domenica 24 novembre 2013

l'Unità 24.11.13
Dal rosa al rosso
Domani la giornata internazionale dell’Onu contro la violenza e gli abusi di genere
di Mariagrazia Gerina


Anche le tinte sono cambiate nella lotta delle donne per i loro diritti: troppo sangue In Italia è stata organizzata una maratona contro gli stupri e il femminicidio.
Ma sarà anche l’occasione per ritrovarsi, scioperare, raccontare attraverso la cultura l’universo femminile
«CARO AMORE MIO, TI SCRIVO PERCHÉ NON RIUSCIAMO PIÙ A PARLARE E NON FACCIAMO CHE ARRABBIARCI. I lividi, i dolori con il tempo vanno via. La paura ormai me la porterò dietro per tutta la vita. Ma non è colpa mia, non sono nata con la paura di essere picchiata dalla persona che amo.Vedi quando sei tranquillo e sereno io e nostro figlio ci sentiamo al settimo cielo, e ci fidiamo di te. Ma quando diventi quel brutto mostro cattivo non ci fidiamo più. Quindi per l'ultima volta ti chiedo: quanto sei disposto a cambiare anche per noi?».
Lettera di una donna maltrattata al suo uomo violento, uno dei tanti che ricoprono le loro compagne di lividi e paure, uno dei pochi che ha deciso di voltare pagina, rivolgendosi a un centro d'ascolto per uomini maltrattanti. «Leggerla insieme agli altri del gruppo è stata una esperienza potente», racconta Alessandra Pauncz, fondatrice del centro a cui Marco si è rivolto, il Cam di Firenze, il primo di questo genere, seguito da pochi altri sparsi per l'Italia. Rari percorsi di faticoso riscatto. Simbolici, per ora, nel numero. E che un librettino curato dalla stessa Pauncz prova a raccontare. Si intitola Da uomo a uomo: edito dalla Romano Editore sarà in libreria tra pochi giorni. Quattro testimonianze maschili, un test per aiutare gli uomini a leggere su di sé i segni della violenza e quella lettera così potente. Renderla pubblica è per la donna che l'ha scritta e per l'uomo che l'ha ricevuta un modo per celebrare senza retorica, con la loro storia, la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne.
Giornata di lutto, per forza. Perché ci si ritrova, come ogni anno dal '99 quando fu istituita, a contare i morti. Anzi, «le» morte. Donne uccise dai loro uomini. Centoventotto in Italia, dall'inizio del 2013. Una Spoon River al femminile che ha stentato a trovare spazio nelle statistiche ufficiali, e anche nelle pagine dei giornali, che ora di quelle storie di donne ammazzate traboccano, specie in occasione di ricorrenze come quella di domani. Giornata di lutto, dicevamo. Ma anche di riscatto, cercato proprio a partire dal racconto pubblico di quei femminicidi che segnano il confine estremo della violenza, così vicino al limite sfiorato tutti i giorni in centinaia di migliaia di interni familiari.
FLASH MOB E INIZIATIVE
E allora concerti, reading, incontri. Il testo di Serena Dandini Ferite a morte utilizzato come strumento per riprendersi la voce. Davanti all' Assemblea della Nazioni Unite, dove sarà letto dalla stessa autrice. Come nell'Aula di Montecitorio. Oppure, in strada, davanti alla sede nazionale della Cgil, dove (dalle 15) a dare voce alla Spoon River d'Italia ci saranno anche Susanna Camusso e le attrici Ivana Monti e Francesca Reggiani. Appuntamenti per Un lunedì da leonesse, come recita la serata organizzata da Snoq Factory al Macro di Roma mentre al Palazzo delle Esposizioni, alla presenza del viceministro per le Pari Opportunità, si terrà un recital delle poesie d'amore con Mariangela Gualtieri. Letture, gesti, parole. E qualcosa di rosso indosso, come il sangue, per non dimenticare. Decisamente più denso di significato del rosa. E più adatto per protestare, secondo le promotrici di un appello che stavolta chiama tutte ad andare oltre la celebrazione. «Fermiamoci per ventiquattro ore. Perché sia chiaro che senza di noi, noi donne, non si va da nessuna parte», recita l'Sos lanciato in rete da Barbara Romagnoli, Adriana Terzo e Tiziana Dal Pra che in poco tempo ha raccolto migliaia di firme. Sciopero delle donne, quindi. Come quello immaginato da Lisistrata nella commedia di Aristofane. Anche se l'idea a qualcuna fa storcere il naso. «Sciopero contro chi? Contro l'uomo a cui riconosco la veste di datore di lavoro?», si domanda scettica Gabriella Moscatelli, presidente del Telefono Rosa, che trascorrerà la mattina al teatro Quirino con il premio Oscar Sharmeen Obaid-Chinoy, autrice del documentario Saving face sull'acidificazione, una pratica mostruosa in voga ormai anche in Italia, e gli studenti delle ultime classi delle superiori che nei prossimi mesi saranno impegnati a produrre uno spot contro la violenza.
Il femminicidio è solo la punta dell'iceberg. Secondo l'ultima indagine Istat disponibile, le donne che hanno subito abusi fisici o sessuali in Italia sono 6 milioni e 743mila.
Una violenza che ha un costo enorme. Anche in termini economici: secondo Intervita 17 miliardi se ne vanno in fumo ogni anno insieme alla vita di centinaia di donne. Mentre contro la violenza nel 2102 sono stati stanziati solo 6 milioni. Il recente decreto cosiddetto «contro il femminicidio» ne aggiunge10 per il 2013, 7 per il prossimo, altri 10 per il 2015. La sproporzione è macroscopica. E oltretutto: «Ci sono veramente questi soldi?», si domanda la presidente del Telefono Rosa, mentre le agenzie battono un emendamento alla legge di Stabilità firmato dai relatori in Commissione Bilancio che prevede 10 milioni l'anno a sostegno del Piano antiviolenza fino al 2016. Ma i soldi non sono l'unico punto. Anche le nuove norme contro maltrattamenti e stalking, dall'arresto in flagranza al gratuito patrocinio alla revocabilità della querela solo in sede processuale, stentano a decollare. «Ci sono ancora molte difficoltà ad attuare quanto previsto in quella legge», spiega Costanza Baldry, avvocata di Differenza Donna. Anche lei convinta che il lavoro sul campo sia più utile di uno sciopero. Domani sarà a Santa Maria Capuavetere con gli studenti delle superiori e universitari a cui si rivolge il concorso artistico lanciato insieme alla cooperativa sociale Eva. «Devono essere le nuove generazioni protagoniste del cambiamento».

Corriere 24.11.13
Caso kazako, le responsabilità dimenticate
di Gian Giacomo Migone


Un’indagine giudiziaria, un nuovo fatto di cronaca o magari una trasmissione televisiva possono riesumare uno scandalo, una cause celèbre , dal dimenticatoio del dibattito pubblico. Così, abbiamo appreso che il passaporto provvisorio della piccola Alua, figlia del principale oppositore al dittatore del Kazakistan, per consentirne l’espulsione dall’Italia insieme con la madre, è probabilmente stato confezionato in tandem dalla questura di Roma e dall’ambasciata del Kazakistan. Ulteriore capitolo di una vicenda che vale la pena rivisitare nelle sue linee generali.
Qualche volta una simulazione può aiutare a comprendere ragioni che la strumentalità politica smarrisce. Per distinguere le debolezze che il caso Shalabayeva ha rivelato nelle nostre istituzioni dai destini del governo Letta, proviamo a simulare ciò che sarebbe potuto o dovuto avvenire in una democrazia normale. Chiamiamola Westlandia.
In quel Paese, tutt’altro che ideale, i servizi segreti sono in grado di informare il loro referente governativo — nel caso dell’Italia, il sottosegretario con delega ai servizi — della presenza nella capitale forse del principale oppositore del presidente-dittatore del Kazakistan, sicuramente di sua moglie e di una sua figlia. Questa informazione viene subito percepita come foriera di problemi ed imbarazzi, perché la principale industria petrolifera, con il concorso dei governi che si sono succeduti da quasi vent’anni, ha sviluppato investimenti e rifornimenti di petrolio e di gas naturale, al punto da rendere Westlandia il secondo partner commerciale di quel Paese. Perciò vengono informate le superiori autorità governative.
Quando poi l’ambasciatore del Kazakistan con insistenza chiede un appuntamento al ministro dell’Interno, costui istruisce i suoi collaboratori di sospendere ogni eventuale contatto con il diplomatico e di invitarlo a rivolgersi alla sua collega che, in quanto titolare degli Esteri, costituisce il principale interlocutore istituzionale di un ambasciatore straniero. Quando il governo si trova di fronte al fatto che il presidente del Kazakistan rivendica l’estradizione del suo massimo oppositore — da lui definito pericoloso criminale — e della sua famiglia, scatta l’allarme rosso. Vengono richieste informazioni ulteriori a Londra da cui risulta che il governo britannico ha riconosciuto all’oppositore lo status di esiliato politico, mentre sua moglie e una figlia si trovano effettivamente nella capitale di Westlandia. L’ambasciatore viene convocato al ministero degli Esteri e diffidato dall’assumere alcuna iniziativa in attesa di comunicazioni da parte del governo della Westlandia, mentre viene stesa una rete protettiva intorno alla famiglia dell’oppositore onde prevenire colpi di mano da parte dei servizi kazaki.
Nel frattempo si riuniscono, nella massima segretezza, presidente e vicepresidente del Consiglio, ministra degli Esteri, sottosegretario con delega ai servizi segreti. Viene anche messo al corrente il capo dello Stato il quale avverte il governo che non potrà difenderlo nel caso non tutelasse il diritto d’asilo di un oppositore politico in uno Stato autoritario e della sua famiglia. Il problema è oggettivamente di difficile gestione. Su un piatto della bilancia pesano investimenti, rapporti commerciali, in parte rilevante il fabbisogno energetico del Paese. Il presidente del Kazakistan potrebbe reagire male se venisse rifiutata la consegna dei membri della famiglia Ablyazov i quali, in sue mani, diventerebbero un interessante strumento di ricatto. Ma come eludere un ovvio dovere di rispetto di fondamentali diritti umani oltre che di convenzioni internazionali solennemente sottoscritte? Non manca in qualcuno la tentazione di ricorrere alla Realpolitik, sostenuta dalla ragion di Stato, come avvenuto in Italia nel caso Abu Omar.
Tuttavia, a questo ordine di ragioni si resiste, se non per intima convinzione, per l’entità del rischio politico. Essendo la Westlandia la Westlandia, e non l’Italia, nel caso in cui i nodi venissero al pettine, il governo sarebbe in serio pericolo, se non condannato. Né vi sarebbe la speranza che, come spesso avviene nella suddetta Italia, un altro scandalo seppellisca del tutto la memoria di quello precedente. Nemmeno i più strenui sostenitori parlamentari del governo si accontenterebbero di capri espiatori tecnici. Il sacrificio del solo ministro dell’Interno sarebbe improponibile, essendo il problema soprattutto di competenza del ministero degli Esteri, oltre che per ragioni di equilibrio politico. La Westlandia, pur governata da una coalizione di larghe intese, è tuttora venata di etica protestante da cui non riesce del tutto ad emanciparsi. Il Paese presso che all’unisono sosterrebbe il principio di responsabilità oggettiva dell’autorità governativa. Se essa è informata deve pagare, ma se non lo è, soprattutto se non fosse in grado di controllare il comportamento dei suoi sottoposti, deve pagare due volte. Non c’è scampo. Occorrerà trovare altri modi per mitigare le ripercussioni sugli interessi westlandesi in Kazakistan perché risulta ineludibile il rifiuto di consegnare alle buone cure del presidente del Kazakistan Alba Shalabayeva e sua figlia Alua. Che, per loro disgrazia, si trovavano in Italia, non in Westlandia.

Repubblica 24.11.13
Un passo indietro per rilanciare il Pd
di Fabrizio Barca


Caro direttore «Una parte della nostra opinione pubblica pensa che sia avvenuto qualcosa che abbia a che fare con un’assenza di imparzialità. … si è alzata la soglia della tolleranza del Paese verso l’assenza di rigore, di imparzialità e di sobrietà ». Sono queste le parole che lo scorso 20 novembre il segretario del Pd Guglielmo Epifani ha sentito il bisogno di dire alla Camera dei deputati per qualificare il “no” alla mozione di sfiducia sul ministro Anna Maria Cancellieri.
Sono parole che potrebbero riguardare anche l’assalto dello stesso giorno al mio Circolo Pd dei Giubbonari in Roma e il messaggio «dovreste essere in carcere o a penzolare a testa in giù» che lo ha accompagnato. O i gesti e i pensieri di centinaia di migliaia di cittadini che leggono le vicende e le decisioni pubbliche quotidiane, qualunque esse siano, come un “loro” contro “noi”. Marco Doria, a Genova, è stato aggredito perché è passato da “noi” a “loro”. “Loro” è la classe dirigente, politica, istituzionale, dei mezzi di comunicazione di massa, delle imprese, e anche sindacale. “Noi” è il 99% dei cittadini, il popolo che si sente fuori del potere.
Se la distanza abissale che si è aperta fra “noi” e “loro” non viene colmata, il Paese non va da nessuna parte. La mano di chi aggredisce e imbratta un Circolo di partito — non è certo la prima volta, non sarà l’ultima — è sempre di pochissimi. Ma parla della sfiducia assoluta di moltissimi “noi”.
Questa sfiducia impedisce il cambiamento.
La sfiducia di “noi” blocca la partecipazione diffusa alle decisioni pubbliche e alla loro attuazione; anche quando — non è frequente, ma capita — le istituzioni provano a coinvolgere i cittadini, dalle scuole alla cura di infanzia e anziani, alle opere ferroviarie, da Acerra a Genova, al Sulcis. La sfiducia priva “loro” della conoscenza e del saper fare di “noi”. La sfiducia spinge “loro” a dare in pasto a “noi” i sacrifici che la casta dei mezzi di comunicazione di massa invoca per la casta del palazzo — auto blu, Province e roba simile — sacrifici che nulla valgono e nulla cambiano ma che comprano altre settimane di vita per i governi. La sfiducia dà a molti “noi” l’alibi per comportamenti amorali, per non rispettare regole, imposte e doveri — «“loro” non li rispettano» — con la scusa di “non fare la figura dell’unico fesso che crede ancora nello Stato”; e così trasforma “noi” in “loro”, senza che ipocritamente lo si ammetta.
“Loro” — di cui io faccio parte, beninteso, come faccio parte anche di “noi” — possono riconquistare questa fiducia solo facendo accadere cose, verificabili. Non promettendole. Ma non può accadere nulla di buono se non c’è fiducia, capace di mobi-litare conoscenza e consenso. Ecco il circolo vizioso, la trappola, in cui siamo conficcati: non ci può essere fiducia senza cambiamento; non ci può essere cambiamento senza fiducia.
Per uscire dalla trappola, per evitare che questa uscita sia peggio del male — un’uscita autoritaria, tanto per intenderci — “loro” dovrebbero fare la prima mossa, una mossa vera e radicale. Il passo indietro di una generazione — quella al potere — come suggerisce Michele Serra, che metta in circolo nuove energie, rinnovi l’amministrazione, inietti concorrenza nel sistema delle imprese, dia un colpo al cinismo e alla rinunzia. Ma all’amor proprio di “loro” questa mossa converrà solo quando si troveranno sull’orlo del burrone e non ci saranno più Monti e taglio delle pensioni per tornare indietro. Non servirà, perché a quel punto sarà tardi. E allora?
Allora, c’è la politica. La sola che permette di uscire dalla trappola. Un pensare e agire collettivo dove amor proprio e amore per gli altri — spirito pubblico, scriveva Adam Smith — si mescolano in un moto dove tutto diventa possibile, perché non è più la convenienza spicciola a guidare i comportamenti. Ma la visione, il disegno di una rigenerazione, guidata da valori robusti, di sinistra. Coerente con l’idea di sinistra che il cambiamento delle gerarchie sociali è un valore in sé.
E così diviene possibile immaginare che un bel pezzo di “loro”, la classe dirigente che appartiene o fa riferimento al Pd, faccia unilateralmente il passo indietro. Concordando con le leve “giovani” che subentrano, non un lasciapassare o qualche posto al sole da cui “cumannari” ancora, ma l’annuncio e la pratica di nuove regole del gioco, per assicurare che dopo una breve cavalcata nuovista i nuovi non si trasformino in “loro”, prima ancora di accorgersene. Insomma un partito palestra, che coinvolga le forze dei territori, le intelligenze, il lavoro in uno straordinario e emozionante impegno per riscrivere il Paese. E che sappia costruire un rapporto robusto fra generazioni, con le nuove leve che dirigono e quelle vecchie che si lasciano usare.
Di questo passo indietro, delle nuove regole del gioco che devono accompagnarlo, di come ripristinare i canali di comunicazione tra partito e società, di “tre questioni” sulle quali galvanizzare “noi” attorno ad una visione di sinistra dell’Italia del 2033, vorremmo vedere discutere Pippo Civati, Gianni Cuperlo e Matteo Renzi da qui al 7 dicembre notte. Assieme e più volte. Perché un Congresso sia davvero un Congresso (come lo è stato, nonostante tutto, in molti circoli e province del Paese). Perché già dal confronto intenso ma coeso venga il segnale limpido di un impegno a colmare il vuoto fra “noi” e “loro”.
L’autore è ex ministro per la Coesione territoriale

La Stampa 24.11.13
Macaluso
“Inquietante immaginare il rottamatore al governo”


ROMA «Sarà anche una brava persona, non ci ho mai parlato, ma metto in conto che lo sia, però pensarlo a Palazzo Chigi mi inquieta. Non so se abbia il carisma e le qualità per essere solo al governo del Paese. La mia inquietudine nasce non dal fatto che lui possa avere ambizioni autoritarie, ma dalla preoccupazione che non sia in grado di risolvere i problemi del Paese da solo. A Firenze li ha risolti?». Così Emanuele Macaluso parla della prospettiva di Matteo Renzi premier. Quanto alla segreteria del Pd, «penso -rimarca Macalusoche la visione personalistica di Renzi sia rovinosa», e se ritiene di portare il paese alle elezioni anticipate «siamo alla follia». Per Macaluso poi «Renzi dimostra la sua totale irresponsabilità» nelle critiche rivolte al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. [R. I.]

La Stampa 24.11.13
Attaccare Cancellieri, salvare De Luca
I due pesi che imbarazzano i renziani Boschi difende la linea
Ma Latorre: i notabili non avranno spazio
di Fabrizio Roncone


La domanda è questa: perché Matteo Renzi chiede e richiede con forza le dimissioni di Annamaria Cancellieri, ministro della Giustizia (non indagata) e invece non le chiede per Vincenzo De Luca, esponente del Pd, sindaco di Salerno e viceministro alle Infrastrutture e Trasporti (indagato)?
Un po’ di cose da sapere, prima di andare a sentire le spiegazioni delle milizie renziane.
Allora: abuso d’ufficio, falso in atto pubblico e violazioni in materia urbanistica sono i reati ipotizzati, a vario titolo, negli avvisi di garanzia notificati mercoledì mattina dai carabinieri di Salerno a Vincenzo De Luca e ad altre trenta persone, tra cui assessori comunali, funzionari comunali, funzionari della Soprintendenza e responsabili delle imprese interessate alla costruzione del «Crescent».
Cos’è il Crescent? È un gigantesco edificio a forma di mezzaluna, alto circa 30 metri e lungo 300, 90 mila metri cubi di cemento che stanno alzando non lontano dalla spiaggia di Santa Teresa, proprio a picco su piazza della Libertà.
«Un potenziale ecomostro», dicono le associazioni ambientaliste.
«Un’opera pubblica. Ma per ogni opera pubblica, mi arriva un avviso di garanzia», commenta ironico De Luca (Wiki pedia , ai suoi numerosi procedimenti giudiziari, dedica addirittura uno schema: il resto è biografia ricca, per uno che a 64 anni è già stato sindaco di Salerno per quattro volte, l’ultima eletto dai suoi concittadini con il 74,4% dei voti, vera prova di pura fedeltà mista a simpatia, come del resto dimostrano i soprannomi conquistati negli anni: in giovane età, quando andava a difendere i braccianti in rivolta, era Pol Pot ; poi divenne o’ sceriffo , per via dei modi decisi con cui trattò immigrati e prostitute; infine lo chiamarono a’ funtana , per la sua smania di abbellire la città).
E ora torniamo alla domanda iniziale: perché De Luca dovrebbe dimettersi e la Cancellieri, invece, no?
«Sulla Cancellieri, come a me pare evidente, non c’è un problema giudiziario ma politico... Ci chiediamo se sia il caso che resti lì, in quel ruolo, dopo tutto quanto è accaduto con la vicenda Ligresti...» (la deputata Maria Elena Boschi, tra il sorpreso e il seccato).
Su De Luca, però, il problema è proprio giudiziario.
«Guardi: per De Luca, su De Luca, come sostiene Matteo, occorre essere garantisti».
Il Sole24Ore vi accusa d’essere doppiopesisti.
«No, macché... Aspettiamo solo che la magistratura faccia il proprio lavoro...».
Intanto, nell’attesa — e questa è un’altra cosa da sapere — De Luca da bersaniano è diventato renziano. Non solo: sembra che a Salerno, in vista delle prossime primarie, siano state tesserate circa 12 mila persone (nella provincia di Roma, appena 11 mila).
Nicola Latorre, senatore di ex rito dalemiano, ascolta e, siccome è una vecchia volpe, prende tempo. «Mmm... sì, ho capito... ehm... però, senta: ho davanti alcune persone... non è che possiamo sentirci tra un po’?».
Mezz’ora dopo.
Sul doppiopesismo, risponde a ritornello come la Boschi. «Per la Cancellieri pesa questione politica, su De Luca occorre essere garantisti...».
Poi, però, ci mette del suo.
«... E quindi, detto che Renzi è condivisibile, io penso anche altre due cose. Primo: notabili come De Luca, io credo che non troveranno più spazio nel partito che immagina Matteo. Secondo: credo pure che De Luca, nel frattempo, farebbe comunque bene a scegliere tra la carica di sindaco e quella di sottosegretario. Tenerle entrambe, francamente, mi pare inaccettabile. Terzo: beh, è chiaro che la polemica che s’è sviluppata intorno a De Luca è utile, diciamo così, al dibattito pre-congressuale...».
E così torniamo alla vicenda delle tessere distribuite a Salerno. Tante, tantissime. In vista delle primarie: potenziali 12 mila voti per Renzi.
Sulla questione, Michele Anzaldi, cerca di essere pragmatico. «Mah. Se andate a controllare, vedrete che, più o meno, sono le stesse tessere che c’erano in passato. Direte: tutti renziani, sono diventati. E io rispondo: non solo a Salerno, però. Anche in Transatlantico».
Comunque poi pure Anzaldi sostiene il teorema di squadra — Cancellieri caso politico, per De Luca garantismo — e così ripetono Roberto Giachetti e Paolo Gentiloni.
Gentiloni ci infila solo un po’ di veleno: «De Luca è stato un ottimo sindaco e il suo gradimento enorme a Salerno è normale: però quando la sua forza era a favore di Bersani andava bene, e ora che sta con Renzi no? Su, qui siamo alle ripicche...».
Giachetti, spariglia a modo suo (è in sciopero della fame per cambiare la legge elettorale e la campagna per le primarie lo ha portato a Forlì, «tra passatelli e salami, ma non posso toccare niente...»): «Su De Luca, come Renzi, sono garantista. Detto questo, però, io... ma dico io, Roberto Giachetti, per una questione di sensibilità, al posto di De Luca mi sarei già dimesso».

Repubblica 24.11.13
Il Cavaliere che fu e il Letta che sarà
di Eugenio Scalfari


VOGLIAMO parlare dei mutamenti del clima che stanno devastando l’intero pianeta dalle Filippine alle terre di Sardegna, dal Pacifico allo scioglimento dei ghiacciai, degli uragani, dell’innalzamento del livello dei mari?
Vogliamo parlare dei Kennedy nella ricorrenza dell’uccisione a Dallas di John Fitzgerald e poi del fratello Bob che hanno avuto un ricordo inobliabile non solo in America ma nell’intero Occidente, relegando nell’oblio le loro inclinazioni di playboy scapestrati e perfino alcune imprudenti collusioni con la mafia di Chicago? Vogliamo parlare di papa Francesco e della Curia che gli si rivolta ora che tocca con mano il pericolo di essere detronizzata dal suo ruolo di guida politica della Chiesa e relegata al compito di fornire i servizi al popolo di Dio e ai vescovi con cura di anime?
Sono tutti temi di portata mondiale che dovrebbero impegnare l’attenzione dei governi e dei popoli se i popoli e i governi, specie nei Paesi di antica opulenza, non fossero alle prese con problemi di minore gittata ma d’assai più acuta urgenza ed emergenza: la crisi economica che ancora affligge l’Occidente, i populismi dilaganti, l’immigrazione dai Paesi poveri a quelli più agiati, l’Europa che non riesce a trasformarsi in uno Stato continentale e competitivo con quelli emergenti che la circondano e la schiacciano verso l’irrilevanza.
La nostra Italia in questo mare tempestoso si trova in una posizione del tutto singolare: è uno degli Stati fondatori della Comunità europea e dell’Unione che ne è seguita; è il secondo Paese industriale europeo dopo la Germania e prima della Francia; ma al tempo stesso la sua finanza pubblica è appesantita da un debito tra i maggiori del mondo, la sua competitività è tra le più basse, la sua classe dirigente tra le più scadenti e invise, la corruzione endemica è crescente, la sua politica stenta ad uscire dalle lotte intestine e a riscuotere un grado di consenso in mancanza del quale la democrazia decade e le divisioni gettano il Paese nell’incertezza e nella paura.
Questa situazione esiste ormai da anni e da anni siamo costretti ad occuparcene. Se parlassimo d’altro parrebbe a noi stessi una fuga in avanti o all’indietro per smarcarsi dal presente e quindi faremo ancora una volta il punto e daremo la nostra libera opinione su quanto sta accadendo a casa nostra. Non è un compito facile perché la confusione delle lingue le ha trasformate in una Torre di Babele. Bisogna dunque recuperare la chiarezza necessaria fugando il timore di servirsene contro l’ipocrisia delle lingue biforcute che, non a caso, sono quelle del serpente.
* * *
Berlusconi che ieri si è esibito in nuove dichiarazioni eversive, è ormai al punto terminale del suo ventennio. La sua decadenza è già avvenuta, si aspetta soltanto che il Senato ne prenda at- cosa che avverrà il 27 di questo mese. Ma se anche dovesse guadagnare qualche giorno, cosa che non sembra tecnicamente possibile, non accadrebbe nulla: c’è una sentenza definitiva che sarà comunque eseguita e lo porterà a scontare la pena che gli è stata comminata.
Nel frattempo è nata una nuova forza politica con una scissione del partito da lui fondato. Quella scissione è lui stesso che l’ha provocata cogliendo la sostanza dei fatti. La sua leadership unica e quindi dittatoriale all’interno del suo partito e la sua ricorrente tentazione di estenderla anche all’esterno era stata messa in crisi ma non dai suoi avversari politici e neppure dalla magistratura rossa di sua invenzione, bensì dal malcontento crescente che dilaga nel Paese e nel suo stesso partito.
Tutte le cose che hanno un inizio hanno anche una fine. Il problema è di saper predisporre una successione che abbia un progetto di futuro senza dimenticare l’esperienza positiva del passato. Ma se il passato è stato soltanto una dittatura personale, la successione evidentemente non esiste. Questo è quanto è avvenuto nel Pdl: i figli sono stati ripudiati e sono usciti sbattendo la porta.
Renderanno al padre gli onori dovuti votando contro la sua decadenza, ma si tratta di un atto formalmente dovuto che non modifica la situazione esistente. È nata la destra repubblicana, i moderati che si raggruppano fuori dal cerchio magico dell’egolatria d’un dittatore furbissimo nel saper vendere il suo prodotto fin quando quel prodotto ha i suoi potenziali compratori. Non ci sono più quei compratori e non c’è più neppure il prodotto da vendere.
Perciò questa storia è finita.
* * *
La nascita d’una nuova destra moderata ha avuto le sue logiche conseguenze sulla natura del governo Letta. Non sulla sua composizione perché i ministri in carica costituiscono parte integrante del nuovo partito; ma nella sua essenza sì, il governo è cambiato, se non altro su un punto fondamentale: non è più sostenuto da un partito che ha alla sua guida un pregiudicato.
Che la sinistra riformista fosse costretta ad allearsi col partito di Berlusconi suscitava, al di là dello stato di necessità da tutti riconosciuto, il mal di pancia di un’ampia fetta dei militanti e dei potenziali elettori del Pd. La nascita e il successo del Movimento 5 Stelle riflette anche quel mal di pancia. Lo sfrizzolamento delle correnti e gli interessi personali di alcuni dei loro esponenti nel Pd trova la sua motivazione giustificativa nel medesimo mal di pancia ma ora quella motivazione è caduta perché non c’è più Berlusconi dietro la nuova destra. Quindi lo sfrizzolamento non dovrebbe più esserci nel Pd. Infatti il correntificio di quel partito cerca ora nuove giustificazioni per sussistere, una delle quali è stata la fiducia data da Letta alla Cancellieri per scongiurare la sua uscita dal ministero e gli effetti negativi che sarebbero derivati da una sfiducia parlamentare: un rimpasto nel momento stesso in cui la maggioranza di sostegno del governo cambiava natura.
La Cancellieri, come tutti sanno e tutti hanno riconosciuto, non ha commesso alcun reato o almeno finora la Procura non l’ha trovato e non l’ha infatti registrata tra gli indagati. Ha peròfatto, la Cancellieri, una telefonata o forse due inappropriate ad un ministro della Giustizia. In un’altra situazione era logico che fosse invitata (o costretta) a dimettersi. Nella situazione data è comprensibile che Letta la coprisse. Quando la nuova maggioranza sarà consolidata nella sua autonomia è opportuno che la Cancellieri si dimetta di sua iniziativa e sia sostituita con un altro ministro tecnico scelto al di fuori dei partiti. Allo stato delle cose la sua situazione è del resto del tutto simile a quella di Vendola e della sua telefonata sull’affare Ilva con i rappresentanti della proprietà Riva, ma nessun partito ha chiesto le dimissioni di Vendola dalla presidenza della Regione Puglia.
* * *
La permanenza del governo Letta fino al semestre di presidenza europea a noi assegnata che ci sarà dal giugno al dicembre dell’anno prossimo, è fondamentale perché la vera battaglia per l’uscita dalla crisi economica si combatte in Europa ed è già cominciata. Letta è quello che meglio può condurla con l’appoggio d’una maggioranza politica responsabile e quella, altrettanto indispensabile, del capo dello Stato.
Naturalmente questa battaglia europea dev’essere affiancata a interventi sull’economia italiana che, senza mettere in causa gli impegni europei, faccia il meglio possibile con le (poche) risorse a nostra disposizione. Nella legge di Stabilità qualche cosa si è fatto ma si poteva e ancora si può fare di più. Per esempio si possono rilanciare gli investimenti in infrastrutture con i miliardi disponibili delle erogazioni europee per le Regioziatani in difficoltà. Si può portare avanti il pagamento dei debiti alle aziende e ai Comuni creditori. Si può restringere la platea dei beneficiari delle detrazioni d’imposta, abbassando il livello del reddito cui la detrazione è consentita e dando di più ad un minor numero di beneficiari. Si può aumentare il taglio del cuneo fiscale a debito dell’Inps e colmare il buco intervenendo sulle aliquote contributive di alcune categorie che hanno maggiori potenzialità di reddito.
Analogo provvedimento si poteva (e si potrebbe ancora) prendere sul pagamento dell’Imu da parte di case il cui valore patrimoniale è più elevato. L’-I-mu fu un’imposta sulle case messa dal governo Monti con l’intento di trovare nuove risorse di tipo sostanzialmente patrimoniale e progressivo nell’ammontare dell’imposta. La sua abolizione fu decisa dal governo Letta con una finalità politica: togliere a Berlusconi la finta motivazione di mandare il governo all’aria per dissensi sull’economia e sulle tasse. Questa finalità è ora venuta meno. Certo il nuovo partito di Alfano non può, nella sua fase di nascita, accettare che l’Imu sia riproposta. È chiaro che non può, ma dovrebbe accettare che oltre alle seconde case paghino anche i proprietari di prime case che abbiano caratteristiche di elevata patrimonialità e quindi rendite catastali più alte. Bisogna certo aiutare la nuova destra ma anch’essa deve aiutare l’economia italiana e le fasce di lavoratori e di consumatori più disagiate.
* * *
La battaglia europea resta però quella fondamentale. Letta e Saccomanni l’hanno già inito, questa settimana e la proseguiranno. Ma un altro che sta sempre più intervenendo su quel terreno è Mario Draghi con l’Unione bancaria da lui sostenuta a spada tratta insieme alla Commissione europea. La Bundesbank si oppone e anche la Merkel frena, ma difficilmente potrà resistere a lungo su quella posizione se si troverà di fronte un forte schieramento europeo del quale Letta rappresenta la nostra punta di diamante.
Mi confortano i giudizi dati in proposito da Asor Rosa sul “Manifesto”, da Reichlin su “l’Unità” e da Massimo Cacciari in una sua recente apparizione televisiva. Asor Rosa in particolare è da sempre un uomo della sinistra italiana, come Reichlin ed anche più a sinistra di lui ai tempi di Berlinguer. Tutti e due e Cacciari dicono la stessa cosa: l’interesse della sinistra per aprirsi una strada futura che non può essere altro che europea, consiste nel dare il proprio appoggio a Letta. Leggere queste affermazioni sul “Manifesto” e su “l’Unità” di fronte a giornali e trasmissioni televisive che si autodefiniscono democratiche tifando per Grillo, fa senso o almeno a me lo fa perché sono del loro stesso avviso.
Adesso Grillo cavalca lo sciopero dei lavoratori di Genova e vuole che si estenda a tutta Italia. Non solo lo sciopero ma anche i cortei di violenza e gli assalti alle sedi del Pd.
Rottamare tutto per ricostruire tutto e tenersi il “Porcellum” ma senza la libertà di mandato per i membri del Parlamento: ecco il caso tipico d’un rottamatore che sogna la dittatura personale. Spero che non abbia imitatori. Lui del resto non fa che imitare il Berlusconi che fu (mache viva fino a cent’anni).

Repubblica 24.11.13
La minaccia dei dossier
“Tanto è già tutto deciso, il 27 mi fanno fuori”
E il Cavaliere fa ripartire la macchina del fango
Renzi nel mirino. Pronta la rottura col governo, il gelo del Quirinale
di Carmelo Lopapa


«TANTO hanno già deciso di farmi fuori, il 27 per me sarà tutto finito, era inutile girarci intorno, ma non ci arrenderemo così». Un Berlusconi quasi liberato rientra nel salottino del retropalco del Palacongressi all’Eur. Ha appena terminato uno dei più pesanti, violenti, antistituzionali discorsi. L’ultimo in pubblico prima della decadenza.
IL CAVALIERE ai suoi lo dice chiaro che ormai non ha più niente da perdere, scontato l’esito del voto, la sua espulsione dal Senato. Ormai compromesso, archiviato, il rapporto con il Quirinale. L’affondo dal palco — dopo i tanti consumati in questi mesi nel chiuso di Arcore e Palazzo Grazioli — è la mossa della disperazione. «Non si aspetta certo che Napolitano, rimasto inerte dal primo agosto, faccia qualcosa alla vigilia della decadenza» spiega uno dei parlamentari venuto ad applaudirlo tra i giovani di Annagrazia Calabria. Al Colle, l’accoglienza della sortita dell’ex premier è a dir poco gelida. Nelle stanze del Quirinale fanno notare come il provvedimento di clemenza — la grazia mai nominata esplicitamente dal Cavaliere — per essere esaminata, prima ancora che concessa, deve essere richiesta. Proprio quel passaggio che Berlusconi si è sempre rifiutato di consumare, «per dignità». Ma è quello e solo quello il presupposto fondamentale per l’avvio di qualsiasi iter. Non esiste, insomma, la grazia in versione motu proprio, da lui sognata. Il presidente Napolitano lo aveva già sottolineato fin dalla nota del 13 agosto. Per non aggiungere il fatto che per il capo dello Stato sarebbe impensabile interferire con l’imminente voto parlamentare sulla decadenza.
Ma alla sua espulsione dal Senato il leader di Forza Italia non si rassegna, lo dice dal palco come subito dopo ai pochi dirigenti del partito venuti a salutarlo. C’è rabbia e nessuna rassegnazione. Berlusconi guarda oltre, si sente ancora «in campo» sebbene decaduto, minaccia «armi segrete» contro Renzi, come se potesse davvero sfidarlo in campagna elettorale. E l’arma sembra non sia una delle figlie da schierare contro. «Una ricerca sul sindaco il presidente l’ha fatta fare, non sappiamo cosa abbia ricavato» racconta uno dei deputati più vicini al leader. E «qualcosa» sembra sia stata consegnata nelle sue mani da collaboratori fidati. Nel centrosinistra il sospetto diffuso è che la «macchina del fango» si sia già messa in moto contro il segretario ancora prima dell’insediamento. Il Cavaliere sogna di giocarsela domenica 8 dicembre quando, in concomitanza con le primarie pd del trionfo renziano, lui terrà a battesimo a Milano i club Forza Silvio. Ma prima di allora c’è la «cacciata» dal Senato da consumare, con annessa uscita dalla maggioranza.
La Polverini e Gasparri, la Bergamini e la Ronzulli, Giro e la Rizzoli, Maria Rosaria Rossi col figlio, sono tutti lì per applaudire, incoraggiare il “presidente” dopo l’ora e passa di intervento in maglioncino blu sotto giacca in tinta. Francesca Pascale è sempre al fianco del fidanzato. La sensazione che hanno è che l’ex premier sia già in formato campagna elettorale. Che quello di ieri sia stato il primo comizio del nuovo battage, nella speranza di un voto ravvicinato. L’abbraccio col pupillo di un tempo, Gianfranco Micciché, al mattino a Palazzo Grazioli, la confluenza del Grande Sud in Forza Italia, va in quella direzione. Acerrimo nemico di Alfano, il sottosegretario ritornato a casa. Non a caso solo ora. Il Cavaliere resta a Roma questa domenica, niente Arcore, il momento è cruciale. Domani riunisce i gruppi parlamentari per decidere sul ritiro del sostegno al governo, si vota contro la manovra. I senatori si stanno già astenendo in commissione, del resto. «Non resteremo un minuto di più con i carnefici» va ripetendo a tutti. Dal palco Berlusconi ripete a più riprese «questo governo», a rimarcare un distacco ormai abissale. Come distante sente l’ex delfino Alfano. Nel dopo-comizio, su di lui e la manifestazione mattutina del Nuovo centrodestra si lascia andare. «Avete sentito? Si definiscono nuovi, ma Angelino parla già come un vecchio politico. E ci ha pure rubato l’idea dei circoli». I due si sentono (raccontano sia il vicepremier a chiamare ancora con cadenza quotidiana) ma per il Cavaliere è già acqua passata.
A ridosso dell’assemblea coi parlamentari, Berlusconi terrà anche la conferenza stampa già annunciata ieri dalla kermesse, quella sulle carte americane relative ad Agrama e alla condanna sui diritti tv. Il famoso “asso nella manica” di cui si vanta da giorni per capovolgere la sentenza. Ne parlerà anche in aula mercoledì, nella sua “arringa” difensiva. Mentre fuori da Palazzo Madama, nello stesso pomeriggio, Denis Verdini chiama a raccolta con una lettera (qui in basso) tutti i dirigenti e i parlamentari forzisti. Appuntamento davanti Palazzo Grazioli, ma non viene escluso che — pur se l’autorizzazione prefettizia è limitata a via del Plebiscito — il corteo poi possa muovere verso il Senato, nel momento clou e drammatico del discorso del leader e del voto. Ormai è un Cavaliere disposto a tutto, «non pensino che non reagiremo al colpo di Stato».

Repubblica 24.11.13
Il vecchio con gli stivali
di Francesco Merlo


FINALMENTE Berlusconi lo ha detto: non teme la prigione ma «i cessi». E vuole dire che è terrorizzato dalla finedei miserabili e degli immiseriti.
I gabinetti sono infatti l’ossessione dei potenti italiani, degli arricchiti, come benissimo racconta la letteratura industriale, da Volponi a Ottieri sino a Parise (“Il padrone”). Insomma i cummenda sono tali anche perché dispongono di molti gabinetti, nelle case e negli uffici. E però al tempo stesso li temono come destino finale.
Lucio Colletti mi raccontava, stupito e divertito, che Berlusconi aveva in casa più bagni che camere. Ebbene, per lui è quello il servizio sociale. «Pulire i cessi» è in metafora l’espiazione, è l’umiliazione, è la rieducazione. Tanti anni fa quando riceveva in casa l’amico Craxi che, soffrendo di prostata, andava spesso in gabinetto e qualche volta sporcava, era lo stesso Berlusconi che andava poi a pulire «per evitare — raccontò — che i camerieri si accorgessero che Bettino aveva sporcato». Ecco, di quel che un giorno fece vanto adesso Berlusconi fa esorcismo. I servizi sociali, in questo senso, sarebbero peggiori di una galera. È quella la degenerazione terminale alla quale vuole sfuggire: il bagno (penale).
Il sogno del moribondo è la rigenerazione. L’ultimo approdo della sua cosmesi è questo mito della rigenerazione che sempre prevede l’arruolamento dei giovani più ingenui e più ottusi, persino dei bambini nel caso di Salò, ed è tipico dei potenti in decomposizione. Certo Berlusconi e Dell’Utri più che ad Hitler e a Mao, più che a Mussolini e a Ceaucescu, somigliano ai retori imbolsiti che Brancati chiamava “vecchi con gli stivali”, gli ex papaveri che sognavano ancora la prestanza eroica ed erotica degli avanguardisti, e cercavano conforto alla loro desolazione reclutando ragazzi che nominavano generali. Li imbottivano di fanatismo, gli mettevano in mano un mitra e una bandiera e li mandavano a sparare sul quartier generale.
Ma qui non ci sono grandezze piegate dalla Storia, duci con gli occhi spiritati, timonieri ridotti a monumenti, Führer che accarezzano imberbi nibelunghi, ma c’è invece, alla testa dei falchetti, un pregiudicato gonfio di botulino e avvelenato di tinture, e c’è un altro pregiudicato, Dell’Utri, nel ruolo del padrino “posato”, come si dice nella mafia, il papa absconditus del diritto ecclesiastico, ormai inutile e ingombrante anche nella Sicilia delle coppole.
Sono di nuovo insieme, e importa poco quel che Berlusconi ha detto ieri, nel suo ultimo discorso da senatore, non vale la pena smontare le solite enormità con le quali ha cercato di sedurre, riscaldare e caricare questi suoi nuovi ragazzini, quel che conta è il tono bellico, la messinscena, la dichiarazione di guerra all’Italia, all’Europa, al Mondo. Ormai infatti Berlusconi, che pure è ancora potente e ricchissimo con tutte le sue tv e i suoi giornali, vede solo nemici: dai magistrati ai quotidiani, dalla polizia giudiziaria al Parlamento, dal capo dello Stato alla Corte costituzionale, dalla Merkel sino ad Obama, edunque la nuova Forza Italia è contro la moneta unica, contro la Germania, contro le tasse, contro i comunisti...
E torna la beatificazione di Mangano: «Aveva ragione Dell’Utri, è un eroe» ha detto ieri. Dell’Utri gli stava accanto come ai tempi in cui Berlusconi smise di esibire la pistola sul tavolo per spaventare i sequestratori: gliela sostituì proprio Dell’Utri con la protezione di quello stalliere mafioso e maestro di vita che divenne il precettore di Piersilvio. A quel Mangano, con il quale trattava per telefono partite di misteriosi “cavalli”, Dell’Utri disse: «Berlusconi non suda» e voleva dire che non sgancia, non paga sotto minaccia. In realtà, a Dell’Utri, l’amico Silvio ha dato un fiume di danaro. L’ex impiegato di banca palermitano gli ha portato in cambio «la Sicilia come metodo» direbbe Sciascia, la sostanza di un antico “saperci fare” per compensare le inadeguatezze del brianzolo, una scienza di vita dunque, un rapporto con uomini che «ad uno come te possono togliere le scarpe ai piedi; e tu cammini scalzo senza accorgertene». A Dell’Utri Berlusconi deve anche la costruzione prima di Pubblitalia e poi di Forza Italia «su modello maoista in versione palermitana».
D’altra parte, mafiosamente parlando, Mangano è davvero un eroe, il solo che non lo ho mai tradito, un vero uomo d’onore che si è tenuto tutto nellapanza, l’unico che lo ha protetto veramente ed è morto di cancro in galera, condannato per mafia e per omicidio. E probabilmente è vero che se avesse parlato sarebbe stato premiato con la liberazione. Non lo ha fatto. Quale altro esemplare eroismo ha da indicare ai giovani Silvio Berlusconi?
Ieri ha anche detto che la sua condanna e la conseguente decadenza da senatore è un golpe. Berlusconi infatti prepara la piazza mentre Alfano continua a servirlo al governo. La scissione come raddoppio, la divisione che nasconde una moltiplicazione è la versione berlusconiana dei due forni di Andreotti, del partito comunista di lotta e di governo, insomma dell’antica doppiezza italiana. La doppia identità è l’estrema furbata, stare al governo e stare all’opposizione è il disperato tentativo di sopravvivere, per truffare il destino di cui parlava Goffredo Parise. «Non andrò a pulire i cessi», ha detto. Non vuole fare la fine del vecchio con gli stivali di Brancati: «Una sola qualità lo vestiva dalla testa ai piedi, di fuori e dentro, ne involgeva ogni atto e parola: insignificante».

Genova
Repubblica 24.11.13
L’amaca
di Michele Serra


Nella vicenda di Genova l'aspetto più sconvolgente non è la rabbia sociale (capita, è sempre capitato, capiterà sempre), non sono le speculazioni politiche. È l'ammontare della cifra per la quale la municipalizzata di una delle città più grandi e importanti d'Italia rischia il collasso: otto milioni di euro. Non voglio fare demagogia (dovrei comunque mettermi in coda), ma è una cifra ridicola se raffrontata alle montagne di quattrini elargite alle banche, che avevano accumulato “buchi” cento volte più grandi; è una cifra pari, o inferiore, alle liquidazioni e alle stock option di molti manager privati, e non sempre a fronte di brillanti risultati; è una cifra che nella foresta dell'economia finanziaria fa la figura di un cespuglio in mezzo alle sequoie.
Se nell'Italia del 2013 otto milioni di euro diventano un macigno in grado di far naufragare la città di Genova, significa che il concetto stesso di “servizio pubblico” è stato defalcato a zavorra residuale, a impiccio antistorico; e viene da chiedersi quando toccherà agli ospedali, alle scuole, alla cultura, a tutto ciò che non crea immediato profitto. Il concetto (squisitamente ideologico) che merita di sopravvivere solo ciò che rende quattrini significa, né più né meno, che i poveri saranno considerati colpevoli di povertà, e i ricchi potranno comperarsi l'assoluzione.

il Fatto 24.11.13
Roma. Meno dirigenti, più controllori all’Atac


Atac e sindacati di Roma siglano un accordo che prevede meno dirigenti e più controllori. Ma la mobilitazione degli autisti autorganizzati, quelli che hanno messo in atto lo sciopero degli straordinari, nella Capitale continua. lo annuncia la loro leader Micaela Quintavalle: "A Roma abbiamo terrore della privatizzazione e qualora si affacciasse questa ipotesi saremmo pronti ad opporci in ogni modo, forse anche come hanno fatto a Genova. Loro, i sindacati, hanno firmato con l’azienda. Ma secondo noi sono solo parole. La mobilitazione terminerà quando le nostre richieste verranno accolte. Altrimenti la settimana prima di Natale paralizzeremo Roma". E un fronte di lotta comune tra sindacati e autorganizzati potrebbe essere proprio quello contro le ipotesi di privatizzazione, a partire da quella di un’eventuale entrata in Atac di Fs. L’intesa firmata tra sindacati e Atac, prevede la riduzione dei dirigenti, la revisione dei livelli retributivi, l’eliminazione dei “superminimi” e l’assunzione a tempo determinato degli autisti.

Corriere 24.11.13
I timori di Marino «Se Roma fallisce trascina giù il Paese»
Il sindaco: a rischio il rating nazionale
di Alessandro Capponi


ROMA — Roma capitale del baratro economico: se affonda, sostiene Ignazio Marino, rischia di trascinare con sé il Paese.
Il sindaco lo spiega senza troppi giri di parole: «In questi giorni tutto il mio tempo è stato dedicato all’interlocuzione con il governo nazionale e alla preoccupazione che esiste di un fallimento di Roma, che evidentemente determinerebbe un abbassamento del rating del Paese». Il Bilancio di previsione 2013 da votare adesso, alla fine dell’anno, con sette giorni di tempo per evitare l’intervento del prefetto — la scadenza è fissata al 30 novembre — con un «buco» di 816 milioni di euro, e con le opposizioni che minacciano «centomila» tra emendamenti e ordini del giorno per paralizzare la discussione in aula. E così Marino decide di non nasconde i pensieri cupi, suoi e del governo: e conferma i contatti avuti nei giorni scorsi con numerosi esponenti dell’esecutivo — dal presidente del Consiglio, Enrico Letta, a quelli frequenti con il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni — tesi a scongiurare l’ipotesi default che, evidentemente, non penalizzerebbe solamente la Capitale.
Ma il Campidoglio, certamente, non può contare sulle larghe intese: sono giorni tesissimi, le opposizioni accusano, l’ex sindaco Gianni Alemanno parla di una «maggioranza non degna di governare». E Marino, eletto da qualche mese, accusa chi — come l’ingegner Alfio Marchini, imprenditore già candidato al Campidoglio — nei giorni scorsi si era detto «non spaventato» dall’ipotesi default perché «meglio affrontare subito il problema»: «Chi invoca il default — attacca il sindaco — si assume una responsabilità gigantesca». La replica di Marchini è su Facebook: «Si continua con la politica degli struzzi illudendo i romani che l’anno prossimo andrà meglio e che ripartiranno investimenti e servizi, dimenticando però di dire come si ripianerà un buco che nel 2014 sarà di circa un miliardo di euro?». E Marino, su Twitter: «Riporteremo Roma sulla strada giusta». Le polemiche, semplicemente, non si contano.
Così ieri il sindaco ha chiesto e ottenuto che l’esame del Bilancio cominciasse il prima possibile, oggi: «Dobbiamo dare un segnale di responsabilità, in una fase di emergenza la politica lavora sempre, anche di domenica». Ma il calendario stilato dal presidente dell’aula Giulio Cesare, Mirko Coratti del Pd — discussione ogni giorno dalle 10 del mattino alle dieci della sera, con prevedibili sedute in notturna, «a oltranza» — ha scatenato le accuse del Nuovo centrodestra: «Una violenza perpetrata ai danni delle opposizioni, non era mai successo nella storia di Roma». La replica di Coratti: «La città è amministrata da undici mesi in assenza di programmazione finanziaria, non perdere neanche un minuto è solamente un atto di responsabilità verso i cittadini». Il M5S promette: «Non manderemo Roma in default». La situazione della Capitale, comunque, non è semplice: le società controllate producono un «buco» annuale di oltre un miliardo. E tra queste l’Atac, l’azienda dei trasporti che ieri ha firmato un accordo con i sindacati ma che è alle prese con la protesta degli autisti. «Se non accoglieranno le nostre richieste — dicono — la settimana prima di Natale paralizzeremo Roma forse anche come hanno fatto a Genova». Roma capitale, sì, del baratro.

Corriere 24.11.13
I manager d’oro dell’Atac spuntano i conti segreti nei forzieri di San Marino
Milioni di euro in fiduciarie: la pista dei fondi neri
di Daniele Autieri e Carlo Bonini


LE “CARCIOFATE”
Una prima risposta la si può rintracciare in una circostanza documentale accertata da Repubblica. Nel 2007, la Pragmata — di cui Gabbuti e Cassano sono appunto soci occulti — viene retribuita da Atac, di cui Gabbuti e Cassano sono dirigenti “palesi”, per una consulenza che valuti il lavoro dei manager dell’azienda. Roba da codice penale. Se solo qualcuno se ne accorgesse, o avesse voglia di farlo. Di più: «Pragmata — riferisce una qualificata fonte interna di Atac — almeno fino al 2010 viene scelta per consulenze di varia natura, per l’organizzazione di convegni ed eventi».
A chi rispondono Gabbuti e Cassano? Con chi dividono le loro fortune? È un fatto che i due in Atac sono stati e continuano ad essere pagati tanto oro quanto pesano. Gabbuti, nel 2012, dichiara infatti al Fisco quasi 700mila euro ricevuti dall’azienda e dalle sue controllate. Cassano, invece, “solo” 300mila, e per andarsene chiede ad Atac un milione. Certo, la moglie di Gabbuti è stata consigliere per le politiche comunitarie di Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno. Certo, in Atac, si favoleggia di feste indimenticabili nella villa a picco sul mare ad Ansedonia acquistata dal manager e del “gran bel mondo” che nel tempo l’ha frequentata. “Le carciofate”, chiamava quelle feste Gabbuti.
Ma è sufficiente? Ancora una fonte dirigenziale qualificata di Atac ricorda: «Quando Gabbuti arrivò, convocò alcuni di noi della dirigenza nel suo ufficio. Si accese il toscano e guardandoci dritto negli occhi disse: “Voglio sapere qui dentro chi ha l’incarico di portare i soldi all’estero”». Perché Gabbuti voleva saperlo? A chi doveva darne conto?
I BISIGNANI BOYS
Gabbuti e Cassano sono ancora in Atac. L’unico straccio fatto volare sin qui dal nuovo ad Danilo Broggi è stato quello di Roberto Sem, dirigente licenziato mercoledì scorso, colpevole forse di essere diventato non solo uno dei testimoni chiave della Procura nell’indagine sui biglietti clonati, ma anche di essere il custode di tutti i documenti riservati di quella faccenda. Mentre a rivedere le stelle è toccato a Pietro Spirito (direttore centrale operazioni), Vincenzo Saccà (direttore della comunicazione), Roberto Cinquegrani (direttore commerciale), Antonio Abbate (direttore affari legali) e Giuseppe Alfonso Cassino (direttore della divisione superficie), i manager voluti in Atac nel 2011 da Maurizio Basile, l’allora ad di Atac ed ex capo di gabinetto di Alemanno intercettato nell’inchiesta P4 mentre prendeva ordini al telefono da Luigi Bisignani.
SAN MARINO
UNA parte cruciale dei segreti di Atac, l’azienda del trasporto pubblico di Roma, è stata custodita a San Marino. Ed è da qui che è possibile tirare il filo che porta alle provviste “nere” garantite dall’amministrazione bipartisan della più dissestata delle aziende di trasporto pubblico d’Europa.
TRA l’aprile del 2007 e l’estate del 2010, due dei manager chiave dell’Azienda, Gioacchino Gabbuti e Antonio Cassano, scelti dalla giunta Veltroni e caricati a bordo da quella Alemanno, hanno depositato contanti e costituito partecipazioni societarie occulte attraverso una finanziaria della Rocca del Titano.
Ecco perché.
UNA LISTA, DUE NOMI
Nel giugno del 2010, la Procura di Roma che indaga sul crac della San Marino Investment (Smi) del conte Enrico Maria Pasquini, ottiene dalle autorità sanmarinesi una rogatoria che elenca i correntisti della controllata Smi bank.Sono 1.170 nomi. Una variopinta umanità di evasori fiscali, che vengono pubblicati con la semplice anagrafica dal quotidiano “il Giornale”. Alla lettera “G” è «Gabbuti Gioacchino, di nazionalità italiana, nato a Roma il 12/10/1952». Alla C, figura «Cassano Antonio, nazionalità italiana, nato a Barletta il 18/11/1958».
In quel momento, Gabbuti, manager legato a doppio filo a Gianni Letta, è ad di Atac patrimonio, dove lo ha voluto Alemanno dopo la sua esperienza di ad di Atac con Veltroni. Antonio Cassano è invece direttore generale. Ebbene, in Campidoglio non si muove foglia, se non un’interrogazione del consigliere Athos De Luca cui Alemanno non risponderà mai. Finisce dunque lì. Di quei due conti nessuno sa più nulla. Neppure in Procura, dove la faccenda finisce su un binario morto. Del resto, Gabbuti si guarda bene dal dover spiegare ciò che non gli viene chiesto. Mentre Cassano sostiene in quei giorni di non essere lui quello della lista. Perché — dice — «È vero che mi chiamo Antonio Cassano, è vero che sono a nato a Barletta proprio il 18 novembre, ma non del ’58, bensì del ’68».
CONTANTI E SOCI OCCULTI
Accade però che la magistratura di San Marino, già in quel 2010, abbia trasmesso alle autorità italiane informazioni cruciali su quei due conti. E che ora fonti inquirenti sanmarinesi spieghino di cosa si tratti. Si scopre infatti che, alla Smi bank di San Marino, Gioacchino Gabbuti ha trasferito oltre un milione e mezzo di euro e ha costruito uno schermo fiduciario per coprire la sua partecipazione nelle società “Edilgroup”, “Navigando”, “Pragmata”, “G. A.” e “Orizzonti”. Non è tutto. Purtroppo per Antonio Cassano, gli inquirenti del Titano accertano che è proprio lui “l’omonimo” di San Marino. Nell’aprile del 2007, infatti, non solo ha depositato contanti per oltre 100mila euro, ma,contestualmente a Gabbuti, che lo ha voluto in Atac nel 2005, portandolo con sé da Bari, Cassano risulta partecipare allo stesso schema fiduciario che deve dissimulare la sua partecipazione occulta in almeno tre delle società di cui è azionista altrettanto occulto proprio il suo mentore Gabbuti: la“Pragmata”, la “Edilgoup” e la “G. A.”.
A cosa servono queste partecipazioni societarie occulte?

il Fatto 24.11.13
Roma Le torri che sbucano dall’acqua, nuovo ecomostro
di Giampiero Calapà


Laddove c’è l’erba potrebbero essere costruite, insieme a un non meglio precisato polo teatrale, quattro torri: alte più di cento metri, tirate su, in un futuro che fa paura, sopra un terreno oggi di tufo e sedimenti fluviali. Dove? A Roma est, al posto di un piccolo parco, otto ettari nell’area dell’ex fabbrica chimica Snia, già assediato dalle arterie di via Prenestina, via Portonaccio e Casalbertone. Un mega progetto, “un’orrenda speculazione edilizia”, per usare le parole di Enzo De Martino del Comitato di quartiere.
QUATTRO torri appunto, circa 500 nuove unità abitative (per almeno 1300 persone), in una parte della capitale, quartieri Pigneto e Torpignattara, già popolata da 124 mila abitanti, una delle zone a più alta densità abitativa di tutta Europa e, allo stesso tempo, con meno densità di verde pubblico pro capite del continente. Un’angolo di città problematico, con la multi-etnica Torpignattara, con il Pigneto sempre in bilico tra la dolce vita della gioventù romana e il degrado dello spaccio di droga.
Il sindaco Ignazio Marino ha recentemente visitato il Pigneto, proprio nei giorni dell’esasperazione cittadina contro il traffico di stupefacenti, “e in quell’occasione – dicono al Comitato – ci ha detto che vuole ricostruire Roma a partire da questo quartiere; adesso ha l’occasione, fermando la speculazione edilizia di Pulcini, di cominciare bene”. Antonio Pulcini è il proprietario di gran parte di quegli otto ettari, è uno dei più noti costruttori romani, quello della grande lottizzazione delle “Terrazze del Presidente”, il mega complesso residenziale che sorge ad Acilia, tra Roma ovest e Ostia. Ovviamente è anche il vincitore del bando per edificare nel suo terreno, già destinato da piano regolatore a verde pubblico e
servizi, ma in grave pericolo cemento grazie al combinato disposto della norma “relitti urbani” della giunta Alemanno con il celeberrimo Piano casa che permette di aumentare i metri cubi edificabili. La “relitti urbani” è sensazionale, perché consente a un costruttore che abbia edificato uno “scheletro” rimasto tale di abbatterlo, ricostruirlo o “rilocalizzare” i volumi abbattuti in altre aree con le stesse caratteristiche.
GUARDA caso, Pulcini sfruttò un provvidenziale errore amministrativo per costruire, negli anni ’80, quello che sarebbe dovuto diventare un centro commerciale, proprio all’ex Snia, area già allora destinata a verde pubblico. Durante i lavori gli operai s’imbattono prima nella fogna della Marranella, poi addirittura in un corso d’acqua sotterraneo. Risultato: lo scheletro dell’edificio, ancora in piedi, è sommerso per i primi tre piani da un laghetto urbano, che nel frattempo ha dato vita a un vero ecosistema. All’inizio degli anni ’90 in Campidoglio si accorgono dell’errore e sanciscono la demolizione dello “scheletro” del lago. Mai abbattuto. E adesso, con la norma dei relitti urbani, pronto a essere rigenerato con un progetto ancora più ambizioso dello stesso Pulcini, cioè le quattro torri.
Il progetto si chiama “recupero finalizzato all’incremento delle dotazioni di servizi e della qualità urbana in periferia”, il Comitato di quartiere e il Centro sociale ex Snia – che si battono dall’inizio degli anni ’90 e questa mattina sfileranno in corteo dalla Prenestina al parco – sono venuti in possesso della documentazione choc grazie al consigliere di municipio Gianni Boccuzzi, del Movimento cinque stelle.
Il mini-sindaco Giammarco Palmieri (Partito democratico) scongiura l’ipotesi delle quattro torri e prende un impegno: “Insieme all’assessore comunale Giuseppe Caudo bloccheremo definitivamente quel progetto e il bando relitti urbani. L’unica ipotesi per l’ex Snia, con buona pace di Pulcini, è il vecchio progetto del campus universitario, già bocciato dalla Sapienza, è vero, ma a Roma abbiamo altri due atenei”. La stra-popolata periferia di Roma, un parco, un bizzarro laghetto da cui spunta un ecomostro e l’ombra di quattro nuove torri. Sembra già abbastanza per un possibile sequel del film Sacro Gra.

La Stampa 24.11.13
“Noi, sotto processo per una figlia cresciuta nell’utero di un’altra”
Il racconto di una coppia: “In India è legale, ma per l’Italia siamo dei delinquenti”
di Niccolò Zancan


«Eccoci, siamo i mostri...». Lei ha un sorriso ironico quasi disperato. Lui indossa un vestito grigio comprato in un grande magazzino e si guarda alle spalle in continuazione. Albergo davanti alla stazione. Città diversa da quella di residenza. Tre telefonate da un numero anonimo per combinare l’incontro. I mostri sono due genitori di quarant’anni, impiegati pubblici della classe media italiana, andati in India per mettere al mondo la loro bambina con una maternità surrogata. Hanno affittato un utero. Quattro rate trimestrali, 28 mila euro. Ritenevano di aver seguito ogni regola del diritto internazionale con il massimo scrupolo. Ma l’Italia non è convinta. Dopo lunghe indagini, i due genitori sono stati rinviati a giudizio: «Alterazione dello stato civile». Rischiano da 5 a 15 anni di carcere. La procura mette in dubbio l’autenticità del documento che attesta la nascita di Emma. Ecco perché adesso sono così spaventati: «Ar-
riviamo da mesi davvero difficili». Prima scena, marzo 2009. «Dopo un’operazione, il medico che mi stava curando per un tumore, dice: “Mi dispiace, lei non potrà mai diventare madre”. Erano cinque anni che andavamo avanti con cure e tentativi». Seconda scena, febbraio 2010. Ennesima notte di insonnia. «Alle 2 del mattino, su Rai3, trasmettevano la storia delle famiglie arcobaleno negli Stati Uniti. Non sapevamo niente di maternità surrogata. Per la prima volta abbiamo contemplato quella possibilità».
Ma il vero inizio, forse, è un altro. Succede dopo notti passate sui blog, centinaia di mail scambiate con genitori di mezzo mondo, tre diverse consulenze con avvocati, sentenze di archiviazioni su casi analoghi cercate e imparate a memoria. «Siamo andati a Nuova Delhi come due investigatori dice lui abbiamo scoperto un mondo». Clacson, traffico forsennato, vita che sprizzava da tutti i pori, un condensato di umanità. «Siamo rimasti una settimana davanti alla clinica ad immaginare la situazione. Parlavamo con tutti. Mia moglie sa bene l’inglese. Per questo abbiamo scelto l’India, piuttosto che l’Ucraina. La cosa che mi faceva più paura era l’idea di commettere un’azione moralmente sbagliata, qualcosa che potesse nuocere alla salute di un’altra donna. Noi non siamo ricchi occidentali disposti a tutto. Siamo due persone semplici. Due italiani incensurati, che credono fermamente nel rispetto della legalità».
Quando hanno deciso, alla fine, hanno dovuto chiedere un prestito ai genitori di lui, perché i soldi in banca non sarebbero bastati. A novembre 2011 sono partiti per il secondo viaggio. «La sera in cui abbiamo firmato il contratto, siamo tornati in albergo con il cuore in subbuglio. Continuavamo a ripetere: “Dobbiamo stare calmi, calmi, calmi...”». La maternità surrogata è lecita negli Stati Uniti, in Canada, Inghilterra, Israele, Grecia, Belgio, Ucraina, Russia, Georgia. e, appunto, India. Consiste in questo: il padre mette il seme. Viene fecondato in vitro l’ovulo di una donatrice anonima. L’embrione viene impiantato nell’utero della donna che porterà avanti la gravidanza per conto terzi. «Forse qualcuno ha dell’India un’idea sbagliata. La nostra clinica è all’avanguardia. I medici sono di una professionalità straordinaria. Ci hanno chiesto se volessimo una donatrice indiana o caucasica. Abbiamo risposta all’unisono: indiana. Non abbiamo voluto sapere altro». Poi è arrivata Maya. La donna che per nove mesi avrebbe portato in grembo il loro bambino. «Si è presentata in clinica con le due figlie. Ci è piaciuta subito moltissimo. Ventinove anni, dolce, timida. Quando voleva dire sì, scuoteva la testa come quando noi diciamo no. E’ stato bello.
Sappiamo che a lei sono andati 7 mila euro, il corrispettivo di quattro anni di un buono stipendio indiano». Lunedì il contratto, mercoledì il tentativo di fecondazione. Domenica il volo di ritorno in Italia, dentro la vita di sempre, senza dire niente a nessuno. La telefonata è arrivata alle tre di notte del quindicesimo giorno. «”Congratulations!”, è la prima cosa che ha detto il medico. L’embrione aveva attecchito. Mi sono sciolta all’istante». Sono seguiti, in ordine sparso e ripetuto: pianti di gioia con i futuri nonni, collegamenti via Skype con Maya, ecografie scambiate da una parte all’altra del mondo,
preghiere. Quando è nata Emma, hanno preso quattro mesi di aspettativa, tacendo le vere ragioni con i rispettivi capi. «Il primo mese lo abbiamo trascorso in un residence indiano, pieno di genitori come noi, a preparare biberon. L’esame del Dna ha accertato che il padre naturale ero proprio io. Emma, del resto, è la mia fotocopia. Intanto abbiamo fatto tutta la trafila per ottenere il passaporto provvisorio, rilasciato dal Ministero per gli Affari Esteri indiano». Raccontano la prima parte del viaggio come una gioia, il ritorno a casa come un incubo. In Italia incominciano i sospetti, fin dall’aeroporto. «Tenevo Emma in braccio e guardavo terrorizzato il poliziotto, preoccupato che andasse a chiamare il suo superiore». Le ambasciate sono obbligate a segnalare ogni nascita all’anagrafe italiana. Nel giro di un mese i genitori di Emma sono stati convocati in procura. Dopo due anni, sono ancora in attesa di una sentenza. Intanto la bambina gioca, va all’asilo, cresce. «Quando sarà il momento giusto, le diremo la verità. Così come abbiamo fatto con i magistrati. Siamo sempre stati trasparenti. Emma è nata con la maternità surrogata. Emma è nostra figlia».
Sono stanchi di avere paura, di essere messi in discussione. Intercettati e controllati, come si sentono. «Trattati come due delinquenti. Sappiamo di essere in qualche modo dei pionieri. Non vogliamo creare contrapposizioni fra chi è favorevole e contrario. Rispettiamo le idee di tutti. Ma in Italia mancano norme precise: questo è il vero problema». Se ne vanno come erano arrivati, come due latitanti. «Quello che è successo dice lei in fondo è un fenomeno vecchio come il mondo. Chiedere aiuto a un’altra donna. E’ sempre stato così».

La Stampa 24.11.13
Oggi il referendum
Svizzeri al voto per tagliare gli stipendi dei manager


BERNA Svizzera al voto per imporre un tetto ai salari dei manager. I cittadini sono chiamati oggi alle urne per esprimere il proprio parere su una legge di iniziativa popolare che fa tremare le oligarchie economiche e finanziarie: la proposta è quella di limitare le retribuzioni dei dirigenti a un tetto pari a 12 volte il salario del dipendente meno pagato nella stessa azienda o ente.
Lanciata dal movimento dei giovani socialisti, l’iniziativa ha subito creato un forte dibattito pubblico, innescando una dura reazione da parte di tutti gli ambienti contrari. Anche fuori dal Paese.
La Confederazione elvetica, infatti, è da sempre considerata uno degli ambienti più «business friendly», tanto che molte multinazionali vi impiantano le loro filiali e i manager la residenza fiscale.
«Quando è stato pubblicato il sondaggio che dava i “sì” al 44% ha detto Filippo Rivola, segretario della gioventù socialista svizzera è scattata una massiccia campagna di contrasto». Il Comitato del «No» ha parlato invece di «perfetto autogol». «Questa iniziativa ha detto mette in pericolo il nostro benessere, è un boomerang sociale che farà aumentare i disoccupati. In Svizzera i salari sono tra i più elevati al mondo, se passasse il sì risulterebbero ridimensionati». [E. ST.]

Corriere 24.11.13
«Volete un limite agli stipendi d’oro?»
La Svizzera vota sui top manager
La proposta: non più di 12 volte la paga base. Nei sondaggi vince il no
di Claudio Del Frate


MILANO — Se esiste una casta di privilegiati, per gli svizzeri questa è costituita dai banchieri e dai top manager delle multinazionali: e così per la seconda volta in un anno l’elettorato elvetico sarà oggi chiamato a esprimersi su una proposta che intende tagliare — e di molto — gli stipendi d’oro della finanza e dell’industria. La consultazione popolare è stata battezzata col nome di «1:12», formula presto spiegata: se i sì prevarranno, l’amministratore delegato o il presidente di una società potranno intascarsi un appannaggio al massimo 12 volte superiore a quello dei dipendenti di rango più basso.
La sintesi rischia di tradire la realtà: anche se la riforma passasse, le aziende avrebbero comunque la possibilità di pagare benefit e bonus in grado di rimpinguare i compensi ma si tratterebbe comunque di una svolta «pauperista» di notevoli proporzioni visto che oggi i vertici di Nestlé o di Ubs (tanto per citare due colossi dell’economia svizzera) guadagnano 200 e più volte rispetto ai loro impiegati e operai; e vale la pena ricordare che la proposta all’esame del popolo svizzero era il sogno proclamato nell’Italia del boom da Adriano Olivetti secondo il quale la giusta proporzione tra il vertice e la base della scala sociale doveva essere di appena 10 gradini.
Il referendum, che è stato promosso dalla «Gioventù Socialista» svizzera, ha sfruttato i venti di crisi e le incertezze che scuotono la pax elvetica: segreto bancario che vacilla, salari erosi dalla concorrenza dei lavoratori stranieri (italiani in primis), sicurezze sociali messe in discussione. E allora sotto scacco finiscono i privilegi di chi se la passa meglio. La campagna ha assunto toni virulenti specie quando sui muri delle città sono comparsi manifesti in stile western dove banchieri e dirigenti erano ritratti con nome e cognome e stipendio e accostati a dei fuorilegge. A loro veniva contrapposta l’immagine di Reinhard Jossen, piccolo imprenditore, nella cui azienda la forbice salariale non supera quota 1,5; nei manifesti il baffuto Reinhard proclama francescanamente «non c’è niente di meglio per un imprenditore che distribuire la sua ricchezza».
Contro i promotori del referendum sono schierati l’intero establishment economico e i maggiori partiti liberali e conservatori: in caso di vittoria del sì lo spauracchio sbandierato da un lato è che le multinazionali decidano di abbandonare la Confederazione e dall’altro che finiscano licenziati i lavoratori meno pagati (quelli in teoria che la consultazione vorrebbe proteggere) proprio per innalzare la media degli stipendi.
I sondaggi, che inizialmente vedevano l’elettorato svizzero diviso a metà, negli ultimi giorni assegnano un 52% ai contrari alla proposta e solo il 36% ai favorevoli. Da non dimenticare che la nuova legge, per essere approvata, non dovrà ottenere solo la metà più uno dei voti complessivi ma anche la maggioranza in almeno la metà dei cantoni elvetici.
Partita persa in partenza, dunque? Lo schieramento è lo stesso che nel marzo scorso precedette un altro referendum, curiosamente battezzato «contro i gatti grassi», che affrontava anche in quel caso la questione dei superstipendi dei manager. Si chiedeva nell’occasione che i compensi fossero commisurati ai risultati ottenuti (niente più superbonus a chi manda i bilanci in rosso, per intenderci) e che venissero decisi non più dai consigli di amministrazione ma dall’assemblea degli azionisti. La proposta fu approvata dal 68% degli elettori. Il vento anticasta, insomma, soffia anche tra le montagne e le valli della Svizzera.

Corriere La Lettura 24.11.13
Redditi più giusti: minimo e massimo
Lo Stato sociale va rivoluzionato:
un salario per i poveri e un tetto ai superstipendi
di Maurizio Ferrera


Nell’opera Strade per la libertà , pubblicata nel 1918, Bertrand Russell fu tra i primi intellettuali a proporre quello che oggi chiamiamo reddito di cittadinanza (o di base, in inglese Basic Income ). Scriveva infatti il filosofo inglese: «Una certa somma di reddito, sufficiente per coprire le prime necessità, dovrebbe essere assicurata a tutti, sia a chi lavora sia a chi non lavora; chi poi è disposto a impegnarsi per una qualche attività utile alla collettività dovrebbe ricevere una somma più consistente». Nel corso del Novecento, l’idea di Russell è stata oggetto di un dibattito sempre più acceso. Il Basic Income è diventato il cavallo di battaglia di Philippe Van Parijs, esponente di primo piano del cosiddetto «egualitarismo liberale»: nel libro Real Freedom for All («Vera libertà per tutti», 1995) il filosofo belga ha proposto una articolata giustificazione filosofica del reddito di base come strumento capace di conciliare capitalismo di mercato e giustizia distributiva. La desiderabilità di un reddito universale garantito (anche se sotto la forma meno esigente dell’imposta negativa: cfr. il glossario) è stata appoggiata anche da molti pensatori liberisti, primi fra tutti Hayek e Friedman. Dal 1986 è attivo un network di riflessione e pressione politica a favore del Basic Income , prima solo europeo e poi, dal 2004, mondiale (Bien: Basic Income Earth Network). Ed è attualmente in corso una petizione (tecnicamente: un’«iniziativa di cittadini europei») per chiedere alla Commissione Ue di inserire il reddito di base nella propria agenda sociale.
Se passiamo dal mondo delle idee e delle proposte a quello delle istituzioni e delle politiche concrete, come si presenta la situazione? Diciamo subito che il reddito di cittadinanza o di base non esiste da nessuna parte (eccettuato un modesto schema introdotto in Alaska e finanziato dalle entrate petrolifere). In tutti i Paesi anglosassoni e in quelli europei occidentali (Ue a 15), escluse Italia e Grecia, esistono però forme più o meno articolate e generose di reddito minimo garantito. Nella tabella della pagina a fianco vengono elencate le denominazioni che questa prestazione assume nei vari contesti nazionali e gli importi previsti per una persona completamente priva di risorse, senza familiari. Le somme sono puramente indicative: in alcuni casi il reddito minimo è tassato, in altri no; il livello di aiuto cambia di molto a seconda della composizione della famiglia; spesso sono previste aggiunte e integrazioni anche consistenti. Inoltre nella maggior parte dei Paesi Ue vi sono assegni universali per i figli, che si aggiungono al reddito minimo. È dunque difficile (anche se non impossibile) fare dei raffronti precisi tra Paesi. Un fatto va tuttavia ribadito. Insieme alla Grecia, il nostro Paese rimane, incredibilmente, privo di questo fondamentale tassello del welfare: quello che impedisce la «caduta libera» nella povertà e nell’esclusione sociale di membri a pieno titolo della collettività.
Rispetto al reddito di cittadinanza, il reddito minimo garantito presenta due importanti differenze: è erogato solo alle persone povere ed è accompagnato da un programma di «attivazione». Il beneficiario s’impegna infatti a seguire un percorso di integrazione lavorativa e/o sociale, ad esempio frequentando un corso di formazione. Il sussidio è un vero e proprio diritto soggettivo, nel senso che, se il richiedente soddisfa i requisiti, lo Stato è tenuto a concederlo. Siamo cioè lontani dalla assistenza sociale del passato (anche se in alcuni Paesi questa espressione è ancora utilizzata nel nome dello schema), la quale aveva un’impostazione discrezionale e spesso arbitraria, senza vere e proprie garanzie di tutela in caso di bisogno.
Rispetto ad altri diritti sociali (come la pensione), il reddito minimo è però un diritto sui generis : gli studiosi lo definiscono un «diritto individualizzato condizionale». L’importo della prestazione è legato infatti a caratteristiche molto specifiche del richiedente (età, stato familiare e occupazionale, situazione economica ecc.). La fruizione dipende a sua volta da comportamenti definiti da un patto — spesso scritto e formalizzato — con lo Stato: se il patto non è rispettato dal beneficiario, il diritto cessa, la prestazione è revocata. L’enfasi crescente posta sull’attivazione fa sì che il reddito minimo configuri una forma inedita di welfare pubblico: un welfare di natura contrattuale, una piccola rivoluzione nella storia ormai più che secolare dello Stato sociale europeo.
Lo scopo principale della condizionalità è abbastanza ovvio: si vogliono evitare comportamenti opportunistici e «pasti gratis». La stipula del patto intende incentivare comportamenti responsabili e virtuosi da parte dei beneficiari, tali cioè da condurli nel minor tempo possibile al recupero dell’autosufficienza. Da un punto di vista economico, il ragionamento non fa una piega: le prestazioni sociali non devono incoraggiare il cosiddetto «azzardo morale», ossia (in questo caso) approfittare del sostegno esterno per non lavorare. Ma dal punto di vista della teoria politica liberale è lecito chiedersi: un controllo così ravvicinato del comportamento individuale non rischia di essere troppo «paternalista», di imporre vincoli eccessivi alla libertà personale? La critica può essere rivolta a tutte le politiche di workfare , quelle che collegano il godimento di una prestazione alla immediata disponibilità al lavoro (spesso qualsiasi lavoro). Una nota rassegna delle esperienze di workfare degli anni Novanta è significativamente intitolata Un’offerta che non puoi rifiutare : un’espressione usata dal Padrino (quello di Mario Puzo) per evocare metodi di convinzione non proprio ortodossi e certo non rispettosi delle preferenze dell’interlocutore.
Il rischio di paternalismo in effetti c’è, ma esistono anche i possibili antidoti, già sperimentati da alcuni Paesi. Innanzitutto il patto deve essere negoziato fra le parti e tener conto, appunto, degli obiettivi, desideri e vincoli del richiedente. Ma c’è di più: il patto deve vincolare anche l’amministrazione pubblica a fornire opportunità concrete di entrare in contatto con possibili datori di lavoro, percorsi che davvero promettono reinserimento e inclusione. La teoria economica tende a preoccuparsi troppo di azzardo morale e troppo poco di asimmetrie di potere, abusi paternalistici e, soprattutto, inettitudine burocratica.
Sempre ragionando ai confini fra efficienza ed equità, occorre poi tener conto di un altro problema. Anche se accompagnato da forme di attivazione (non oppressive), il reddito minimo interviene pur sempre ex post : rimedia a un bisogno acuto già emerso. Ma perché le persone cadono vittime della povertà? Per un complesso di fattori, molti (anche se non tutti!) al di là del controllo individuale, e spesso connessi a una iniqua distribuzione delle opportunità. Se questo è vero, il modo migliore per combattere la povertà è agire ex ante , cercando di neutralizzare il più possibile la trasmissione inter-generazionale dello svantaggio. Il discorso porterebbe lontano. Mi limito qui a dire che per raggiungere questo obiettivo servono due strategie. La prima è accrescere i cosiddetti «investimenti sociali», in particolare per l’istruzione e la formazione, sin dall’infanzia. Disporre di un adeguato capitale umano è la chiave per imboccare corsi di vita che consentano di migliorare la propria posizione di partenza e di restare «sicuri» dal punto di vista economico e sociale.
La seconda strategia è quella di incidere direttamente sulla distribuzione già esistente delle opportunità, e in particolare dei redditi. Luigi Einaudi raccomandava, nelle sue Lezioni di politica sociale , sia un «innalzamento dal basso» dei più sfavoriti, tramite servizi e sussidi, sia un «abbassamento delle punte» dei più favoriti, tramite l’imposizione progressiva e le tasse di successione. Potremmo tuttavia interrogarci su un’opzione ancor più radicale: istituire, oltre a un reddito minimo garantito, anche un «reddito massimo consentito». L’idea è molto meno peregrina di quanto sembri. Nel marzo scorso, gli svizzeri hanno votato l’introduzione di regole molto restrittive per la definizione degli stipendi dei manager. E proprio oggi — 24 novembre — nella Confederazione elvetica si tiene un nuovo referendum sui «salari equi». Secondo la proposta messa ai voti dai giovani socialisti, nessuna retribuzione dovrebbe superare il multiplo di 12 rispetto alla retribuzione più bassa, all’interno della stessa impresa, pubblica o privata. La Svizzera (non la Scandinavia socialdemocratica, non la Cina comunista) potrebbe essere il primo Paese al mondo a dotarsi di una «banda» reddituale vincolante, sia verso l’alto (salario equo, la formula 1:12), sia verso il basso. Nei prossimi mesi è infatti previsto un ulteriore referendum sull’introduzione di un vero e proprio reddito di cittadinanza, nel senso pieno del termine.
Quali indicazioni fornisce la teoria liberale riguardo ad eventuali tetti massimi sui redditi? Le posizioni sono diverse: Robert Nozick ad esempio sarebbe inorridito al solo pensiero, mentre John Rawls, al contrario, avrebbe detto: le differenze di retribuzione sono giustificate se aumentano il reddito complessivo di una società e se i frutti di questo aumento tornano a vantaggio dei più sfavoriti. Nessun tetto, dunque: ma uno scrutinio rigoroso sulla corrispondenza fra alte retribuzioni, alto merito individuale, alta performance. Quanti stipendi di manager pubblici e privati in giro per l’Europa supererebbero questo test?
Ma veniamo all’Italia. Come mai non abbiamo un reddito minimo garantito né, tantomeno, una strategia di investimenti sociali e di lotta alla povertà? Perché il nostro welfare si è sviluppato solo verso l’alto (inventando le pensioni «baby» e quelle «d’oro») e non ha mai costruito robuste fondamenta «in basso». Come stupirci se un simile edificio è diventato un vero e proprio campionario di iniquità? Come potevamo sperare che senza fondamenta la casa potesse stare in piedi, reggere i venti della globalizzazione, i vincoli dell’euro, lo tsunami della crisi? E infatti la casa non sta reggendo: né sotto il profilo finanziario né sotto quello sociale. Nonostante le riforme, le pensioni ancora consumano il 15 per cento circa del Pil e siamo il Paese Ue con la più alta percentuale di trattamenti sopra i 3.000 euro al mese. Sul versante opposto, l’8 per cento della popolazione vive in condizioni di povertà assoluta.
Negli ultimi mesi qualcosa finalmente si è mosso. Da un lato si è cominciato a parlare di tetti alle prestazioni più generose e alle retribuzioni più elevate, soprattutto nel settore pubblico. Molti si sono scandalizzati per l’attacco ai diritti acquisiti. Ma in un sistema pensionistico a ripartizione come quello italiano, i diritti acquisiti tendono a trasformarsi in «oneri scaricati» sulle giovani generazioni. Per quanto riguarda le retribuzioni, ricordiamo poi che quelle dei nostri burocrati sono fra le più alte del mondo.
Dall’altro lato, sono state recentemente formulate proposte concrete per introdurre anche da noi il tassello mancante. Il Movimento 5 Stelle vorrebbe il reddito di cittadinanza per tutti coloro che hanno redditi sotto la soglia di povertà relativa. A parte lo svarione terminologico (si tratta in realtà di uno schema di reddito minimo), la proposta è fuori linea rispetto alle migliori esperienze straniere e costerebbe uno sproposito. Molto più serie e praticabili le altre due proposte sul tappeto. La prima è quella, molto dettagliata, del Reddito di inclusione sociale (Reis), formulata mesi fa dalle Acli. La seconda è quella, più generale, del Sostegno d’inclusione attiva (Sia), elaborata da un gruppo di lavoro nominato dal ministro del Lavoro Enrico Giovannini. Anche l’Istituto per la ricerca sociale (Irs) ha fatto una sua proposta, che ha il merito di indicare le possibili fonti di finanziamento: una incisiva razionalizzazione delle prestazioni assistenziali già esistenti, che a volte trasferiscono risorse a famiglie che certo povere non sono.
Con un po’ di coraggio politico e serietà istituzionale, ci sono oggi le condizioni per ribilanciare la struttura sbilenca del nostro stato sociale e costringerlo a svolgere quella che dovrebbe essere la sua prima funzione: aiutare i più deboli. Certo, ci sono i problemi della burocrazia, dell’evasione, dell’economia nera e persino della mafia. Ma qual è l’alternativa? Tenerci cinque milioni di poveri, fra cui un milione di bambini? E difendere al tempo stesso grotteschi privilegi solo perché «ci sono»? Non occorre scomodare la filosofia né l’economia per capire che lo status quo non è in alcun modo sostenibile e che le riforme non possono più aspettare.

l'Unità 24.11.13
Grass alla base Spd: «Dite no alla Grosse Koalition»
Un appello di trenta intellettuali contro l’alleanza della sinistra con Cdu e Csu
di Gherardo Ugolini


BERLINO «Posso solo raccomandare alla Spd e ai suoi iscritti di non entrare nella Große Koalition». La sferzata arriva dalla bocca di Günter Grass, il più celebre scrittore tedesco vivente, premio Nobel nel 1999, e soprattutto coscienza critica della sinistra. Da sempre è un simpatizzante del partito socialdemocratico e in passato non ha esitato a spendersi personalmente per appoggiare candidati alla cancelleria come Willy Brandt. Da qualche tempo i rapporti si sono raffreddati, ma per l’opinione pubblica progressista l’autore del Tamburo di latta rimane un punto di riferimento importante.
Ieri se n’è uscito con un dichiarazione polemica rilasciata all’agenzia Dpa in cui contesta radicalmente la scelta del partito di dare vita ad un governo di larghe intese sotto la guida di Angela Merkel e invita i 470mila iscritti a votare «No» quando tra non molto saranno chiamati a decidere via referendum sul «contratto di coalizione» che sta per essere sottoscritto da Cdu, Csu e Spd.
Fin dalla sera delle elezioni politiche nelle file dei socialdemocratici regna molto scetticismo sull’opportunità di imbarcarsi nell’avventura di una nuova Große Koalition. Il presidente del partito Gabriel è riuscito un po’ alla volta a convincere il gruppo dirigente e i militanti dell’ineluttabilità di tale strada. Nelle corso delle trattative ha ceduto su alcuni punti (per esempio
sull’aumento dell’aliquota fiscale per le fasce di reddito più ricche), ma ha incassato il sì di Frau Merkel sul salario minimo a livello nazionale fissato a 8,5 euro l’ora. Così ha convinto molti dei suoi, ma non tutti. E tra poco, non appena saranno concluse le consultazioni, il testo dell’accordo sarà sottoposto al referendum tra gli iscritti, con la ragionevole prospettiva di incassarne l’approvazione.
Ma perché l’Spd dovrebbe rinunciare ad andare al governo? Günter Grass intravede due pericoli in tale scelta. Il primo è che i socialdemocratici si appiattiscano sulla linea della cancelliera «perdendo la propria specifica fisionomia politica». L’altro è che la nuova maggioranza, disponendo nel Bundestag dell’80% dei seggi, «soffochi ogni voce d’opposizione». Verdi e Linke non avrebbero nemmeno la possibilità di chiedere la convocazione di Commissioni di inchiesta, per la cui nomina è necessario il voto del 25% dei rappresentanti in Parlamento.
L’unica soluzione per evitare il ritorno alle urne sarebbe, secondo lo scrittore di Danzica, la formazione di un governo di minoranza composto da Cdu e Csu «tollerato» dalle altre formazioni presenti in Parlamento mediante l’astensione o anche l’appoggio circoscritto a determinate questioni.
Difficile dire in che misura le affermazioni di Grass faranno breccia tra gli iscritti dell’Spd. Un esito negativo della consultazione referendaria significherebbe una sconfessione totale del gruppo dirigente rieletto lo scorso fine settimana nel congresso di Lipsia.
Per altro accanto a Grass anche altri intellettuali vicini all’Spd sono scesi in campo promuovendo un «Appello contro la Grande Coalizione» il cui senso è sostanzialmente il seguente: se non si ha la possibilità di guidare l’azione direttamente di governo, allora è preferibile stare all’opposizione. Lo hanno firmato tra gli altri lo scrittore Ingo Schulze, l’attrice Hanna Schygulla e il musicista Konstantin Wecker.

Repubblica 24.11.13
Günter Grass “Non piegatevi alla Merkel”
Appello alla base della Spd
di Andrea Tarquini


BERLINO — «No, il partito del mio cuore non deve piegarsi a una grande coalizione col centrodestra. Qualsiasi altra soluzione è meno peggio per la Germania, persino un governo di minoranza di Angela Merkel, la cancelliera politicamente vile, priva di coraggio». L’appello alla base viene da Günter Grass, massimo scrittore tedesco vivente e coscienza critica a suo modo della sinistra di Germania, in un’intervista all’agenzia di stampa tedesca Dpa. Proprio mentre Spd e Cdu/Csu sono a un passo dall’accordo di governo, avendo già deciso la ripartizione dei ministeri: sei alla Cdu di Angela Merkel, 6 alla Spd, 3 alla Csu bavarese. Ancora una volta, Grass incarnazione germanica scomoda dell’intellettuale engagé, scende in campo.
«Io consiglio alla Spd e ai suoi membri di non accettare questa Grosse Koalition», dice Grass. L’appello è lanciato agli iscritti al partito, chiamati nei prossimi giorni (probabilmente dal 12 al 16 dicembre) a un voto-referendum interno al partito, che sarà vincolante per il vertice, a dire se accettano o no il patto di legislatura con il centrodestra guidato dalla “donna più potente del mondo”. Perché non bisogna piegarsi alla voglia di potere di Angela Merkel, ma anche perché una maggioranza così vasta non lascia spazio all’opposizione, e ciò danneggia la democrazia. Grass interviene in extremis, per la Grosse Koalition restano da definire intese sulla doppia cittadinanza o il matrimonio gay. Ma i grandi punti sono definiti: sì al salario minimo chiesto dalla Spd, rigore in politica europea come vuole la Cdu/Csu. E anche: niente nuove tasse ma risanamento duro del bilancio, col pareggio a fine anno prossimo e niente nuovi debiti pubblici a partire dal 2015. Tutto dipende ora dal “sì” o dal “no” vincolante dei militanti Spd. Ecco alcuni passi dell’intervista di Grass alla Dpa:
Che cosa si aspetta dalla prevedibile grande coalizione?
«Posso solo consigliare alla Spd e ai suoi iscritti di non accettare questa Grosse Koalition, e lo dico per molti motivi. Una coalizione dei maggiori partiti è così onnipotente da non lasciare spazio all’opposizione. Ciò danneggia il nostro sistema democratico: Verdi e Linke hanno gruppi parlamentari così piccoli da non poter guidare neanche una commissione parlamentare d’inchiesta».
Quali alternative sarebbero allora possibili?
«Un governo di minoranza Cdu/Csu. Funziona in molte democrazie europee. Nell’ultima legislatura abbiamo anche visto che la Cdu/Csu è stata lasciata sola su questioni-chiave di politica europea dai suoi alleati liberali, ma Spd e Verdi hanno votato insieme alla Cdu/Csu».
Nel datagate pensa che Merkel si sia comportata in modo credibile?
«La signora Merkel è politicamente vile, manca di coraggio. A paragone, ricordo che Schröder disse no alla guerra in Iraq». Grass invita duramente Merkel a difendere i cittadini e la loro privacy dallo spionaggio americano, «cosa che non sta facendo ». E invita Berlino a concedere asilo alwhistleblowerEdward Snowden: «Io sono a favore, naturalmente ciò andrebbe unito alla concessione di adeguate garanzie di sicurezza per Snowden sul nostro territorio».

Repubblica 24.11.13
Jacques Le Goff “Difendo Hollande dai media bugiardi”
“La Storia gli darà ragione”
intervista di Anais Ginori


PARIGI — «Viva Hollande, la Storia gli darà ragione». Nel coro di proteste contro il presidente francese, precipitato ai minimi storici del gradimento popolare, si leva una voce controcorrente. È quella di Jacques Le Goff, storico medievalista ma anche elettore di sinistra e «attento osservatore della società contemporanea», così si definisce. «Voi della stampa siete ingiusti, vi accanite contro il povero Hollande» dice Le Goff, 89 anni, che ha pubblicato suLe Mondeun editoriale in sostegno del leader socialista.
Non riprenderà anche lei la solita accusa contro i media?
«Purtroppo lo penso. Persino la stampa più seria manca di lucidità, intelligenza. In Francia ormai è uno sport nazionale: dare addosso a Hollande. Dovremmo essere più equanimi. Accanirsi contro il Presidente indebolisce l’immagine internazionale della Francia».
Riconosce almeno che il Presidente ha fatto degli errori?
«Definendosi come “Presidente normale” ha sottovalutato l’importanza del ruolo. Ha scelto male alcuni collaboratori. In generale, però, è un buon Presidente. Competente, impegnato. Sa difendere i nostri valori repubblicani e ha chiaro quale deve essere la posizione della Francia nel mondo ».
Gli manca un po’ di carisma?
«Non amo il termine, soprattutto se penso al passato. Quando ascoltavo Sarkozy mi sembrava un pazzo. Hollande è meno scoppiettante ma più serio. Lo accusano di essere “molle”, eppure ha deciso un intervento militare in Mali, si è schierato prima di altri per un’azione in Siria ed è l’unico leader occidentale che osa fare resistenza contro l’Iran ».
Come spiega allora la sua caduta verticale nei sondaggi?
«I francesi sono degli eterni scontenti. Ma qui si tratta di critiche non costruttive. Attacchi virulenti, esagerati. È una moda. Conosco intellettuali che in privato non sono delusi da Hollande ma hanno paura di ammetterlo in pubblico».
Preoccupato per le tante rivolte contro il governo, compresa quella dei “berretti rossi” in Bretagna?
«Da bretone e da storico posso dire che non ha senso evocare il simbolo della rivolta dei berretti rossi contro l’Ancien Régime. Non c’è paragone possibile sul piano dell’ingiustizia sociale. Anzi, Hollande si è impegnato in molti campi per difendere principi di solidarietà sociale».
È sembrato insensibile verso la ragazza rom espulsa durante una gita scolastica.
«La polizia ha sbagliato le modalità di espulsione, ma sul piano giuridico la famiglia aveva esaurito i ricorsi possibili per ottenere asilo. Manuel Valls ha concesso il doppio di regolarizzazioni di stranieri rispetto alle espulsioni. Questo, però, nessuno lo dice».
Conosce personalmente Hollande?
«No, lo sostengo per convinzione, pensando al bene del paese. I francesi dovrebbero aiutare governanti democraticamente eletti. A livello europeo, Hollande è uno dei pochi leader che cerca di far avanzare questa magnifica idea di Unione. Ci sono politici molto più nefasti di lui, come Cameron, Merkel, Barroso, che però non subiscono lo stesso accanimento mediatico».
Pessimista?
«Il peggio è passato. Da storico mi aspetto grandi e formidabili mutazioni sociali. E poi so che i popoli sbagliano, non è una novità. Per fortuna Hollande ha davanti ancora quattro anni. Molti francesi lo rivaluteranno.Ne sono certo».

Corriere 24.11. 13
Arrivano le prime donne guerriere
Nei Marines cade l’ultima barriera
Julia, Cristina e Katie superano i test di combattimento
di Giuseppe Guastella


NEW YORK – Hanno marciato per 20 chilometri portandosi un carico di 36 chili sulle spalle, hanno soccorso e trasportato un ferito, hanno trascinato una mitragliatrice: dopo 59 giorni e altrettante notti su un terreno che simulava un’area teatro di operazioni, tre donne hanno superato il durissimo test di combattimento dei Marines finora riservato agli uomini. Sono le prime nella storia del corpo, ma dovranno attendere il 2016 per scendere sui campi di battaglia.
I soldati scelti Julia Carroll, Cristina Fuentes Montenegro e Katie Gorz sono le sole ad aver completato il corso nella base di Quantico, non lontana dalla capitale Washington. Fallito un primo tentativo con sei soldatesse e un altro con tre donne ufficiali (il training per loro è ancora più difficile) a settembre i Marines ci hanno riprovato con altre sei: «Sono tutte volontarie. Parteciperanno solo le donne che vogliono davvero farlo», avevano annunciato i vertici della scuola di fanteria di Camp Geiger, base dei Marines. La decisione di addestrare anche le donne arriva dopo che a gennaio l’allora segretario alla Difesa Leon Panetta aveva ordinato ai militari americani di aprire al sesso femminile, salvo esigenze specifiche, tutti i settori entro il 2016. Iniziativa condivisa dal suo successore, Chuck Hagel.
Sono 280 mila le donne sotto le armi negli Usa, il 15% della forza militare, fetta che scende al 7% tra i Marines che ne contano 13.800. Il loro ruolo è cambiato nel tempo. Dopo aver avuto esclusivamente compiti di supporto nelle retrovie o in patria, dagli anni 90 sono state impiegate, prima solo come piloti, anche in azione. Nonostante il divieto formale della prima linea, la parità dei sessi è stata già raggiunta con la morte: sono quasi 150 le donne cadute in Iraq e Afghanistan a fianco dei colleghi uomini.
«Ero preoccupata che ci sarebbero stati molte problemi con gli uomini, invece si è instaurato un clima di cameratismo. Non temevo di abbandonare… sono un guerriero» dichiara con fermezza la 18enne Carroll. «Il corso è stato duro perché abbiamo dovuto adattarci allo standard maschile» dice Fuentes, 25 anni, aggiungendo che «una delle cose che ci ha spinte ad affrontare l’addestramento è il sapere di rappresentare qualcosa di più che noi stesse».
Questo primo esperimento ha due scopi: ottenere informazioni su come le soldatesse possono raggiungere gli stessi requisiti psicofisici richiesti per la prima linea ai colleghi uomini e studiare i comportamenti delle unità miste sotto lo stress del combattimento. «Il nostro obiettivo è mandare in missione le persone meglio preparate e più capaci, senza riguardo al sesso» aveva annunciato il portavoce del dipartimento della Difesa Nate Christensen.
«Non vi promettiamo un giardino di rose», dice rivolgendosi alle tre neopromosse il tenente colonnello David Wallis, comandante del battaglione di addestramento. Mentre i soldati più anziani, come da tradizione, aspettano con impazienza un po’ perfida i nuovi arrivati per le «cerimonie» di inserimento nelle unità, nessuno si preoccupa delle donne che non possono ancora fare quello per cui hanno faticato così tanto. Prima di sparare deve arrivare il 2016.

Repubblica 24.11.13
Il reportage
A casa di Mao. Dove nacque la Lunga marcia
A centovent’anni dalla nascita siamo andati nel suo villaggio per vedere come e perché sopravvive il mito
Milioni di cinesi vanno in pellegrinaggio nel paese di Mao
Un culto ancora oggi funzionale sia alla Cina comunista sia a quella consumista
di Giampaolo Visetti


SHAOSHAN Nel reliquiario di Mao Zedong ogni oggetto è sacro. Le sue sigarette non fumate, un thermos per il tè, la boule azzurra che gli riscaldava lo stomaco, il lucido per le scarpe, la racchetta verde da ping-pong, i suoi mutandoni di lana. Due piani di reperti esposti nella penombra, a temperatura costante, illuminati e protetti come capolavori. La colonna dei pellegrini scorre in silenzio davanti alle vetrine che esibiscono “i calzini del Presidente Mao”, il suo pettine e le scatole dei biscotti di cui aveva bisogno non per la gola, ma “perché lavorava sempre”. Alcuni anziani, al cospetto di un pigiama rattoppato, non trattengono le lacrime e qualche donna tocca un busto presidenziale mormorando parole di preghiera perché il figlio recuperi salute e prosperità. Il funzionario che mi guida nel museo del Grande Timoniere improvvisamente si ferma davanti al celeste letto, immenso e in pendenza per “ospitare le montagne di libri che divorava di notte”. Respira a fondo e intona
Gli operai impegnati a ritinteggiare la sale, cambiare le lampadine, scrostare i vetri e sostituire i bambù ingialliti, attaccano l’inno con lui. C’è un certo odore di mobili in decomposizione, ma sulle pareti scorrono immagini ad alta definizione che ritraggono il Presidente Mao mentre “nuota sorridente in un lago dalle acque gelide”. L’uomo che ha fondato la Repubblica Popolare Cinese, cambiando il destino dell’umanità, nacque centovent’anni fa e nel suo villaggio resta un dio immortale. Tanto più eterno adesso, alla vigilia dell’anniversario: «Ventisei dicembre 1893 — si affretta a puntualizzare la guida al termine della sua baritonale esibizione di maoismo spontaneo — il giorno in cui è venuto al mondo il bambino che i genitori chiamarono profeticamente “Ze-dong”, ossia “splendere sull’Oriente”».
Shaoshan, cinquanta chilometri a sud di Changsha, capoluogo dello Hunan, contava allora quattrocento famiglie di contadini e le sue colline erano infestate dalle tigri. Si aravano le risaie con i bufali e la vita, sotto l’agonizzante dinastia Qing, scorreva come nel Medioevo: la notizia della morte dell’imperatore giunse nella fattoria dei Mao casualmente, due anni dopo il decesso.
L’ex borgo conta oggi centoventimila abitanti, di cui quarantamila si chiamano Mao, e quasi nessuno coltiva la terra. È stato ribattezzato “Città della Memoria Rossa” e qui tutti vivono grazie al culto di Stato per il padre del comunismo cinese. Un gigantesco manifesto affisso in piazza Mao Zedong, proprio davanti a una statua di Mao alta sei metri, ricorda che “il nostro eroe è morto prematuramente il 10 settembre 1976, all’età di quasi 83 anni, ma noi ameremo per sempre il Presidente Mao”. Un simile trasporto non permette che qualcuno faccia la fame e dopo centovent’anni il Grande Timoniere, mummificato nella piazza Tienanmen a Pechino, può dire di aver reso ricchi i suoi compaesani. A Shaoshan, per onorare la sua casa natale, arrivano cinque milioni di cinesi all’anno. Solo in dicembre, per la ricorrenza, se ne attendono altri due milioni. Assolti i lunghi doveri di fede, tutti entrano in un ristorante per mangiare “maiale stufato alla Mao” e “tagliolini della felicità”, acquistano una copia delLibretto Rosso e una piccola effige magnetica con il volto del divino per il cruscotto dell’auto, a benedizione dei viaggiatori. Ma soprattutto tutti sono invitati dalle autorità ad assistere allo spettacolo che mettein scena infanzia e giovinezza del Presidente Mao e a trascorrere una notte in albergo. Lo show, dopo decenni di sempre più stanche correzioni politiche, è in via di riadeguamento alla sensibilità dei nuovi leader e alle imminenti celebrazioni. Due ore di fiamme, battaglie, vittorie, sangue, fiori e bandiere rosse, chiuse dai fuochi d’artificio del trionfo. Il messaggio è semplice: le forze occidentali erano il Male e Mao, grazie al suo coraggio, ha salvato il popolo cinese dalle belve del Novecento, facendo prevalere il Bene. Buona parte del pubblico, al termine di una giornata sfiancante nel santuario maoista, crolla in un sonno ostinato, che resiste anche ai fragorosi inni rivoluzionari. Quando cala il sipario però sono tutti doverosamente commossi.
L’albergo Shengdi, storico rifugio dei dirigenti spediti dal partito a omaggiare il padre della nazione, è invece un mito a sé. Sconfinato, in marmo bianco, imbottito di moquette rossa e gialla. Troni e tavoli fingono di essere d’oro, come le teste di leone e i putti trombettieri appesi alle pareti. Nelle sale risuona la colonna sonora del film Titanic e le cameriere accorrono per mostrare i wc giapponesi riscaldati e i soffitti affrescati delle stanze, che illustrano l’epopea del Presidente Mao come fossero le scene della vita di Cristo narrata dalVangelo. Non si può dire che la struttura, ai piedi della Montagna del Drago, esalti la frugalità delle origini, messaggio essenziale affidato a Shaoshan dai successori del “padre di tutti noi”.«L’hotel è vuoto — avverte la cameriera incaricata di sorvegliare il mio piano — Duecento camere, lei è l’unico cliente. Sono scomparsi tutti, dopo la caccia scatenata da Xi Jiping contro corrotti, lussi e stravaganze. Pensi: anche il gala organizzato per l’anniversario del Presidente Mao è stato cancellato». Lo spreco di Stato per non smettere di venerare la sola figura tuttora capace di tenere uniti i cinesi è in effetti un problema ideologicamente imbarazzante. A quasi quarant’anni dalla sua scomparsa, nella Cina iperconsumista che l’ultimo Plenum ha appena aperto al “mercato decisivo”, che è l’opposto di quella teorizzata dal Grande Timoniere, il partito scopre di essere ancora Mao-dipendente. Altro che riforme: il potere dei “prìncipi rossi” discende dal suo ricordo, che sostiene la società, lo Stato, il regime, tutto. Nessuno, da Deng Xiaoping a Jiang Zemin e Hu Jintao e ora a Xi Jinping, ha avuto il coraggio di mettere sostanzialmente in discussione il dio dei cinesi e la nazione si scopre ancora prigioniera del dittatore da cui non ha saputo affrancarsi, nemmeno dopo la sua morte. Discutere in modo aperto di Mao equivarrebbe a parlare liberamente del partito-Stato, permettere la ricerca della verità: come imprimere un sigillo sulla fine del regime. Pechino deve così alimentare la fiamma della sola fede ammessa: chisi astiene resta un traditore. Alimentare il culto di massa, dopo centovent’anni, è però tremendamente dispendioso e il popolo degli ex compagni, pronti a piangere davanti alle “scarpe bucate del Presidente Mao”, è meno propenso ad assolvere i costi di una propaganda che, assieme al padre, promette di consegnare all’eternità anche i figli, auto-proclamati successori.
Per la prima volta, alla vigilia del sacro anniversario, la Cina si indigna dunque per i 2,5 miliardi di dollari stanziati dal governo per i festeggiamenti del 26 dicembre a Shaoshan. Una bestemmia: condannare le energie profuse per «dire collettivamente grazie al Presidente Mao». Eppure è così, la nuova classe media dei consumatori urbanizzati alza la voce contro i nostalgici naziona-listi dell’antico mondo rurale e si capisce perché nel villaggio natìo, investito della titanica missione di «gestire sedici piani patriottici» senza smarrire uno yuan, non si vedono volti rilassati. Mao Zedong costa, la ri-maoizzazione succede alla de-maoizzazione, e il partito rischia. Bisogna ammettere che, nell’eccesso obbligato di zelo apologetico, si è esagerato. A Changsha, dove “l’ultimo imperatore” studiò e insegnò nell’Accademia Yuelu, una sua testa di granito alta trentadue metri domina il fiume Xiang e funge da sfondo per le foto degli sposi. Di qui parte l’auto-strada personale di Mao, che in un’ora conduce direttamente alla fattoria dove è nato. L’asfalto è tirato come un velluto e centinaia di operai rabboccano a mano impercettibili buche. Il percorso è deserto e l’autista del pullman non può smettere di suonare per disperdere stormi di gazze che riposano sulla corsia di sorpasso. La “Città della MemoriaRossa”invece è in fermento. Ordini dall’alto: centinaia di botteghe di souvenir rinnovano le fotografie dei vecchi leader, gli album con le poesie del Presidente Mao e quelli con la sua “struggente calligrafia”. Su una spianata di cantieri si costruiscono il nuovo “Museo di Mao e della Cina”, alcuni alberghi, una nuova stazione per i treni ad alta velocità, un centro commerciale «a tema rivoluzionario», cinema e teatri per replicare «un’adolescenza leggendaria». Le impalcature nascondono anche la casa degli avi dei Mao, eretta nel 1763 e trasformata in scuola per la seconda moglie del giovane Zedong, come i venerati “bagni sovietici” color smeraldo del bunker anti-atomico segreto, scavato nel 1960 sotto il dosso dove è sepolto suo nonno. Dietro la statua del centenario, voluta da Jiang Zemin nel 1993, si cambiano i fiori, si potano i sessantatré pini, uno per ogni etnia, e si sostituiscono le corone con la scritta “Noi ameremo Mao per sempre”. La coda per accedere alla casa natale del Presidente Mao comincia qui, a poco meno di un chilometro dal letto in cui la madre, fervente buddista, lo partorì dopo due figli defunti. Eserciti di guide turistiche e ambulanti assediano i fedeli-clienti, ordinati fuori dai pullman delle gite di partito. Giovani in abiti da monaci e sosia presidenziali, di varie età, si offrono a prezzi proletari per foto-ricordo.
Nessun grande dittatore del Novecento, non Lenin, non Stalin, e tantomeno Mussolini o Hitler, ma neanche alcun statista democratico, conserva un memoriale così impressionante e ancora decisivo, fondamentale per la sorte della Cina e tanto influente sul destino del mondo, quale è la fattoria dove Mao Zedong «cominciò a vivere aiutando i genitori nei lavori della stalla». Chi ci arriva è stato preparato: conosce biografia e storia a memoria, ha scorso centinaia di fotografie d’epoca, digerito decine di documentari seppiati e si limita a dire «vado alla Casa». Sa che, dopo due ore d’attesa e giorni di viaggio, scorrerà in cinque minuti attraverso sei stanze spoglie di una vecchia dimora contadina con muri e pavimento di fango, in riva a uno stagno, davanti a una risaia e alla collina dove riposano l’amata madre e l’odiato padre del Presidente Mao. Eppure, dopo centovent’anni dal divino vagito, la massa dei cinesi indebitati per una berlina tedesca e con il sogno inconfessabile di fuggire in America, procede in religioso silenzio tra il focolare e la vasca per l’acqua, commossa dalla propria, presto dimenticata povertà. È questo il capolavoro della propaganda maoista, più forte del silenzio che torna ad avvolgere lo sterminio del “Grande Balzo in Avanti” e i crimini della Rivoluzione culturale, abomini negati o ignorati del maoismo. Il messaggio universale della rinnovata nomenclatura è potente: l’energia dell’epocale successo cinese continua a derivare dalla forza di questa miseria, dalle privazioni, dal sacrificio, dall’onestà, dall’abnegazione filiale, dalla frugalità, dalla determinazione che permisero a un giovane contadino dello Hunan di trascinare la patria colonizzata dall’impero al socialismo, mutando il corso di due secoli. È il cuore dell’aggiornata ideologia capital-comunista della svolta riformista annunciata il 12 novembre da Xi Jinping: «Spianare le montagne», «arricchirsi gloriosamente» e ora «consegnarsi al mercato», ma non rinunciare «all’anima marxista del servire il popolo». A questo appalto della persuasione resta affidata l’irrinunciabile sacralità della casa natale del Presidente Mao. Si può evitare il mausoleo di Tiananmen, non la culla di Shaoshan. Cinque minuti di raccoglimento e una fotografia sull’augusto uscio, come in una Mecca materialista, bastano per una vita obbediente, se si riconosce l’autorità del luogo- mito. Il rinnovato impegno a una tale fedeltà vale ben l’investimento di Pechino che, per l’occasione, rompendo un altro storico tabù, si appresta a lanciare il cartoon Quando Mao Zedong era giovane, a esportare il film d’animazione Come si fa a diventare presidente e a stampare il volume Qualcuno deve finalmente dire la verità,che nega i quaranta milioni di morti del “Grande Balzo in Avanti”.
«Nessuno spreco per l’anniversario — dice il funzionario che mi accompagna a salutare l’ultima vicina di casa che assicura di essere stata amica del Grande Timoniere — Mao non appartiene alla sinistra, è l’ispiratore di ogni cinese e i giovani di tutto il mondo devono conoscerlo». L’ambiguità scientifica della divinità e dei suoi interpreti: dopo centovent’anni, grazie all’umiltà della Casa, il Presidente Mao resta il volto del partito-Stato, ma diventa pure l’immagine dei suoi oppositori interni, del montante ma imperseguibile dissenso-maoista che vorrebbe abbattere la casta corrotta che, proprio nel nome di Mao, torna a teorizzare il potere come dinastia ereditaria dei grandi interessi di clan. Primo difensore e atto d’accusa, sintetizzati in unico mandato del cielo, «insidiato solo — assicura la guida — dalla tentazione del denaro». Lo spirito di Mao però non ha impedito alla Cina di crescere fino a diventare la potenza più ricca del secolo. Un tappeto di teste adoranti, mentre la notte risale il passo del “Riposo della tigre”, si inchina così emozionata davanti alla gigantesca macina di pietra che il piccolo Zedong «riuscì a muovere già all’età di tre anni ». Fantasie, storia, parabole, propaganda: quanto tempo resisterà questa Cina del dopo figlio unico e liberata dai campi di lavoro, ma costretta ad aggrapparsi all’unico dio che riconosce come proprio, per poterlo quotidianamente abbattere senza crollare? «Mao Zedong vivrà per sempre — recita il falegname che entro il 26 dicembre deve finire di restaurarne l’altare domestico degli avi — Ma una cosa è certa: se Lui tornasse qui e vedesse ciò che siamo diventati, altro ch eriforme, farebbe subito un’altra rivoluzione».

l'Unità 24.11.13
Dal mercato al figlio unico I piccoli passi della Cina
Più spazio ai consumi interni e ai capitali esteri
Dal terzo Plenum del XVIII Comitato centrale del Pcc buone intenzioni da vedere alla prova dei fatti
L’obiettivo è di una crescita del 7% entro il 2020 e di un raddoppio del reddito medio
Tutti da verificare gli impegni presi contro la grave crisi ecologica e l’inquinamento
Dovrebbero essere chiusi i «laojiao», dove veniva rinchiuso chi protestava o chiedeva giustizia
di Gianni Sofri


Dal 9 al 12 novembre si è svolto a Pechino il terzo Plenum del XVIII Comitato centrale del Pcc. Naturalmente, come sempre, non abbiamo la minima idea di cosa i circa 400 partecipanti si siano detti, di quali siano stati gli interventi più importanti.
Non sappiamo se ci sia stato o no un vero e proprio dibattito aperto, ecc. Alla fine del Plenum è stato diffuso un breve documento molto deludente, che in pratica elencava soltanto, come nell’indice di un libro, alcuni titoli che alludevano ai temi trattati. La delusione generale (che traspariva dalla trattazione dedicata all’evento dai giornali internazionali) è stata un po’ attenuata, tre giorni dopo la chiusura del Plenum (in molti hanno attribuito al Presidente Xi un certo gusto della suspence...), dall’uscita sulla stampa ufficiale cinese di un lungo documento nel quale agli stessi temi elencati in precedenza si dedicavano più spazio e particolari. C’è stato, sempre sulla stampa internazionale, un eccesso di entusiasmo per quella che sembrava l’importanza e la serietà dei provvedimenti annunciati. Oggi, a distanza di qualche altro giorno, si assiste gradualmente a una nuova correzione e alla ricerca di un maggiore equilibrio (e prudenza) nei giudizi. Da molte parti, e in modi diversi, si espongono dubbi e perplessità, si sottolinea la genericità della trattazione, si invitano i lettori ad attendere con pazienza per vedere quanto alle intenzioni proclamate corrisponderanno le realizzazioni. In questa sede, proviamo a fare il punto su alcuni dei problemi che il documento finale del Plenum solleva.
MENO STATO PIÙ MERCATO
Il tema che più di ogni altro ha attirato l’attenzione (soprattutto nei giornali più interessati alle vicende economiche e finanziarie, che hanno ormai nella Cina un vero protagonista) è quello che si può riassumere in una formula assai usata nei media: «meno Stato più mercato». I commentatori internazionali si sono scatenati nelle interpretazioni della definizione del ruolo del mercato, per la prima volta, come «decisivo», in luogo di altri aggettivi, quasi sinonimi ma meno impegnativi. Il documento annuncia che il governo aprirà maggiormente alle banche private e agli investimenti esteri; questi ultimi, anche nei mastodontici complessi industriali statali, tuttora assai importanti. Contemporaneamente, questi grandi monopoli statali verranno sottoposti a un maggiore controllo da parte dei poteri centrali. Si è parlato di una crescita (attorno o di poco sopra al 7%, e tale da produrre il raddoppio del reddito medio dei cinesi entro il 2020) che dia più spazio ai consumi interni rispetto alle esportazioni, alla ricerca di un riequilibrio delle grandi differenze regionali e sociali che caratterizzano l’economia del Paese.
Vanno visti in questo quadro anche una serie di provvedimenti a favore dei contadini migranti dalle aree rurali alle zone industriali dell’Est. Entro tempi che restano da precisare, ai contadini verranno riconosciuti dei diritti di uso della terra (un ulteriore colpo alla proprietà collettiva, ma anch’esso in forme da precisare).
Un aspetto importante è rappresentato dalla possibilità, che ora si prevede, di una maggiore autodifesa legale dei contadini rispetto ad espropri obbligati senza alcun compenso, o in cambio di risarcimenti irrisori, da parte di burocrazie locali che favoriscono la costruzione di nuove fabbriche, grandi magazzini e simili. Dovrebbero inoltre essere progressivamente eliminate le restrizioni all’insediamento di migranti nelle città (a cominciare da quelle piccole).
Si annuncia anche un intervento abbastanza deciso per combattere la crisi ecologica e l’inquinamento, che di recente ha raggiunto punte intollerabili, per esempio a Pechino e ad Harbin, nel Nordest (sempre di recente, si è avuto notizia che la Cina ha conquistato il primo posto nella poco invidiabile classifica dei paesi che inquinano di più in termini di Co2).
Da molte parti si è visto in tutto questo un insieme di buone intenzioni, da rivedere alla prova dei fatti. Inoltre, fin dall’inizio delle riforme di Deng Xiaoping (e sia pure con una certa variabilità linguistica), si può dire che non ci sia stato congresso o assemblea che non abbia sottolineato la necessità di accentuare il ruolo del mercato nell’economia: di «apertura al mercato» si cominciò a parlare nel 1978, di economia «socialista di mercato» nel ’93. Difficile, quindi, vedere nei risultati di questo Plenum una sorta di «rivoluzione», come questo gruppo dirigente aveva in qualche modo promesso. In campo economico, insomma, si può tutt’al più constatare un’accentuazione di una linea già consolidata: accompagnata semmai, come vedremo meglio, da un più deciso attacco agli avversari della linea oggi vincente.
IL FIGLIO UNICO
Che il problema di una trasformazione della legge sul figlio unico fosse ormai maturo è dimostrato dai molti interventi degli ultimi tempi sull’argomento, compresi alcuni di Mo Yan, premio Nobel per la letteratura (in particolare nel suo romanzo Le rane, ma anche in un precedente racconto). Mo Yan, vice-presidente dell’Associazione degli scrittori cinesi, filogovernativa, è noto per la sua estrema prudenza politica, molto criticata nel mondo letterario internazionale, e non solo tra i dissidenti cinesi (non se ne discute, invece, la bravura). Che abbia sentito il bisogno di intervenire sull’argomento è un’ulteriore conferma del fatto che le problematiche relative al figlio unico fossero molto sentite in tutta la Cina.
In realtà esistevano già molte deroghe alla legge del figlio unico. Per esempio potevano cercare di avere un secondo figlio i membri delle minoranze etniche, i contadini che avevano avuto come primo figlio una femmina, le coppie in cui ognuno dei due era lui stesso figlio unico. Per non parlare di alcuni ricchi che potevano permettersi di pagare le multe previste, sottraendosi così alla legge: è tornato d’attualità in questi giorni il caso del regista Zhang Yimou che è riuscito ad avere sette figli. In sostanza, le eccezioni riguardavano (riguardano, per ora) il 30% della popolazione, secondo i calcoli di un demografo.
La politica del figlio unico, divenuta legge alla fine degli anni Settanta (quando era al potere Deng Xiaoping), ha contribuito a evitare alla Cina una crescita demografica che ne avrebbe ostacolato lo sviluppo economico, ma è sempre stata vista con grande ostilità dall’opinione pubblica, specialmente nelle campagne. Si ritiene che in trent’anni, fra il 1980 e il 2010, la politica del figlio unico abbia provocato 281 milioni di aborti, soprattutto di bambine. L’aspetto più orrendo di questo fenomeno sta nel fatto che esso ha dato luogo a una diffusa corruzione (un vero e proprio mercato degli aborti). Peggio ancora, ha provocato episodi di incredibile crudeltà, come gli aborti provocati al nono mese, poco prima che la nascita del bambino (o della bambina) trasformasse l’aborto in omicidio e quindi lo rendesse ormai condannabile dalla legge. Alcuni anni fa si discusse, anche in Italia, del caso di una coraggiosa ragazza, Jin Yani, che aveva subito un trattamento simile e ne era uscita comprensibilmente traumatizzata. In seguito, però, con il consenso e l’aiuto del marito, aveva fatto causa alle autorità locali che l’avevano perseguitata e, imprevedibilmente, aveva vinto il processo di primo grado. Non sono riuscito a trovare notizie sulle fasi successive della vicenda. Anche di recente, il popolo dei blog e del twitter cinese, Weibo, e più in generale l’opinione pubblica, avevano discusso molto apertamente di un caso analogo, quello di Feng Jianmei.
Uno dei risultati socialmente più gravi della politica del figlio unico è stato il rarefarsi delle femmine rispetto ai maschi: nel 2010, in Cina, il rapporto era di 122 maschi per 100 femmine. Come conseguenza, si è diffusa la consuetudine di importare giovani donne da sposare da paesi del Sudest asiatico, o di cercare moglie nella Siberia orientale.
Se l’impopolarità della legge sul figlio unico non le ha impedito di resistere tanto tempo, questo è dovuto all’esistenza di una potente burocrazia (i 500 mila addetti della commissione del Planning famigliare) che si nutre delle multe imposte a chi ha dato luogo a nascite irregolari.
Il documento del Plenum preannuncia mutamenti per i prossimi 10 anni,  ma senza un calendario preciso. Sembra tuttavia certo che potranno avere un secondo figlio anche le coppie nelle quali un solo membro è figlio unico.
L’ABOLIZIONE DEL «LAOJIAO»
Anche il laojiao, voluto da Mao nel 1957, era visto con ostilità, quando non con vero e proprio odio, dall’opinione pubblica. Qui, ad ostacolarne l’abolizione era la polizia, che aveva nel laojiao uno strumento facilmente manovrabile e controllabile ad arbitrio. Il laojiao («rieducazione attraverso il lavoro») è distinto dal laogai («riforma attraverso il lavoro», una sorta di lavoro forzato, la versione cinese del gulag sovietico). I laogai sono oggi più di 1400 e in essi vivono alcuni milioni di detenuti (10, secondo alcuni). Ospitano persone condannate in un processo ufficiale a pene di media e lunga durata, dichiarate criminali e private dei diritti civili. Il laogai non si differenzia molto da un carcere, con in più il lavoro forzato.
Il laojiao (che dovrebbe essere presto abolito: ma restano, oltre al laogai, altri luoghi di detenzione e repressione come le prigioni «normali» anche «in nero»-, gli ospedali psichiatrici, ecc.) è solo in apparenza un luogo più lieve, che ospita persone non dichiarate criminali, che conservano i diritti civili e percepiscono anche un modesto salario.
I reati minori di cui sono incolpati permettono che vengano giudicati in maniera semplificata, ma spesso del tutto arbitraria, che passa sopra i loro diritti umani e civili. Spesso vengono internati senza processo.
Nei campi laojiao sono detenuti tossicomani, prostitute, membri della setta Falun Gong e, in gran numero, autori di petizioni. Quest’ultima categoria di persone merita qualche chiarimento. Fin dai tempi più antichi dell’impero esisteva a Pechino un ufficio che riceveva le petizioni all’imperatore: lettere nelle quali si denunciava un’ingiustizia ricevuta, si chiedeva un risarcimento o comunque un intervento del potere sovrano. Questa usanza che noi definiremmo «feudale», tipica del suddito e non del cittadino, si trasmise già negli anni della «Lunga marcia» al Partito comunista cinese.
Anche oggi, in Cina esiste una amministrazione specifica intitolata «Lettere e visite» (con allusione alle proteste e petizioni ricevute per lettera o portate a Pechino di persona). Esiste su questo tema un libro molto interessante di Isabelle Thireau e di Hua Linshan (Les ruses de la démocratie. Protester en Chine, Seuil, 2010). Molti studiosi vedono in questa «astuzia della democrazia» un modo di dare a un popolo che vive in uno Stato autoritario una voce in più da far ascoltare al potere passando in qualche modo sulle teste delle burocrazie locali, spesso ancor più tiranniche, corrotte e arroganti di quelle centrali. Pur senza negare questa funzione positiva, va segnalato che molto spesso gli autori delle petizioni, essendosi resi insopportabili alle autorità contro cui protestano, vengono arrestati, perseguitati in vario modo, inseguiti fino a Pechino (e mandati in un laojiao). (Ma ecco un ultimo paradosso. Tra le molte idee elencate nei 16 «ambiti» del documento del Plenum c’è anche quella di far rivivere una nuova incarnazione di «Lettere e visite»: on line, questa volta).
Nei laojiao troviamo quindi, più che degli oppositori del regime, delle persone «normali» (dei membri della società civile) che chiedono giustizia. I veri e propri dissidenti si trovano piuttosto nei più severi laogai, o nelle prigioni.
È in una prigione, per esempio, il premio Nobel Liu Xiaobo, condannato nel 2010 a 11 anni per incitamento alla sovversione dello Stato, ma che negli anni novanta aveva conosciuto per tre anni anche il laojiao.
1) continua. Domani la seconda parte

Corriere 24.11.13
La Cina sfida il Giappone nei cieli
Allargata la zona di difesa aerea. Tokyo: così cresce la tensione
di Guido Santevecchi


PECHINO — Comunicato del ministero della Difesa di Pechino: «Il governo annuncia l’istituzione della Zona di identificazione difensiva aerea sul Mar cinese orientale». Seguono le coordinate di latitudine e longitudine. E le regole di comportamento: tutti gli aerei che solcano quello spazio debbono trasmettere i piani di volo, la nazionalità e mantenere aperto il contatto radio con i controllori cinesi. Il ministero ha pensato bene di pubblicare una mappa della nuova zona di difesa aerea e l’ha anche lanciata su Twitter: si estende fino alle isole Senkaku/Diaoyu, controllate dal Giappone e rivendicate dalla Cina. Secondo Pechino, qualunque aereo che attraversi la zona dovrà seguire le sue regole o rischiare «misure difensive d’emergenza».
Non si può dar torto al ministero degli Esteri di Tokyo quando avverte che così i cinesi fanno salire la tensione intorno alle Senkaku (come si chiamano in giapponese le isole contese, poco più che un gruppetto di scogli disabitati nel mare tra Okinawa e Taiwan). Sono ormai quindici mesi che le unità aeree e navali delle due potenze si rincorrono intorno alle isole. La Cina le rivendica sotto il nome di Diaoyu, ricordando che le sue dinastie imperiali esercitavano il diritto di vassallaggio su quegli scogli. Negli ultimi quattro mesi Tokyo ha fatto alzare per 100 volte i suoi jet intercettori, all’inseguimento di aerei da ricognizione cinesi. Le navi si sfidano ogni giorno in incontri ravvicinati e in un’occasione un’unità giapponese ha acceso il suo radar, l’azione che precede il fuoco. Ci sono altri segnali inquietanti: giovedì ha volato per la prima volta un drone cinese con tecnologa stealth (capace di sfuggire a molti sistemi radar). La stampa di Pechino lo ha presentato con grande orgoglio: si chiama «Lijian», Spada affilata, e verrà impiegato in operazioni antiterrorismo, ricognizione, combattimento. Un apparecchio senza pilota che potrebbe essere inviato sulle isole Diaoyu/Senkaku. Tokyo mesi fa aveva minacciato di aprire il fuoco in caso di «intrusioni». Pechino aveva risposto affermando che «sarebbe un atto di guerra».
Un satellite occidentale ha scoperto un misterioso supercannone nel deserto della Mongolia interna: canna da 33 metri. E poi, per sconsigliare le unità della Us Navy dall’avvicinarsi troppo, l’Esercito popolare di liberazione si è dotata di un nuovo missile ammazza-portaerei: «Dongfeng», Vento dell’Est, duemila chilometri di gittata. Lo hanno provato nel Deserto del Gobi su un bersaglio disegnato sul terreno che simulava la sagoma di una portaerei americana. Con successo, come provano i grandi fori nella sabbia all’interno della sagoma fotografati da un satellite. Tokyo ha risposto con due settimane di manovre militari che a inizio novembre hanno simulato la riconquista di un’isola occupata da un nemico imprecisato.
Durante la Guerra fredda fu coniato l’acronimo «Mad» (Mutual Assured Destruction): significava che Usa e Urss avevano tante testate nucleari da potersi distruggere a vicenda. Per questo si guardarono bene dal premere il bottone. Ora tra Cina e Giappone si parla di «Map» (Mutual Assured Production), le due potenze hanno bisogno l’una dell’altra per far correre i loro sistemi produttivi. È difficile credere che Cina e Giappone, la seconda e la terza economia del mondo, rischino una crisi devastante per un pugno di scogli nell’oceano (anche se i fondali sembrano ricchi di risorse). Però i risentimenti nazionalisti tra i due Paesi sono forti; gli arsenali ben forniti. Basterebbe l’errore temerario di un pilota di aereo, o di un comandante di nave, per innescare una reazione incontrollabile.

L’accordo raggiunto nella notte
l’Unità 24.11.13
Sul nucleare iraniano un’intesa a tre fasi
di Umberto De Giovannangeli


Si limano le parole. Si tratta ad oltranza. A un passo dall’«accordo del secolo». L’incontro cruciale sul dossier iraniano avviene in serata a porte chiuse a Ginevra, e vede protagonisti il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, il segretario di Stato Usa, John Kerry, e il ministro degli Esteri dell’Ue, Catherine Ashton: a riferirlo è l’agenzia d’informazione ufficiale iraniana Irna. Incontrando in precedenza i giornalisti, Zarif aveva precisato che le parti stanno lavorando ai dettagli di un accordo in tre fasi per risolvere la crisi sul programma nucleare iraniano. Kerry era arrivato di buon mattino a Ginevra da Washington, da dove era partito nella tarda sera di venerdì per partecipare alla fase cruciale dei colloqui in corso da mercoledì sul controverso programma nucleare iraniano tra i rappresentanti di Teheran e il gruppo dei 5+1.
IL NODO ARAK
La scelta di raggiungere la città svizzera era stata fatta da Kerry dopo essersi consultato con lady Catherine Ashton, l’Alta responsabile per la politica estera e di sicurezza comune dell’Unione Europea che, al tavolo negoziale con l’Iran, rappresenta in blocco i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu più la Germania. Poco dopo la vice portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Marie Harf, aveva spiegato che la partenza per la Svizzera era stata decisa «alla luce dei progressi compiuti» e «nella speranza che si giunga a un accordo» finale. Il capo della diplomazia statunitense era stato preceduto a Ginevra dal ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, il primo ad arrivare già l’altro ieri, e dall’omologo francese Laurent Fabius. Nella precedente tornata di trattative ginevrine, dal 7 al 10 novembre scorsi, proprio la Francia aveva puntato i piedi contro il compromesso che si andava profilando. La posizione di Parigi resta quella verosimilmente più intransigente. «Auspico che si arrivi a un accordo, ma a un accordo solido», ha commentato non a caso Fabius non appena sceso dall’aereo. «Siamo in dirittura d’arrivo, ma i negoziati anteriori ci hanno insegnato a essere prudenti», hanno sottolineato a loro volta fonti diplomatiche francesi che hanno chiesto l’anonimato.
Ai tre ministri già giunti a destinazione si uniranno i colleghi britannico, tedesco e cinese, rispettivamente William Hague, Guido Westerwelle e Wang Yi. L’accordo tra il 5+1 e l’Iran è «molto vicino», e i problemi rimasti sul tavolo negoziale a Ginevra «sono pochi», tanto da «poterli contare con le dita di una mano»: lo hanno riferito in via riservata fonti della delegazione russa che partecipa ai colloqui, secondo cui «la questione più importante» è quella che riguarda l’impianto di Arak, nella provincia centro-occidentale di Markazi, costituito da un reattore per la produzione di acqua pesante e da una centrale alimentata dalla stessa, teoricamente in grado di permettere di realizzare una bomba al plutonio.
Le riunioni si susseguono senza soluzione di continuità. È un accordo in tre fasi finalizzato a sostenere obiettivi comuni quello di cui Iran e Paesi del gruppo del 5+1 stanno mettendo a punto i dettagli: a rivelarlo è il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif secondo quanto riporta l’agenzia ufficiale iraniana Irna.
L’intesa, sintetizza l’agenzia riportando fuori di virgolette quanto detto dal ministro a giornalisti, comprende passi primari e obiettivi comuni che portano a un accordo complessivo. Secondo quanto è trapelato negli ultimi giorni, si lavora a un’intesa transitoria
di sei mesi che prevede da parte di Teheran il congelamento della produzione di uranio arricchito al 20 per cento (ma l’Iran osteggiava questo punto), l’impegno a non attivare nuove centrifughe per arricchire l’uranio al 3,5 per cento, e l’accettazione di un più rigido sistema di ispezioni internazionali nei propri siti nucleari. In cambio l’Iran otterrebbe un alleggerimento delle sanzioni che gli garantirebbe introiti supplementari per almeno 20 miliardi di dollari. In particolare, Teheran vedrebbe lo sblocco di alcuni fondi iraniani congelati in banche estere e il nullaosta al commercio di metalli preziosi, prodotti petrolchimici e parti di ricambio per aerei.
Se nella notte si tratta ad oltranza, c’è già chi è sceso sul piede di guerra. L’Arabia Saudita non resterà «pigramente» a guardare se le grandi potenze a Ginevra non riusciranno a fermare il programma nucleare del rivale sciita iraniano. Così il principe Mohammed bin Nawaf bin Abdulaziz, nipote di re Abdullah e ambasciatore di Riad a Londra mette in chiaro in un’intervista al Times, in cui ha spiegato che l’Arabia Saudita culla dell’interpretazione più severa dell’Islam sunnita (il wahabismo) «penserà a come meglio difendere il proprio Paese e la regione». L’ambasciatore ha definito «incomprensibile la fretta» con cui l’amministrazione Obama (gli Usa dal 1945 erano l’alleato di Riad per eccellenza) sta correndo ad abbracciare le offerte di Teheran.

La Stampa 24.11.13
Siria, la contabilità dell’orrore
Uccisi oltre undicimila bambini
Rapporto delle ong locali: 7 su 10 vittime di razzi e bombe. Centinaia di esecuzioni
di Francesca Paci


Quando all’alba della protesta contro Assad i ribelli siriani sognavano piazza Tahrir, ignari della guerra civile dietro l’angolo, i bambini avevano giù cominciato a pagare un prezzo altissimo all’anelito democratico del paese, dove rappresentano il 45% della popolazione. Le prime vittime della rivolta anti governativa sono infatti proprio i 15 ragazzini di Daraa tra i 9 e i 16 anni arrestati e torturati all’inizio di marzo 2011 per aver scritto sui muri della scuola lo slogan della primavera araba «Il popolo vuole la caduta del regime». Un mese dopo fu la volta di Hamza Ali al Khateeb, il 13enne fermato dalla polizia di Damasco durante una manifestazione e riconsegnato alla famiglia senza vita e con il corpo mutilato dalle sevizie. Da allora i morti si sono moltiplicati fino a superare quota 110 mila, combattenti, civili, uomini, donne, bambini.
Il rapporto «Stolen Futures», appena realizzato dalla think tank Oxford Research Group e pubblicato in anteprima italiana da «La Stampa», disegna per la prima volta il cimitero dei più piccoli tra i caduti in Siria in due anni e mezzo di conflitto, 11.420 minori di 17 anni che sono stati inghiottiti dal vortice dell’odio, l’infanzia spezzata, il futuro sepolto nelle trincee avversarie.
I dati, forniti dalle ong siriane Syrian Center for Statistics and Research, Syria Tracker, Syrian Network for Human Rights, Violations Documentation Center (che collaborano anche con le Nazioni Unite) ci dicono innanzitutto come questi bambini e bambine siano morti, dettaglio inutile di fronte alla perdita ma fondamentale per la conservazione della memoria. Sette su 10 sono stati uccisi da esplosivi (mortai, razzi, artiglieria, 2008 solo dai bombardamenti) mentre uno su 4 è stato colpito da proiettili (tra loro, 389 vittime dei cecchini e 764 ammazzati con esecuzioni sommarie, compresi 112 prima torturati). Ci sono poi i 128 soffocati dai gas letali a Ghouta, il 21 agosto 2013, l’attacco che ha risvegliato la coscienza addormentata dell’occidente, impegnato ora nei negoziati per il disarmo chimico di Damasco senza aver interrotto però la conta dei morti.
«Il mio Khaled non vedrà mai il mondo e il mondo non vedrà mai quanto era bello» ripeteva un mese fa Kadija, una mamma di Homs rifugiata nel campo profughi libanese di Baalbek dopo aver perduto il marito e il figlio di 3 anni. Quanti anni avevano? Come si chiamavano? Dove abitavano? Chi erano tutti i Khaled siriani prima che la guerra ne cancellasse le tracce?
Se tra i neonati non c’è differenza, crescendo i bambini muoiono più facilmente delle bambine (4 bambini per ogni bambina tra i 13 e i 17 anni). La maggior parte sono originari del governatorato di Aleppo, dove si contano 2.223 nomi (19,9% del totale), seguono Homs (16,3%), Rif Dimashq, nelle campagne di Damasco (15,9%), Idlib (14,2%).
«Il report conferma che la Siria è diventato uno dei posti più pericolosi al mondo per i bambini» ragiona Valerio Neri, direttore generale di Save the Children Italia. Le guerre uccidono, ma le guerre contemporanee hanno spostato la linea del fronte nelle case, nei quartieri, nelle scuole, come prova lo studio del 2012 della ong britannica Action on Armed Violence, secondo cui il 91% delle vittime siriane appartiene alla popolazione civile bersagliata dai raid aerei, dagli attentati kamikaze, dalle bombe. Poi, insiste Save the Children, c’è la violenza aggiunta, quella che annulla la distanza tra un caccia e la indistinguibile città da colpire: «È ancora più terribile che i bambini siano obbiettivo dei cecchini, oggetto di esecuzioni sommarie o di torture. Il report sottolinea la necessità immediata che tutte le parti in conflitto cessino di colpire i bambini e che consentano a quelli di loro feriti o malati di ricevere assistenza umanitaria dovunque si trovino». La Siria si sta dissanguando giorno dopo giorno, ma senza i bambini nessuna trasfusione potrà mai riportarla in vita.
Raid ad Aleppo: 40 morti

Il libro di Michele Serra
Corriere 24.11.13
Padri e figli, ultima fermata dopo il ‘68
di Paolo Di Stefano


Senza troppe premesse, va detto subito che Gli sdraiati (Feltrinelli) è un libro bellissimo. Michele Serra ha saputo fare molto più di quel che fa abitualmente come giornalista: ha scritto un romanzo che è e non è un romanzo. Viene in mente Kurt Vonnegut, e non solo perché lo scrittore americano è un suo modello più o meno esplicito, ma perché c’è l’immediatezza, la brutalità quasi, un’inventiva sfrenata, l’umorismo e la moralità, la narrazione che si mescola con la critica aspra del mondo contemporaneo. Un’elaborazione lunghissima, sei anni, per un libro esile (un centinaio di pagine). Nel caffè del cortile di Palazzo Reale, a Milano, si può parlare in santa pace anche alle dieci del mattino, bevendo un caffè (oggi tutti lo potranno sentire alle 16 al Portico dell’Elefante al Castello Sforzesco). «Mi paralizzava l’argomento, per anni ho raccolto materiali, frammenti, frantumi sparsi sul tema dei padri e dei figli, ma non riuscivo a trovare il bandolo della matassa: c’erano il titolo, un inizio e la frase finale». La frase finale è questa: «Finalmente potevo diventare vecchio», ma per coglierne il senso bisogna attraversare tutta la dolce-amarezza del libro, perché quella frase arriva dopo un crescendo che si impenna nell’ultimo capitolo. C’è un padre, l’io narrante, e c’è un Tu senza nome, che è il figlio, uno degli «sdraiati» del titolo. Sdraiati in senso letterale: perennemente distesi su un divano con le cuffiette sugli orecchi o su un letto nel sonno comatoso, mentre il resto del mondo è in piedi a darsi da fare.
Il bandolo della matassa, nella lunga elaborazione del romanzo, è arrivato inatteso quasi in extremis: è un filo rosso esilissimo, il tormentone del padre che a distanza di pagine implora il figlio di accompagnarlo sul fantomatico Colle della Nasca in un climax di comicità a tratti patetica: «ti farebbe molto bene... mi devi credere», «Te lo chiedo per piacere. Non farlo per me. Fallo per te», «Se vieni con me sul Colle della Nasca, ti pago», «Se non vieni con me sento che potrei morire di crepacuore», «Se non vieni con me al Colle della Nasca, ti rompo la schiena a bastonate». Il Colle della Nasca è il tentativo di appigliarsi a qualcosa pur di condividere con il figlio un brivido di fronte allo spettacolo del mondo. Il piacere della bellezza naturale, assoluta. Perché Gli sdraiati è il resoconto della difficoltà di trasmette un desiderio, anche minimale. «Il rovello che spinge il padre a raccontare è una domanda: che cosa lascio a mio figlio?». Il piacere della bellezza che si nasconde in un tramonto o in una pianta. «Naturalmente con il carico di fragilità egoistica che questo comporta, perché tuo figlio ha tutto il diritto di dire: ma chi se ne frega di una portulaca!».
Ci sono pagine esilaranti sulla fenomenologia dello «sdraiato», c’è l’invettiva, la rabbia esplosiva del padre spaesato di fronte a quel «groviglio interconnesso» che è il figlio. E non manca l’autocritica: «Man mano che si procede nel racconto — dice Serra — si infittiscono le domande e la satira del padre su se stesso, anche perché non sa esattamente chi è suo figlio, in definitiva non lo conosce»; domande sulla mancata autorità e sulla propria confusione, su quella stramba e inedita «evoluzione della specie» di cui il figlio è autorevole e simbolico rappresentante, sull’incapacità di creare un contatto basico tra generazioni proprio nell’epoca del contatto diffuso. «In termini tecnici, sono un relativista etico», dice il padre, «il tutore ondivago di un ordine empirico, composto e poi scompaginato giorno per giorno (...). Ma lo avrei cercato volentieri insieme a te, quell’ordine, nelle pieghe faticose della convivenza, raccogliendo i calzini fetidi che segnano il tuo indugiare in un’infanzia decrepita, offensiva per entrambi, lavando i piatti sporchi che lasci ammuffire nel lavello». Eccolo lì il «dopopadre» debole di Massimo Recalcati, ma senza socio-psicologismi: «La lettura di Recalcati è stata il mio alibi: inutile, mi dicevo, sperare che torni il padre di una volta. E poi devo ammettere che l’odio per il padre-patriarca di una volta mi emoziona ancora, come il riverbero migliore del mio antico sessantottismo. Nella rivolta libertaria, caotica e per lo più fallimentare, trovo ancora quel nucleo meraviglioso secondo cui le cose non devono nascere per forza dall’imposizione, dall’autoritarismo e dall’obbligo». Una consapevolezza che riduce al minimo le richieste dei padri, cosa di cui i giovani dovrebbero pur apprezzare i vantaggi. Il minimo richiesto è il decoro domestico (il cesso pulito, l’accortezza di spegnere ogni tanto qualche lampada, lo sputo di dentifricio non lasciato impresso a futura memoria nel lavandino...), ma anche qualcosa che ha a che fare con l’etica: «cercare un equilibrio decente tra la propria porca presenza al mondo e la porca presenza degli altri». La domanda inevitabile è: autobiografia? «Il figlio del libro è la somma di tanti ragazzi, figli miei e non miei con cui convivo, ma anche figli di amici e conoscenti. Devo dire che i miei figli hanno letto e apprezzato il libro, ma il tappeto all’ingresso dopo il loro passaggio è sempre una cordigliera delle Ande... Mi aspettavo qualche piccolo cambiamento». Ci ride su, Michele, ovvio: «Però dico sempre che quando ho saputo che mia figlia aveva la passione irresistibile della barca a vela, beh, per me è stato un sollievo gigantesco. Mi sono detto: oh cavolo, esiste una relazione forte tra lei e la bellezza del mondo!».
Si diceva di Vonnegut. Nel libro di Serra c’è anche il suo versante fantascientifico. Pura futurologia apocalittica proiettata nel 2054, anno di una Grande Guerra Finale tra l’esercito incarognito e potente dei Vecchi e l’armata brancaleone dei Giovani, in mezzo a vibrazioni telluriche, campi di battaglia desertificati, bagliori metallici, sopravvissuti arrancanti. Apocalisse solo apparente in realtà, perché, come diceva De Andrè, spesso «dal letame nascono i fior». E dai frammenti sgorga la narrazione: è come se dai frantumi iniziali del racconto, perfettamente simmetrici al rapporto sbriciolato tra padre e figlio, si riuscisse finalmente a comporre una trama compatta e coerente. «Intendiamoci, il padre del libro sarà pure nevrastenico, umorale, imbecille, mollaccione, ma è un padre tifoso, che non conosce indifferenza. Il pericolo di un racconto dalla parte dei padri è la generalizzazione sociologica. Ci sono lettori che mi chiedono le royalties dicendomi: “come fa a conoscere così bene mio figlio Ugo?”. È ovvio che il successo del libro aumenta questo pericolo». Già, primo in classifica, mica uno scherzo. Il sorpasso su Fabio Volo è avvenuto nei giorni scorsi.

Corriere La Lettura 24.11.13
Berlinguer non ti voglio bene
Il libro di Francesco Piccolo esalta la Buona Causa
Ma ricordo che dalla parte «giusta» stava Craxi, non il Pci
di Pierluigi Battista


Ognuno di noi conserva il ricordo della partita del cuore, la partita della svolta in cui la passione sportiva si è mescolata e fusa con quella esistenziale della politica. La mia è stata la sfida di hockey sul ghiaccio tra Unione Sovietica e Cecoslovacchia del 21 marzo 1969. Il giovane Jan Palach si era appena bruciato nella Praga occupata dai carri armati del Patto di Varsavia, e sentire dagli spalti del pubblico di Stoccolma il grido rabbioso e commovente «Dubcek Dubcek» straziò il cuore del giovane e sconsiderato estremista che ero. E lo rese per sempre anticomunista. La svolta politica di Francesco Piccolo invece, lo racconta nel suo bellissimo Il desiderio di essere come tutti (Einaudi), coincide con il settantottesimo minuto della partita di calcio Germania Ovest contro Germania Est nei Mondiali del ‘74, quando il piccolo Piccolo, accanto e contro il padre di destra che tifava per i tedeschi occidentali, esultò quando Jürgen Sparwasser della Ddr segnò il gol che riscattava i poveri ragazzi infagottati nelle modeste «maglie azzurre con lo scollo a V bianco». Avevano vinto i deboli, erano stati sconfitti i forti e ricchi prepotenti dell’Ovest.
Fu allora che Francesco Piccolo consumò il suo parricidio simbolico. Fu allora che Francesco Piccolo diventò «davvero comunista». Esattamente l’opposto di quanto era accaduto a me. Per me la Ddr incarnava un regime mostruoso, una caserma oppressiva che aveva spinto fino alla perfezione la sua vocazione poliziesca, il cui simbolo erano i VoPos che dall’alto delle torrette sparavano senza pietà a chi scappava nei modi più avventurosi da quello Stato-prigione, come è ancora documentato nel museo situato a Berlino a pochi passi dal Checkpoint Charlie. Per questo mi commossero di più tutti quei giovani entusiasti e ancora increduli che un po’ di anni dopo avrebbero buttato giù a picconate il Muro, mentre Mstislav Rostropovic celebrava con il suo sublime violoncello la fine dell’arroganza totalitaria che lo aveva tirato su.
Questo per dire a Piccolo che i ricordi che formano il tessuto di un’esperienza umana ed emotiva destinata a intrecciarsi con le vicende della politica sono vari e spesso contrastanti tra loro, e non solo nel senso più banalmente anagrafico-generazionale (tra me e lui corrono nove anni di differenza, a mio sfavore). Il suo libro racconta meravigliosamente l’andirivieni contraddittorio di emozioni e sentimenti tra la storia molto personale di un ragazzo borghese nato a Caserta nel ’64 e la storia «grande e terribile», per dirla con Kipling, che lo scaraventa fuori del cortile di casa, e gli fa sentire la morsa di un destino comune condiviso con il resto dell’umanità.
Con Il desiderio di essere come tutti Piccolo si conferma lo strepitoso scrittore che conoscevamo. Basterebbero le pagine sul colera e sul terremoto per dimostrarlo, o quelle sul primo amore che muore nel giorno di San Valentino, per colpa del militantismo ideologico e di un orribile pacchetto in rosa che una commessa sdolcinata aveva confezionato per il regalo d’amore (rifiutato). Però nel libro si parla di Berlinguer, di Craxi, di Moro, del compromesso storico, del berlusconismo, dell’antiberlusconismo come altrettanti momenti della maturazione politica di uno scrittore che sa guardarsi dentro con il dono raro dell’ironia.
E dunque non è infondato rileggere questo romanzo anche dal punto di vista politico. È vero: Piccolo sostiene una posizione molto coraggiosamente minoritaria. Berlingueriano per scelta, non ignora la debolezza di una sinistra in cui «ogni sconfitta politica», dalla Prima alla Seconda Repubblica, «diventa un rafforzativo delle proprie idee. Una conferma che il mondo è corrotto e che il progresso è malato. Una conferma che le persone giuste e i pensieri giusti sono minoranza, fanno parte di un mondo altro, che non comunica più con il Paese, perché il resto del Paese, impuro e corrotto, si è perduto». È vero, Piccolo addirittura accosta, parlando della sinistra, due aggettivi che, affiancati, suonano come una bestemmia per i sacerdoti della superiorità antropologica della sinistra: «puri e reazionari». È vero, le corrucciate e arcigne vestali dei «pensieri giusti» hanno già provveduto a bacchettare il reprobo Piccolo, come è accaduto sulle colonne del «Fatto Quotidiano».
Però, forse è proprio sbagliato dare per scontato che la parte «giusta» sia stata quella cantata e sferzata al contempo da Piccolo. Piccolo più volte dice di sentirsi affine al Robert Redford che in Come eravamo , incontrando Barbra Streisand ancora impegnata dopo tanti anni a testimoniare qualche Buona Causa, le dice con ammirazione affettuosa: «Tu non molli mai, eh». La citazione significa due cose. Che Piccolo-Redford si sente un po’ in colpa. E che la militante Streisand, pur prigioniera di una purezza politicamente inconcludente, è migliore di chi si rassegna, di chi «molla», di chi non è all’altezza della sua integrità: «Tu non molli mai». Ecco, forse questo implicito presupposto di Piccolo che innerva tutte le pagine del romanzo, non è poi così scontato. Scrive che nei funerali di Berlinguer si riconobbero «tutti». Non è vero: i comunisti erano un terzo degli italiani, gli altri due terzi si commossero per la morte di Berlinguer, ma non per questo sentivano di ammettere la «superiorità» etica del partito di Berlinguer.
Dalla parte «giusta» sulla scala mobile, poi, era Craxi, non Berlinguer. Dalla parte «giusta» sulla trattativa per salvare la vita di Moro c’era Craxi, non Berlinguer. Dalla parte «giusta» del riformismo moderno era Craxi, non il partito berlingueriano in cui «riformista» e «socialdemocratico» erano parolacce e al massimo, pudicamente e ipocritamente, si poteva dire «riformatore». Sulle riforme istituzionali dalla parte «giusta» era Craxi, con un po’ di anticipo, e non chi gridava al golpe anticostituzionale. E sul finanziamento illecito non c’erano partiti puri e partiti impuri, malgrado le unilateralità e gli strabismi delle «narrazioni» successive. O almeno, così ricordo, anche se alla memoria, come al cuore, non si comanda. Al massimo la si può restituire nei suoi aspetti più vividi, compito nel quale Il desiderio di essere come tutti di Piccolo riesce magnificamente.

Corriere La Lettura 24.11.13
Le due specie di dogmatici


Cresciuto in una famiglia cattolica olandese, il primatologo Frans de Waal ha abbandonato ogni credenza religiosa da ragazzo.
E nel libro Il bonobo e l’ateo (Raffaello Cortina, pp. 322,  € 28) esprime una visione naturalistica. Lo studio delle scimmie lo ha convinto che la morale va «dal basso all’alto»: non ha un’origine trascendente, ma è frutto di una sensibilità innata, tipica di tutti i mammiferi. Nel contempo però de Waal rifiuta l’idea che la biologia possa «spiegarci il significato della vita» e critica chi pretende che ogni comportamento umano abbia base genetica. Per lui la fede non è una piaga da sradicare e neppure un errore da correggere, ma «una parte della nostra natura», il cui ruolo «è stato vitale in passato e potrebbe restarlo nel prossimo futuro». Certi campioni dell’ateismo, tipo Richard Dawkins e Sam Harris, lo infastidiscono quanto i credenti bigotti: «I dogmatici battono con tanta forza i loro tamburi — scrive — che non riescono a sentirsi l’un l’altro». De Waal probabilmente non conosce certi cattolici integralisti italiani, né polemisti atei come Piergiorgio Odifreddi e Paolo Flores d’Arcais. Ma sembra proprio che parli di loro.

Corriere La Lettura 24.11.13
Gesti Artisti e pubblicitari hanno messo a frutto l’ambiguità dell’azione più intima che si possa fare e fotografare in pubblico
Il bacio ,arma di confusione di massa
Da Giuda a Giulio Andreotti, dalla Russia alla Val di Susa
Storie di atti fraintesi o inventati: con fini mediatici e politici
di Guido Vitiello


Peccato che le citazioni false siano false, perché spesso offrono imbeccate a cui è doloroso rinunciare. Come questa, attribuita a Henri Cartier-Bresson: «Una fotografia è un bacio oppure uno sparo». La frase originale è ben diversa (il fotografo disse che la sua Leica era «come un caldo bacio, come un colpo di pistola e come il lettino dello psicoanalista»), ma teniamoci stretta la versione apocrifa: è la didascalia ideale per la foto della manifestante No Tav immortalata mentre bacia sulla visiera un poliziotto in tenuta anti-sommossa, lo scorso 16 novembre in Val di Susa, salvo rivelare di lì a poco che si trattava di un gesto di disprezzo, di una provocazione. La ragazza, una ventenne di nome Nina De Chiffre, ha dissipato l’equivoco in meno di quarantott’ore, a differenza di Caroline de Bendern — la Marianna del maggio parigino fotografata mentre svettava sulla folla sventolando una bandiera vietnamita — che aspettò la bellezza di trent’anni prima di confessare che: primo, era salita sulle spalle di un amico perché non ne poteva più di camminare (ma in cambio le avevano appioppato la bandiera); secondo, aveva messo su quella faccia ispirata e solenne perché, da mannequin qual era, si era accorta di stare sotto l’occhio dei fotografi.
Lunga è la storia del bacio politico — dal bacio-manifesto al bacio-sparo, passando per il bacio che suggella un’alleanza — lunga almeno quanto la storia dei fraintendimenti a cui si è prestato, dei generosi abbagli che ha suscitato. Cosa di più romantico, per esempio, del marinaio americano che bacia l’infermiera in mezzo a Times Square pochi minuti dopo l’annuncio della resa del Giappone, nell’agosto del 1945? Eppure, a quanto racconta il fotografo Alfred Eisenstaedt, autore del leggendario scatto pubblicato su «Life», quel marinaretto correva per le strade come un satiro impazzito, agguantando qualunque donna capitasse a tiro, «che fosse una nonnetta, tarchiata, magra, vecchia, non faceva differenza». Purché porti la gonnella, voi sapete quel che fa. Si deve ipotizzare che, più che un languido abbandono, quello dell’infermiera fosse un indietreggiamento tattico o una resa all’invasore (in un modo o nell’altro, sempre di guerra si tratta).
Ma è solo una delle tante versioni: decine di marinai e di infermiere si sono fatti avanti, nel corso dei decenni, per sostenere che erano proprio loro quelli della foto, un guazzabuglio di teorie contraddittorie in cui hanno cercato di mettere ordine Lawrence Verria e George Galdorisi in un libro dal titolo The Kissing Sailor .
E che dire della foto del bacio di Vancouver, scattata nel 2011 da Richard Lam in mezzo alla rivolta dei tifosi dopo una partita di hockey? Due ragazzi distesi sull’asfalto, divinamente noncuranti dell’inferno di fumogeni intorno, dietro la sagoma scura di un agente con il manganello. Che magnifica allegoria vivente! Peccato che prima un video su YouTube, poi la stessa giovane coppia, abbiano rimesso tutto in prosa: lei era finita a terra in una carica della polizia e se ne stava lì in preda allo shock, lui era andato a cercare di calmarla. Cosa sempre romantica, beninteso, ma meno Paolo e Francesca di quanto si fosse immaginato.
Spesso a generare equivoci è l’ambiguità dei codici culturali, che fanno incorrere in errori di traduzione. Leonid Brežnev ed Erich Honecker avvinti nel «bacio alla sovietica» della celebre foto del 1979 sembrano oggi un manifesto dell’orgoglio gay, ed erano promiscui quanto basta — fisicamente e politicamente — da consentire all’artista russo Dmitri Vrubel, che nel 1990 ne fece un murales sul muro di Berlino, di aggiungere la didascalia: «Dio mio, aiutami a sopravvivere a questo amore mortale»; ma quando, in una foto di dieci anni dopo, toccò a Gorbaciov baciare il leader della Ddr, a più di un osservatore venne in mente Giuda.
Il malinteso russo si è ripresentato l’estate scorsa quando le staffettiste Tatyana Firova e Kseniya Ryzhova hanno festeggiato con un bel bacio in bocca la medaglia d’oro vinta ai Mondiali di atletica di Mosca: il gesto di esultanza, che fece scalpore ovunque fuorché in Russia, venne scambiato per una sfida alle leggi omofobe di Putin.
Altre volte ancora l’ambiguità è attizzata ad arte, come nella campagna «Unhate» di Benetton del 2011, che invitava a dis-odiare tramite fotomontaggi che rimettevano in scena il bacio Brežnev-Honecker con protagonisti aggiornati: la Merkel baciava Sarkozy, Obama l’allora presidente cinese Hu Jintao, e soprattutto c’era Ratzinger bocca a bocca con l’imam del Cairo (nessuno dei due gradì la tresca).
Ma tra tutti i baci travisati, simulati ed enigmatici del mondo, il più bello, si può dire, è cosa nostra: il fantomatico bacio tra Andreotti e Riina, un bacio-trattativa nato dall’estro letterario del pentito Balduccio Di Maggio (si può essere gangster e bravi drammaturghi, ci ha insegnato il Woody Allen di Pallottole su Broadway ). La scena, già così potente, ha oltretutto un magnifico sequel: «Giulio, non ti bacio solo perché so che non ti piace», disse Nicola Mancino il giorno dell’ottantesimo compleanno del senatore. Questo è teatro!
Resta da capire il perché di questo continuo cortocircuito erotico-politico, e il racconto della militante in Val di Susa alle prese con l’agente offre un buon punto di partenza: «Avevo una scelta: sputargli o baciarlo». Possibile che le due cose, a qualche livello, siano intercambiabili?
Certo è che l’amore e la guerra parlano due dialetti di una lingua comune, come insegna il Medioevo cavalleresco; anzi, è vero fin dalla preistoria, se non altro la preistoria da fumetto. In una striscia di B.C. di Johnny Hart che apparve nel 1969, tra liberazione sessuale e contestazione della guerra in Vietnam, due cavernicoli si azzuffano sotto gli occhi di una donna primitiva bella e civettuola. Arriva un terzo a dividerli: «Piantatela! Fate l’amore, non la guerra!». E quelli: «E per cosa credi che ci stiamo pestando, stupido?».

Corriere La Lettura 24.11.13
Tradire conviene al traditore ma collaborare conviene a tutti
Il dilemma del prigioniero fa elaborare la scelta più razionale
tra l’essere fedeli al gruppo o pensare soltanto a sé stessi
di Anna Meldolesi


Due traghetti stanno evacuando Gotham City. Il primo trasporta detenuti, il secondo comuni cittadini. Ogni equipaggio scopre di avere un detonatore per far esplodere l’altra barca. Il perfido Joker detta le regole. Numero uno: i passeggeri dell’imbarcazione che per prima deciderà di premere il pulsante condanneranno gli altri alla morte, ma avranno salva la vita. Numero due: se entro mezzanotte nessuno si sarà deciso, salteranno tutti in aria. Le cose sono complicate dal fatto che tra i civili c’è chi non ha scrupoli, mentre tra i galeotti (e sulla imbarcazione ci sono anche secondini e poliziotti) c’è chi ha dubbi sul da farsi.
La scena è tratta da Il cavaliere oscuro , penultimo episodio della saga di Batman. I cinefili ricordano questo film soprattutto per la tragica morte dell’attore che interpretava Joker. I nerd per la trasposizione cinematografica di un grande classico della teoria dei giochi: il dilemma del prigioniero. Nella versione di base ogni giocatore è costretto a compiere una difficile scelta, senza sapere cosa farà l’altro. Nel migliore dei mondi possibili i due si fidano abbastanza per collaborare (nel film questo equivale a non premere il pulsante, sperando nell’arrivo di Batman). Ma la voglia di cooperare deve fare i conti con la paura di essere traditi: la barca con i passeggeri buoni potrebbe essere distrutta da quella dei passeggeri egoisti. Se l’egoismo prevale, ci perdono tutti. Se prevale l’altruismo, ci guadagnano tutti (non nei piani di Joker...).
Il fascino della teoria dei giochi è che cerca di spiegare come dovrebbero comportarsi dei soggetti razionali per fare il proprio interesse nella variegata casistica delle interazioni umane, dalle simulazioni di guerra alle trattative commerciali. Per questo la branca di studi fondata da John von Neumann e sviluppata da John Nash appassiona psicologi, economisti e studiosi di scienze politiche oltre ai matematici. Il dilemma del prigioniero, in particolare, ha sessant’anni di vita, ma continua a occupare le pagine delle riviste scientifiche. Può sembrare assurdo, ma solo recentemente qualcuno ha pensato di studiare le strategie di gioco dei carcerati (i veri prigionieri). Ecco le regole usate: scegliendo entrambi di collaborare i giocatori ottengono 7 punti ciascuno, chi tradisce un avversario collaborativo prende 9 punti, chi collabora mentre l’altro tradisce si ferma a 1, se entrambi tradiscono hanno 3 punti a testa. La logica suggerisce il ragionamento seguente: «Se il mio avversario sceglie di collaborare mi conviene tradirlo. Se mi tradisce, mi conviene tradirlo lo stesso». Le detenute arruolate per lo studio pubblicato sul «Journal of Economic Behavior & Organization» in agosto, però, hanno sorpreso tutti scegliendo di collaborare nella maggioranza dei casi e più spesso delle studentesse che sono servite da paragone. L’esiguità del campione non consente facili generalizzazioni, ma la tentazione c’è. Forse in carcere i tradimenti vengono puniti più duramente che in un campus universitario.
Lo schema ricalca quello degli interrogatori. Due sospettati vengono portati in stanze separate e il poliziotto li incalza: «Se parli per primo avrai uno sconto di pena. Il tuo complice sta già crollando». Che fare? Soluzione: se uno dei due confessa evita il peggio e mette nei guai l’altro. Se tutti e due confessano finiscono in carcere entrambi. Se nessuno dei due confessa, possono sperare di farla franca.
Quando nel 1950 Merril Flood e Melvin Dresher della Rand Corporation hanno inventato il gioco, osservando molti match in rapida successione, c’è stata mutua cooperazione sessanta volte su cento. Negli anni Ottanta Robert Axelrod, dell’università del Michigan, ha sostituito le persone con dei programmi per computer, svelando l’efficacia della strategia del colpo su colpo.
Consiste nel cooperare alla prima mano e poi proseguire copiando sempre l’ultima mossa dell’avversario. Se lui collabora, troverà collaborazione. Se tradisce sarà ripagato con la stessa moneta. La morale è: mai tradire per primi, vendicarsi sempre, non prolungare la rappresaglia oltre il dovuto. Non sembra la strategia ottimale ma funziona bene: è «matemagica».
Un’altra sorpresa è arrivata da William Press, dell’Università del Texas, che stava macinando il dilemma del prigioniero al computer quando ha iniziato ad andare in crash. Ha scoperto così che una delle premesse generalmente accettate era sbagliata e, con l’aiuto del poliedrico Freeman Dyson, nel 2012 ha pubblicato su «Pnas» le equazioni per una nuova classe di strategie.
Con la strategia del ricattatore la simmetria di gioco si rompe e il dilemma si trasforma in un ultimatum. In sostanza il ricattato deve accontentarsi di poco o perdere tutto pur di punire il prepotente avversario. Se l’emozione non prende il sopravvento sulla razionalità, «l’intelligenza e l’ingiustizia trionfano» ha commentato William Poundstone, autore del libro Prisoner’s Dilemma . Il messaggio consegnato da Press è meno nero: «Fidati, ma verifica sempre». Ovvero, se ti accorgi che il tuo avversario gioca pesante fallo anche tu. Se entrambi i soggetti usano una strategia estorsiva, possono arrivare a un compromesso in cui ciascuno assesta il punteggio finale dell’altro su una quota cooperativa. La diplomazia può vincere sul conflitto. Vi ricordate la guerra fredda?
Se il gioco si sposta nel campo della biologia evoluzionistica, infine, i prepotenti possono diventare vittime del loro successo. La vittoria infatti consiste nel vedere le proprie caratteristiche diffondersi nella popolazione, con il risultato che i ricattatori si troveranno a competere con altri ricattatori. Paradossalmente può affermarsi anche una strategia generosa, che consiste nell’accettare meno di quel che ci spetta. Commentando la variante darwiniana del dilemma sul numero di «American Scientist» di novembre, Brian Hayes ricava l’ultimo insegnamento: «La misericordia è più grande della giustizia». Le persone però non sono algoritmi, forse è meglio non farsi illusioni.
Prendiamo il caso esaminato sull’«International Journal of Astrobiology». Il dilemma del prigioniero viene usato per stabilire se a noi terrestri convenga cercare attivamente gli alieni, correndo il rischio che si rivelino ostili, oppure aspettare che siano loro a trovarci. Voi che fareste? 

Repubblica 24.11.13
Keith Jarrett “La mia musica sorprende anche me”
di Giuseppe Videtti


È straordinario sentirlo ridere. Non la smorfia a denti stretti che indirizza al pubblico alla fine dei più felici concerti in trio, ma scoppi allegri, fragorosi, irrefrenabili. Ricordare, l’esercizio che l’ha sempre indispettito, ora lo diverte. Quando parla di Miles Davis ne imita perfettamente la voce, quando racconta dei suoi anni Sessanta è sereno e divertito. Keith Jarrett, sessantotto anni, pianista sublime il cui genio e tormento non hanno uguali se non in Glenn Gould nella storia musicale del Novecento, ha ritrovato il buonumore riascoltando una serie di registrazioni che aveva seppellito nello studio di Warren County, nel New Jersey. Un raptus che lo colse nel cuore degli anni Ottanta: abbandonato in un angolo il pianoforte, prese a sovrincidere basi di chitarra elettrica, basso, percussioni e voce — quelle tipiche intrusioni vocali sempre più udibili nei suoi concerti. Il risultato esce soltanto adesso e sta in un doppio cd,No End(pubblicato contemporaneamente al triplo per piano solo Concerts: Bregenz/ Münchene alleSonate per violino e tastiera di Bach eseguite con Michelle Makarski). Sono venti movimenti musicali senza titolo, diario sonoro di uno stato di grazia e di una leggerezza di cui non lo credevamo capace; un’esperienza sorprendente nella sua vasta discografia di quasi cento album, tra incisioni per pianoforte (The Köln Concert, del 1975, è il disco più venduto della storia del jazz con quasi quattro milioni di copie), in trio e incursioni nella musica classica e contemporanea (Bach, Händel, Mozart, Shostakovich e Arvo Pärt). Qui non c’è ombra del Jarrett ombroso, scontroso, egotista, schizoide, lacerato da un fervore creativo che sfida l’impossibile. No end è piuttosto una serie di mantra antistress, suoni per un moderno Zabriskie Point. «Danze tribali di mia invenzione», le chiama Jarrett entusiasta. «I miei amici, anche musicisti, che l’hanno ascoltato mi hanno guardato stupefatti. “Che roba è?”. Poi, alla fine: “Una cosa è certa, seitu!”», aggiunge soddisfatto.
Sembra ancora più sorpreso di noi quando parla di No End.
«Lo sono. È musica diversa, ricca, ritmica, contagiosa».
Cosa ricorda di quei giorni trascorsi in solitudine nel suo studio?
«Sono passati ventisette anni, non eravamo ostaggi del terrorismo, sedotti dalla Apple, indottrinati da subdoli messaggi politici. La felicità era ancora a portata di mano, la libertà era un diritto acquisito. Suonare era gioia allo stato puro. Il resto è nebuloso; feci tutto da solo, mi ero preso terribilmente sul serio anche come ingegnere del suono. C’erano momenti in cui mi lasciavo andare, uscivo da me; come se stessi ascoltando la performance di un altro musicista. La medesima euforiache ho provato quando ho cominciato a riascoltare le vecchie cassette e lavorare alla postproduzione del cd. Ho impiegato almeno settanta ore per ottenere un risultato sonoro accettabile. E non mi sono mai annoiato».
Furono musiche registrate in ordine sparso o lo stream of consciousness di un artista?
«Ero in preda a una sorta di smania creativa, andavo in studio ogni giorno senza nessuna idea melodica o ritmica in mente, improvvisavo dall’alba al tramonto. Ricordo solo il feeling, lo stato di grazia in cui mi sentivo, ispirato, in estasi, rapito in una dimensione parallela che stento a decifrare. Ogni volta che imbracciavo uno strumento era come se mi preparassi a suonare nel gruppo di qualcun altro».
Qual era lo strumento guida?
«Di solito era la batteria a entrare per prima, un drumming primitivo che accompagna vibrazioni decisamente rock, il rock come l’intendo io, non come i batteristi tradizionali che ripetono lo stesso ritmo fino alla noia. Alteravo i volumi a seconda di com’era l’ascolto in cuffia. Oggi ottenere lo stesso risultato sarebbe più difficile che fare rafting alle sorgenti del Nilo. È un esperimento unico e irripetibile; in quel momento avevo l’energia di sei musicisti, e questo è uno dei motivi per cui oggi non sarei in grado di rifarlo. Le sembrerà ridicolo, patetico, ma mentre ero intento alla preparazione del disco immaginavo le conversazioni di studio tra vari musicisti — e lo facevo ad alta voce. Ci sono almeno sei diversi KeithJarrett in questo progetto».
Musica per risollevare lo spirito: ci riporta a Ravi Shankar, ai viaggi intergalattici di John Coltrane e alla musica totale che lei sperimentò col gruppo di Miles Davis nei primi anni Settanta.
«Infatti oggi ripenso a quella come a un’esperienza mistica. I miei figli erano giovanissimi all’epoca — uno era in pieno trip punk con il taglio da moicano e tutto il resto, l’altro invaghito di Michael Jackson. Entrai in studio e presi in mano la chitarra pensando: riuscirò mai a suonare qualcosa che li interessa? Ma siccome credo fermamente che qualsiasi musicista di un certo livello non sia capace di suonare per altri che per se stesso, una volta che quest’avventura prese piede dimenticai i miei figli, era una cosa mia e solo mia. Noah, il più grande, che ora ha più di trent’anni e non aveva mai ascoltato queste musiche, è venuto a trovarmi qualche giorno fa e le ha trovate geniali; sua figlia, la mia nipotina di cinque anni, si è messa immediatamente a ballare. Noah ha esclamato: “Papà, hai allargato la tua platea al pubblico dell’asilo”. In effetti fu un approccio innocente. Non ricordo esattamente perché lo feci. Fu un’esigenza liberatoria? Stavo preparandomi a uno di quegli estenuanti tour per piano solo? Era musica terapeutica, nel senso più primitivo del termine, e ancoralo è».
Lasciare in un angolo il piano, cui concede solo un cameo, e suonare altri strumenti le servì ad allentare la tensione?
«Non direi. Il punto è un altro: riesco a stabilire un rapporto di maggiore intimità con gli strumenti che posso imbracciare. Il pianoforte è uno strumento molto complicato, tra lui e me c’è un costante scontro di personalità, non sono mai me stesso come con una chitarra, un basso o un sassofono che stringo in mano. Ricordo un concerto che tenni a New York molti anni fa, alla fine degli anni Sessanta (con Charlie Haden e Paul Motian), in cui cercavo di far suonare il pianoforte come una chitarra. Miles Davis, che era venuto ad ascoltarci, mi disse: “Tu suoni lo strumento sbagliato”. Sapevo esattamente quel che intendeva. In quegli anni nella mia testa ronzavano altri suoni, voci e chitarre soprattutto».
Era il 1986, sembra un secolo fa. InNo End si lasciò andare a una musica che sembra l’appendice del sogno hippie. Evidentemente lo spirito degli anni Sessanta era ancora benvivo.
«Mi trasferii a San Francisco nel periodo di massima fioritura del movimento, quando sembrava che nessuno capisse quei messaggi di pace e amore così semplici ed efficaci se non coloro che ruotavano nell’area di Haight- Ashbury. Abitavo in un seminterrato proprio nel quartiere dei figli dei fiori. Una mattina chiesi al mio vicino di casa — ora non ricordo il suo nome — se avesse voglia di venire a suonare qualcosa con me. “Se ne incontriamo altri lungo la strada potremmo formare una band”, gli dissi. Rimasi a suonare il sassofono sotto un albero del Golden Gate Park fino al tramonto. La musica è qualcosa che viene da dentro, qualsiasi circostanza esterna, qualsiasi forzatura uccide la spontaneità; la musica affoga quando è costretta a nuotare in acque limacciose».
Che ragazzo era all’epoca, di quali sogni si nutriva come artista?
«Non ho mai preso droghe di nessuntipo sebbene come gli altri hippie fossi alla ricerca di una verità fuori del dogma. Avevo appena lasciato il gruppo di Charles Lloyd, ero disoccupato. Nella West Coast c’era una scena musicale molto effervescente e un locale, il Fillmore West, che era il sogno di tutti i musicisti. Ero un figlio dei fiori a tutti gli effetti, presi anche a frequentare corsi in cui si parlava di spiritualità e del ruolo dell’uomo nell’universo».
Nel 1968 incise Restoration Ruin, il suo manifesto hippie, in cui usava anche voce e sassofono.
«Lo spirito era lo stesso, ma No Endsuona molto meglio. Odio gli studi di registrazione, asettici come sale operatorie. In quello che mi sono costruito qui nel New Jersey c’è una grande finestra che si spalanca su uno sconfinato paesaggio americano. Quando suono e guardo fuori, lo spirito si ricrea. Qui dentro ho superato un complicato esaurimento nervoso (nel 2008, dopo la separazione dalla seconda moglie, ndr). Avevo bisogno di un posto dove suonare liberamente, magari per tutto il giorno, proprio come a Golden Gate Park».
L’America e il mondo intero sembrano aver dimenticato le aspirazioni pacifiste di quegli anni.
«Tutto sepolto sotto una coltre di conformismo e perbenismo. La musica che si ascolta oggi ne è il riflesso — schiavi della ripetizione. Non ci sono più certezze, tutto è soggetto a mera valutazione economica. Un artista non dovrebbe farsi influenzare dalle circostanze esterne. Vivo in completo isolamento, dunque non sono costretto a subire l’inquinamento acustico di altri condomini, non ascolto musica a meno che non voglia farlo. Ma nonostante la mia priorità — che probabilmente conosce: mantenere la musica a un livello più puro possibile — non riesco a prendere le distanze da tutta la merda che c’è lì fuori. Non ci sono mura che riescano a isolarti dalla stupidità, nulla è più potente dell’ignoranza. Credo che gli avvenimenti degli ultimi anni abbiano scosso tutti gli artisti, anche quelli più impermeabili. È triste, e per questo sono così affezionato a queste musiche: arrivano da un luogo dove sempre più raramente i creativi hanno accesso».
Si sente isolato?
«No. Sto finendo di leggere The Circle, l’ultimo romanzo di Dave Eggers, una storia ambientata nell’era dell’informazione globale che rischia di appiattire le nostre identità, fare scempio della privacy, neutralizzare le opinioni prima ancora che vengano espresse. Mi dispiace, ma non mi sento parte della cosiddetta corporate lifené della community di Facebook. Ma sono pur sempre cittadino del Paese dove questo ha avuto origine, lo stesso che ha prodotto una musica straordinaria, meravigliosamente multirazziale e multiculturale».
Il jazz: la musica classica del ventesimo secolo?
«Speriamo non ci vogliano due secoli per acclararlo».

Repubblica 24.11.13
La musica
Quando il suono è una via di conoscenza
di Leonetta Bentivoglio


È un saggio ardito e molto pensato quello che il critico musicale Federico Capitoni dedica aLa verità che si sente, ovvero a “La musica come strumento di conoscenza” (è il sottotitolo). Da tempo, e anche attraverso riflessioni percorse dai musicisti in anni recenti (era uno dei temi più sondati da Luciano Berio), appare dibattuta l’ipotesi di una traduzione oggettiva dei significati della musica. E la ricerca di una verità di senso in questo campo è diventata un mito inesauribile. Lungo un viaggio che considera irrinunciabile l’approccio fenomenologico, cioè la concezione del suono come fenomeno puro, Capitoni interroga quella mitologia esaminando il rapporto tra musica e filosofia, volando da Platone alla semiologia contemporanea (Nattiez) e osservando il territorio da punti di vista diversi, da quello logicorazionalista alle teorie di matrice etica e psicologica. Emerge dal discorso soprattutto l’importanza dell’intercettazione affettiva della musica, la cui “verità”, senza prescindere dall’intelletto, vive nel mondo delle emozioni. Da tale profonda essenza affettiva scaturisce la forza comunicativa di un’arte capace di condurre l’individuo all’autoconsapevolezza.
LA VERITÀ CHE SI SENTE di Federico Capitoni, “Per Proust era un privilegio assistere alla propria assenza La riservatezza è un gesto politico”
“Ritirarsi è l’altra faccia della modernità In fondo mandare un sms è meno invadente di una telefonata”Asterios, pagg. 183, euro 19

Repubblica 24.11.13
In una società fondata sulla visibilità, il filosofo francese Pierre Zaoui rilancia il valore dell’anonimato
E invita a spegnere i riflettori per condurre una vita meno spettacolare
Elogio della discrezione
di Anais Ginori


“Per Proust era un privilegio assistere alla propria assenza La riservatezza è un gesto politico”
“Ritirarsi è l’altra faccia della modernità In fondo mandare un sms è meno invadente di una telefonata”

PARIGI Tacere, mentre tutti parlano. Guardare, ma non essere visti. Diventare invisibili, senza doversi nascondere. Non è solo una questione di buone maniere, convenzioni sociali, falsa modestia. Essere discreti oggi significa prediligere l’identità al posto della visibilità, l’essere sull’apparire. «Una forma di dissidenza nella società panopticon in cui tutto e tutti è guardato, osservato, schedato». Il filosofo francese Pierre Zaoui ha appena pubblicato La Discrétion, elogio di un gesto politico prima che morale. Una riflessione documentata per inseguire una visione del mondo meno estetica e spettacolare.
Omnia praeclara rara, tutto ciò che è prezioso è raro, dice la massima latina citata da Spinoza alla fine dell’Etica. Zaoui, docente all’università Paris VII, già autore di Spinoza, la décision de soi, parte da questa frase per spiegare quanto sia necessaria una “pausa”, anche se minima, nel grande show. Spegnere i riflettori, abbassare il rumore di fondo, godere di un sano anonimato. Come quando, spiega il filosofo, si prova piacere nell’ascoltare due bambini che giocano dietro alla porta oppure si scruta in silenzio la propria amante che dorme nel letto. «È il privilegio di poter assistere alla propria assenza », diceva Marcel Proust a proposito della discrezione.
Selfie,l’ossessione dell’autoritratto, è la parola dell’anno. Ma è ancora possibile essere discreti?
«Contrariamente a quel che si crede, è l’altra faccia della modernità. In passato, nella civiltà rurale e prima dell’urbanizzazione, tutti conoscevano tutti. Era quasi impossibile essere discreti. Le nostre società offrono, invece, opportunità inedite di essere discreti, per esempio attraverso la vita in città e i nuovi mezzi di comunicazione. Nell’abusato termine “individualismo” c’è il desiderio di essere riconosciuto come individuo libero ma anche la voglia di non essere più riconosciuti, di scomparire nella moltitudine. Ugualmente le nuove tecnologie promuovono la trasparenza ma offrono anche strumenti meno intrusivi per comunicare. Spedire un sms è più discreto che telefonare. E prima dei telefoni, per parlare con qualcuno bisognava per forza incontrarlo».
Ognuno ha diritto a fifteen minutes of vanishing, a un quarto d’ora di discrezione, anziché di celebrità come sosteneva Andy Warhol?
«È vero che viviamo in una società in cui tutti sembrano cercare la fama, la notorietà.
Ma in parallelo ci sono molte occasioni in cui, magari senza accorgercene, assaporiamo la gioia della discrezione. Per esempio quando si viaggia all’estero e si ha la quasi certezza di non essere riconosciuti. La discrezione moderna non è più quella esibita come virtù nelle società aristocratiche, una forma di cortesia e buona educazione. Nelle attuali democrazie si tratta proprio della gioia, breve ma intensa, di assaporare l’anonimato».
È l’arte di scomparire, come recita il sottotitolo del suo saggio?
«È un’arte perché è un gesto profondamente volontario, politico, e non più morale come si pensava una volta. Elogiando quelle che definisco “anime discrete” non vorrei assolutamente promuovere un nuovo galateo o colpevolizzare chi non lo è. In passato, la intervista discrezione è stata spesso presentata come un tentativo di sottrazione, di ripiego, quasi una morte dell’Io. Per me essere discreti è invece una prova di affermazione personale».
La discrezione non è insomma un atteggiamento da penitente?
«Siamo nella continuità dell’aidòs aristotelico, della modestia in latino, ma seguendo l’analisi teologica che ne ha fatto San Tommaso. La discrezione diventa allora umiltà nel senso più positivo del termine: smettere di preoccuparsi di se stessi, aprirsi al mondo. Una forma di leggerezza esistenziale».
Perché ha iniziato il suo saggio con un omaggio a Kafka?
«È il modello assoluto della discrezione. Nel suo diario, l’8 dicembre 1917, scriveva: “Nella tua battaglia con il mondo, asseconda il mondo”. L’opera di Kafka si co-struisce nel gesto sublime e intenso del passo indietro. Vale per molti autori. Scrivere costringe a scomparire e la letteratura è il terreno prediletto per esercitare la discrezione».
E perché invece citare Baudelaire?
«Ho citato Baudelaire riletto da Walter Banjamin: quel flâneur che si appropria del nuovo mondo senza toccarlo. È la ricerca di un equilibrio tra eroismo e anonimato, tra l’apologia dell’uomo delle folle e l’espressione individuale in una società democratica. Una tensione continua tra opposti. Per esempio, si tende a credere che le manifestazioni siano un mostrarsi nel collettivo, come sottointende la parola inglese demonstration. Penso invece che la società di massa ha reso più discrete le masse. L’idea che la modernità sia l’avvento del popolo sulla scena pubblica, artistica, letteraria, è solo un trompe-l’oeil: in realtà il popolo rimane minoritario, invisibile, anche quando manifesta e si ribella».
Nella politica-spettacolo c’è spazio per la discrezione?
«Nietzsche diceva: “Sono le parole più silenziose che portano la tempesta. Pensieri che incedono con passi di colomba guidano il mondo”. Bisogna interessarsi alla micropolitica, alle sperimentazioni discrete, anonime, che nella vita quotidiana cercano di immaginare un altro mondo. È anche un modo elegante per sottrarsi alla volgarità di chi spesso ci rappresenta».
Lo show non deve più andare avanti?
«Guy Debord parlava di “inconciliabili nemici” autoprodotti dalla società dello spettacolo. Nel mio saggio sostengo invece che lo spettacolo del mondo ha bisogno di “anime discrete”, senza le quali esisterebbero solo specchi vuoti. Affinché ci sia una parola, serve qualcuno che ascolti e sappia tacere. È un’asimmetria necessaria. Il giorno in cui non ci sarà più nessuno che accetta di “assecondare il mondo”, come scrive Kafka, allora tutto scomparirà».
Un filosofo deve essere discreto?
«Gran parte dei filosofi dall’Ottocento ad oggi, seppur nella loro diversità, hanno in qualche modo espresso la loro passione per la discrezione. È la condizione necessaria per osservarne il negativo, l’apparenza. Anche in questo caso non si tratta di una qualità morale, ma di un approccio puramente intellettuale. Fare filosofia oggi significa cercare lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, e dunque tutto ciò che tende a scomparire, a essere discreto».

Repubblica 24.11.132
Il decalogo
L’ossessione dell’apparenza. Come sparire in dieci mosse
di Gabriele Romagnoli


Dalla mania di Twitter a Salinger passando da Google ai “vagoni del silenzio” ecco il manuale aggiornato per chi voglia (finalmente) coltivare l’ecologia dell’io
Essere discreti è un dono, diventarlo una conquista che vale più di una virtù. È possibile provarci: anziché invadere il mondo (impresa che ad alcuni pare possibile), ritirarsene (esito che a pochi sembra trionfale). L’eroe discreto è un discreto eroe. Questo è un decalogo per emularlo. Con la premessa ( discreta) che su quella strada ci si può incamminare, ma neppure chi scrive può dirsi arrivato al traguardo, giacché il tempo in cui viviamo frappone ostacoli, reclama presenze, esige quanto meno la prova in vita di una firma. E comunque: 1. Ricordati che anche se non appari continui ad esistere ugualmente. Il fatto che nessuno sappia chi sei è totalmente irrilevante se TU sai chi sei. O almeno ne hai vaga contezza. La luce acceca, l’ombra rigenera. Se non accetti questo presupposto continuerai a sgomitare per farti mettere in lista ed è superfluo che tu legga il resto: continua pure a contare quanti documenti appaiono googlando il tuo nome e a farti chiamare dottore dal portinaio.
2. «Machete non twitta». Questa affermazione fatta da un cinematografico giustiziere indio sintetizza alcuni dati di fatto: non è poi tanto virile “cinguettare”. Perché non sembri un commento sessista: per una persona strutturata non è necessario esibirsi in un battutismo a getto continuo. Le cose importanti che si hanno da dire sono limitate. Ai più ne esce una alla settimana. C’è chi ha avuto un pensiero profondo e gli è morto di solitudine.
3. Due amici contano più di duemila followers.
4. Si può avere un profilo Facebook per necessità, giacché è come stare in un elenco telefonico: serve per essere raggiungibili o raggiungere qualcuno di cui si hanno soltanto le generalità. Dopodiché non è altrettanto necessario informare l’intera rete delle proprie preferenze, deferenze o funzioni corporali. Né ingaggiare dibattiti con Pinco sul tema del momento: se non ti invitano ai talk show, fattene una ragione; se ti invitano, declina con gentilezza. Ma soprattutto: ricordati che non sei Mauro Icardi o Wanda Nara, Mario Balotelli o Fanny Comesichiama: se volete dichiararvi tutto l’amore del mondo, telefonatevi.
5. Tra Gabriele Paolini e J. D. Salinger, chi butteresti dalla torre? Barrata la casella delle opzioni in condizioni di lucidità, si può cercare di avvicinare, senza riprodurla nel suo estremismo, la condotta del modello prescelto. Non occorre ritirarsi come un eremita in montagna, bastano pochi accorgimenti. Il telefono fisso è superato. Quello cellulare può essere silenziato e perfino spento per alcune ore di giorno, sempre di notte. La segreteria telefonica ha l’opzione “disinstalla”. Le tue fotografie interessano, a essere generosi, un numero limitato di parenti. Stare vicino ai vip ti rende ancor più indegno di nota. Alle cene esclusive partecipano principalmente le posate.
6. Esiste un tasto premendo il quale si esce da una mailing list. Ci si può cancellare da un elenco di destinatari di inviti e omaggi (e farlo prima di essere cancellati riafferma la nobiltà del tempismo).
7. Esiste pure, sui treni, un carrozza detta del silenzio, dove non si telefona, si parla sottovoce e ci si muove felpati come pensieri notturni (o almeno si dovrebbe). È salutare viaggiare al suo interno. E, una volta scesi, continuare come se si fosse ancora su quel vagone.
8. I biglietti da visita più chic hanno impresso su fondo bianco soltanto nome e cognome, in corsivo. Il resto (telefono, indirizzo) lo si aggiunge a penna, come fosse una dedica personalizzata. Il miglior biglietto da visita è il sussurro del proprio nome, come fosse una confidenza.
9. Prenotare un ristorante con un cognome altrui è divertente e non richiede eventuale disdetta. Un giornalista famoso era talmente discreto che alla madama di un bordello aveva lasciato il nome di un collega meno famoso.
10. Puoi essere discreto anche quando non ci sarai più. L’idea di lasciare una traccia del tuo passaggio perché si continui a parlare di te è peregrina: vattene in punta di piedi e non fare casino dal piano di sotto. Ricorda le parole di Stig Dagermann, scrittore eccelso, e dai più consegnato alla serenità dell’oblìo: «Dimenticatemi spesso».

Repubblica 24.11.13
Roth, l’incubo nazista e l’apatia dell’Europa
di Franco Marcoaldo


Il Joseph Roth giornalista non ha nulla da invidiare al narratore: la stessa fiammeggiante intelligenza; una prosa asciutta, acuminata; lo sguardo sempre pronto a cogliere il dettaglio rivelatore. È un’impressione che esce ulteriormente rafforzata leggendo questa raccolta di articoli – editi e inediti in Italia, per la cura di Susi Aigner – che vanno dal 1933, ascesa di Hitler, al 1939, anno di morte dello scrittore. Roth è a dir poco allarmato. Il rogo dei libri e la cacciata degli scrittori ebrei sono segni inequivocabili dell’«irruzione sanguinosa dei barbari nella tecnica perfezionata», ma l’Europa non pare rendersene conto. È svogliata, inerte, distratta. Accecata da un vero e proprio «autodafé dello spirito». Perché sotto attacco non è soltanto il popolo ebraico, ma l’intera civiltà europea: «La libertà del pensiero e della fede; la sovranità della Terra e la grandezza del cielo; la religione dei credenti nell’umanità e i precetti della Chiesa; i dieci comandamenti e il Vangelo».
Eppure (siamo nel 1934) giornalisti e politici continuano a invocare «sangue freddo», nella speranza che emerga “il lato migliore” della Germania. Non sarà, si chiede Roth, che si sta confondendo il sangue freddo con la debolezza, l’apatia?
AUTODAFÉ DELLO SPIRITO di Joseph Roth Castelvecchi, a cura di Susi Aigner, pagg. 128, euro 12

Repubblica 24.11.13
Caro amico ti scrivo firmato van Gogh


Vincent van Gogh fu una fiamma che illuminò l’arte del declinante secolo della borghesia e il suo alone si diffuse ben oltre la breve e operosissima vita. Malgrado le difficoltà d’ogni genere e le malattie che lo tormentarono, nel 1880, a ventisette anni, decise di fare il pittore. Non era stato un enfant prodige, tutt’altro: fu un autodidatta che s’era sfiancato prima a disegnare, poi a dipingere, nutrendo dubbi non sulla sua vocazione ma sulle sue capacità.
Fin dagli esordi il suo segno è indelebile, perché scava nel fondo della sua coscienza con un senso della verità che lascia attoniti, ogni qualvolta s’ha sotto gli occhi un suo foglio o una tela. La vita di pittore brucia in un decennio: un lavoro frenetico, senza un attimo di respiro, che gli consente di dipingere ottocento tele e più di mille disegni. Ma Vincent non è un artista preso dal furor della creazione, come vorrebbe la vulgata di “genio e sregolatezza”. È uomo colto per le sue letture ossessive della Bibbia, di Shakespeare, Dickens, Carlyle e i francesi Zola, Flaubert, Hugo, i fratelli Goncourt e Maupassant, come emerge dalle lettere all’amico Émile Bernard e soprattutto al fratello Theo. L’epistolario conta 819 lettere, e oltre 650 sono indirizzate a Theo. Nel luglio 1888 gli scrive da Arles: «Non pensare che io voglia mantenere artificialmente uno stato febbrile, ma sappi che sono immerso in calcoli complicati da cui scaturiscono, l’una dopo l’altra, tele eseguite in fretta ma preventivamente calcolate a lungo». Ogni pigmento di colore posto tela è un gesto meditato cento volte: un artista capace di elaborare una teoria estetica che, consapevolmente, s’interroga sul ruolo dell’arte e per tale motivo il suo epistolario ha un valore essenziale per capirne il destino.
La selezione di duecento Lettere, a cura di Cynthia Saltzman, nella collana dei Millenni Einaudi con un ricco corredo iconografico, è pertanto uno specchio inquietante della sua biografia umana e intellettuale. Per Van Gogh la scrittura è parte es-senziale del dipingere, erede in ciò dell’oraziano Ut pictura poësis: e difatti spesso le lettere scritte su grandi fogli ripiegati, sono disseminate di disegni delle tele a cui lavora: come si vede dagli schizzi della Camera da letto ad Arles o del Dottor Gachet. Talvolta acclude disegni a penna. La sua pagina è piena di correzioni, nitidissima ed elegante nella grafia: scrive prevalentemente in francese e olandese, di rado in inglese. La sua dolorosa esperienza di predicatore tra i reietti delle miniere del Borinage, come il padre pastore, non fu tempo perso: perché considera l’arte una missione etica, una religione tesa alla ricerca di un valore assoluto che possa conferire sollievo a chi la pratica e a chi ne gode.
Nei due anni a Parigi va in giro con Bernard, incontra Paul Signac che ammira per la sua ricerca d’avanguardia sul colore: matura l’idea di trasferirsi nel Midì e nel 1888 è abbacinato dalla luce e dal colore della campagna. Ad Arles dipinge 170 tele in poco meno di due anni e alcuni capolavori: i cinque Girasoli, Seminatore al tramonto, La mietitura.
E la palette s’incendia: gialli, azzurri, verdi, viola. La natura lo commuove, la considera una rivelazione di dio anche se la sua fede vacilla: «L’art c’est l’homme ajouté à la nature», sottolinea in corsivo in una lettera a Theo nel ‘79. L’epistolario ci fa capire che dipingeva le tele non come singole unità, ma insiemi tematici: i paesaggi e i cieli stellati sono parte essenziale di questa ricerca. «Spesso mi sembra che la notte sia ancora più riccamente colorata del giorno, colorata dei violetti, dei blu, e dei verdi più intensi»: ed è bellissima la frase per capire come la sua creatività veda colori anche nel buio della notte. Come ritrattista non è da meno, e non esita a considerarsi compagno in spirito di Rembrandt, Hals e Vermeer. Le sue lettere a Gauguin, Signac, Bernard e altri amici sono dense di notazioni sul loro e sul suo lavoro. Quelle a Theo sono uno spaccato di un uomo dilaniato dalla malattia e offeso dal mancato riconoscimento. Una testimonianza essenziale l’epistolario, per dissipare l’alone di leggenda che lo avvolge ma che non intacca il mito del pittore.
LETTERE di Vincent Van Gogh Einaudi a cura di C. Saltzman, trad. di M. Botto, L. Pignatti, C. Stanagalino pagg. 768 euro 85

Repubblica 24.11.13
Auguste Rodin
Dal “Bacio” al “Peccato” così metteva eros nel marmo
di Armando Besio


MILANO Sessanta sfumature di bianco. Gli audaci marmi di Rodin stuzzicano le fantasie erotiche dei visitatori che sfilano nella penombra un po’ ruffiana della Sala delle Cariatidi. La più nobile, romantica e malandata di Palazzo Reale. Progettata dal Piermarini, archistar neoclassico del Teatro alla Scala, l’antica sala da ballo porta ancora i segni dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, ferite suturate ma non sottoposte a chirurgia ricostruttiva dal parziale restauro pedagogico voluto dal Comune a perenne monito pacifista (in questa sala, non a caso, Picasso espose nel dopoguerra Guernica).
L’allestimento spartano coniuga rispetto per la memoria del luogo e spending review. Semplici scaffali di tubi di ferro, verniciati di rosso pompeiano, sostengono tavole di legno grezzo dove sono allineate le sculture.
Sopra tutte - è la più famosa, e la più ingombrante - svettaIl bacio più popolare della storia dell’arte (con quello, dipinto, di Hayez), varie volte replicato dal maestro, qui nella versione conservata dal Musée Rodin di Parigi, da dove arrivano le opere in trasferta a Milano. “Rodin. Il marmo, la vita” è il casto titolo della mostra, curata dal conservatore capo del museo Aline Magnien con Flavio Arensi (catalogo Electa, fino al 26 gennaio).
Apre il percorso, ordinato in senso cronologico, L’uomo con il naso rotto,che remixa la faccia di Bibi, un facchino parigino chesi aggirava nello studio di Rodin, e il ritratto di Michelangelo realizzato sulla maschera mortuaria da Daniele da Volterra (potete vederlo qui a Milano al Castello Sforzesco di fronte alla Pietà Rondanini), in uno stile che evoca la statuaria romana: «Cammino nell’antichità più remota diceva Rodin - Voglio legare il passato al presente, riacquisirne il ricordo, giudicare a riuscire a completare»”. Rifiutato nel 1864 dal Salon causa eccesso di realismo, l’Homme au nez casséè il simbolo dei faticosi esordi di Rodin. Che fu respinto tre volte all’esame di ammissione dell’Ecole des Beaux Arts. E per cominciare dovette adattarsi a fare l’anonimo “muratore statuario”, addetto alle decorazioni dei palazzi in costruzione nella nuova Parigi di Hausmann.
Prima di proseguire la visita, occhio alla didascalie delle opere, singolarmente scrupolose e oneste. Portano anche il nome degli “sbozzatori”. Erano loro, i “praticiennes”, i veri artefici di questi marmi. Rodin ideava l’opera e tutt’al più si sporcava le mani con la terracotta per abbozzare il modellino. Loro realizzavano la “messa ai punti”, il riporto delle misure dal modello al blocco di marmo, quindi lavoravano di trapano e mazzuolo, faticavano di scalpello e raspa. Due anni dopo la morte di Rodin, alcuni “sbozzatori” furono processati con l’accusa di aver scolpito dei “falsi”. Ma come, si difesero, abbiamo continuato a fare quello che facevamo quando il maestro era vivo. Un giudice spiritoso commentò: mi sa che il problema non sono i falsi,ma che non sono mai esistiti “veri” Rodin.
Ma proseguiamo con la visita. Ecco le opere giovanili. L’Orfana alsaziana (vittima della guerra Franco-Prussiana) esprime un malinconico pallore neoclassico.
Diana sembra uscita da un quadro rococò di Fragonard.
Madame Roll (moglie del pittore Alfred) veste Secondo Impero. Le superbe natiche diAndromeda, e quelle non meno toniche dellaDanaide, annunciano il cuore hard dell’esposizione, dove va in scena l’attrazione fatale tra Paolo e Francesca. Sono loro i protagonisti del Bacio. Rodin concepì quest’opera e molte altre per la dantesca Porta dell’Inferno, commissionatagli dallo Stato francese per il Museo delle Arti Decorative e mai portata a termine. La mano di Paolo che accarezza la coscia di Francesca ricorda le dita di Plutone che affondano nei morbidi fianchi di Proserpina nelRatto del Bernini. «Nel Bacio l’uomo sta seduto sulla donna per meglio approfittarne » ironizzava Paul Claudel che ce l’aveva con Rodin per come gli aveva maltrattato la sorella Camille, sua modella, collaboratrice, infelice amante.
Sfilano tutte in mostra le donne di Rodin. Camille, con i tratti di Aurora e della Convalescente. La Duchessa di Choiseuil, l’americana che gli fece girare la testa (e gli procurò clienti oltre oceano) quando lui aveva settant’anni, lei trenta di meno. E finalmente Rose Beuret, la fedele, pazientissima guardarobiera diventata compagna e infine moglie, sposata in Zona Cesarini, un anno prima della morte, per risarcire i tradimenti e ricompensare la devozione.
Ancora sfumature di erotismo: nello scandaloso Peccato che turbò il pubblico del tempo, dove un’avida faunessa dotata di coda dalla forma fallica “assale con ardore frenetico”, e insomma possiede selvaggiamente un povero maschio che si direbbe più spaventato che eccitato; nei saffici Giochi di ninfe; nella bocca spalancata della Donna pesce che non aspetta soltanto di respirare.
Con La mano di Dio si cambia soggetto e registro. Da un blocco di marmo grezzo sboccia la mano del creatore che tiene tra le dita Adamo ed Eva, nati insieme (variante apocrifa della versione biblica) nello stesso momento, dalla stessa terra. Qui come spesso altrove Rodin adotta la tecnica del “non finito”. A proposito della quale i curatori sottolineano i suoi rapporti con Michelangelo. «Il mio affrancamento dall’accademismo è avvenuto grazie a Michelangelo» confessava Rodin. Che condivideva con l’illustre antenato anche la predilezione per il marmo “bianco, fine, puro, privo di macchie e difetti” della Versilia estratto dalle cave di Pietrasanta e Seravezza. Eppure, il suo “non finito” più che l’espressione di un autentico tormento sembra un espediente estetico, nel segno di un virtuosismo di sapore simbolista. Certo, capace di formidabili effetti. Specie nelle ultimissime opere, come il ritratto di Puvis de Chavannes. Quasi tutto è marmo grezzo, semplice materia appena sbozzata. Soltanto il volto è modellato, ed emerge come una magica epifania dal blocco di pietra. Siamo a un passo dall’arte astratta.

Repubblica 24.11.13
Firenze
Quel vento d’Oriente sull’avanguardia russa
di Paolo Russo


FIRENZE La mostra di Palazzo Strozzi è affascinante, nevralgica, di rara complessità. E viene da lontano. Fu infatti a fine Ottanta che James Bradburne, dal 2006 direttore della Fondazione Strozzi, la concepì negli Usa con noti specialisti. Come John Bowlt, oggi fra i curatori deL’Avanguardia russa, la Siberia e l’Oriente (fino al 19 gennaio), con Nicoletta Misler ed Evgenija Petrova, direttrice del Museo Russo di San Pietroburgo. Con 130 fra dipinti, acquerelli, disegni, grafiche e sculture – di, fra i tanti, Kandinskij, Malevic, Larionov, la Goncarova, Filonov – poste in dialogo con 36 preziosi reperti etnoantropologici della Russia asiatica, la mostra ritesse la smisurata, fittissima rete di relazioni fra le culture orientali – anche esterne allo sconfinato impero: Mongolia, Persia, Siam, Cina, Giappone – e parte delle avanguardie russe, suprematismo in primis, del primo Novecento. Che, con modi ed esiti certo non univoci ma tutte egualmente avvinte dall’Oriente, vi si ispirarono, traendone irrinunciabili modelli e fondante diversità, spirituale e/o formale, dai coevi “ismi” europei.
In quella enorme macchina sincretica, raccontano la mostra e il bel catalogo (Skira), agirono lo sguardo zarista a Est, le spedizioni geografiche, viaggi e collezionismo anche di tanti artisti, esotismo e cineserie, le forti migrazioni interne con conseguenti flussi di culture e religioni (San Pietroburgo inaugura, fra India e Art Nouveau, il suo tempio buddista nel 1915), fino alla programmatica resistenza all’Occidente razionale e scientifico in cui la cultura russa fra Otto e Novecento non voleva riconoscersi (e col quale farà comunque i conti).
Risulta fortissimo, in quegli anni, il richiamo dei russi d’Europa verso una intensa spiritualità e l’alterità – un’alterità comunque riconoscibile: la Grande Madre Russia – delle sterminate distese siberiane, della loro natura, colori e luci, dei loro antichissimi usi, popoli e riti magici, così come delle millenarie culture confinanti. Rivelatore e motore di questo “risveglio della memoria”, il viaggio dello zarevic, il futuro Nicola II, che partito da Trieste il 26 ottobre 1890, visitò via mare Grecia, Egitto, India, Indonesia, Siam, Cina e Giappone, tornando – dopo aver inaugurato a Vladivostok il terminale dell’ancora erigenda Transiberiana e percorso in trionfo l’intera Siberia – a San Pietroburgo il 4 agosto 1891, con 1313 fra doni e reperti. Che nel 1893, in una mostra epocale, rafforzeranno la passione per la ritrovata sorella asiatica.
Vent’anni dopo, nella Parigi capitale del mondo, il grande Diaghilev di quella Russia arcaica, esotica e fiammeggiante, esporterà una versione di “scandaloso” successo coi suoi Ballets Russes, il carisma di Nijinski, il genio di Rimski-Korsakov e Stravinskij, pennelli e fantasia di Alexandre Benois, Bakst e Roerich, tutti ben documentati in mostra. Il cui percorso e pregio non son certo solo artistici. Tuttavia, nella sua scelta copia di opere d’arte e reperti, oltre ad un’interessante antologia di artisti russi poco o punto noti, spiccano numerosi i capolavori. E si fa torto al loro numero citando solo alcuni dei maggiori: Il vuoto, Statue di sale e Natura morta con scultura della Goncarova; l’attrazione sciamanica del Kandinskij di Ovale bianco e Ovale grigio, i suoi Macchia nera e Due ovali; il Filonov inafferrabile diCosmo, Oriente-Occidente e Occidente-Oriente; Borisov con la misterica Eclisse nella Novaja Zemlija; l’apocalittico Bakst di Terror Antiquus, fino alla spiritualità assoluta dell’immenso Malevic di Cerchio nero e Supremus n. 58.

Repubblica 24.11.13
Budapest

Da Caravaggio a Canaletto: due secoli di pittura italiana, attraverso 140 capolavori, provenienti dai maggiori musei europei. Il percorso documenta l’opera di un centinaio di autori, tra cui figurano Guido Reni, Annibale e Agostino Carracci, Guercino e Tiepolo.
La gloria del Barocco e del Rococò Szépmuvészeti Muzeum Fino al 16 febbraio

Repubblica 24.11.13
Delacroix e l’Orlando Furioso nell’oltraggio della sbruffona Marfisa
di Melania Mazzucco


L’ideale femminile di Delacroix era l’odalisca. Come molti europei, dal viaggio in Marocco e Algeria – nel 1831 – tornò infatuato di luce e colore, di paesaggi, cavalieri e costumi esotici, e dell’harem. Le donne sensuali che tessevano, danzavano e aspettavano l’uomo, recluse nei loro appartamenti, lo avevano incantato. AlleDonne d’Algeri nelle loro stanze dedicò, al ritorno in Francia, alcuni dei suoi quadri più famosi. Sorprende perciò come una palinodia il quadro che Delacroix cominciò all’inizio del 1850, per cui creò almeno sette schizzi preparatori e che ultimò con massima finezza: Marfisa e la donna impertinente.
Per capire la novità dell’immagine, e il suo significato, bisogna dire qualcosa di Marfisa. Perché molti si chiederanno: chi era costei?
La letteratura offriva soggetti ai pittori dell’800 come nel Medioevo la religione e, nel Rinascimento, la mitologia. Era un repertorio, un serbatoio di scene, ambienti, eroi. In gioventù, Delacroix vi aveva attinto in polemica con la frigida pittura neoclassica di storia. Di ottima famiglia e di ottimi studi, scrittore e amico di scrittori, era un lettore onnivoro, colto e curioso. Poemi, leggende popo-lari, ballate, romanzi, tragedie: tutto trasformava in pittura. Chateaubriand, Scott, Byron, Goethe, Dante e Shakespeare... Negli anni ‘30, i denigratori gli riconobbero la stessa energia che appassionava gli scrittori romantici – e la stessa “rivoltante follia”: dipingeva con “pennello ubriaco” quadri che visti da vicino si rivelavano “scarabocchi informi”. Gli ammiratori gli riconobbero la spiritualità, l’aspirazione all’infinito e la malinconia del colore in cui si effondeva l’essenza del romanticismo.
Nel 1850, però, il dandy rivoluzionario le cui opere avevano scatenato gazzarra e polemiche lavorava per lo Stato (al Palais Bourbon, all’hotel de Ville e al Louvre), era ufficiale della Légion d’honneur e aveva placato i suoi furori. Dipingeva santi, cacciatori, fiori e soprattutto felini selvaggi (tigri e leoni): a loro ormai riservava la bellezza barbara della violenza. In pittura come in letteratura, si era riconciliato col classico. Apprezzava un’arte sobria, ordinata ed equilibrata, senza artifici. La modernità doveva risiedere nella capacità di emozionare e nella tecnica pittorica. Insomma, aspirava a diventare un classico lui stesso. Aveva letto attentamente l’Orlando Furioso di Ariosto – annotando a margine gli episodi che gli offrivano spunti per i dipinti: Angelica, Medoro, Ruggero. E Marfisa.
Ora Marfisa è il personaggio più singolare del poema. Ariosto l’aveva ereditata da Boiardo, come un’eroina comica e bizzarra. Le diede altre qualità. Fiera, sbruffona e sanguinaria, la guerriera Marfisa fa sorridere – ma guadagna una storia e un destino. Straniera venuta d’Oriente, Marfisa è un cavaliere errante. Con l’armatura da uomo e sull’elmo l’insegna della Fenice, galoppa di canto in canto, bramosa di mettersi alla prova contro i paladini e di mostrare il proprio valore. Solitaria, disponibile a ogni avventura, si aggrega di volta in volta ad Astolfo o Ruggiero, di cui alla fine si scopre sorella. Combatte e sfascia teste, si accapiglia e si converte. Ma a 52 anni, anche Delacroix prende sul serio Marfisa. Forse gli ricorda la sua amica George Sand, o forse sente affine la guerriera indipendente e senza paura.
Siamo nello spazio magico della foresta, che Delacroix rende con verdi, impressionistiche pennellate a macchie. Il cavaliere domina la scena sul suo destriero (tra i tanti cavalli dipinti da Delacroix, questo, che bardato bruca una fronda, è uno dei migliori). La visiera alzata dell’elmo scopre il bel viso e lo rivela donna. In sella, dietro di lei, si contorce una rugosa vecchia discinta. È la strega Gabrina, cui Marfisa sta dando un passaggio di là dal fiume. L’antefatto Delacroix lo relega nel lato destro: un cavallo scosso che fugge imbizzarrito, dando profondità allo spazio, e un cavaliere esanime sull’erba. È Pinabello, cui Marfisa ha appena inflitto, col colpo della lancia che tiene ancora in mano, il disonore di essere disarcionato da una femmina. Ma l’elemento più riuscito del quadro è la sensuale fanciulla nuda in primo piano, dalla carne iridescente, bagnata di luce come una Venere.
L’amante di Pinabello è assai bella e ciò la rende insolente. Quando nella foresta incrocia Marfisa con la sua passeggera, credendola un guerriero la sbeffeggia per la bruttezza della sua compagna. Marfisa sfida a duello Pinabello e lo sconfigge. Però non prende per sé la donna del vinto (come previsto dal codice cavalleresco), ma la costringe a spogliarsi, umiliando la sua vanità. Pudicamente, la nuda trattiene la veste, che la strega le strappa di mano. Delacroix ritrovò per lei il lirismo delle odalische della sua giovinezza. Eppure impiegò due anni a concepirla. La disegnò di fronte, e solo dopo vari ripensamenti la girò di spalle, come la Minerva delGiudizio di Paride di Raffaello (o di Rubens, appena ammirato a Bruxelles). Realizzò con virtuosismo la mezza tinta color opale del suo incarnato, impastando il tono caldo e rosso con la terra verde e qualche colpo di bianco. Il rosso della stoffa valorizza il madreperla della sua carne – un espediente che abbiamo già trovato in Bellini e Tiziano.
Delacroix raffigura l’istante del denudamento e si limita ad alludere al seguito, ironico, del poema: Marfisa riveste con gli abiti sfarzosi della bella giovane la brutta e vecchia strega, e con quella se ne va, altera, per la sua strada. Il nudo è il punto più luminoso del quadro: la bellezza della giovane conta per il pittore più della sua stupidità. Non per le donne. Il 14 febbraio del 1850, la contessa Delfina Potocka visitò lo studio di Delacroix. Sul cavalletto notò subito, infastidita, la nuda nel bosco. «Che ci trovate di così attraente, voi altri artisti, voi altri uomini?», chiese la contessa (amica di Chopin e peraltro bellissima). «Che cos’ha di più interessante di un qualsiasi altro oggetto visto nella sua nudità, nella sua crudezza, una mela per esempio?». Cézanne sarebbe stato d’accordo, ma Delacroix non rispose. Nel 1852 vendette il quadro a un amatore per 1500 franchi. Non tanti. Solo dopo la morte (nel 1863), venne esaltato come il “puro classico” che riteneva di essere. I collezionisti benedicevano la vendetta di Marfisa. Il quadro moltiplicò di prezzo, e nel 1901 fu rivenduto per 30mila franchi. Emigrò in America. Forse, la cavaliera errante ne sarebbe stata felice.
L’OPERA Marfisa e la donna impertinente (1850-52) olio su tela, Walters Art Museum, Baltimora

Repubblica 24.11.13
Brunello e Paolini: Verdi al popolo
di Nicola Gallino


Per raccontare Verdi con uno spettacolo prima bisogna farsi una domanda. È sempre uno di noi o in questi ultimi anni è diventato un alieno? Marco Paolini e Mario Brunello non hanno dubbi. Il loro Verdi, narrar cantando, che ha debuttato al Teatro Regio di Torino e ora gira l’Italia, non fa revisionismo sull’uomo Giuseppe né divulgazione. L’affabulatore di Vajont e il violoncello delle Dolomiti non hanno bisogno di effetti speciali.
Verdi è il più grande di tutti perché è modernissimo. Compositore, regista, impresario, drammaturgo, poeta: un creatore totale, un demiurgo che dà il giro al banco perché sente nascere dentro sé l’opera già completa e perfetta e nelle cui mani direttori, librettisti, cantanti sono semplici utensili al servizio del genio. Eroe e vittima è il povero Francesco Maria Piave: si ride al rapporto sadomaso fra il titano e il «sior mona». P.
& B. poi riescono in un’altra impresa. Evocare Verdi senza cantanti. Sul palco a mezza luce solo un piano verticale, un harmonium e un’asse con ilritratto di sabbia del Maestro. Chi canta è il pubblico. «Di quella pira», «Libiam», «Parigi o cara» provate un paio d’ore prima, repertorio da barbieri e lavandaie che torna coro popolare. Musica poca: il duetto di morte Otello-Desdemona diventa sulle dita d’un Paolini burattinaio il dramma fra una scarpa testa-di-moro e la cocca d’un fazzoletto, e il Maggini di Brunello spicca il volo lirico solo con il valzer flautato di «Sempre libera» da Traviata. Ma sotto la fluviale cronaca dei funerali del Maestro, scritta da un Filippo Tommaso Marinetti non ancora futurista e corrispondente diVogue, il piano pulsa implacabile le figure d’accompagnamento di tante arie immortali. I tedeschi le chiamano con sprezzo «Zum-pa-pa Musik»: e invece è il battito cardiaco della tragedia all’italiana.

Corriere Salute 24.11.13
DSM-5
I pregi e i limiti dell’ultima «bibbia» degli psichiatri
di Danilo Di Diodoro


Il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders , dell’American Psychiatric Association (APA), giunge alla quinta edizione: è il DSM-5 che, come le precedenti edizioni, rappresenta uno dei sistemi di classificazione dei disturbi mentali più usati sia per l’attività clinica, sia per la ricerca. Se ne parlerà al Congresso della Società italiana di psichiatria, intitolato “Il DSM-5 e i suoi riflessi nella pratica psichiatrica clinica in Italia: le principali revisioni e novità”, a Firenze dal 29 al 30 novembre. L’arrivo del DSM-5 è accompagnato da discussioni e punti di vista contrapposti, soprattutto per il timore di un allargamento dei confini della patologia psichiatrica, con eccessiva medicalizzazione della società, contrazione degli spazi di libera espressione di sé e un’indebita diffusione di trattamenti psicofarmacologici. Qualche esempio: con il DSM-5 la perdita di una persona cara e il conseguente lutto potranno portare alla diagnosi di Depressione maggiore ; oppure le piccole e finora normali dimenticanze che affliggono le persone un po’ in là con gli anni saranno catalogate come Disturbo neurocognitivo lieve . Ancora più preoccupante è la nuova diagnosi di Disturbo di disregolazione dirompente dell’umore : in pratica gli scatti di rabbia ripetuti potranno essere diagnosticati come disturbo mentale, e c’è preoccupazione per i bambini, ai quali potrebbero essere prescritti psicofarmaci. Fenomeno già accaduto quando furono identificati il Disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD) e il Disturbo bipolare infantile.
D’altro canto, in questa edizione del DSM si tenta anche per la prima volta di arrivare a un più solido collegamento tra sintomi psichiatrici e alterazioni di funzionamento del cervello. «Si cerca di creare una classificazione a partire dai sintomi e dalla loro caratterizzazione disfunzionale, per procedere poi all’identificazione dei processi neurali, e anche dell’eventuale supporto di basi genetiche — dice Claudio Mencacci, presidente della Società Italiana di Psichiatria —. Il DSM-5 cerca di compiere questo passo fondamentale, confermando, laddove ci sono dati empirici affidabili, l’utilizzo dei gruppi di sintomi per costruire le categorie diagnostiche. Infatti, purtroppo oggi non ci sono ancora test biologici — basati su geni, marcatori nel sangue o immagini cerebrali — che aiutino a diagnosticare la malattia mentale. Così, la diagnosi è basata su una descrizione, un processo per sua natura soggettivo. È per questa assenza di test diagnostici oggettivi che in psichiatria, più che in altre discipline mediche, sono importanti l’esperienza, la competenza dei clinici e la disponibilità di sistemi diagnostici come il DSM-5 o l’ ICD-11, previsto per il 2015». La spinosa questione del limite tra il comportamento normale e quello patologico è di ampia importanza sociale. Secondo una stima circa il 38% degli europei soffre di qualche disturbo psichico nel corso della vita e l’OMS prevede che nel 2020 i disturbi psichiatrici maggiori avranno un ruolo importantissimo nel generare disabilità e suicidi. «I disturbi mentali sono una delle più ardue sfide da affrontare nel XXI secolo, — conclude Mencacci — ancora più impegnative alle luce della crisi e della conseguente riduzione di servizi. Anche per questo la psichiatria si sta muovendo sempre più nell’area della prevenzione, e quindi del riconoscimento precoce dei disturbi psichici, che nel 75% dei casi compaiono entro i 25 anni di età».

Corriere Salute 24.11.13
DSM-5
Prima il farmaco o la malattia?
di Danilo Di Diodoro


Ogni nuova edizione del DSM genera critiche e proteste. Dice Claudio Mencacci: «Alcuni criticano le impostazioni metodologiche, altri le implicazioni economico/assicurative, e all’orizzonte di queste battaglie c’è sempre il tema dei trattamenti psicofarmacologici che vengono da alcuni ritenuti inevitabili per ogni disturbo descritto nel manuale. Si insinua così il dubbio dell’esistenza di un circuito autoalimentatesi: immissione in commercio di nuove molecole per ogni disturbo e perfino creazione ad hoc di nuovi disturbi, quando in commercio sono presenti psicofarmaci da vendere».
Una delle voci internazionali più critiche nei confronti di questo rischio indotto dal DSM-5 è di Allen Frances, Professore emerito del Dipartimento di psichiatria e scienze comportamentali della Duke University School of Medicine di Durham ( Carolina del Nord), autore del libro «Primo, non curare chi è normale. Contro l’invenzione delle malattie» (Bollati Boringhieri 2013). Frances è un personaggio di spicco nel panorama psichiatrico internazionale avendo guidato la task force che ha prodotto la versione precedente del manuale, il DSM-IV del 1994. La sua voce critica è sfociata oltre l’ambito delle riviste specializzate ed è comparsa in siti e blog molto diffusi, oltre che nei principali network televisivi statunitensi. Allen è convinto che il DSM-5, sotto la spinta più o meno celata dell’industria farmaceutica, prepari il terreno per rimedi psicofarmacologici pronti sul mercato. Quasi ogni singola espressione dell’animo umano potrebbe essere catalogata come potenziale disturbo psichico. Perfino la naturale e auspicabile vivacità dei ragazzi ha il dito del DSM-5 puntato addosso. Milioni di persone potrebbero andare presto incontro a cure non necessarie.
La voce critica di Allen non è isolata. Al suo fianco c’è anche Robert Spitzer, che aveva guidato la task force del DSM-III del 1980, oltre che moltissimi psichiatri in vari Paesi del mondo. Esiste addirittura una campagna di boicottaggio denominata «Boycott DSM-5». L’iniziativa è partita da associazioni di psicologia anglosassoni, ma quando ha coinvolto associazioni di malati e gruppi antipsichiatrici è diventata di opposizione al concetto stesso di diagnosi in psichiatria. Allen a quel punto si è fatto da parte, ricordando la sua equilibrata posizione di difesa della ricchezza interiore degli esseri umani: «Non medicalizziamo le differenze umane, — conclude Allen Frances — celebriamole».