Salerno, finiti in massa a Matteo Renzi, grazie anche alla sponsorizzazione politica del sindaco Vincenzo De Luca.
Un caso giudiziario che imbarazza il Pd, incerto sul da farsi. Precedere la magistratura e annullare tutto o aspettare che faccia luce sui casi sospetti? Mercoledì sera la commissione congresso, spaccata, ha rinviato ogni scelta e oggi alle 12 dovrà prendere una decisione. Con l’ombra della magistratura e di quel pacchetto di tessere in bianco, datate 2012 e firmate da Pier Luigi Bersani, trovate nelle mani di un imprenditore edile di Nocera Inferiore. Che ci facevano lì? E soprattutto che uso poteva farne, dato che erano scadute? Un fatto è sicuro: nel marzo del 2013 da più parti nel Pd si era denunciata la distribuzione di un numero spropositato di tessere in bianco alle segreterie regionali. In Calabria, si dice, erano state spedite 30 mila tessere per rinnovo e ben 40 mila in bianco. Potrebbe essere accaduto lo stesso nel 2012 e le schede potrebbero essere finite in mani poco pulite.
In attesa di capirne di più, i membri della commissione dovranno decidere sui singoli ricorsi politici. Che riguardano alcuni seggi di Salerno, Atena Lucana, Eboli, Vibo Valentia (35 seggi contestati su 50), Enna e Gela. Annullamenti potrebbero arrivare, come è già accaduto per Asti e Rovigo. Difficile che si arrivi a cancellare il voto di tutta la provincia di Salerno. Sul fronte numerico, comunque, il vantaggio di Renzi nei confronti di Cuperlo rimarrebbe cospicuo. Beppe Fioroni lancia una frecciata al sindaco di Firenze: «Se ha chiesto le dimissioni della Cancellieri per una telefonata di interessamento e vuole fare il campione di moralità, forse dovrebbe rifiutare anche i voti sottoposti a un’inchiesta dell’antimafia».
Ma Renzi guarda già avanti. Uno dei rischi più temuti è l’affluenza, che potrebbe essere ben al di sotto dei due milioni preventivati. L’annuncio di Romano Prodi, «non vado a votare», era stato visto come un modo per depotenziare le primarie. Ma ieri l’ex premier ha spiegato che «non è assolutamente una decisione presa per distacco, ma solo per non condizionare». Quel che è certo è l’attivismo di Renzi, che non perde una trasmissione radio e tv (oggi sarà ad Agorà ) per lanciare i suoi messaggi. L’obiettivo del sindaco non è solo vincere, ma è conquistare il 65 per cento, che gli darebbe la maggioranza necessaria per controllare l’assemblea, e dunque la direzione e il partito.
Gianni Cuperlo, il principale rivale, preferisce concentrarsi sui temi concreti e contesta Yoram Gutgeld, spin doctor renziano: «Le pensioni d’oro vanno tagliate, ma non si incrocia una possibile ripresa tagliando le pensioni di 3.000 euro lordi». Il terzo contendente, Pippo Civati, non si sente affatto terzo: «Il congresso lo vinco di sicuro. E Renzi arriverà secondo».
Tra i sostenitori di Cuperlo, il più noto e discusso è Massimo D’Alema. Che ha deciso di candidarsi a Bari e correre per l’assemblea nazionale del Pd. Decisione non presa bene dal sindaco Michele Emiliano, renziano: «Ci sono rimasto malissimo. Pensavo che D’Alema si occupasse di cose più importanti. E comunque non vogliamo candidati catapultati». Replica dello staff di D’Alema: «Catapultato? È stato parlamentare pugliese dal 1987 al 2013 e si è candidato a Bari dall’inizio». Conclude Emiliano: «Sarà senz’altro un confronto appassionato».

il Fatto 22.11.13
Il lettiano Guglielmo Vaccaro (Pd)
“Vi racconto le fosse comuni di De Luca”
di Carlo Tecce


Guglielmo Vaccaro, politico salernitano però di Pompei, deputato democratico, corrente lettiana, s’accomoda: “Vuole parlare di Vincenzo De Luca con me? Cos’è una seduta psicanalitica? ”
Che colore associa al sindaco di Salerno?
No, non il marrone se pensa che io sia volgare.
Quale?
Il rosso.
Perché?
Il rosso sangue.
Orrore.
Perché mi rievoca le fosse comuni.
Cosa?
La fosse comuni e virtuali di De Luca, lì sono ammassati ex amici o politici che ha distrutto.
Le siamo vicini.
Io sono soltanto esiliato, io sono come Mazzini che scappa per poi tornare in patria. Ho scelto io di candidarmi nella circoscrizione di Napoli. A molti è andata peggio.
Ha un elenco?
È una strage di innocenti.
Testimoni?
L’ex sindaco Mario De Biase, sfruttato per un mandato. Un giorno De Luca gli ha detto ‘sei pettinato male’ (il protagonista non ha tanti capelli, ndr) e l’ha distrutto.
E basta?
No, possiamo continuare per ore. Alfredo D’Attore, un dirigente preparato, un talento sincero, spedito in Calabria perché oscurava il Capo di zona. Ma il regno di Vincenzo sta per finire.
Non pare così.
Mancano poche ore, vediamo nei prossimi giorni.
Fa allusioni?
No, non mi riferisco all’ultima inchiesta che lo vede indagato. Io faccio preghiere.
A chi?
A Matteo Renzi. Rappresenta il rinnovamento?
Risponda.
Sì, allora deve far commissariare il Pd di Salerno perché lì ha vinto con dei voti rubati.
Rubati?
Una città di 150.000 abitanti non può sostenere al 97 per cento soltanto un candidato. C’è qualcosa di strano.
Imbrogli?
De Luca ha prestato il partito a 4 persone che non sanno neppure manipolare per bene le schede. E poi mi appello ad Angelino Alfano.
Il ministro ascolta, prego.
Caro Alfano, devi sciogliere il consiglio comunale perché non è possibile non rispettare la legge per sette mesi: non può fare il sindaco e il viceministro .
La fatica non è uguale per tutti.
De Luca è così megalomane che, se potesse, farebbe anche il vescovo.
Forse vuole fare il governatore in Campania?
Ormai supera il ridicolo. Lo sceriffo vada in pensione.
Dice che a Salerno lo votano anche le pietre
Il populismo vince ovunque. Ogni settimana in tv recita le favole e l’editto. Ha fatto qualcosa di positivo, sì.
Esempi?
Le fontane. Per questo lo chiamano “Vicienzo ‘a funtana”. Ah ecco, un fatto inequivocabile.
Cosa?
Il Tribunale fu inaugurato da D’Alema nel ‘99: è ancora un cantiere.
In che rapporti siete?
Buoni. Mi è pure simpatico.

La Stampa 22.11.13
Indagato e capobastone
De Luca, il sindaco allergico alle regole
Ha riqualificato Salerno, ma è finito spesso sotto inchiesta
Nemico di Bassolino adesso appoggia la corsa di Renzi
di Mattia Feltri


Il doppio ruolo. Primo cittadino e viceministro
Vincenzo De Luca inizia la carriera politica nel Pci, ma sale alla ribalta nel 1993 in piena bufera di Tangentopoli diventando per la prima volta sindaco di Salerno. Carica che ricoprirà negli anni ben quattro volte. Sarà anche parlamentare per due legislature.Si è sempre definito un riformista e ha impostato il suo ruolo di sindaco sulla riqualificazione della città e sulla sicurezza. Proprio per la determinazione sulla sicurezza è stato definito «sindaco sceriffo». Sono famose le sue «ronde» insieme ai vigili urbani per contrastare il fenomeno della prostituzione sulle strade e le polemiche per lo smantellamento dei campi rom. Nonostante la sua appartenenza alla sinistra è entrato in contrasto netto con Antonio Bassolino quando quest’ultimo era governatore della Campania. Coinvolto in varie inchieste ha rifiutato la prescrizione. Il 2 maggio 2013 De Luca è stato nominato viceministro alle Infrastrutture e Trasporti del Governo Letta.

Non c’è profeta – dice Gesù nei Vangeli – che sia bene accetto in patria. A ribaltare la massima divina non poteva essere che lui, il sindaco con una così solida opinione di sé da proporre un’urna cineraria, la sua, come centro fisico e filosofico della città. Da riporre, precisamente, tracciate le circonferenze e tirati i raggi, nel punto mediano di piazza della Libertà, monumento alla gloria e ai guai di Vincenzo De Luca. La piazza in questione, affacciata sul mare di Santa Teresa a Salerno, progettata a volumetrie sovietiche, classicheggiante nella forma semicircolare del complesso Crescent a sua volta studiato per ospitare negozi, palestre e appartamenti di lusso – è sotto sequestro. Mezza Salerno è indagata: assessori, consiglieri comunali, soprintendenti. E il sindaco. Il quale, in casi simili, l’ha presa con esibito piglio immoralista: «Io sono orgoglioso. In questo Paese siamo tutti indagati, non c’è un amministratore che non abbia avuto un avviso di garanzia. Chi non ce l’ha è una chiavica». Da altre inchieste è uscito bene, e per ciò ha un’opinione articolata: «La moralità... Enrico Berlinguer... Così moriamo, fra gli applausi, ma moriamo».
De Luca ha 64 anni. E’ nato in provincia di Potenza ma a Salerno va da bimbo. Si iscrive presto al partito comunista, conosce Antonio Bassolino e con lui non si prende mai. Diventa per la prima volta sindaco nel 1993, dopo il ballottaggio, ed è rieletto nel ’97 col 73 per cento dei voti. Salta un mandato. Fa il parlamentare dell’Ulivo. Si ripresenta nel 2006 nonostante due mesi prima sia stato confermato alla Camera. Vince al ballottaggio contro mezzo mondo: destra, Margherita, parti consistenti dei Ds. E nel 2011 si avvia al quarto mandato col 74.4 per cento. Nelle classifiche dei sindaci più amati è sempre ai primi posti. Legambiente premia Salerno per la più alta qualità ambientale del meridione. E’ la città con la massima percentuale di raccolta differenziata in Italia (74 per cento) proprio nei giorni in cui la Napoli di Bassolino è la discarica urbana le cui foto girano il mondo. Da noi, si vanta De Luca, non ci sono carte per terra. E nemmeno bivacchi di immigrati né venditori abusivi: problema (quasi) risolto con l’allestimento di un mercato etnico. Di sicurezza parla così: «Io smonto i campi dei rom e me ne frego di dove quella gente va a finire». Se ci sono presidi contro le discariche, la soluzione è questa: «Vanno aperte anche con i carrarmati, è chiaro?!?». Intanto a Salerno arrivano a progettare palazzi e stazioni gli architetti superstar: Santiago Calatrava, David Chipperfield, Zaha Hadid, Massimiliano Fuksas, Jean Nouvel.
E allora? E allora il problema del miracoloso De Luca è che, appena emigra, scompare. Si fa due legislature e passa inosservato. Nel 2006 (già rieletto sindaco) compete per il titolo di parlamentare più assenteista. Nel 2010 viene battuto da Stefano Caldoro nella sfida per la Regione. Difficoltà di trasferta sublimate in una leggendaria seduta
della Conferenza Stato-Città, anno 2000, quando il sottosegretario al Tesoro, Piero Giarda, gli nega per motivi legali un aiuto economico (ne aveva bisogno per la spesa del personale). De Luca dice a Giarda tutto quello che pensa di lui: che un paese non può essere amministrato da un tizio con quelle orecchie a sventola, che se ne può andare in quel posto e conclude con considerazioni plateali sulla Madonna. Giarda, indignato o terrorizzato, chissà, prende e se ne va.
Probabilmente la disinvoltura di De Luca davanti a codici e norme è l’unico modo per avere la meglio sulla burocrazia. Si rischia. Si vive sul confine. Ma gli stessi sistemi, se applicati a vicende più ampie, rischiano di passare meno inosservati. Il suo passaggio da Pierluigi Bersani a Matteo Renzi, nel giro di un anno, è stato santificato dai numeri: gli iscritti salernitani hanno scelto il sindaco di Firenze nell’umoristica percentuale del novantasette virgola. La procura antimafia sta cercando di capire quanto c’entri il plebiscito (soliti morti che votano, elettori che si moltiplicano nottetempo) col ritrovamento di centinaia di tessere ancora in bianco. Nei prossimi giorni i carabinieri andranno alla sede nazionale del Pd per vederci chiaro. De Luca non si preoccupa, va avanti da renziano, cumulando renzianamente la carica di sindaco e quella di viceministro alle Infrastrutture, da cui magari spera di ricavare altre cose buone e giuste per la sua città. Il problema è che Enrico Letta non gli dà le deleghe sinché non si dimette da sindaco, e lui non si dimette da sindaco sinché Letta non gli dà le deleghe.

Repubblica 22.11.13
De Luca: sono impazziti perché Renzi a Salerno ha preso il 98%
“Non mi dimetto anche se indagato c’è una strategia della diffamazione”
intervista di Conchita Sannino


SALERNO — «La verità è che di fronte ai nostri risultati, c’è chi è impazzito. Sono disgustato dalla strategia della diffamazione». Vincenzo De Luca, sindaco e viceministro, finito al centro di una doppia bufera politica e giudiziaria, difende con parole pesanti, com’è suo costume, se stesso e Matteo Renzi.
Quando c’era un «modello Salerno», amato anche da Bersani, lui lo incarnava. Ora che c’è un «caso Salerno», fatto di veleni incrociati e tessere gonfiate, di accertamenti dell’antimafia e di presunti brogli, lui non c’entra. Proprio oggi, alla sede nazionale del Pd, arrivano i carabinieri inviati dal pm antimafia di Salerno, Vincenzo Montemurro, per acquisire atti e documenti utili a ricostruire il percorso di pacchetti di tessere sospette del Pd, in bianco, trovate a casa di un imprenditore vicino al centrosinistra ma anche ad ambienti sospetti. Intanto De Luca risponde anche sull’ennesima inchiesta che lo ha colpito, attacca il ministro Lupi, boccia il premier per il caso Cancellieri. «Andava sostituita», dice.
Sindaco, lei èdominusa Salerno da 20 anni. Pur tralasciando l’indagine antimafia che non ha ancora indagati né reato: ma non la imbarazza il fatto che Renzi a Salerno sia arrivato a quota 98%? Può bastare la giustificazione che anche Bersani arrivò ad analoghe cifre, sostenuto da lei?
«Dominus? Di me stesso, e con difficoltà. Osservo che c’è chi è letteralmente impazzito di fronte ad un risultato congressuale nongradito. Sono disgustato da questa strategia della confusione e della diffamazione».
Chi sono i nemici suoi e di Renzi?
«Guardi, la volgarità offende chi la usa, non chi la subisce. Sanno tutti che qui c’è una realtà di Pd, fra le poche al Sud, fatta di correttezza, militanza, di tessere non gonfiate e non finte, di partecipazione. Penso di rappresentare un’esperienza fatta di risultati, rigore spartano, correttezza e trasparenza. In realtà i risultati congressuali sono figli del distacco profondo dal gruppo dirigente e da modalità congressuali demenziali».
Sì, ma a Salerno è successo qualcosa di strano...
«A Salerno ho avuto al Comune il 75 per cento dei voti fra tutti i cittadini. È immaginabile che fra i soli Pd si arrivi oltre il 90. Il problema vero non è questo: è che a votare per Cuperlo sono andati in 50. Chi li ha fermati, in un clima di assoluta serenità? E comunque, cosa è cambiato rispetto al voto identico ottenuto da Bersani? Detto questo, ribadisco che rimarrò estraneo allo spirito di crociata».
Lei è stato appena inquisito, con altri trenta, per la maxi opera “Crescent”. Un renziano può non dimettersi se indagato?
«Dimettersi se indagati? In un paese nel quale le iniziative giudiziarie durano 15 anni e si concludono nel nulla? Sarebbe pazzia, barbarie giudiziaria. Ci si dimette per condanne definitive, salvo che per ipotesi di reato infamanti».
E può tenere due cariche da circa 200 giorni?
«Quale doppio incarico? Un incarico solo. L’altro è virtuale».
Certo, lei non ha ancora le deleghe da viceministro. Che però non le assegnano perché è ancora sindaco. Un politico abituato a dire le cose con brutalità, come lei, non può nascondersi che i due ruoli siano incompatibili, punto.
«Su questa vicenda ho rispettato la legge, avviando la procedura di decadenza; altri no. È falso che non si assegnino perché sono sindaco. Una proposta me l’ha fatta già Lupi quattro mesi fa; prevedeva per me la direzione degli “Affari Statistici e Informatici”. Una provocazione. Non accetto ricatti politici. La lobby burocratico-affaristica che aleggia sul Ministerova smantellata. Chi ha deciso di svendere il Pd? E di consegnare nelle mani di una persona il più grande comparto di spesa ed investimenti del Paese? E il partito (con la P maiuscola) dov’è, cosa fa, quando interviene, quando decide?»
Solo qualche settimana fa aveva attaccato frontalmente il governo Letta. E ora? È soddisfatto dell’azione di governo?
«Chi impediva al presidente Letta di indicare, in 24 ore, un ministro autorevole e non di parte, al posto della Cancellieri? Ho sentito dire che il governo è più forte perché più compatto. Ma come si fa a non vedere il campo minato parlamentare che si prospetta?».

«il capo dei renziani in Sicilia»
Repubblica 22.11.13
In Transatlantico il recordman siciliano di preferenze chiama a sé Cuperlo: vedete che non gli creo imbarazzo?
Il panzer Crisafulli dopo il 147-0 a Matteo “Porta male attaccarmi, Bersani lo sa bene”
di Concetto Vecchio


«ECCO, lo vede quello lì: Davide Faraone, il capo dei renziani in Sicilia. L’ho allevato io, difendendolo nella lunga serie di minchiate che ha combinato, e adesso non passa giorno che non mi attacchi». Quindi Vladimiro Crisafulli, il ras delle preferenze nell’isola, lo chiama a sé: “Vieni qua, capo degli infami!».
Affossato in una poltrona del Transatlantico, circondato dal-l’affetto dei tanti amici, Crisafulli pare un pascià. Con secoli di scirocco nello sguardo si gira lentissimamente: «Noi di che dobbiamo parlare?»
Del feudo di Enna, delle polemiche per il suo 90% di voti.
«87, per l’esattezza».
Un plebiscito che suscita dubbi, sospetti.
«So che non è piaciuto, ma se la gente mi vota in massa io che ci posso fare?».
A Pietraperzia Cuperlo-Renzi è finita 147 a 0.
«Poverini, se mi telefonavano dieci voti glieli regalavo io»
Perché appoggia Cuperlo?
«Quando i miei amici mi hanno chiesto di fare il segretario provinciale io ero del tutto disincantato sulle primarie nazionali, del tutto disinteressato...».
Disinteressato?
«Disinteressatissimo... poi i renziani, dopo avermi chiesto di votare per loro, hanno cominciato ad attaccarmi: sono stati loro, con i loro insulti, a spingermi, senza volerlo, verso Cuperlo».
Può farcela?
«Più tempo passa e più ci si accorge che Renzi non è capace a fare il segretario. Non è cosa sua. Insegue i sondaggi. Guardi come si è comportato nella vicenda Cancellieri. Perché non l’ha fatta cadere?».
Sbaglio o Cuperlo prova imbarazzo per il suo sostegno?
(Sgrana gli occhi)«Imbarazzo? Il mio è un sostegno spontaneo. Tra i suoi sostenitori c’è Bersani che mi ha levato dalle liste alle politiche, facendo una bella minchiata...».
Dimentica che lei è sotto processo due volte.
«Vede, non si può stare in un partito a bagnomaria. O mi ci tengono o mi mandano via. Non ho pendenze giudiziarie, quindi non mi possono cacciare. Invece Bersani ha ceduto alle campagne di stampa».
Gli porta rancore?
«No, ma manco sostegno, tantoci ha pensato da solo a perdersi: dopo di me non gliene è riuscita bene una. E anche ai renziani suggerisco cautela: chi si mette contro di me non ha un futuro roseo. Porta male, insomma. Non so se è chiaro?»
Che fa, minaccia?
«Non sono buono neanche a minacciare i miei figli. È una considerazione». E mentre lo dice scorge in lontananza Cuperlo. Un lampo. Lo chiama: “Gianni! Gianni! Vieni qua!”
E Cuperlo arriva elegante, il sorriso educato, un fascio di giornali sotto il braccio.
«Gianni, questo nostro amico giornalista sostiene che io ti creo imbarazzo».
«Guarda, Mirello, mi hanno fatto la domanda al forum del Mes-saggeroe io c’ho messo 11 minuti per rispondere, ma credo che alla fine ho raccontato la tua storia in maniera risolutiva».
«Allora vieni a trovarci a Enna, no?».
«Vado a Catania».
«Enna-Catania sono 70 chilometri».
«Mirello, non sono padrone del mio tempo, ma farò il possibile. Sentiamoci».
«Vede - dice Crisafulli trionfante - che non è in imbarazzo?»
Lei avrebbe votato la fiducia a Cancellieri?
«Io sì. Non mi pare un problema».
Come finisce il 9 dicembre, con Renzi che fa cadere il governo?
«Non lo so, non m’interessa, però mi dispiace che nel mio partito ci si può stare solo se belli, eleganti, magri e con i giubbotti di pelle. In Sicilia diciamo come i pupiddi».
Un partito di bambole?
«Sì, ma io non me ne vado, anche se peso 110 chili».

il Fatto 22.11.13
Ufficio primarie Pd Regole e gazebo (ma si litiga altrove)
Il mail bombing, i commissari e i seggi da allestire
Ultime armi prima della sfida finale di Renzi
di Paola Zanca


Per ora lo chiamano “l’ufficio meno litigioso della storia del Pd”. Ma mancano ancora due settimane. E chissà che anche i “tecnici” incaricati di stabilire i cavilli delle primarie democratiche del 8 dicembre non facciano in tempo ad assomigliare ai grandi. Li hanno scelti giovani, tutti poco più che trentenni, per rappresentare i candidati alla segreteria e organizzare l’anagrafe degli iscritti e l’albo degli elettori. Lontani i giorni in cui Matteo Renzi finì sulla graticola perché, alla vigilia del secondo turno, comprò paginate di giornali per pubblicizzare un sito “abusivo” per la registrazione degli elettori (e i bersaniani li respinsero dai gazebo). Stavolta le primarie sono aperte. E Renzi sente già in mano il trofeo da vincitore. Eppure tante cose sono ancora da mettere a punto. A cominciare dalle liste.
La garanzia di Bari
Entro mezzogiorno di giovedì prossimo, 28 novembre, vanno consegnate le liste dei mille che comporranno l’assemblea nazionale del partito. Ma tutti confessano di essere ancora in alto mare. L’unica certezza è a Bari. E pesa parecchio. L’ha rivelata ieri il sindaco Michele Emiliano, candidato in quota Renzi. A sfidarlo, per conto della mozione Cuperlo, ci sarà niente meno che Massimo D’Alema, storico mister preferenze della Puglia. Dice Emiliano a Radio2: “Ci sono rimasto malissimo. Una persona che potrebbe fare il presidente della Repubblica o della Commissione europea, perde tempo con le primarie”. La guerra è guerra. E non si escludono altre big pronti a sporcarsi le mani.
Un giorno in Procura
La bufera sul tesseramento non si è ancora chiusa. L’altro ieri, a Salerno, il pm Vincenzo Montemurro ha ascoltato Patrizio Mecacci, coordinatore del comitato Cuperlo a proposito delle decine e decine di tessere in bianco trovate nelle disponibilità di un imprenditore di Nocera Inferiore. Ma al di là delle vicende giudiziarie (oggi i carabinieri proseguiranno le indagini negli uffici del Nazareno) le delibere della Commissione nazionale per il congresso raccontano di situazioni da caschi blu. Ad Asti hanno inviato Gianluca Lioni con il compito di “aiutare a ripristinare un clima di sereno confronto democratico”; a Rovigo dopo aver “preso atto delle difficoltà” è arrivato Gianni Del Moro; Enzo Napoli deve assicurare “un sereno sviluppo della vita del partito” a Catania; Margherita Miotto proverà a fare lo stesso a Frosinone.
Calendario e gazebo
Nel frattempo a Roma si mettono i puntini sulle i. Se delle faccende politiche più complicate si occupano i 22 della Commissione nazionale, c’è un piccolo tavolo dove provano a risolvere le questioni che lì diventerebbero terreno di scontro. Per esempio il calendario del mail bombing. Tutti i candidati hanno diritto a usufruire del database del partito: una roba come 450 mila nomi da convincere a votare per sè. Onde evitare di finire tutti nello spam, bisogna organizzare la spedizione elettronica: chi spedisce prima, da domenica al 6 dicembre? Giurano che non litigheranno sull’ultima parola, perché comunque alla vigilia del voto, arriverà a tutti un messaggio finale riepilogativo. Poi ci sono i gazebo. Spiega Domenico Petrolo, nell’ufficio tecnico a nome di Matteo Renzi: “L’anno scorso erano 9 mila: stiamo lavorando per confermare almeno lo stesso numero. Monitoriamo quotidianamente quanti seggi e gazebi si stanno allestendo e sollecitiamo i nostri rappresentanti locali per farli crescere. Dovrà essere una grande giornata di partecipazione”. Petrolo, insieme a Andrea Pacella (mozione Cuperlo, ex tesoriere dei Giovani democratici) lavora al tavolo presieduto da Vanina Rapetti (responsabile del trattamento dati per il Pd). C’è anche Mauro Chinappi per Pippo Civati. Lui si sente un po’ diverso: “Gli altri hanno tutti l’indirizzo mail del Pd, io sono iscritto al partito da agosto”. Ma niente liti.

Repubblica 22.11.13
D’Alema capolista per Cuperlo a Bari. Emiliano lo sfida: padrone decaduto
Gli altri big stanno fuori. Prodi: non voto per lasciare più liberi i giovani
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Che queste primarie avesse deciso di viverle in prima linea, Massimo D’Alema, si era capito fin dall’inizio. Gli attacchi a Matteo Renzi degli ultimi giorni, le interviste televisive prima e dopo il voto degli iscritti, e ora, la decisione di presentarsi come capolista per Gianni Cuperlo a Bari, non fanno che confermarlo. L’ex premier guiderà uno dei listini collegati al “bello e democratico”: un modo per assicurarsi un posto all’Assemblea nazionale del Pd, ma soprattutto, per non darla vinta a chi tuona contro la vecchia guardia e vorrebbe si facesse da parte.
In realtà, dirigenti come Walter Veltroni, Dario Franceschini e Pier Luigi Bersani non hanno bisogno di misurarsi nello stesso modo: sono ex segretari, un posto in assemblea ce l’hanno di diritto. Mentre pare che Franco Marini abbia deciso di rinunciare. E che altri come lui ci stiano ancora pensando. Proprio ieri, Romano Prodi precisava il senso della sua scelta di non votare alle primarie, appoggiando chi - nel Pd - cerca un nuovo corso. «Tutti hanno capito che non l’ho fatto assolutamente con un senso di distacco, ma per lasciare che ci sia una nuova dirigenza che sia libera da tutti i passati e i condizionamenti», ha detto il Professore durante un convegno a Bologna. «Come per l’Europa ho detto che bisogna pensare al futuro, così è per l'Italia. Bisogna che i nuovi leader si affermino. La palla adesso è a loro».
D’Alema, invece, corre. E la cosa pare non sia affatto piaciuta a quello che è ormai diventato il più acceso renziano della Puglia, Michele Emiliano. Ieri - su Twitter - il sindaco di Bari scriveva ironico: «#D’AlemaSiCandidaABari. Escludo però che lo faccia contro di me come scritto sui giornali. Sarà senz’altro un appassionato confronto!». Qualche ora prima, era stato molto più duro: «Sono disgustosi quelli che votano un uomo in letargo da vent’anni scriveva riferito a Cuperlo - solo per obbedire al “padrone” decaduto del partito. Se mai fosse segretario, non avrebbe alcuna autonomia da D’Alema». Tweet a parte, la campagna si preannuncia aspra: e Gianni Cuperlo fa di tutto per spostarla sui contenuti. Oggi sarà proprio a Bari, dov’era fissato da tempo un incontro pubblico con i suoi sostenitori. Ieri, ha polemizzato con le uscite del consigliere economico di Renzi, Yorem Gutgeld, che ha proposto privatizzazioni e tagli alle pensioni «da 3000, 3500 euro lordi». «Non si incrocia una possibile ripresa tagliando le pensioni di 3000 euro lordi, come ho letto oggi in qualche intervista - ha ribattuto Cuperlo - serve creare lavoro. Serve una svolta radicale delle politiche pubbliche. L’austerità uccide ogni speranza». Un concetto che ha ribadito in serata, ospite di
Servizio Pubblico insieme al leader della Fiom Maurizio Landini. Dopo aver spiegato che la caduta del governo Letta non farebbe che aprire una pericolosa «crisi al buio», il candidato democratico ha sostenuto che «la politica europea del rigore è fallita», che «il patto di stabilità è da modificare, così com’è non funziona», e che «è necessario creare lavoro anche con un’azione diretta del pubblico per rilanciare i consumi e la domanda interna». «Si può portare il rapporto deficit/pil dal 2,5 al 2,7 per cento - senza sforare il 3 - e recuperare 3 miliardi da investire in opere pubbliche sul dissesto idrogeologico», propone Cuperlo. Perché «la politica deve decidere che una delle più grandi opere deve essere quella di mettere in sicurezza il Paese. Invece di romperci la testa per trovare miliardi per cancellare l’Imu, avremmo dovuto trovare risorse per il territorio».

l’Unità 22.11.13
Via libera alle vendite di Stato
Letta vara un piano di privatizzazioni da 12 miliardi
Coinvolte otto aziende pubbliche
Cedere così l’Eni è un errore
Troppa fretta: vendere così il 3% dell’Eni è un errore
di Massimo Mucchetti


IL PIANO PRIVATIZZAZIONI ANNUNCIATO DA LETTA RISPONDE A ESIGENZE di cassa del Tesoro e non ai disegni palingenetici degli anni ’90 quando si pensava che privato è meglio, sempre e comunque. Queste ambizioni più circoscritte consentiranno un esame di merito in Parlamento. Certo, il ministero dell’Economia detiene direttamente talune partecipazioni (Eni, Stm, Enav) e indirettamente, tramite la Cassa depositi e prestiti e le Fs, altre (Sace, Fincantieri, Cdp Reti, Tag, Grandi Stazioni/Cento Stazioni).
Ma sarebbe bene che lo Stato azionista, prima di procedere, ascoltasse Camera e Senato. La fretta, quando non c’è un’emergenza, fa i gattini ciechi. A tal proposito, ha ragione Matteo Renzi. Del resto, chi scrive aveva già lanciato i dovuti avvertimenti dalle colonne di questo giornale il 20 ottobre, non appena si erano sparse da Washington le prime notizie sulla terza tornata di privatizzazioni. Non c’è fretta perché non stiamo abbattendo il debito pubblico. Se così fosse, chapeau. In realtà, gli stiamo dando solo una limatina di 5-6 miliardi. Secondo le agenzie, solo la metà dell’incasso previsto tra i 10 e i 12 miliardi andrà a riduzione del debito, che a metà ottobre era pari a 2.060 miliardi. Non sto a calcolare le percentuali di incidenza perché irrilevanti. Già nelle scorse settimane lo stock del debito pubblico aveva subito oscillazioni naturali per una decina di miliardi. Avrebbe un rilievo superiore, ancorché non decisivo, il ritiro dei 50 miliardi versati dall’Italia al Fondo salva stati nel quadro di una ridefinizione del meccanismo di finanziamento di questo Fondo trasformando il versamento diretto, fatto a debito da tutti, in un diritto di prelievo al momento del bisogno. Va dato atto a Letta di avere questo tra i suoi obiettivi. Ciò detto, alcune iniziative del piano mi sembrano sbagliate tout court, altre invece vanno meglio capite. Considero un errore serio vendere il 3% dell’Eni. Saggiamente il Tesoro non vuole scendere sotto il 30%, per non correre rischi di scalate ostili e, anche, per meglio controllare le assemblee dove il voto dei fondi sta assumendo un peso crescente in seguito al diritto loro riconosciuto di votare anche senza avere più il possesso materiale delle azioni nel giorno dell’assemblea. Ma per poter vendere il 3% e non scendere sotto il 30,1% che il Tesoro e la Cassa depositi e prestiti detengono, lo stesso Tesoro deve consentire all’Eni di acquistare azioni proprie per il 10% del capitale, spendendo a valori correnti circa 6 miliardi. Per una società indebitata, sia pure in misura non grave, investire in azioni proprie è una scelta opinabile. Siamo sicuri che l’Eni non abbia destinazioni produttive migliori per le proprie risorse nel momento in cui fatica ad avvicinarsi all’obiettivo dei 2 milioni di barili al giorno, da anni proclamato e mai raggiunto? A Wall Street lo sport del buy back è molto praticato. William Lazonincs lo ha studiato e, in un suo bellissimo paper, ha concluso che il buy back e la generosa distribuzione di dividendi avevano trasformato la Borsa da luogo di finanziamento delle imprese a mero mercato dei diritti di proprietà. Letta merita tutto l’appoggio possibile, e lo dico a scanso di equivoci. Ma è questa la sua politica industriale? Far bruciare 6 miliardi all’azienda Eni per poterne portare a casa uno e mezzo? In passato, un’iniziativa del genere, venne impedita dal consiglio di amministrazione presieduto da Roberto Poli. Nel 2012, invece, annullando le azioni proprie già acquistate, il nuovo consiglio, presieduto da Giuseppe Recchi, ha posto le premesse per l’errore che si profila, ancorché possa far guadagnare punti a chi lo commette in vista delle nomine della prossima primavera. D’altra parte, le azioni Eni danno dividendi nettamente più consistenti degli interessi passivi che il Tesoro andrebbe a risparmiare sulla quoterella di debito cancellata con l’incasso della vendita delle azioni. Non sto a ripetere i numeri già dati il 20 ottobre, anche a proposito di Terna e di Snam. È la stessa musica. Rispetto al piano originario, tuttavia, par di notare un miglioramento sul fronte delle partecipazioni della Cdp. Ferma restando l’esigenza di una valutazione più approfondita, se viene ceduta una parte della holding Cdp Reti, che controlla Terna e che potrebbe controllare Snam, e l’incasso viene trattenuto per ricapitalizzare la Cdp, questo non sarebbe male. Su Fincantieri, ci ripetiamo. Bene, benissimo la quotazione in Borsa purché avvenga almeno in parte con un aumento di capitale che rafforzi l’impresa impegnata in acquisizioni internazionali e nel piano di modernizzazione della marina militare italiana. La Sace potrebbe essere venduta anche per intero, se lo Stato si rende garante, come accade in Francia e Germania, dell’assicurazione dei crediti. Diversamente, una Sace privata e senza scudo lascerebbe al loro destino le imprese che non fossero così forti da potersi assicurare da sé. Quanto alle Grandi Stazioni, verrebbe da dire: ottimo. Purché l’incasso serva alle Fs per riqualificare il trasporto ferroviario non ad alta velocità. Quanto diciamo per Cdp, Fincantieri, Sace e Fs farebbe Pil e darebbe lavoro. Se si vuole ridurre l’incidenza del debito sul Pil, persa l’occasione di una patrimoniale straordinaria alcuni anni fa, quando la ricchezza degli italiani era maggiore di oggi, non resta che agire sul denominatore, sul Pil. E per far ripartire la crescita bisogna riorientare i grandi flussi finanziari e generarne di nuovi. Destinandoli allo sviluppo. Ma per un tal fine bisogna uscire dal recinto dei soliti pensieri.


La Stampa 22.11.13
Privatizzazione dei trasporti pubblici
Genova è paralizzata. E la protesta si allarga
Fallisce il tentativo di mediazione tra sindaco e lavoratori
di Teodoro Chiarelli


Terzo giorno di straordinario caos. Settantadue ore ininterrotte di ordinaria follia. Genova ancora travolta e paralizzata dallo sciopero selvaggio degli autisti dei bus, cui si sono aggiunti i dipendenti di Aster (manutenzioni stradali) e di Amiu (igiene urbana) e persino un gruppo di taxisti a tutto clacson. E oggi si replica, visto che la trattativa fra Comune e sindacati ieri sera è fallita. Si annuncia un venerdì nero per il traffico. Con migliaia e migliaia di genovesi appiedati ed esasperati, come ieri. La vita e l’organizzazione di una città di 600 mila abitanti sconvolte.
I «rivoltosi» sono accomunati dal sacro fuoco contro le (presunte) privatizzazioni che il sindaco Marco Doria si appresterebbe a varare. E poco importa che lui si accalori a spiegare che «no, per tutto il 2014 gli autobus dell’Amt rimarranno a gestione pubblica». Semplicemente, i 1.500 colletti azzurri non gli credono. In un vortice di rabbia cieca, disperazione, antipolitica e di tutti contro tutti che si autoalimenta fino allo sfinimento. Dove il diritto sacrosanto a scioperare e manifestare finisce per calpestare i diritti altrui, altrettanto sacrosanti.
Come osserva un vecchio dirigente della sinistra, Roberto Speciale, «Genova ribolle e sembra lasciata a se stessa». C’è una sgradevole sensazione di vuoto della politica, inadeguata a dare risposte ai bisogni dei cittadini. Un’incapacità evidente a reagire con proposte, idee e decisioni in grado di governare un cambiamento ineludibile, di reagire a una decadenza altrimenti ineluttabile. In una città dove un genovese su quattro è a rischio povertà, dove ci sono 10 mila cassintegrati e oltre 26 mila disoccupati (dati 2012, ultimi disponibili: oggi la situazione è ulteriormente peggiorata) non sono in crisi solo i bus. C’è la Carige, la banca dei genovesi, azzoppata e depredata da una classe politico-economica famelica. C’è un’Ilva appesa al futuro dell’ex gruppo Riva. C’è la gloriosa Compagnia dei portuali piegata dalla crisi. C’è una Fincantieri in bilico perenne fra chiusura e rilancio. Ci sono le aziende di Finmeccanica falcidiate dalle continue ristrutturazioni. C’è un tessuto di piccole e piccolissime aziende che non tiene più: centinaia di posti di lavoro che spariscono in silenzio.
Ieri il consiglio comunale si è tenuto in maniera surreale, a porte chiuse come auspicato dal prefetto Balsamo, sotto l’assedio di 1.500 manifestanti. Non era mai avvenuto.
Fin dalle 13 i colletti azzurri invadono via Garibaldi, la cinquecentesca Strada Nuova celebrata da Rubens per i suoi straordinari palazzi, patrimonio Unesco dell’umanità. Cori, urla, insulti e slogan sulla falsariga di quelli intonati a Marassi dai tifosi di Genoa e Sampdoria. Nel mirino sempre lui, il sindaco Doria, simpatizzante di Sel, il marchese rosso, nobile lignaggio e fede comunista: «Dimissioni, dimissioni», ritma a gran voce la folla.

l’Unità 22.11.13
Autobus, la lezione dello sciopero di Genova
di Carlo Rognoni


ATTENTI! QUELLO CHE SUCCEDE A GENOVA POTREBBE FARE SCUOLA. QUANDO ESASPERAZIONE E RABBIA VIAGGIANO INSIEME, IL PEGGIO DIVENTA POSSIBILE. Qui da tre giorni la città è bloccata, fermi gli autobus e la metropolitana. E un migliaio di lavoratori non rispettando alcuna regola, nemmeno l’ordine del prefetto per la precettazione degli autisti dei bus affinché fosse garantito un minimo di servizio, non solo ha paralizzato la città, ma ha occupato la sala del Consiglio comunale. Ha messo i consiglieri nell’impossibilità di discutere una delibera che riguarda proprio le aziende in cui il Comune è azionista, ha messo il sindaco Doria nell’impossibilità di parlare e ha mandato all’ospedale cinque vigili urbani (episodi di una gravità inaudita, che non erano mai accaduti in passato).
La crisi dell’Amt, dell’azienda di trasporto pubblico locale, non è una prerogativa di Genova. A Firenze l’Ataf, a Torino la Gtt, a Venezia la società dei vaporetti, e via elencando, tutte hanno dovuto e alcune devono ancora fare i conti con bilanci in rosso. I biglietti in Italia costano ancora molto meno che in altre città europee e finora il buco di bilancio veniva coperto soprattutto da Regioni e da Comuni. Una prassi sempre meno praticabile, visto che le risorse di cui dispongono gli enti locali sono ormai ridotte all’osso.
È onestamente difficile distinguere le responsabilità quando si verificano accadimenti come questo di Genova, che sembrano sfuggire di mano a tutti i protagonisti. È una storia di reazioni incontrollate e incontrollabili che certo chiama in causa lavoratori e sindacati, ma anche sindaco e forze politiche in generale.
Partiamo dai lavoratori. Sono spaventati dall’idea di perdere il posto di lavoro. L’accusa più pesante che rivolgono a chi guida il Comune è di non avere mantenuto le promesse, di non aver ricapitalizzato l’azienda, di aver parlato di privatizzazione in maniera confusa, o comunque non in maniera convincente. Prevale il messaggio che per i lavoratori la privatizzazione è sempre e comunque il diavolo? E quanto sono incoraggiati dai loro stessi rappresentanti sindacali su questa posizione di pregiudiziale chiusura?
L’errore del sindaco? Non ha preso da subito il toro per le corna. Non ha trasmesso autorevolezza e determinazione. Anzi davanti a scelte difficili, non condivise e magari davvero contraddittorie, rispetto a impegni presi in campagna elettorale, ha tergiversato. D’altra parte l’Amt nel 2014 rischia davvero il fallimento. Mancano 9 milioni di euro all’appello! E per ora l’unica proposta è di mantenere la riduzione di salari e stipendi in base a un accordo del maggio di quest’anno. Tutto lascia pensare che se non ci si inventa subito una strategia di medio termine, può diventare inevitabile portare i libri in tribunale. Potrebbe il Comune immettere nel bilancio di una società così in crisi una parte di patrimonio immobiliare per ridurre la differenza fra passivo e capitale? Il sindaco Doria ha già detto che la legge non lo consente e che lui può garantire all’azienda di restare pubblica solo se i lavoratori faranno i sacrifici necessari. Siamo lontani dalla garanzia che si va verso soluzioni strutturali di medio-lungo termine.
In questo contesto i partiti si giocano la faccia. Quelli di opposizione perché rischiano di strumentalizzare la rabbia, cadere nella più inutile demagogia. Quelli di maggioranza se non impongono con forza a sindaco e a parti sociali di fare un passo indietro e discutere del futuro, non solo del prossimo anno. Dopo gli ultimi avvenimenti nella sala rossa del Comune, ai lavoratori e ai sindacati tocca dimostrare che non è con la violenza, con l’aggressione fisica, con gli insulti che si rimette in moto un percorso costruttivo. Esasperazione e rabbia non aiutano a uscire dalla crisi. Genova docet.

Corriere 22.11.13
Gli economisti? «Per capire le crisi studino la storia»
di Dino Messina


Gli economisti sanno qualcosa di storia? Non è una domanda provocatoria ma una delle questioni attorno a cui ruota l’incontro fra oltre trecento storici economici italiani che si sono dati appuntamento oggi e domani all’università Statale di Milano. Come suggerisce il titolo del convegno, «discorsi sul metodo», organizzato dalla Società italiana di storici economici presieduta da Antonio Di Vittorio, gli studiosi vogliono riportare al centro della riflessione economica la storia perché qualche seria perplessità ce l’hanno. «Vuol sapere la verità? — chiede retoricamente Giuseppe De Luca, il docente della Statale che assieme al collega Germano Maifreda ha organizzato il congresso —. L’ignoranza sulla storia delle crisi è uno dei motivi del crac economico-finanziario del 2008. Un’ignoranza che ha portato gli esperti di finanza al perpetuarsi di un’illusione. Si doveva e poteva prevedere che la bolla sarebbe scoppiata. E qualcuno l’aveva previsto, come Raghuram Rajan, che nel 2005 era il capo economista del Fondo monetario internazionale. Ma si è trattato di voci isolate e inascoltate». Insomma, la principale lezione di metodo che verrà fuori dal convegno milanese è un ritorno alla storia. «Uno studio utile — spiega il professor Maifreda — perché cambiano i protagonisti ma le bolle hanno strutture simili. In anni recenti, poi, ci si è dimenticati del medio e lungo periodo ma si è stati portati a ragionare sempre e soltanto sul breve, complice una struttura capitalistica basata sul sistema dei premi in cui ai grandi manager interessati alle stock option si è alleato un tipo di ”azionista spot” che punta sulla realizzazione immediata dei profitti».
È dal 1971, con la denuncia degli accordi di Bretton Woods del 1944, che l’epoca della stabilità finanziaria è finita, fa notare De Luca. Da allora è un susseguirsi periodico di scossoni: quello provocato nel 1987 dalla bolla dei fondi di investimento, o nel 1992 la crisi valutaria italiana che ci costrinse a uscire dal Sistema monetario europeo. Agli inizi del 2000 un’altra bolla, che portò per esempio nel 2003 una società come Finmatica, poi fallita, a capitalizzare più della Fiat. «Nel 2008 — sintetizza De Luca — abbiamo assistito al crollo di un modello economico inaugurato alla fine degli anni Settanta da Margaret Thatcher (la società non esiste, ci sono solo gli individui) e nel gennaio 1981 da Ronald Reagan (i governi non possono risolvere problemi, sono loro stessi il problema). Una filosofia basata sull’assenza di regole che oggi non è più accettabile, come hanno del resto dimostrato gli interventi statali nell’economia in una nazione, gli Stati Uniti, tradizionalmente refrattaria a questo tipo di aiuti».
Nel convegno milanese si parlerà naturalmente della crisi del 1929, ma anche della prima grande depressione del capitalismo moderno, successiva al crollo del mercato immobiliare del 1873. «Dopo i grandi investimenti anche di denaro pubblico per sostenere il rinnovamento urbanistico di metropoli come Parigi e Vienna e, in Italia, soprattutto Napoli e Milano — spiega Maifreda — si assistette a un’esplosione della bolla che partì dall’Austria, investì l’Europa e arrivò fino agli Stati Uniti. Fu l’inizio di un fenomeno lungo, la vera prima grande depressione, che durò più di un ventennio (e che comportò fenomeni sociali come la massiccia ondata emigratoria verso gli Stati Uniti), almeno fino al 1896, all’epoca delle esposizioni universali e delle scoperte di giacimenti minerari dal Sudafrica al Klondike». Lo storico economico che analizzi la crisi attuale non può ignorare il fattore «debito pubblico», che tanto ci spaventa. «Anche il debito pubblico — osserva De Luca — non è una novità ma una costante ricorrente della nostra storia: dall’Inghilterra della guerra dei Cent’anni alla Spagna di Carlo V, il debito o sparisce con l’inflazione o viene consolidato, come fece Carlo V, trasformandolo in buoni del tesoro a lungo termine. Per venire ad anni più recenti, il nostro Luigi Einaudi nell’immediato secondo Dopoguerra, da governatore della Banca d’Italia favorì l’inflazione per azzerare il debito e, da ministro del Tesoro avviò una manovra deflattiva per ridare potere d’acquisto ai lavoratori e garantire un quadro stabile per la ricostruzione». Lo studio della storia è poi utile anche per vedere il comportamento dei singoli individui. Raffaele Mattioli, il più importante banchiere italiano del Novecento, la cui biblioteca di migliaia di volumi è oggi gestita dall’università Statale, lasciò una lista di libri che avrebbe voluto comprare ma che non poteva permettersi. Tra questi la prima edizione del «Tableau économique» di Quesnay. Oggi la biblioteca Raffaele Mattioli ha acquisito quel classico del pensiero fisiocratico. Ma, a parte i gusti raffinati del banchiere-editore, ve lo immaginate oggi un grande manager, con stock option milionarie, che non riesca a soddisfare un desiderio come quello del presidente della Comit?

l’Unità 22.11.13
Il compito di chi guiderà il Pd: ridare fiducia
di Alfredo Reichlin


Neanche a me le amicizie della signora Cancellieri piacciono. Così come non mi piacciono quelle di chi riceve troppi sostegni dall’establishemnt. Ma ciò che sopratutto mi allarma è quest’aria mefitica piena di veleni, dove si intravedono strani spionaggi e macchine del fango. Si aggiunga che quasi tutto il sistema informativo è nelle mani di pochi miliardari che non nascondono i loro disegni politici. Dove si vuole arrivare? È un fatto che stiamo assistendo a una specie di opa contro il maggiore partito della sinistra. In più si intravvede il ritorno del più vecchio e usurato modo di fare politica.
Quello fatto di uscite demagogiche, squalifica dell’avversario, la politica intesa come lotta per il potere personale. Se continuiamo così, chiunque vinca, non si andrà lontano. Forse mai io ho sentito in modo così assillante il dovere di dire che la sinistra fa un grandissimo sbaglio se non parte dalle cose, dalle sofferenze della gente, dal «che fare» per fronteggiare la tragedia che incombe sull’Italia repubblicana.
Con ciò non mi è venuto meno «l’ottimismo della volontà». Penso, anzi, che il fatto principale da cui partire è che la situazione è molto cambiata, è più aperta e che essa consente (ma al tempo stesso impone) un nuovo inizio. È ridicola la tesi secondo cui l’astutissimo Berlusconi sta manovrando ancora una volta il Pd imponendo ad esso una nuova versione delle «grandi intese»: due partiti di destra invece di uno, è così guadagnare più voti. Ma facciamola finita. Le «larghe intese» come si è visto non erano né «larghe» né «intese». Balle. Erano l’assunzione di una difficile responsabilità da parte nostra. Era lo sforzo di fronteggiare una situazione di rottura di «regime» (si finge ancora di non capire la novità di questo semplice fatto?) dando al Paese un governo di emergenza che garantisse la tenuta dello Stato di diritto e ci consentisse di non finire ai margini dell’Europa.
È evidente che dalla crisi non siamo ancora usciti. Ma dove saremmo oggi senza quel governo? Semplicemente allo sfascio e con inevitabili conseguenze come il crollo di strutture essenziali, tipo la svendita delle banche principali e del nucleo industriale. E soprattutto con la necessità di andare verso nuove elezioni allo sbando, cioè in condizioni tali che sarebbero state vinte dalla destra producendo quindi una maggioranza assoluta che per prima cosa avrebbe messo in mora le condanne di Berlusconi. Un capolavoro, amici. Dovreste accendere un cero a Giorgio Napolitano.
Sarebbe quindi tempo di smetterla con questa solfa per guardare invece meglio alla nuova realtà. La situazione è cambiata. La destra si è spaccata e il peso del governo grava molto più di prima sulle nostre spalle. E allora decidiamoci. Invece di immaginare non so quali alternative facciamo noi Pd il passo avanti necessario. Cominciamo noi a dettare una agenda più avanzata. A me sembra questo il compito dell’ora. Anche perché con la spaccatura della destra e l’inevitabile decadenza di Berlusconi da senatore si sono messi in moto cambiamenti che non riguardano solo il quadro politico. Ricordiamoci che il Cavaliere non era solo il capo di un partito. Era anche l’architrave di un intreccio di interessi e di poteri, non tutti alla luce del sole, che hanno condizionato molto la vita italiana, compresi i nostri rapporti con l’Europa e il mondo. I rischi restano altissimi ma finalmente si aprono nuove prospettive.
Il problema siamo noi. È la necessità che il Pd ritrovi una consapevolezza maggiore e più aggiornata del suo ruolo e della partita decisiva che si giocherà nei prossimi mesi. E dico subito cosa intendo per «nuovo inizio». I margini sono strettissimi e certi vincoli vanno rispettati. Ma un nuovo inizio è reso necessario dal fatto che è finita l’epoca del liberismo e del mercato senza regole. Anche per l’Europa. La partita, quindi oggi si deve giocare attorno alla capacità dei sistemi socio-economici di integrare la crescita economica con un nuovo sviluppo sociale. Io penso che sta qui il banco di prova del nuovo segretario del Pd: chiunque egli sia. Sta nella necessità di mettere in piedi un partito e non solo una organizzazione elettorale, un partito società, un luogo dove si forma una nuova classe dirigente e dove si possa elaborare un disegno etico e ideale. Senza di che ce lo scordiamo il bipolarismo. Oppure pensiamo che l’alternativa alla destra si fa limitandosi a inventare una nuova legge elettorale? Che idea di partito abbiamo in testa? L’affluenza al voto di tanti militanti, i consensi per candidati nuovi (e qui metto non solo il voto per Cuperlo, superiore a ogni previsione, metto anche quello di una larga parte del voto per Renzi) ci dicono che è giunto il momento di alzare il tiro e di guardare al di là dell’8 dicembre. La sinistra, come si è visto, esiste. Deve uscire dal suo lungo silenzio, deve guardare al di là delle piccole beghe e tornare a credere in se stessa e nella sua capacità di dare al Paese un messaggio alto di fiducia e di lotta.
Io affido le mie speranze a un gruppo di giovani che si sta raccogliendo intorno a Gianni Cuperlo. Sono forti ed esperti, ma devono sempre più parlare alla gente in prima persona. Ci devono credere. Io ho vissuto la catastrofe dell’8 settembre del 1943. E ho visto come allora un gruppo di politici giovani (meno di 40 anni) si rivolsero a quello che allora si era ridotto a un popolo di profughi in fuga dalla guerra e dal collasso dello Stato. Quei giovani riuscirono a unire quel popolo sotto grandi bandiere, bandiere politiche e ideali, non tecnocratiche. So bene che tutto è cambiato da allora. L’Italia di oggi è ancora uno dei Paesi più ricchi del mondo e al governo ci siamo noi. Ma non basta sostenere il governo in Parlamento. Occorre spingerlo verso nuove scelte di fondo partendo dal Paese, dai bisogni e dalle sofferenze della gente. La prudenza, il realismo vanno benissimo, sono virtù che servono anche nelle situazioni «eccezionali». Ma non bastano.
L’Italia questa è la sostanza della mia analisi è entrata in uno stato di «eccezione». La parola crisi non dice tutto. Il Paese chiede un messaggio più forte che dia un senso ai sacrifici e al rigore. Stiamo attenti. La crisi sta intaccando il tessuto stesso della nazione, e io uso questa grande parola che è «nazione» perché è di questo che si tratta. Non solo dell’economia e nemmeno solo delle Istituzioni. Si tratta di un oscuramento delle ragioni dello stare insieme. Sono troppi, non solo tra i giovani, quelli che vogliono andare a vivere all’estero. È una crisi di fiducia, aggravata dalla latitanza delle élite e dalla pochezze delle classi dirigenti politiche. Tutta la questione del Pd e di chi lo guiderà ruota intorno a questo. Alla capacità o meno di dare una risposta a una crisi di questa gravità.

Corriere 22.11.13
La lettera di Napolitano ai giudici: ecco le mie risposte, inutile sentirmi
I pm potrebbero non accontentarsi e convocare il capo dello Stato
di Giovanni Bianconi


PALERMO — Giorgio Napolitano risponde per iscritto alle domande che la corte d’assise di Palermo vorrebbe fargli nel processo sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia al tempo delle stragi, e chiede ai giudici di soprassedere al suo interrogatorio. Perché altro non sa. Inserito come testimone nella lista dell’accusa, e ammesso dalla Corte «nei limiti indicati dalla Corte costituzionale» con la sentenza che ordinò la distruzione delle sue telefonate intercettate casualmente, il capo dello Stato ha giocato d’anticipo con la lettera inviata il 31 ottobre scorso al presidente del collegio, Alfredo Montalto.
Il magistrato l’ha letta e valutata, e ora la metterà a disposizione delle parti perché esprimano il loro consenso (o dissenso) a farla entrare negli atti del processo. Intanto ieri ne ha riassunto il contenuto: «Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel manifestare la propria disponibilità a testimoniare, chiede che si valuti ulteriormente l’utilità del reale contributo che tale testimonianza potrebbe dare, tenuto conto delle limitate conoscenze sui fatti di cui al capitolato di prova, che nella medesima lettera vengono dettagliatamente riferiti».
Dunque le sue risposte il capo dello Stato le ha già date in quel documento, e perciò invita la corte a tornare sui propri passi, citando espressamente l’articolo del codice di procedura penale in cui è previsto che «il giudice, sentite le parti, può revocare con ordinanza l’ammissione di prove che risultano superflue». Più di quello che ha scritto Napolitano non potrebbe dire, e in questo modo la sua deposizione — che pone problemi di costituzionalità di cui s’è discusso e si discuterà ancora — diventerebbe non necessaria.
Ma per arrivare a questa conclusione, c’è bisogno di altri passaggi, indicati nello stesso provvedimento della Corte: «Le rappresentazioni fattuali trasfuse nella predetta lettera (cioè le risposte scritte di Napolitano, ndr ) non sono utilizzabili in assenza di accordo acquisitivo delle parti», e per questo motivo il documento vergato dal presidente della Repubblica non può entrare nel processo senza che pubblici ministeri e avvocati diano il loro parere. Conclusione: dopo che tutti avranno letto la lettera se ne parlerà in aula, e la corte deciderà il da farsi; revocare l’audizione di Napolitano, accontentandosi di quanto ha scritto, o confermarlo tra i testimoni. In tal caso la scelta tornerà di nuovo al capo dello Stato, che potrebbe sollevare un nuovo conflitto d’attribuzione davanti alla Corte costituzionale.
È prevedibile che i pubblici ministeri insisteranno nella richiesta di interrogare il presidente su temi che hanno già ampiamente illustrato: un’altra lettera, che egli stesso rese pubblica un anno fa. Gliela scrisse il suo ex consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, morto nel 2012 nel pieno delle polemiche sulle intercettazioni tra il Quirinale e l’ex ministro Mancino, che provocarono il conflitto istituzionale tra il Colle e la procura palermitana approdato alla Consulta.
Nella missiva indirizzata a Napolitano, D’Ambrosio fa intendere di aver manifestato anche a lui il timore «di essere stato considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi» tra il 1989 e il 1993, quando lavorò all’Alto commissariato antimafia e al ministero della Giustizia. Di qui l’interesse dei pm ad ascoltare il presidente, «unica opportunità di approfondire la portata di tale timore». Riferito a un periodo in cui, nella ricostruzione dei pm, tra una bomba e l’altra la mafia trattava con lo Stato, e viceversa.
Nell’udienza di ieri il pentito Nino Giuffrè, ex «uomo d’onore» che fu molto vicino a Bernardo Provenzano, ha spiegato che il boss corleonese Totò Riina fu «venduto» da una parte di Cosa nostra «a quella parte di Stato che aveva avuto una vicinanza con la mafia». E dopo il ’93, nella ricerca di nuovi referenti politici, Cosa nostra decise di appoggiare la neonata Forza Italia guidata da Silvio Berlusconi: «Provenzano mi disse “siamo in buone mani”, non me lo posso scordare».

l’Unità 22.11.13
“Sesso con Ruby, ci sono le prove”
«Con Ruby rapporti in cambio di soldi. Berlusconi abusò della sua carica e pagò i testimoni»
I giudici: l’ex premier sapeva che era minore
Vent’anni di nausea
La mediatica presa di potere di un uomo talmente ricco da comprarsi chiunque
di Valeria Viganò


E arrivarono le motivazioni della sentenza Ruby. Ne avevamo bisogno per fare chiarezza su una vicenda sordida, sporca di sesso e potere? No, tutto era molto limpido già dalla notte della telefonata di Berlusconi.
Quella fatta per liberare e affidare la «nipote di Mubarak» alla cura educativa della igienista personale del Cavaliere. Ci sono voluti tre interminabili gradi di giudizio. Leggere nuovamente del vecchio satrapo e delle sue ancelle non cancella il disgusto di fronte a una marcescenza della carne e al vizio corrotto nella mente retriva di un settantenne che si crede immortale e vuole merce fresca. Ma non sorprende più, conosciamo ormai tutto, anzi stanca, annoia, è come una barzelletta ripetuta allo sfinimento, che a metà, siccome la si sa a menadito, ti fa alzare gli occhi al cielo e sbuffare.
Vedere la foto dell’ex premier e della ragazza allora minorenne tra le prime notizie relative a questo Paese, provoca la nausea. Sentire il coro greco che accompagna una sentenza più che corretta, e usa parole totalmente incongrue rispetto alla verità di fatti comprovati può soltanto produrre un’esclamazione: basta. Il termine avvocatizio «surreale» a commento delle motivazioni della sentenza, e «femminicidio giudiziario», usato da una signora vivace che urla sempre (per i bambini che guardano la tv, questo è) sono vocaboli ribaltati nel loro senso.
Surreale è ciò che è accaduto per vent’anni in Italia, cioè oltre la realtà, durante la mediatica presa di potere di un uomo talmente ricco da comprarsi chiunque e farsi imitare da molto bravi compaesani già inclini al furto e alla corruzione per atavica abitudine, e legittimati a farlo se lo faceva lui, uno dei più ricchi e famosi al mondo. L’altra definizione fuori luogo è ovviamente quella di «femminicidio» (specificando «giudiziario», per evitare un assalto all’arma bianca di tutte le donne maltrattate e uccise, nei confronti della suddetta signora). Il paradosso è gigantesco.
Il «modello B», che consiste nell’accaparrarsi ragazzine, pagandole profumatamente per il proprio piacere quando si vuole e quanto si vuole, ha fatto proseliti. Il sesso minorenne è merce di scambio, merce ambitissima visto il successo e la diffusione capillare in licei e case d’appuntamento.
Gli uomini ci vanno pazzi, le adolescenti ci marciano. Il «modello B.» si è instillato nei cervelli, opportunamente lavati e riprogrammati da infinite ore di trasmissioni televisive costituite da tette, gambe, culi sbandierati ai quattro venti e senza costrutto, è diventato un carro di promesse di fama e soldi facili per molte ragazze, un carro di un carnevale sempre in parata, una finzione da baraccone greve e molesto. Colpevolissimo, di una colpa perniciosa. Possiamo voltare pagina? Non avere più a che fare con il corteo macabro che sfila con la medesima cantilena, il medesimo copione, le stesse battute avvizzite?
Non se ne può più della messinscena, il volto rifatto e lucidato, i denti finti di un finto sorriso, e l’innocenza da perseguitato proclamata, il tono fascista delle minacce. In Emilia si direbbe hai rotto i maroni.
Il tempo è cambiato, l’Italia ha bisogno di rinascere economicamente e moralmente, di avere politici competenti e onesti, che non vanno a puttane e non rubano, che governino un Paese e non se stessi.
Il passato dei loschi figuri venga superato, siamo stufi di vedercelo propinare ancora come presente.

Corriere 22.11.13
Sanità e danni morali. La violenza sulle donne costa 17 miliardi l’anno
Solo 6,3 milioni investiti per contrastarla
di Alessandra Arachi


ROMA — Non ci aveva pensato nessuno prima: quanto costa la violenza contro le donne? In Italia ogni tre giorni una donna viene uccisa da un marito, un fidanzato, un convivente, un amante oppure da un ex di una di queste categorie. E a parte gli omicidi, nel nostro Paese ogni anno si contano 14 milioni di episodi di violenza contro le donne, un dato perfino sottostimato. Soltanto 7 donne su 100 denunciano gli autori di questa violenza.
Bene, alla fine: quanto costa alla collettività l’omertà di questo silenzio? Più o meno quanto tre manovre finanziarie, è stato calcolato nella prima ricerca di questo genere curata dalla Onlus Intervita con il sostegno del Corriere della Sera . Ovvero: 17 miliardi.
Non è una cifra fantasiosa: sono 17 miliardi di euro veri e soltanto arrotondati di un po’ (16, 72 la cifra esatta alla virgola). Ci si arriva sommando costo dopo costo le voci più disparate. Cominciamo, ovviamente, dai costi sanitari (460,4 milioni) e la consulenza psicologica (158,7 milioni). Poi i farmaci (44,4 milioni), quindi i problemi di ordine pubblico (235,7 milioni) e quelli di ordine giudiziario (421, 3 milioni).
La lista è lunga e alcuni oneri finiscono inevitabilmente a carico dei Comuni: 154,6 milioni dei servizi sociali ai quali si sommano gli 8 milioni dei centri antiviolenza. Ci sono poi da tener conto le spese legali (289,9 milioni).
Ma la cifra vera di questa guerra non dichiarata e sotterranea ma quotidiana, non è calcolata dalle tabelle dei valori ufficiali. Il prezzo vero della violenza è il costo umano, emotivo, esistenziale. Una cifra che nella ricerca è stata valutata in 14,3 miliardi perché dentro c’è la vita distrutta di una donna, di bambini, di un intero nucleo familiare.
In questi 14,3 miliardi c’è dentro l’impatto della violenza sui bambini, l’inevitabile erosione del capitale sociale, il peggioramento della qualità della vita, ma anche la riduzione della partecipazione alla vita democratica. Chissà se 14 miliardi è una cifra che basta a giustificare tutto questo. La stima è stata quantificata prendendo come riferimento la valutazione economica utilizzata per il risarcimento del danno biologico e morale nel caso di un incidente stradale.
«Il contrasto alla violenza sulle donne non è una battaglia di genere. È piuttosto una battaglia di civiltà che il Paese deve affrontare unito» dice Valeria Fedeli (Pd), vicepresidente del Senato, che da anni su questa battaglia mette faccia ed energie. Ed è convinta e decisa: «Il primo cambiamento deve partire dagli uomini».
Verrebbe da aggiungere anche che il cambiamento dovrebbe partire da tutta una cultura che ancora oggi in Italia ha un’ottica troppo maschilista, con una legge sulla violenza sessuale che soltanto a metà degli anni Novanta ha stabilito che lo stupro era un reato contro la persona e non già, come fino a quel momento il nostro codice aveva voluto, semplicemente contro la morale.
«Gli investimenti per le attività di prevenzione e contrasto oggi sono fermi a 6,3 milioni di euro», ha detto Marco Chiesara, presidente di Intervita, nel dibattito che ieri si è tenuto a Roma alla Casa del Cinema moderato da Fiorenza Sarzanini. E ha ammonito: «Serve una strategia politica efficace in grado di affiancare questi investimenti».
Al dibattito anche Isabella Rauti, consigliera del ministro dell’Interno su questi temi: «C’è bisogno di novità per contrastare il negazionismo e la rassegnazione diffusi. Questa ricerca fa anche di più: si colloca in una campagna articolata che non ha un termine imminente. Gli strumenti normativi sono necessari, ma non sono sufficienti se non c'è una rivoluzione culturale».

Repubblica 22.11.13
Donne.  Perché non succeda mai più
Mariti, fidanzati, amanti o semplici conoscenti: nel nostro Paese da gennaio a oggi ci sono stati 128 omicidi
Il 25 è la giornata mondiale contro la violenza: il rispetto parte dalle piccole cose quotidiane e riguarda tutti gli uomini
di Concita De Gregorio


NEL 2013 in Italia sono state uccise 128 donne. Da mariti, fidanzati, amanti o semplici conoscenti. Per non dimenticare e cercare di fermare la strage il 25 novembre è la giornata mondiale contro la violenza.

IN principio è il linguaggio. Le parole per dirlo. Il posto che la lingua dà alle cose diventa il posto giusto delle cose. Per capirci, ecco un test semplice. Quante volte avete detto o sentito dire: mio marito/mio figlio in casa è un disastro, se fosse per lui vivrebbe nel caos. O apparentemente al contrario: mi aiuta moltissimo, cucina e fa i piatti, si prende cura dei bambini. Quante volte avete sentito un uomo dire: oggi mia moglie non c’è, faccio da babysitter. Questo è il problema. Questa è la norma, dunque la norma è il problema.
Dalla subordinazione alla sopraffazione alla violenza lo scarto non è di qualità del gesto, è di quantità. Dalla normale “delegittimazione del lavoro domestico maschile” — dalla divisione di ruoli e di compiti tutto attorno anoi per cui non c’è niente di strano che gli uomini di solito non sappiano stirare, per quanto stirare non sia affatto difficile — passa il principio per cui è normale che gli uomini si occupino d’altro. Anche le donne certo, lo fanno: in questo caso, se non vivono sole, spesso si sentono dire di quanto siano fortunate ad avere accanto un uomo che glielo consente. Perché invece la lingua ci informa che lo stato naturale delle cose è che siano gli uomini di solito a produrre reddito, cioè ricchezza, cioè potere, perché il denaro — nel mondo in cui viviamo — è potere. Come poi ogni uomo gestisca la sua supremazia nei confronti di chi gli vive accanto dipende solo dal suo livello di consapevolezza e di autocontrollo: da come gestisce le emozioni, da come governa il conflitto, dal grado di censura che assegna alla violenza come metodo di soluzione dei problemi. Dipende dalla sua educazione, in definitiva. In larga parte dipende dalla madre che ha avuto. La violenza che gli uomini esercitano sulle donne non è un’emergenza criminale: è anche questo, sotto il profilo tecnico, ma prima ancora è moltissimo più. È il risultato naturale dell’educazione condivisa, del linguaggio corrente, dei modelli di comportamento che costituiscono la norma.
Una lunga premessa, purtroppo necessaria, per dire che la violenza sulle donne non è un problema delle donne: è prima di tutto un problema degli uomini. Il danno è di chi la subisce. Il problema — la lacuna, la carenza, il deficit — è di chi la esercita. Quindi: la violenza di genere è un guasto del sistema che riguarda entrambi i generi ma in ordine cronologico è prima un guasto di chi alza la mano, poi di chi riceve lo schiaffo. A partire da questa osservazione semplicissima, evidente eppure così insolita nel nostro panorama di riflessioni sul tema, nei Paesi in cui il male è divenuto epidemico da molti anni si lavora sugli uomini: con le leggi, con l’educazione scolastica obbligatoria, con le terapie riabilitative, con il “sostegno ai portatori di violenza”. Sì, sostegno ai portatori di violenza, e pazienza se ci sarà come sempre chi alzerà il dito per dire che chi commette un reato deve solo essere punito, non aiutato. Certo, punito: ma giacché la violenza è sempre un segno di debolezza — è l’incapacità di usare la parola, la ragione, il gesto opportuno — è ovvio che i portatori di questa debolezza debbano essere aiutati a colmarla. Lo si fa in Messico, il paese della strage di donne a Ciudad Juarez, lo si fa in Portogallo e in Spagna, dove la cultura machista è persino più radicata che da noi. Lo si fa naturalmente nei paesi del Nord Europa, che tuttavia spesso ci appaiono remoti nel loro modello di soverchia virtù.
Mavi Sanchez Vivez è una neurofisiologa esperta di realtà virtuale immersiva. Il suo gruppo di ricerca lavora a Barcellona. Qualche mese fa, ospite del professor Aglioti alla Sapienza di Roma per la Settimana del cervello (Baw, brain awareness week) ha mostrato i risultati del lavoro sperimentale che nella sua regione porta avanti insieme al ministero di Giustizia. Gli autori di violenze condannati per reati commessi sulle donne vengono messi nelle condizioni di sperimentare lo stesso tipo di trauma. Grazie a un casco che lavora sugli impulsi cerebrali si trovano nella condizione di percepire se stessi come una donna che viene aggredita, picchiata, offesa. Hanno reazioni primitive e terribili: sudorazione, palpitazioni, pianto, qualche volta non controllano l’atto di urinare. Quando ho raccontato gli esiti di questo tipo di lavoro — riassumibile, per tornare alla lingua, nella frase “mettersi nei panni dell’altra” — sono stata sommersa di lettere di protesta di un gran numero di persone che hanno trovato questo lavoro “crudele”, “vendicativo”, “inutilmente feroce”. Qualcuno ha detto:“l’esito del peggior femminismo”. È anche questa una reazione istruttiva, molto eloquente. Il prossimo passo del gruppo di lavoro spagnolo sarà quello di mettere i carnefici nella condizione dei bambini che assai spesso assistono alle violenze domestiche: farli sentire come si sentono i loro figli.Unodegli scopi di questo genere di lavoro è difatti quello di evitare che il modello di comportamento si replichi di padre in figlio, circostanza invece consueta e difficilmente evitabile senza un sostegno formativo efficace. In Messico la dottoressa Georgina Cardena Lopez dell’Unam, UniversitàAutonoma del Messico, porta avanti da anni programmi che si avvalgono degli strumenti di realtà virtuale. Dodici settimane di terapia, con un risultato giudicato positivo nell’80 per cento dei casi. A Valencia c’è il programma Emma, diversi metodi e nomi indicano i protocolli adottati in Francia, in Svezia, in Gran Bretagna. In Italia siamo agli albori. Scarsissimi i finanziamenti, quasi tutte private le fondazioni e associazioni che lavorano sull’intervento mirato ai portatori di violenza. Un bel libro, molto completo, è appena andato in stampa. S’intitola “Il lato oscuro degli uomini” e tratta la “violenza maschile contro le donne: modelli culturali di intervento”. Le curatrici — Alessandra Bozzoli, Maria Merelli e Maria Grazia Ruggerini — fanno parte del gruppo LeNove, associazione di studi e ricerche sociali che già a dicembre del 2012 aveva consegnato un rapporto su “Uomini abusanti. Prime esperienze di riflessione e intervento in Italia”. Il rapporto e poi il libro sono una vera miniera di informazioni su quel che si potrebbe fare e non si fa, o non si fa abbastanza. Consultarlo è anche un modo sicuro per fare piazza pulita di ogni accusa moralismo, di manicheismo e di ideologia. C’è poco da filosofeggiare di fronte ai fatti. C’è piuttosto da provare a comprenderli senza pregiudizi, c’è da chiedersi perché non si passi di conseguenza all’azione. Una risposta possibile arriva da Laurie Penny, la giovane blogger inglese (oggi 27 anni, poco più che ventenne quando ha iniziato il suo lavoro di indagine) il cui “Meat market”, il mercato della carne, è tradotto in volume anche in italiano. Sua la definizione di “delegittimazione del lavoro domestico maschile” dentro la costruzione di un linguaggio e di un modello che “ha tutta l’accuratezza dei giochi di ruolo”, costumi ed eventuali nudità comprese. È un gioco — dice — concepito, commercializzato e utilizzato dagli uomini: il copyright è loro. Difficile che con arrendevolezza se lo lascino sfilare di mano. Difficile che vogliano smettere di giocarci, e di contrabbandare per libertà di scelta la decisione di tutte quelle donne che — madri o figlie — stanno al gioco senza accorgersi che la scacchiera è truccata. Conviene ribellarsi, dice Penny. Cambiare le regole a partire dal principio. Punire i colpevoli asseconda il principio di eccezionalità. Quando la violenza è la norma è sul normale corso degli eventi che bisogna lavorare. Capirlo, cambiarlo.

La Stampa 22.11.13
“Donne, cominciate a ribellarvi da bambine”
La presidente della Camera Boldrini: “Io e mia sorella l’abbiamo fatto con i nostri fratelli maschi e abbiamo vinto”
intervista di Flavia Amabile


Onorevole Laura Boldrini, presidente della Camera, lunedì ci prepariamo ad un’altra giornata mondiale contro la violenza sulle donne. L’Italia  come arriva a quest’appuntamento?
«La violenza è solo la componente più esasperata della mancanza di parità tra uomini e donne in Italia. C’è ancora molto da fare, il nostro Paese è indietro dal punto di vista culturale: ancora sono un’eccezione le donne che accedono a certi ruoli. Ed è indietro da un punto di vista strutturale perché il welfare è poco attrezzato e grava ancora tutto sulle spalle delle donne».
Da dove iniziare?
«Dalle famiglie. È lì che si creano i presupposti per una discriminazione se i ruoli sono già assegnati dai genitori. Le battaglie per la parità si iniziano fin da piccoli».
Come?
«Le figlie femmine devono ribellarsi e dire che così non va, devono essere le prime a reagire, se i genitori non garantiscono parità. Io e mia sorella l’abbiamo fatto. In casa eravamo in cinque: tre maschi e noi. Mia mamma aveva iniziato ad educarci seguendo i soliti stereotipi: noi dovevamo aiutare, loro no. Ci siamo ribellate, ed è stato un moto autonomo. Abbiamo minacciato sciopero, perché il lavoro andava diviso in misura eguale fra tutti».
Com’è andata a finire?
«Abbiamo vinto, la suddivisione dei compiti è stata equa ed ora i miei fratelli maschi trovano del tutto normale avere ruoli alla pari nelle loro famiglie».
Oltre che nelle famiglie dove intervenire?
«Nelle scuole. L’educazione di genere nelle aule porterebbe equilibrio nella società».
La ministra Carrozza sostiene che nelle scuole ci sono già molti progetti che riguardano la cultura di genere. Non sono sufficienti?
«In questo ambito non è mai troppo e l’escalation della violenza sulle donne lo dimostra».
Una materia ad hoc?
«Non sta di certo a me indicare le modalità, ma ritengo che le materie inerenti al rispetto di genere e all’educazione sentimentale debbano accompagnare il programma scolastico fin dalle elementari».
Alcune associazioni di genitori cattolici sostengono che l’educazione sentimentale spetta alla famiglia, la scuola non deve intromettersi.
«Ne sono sorpresa, non vedo alcuna accezione negativa nell’educazione al rispetto. Non conosco nessuna religione favorevole all’uso della violenza in un contesto domestico».
Lei parla di scuola, di famiglia, di pubblicità. Ma è il presidente della Camera, c’è chi la accusa di entrare in campi che non sono di sua competenza.
«Si’ lo so qualcuno l’ha fatto, tra cui Guido Barilla ma io rivendico il diritto per chi ha ruoli istituzionali di occuparsi della società in cui vive, dei suoi cambiamenti. Poi però con Barilla ci siamo scritti e incontrati qui a Montecitorio, abbiamo chiacchierato a lungo e ci siamo chiariti».
La questione resta, però, gli spot spesso restituiscono un’idea della donna per nulla paritaria.
«Famiglie come quelle che appaiono in alcune pubblicità sono irreali. In quali famiglie l’uomo torna a casa, si butta sul divano e aspetta di essere servito a tavola? Forse era così negli anni 60, ma questo oggi è uno stereotipo che non rende giustizia né agli uomini, né alle donne. E poi perché usare il corpo delle donne per promuovere computer o mobili? È umiliante e non aiuta nella lotta alla violenza contro le donne».

SU REPUBBLICA NELLE EDICOLE SETTE PAGINE SUL TEMA

«Parkland» il film di cui RaiCinema ha acquisito i diritti per l’Italia, in prima serata su RaiTre stasera, il giorno dell’anniversario, a introdurre lo speciale condotto da Gerardo Greco
Corriere 22.11.13
I medici, la scorta, l’assassino: nel film voluto da Tom Hanks l’America rinuncia a capire


L’America ha rinunciato a capire. Se «il» film uscito per i 50 anni dell’assassinio di Kennedy — tratto dal libro-inchiesta di Vincent Bugliosi «Four Days in November», scritto da un reporter investigativo come Peter Landesman, prodotto da un attore «impegnato» come Tom Hanks si limita a una ricostruzione — perfetta, chirurgica, commovente — dell’attentato e delle reazioni, senza però cercare o anche solo suggerire il movente e le spiegazioni, significa che la coscienza profonda del Paese ormai è in pace: la storia di Kennedy significa solo dolore, senso di colpa e «fallimento individuale di ognuno di noi», per usare la formula di Walter Cronkite con cui si chiude la pellicola; il movente e il mandante, se ci sono, non si conosceranno mai.
Si intitola «Parkland» il film di cui RaiCinema ha acquisito i diritti per l’Italia, rinunciando a portarlo nelle sale e scegliendo di trasmetterlo in prima serata su RaiTre stasera, il giorno dell’anniversario, a introdurre lo speciale condotto da Gerardo Greco. Parkland è il nome dell’ospedale di Dallas dove Jim Carrico, il medico di turno, vide arrivare morente Jfk. Due giorni dopo, gli stessi dottori e le stesse infermiere tentarono invano di salvare la vita al suo assassino, Lee Oswald. La vicenda è raccontata anche dai punti di vista di Zapruder, il sarto ebreo che pensava di filmare una parata e si ritrovò nella cinepresa le immagini dell’assassinio più celebre della storia; degli uomini del servizio di sicurezza, che con le lacrime agli occhi per la vergogna del fallimento smontano i sedili dell’Air Force One per far posto alla bara del presidente; e della famiglia di Oswald, in particolare del fratello — l’unico a rendersi conto di quanto era successo — e della madre vanesia, convinta che il figlio fosse un agente degli Stati Uniti e in ogni caso lusingata dal fatto che «finalmente si parlerà di noi». Se Jfk di Oliver Stone creava troppo con la fantasia alla ricerca del complotto, Parkland si limita a restituire lo sbigottimento dell’America, di fronte alla morte del presidente e all’incredibile modo in cui si sono «cancellate le tracce» eliminando il suo assassino. Cinquant’anni dopo, non resta che la sofferenza e il rimpianto. L’America si è arresa al fatto di non sapere, alla lontananza della verità.

Corriere 22.11.13
L’omaggio sottovoce di Barack Obama: «Un idealista sobrio»
di Massimo Gaggi


NEW YORK — «No non mi cambio: voglio che tutti vedano quello che gli hanno fatto». Per tutto il giorno, quel tragico 22 novembre di cinquant’anni fa a Dallas, Jacqueline Kennedy rifiutò di togliersi l’abito rosa coperto dalle macchie di sangue del presidente appena assassinato. Si mostrò così all’America sconvolta anche durante il giuramento di Lyndon Johnson, sull’«Air Force One» che riportava il corpo di JFK a Washington.
Oggi, più che celebrare un grande presidente, l’America si serve dell’immagine e della tragedia di John Fitzgerald Kennedy per specchiarsi nel suo passato. Per riflettere su un assassinio politico che molti hanno descritto come il momento della «perdita dell’innocenza» di un Paese che, dopo la spensieratezza degli anni Cinquanta, dopo quel giorno entrò in un tunnel di tragedie, scandali, disordini, crisi istituzionali: Robert Kennedy e Martin Luther King ammazzati, scontri razziali, sobborghi dei neri in fiamme, il Watergate, un presidente cacciato a furore di popolo.
Ci sono anche le celebrazioni ufficiali, certo, a Dallas e alla Kennedy Library di Boston. Ma la politica di oggi non ha voluto invadere più di tanto la scena. Barack Obama e Bill Clinton, i due presidenti che si sono ispirati alla figura di Jfk, sono andati a rendergli omaggio sulla tomba, al cimitero di Arlington: nulla di formale, una specie di breve, affettuosa riunione di famiglia coi parenti di John. La cui figura è stata rievocata poi, mercoledì sera, da Obama durante il gala per la consegna delle «Medal of Freedom»: un’onorificenza istituita proprio da Kennedy poco prima di morire.
Anche qui poche parole, tono dimesso, niente frasi altisonanti: «Lo ricordiamo per il suo idealismo sobrio e pugnace. Jfk rimane nell’immaginario americano non perché è stato ucciso, ma perché ha incarnato il carattere del popolo che ha guidato: la sua determinazione nel cambiare il mondo anche a costo di sfidare l’impossibile. È questa l’eredità che ci ha lasciato».
Il leader democratico che nel 2008 fu acclamato come il nuovo Kennedy, l’Obama che ebbe l’appoggio decisivo del clan di Jfk nel testa a testa contro Hillary Clinton alle primarie, non è andato oltre. Forse per non invadere troppo la scena in un momento di raccoglimento. Forse perché l’America rimpiange ancora l’innocenza perduta e coltiva il mito del presidente della «nuova frontiera», ma guarda avanti. La «guerra fredda», il Vietnam, Cuba, sono memorie in bianco e nero: oggi gli incubi sono un Parlamento paralizzato da anni e una sanità che funziona male e che rischia di andare a pezzi a causa della riforma che avrebbe dovuto aggiustarla.
E ieri, infatti, Obama, messo da parte il capitolo delle celebrazioni, ha parlato solo dello scontro «nucleare» in corso al Congresso: ha dato pieno appoggio ai democratici che al Senato hanno cambiato, con un colpo di mano, le regole che da 225 anni impongono una maggioranza qualificata per la ratifica delle nomine presidenziali. Da ieri per gran parte di questi atti (ma non per la conferma dei giudici della Corte Suprema) si potrà procedere a maggioranza semplice: 51 senatori su 100.
«Ve la faremo pagare cara» minacciano adesso Mitch McConnell e gli altri leader repubblicani furibondi. Ma Obama giustifica i democratici: mossa dirompente ma inevitabile, visto che la destra da anni boicotta le nomine della Casa Bianca bocciando molti candidati non perché li giudica inadeguati ma per puro pregiudizio politico.

Repubblica 22.11.13
“Ora lo so, Lee non uccise Jfk”
La “verità” della vedova Oswald 50 anni dopo il sangue di Dallas
Oggi le cerimonie. Marina: “Un incubo che ritorna”
di Massimo Vincenzi


DALLAS — «Adesso lo so, adesso ne sono sicura: mio marito Lee non ha ucciso Kennedy. Ho letto centinaia di libri, ho studiato, ho ripensato a quel che accadde e non ho più dubbi: è innocente»: Marina Nikolaevna Prusakova, poi Oswald e adesso Porter (dal suo secondo matrimonio) lo confessa ad uno dei suoi migliori amici, il documentarista Keya Morgan. Poi aggiunge: «Lui amava il presidente, l’ho visto piangere davanti alla tv quando morì Patrick: il figlio scomparso da neonato». Il regista è uno degli ultimi ad averla sentita in questi mesi, l’avvicinarsi del cinquantesimo anniversario è un peso troppo grande da sopportare: «Mi sento come una gobba con una pietra sulla schiena, questo senso di colpa mi tormenta: ho provato in tutti i modi a farmi accettare ma adesso sono stanca, sfinita, ancora una volta devo affrontare tutto questo», si sfoga lei al telefono.
Oggi non sarà a Dealey Plaza alla cerimonia ufficiale, dove pure l’hanno invitata. Non andrà in televisione, nemmeno dopo l’offerta di tre milioni di dollari. Resta chiusa nella sua casa di Rockwall a trenta minuti d’auto a sud di Dallas, dove vive dalla metà degli Anni Settanta con il nuovo marito, il tecnico elettronico Kenneth Porter. A 72 anni vuole solo essere una nonna serena, ma l’ombra lunga della storia torna ad agitare le sue notti: «Gli incubi, che ha sempre, ora si sono fatti più frequenti. L’avvicinarsi della data le danneggia la salute, ha un sindrome acuta da stress: esce pochissimo. Teme di avere il telefono sotto controllo ed ha di nuovo paura che qualcuno le possa far del male», spiega ancora Morgan. E poi aggiunge: «È una delle donne più intelligenti che conosco ed èmolto sensibile».
Il rifugio assediato sta lungo uno stradone con case basse di pietra che si alternano a fattorie e a recinti con cavalli e mucche. Sul vialetto di ingresso tre cartelli sconsigliano l’avanzare: non oltrepassate, state alla larga. Un cane senza catena abbaia e corre nervoso incontro agli ospiti. Il telefono suona a lungo, poi scatta la segreteria telefonica: lasciate un messaggio. Nessuno vi richiamerà.
Dall’altra parte della via abita Jenny, sessant’anni e capelli biondi cotonati. Apre cauta, appena capisce allarga le braccia: «Sono venuti centinaia di giornalisti e curiosi. Certo che la conosco, è una brava persona, un’ottima vicina, non potremmo desiderare di meglio. Lasciatela in pace». E un’altra donna, qualche porta più in là, prova ad interpretare: «È una ferita che non guarisce da 50 anni e che torna a sanguinare come il primo giorno: per lei è un dolore insostenibile. Va capita».
Lei, Marina, da sempre lotta per scappare dal suo passato, che come su un tapis roulant la trascina ogni volta all’indietro. IlNational Enquirer le dedica una lunga inchiesta, dove un’amica di famiglia, Shirley, racconta questo episodio: «Una volta suo figlio Mark, quello avuto con Ken, si è presentato a casa nostra per giocare con i nipoti, aveva un fucile. Io, senza volerlo, ho pensato a quanto accaduto a Dallas e l’ho sgridato. Lei non ci vedeva niente di male, ma comunque non ho più visto il ragazzo con un’arma». Qualche anno fa Marina lotta insieme a tutti gli altri della zona contro l’arrivo di un locale di scambisti. La grigliata per festeggiare la vittoria si fa nel suo giardino: lei è felice, finalmente sente di far parte di una comunità. Che adesso la protegge. Al Walmart dove va a fare la spesa fanno finta di non conoscerla. Solo una cassiera si lascia sfuggire: «La signora Oswald, ovvio che so chi è: viene spesso qui». Poi arriva la direzione del supermercato che vieta le interviste e lei si corregge: «No, guarda mi sa che mi sono sbagliata, l’ho vista sui giornali».
I tabloid inglesi la immortalano proprio su questo enorme parcheggio: i capelli neri striati di grigio, lunghi, spettinati, pantaloni e camicia bianchi.
C’è un’altra foto, di cinquant’anni fa, lei è in ospedale per riconoscere il cadavere di Lee: gli occhi ai confini delle lacrime, la bocca ripiegata in una smorfia di dolore, eppure è bellissima con in braccio la piccola June, che ha 22 mesi, l’altra Rachel che è appena nata, viene lasciata da un’amica. Basta guardare questa immagine e si capisce perché lui perde la testa una notte di marzo del 1961 quando la vede per la prima volta ad un ballo dei cadetti a Minsk, dove è andato a vivere scappando dagli Stati Uniti. Lei, anni dopo, confessa: «Non l’ho mai amato». In realtà non è così e di quei giorni scrive: «Ero allegra e felice che l’affascinante straniero si accorgesse di me». Si sposano subito e poco dopo tornano in America con un viaggio che tanto fuoco soffia sul complotto, sino ad indicarla come agente del Kgb.
Nella prima intervista ad una tv pubblica di Dallas, pochi mesi dopo l’omicidio lei si arrende: «Non vorrei crederlo, ma i fatti provano che è stato lui». Poi piano piano modifica la versione: «Non ha agito da solo, era in mani ai servizi», sino ad arrivare alla certezza di oggi: «La mamma sa che papà era innocente e anche noi la pensiamo così», conferma al National Enquirer la figlia Rachel.
La notte prima dell’attentato lei e Lee non dormono assieme, litigano sempre in quel periodo. Lui però passa a salutarla e le promette di comprarle la lavatrice, poi lascia su un tavolino la sua fede di nozze e un centinaio di dollari: «Usale per le scarpe delle bambine». La fede che lei mette all’asta in ottobre, un mese prima del cinquantesimo anniversario. In una lettera scrive: “Penso al presente, ai figli e ai nipoti. In questo momento della mia vita non voglio più avere ricordi dolorosi di quel passato”.
Il vento scuote i rami degli alberi che circondano la casa sulla strada di Rockwall, le tende si scostano, ombre dietro le finestre, il cane non smette di abbaiare: la storia continua il suo ballo triste con Marina Nikolaevna Prusakova, la ragazza più bella di Minsk.

l’Unità 22.11.13
Tetto alla paga dei manager
La Svizzera lo mette ai voti
Dodici volte lo stipendio base: è la proposta sulla quale deciderà il referendum di domenica
Ma il metodo Olivetti non piace alle aziende
di Marco Mongiello


Anche il paradiso delle banche e delle multinazionali si ribella contro le ingiustizie salariali. Domenica in Svizzera si terrà un referendum per limitare gli stipendi dei manager ad una somma massima pari a dodici volte quella del dipendente meno pagato. Una proposta che se dovesse passare sarebbe una stangata senza precedenti per gli amministratori delegati delle tante multinazionali elvetiche come Ubs, Credit Suisse, Novartis o Nestlè, che tra bonus e retribuzioni ordinarie intascano ogni anno diversi milioni di euro. L’idea ricorda la «regola morale» di Adriano Olivetti, secondo cui nessuno dirigente dovrebbe guadagnare più di dieci volte l’ammontare del salario minimo. Nel marzo nel 2011 era stata la Gioventù socialista svizzera, Juso, a proporre il referendum di natura costituzionale, che è stato messo in calendario dopo la raccolta di 113mila firme. «Un salario 12 volte più elevato può bastare», è lo slogan dei promotori. La nuova normativa fa eccezione per il salario delle persone in formazione, degli stagisti e dei lavoratori a tempo parziale. Inoltre lo stipendio sarà calcolato in base al numero delle ore e quindi un manager che ne lavora 60 potrà in realtà guadagnare 18 volte il salario del dipendente meno pagato, che da contratto lavora 40 ore.
Al momento i sondaggi danno in vantaggio il fronte del «no», contrario a limitare in modo così drastico gli stipendi dei manager per timore di veder fuggire all’estero le aziende. In ogni caso, in base alla Costituzione svizzera, per essere approvato il referendum deve superare la doppia maggioranza della popolazione e dei cantoni, e dopo passare anche all’approvazione del Parlamento. La questione sta comunque alimentando il dibattito, anche fuori dalla Svizzera. In primavera l’Unione europea si è arenata sulla proposta di mettere un tetto ai bonus dei manager delle banche e il dossier è stato rimandato ad un imprecisato futuro.
DUECENTO A UNO
In Svizzera invece lo scorso marzo è strato approvato con il 70% dei voti un altro referendum per limitare gli stipendi dei dirigenti. In base alle nuove regole spetta all’assemblea degli azionisti decidere ogni anno gli importi delle retribuzioni del consiglio di amministrazione, della direzione e dell’organo consultivo. Vietati bonus, premi e contratti di consulenza, e chi non rispetta la legge rischia multe e carcere fino a tre anni. In quel caso il referendum era stato proposto da un piccolo imprenditore, Thomas Minder, che nel 2001 aveva visto la sua azienda andare in rovina in seguito al fallimento della Swissair, il cui amministratore delegato di allora, Mario Corti, aveva ricevuto cinque mensilità anticipate del suo lauto stipendio per restare in carica solo pochi mesi.
La questione delle ingiustizie salariali è quanto mai scottante nel piccolo Paese alpino di 8 milioni di abitanti. Nel 1984 il rapporto tra lo stipendio minimo e massimo era uno a sei. Nel 2011 il divario è arrivato in media a 1a 43, ma i top manager delle grandi multinazionali possono arrivare a prendere anche più di 200 volte il salario del dipendente meno pagato. Numeri che fanno scalpore alla luce della crisi economica mondiale. Ma è proprio per questo che i rappresentanti del mondo economico elvetico si sono schierati con forza contro la proposta. Il rischio, spiegano, è di provocare una massiccia delocalizzazione delle aziende. Inoltre secondo il portavoce dell’associazione delle Pmi svizzere, Bernhard Salzmann, i manager con gli stipendi da capogiro in fondo sono pochi e non ci sono dubbi che troveranno degli escamotage per aggirare la regola.
Sul fronte del «no» si sono schierati anche Parlamento e Governo, che per legge sono chiamati ad esprimersi sulle proposte referendarie. Una simile iniziativa, è stato il loro responso, «indebolirebbe il mercato del lavoro» e le grandi multinazionali potrebbero decidere di trasferirsi altrove. Dalla parte del «sì» invece ci sono il Partito Social Democratico e i Verdi. Secondo Bruce Kogut, direttore del Sanford C. Bernstein Center per la leadership e l’etica della Columbia Business School, l’Europa è più sensibile degli Usa sulla questione dell’eguaglianza, soprattutto dopo la crisi finanziaria. Il problema è che «non ci sono state grandi conseguenze ha spiegato manca la responsabilità e l’espiazione collettiva della colpa».

l’Unità 22.11.13
Merkel cede alla Spd
Sì al salario minimo
di Paolo Soldini


Si avvicina, in Germania, la formazione del nuovo governo. Secondo fonti interne alle tre delegazioni che stanno negoziando per la Cdu, la Csu e la Spd la formazione di una grosse Koalition, i negoziati avrebbero fatto un buon passo avanti e potrebbero concludersi già martedì della settimana entrante, cosicché entro il week end l’intesa potrebbe essere sottoposta agli organismi dirigenti dei tre partiti. I socialdemocratici, poi, dovrebbero sottometterla ai propri iscritti, in un referendum che potrebbe essere convocato presto per durare una quindicina di giorni. Anche i dirigenti della Csu parrebbero intenzionati a consultare la base del loro partito, forse con delle assemblee da tenere nei maggiori centri della Baviera e per la prima volta anche nella Cdu si levano voci favorevoli a qualche forma di coinvolgimento della base, cui non sarebbe del tutto contraria la cancelliera Merkel, pur se il suo autorevole ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble non ha esitato a criticare, nei giorni scorsi, la «perdita di tempo» imposta dai socialdemocratici con la loro «messa in scena» sulla consultazione della base.
A far compiere il passo decisivo verso un’intesa sarebbe stato soprattutto il sì dei due partiti democristiani alla proposta, fortemente sostenuta dalla Spd, della fissazione per legge di un salario minimo generalizzato di 8,50 euro l’ora. In un primo tempo Cdu e Csu si erano dette contrarie alla emanazione di una legge, perché favorevoli piuttosto a forme di salario minimo per categorie o, comunque, da concordare fra le parti sociali. Un impulso probabilmente determinante è venuto, nei giorni scorsi, dall’Ocse, che ha fornito ai negoziatori socialdemocratici un preziosissimo assist, indicando la fissazione del salario minimo generalizzato come una misura essenziale per rianimare il mercato interno e correggere così l’enorme squilibrio economico della Germania a favore delle esportazioni. Al di là della questione del salario minimo, è abbastanza diffusa la sensazione che sulle trattative abbiano influito le critiche e le pressioni che le istituzioni internazionali, a cominciare dalla Commissione Ue, stanno esercitando da tempo perché la Germania adotti una politica economica meno basata sulla forza dell’export e più orientata sulla crescita del mercato interno.

l’Unità 22.11.13
Mai Alkaila
La neo-ambasciatrice dell’Autorità nazionale palestinese in Italia:
«Netanyahu ci invita alla Knesset ma lavora per far fallire i negoziati»
«Gli insediamenti stanno distruggendo la speranza di pace»
intervista di Umberto De Giovannangeli


Il volto della Palestina in Italia è al femminile. Quello di una donna combattiva, a cui il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmud Abbas (Abu Mazen), ha affidato il gravoso compito di rappresentare le ragioni del popolo palestinese in uno dei Paesi chiave euromediterranei. Si tratta dell’Ambasciatrice Mai Alkaila.
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha invitato il presidente Mahmoud Abbas a parlare alla Knesset, e lui stesso si è detto disposto a fare altrettanto a Ramallah. Il processo di pace è a una svolta? E dal punto di vista palestinese, su che basi dovrebbe fondarsi una pace giusta e duratura?
«Credo che Netanyahu, prima di invitare il Presidente Abbas a parlare alla Knesset, deve dimostrare in modo serio e concreto la volontà sua e del suo governo di arrivare ad una soluzione del conflitto, cosa che non sta facendo; anzi, con il suo governo sta ostacolando con tutti i mezzi il procedere delle trattative, evitando finora di parlare delle questioni essenziali (insediamenti, profughi, detenuti politici, acque e confini) che devono essere conclusi entro il 30 aprile prossimo: quindi nessun passo in avanti è stato fatto fino ad adesso. Si potranno fare i reciproci inviti con la soluzione finale che consiste nella creazione dello Stato della Palestina sui territori occupati nel 1967, con Gerusalemme Est capitale».
L’Europa e gli Stati Uniti hanno ribadito il loro sostegno alla soluzione «due Stati». Ma è praticabile questa soluzione con la politica di insediamenti in Cisgiordania?
«Non soltanto l’Europa e gli Stati Uniti, ma anche le Nazioni Unite insieme a tutta la comunità internazionale hanno ribadito il sostegno alla soluzione dei due Stati. Ma come ben sappiamo Israele non ha mai applicato o rispettato le risoluzioni dell’Onu e del suo Consiglio di Sicurezza, cioè non ha mai preso in considerazione la legalità mondiale. Le continue costruzioni degli insediamenti, a Gerusalemme e in tutta la Cisgiordania, intendono far fallire il processo di pace e distruggono la possibilità di arrivare alla soluzione dei due Stati».
Lei è la prima donna ambasciatrice palestinese a Roma. Nelle scorse settimane, Hamas ha nominato una giovane donna a nuova responsabile dei rapporti con la stampa? La Palestina si «tinge» di rosa?
«La società palestinese è stata sempre più aperta, rispetto ad altre nell'area. Le donne palestinesi hanno sempre avuto dei ruoli importanti nella lotta nazionale palestinese sotto la guida dell’Olp ed hanno dimostrato una grande capacità nella fase di costruzione dello Stato Palestinese, a tutti i livelli politici, istituzionali, accademici e sociali».
Cosa si sente di chiedere all’Italia?
«Prima di tutto voglio ringraziare, per la solidarietà ed il sostegno al popolo palestinese, e non ultimo per il suo voto, per noi importantissimo, alle Nazioni Unite, per il riconoscimento della Palestina come Stato osservatore. Credo che l’Italia può avere un ruolo importante, in particolar modo, essendo un Paese del bacino del Mediterraneo, per la pace in Palestina, che significa anche la pace nel Mediterraneo, esercitando tutte le pressioni possibili, assieme all’Unione Europea per indurre Israele a concludere positivamente il processo di pace e non farlo fallire. Perché credo che questa sia l’ultima opportunità».
Allargando l’orizzonte all’intero Medio Oriente, cosa è rimasto delle speranze suscitate dalle «Primavere arabe»? «Per principio, noi palestinesi siamo perché le aspirazioni dei popoli si realizzino. Tutti all’inizio nutrivamo delle speranze, ma ciò che sta accadendo in Tunisia, in Libia, così come i massacri che si succedono in Siria, tutto ciò non corrisponde a quelle istanze di libertà».

l’Unità 22.11.13
La Cina mette al bando la tortura
La Corte Suprema del Popolo vieta di estorcere confessioni con la violenza
di Vi. Lo.


La Cina dice basta alle torture per estorcere confessioni. A vietarle espressamente per la prima volta è la Corte Suprema del Popolo in un documento contente le linee guida per gli interrogatori di policia. Il documento è stato diffuso una settimana dopo l’annuncio di una serie di riforme nel sistema penale che comprendono l’abolizione dei famigerati campi di lavoro. «Gli interrogatori sotto tortura, usati per estorcere una confessione si legge nelle linee guida così come l'uso di metodi legati all’esposizione al freddo al caldo, alla fame, alla sete, all’eccessivo stress, o altri metodi illegali per ottenere confessioni dagli accusati, devono essere eliminati». Più
rigido anche il ricorso alla pena di morte: le regole per la condanna capitale saranno più rigide e la sentenza potrà essere inflitta solo da giudici esperti e a fronte di un numero consistente di prove.
La Corte Suprema ha poi sottolineato che i tribunali cinesi non devono piegarsi alle pressioni dei media o alle «irragionevoli richieste delle parti in causa» per evitare che, come accaduto in alcuni casi, la protesta sulla Rete possa cambiare il corso di processi o modificare le sentenze. La Corte Suprema cinese aveva già reso pubblico il mese scorso un documento in cui sollecitava un’operazione di pulizia che mettesse fine alla corruzione dilagante nei tribunali e alle interferenze esterne nelle decisioni dei giudici.
La settimana scorsa il Partito Comunista Cinese ha varato una serie di riforme durante il terzo plenum del Comitato Centrale che hanno toccato quindici aree di intervento, tra le quali la giustizia, che dovrà essere più trasparente ed efficiente. I primi segnali di cambiamento stanno arrivando con la fine del sistema extra-giudiziale del laojiao, prevista nel prossimo futuro, che prevede la detenzione fino a quattro anni in apposite strutture per chi si è macchiato di reati minori.

Corriere 22.11.13
Legge sul figlio unico
Caccia a Zhang Yimou padre per sette volte
Il regista cinese rischia 20 milioni di multa
di Guido Santevecchi


PECHINO — È cominciata con i gossip sulle molte storie d’amore di Zhang Yimou, il regista che ha firmato «Sorgo rosso», «Lanterne rosse», «I Fiori della guerra». A quanto hanno scritto i siti specializzati, che in Cina sono tanti e aggressivi, l’artista ha collezionato quattro compagne «stabili», un’infinità di avventure. E sette figli.
E qui, dal gossip, la faccenda è passata nei dossier della Commissione per la pianificazione delle nascite di Pechino. Che ha aperto un’inchiesta. Perché nonostante il Partito comunista abbia appena annunciato al mondo un allentamento della «legge del figlio unico», sette figli restano ancora un tabù. Così il maestro Zhang, 62 anni, ora rischia una serie di multe per un totale di 160 milioni di yuan, che al cambio fanno 20 milioni di euro.
La storia ora ha il timbro dell’ufficialità, perché viene raccontata dall’agenzia di stampa governativa Xinhua : l’indagine è partita a maggio, nella città di Wuxi dov’è nata l’attuale compagna del regista, Chen Ting, 31 anni. Ma le autorità locali in questi mesi non sono riuscite a rintracciare la coppia, in continuo movimento sui tappeti rossi dei festival internazionali del cinema. Dato l’alto profilo del regista, ha spiegato un funzionario, l’ufficio pianificazione familiare «ha dato alta priorità al caso». Sono state spedite più di dieci lettere al domicilio di Zhang, altre sono state mandate alle case di produzione del regista, senza risposta. Gli agenti sono andati anche a Pechino, dove Zhang dovrebbe essere da settembre, per le riprese della sua prossima opera, il dramma storico «Il Ritorno». Nessun risultato.
Intanto gli esperti di gossip hanno continuato a diffondere indiscrezioni sul pluri-padre: che avrebbe abbandonato la prima moglie per Gong Li, la grande attrice che proprio lui lanciò con «Sorgo rosso» nel 1987. Chen Ting sarebbe solo l’ultima della serie, conosciuta durante la selezione dei protagonisti quando lei aveva solo 17 anni. I sette figli sarebbero nati da 4 donne diverse.
La caccia a Zhang per fargli pagare la multa astronomica sembra la trama di una commedia alla cinese. Sulle ammende, però, che in termine burocratico qui si chiamano «tasse di mantenimento sociale», c’è poco da scherzare. Perché probabilmente Zhang Yimou potrebbe anche permettersi di pagarle, o tentare la via della conciliazione. Ma per migliaia e migliaia di cinesi comuni, colpevoli in 33 anni di imposizione del figlio unico di aver messo al mondo un secondo bambino, la multa ha spesso rappresentato un incubo. La legge non dice quanto si debba pagare esattamente e molti burocrati di piccoli e grandi centri della Cina hanno sfruttato la situazione come forma di autofinanziamento.
E poi, soprattutto nelle campagne, sono stati commessi abusi atroci, dalle sterilizzazioni agli aborti forzati. A milioni. Molti genitori hanno nascosto i loro secondi figli, o hanno pagato tangenti per evitare punizioni più gravi.
Ora la promessa di allentare la politica: le coppie di città in cui almeno uno dei genitori sia figlio unico, potranno permettersi un secondo. Si calcola che in questa condizione si trovino tra i 15 e i 20 milioni di coppie sposate. I sondaggi indicano che forse solo la metà abbia intenzione di dare un fratello o una sorella al primo nato. Quindi, si tratterà di un «mini baby boom».

Repubblica 22.11.13
Se Putin a rinascere gli scrittori di regime
Cerimonia a Mosca con 500 autori plaudenti. Le accuse: “Come Stalin nel ’34”
di Nicola Lombardozzi


MOSCA Gli ingredienti, ieri sera, c’erano tutti. Il luogo, l’aula magna dell’Università Russa per l’Amicizia tra i Popoli, orgoglio della cultura sovietica che per qualche anno fu dedicata a Patrice Lumumba liberatore del Congo. I protagonisti, 500 scrittori, poeti, saggisti, sceneggiatori cinematografici, scelti tra i «protagonisti più meritevoli della produzione letteraria russa». E lui, il Capo, Vladimir Putin circondato da un gruppetto di consiglieri scovati tra gli eredi diretti dei nomi immortali della letteratura patria: il pronipote di Tolstoj, quello di Pushkin, quello di Lermontov, la nipote di Pasternak insieme a un discendente di Sholokov, fino a una commossa Natalja, vedova Solgenitsyn.
Troppe coincidenze e troppe note stridenti per non evocare, perfino tra i meno coinvolti politicamente, l’atmosfera del 17 agosto 1934, nella sala delle colonne della vicina Dam Sojuzov, quando la formula staliniana degli «scrittori come ingegneri delle anime»si concretizzò nella nascita della Unione degli Scrittori. Fu l’inizio di un asservimento ben retribuito dei letterati alla causa imprescindibile del socialismo reale. Portò a censure capillari, controllo totale dell’editoria e a implacabili persecuzioni. Putin, che ieri stava bene attento a non tradire il progetto di ricostituire in qualche modo l’antica struttura, ha comunque tentato un primo passo di arruolamento. Tra tanti applausi e pochissimi mugugni, si è lanciato in un grido di dolore per la cultura perduta. Ha denunciato l’emergenza di una letteratura, di una lingua russa, e perfino di una scala di valori sempre più impoverita. Ha definito gli scrittori gli unici potenziali artefici di una rinascita. E ha offerto un aiuto dello Stato. «Le misure sono ancora tutte da studiare, ma faremo di tutto per aiutarvi a pubblicare e a diffondere le vostre opere». In che modo e in quale genere di opere? È ancora da stabilire. Putin promette che «l’Unione degli scrittori non è più proponibile e che l’intervento di Stato avverrà solo su prevista richiesta».
Ma l’ambiguità è evidente. E l’allarme giustificato. Molti hanno rifiutato l’invito. Qualcuno spiegando anche coraggiosamente il perché. Boris Akunin ha fatto sapere che «non accetta aiuti da uno Stato che non rispetta i diritti umani e ha le galere piene di prigionieri politici». Eduard Limonov ha ironizzato sui “nipoti di”: «Non vengo a farmi la foto con quelli. Mi ricordano i Lenin e gli Stalin che posano per i turisti sulla Piazza Rossa». Viktor Erofeev ha richiamato direttamente l’era sovietica. «Mi ricordo il moto scolpito all’ingresso della casa degli scrittori: la letteratura è al servizio del Partito. Non mi interessa».
Altri non hanno nemmeno risposto approfittando del fatto che ormai vivono abitualmente all’estero. Sono, e non è un caso, gli scrittori russi di maggiore successo, i più venduti in Occidente, come Ljudimila Ulitskaja, Vladimir Sorokin, Viktor Pelevin. Ma la questione non riguarda tanto gli assenti quanto quelli che hanno preso sul serio l’iniziativa. A Putin sono ovviamente arrivate domande “a schiena dritta” che gli hanno consentito di affermare che «in Russia non ci sono violazioni dei diritti e che il nostro è uno Stato democratico». Ma sono arrivate anche le richieste più prosaiche e interessate: «Avremo diritto a una pensione?», «Ci spetterà un reddito minimo?», «Le opere monumentali varranno quanto o più di una poesia?». Il presidente glissava annunciando solo una raffica di premi in denaro già stanziati per le migliori opere nel campo della letteratura per i bambini e per gli adolescenti.
Ma i letterati caduti in tentazione stanno raccogliendo le indiscrezioni. Non ci saranno i favoritismi plateali dell’epoca. Niente dacie privilegiate nel quartiere residenziale di Peredelkino, ristoranti gratuiti, viaggi all’estero, o gratifiche in denaro per copie vendute. La formula sarà moderna, incentrata su borse di studio, premi, assegni di sostegno e altri benefit da studiare. Quello che conta è l’obiettivo: «Riportare nel mondo lo spirito della grande letteratura russa che esprima i reali valori della nostra società». Parole simili a quelle che Maksim Gorkij pronunciò quella mattina del ’34. Ne nacque un apparato che stritolò l’opposizione, boicottò Bulgakov, perseguitò Pasternak, lasciò deportare Solgenitsyn. Ieri in un’atmosfera che a tratti sconfinava in quella di un “reality” i loro eredi applaudivano alle parole del Capo. Che li tranquillizzava: «Quei tempi sono finiti. Quegli errori non si ripeteranno più».

Repubblica 22.11.13
Ecco il “preservativo perfetto” l’ultima battaglia di Bill Gates
Un “condom” di grafene per combattere l’Aids
di Enrico Franceschini


LONDRA — Ha una storia lunga quanto la civiltà umana, ma adesso qualcuno vorrebbe reinventarlo per il 21esimo secolo, ed è un signore che di invenzioni se ne intende. Bill Gates, il fondatore della Microsoft, ha donato attraverso la sua fondazione 64 mila sterline alla Manchester University per creare un nuovo tipo di profilattico. Come i programmi di software della sua azienda, anche questo sarebbe ad alta tecnologia: lo scopo è produrre un preservativo di grafene, il rivoluzionario materiale che fece vincere nel 2004 il premio Nobel al suo inventore. L’intento di Gates è benefico: spingere più gente ad usare il “condom” nei rapporti sessuali, specie nel mondo in via di sviluppo, dove spesso rappresenta la prima e più importante barriera contro la trasmissione di malattie, a cominciare dall’Aids, e per la prevenzione delle nascite. Un nuovo capitolo della battaglia che la Bill and Melinda Gates Foundation combatte per debellare virus, portare l’igiene, salvare vite e innescare progresso in Africa e in altre regioni povere del nostro pianeta.
La cifra, pari a circa 75 mila euro, certo non è alta, specie se confrontata con i 28 miliardi di dollari che i coniugi Gates hanno finora donato alla propria fondazione, la più grande del mondo in materia di beneficenza. Ma è diretta soltanto a mettere a punto l’invenzione, ad arrivare a un prototipo, finanziando il primo anno di ricerche: ben altre risorse, eventualmente, verrebbero messe a disposizione dopo. Quando il grafene fu scoperto una decina d’anni fa, ricorda il Times di Londra, ci fu chi ironizzò: a cosa mai poteva servire quel tessuto ultra-leggero e ultra-resistente, oltre che a sospingere la rivoluzione digitale? Magari a fare “un condom high tech”?
Ebbene sì, risponde adesso il professor Aravind Vijayaragnavan dell’università di Manchester, lo scienziato a cui è stato affidato il progetto: «Ha tutte le proprietà giuste, ma nessuno l’aveva preso seriamente in considerazione fino ad ora». Ottenuto in laboratorio dalla grafite, il grafene infatti è un materiale consistente in uno strato monoatomico di atomi di carbonio, che ha cioè uno spessore ridotto al minimo, equivalente alle dimensioni di un solo atomo, ma è anche duro quanto il diamante. «Sarebbe quindi perfetto per un profilattico più sottile e più resistente, senza perdere impermeabilità ed elasticità», afferma lo studioso. Dai primi preservativi ricavati da budella di animali, a quello moderno nato alla corte di Carlo d’Inghilterra nel Rinascimento (1665-1685), poi descritto per la prima volta in un trattato dallo scienziato italiano Gabriele Fallopio, ne è stata fatta di strada. Il “condom” al grafene, marmoreo ma quasi impercettibile, sarebbe l’evoluzione di una specie il cui compito è evitare che la specie umana si moltiplichi troppo o deperisca.

La Stampa 22.11.13
Paul Auster
L’America crolla non ho altra scelta che scrivere
Parla lo scrittore, che si racconta in Notizie dall’interno
“Dalla tecnologia all’economia, scivoliamo indietro”
La paralisi politica ci blocca nel presente, e la distanza tra poveri e ricchi aumenta. Non è un bene, per una democrazia
intervista di Paolo Mastrolilli


Paul Auster è nato a Newark, New Jersey, 66 anni fa. Tra le sue opere più note, Trilogia di New York, Timbuctu, Il libro delle illusioni, Follie di Brooklyn, Sunset Park, Il taccuino rosso, Diario d’inverno. Il suo nuovo libro, Notizie dall’interno, uscirà martedì per Einaudi, tradotto da Monica Pareschi (pp. 228, con un album fotografico in appendice, € 19,50)

«Preferisco domandare, piuttosto che credere». Partiamo da questo assioma, per parlare con Paul Auster del suo nuovo libro Report from the Interior, uscito martedì in America. Dopo Diario d’inverno, in cui aveva raccontato la storia del suo corpo, arriva adesso «la memoria di come sono diventato una persona pensante». Una riflessione sui grandi temi della vita, l’identità ebraica, Dio, la fede nella letteratura, la delusione per gli Usa che «stanno attraversando un periodo molto difficile, un momento basso della nostra storia». Martedì sarà in libreria anche in Italia, per Einaudi, col titolo Notizie dall’interno.
Da bambino le raccontavano che l’America era un paradiso, e lei ce la metteva tutta per crederci. Poi cosa è successo?
«Non sono rimasto deluso dal mio paese, però ho smesso di guardarlo con le lenti del mito, bello ma non vero. Siamo nati da due genocidi, lo sterminio degli indiani e la schiavitù dei neri, che sono i nostri peccati originali. Poi, come tutti, passiamo attraverso alti e bassi, e ora siamo in un periodo molto basso».
Perché?
«Non pensiamo più al futuro, all’interesse comune. E ogni volta che ce ne occupiamo, prendiamo le decisioni sbagliate».
Ci fa qualche esempio?
«Stiamo perdendo il treno della modernità. Abbiamo infrastrutture cadenti, strade, ponti e ferrovie superate, ma non facciamo nulla. Stiamo scivolando indietro anche nella tecnologia, e non pensiamo a come dovremmo istruire meglio i nostri figli. In economia, nessuno si preoccupa di cosa fare per crescere e creare lavoro: solo piccoli interessi di breve periodo. La paralisi politica ci blocca nel presente, e la distanza tra ricchi e poveri aumenta. Non è bene, per una democrazia».
Colpa del presidente Obama, dei repubblicani, o della cultura cambiata?
«Tutti questi fattori. Però bisogna dire che se Obama tenesse un discorso per affermare che il cielo è blu, i repubblicani del Tea Party insorgerebbero per dire che è verde. E se lui concedesse che in effetti è un po’ verde, risponderebbero che è blu. È pazzesco, non ho mai visto un odio così ottuso contro un presidente».
Oggi è il cinquantesimo anniversario dell’uccisione di Kennedy: questa spaccatura cominciò allora?
«Avevo sedici anni, ma lo ricordo come adesso. La domenica dopo l’omicidio andai a Washington per vedere il corteo, e fu il giorno in cui Ruby uccise Oswald. Insieme all’11 settembre 2001, è stato uno dei due giorni più scioccanti della mia vita, capaci di cambiare la storia. Ha ancora ripercussioni, però non credo che i problemi di oggi iniziarono allora: abbiamo avuto altri momenti difficili, anche altri presidenti uccisi. La divisione di adesso è recente, e forse anche più pericolosa».
Durante l’amministrazione Bush, ci disse che New York doveva separarsi dagli Usa e diventare uno Stato indipendente. Ora che avete eletto il nuovo sindaco liberal de Blasio, volete ancora la secessione, o pensate di poter guidare il rinnovamento del paese?
«La scissione naturalmente era uno scherzo, però alle volte penso davvero che New York dovrebbe essere uno Stato indipendente. È la città più aperta al mondo e incarna il meglio degli Stati Uniti, a cominciare dalla tolleranza, anche se il resto del paese non ci crede. Sarebbe bello se riuscissimo a indicare una nuova strada». Molte pagine del nuovo libro sono dedicate alla scoperta della sua identità ebraica: si è sentito discriminato?
«Era un’altra America, quella in cui sono cresciuto. C’era un antisemitismo latente, che ora è diminuito, anche se restano sacche di odio verso noi e i neri».
Fuori degli Usa, molti pensano che siete un paese amico di Israele e condizionato dalla lobby ebraica: hanno torto?
«Un conto è la politica, un altro la società. In politica anche molti paesi europei pensano che Israele sia un baluardo occidentale da difendere. Sionismo e giudaismo, però, sono due cose diverse. Qui in America ci sono ancora dei pazzi che odiano gli ebrei, e fondamentalisti cristiani che amano Israele perché pensano che sia il luogo dove tornerà il Messia».
Ecco, Dio. È molto presente nel libro: che rapporto ha con lui?
«È un tema su cui mi interrogo da sempre, ma non mi riconosco nelle versioni della tradizione cristiana, ebraica o islamica. L’universo non lo abbiamo creato noi. Se la risposta che vuoi dare a questo mistero è il caso, la scienza, o Dio, per me va bene. Ma è assurdo credere a un essere antropomorfo che ci ha creati».
Lei racconta la sua delusione quando, vedendo il film La guerra dei mondi, gli alieni invasori della Terra non si fermarono neppure davanti al pastore che brandiva la croce.
«È stato uno shock da cui non mi sono mai ripreso: Dio non era l’essere onnipotente che mi avevano fatto credere».
Non sarebbe stato più facile così?
«Forse, ma non sono più riuscito a crederci. Non solo per il film, naturalmente. È una visione infantile».
Visto che il nuovo libro ha l’ambizione di affrontare questi grandi nodi della vita, le pare che stiamo andando nella direzione giusta?
«In Europa c’è sicuramente meno fervore. In America la maggior parte delle persone basa ancora la vita sulla fede, per non parlare di quanto succede nel mondo islamico. La religione resta fondamentale per miliardi di esseri umani, ma io trovo maggior conforto nel domandare, invece di credere ai dogmi».
In una lettera scritta alla sua ex moglie Lydia Davis, lei diceva che «l’arte dovrebbe bussare selvaggiamente alle porte dell’eternità». Ci crede ancora?
«Ero molto giovane, pieno di entusiasmo. Però non penso che l’arte possa restare chiusa tra le sue mura, mentre la società crolla. Come la giustifichi, sennò? Non è politica, e la capacità di avere un impatto è spesso frustrante. A volte, però, il piacere dell’arte diventa la ragione fondamentale per essere vivi».
Abbastanza per continuare a scrivere?
«Non ho scelta, no? E poi avete mai pensato a cosa sarebbe il mondo, senza l’arte?».

Repubblica 22.11.13
Il teorema di Escher
Codici e segreti di un’arte matematica
Solidi “platonici”, piani “tassellati”, cristalli
Come la geometria ha ispirato il genio olandese
di Piergiorgio Odifreddi


A Reggio Emilia, nel Palazzo Magnani, si può visitare fino al 23 febbraio prossimo la mostra L’enigma Escher. Paradossi grafici tra arte e geometria

Maurits Cornelis Escher (1898–1972) occupa un ruolo speciale nella storia dell’arte contemporanea per la sua produzione posteriore al 1935, anno in cui lasciò l’Italia fascista dopo una permanenza di dodici anni a Roma per tornare, dopo due ulteriori anni in Svizzera e cinque inBelgio, definitivamente in Olanda.
Fino ad allora egli si era dedicato a litografie e silografie, principalmente di paesaggi e architetture. Dopo di allora, pur mantenendo lo stesso mezzo espressivo, il contenuto delle sue opere divenne sempre meno raffigurativo e sempre più intellettuale, ed egli si ritrovò ad usare in maniera crescente, dapprima inconsciamente e poi volutamente, motivi matematici.
La sua originale ed inusuale estetica gli procurò sì notorietà nel campo scientifico, a partire dalla mostra dei suoi lavori organizzata in occasione del Congresso Internazionale di Matematica del 1954 ad Amsterdam, ma gli alienò anche le simpatie del campo artistico, con accuse di eccessive freddezza, astrazione e convenzionalità stilistica.
Oggi le cose sono cambiate, e la situazione si è ribaltata: caratteristiche più appariscenti dell’opera di Escher hanno preso il sopravvento sugli aspetti matematici, trasformando l’artista (suo malgrado) in un illustratore di copertine, magliette e poster.
Poiché però proprio nell’aspetto intellettuale risiede il duraturo valore della produzione di Escher, non è forse inappropriato riflettere su di esso, cercando di sottolineare sia le fonti che le novità dei motivi più strettamente matematici. Senza esagerare, però, visto che Escher si lamentò spesso di non capire appieno né il linguaggio dei matematici, né la sostanza delle loro osservazioni, pur convenendo che senza spiegazioni le sue immagini possono risultare troppo ermetiche.
Naturalmente, la geometria si è intromessa nelle arti figurative ogni volta che, da Leonardo ai cubisti, si sono rappresentate figure geometriche, in particolare poligoni (piani) e poliedri (spaziali) di varia forma.
Escher è stato particolarmente attratto dai solidi regolari, detti anche solidi platonici, perché, come egli stesso disse, «simboleggiano in maniera impareggiabile l’umana ricerca di armonia e ordine, ma allo stesso tempo la loro perfezione ci incute un senso di impotenza». Parte della magia dei solidi regolari deriva dal loro esiguo numero: come dimostrò Teeteto nel secolo VI a.C., essi sono soltanto cinque (cubo, tetraedro, ottaedro, dodecaedro e icosaedro).
Aggiungendo delle piramidisulle facce dei solidi regolari si ottengono i cosiddetti solidi stellati. In particolare, Escher amò moltissimo il dodecaedro stellato, ritenendolo dotato di “perfettamente ordinata bellezza”, e lo rappresentò più volte. Esso si può considerare come l’intersezione di dodici facce a stella regolare: la figura resa tristemente famosa dalleBrigate Rosse, e che è a sua volta una stellazione piana del pentagono regolare.
Per sua stessa ammissione, il soggetto che più interessò Escher fu però la divisione regolare del piano. Il problema in questione viene chiamato tassellazione del piano, e consiste nel ricoprire l’intero piano mediante tasselli tuttidello stesso tipo, o al massimo di un numero finito di tipi, come in un gigantesco puzzle.
Escher non è comunque stato il primo artista ad usare le tassellazioni del piano. L’esempio delle decorazioni moresche dell’Alhambra di Granada è ben noto, e fu da lui stesso studiato in maniera approfondita, durante dueviaggi nel 1922 e 1936. A causa della proibizione religiosa di rappresentare esseri viventi, i Mori non poterono però usare altro che motivi geometrici astratti, mentre Escher trovò più attraenti rappresentazioni di figure animate, specialmente pesci e uccelli.
Sia i Mori che Escher furono interessati ad una esplorazione sistematica delle tassellazioni regolari, ed usarono quasi tutti i 17 possibili tipi caratterizzati dal cristallografo russo Fedorov nel 1891. Mentre i Mori dovettero ovviamente scoprire da soli le varie possibilità, Escher le conosceva grazie al fratello, che era professore di geologia.
Ciò che invece Escher riscoprì autonomamente furono le tassellazioni cromatiche, che sono di grande interesse non soltanto per gli artisti, ma anche per i cristallografi. In particolare, egli ritrovò 14 delle 46 possibili tassellazioni del piano a due colori, classificate dal matematico Woods nel 1936.
I cristallografi riconobbero ripetutamente l’aspetto pionieristico del lavoro di Escher nel loro campo, tanto che l’Unione Internazionale di Cristallografia lo invitò a tenere una conferenza al congresso del 1960, e gli commissionò l’illustrazione di un testo con 42 dei suoi disegni, pubblicato nel 1965.
Il problema della tassellazione si può estendere dal piano euclideo a superfici più complicate. Gli esempi più semplici di tali superfici sono la sfera e il cilindro. La sfera è interessante perché è limitata nello spazio, e può dunque essere interamente tassellata con un numero finito di tasselli. Questo fatto è, secondo Escher, «un meraviglioso simbolo dell’infinito in forma chiusa», ed egli l’ha illustrato intagliando varie sfere di legno. Quanto al cilindro, Escher ne ha illustrato la tassellazione piastrellando varie colonne.
Nel 1958 Escher venne a conoscenza, tramite il matematico Coxeter, di una superficie meno ovvia: il piano iperbolico, la cui proprietà caratteristica è che, data una retta ed un punto fuori di essa, ci sono infinite parallele alla retta data passanti per il punto (nel piano euclideo solito, ce n’è invece soltanto una).
Ciò che affascinò Escher fu che il piano iperbolico si può rappresentare mediante una porzione limitata del piano euclideo, ad esempio un cerchio. Mentre le tassellazioni del piano euclideo sono sempre incomplete, quelle del piano iperbolico possono dunque essere complete. Escher produsse così quattro famosi esempi, i Limite del cerchio I-IV, che costituiscono forse i capolavori della sua singolare arte di ispirazione matematica.