lunedì 25 novembre 2013

l’Unità 25.11.13
Storie di donne
Partita di calcio con Margherita
In un libro di Pietro Greco la vita della scienziata
Pubblichiamo le prime pagine del volume, un ritratto sincero della grande Hack, che credeva nella scienza come fonte di progresso. E amava giocare a pallone
di Pietro Greco


«CORRI CAPACCIOLI, CORRI!». MARGHERITA TIRA UN CALCIO AL PALLONE e incita il compagno di squadra a vincere la sua naturale repulsione per ogni sforzo fisico e a darsi finalmente da fare.
Siamo a Erice, in Sicilia, verso la fine degli anni Sessanta, alla Scuola estiva di astrofisica. Una partitella, nella pausa tra una lezione e l’altra. Calcetto. Lui, quello che se ne sta fermo, lì impalato, è un pezzo di giovane alto e robusto, intorno ai 25 anni: Massimo Capaccioli, toscano della Maremma, futuro direttore dell’Osservatorio astronomico di Capodimonte a Napoli. Lei, quella che corre, impreca, tira calci al pallone e si danna l’anima per vincere la partita, è una signora prossima ai 50, in apparenza minuta: Margherita Hack, toscana di Firenze, direttore dell’Osservatorio astronomico di Trieste.
A correre dietro a un pallone, a tirare calci e a dannarsi l’anima per vincere una partita, Margherita ha iniziato presto. Una mattina d’estate, al giardino del Bobolino, a Firenze, tra il primo e il secondo anno di quella che oggi chiamiamo scuola media e che allora si chiamava ginnasio, inizio anni Trenta del secolo scorso, quando incontra un gruppo di ragazzi.
Loro hanno voglia di giocare. Lei ha la palla. Aldo, il più grande tra i ragazzi, si avvicina: «Facciamo una partita?». Giocano tutta l’estate. Lei impara in fretta a dribblare e a vincere. Anche se con Aldo, che è più grande di due anni, perde regolarmente. Non senza combattere, però. Le piace, Aldo. Al contrario degli altri ragazzi, rispetta le regole. Dopo l’estate si perdono di vista. Si ritrovano per caso, qualche anno dopo. Discutono. Sono sempre su posizioni diverse. Lei per Binda, lui per Guerra. Lei atea, lui cattolico. Lei scientifica, lui umanista. Aldo diventa il compagno della sua vita. Ottant’anni dopo sono ancora insieme.
Questa è stata Margherita Hack, per decenni il volto di donna e il timbro di voce di gran lunga più famosi della scienza italiana: una rigorosa (e coriacea) anticonformista. Una ragazza che ha attraversato il secolo breve e lo ha superato sfidando (e vincendo) i luoghi comuni. Le piace giocare a calcio. «Ma sei una donna!». E chi se ne importa...
Purché si rispettino le regole.
GIACOMO E MARGHERITA
A 15 anni Giacomo Leopardi, il futuro grande poeta, chiuso nell’immensa libreria paterna, lì a Recanati, in soli sei mesi scrive una Storia dell’astronomia, dalle origini fino al 1813.
Nel 2002 Margherita Hack, a 80 anni, ma sempre pronta ad accettare qualsiasi sfida significativa, riprende la storia là dove Leopardi l’aveva lasciata per continuarla e portarla fino ai nostri giorni.
Il giovane Leopardi dedica molte pagine alla grande rivoluzione nella visione dei cieli avvenuta nel Seicento, a opera – soprattutto, ma non solo – di Galileo Galilei che, grazie a un’innovazione tecnologica, il cannocchiale, ha visto, letteralmente, «cose mai viste prima».
L’anziana Hack dedica molte pagine all’altra grande rivoluzione nella visione dei cieli iniziata intorno agli anni Venti del XX secolo, proprio quando lei nasceva, realizzata da una schiera di ricercatori con una serie di innovazioni tecnologiche che, ancora una volta, hanno consentito di vedere, letteralmente, «cose mai viste prima».
Margherita Hack ha accompagnato questo secondo cambio di paradigma nella visione dei cieli e, per un piccolo pezzo, vi ha contribuito. La seconda rivoluzione scientifica in astronomia ha intersecato inestricabilmente la sua vita. Per questo, nel tentativo di ricostruire i travolgenti percorsi dell’astronoma, non possiamo fare a meno, attraverso le sue stesse indicazioni, di ricostruire il travolgente tragitto dell’astronomia.
MARGHERITA HACK di Pietro Greco pagine 220 euro 14,00 L’asino d’oro coll. Profilo di donna

l’Unità 25.11.13
Unite contro la violenza
di Susanna Camusso


Oggi le cronache si riempiranno di statistiche e di retoriche, dei numeri terribili e non degni di un Paese civile e democratico, della violenza maschile contro le donne: i femminicidi riconosciuti e non, che scandiscono la nostra quotidianità.
Qualcuno ricorderà con toni più o meno accorati le inchieste sulla prostituzione minorile. E tra i tanti desideri malati di quelle ragazze ci si perderà in analisi che dimenticano il vero centro della questione: i clienti.
Si offrirà il tema della libertà mercificata, di ambizioni tristi e di disagio, ma occultato sullo sfondo, mai illuminato, resta il non detto della violenza: la sessualità maschile, la sua espressione egoistica nel possesso, l’idea di proprietà come affermazione di sé.
La proprietà materializza e oggettivizza. Spariscono pensiero, sentimenti, idee, ambizioni e desideri. Rimane il «sei mia proprietà» e come tale un essere non pensante che deve «obbedire», quando non prevenire ogni minima esigenza del «sovrano».
Quella straordinaria rivoluzione pacifica che è la liberazione delle donne si tramanda nello slogan «io sono mia», che ha in sé la rivendicazione fondamentale dell’essere persona che sceglie, decide, esiste, pensa, ama e cerca relazioni. Un’idea di relazione che intreccia molti modi, certo anche quello del conflitto.
Il conflitto spaventa, agita la paura della frattura, della solitudine, della perdita. Bisogna imparare (si può) a governarlo. Ma ciò presuppone rispetto e riconoscimento. Rapporto fra pari.
I tanti divari che ancora permangono, i pregiudizi e le discriminazioni nei confronti delle donne, ovviamente, favoriscono quel non riconoscimento. Fanno attardare nell’idea che essere riconosciute vuol dire diventare uguali, come se esistesse un modello perfetto cui adeguarsi e da imitare. Proprio in questa difficoltà, nel riconoscere il diverso e il suo valore, si annida la realtà del non vedo, ma voglio e possiedo.
Strada ne abbiamo fatta molta. Più di quella che i numeri, drammatici, farebbero pensare. Abbiamo conquistato parola e scena pubblica. Cominciamo a cancellare l’autocensura, a valutare il silenzio per quello che è e indichiamo i traguardi per superarlo.
Non ci possiamo accontentare, non possiamo restare inerti di fronte a chi denuncia ed è lasciata sola o a chi non denuncia perché ormai sopraffatta da sensi di colpa o paure per sé e per i propri figli.
Non ci possiamo accontentare di un mondo che non educa, non previene, non sceglie di offrire una tutela forte alle vittime di violenza. Che non decide di dare un livello essenziale di assistenza, che è anche di democrazia, fatto di salute fisica e psichica, di lavoro e di case sicure.
Per questo, anche oggi, ribadiamo le necessità di leggi, cultura e educazione. Per questo anche oggi vorremmo parlare di democrazia e di libertà, di donne vive, che non vogliono essere vittime e cercano risposte perché sanno che la violenza contro di loro è una sconfitta per tutti.
Lo facciamo guardando, per le strade, tra i tanti manifesti, quelli di «noino.org» che ci dicono come le nostre parole non sono vane, che è possibile, che si può progettare e vivere in un mondo dove la libertà delle donne è metro di misura della democrazia. E dunque immaginare un mondo che non nasconde le donne nelle mura di casa, nella «sacralità» della famiglia senza il coraggio di vedere come questa possa diventare violenta prigione. Un mondo che non considera il linguaggio sempre svincolato dai messaggi che trasmette.
Un mondo di donne e di uomini liberi.

l’Unità 25.11.13
Sette milioni di vittime nella guerra invisibile
combattuta soprattutto tra le mura di casa
Fisica o sessuale: una donna su tre ha subito violenza

di Carlo Buttaroni

Provate a immaginare un mondo cupo, dove il terrore non è qualcosa d’improvviso e occasionale ma ripetitivo, costante, ossessivo. Immaginate di vivere l’incubo di una violenza che non viene da «fuori», ma nasce e si consuma all’interno dei luoghi più familiari e rassicuranti. E spesso ha un volto noto, consueto, abituale. Immaginate una violenza che esplode senza preavviso, senza ragione. Provate a pensare cosa vuol dire avere costantemente paura, vivere una crescente insicurezza che si trasforma in ansia. E immaginate di perdere l’autostima, il senso della realtà, la capacità di definire quello che succede e dargli un significato. Provate a immaginare l’angoscia di un’esistenza parallela, opaca al mondo esterno; di provare vergogna per gli abusi subiti e custodire il segreto di violenze indicibili, perché il racconto può non essere creduto, oppure minimizzato e banalizzato proprio da quelle persone che dovrebbero rappresentare la vostra rete di protezione. Provate a vivere il senso d’impotenza, la depressione, la tachicardia, l’insonnia. E provate ad ascoltare il silenzio interno, l’ansia costante che si annida progressivamente nell’anima fino a diventare una presenza inquietante che rende impossibile ogni movimento, svuotando ogni possibilità di leggere la realtà per quella che è, senza riuscire a fronteggiarla e contrastarla. Provate a sentirti vuoti, stanchi, privi di obiettivi, presi in ostaggio da un nemico oscuro che vive sotto il vostro stesso tetto o nell’abitazione accanto.
ACCANTO A NOI
Per quanto possiate immaginare tutto questo, non sarà mai abbastanza. Perché l’orrore delle vittime della «guerra invisibile» che si consuma ogni giorno è inimmaginabile. Vittime che non sono poi lontane come si può credere. Sono accanto a noi, anche se non vediamo i segni delle ferite inferte nel profondo. Vittime di una violenza che si consuma prevalentemente tra le mura domestiche. Sono sette milioni le donne italiane che hanno subito violenza fisica o sessuale. Quasi una su tre. Ma è una stima approssimata per difetto, considerato che solo una minima parte dei reati arriva all’autorità giudiziaria. Basti pensare che le denunce per violenza sessuale rappresentano meno di un decimo degli abusi sessuali subiti dalle donne.
Un dramma invisibile e impalpabile, dalle forme nascoste e spesso difficili anche da contenere all’interno di perimetri giuridici certi. Almeno all’inizio, come quando si esprime sotto forma di una sottile e insidiosa pressione psicologica. Un’atmosfera di sopraffazione e di minaccia che si insedia poco alla volta nella quotidianità. E si riflette nella paura «di farlo arrabbiare», di deluderlo, di sentirsi «stupida» nel contraddirlo, facendosi carico della sua aggressività. Ed è solo il principio di un percorso che distrugge la vita.
Se pensate che gli autori delle violenze siano brutti, sporchi e (apparentemente) cattivi, vi sbagliate. Nel quotidiano hanno un comportamento socievole e seduttivo, ma giocano con le emozioni degli altri per ottenere il raggiungimento di controllo e potere. Si credono superiori, vogliono che gli altri li riconoscano come tali e hanno bisogno di una costante ammirazione e attenzione. Non cercano amore, di cui non conoscono il significato, ma rassicurazione nell’immagine idealizzata di loro stessi. Per questo è insopportabile che una donna li possa semplicemente criticare. E nel momento in cui una donna manifesta insofferenza, rifiuto oppure minaccia l’abbandono, esplodono in una rabbia devastante che può sfociare in qualsiasi cosa. Persino in omicidio. O femminicidio, come si dice oggi.
Sarebbe un errore immaginare che le donne che subiscono violenza siano persone deboli e predisposte a subire la loro condizione di vittime. Perché fragili lo diventano dopo. E spesso fino al punto di non saper riconoscere ciò che hanno subito. Le emozioni negative e i vissuti legati alla loro condizione sono talmente difficili da accettare che le spingono a non rivelare a nessuno quello che subiscono quotidianamente. Spesso a negarlo. Per questo raramente le vittime denunciano la violenza subita ma cercano di controllare il dolore, eliminandolo o minimizzando l’intensità di quello che provano.
La sofferenza più grande sta qui, nel rimanere immobili, senza capire come mai si è portate ad accettare una situazione che non può essere tollerata.
Si è spesso cercato di comprendere per quale motivo le donne che subiscono violenza in moltissimi casi non lo denunciano e non cercano aiuto. Ma più interessante è chiedersi per quale motivo i casi di violenza «sommersi» siano così «invisibili» al contesto familiare e ancor più sottaciuti dal contesto sociale che circonda le vittime. Si tratta d’ignoranza del fenomeno, o, invece, di una sorta di accettazione sociale, in particolare quando la violenza si consuma tra le mura domestiche?
Vi è tutta una seria di pregiudizi e stereotipi che spiega perché, nonostante la grande sofferenza che vivono, le donne impieghino molto tempo a cercare una via di fuga rispetto alla situazione in cui si trovano, tanto che alcune denunciano il compagno dopo molti anni di violenze.
ISOLAMENTO PROGRESSIVO
D’altronde la costellazione di ostacoli che si ritrovano davanti è difficile da superare e non tutte possiedono le risorse necessarie (non solo quelle economiche) per intraprendere un cambiamento da affrontare in solitudine. Perché nel frattempo, infatti, le donne si ritrovano sole e senza amici, avendo subito anche un progressivo isolamento dal contesto di relazioni affettive. E più il partner ha un’identità sociale forte e gode di considerazione, più è difficile uscire dalla condizione in cui sono prigioniere, perché di fronte al consenso sociale di cui gode l’uomo, non riescono a far coincidere l’immagine pubblica del partner con quella privata. Il favore di cui gode l’uoall’esterno, nell’ambiente in cui vive, mette costantemente in dubbio la condizione di vittima della donna, esponendola a ritorsioni e al rischio di un ulteriore isolamento sociale. L’emarginazione delle vittime è il miglior alleato dei violenti, e anche se è una guerra invisibile, voltarsi dall’altra parte costituisce una responsabilità da cui nessuno è immune. Vale la pena tenerlo presente perché prima che finiate di leggere queste parole, altre dieci don-ne subiranno violenza fisica o sessuale.

l’Unità 25.11.13
Basta con gli stereotipi: la lotta alla violenza comincia così
di Mila Spicola


OGGI È LA GIORNATA MONDIALE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE. Da Duino a Lampedusa ci saranno iniziative, manifestazioni, eventi. Dovrei essere soddisfatta per come la «questione» non sia più negata, minimizzata o rimossa, come accadeva fino a pochissimo tempo fa. Rimane ormai solo Vittorio Feltri a dichiarare come un centinaio di vittime di femminicidio siano «statisticamente irrilevanti», anche lui lo è. Eppure sono perplessa perché sento che siamo pronte a un cambio di passo ma non so se il verso mi convinca più di tanto. La violenza sulle donne nasce da uno stereotipo, anzi, anche lo stereotipo lo è, un atto violento, che costringe in gabbie di ruolo uomini e donne e contro lo stereotipo non vedo prese di posizione o battaglie, vedo solo conferme, soprattutto dai mezzi di comunicazione e informazione. Parrebbe dunque che l’angolo in cui viene relegata la donna pestata dalle foto del racconto collettivo sulla violenza di genere stia diventando esso stesso stereotipo potente, capace ahimè di peggiorare le cose piuttosto che sanarle, di aprire un abisso ancor maggiore tra uomini e donne, mi viene il dubbio che dalla rimozione del problema oggi si stia arrivando a una consapevolezza errata del problema che nulla di nuovo dice sui diritti delle donne: siamo ancora alla fase donna debole da difendere? Donna in pericolo rimani a casa la sera? Stiamo equivocando una debolezza femminile tutta da dimostrare: le donne oggetto di violenza sono per lo più donne forti e autodeterminate, ed è questo che viene avversato da chi le colpisce. Il recente decreto contro il femminicidio è stato centrato più sulla tutela e la pena (necessarie, nessuno lo nega) che sulla necessaria e inderogabile prevenzione, anche e soprattutto di tipo educativo. Quando si dice educazione subito si pensa alla scuola, meno alla famiglia e meno che mai alla società intera. No, non è facile da comprendere né da praticare la lotta agli stereotipi a cominciare da noi adulti quando tutto rema contro e anche la donna pestata, in modo sottile, lo è diventato uno stereotipo. E sono stereotipi immensi la debolezza femminile e la forza maschile. Mi sembra che il racconto delle violenze sia così ossessivamente monocolore da aumentare tali stereotipi. Da ogni angolo arriva la determinazione che solo con cultura ed educazione si possono mutare linguaggi e comportamenti, perché «i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo», diceva qualcuno, eppure poco cambia. I giornali sono pieni di donne accucciate nell’angolo con l’occhi pesto e di uomini neri ripresi alle spalle, di «babysquillo» e di mamme discutibili, di donne da difendere persino dalle altre donne, molto meno di facce di criminali che hanno ammazzato le donne, da papà assenti, appunto, o da utilizzatori finali di sesso a pagamento. Eppure le statistiche ci forniscono l’incredibile numero dei 9 milioni di maschi italiani adulti che il sesso lo pagano. A prescindere dalla libertà personale e legittima, tale cifra non preoccupa nessuno? Nessuna redazione vuol metterla in prima pagina? O lo stereotipo è e rimane quello che il sesso è colpa per le donne, che lo vendono, ma tutta salute per gli uomini che lo comprano? Che la provocazione sia donna e la vittima sia il provocato? Ne parliamo? E che femminicidi, violenze, entità della prostituzione, discriminazioni di ogni genere, omofobia, sono legati da un filo sempre più stretto e visibile? E disegnano ormai non tanto una questione femminile ma un’abnorme questione maschile, un abnorme equivoco collettivo, di cui nessuno parla? Non muti tutto ciò coi decreti dei delitti e delle pene, ma con rieducazione degli adulti, non solo dei nostri figli o figlie. Siamo tutti generatori automatici di stereotipi sessisti e ci stupiamo, ci indigniamo che i ragazzi imitino? Acclamare come lecito l’uso mercificato del corpo. L’uso del corpo attiene alla libertà, vero, ma sul “mercificato” in quanti si interrogano sul serio? Eppure il corpo è sacro quanto la persona. Lo è per l’uomo allo stesso modo di quanto lo sia per la donna? Mi sembra che il corpo maschile oggi sia più sacro di quello delle donne o sbaglio? Concetti difficili da far comprendere al direttore di un quotidiano, all’amico con cui discutiamo, figurarsi a un adolescente. Cosa voglio dire? Che la lotta alla violenza di genere deve iniziare dalla lotta agli stereotipi di genere e da un confronto adulto su questi temi che ci riguardi tutti. Subito. Con ogni mezzo. Vogliamo iniziare dalle scuole? Se da qualche parte si deve iniziare, cominciamo da lì. È stata accolta dal governo l’indicazione di adottare un codice antisessismo e di rimozione degli sterotipi nei libri di testo nelle scuole, il codice Polite per il quale ci siam battute strenuamente per 20 anni. E dunque? Le case editrici lo sanno? Una circolare è stata inviata alle scuole? Una comunicazione a chi scrive i libri? Non mi pare. Cosa aspettiamo? E poi: è possibile stringere un patto sano tra stampa, tv e Paese sui temi che riguardano la comunicazione e la rappresentazione delle donne? Attenzione: nulla da imporre, ma tutto da riconsiderare. Non per limitare ma per riequilibrare un racconto sbilanciato e falsato. Il vero «problema» è l’autodeterminazione e la libertà delle donne? Qualunque sia l’ambito: professionale, culturale o sessuale. Persino sull’aggettivo libera, messo accanto a donna carichiamo equivoci e immaginari antichi, inutile negarlo. Ancora oggi la libertà delle donne è un boccone amaro per gli uomini, soprattutto quella sessuale e via via tutte le altre; altro che stereotipi, abbiamo statue di bronzo. Io dico, viva l’autodeterminazione delle donne, contro la violenza. E anche uno stereotipo lo è.

Repubblica 25.11.13
Lettera agli uomini che odiano le donne
di Cristina Comencini


Questo figlio cresce con l’idea che l’uomo non è sempre simbolo di forza, che il padre non ha l’esclusività del ponte col mondo, che non può riferirsi a lui per ogni aspetto della sua virilità nascente. Il padre gli sembra a tratti impaurito e lui tenderà a difenderlo contro la madre, prendendo così le parti di se stesso, messe a dura prova dalla sicurezza materna. Il ragazzo vede fuori casa molte ragazze che somigliano alla madre nuova che ha scoperto crescendo e non sa assolutamente come dovrà affrontarle, amarle, farci l’amore, pensa che potrebbe prendere la scorciatoia e incontrarne una più fragile o tradizionale, che si faccia guidare e proteggere da lui. E qualche volta la trova, ma non sa che anche nella più tradizionale delle donne il germe dell’autonomia conquistato dalle nuove madri è fiorito all’insaputa della ragazza. Capiterà che la ragazza si senta incerta come lui, che odi la madre nuova, con tutta la sua sicurezza vincente. E allora specularmente al ragazzo in cerca di un passato impossibile, si fingerà sottomessa, materna, unica. Una felicità fragile che si fonda su una frase fondamentale: noi non ci lasceremo mai.
E poi un giorno, lei o lui dirà la frase proibita: ti lascio. Solo che se la pronuncerà lui, lei piangerà e scriverà sul diario e ne parlerà con le amiche come nell’Ottocento. Lui invece potrebbe pensare di ucciderla, come si uccideva in duello nell’Ottocento per una donna, o farlo come avrebbe voluto qualche volta sopprimere la madre che quest’epoca gli ha dato. La violenza sulle donne — si celebra oggi la giornata mondiale contro il femminicidio — è frutto di questo nuovo, non un retaggio dell’antico. Usa forme antiche ma è del tutto nuova e legata alla libertà delle donne, delle madri, alle loro contraddizioni, al mutamento troppo lento degli uomini, dei padri di fronte a questa nuova libertà. Eppure è negli uomini, nei padri, nella loro riflessione, nella ripresa del loro ruolo centrale accanto alle donne che siamo oggi, che io penso possa compiersi la rivoluzione che le donne hanno iniziato.
Le nuove donne devono continuare a essere differenti dagli uomini e fare valere in tutti i campi la ricchezza della loro storia, della loro intelligenza, dei loro pensieri, ma devono anche cambiare nel profondo e lasciare agli uomini la loro parte di responsabilità nel nuovo mondo. I ruoli dell’uno e dell’altra, rimanendo differenti, possono sovrapporsi e prendere l’uno dall’altra. E la madre può cedere la sovranità assoluta per una libertà conquistata che apre le porte di un mondo vasto, ricco della presenza di Due diversi ma pari. E penso che il padre possa insegnare la sua nuova forza al figlio: un dominio sovrano che deve trasformarsi nell’accoglimento della differenza delle donne, della loro parità. Può insegnare al figlio a non averne paura, a parlarne, sottraendo così il dialogo sui sentimenti all’impero delle donne. Forse la nuova forza degli uomini è fatta anche del pianto di Ulisse — uomo per eccellenza — che nell’isola dei Feaci ascolta il racconto della guerra di Troia e piange, coprendosi il viso col mantello purpureo, «come donna piange lo sposo che cadde davanti alla città». Forse l’uomo può piangere ora come uomo, senza coprirsi il viso, anche davanti al figlio, e aprirsi nel racconto all’altro da sé. E le donne al contrario possono diventare più lievi, manifestare la loro imperfezione, dare ai figli la manifestazione vera di quello che sono e la possibilità di tenere testa senza violenza alle giovani donne libere che incontreranno nella loro vita adulta. Abbiamo la fortuna di vivere uno dei cambiamenti più importanti della storia, il mutamento profondo del rapporto tra i due generi, questo mutamento può cambiare il mondo e in questo nuovo mondo le donne e gli uomini possono amarsi e comprendersi molto più di prima.
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NOI donne occidentali siamo le prime madri libere dal destino della maternità: possiamo scegliere di essere donne senza figli. Nella madre antica, il primo anno di vita e quelli seguenti creavano nel bambino un’idea di donna che si prolungava nell’età adulta, in cui il destino della ragazza era quello di sposa e madre e quello dell’uomo di trovare la donna madre dei suoi figli.
Non c’era rottura, contraddizione, tranne quella che derivava dall’infelicità e dal sacrificio insiti nel destino femminile. A noi, madri nuove, viene richiesto un doppio salto mortale: dobbiamo essere pronte allo stato fisico e mentale che permette lo sviluppo del bambino, ma restiamo donne libere, ambivalenti nel desiderio di vivere pienamente il rapporto esclusivo a due col bambino ma di non esiliarci dal lavoro lasciato. Nel passaggio di testimone dalla nuova madre alla nuova figlia, la bambina ne osserva la vita: la libertà, il lavoro, la parità e comincia a cercare, a costruire la sua identità sulla nuova identità della madre. Il figlio maschio di questa nuova madre e la madre nuova di questo figlio affronteranno invece una relazione molto complessa: la sessualità, l’immaginazione, il desiderio, la sicurezza iniziano a formarsi in lui con la madre dedita dei primi mesi e dei primi anni, che si trasformerà poi davanti agli occhi intimiditi del ragazzino, in una donna forte, sicura di sé, piena di autorità, che va fuori nel mondo senza paura, concorre col padre, tiene testa agli uomini.


l’Unità 25.11.13
Rettifica

Gentile direttore,
leggo in un articolo di Rachele Gonnelli sul numero di sabato de l’Unità che mi sarei avvicinato a Renzi e allontanato da Cuperlo, con attribuzione di interpretazioni che non riconosco come mie. In particolare, se nei giorni scorsi ho litigato con Cuperlo, questo non vuol dire che io mi accordi con Renzi, anzi.
Cordiali saluti.
Giuseppe Civati
Nel mio articolo avevo scritto che Civati «in qualche modo si è riavvicinato a Renzi» senza «alcun ticket» e mantenendo critiche «dure». Prendo atto: non si è ravvicinato in nessun modo.

La Stampa 25.11.13
Il paradosso del partito di lotta e di governo
Tre modelli a confronto uniti solo dalle critiche all’esecutivo
di Federico Geremicca


I malumori dopo l’8 potrebbero rientrare, la sorpresa è che ora anche Cuperlo attacca
Cercare le elezioni in primavera con un partito spaccato

Ognuno dei tre lo ha fatto a modo suo, cioè con maggior o minor nettezzaMa è certamente un inedito paradosso quello andato in scena ieri a Roma alla Convenzione del Partito democratico.
Infatti, candidandosi alla guida del Pd, tutti e tre gli aspiranti segretari (Renzi, Cuperlo e Civati) hanno vistosamente strattonato il governo presieduto da Enrico Letta e del quale proprio il Partito democratico è l’azionista di maggioranza. Un paradosso inedito, certo, ma non inspiegabile: e ancora frutto in piena evidenza dell’onda lunga della delusione provocata dal voto del 24-25 febbraio, arrivata dalla periferia del partito fino al vertice.
Benchè non inattesa, non si tratta di una buona notizia per Enrico Letta, impegnato a far quadrare conti ed equilibri politici sempre più traballanti. E se il premier poteva aspettarsi l’affondo di Matteo Renzi («Il governo sia efficace nelle scelte di politica economica e nelle riforme istituzionali, altrimenti le larghe intese diventano solo il passatempo per superare il semestre europeo») e il giudizio tranchant di Civati («Fatta la legge elettorale l’anno prossimo si può tornare a votare»), forse non si attendeva analoga posizione da parte di Gianni Cuperlo («Il governo non ha più alibi, e deve scuotere l’albero perché i frutti cadano a terra»).
Un paradosso, dunque, che affonda le proprie radici ancora nello choc per la mancata vittoria elettorale di inizio anno e nella delusione per la nascita di un governo più subito che scelto: ma un paradosso che il futuro gruppo dirigente del Pd farebbe bene ad affrontare (finalmente) prima che produca effetti che potrebbero andare anche oltre una già grave e temuta crisi di governo. Le critiche e le riserve avanzate ieri dai tre candidati segretari alle larghe intese e all’esecutivo in carica, sono infatti l’inevitabile proiezione degli umori che circolano tra iscritti ed elettori, ai quali Renzi, Cuperlo e Civati stanno chiedendo il voto: e potrebbero, dunque, rientrare o affievolirsi una volta conclusa la competizione. Ma nel partito, intanto, si vanno scavando solchi profondi che a lungo andare rischiano di diventare baratri non più colmabili.
Se ne è avuta una prova, ieri, col durissimo scambio di contestazioni andato in scena tra Cuperlo e Renzi. L’aspro faccia a faccia, se vogliamo chiamarlo così, ha riguardato i rispettivi programmi per rimettere l’Italia sui binari della crescita e l’idea stessa di partito che i due candidati coltivano e propongono. Basti citare l’accusa, velenosissi-
ma, che Cuperlo e Renzi si sono rimpallati: «Noi non siamo il volto buono della destra, noi siamo la sinistra», ha ammonito il candidato sostenuto da Bersani e D’Alema; «Cuperlo ha ragione ha replicato il sindaco di Firenze ma non dobbiamo nemmeno essere il volto peggiore della sinistra». Si fronteggiano, insomma, due idee praticamente opposte di partito, con tutto quel che ne segue (e in termini di programmi, politica delle alleanze e natura stessa del Pd.
In una fase di caotico riassestamento del sistema politico, con scissioni laceranti che hanno già riguardato due dei tre partiti impegnati nelle larghe intese (Scelta Civica e Pdl) l’idea che anche il Pd possa esser travolto dalle sue divisioni, non solo non appare più un’ipotesi di scuola come poteva essere ancora qualche mese fa ma perfino una via percorribile senza troppo «scandalo», considerata la fase. È evidente che la circostanza sarebbe esiziale per un partito nato come alfiere del bipolarismo, sull’onda di una dichiarata «vocazione maggioritaria»: ma al punto cui è giunto il dibattito interno al Pd e alla luce di quel che va accadendo tutt’intorno sottovalutare la possibilità di un esito traumatico dello scontro in corso, sarebbe un errore gravissimo.E così, tra le eredità che riceverà in dono il futuro leader del Pd, c’è anche questa: la necessità di tenere assieme un partito segnato da profonde divisioni politiche, rancori personali e voglia quel che ne segue (e in termini di programmi, politica delle alleanze e natura stessa del Pd.
In una fase di caotico riassestamento del sistema politico, con scissioni laceranti che hanno già riguardato due dei tre partiti impegnati nelle larghe intese (Scelta Civica e Pdl) l’idea che anche il Pd possa esser travolto dalle sue divisioni, non solo non appare più un’ipotesi di scuola come poteva essere ancora qualche mese fa ma perfino una via percorribile senza troppo «scandalo», considerata la fase. È evidente che la circostanza sarebbe esiziale per un partito nato come alfiere del bipolarismo, sull’onda di una dichiarata «vocazione maggioritaria»: ma al punto cui è giunto il dibattito interno al Pd e alla luce di quel che va accadendo tutt’intorno sottovalutare la possibilità di un esito traumatico dello scontro in corso, sarebbe un errore gravissimo.

Repubblica 25.11.13
La sinistra rottamata
Matteo stile-Blair e Gianni il rosso due mondi opposti costretti a convivere
E alla Convenzione effetto-rottamazione: spariti big della vecchia guardia
di Curzio Maltese


LA DOMENICA delle palme del messia Matteo Renzi s’è chiusa con una standing ovation della platea dell’Ergife. Il successo si misura da chi c’era, ma soprattutto dachi non c’era.
NON c’era in pratica l’intero gruppo dirigente del centrosinistra nella seconda repubblica. Non c’erano D’Alema e Veltroni, Bersani e Marini, Bindi e Finocchiaro, Fioroni e Zanda e il resto della nomenclatura. Si sono rottamati da soli, pur di non assistere al trionfo annunciato del sindaco. Non era mai accaduto in vent’anni, in nessuna manifestazione pubblica. Ed è questo che colpisce, prima e dopo i discorsi. I candidati hanno seguito tutti un copione noto e sono stati in questo molto bravi tutti, compreso l’escluso Pittella. Renzi doveva dosare un discorso da piazza televisiva con l’esigenza di conquistare laplatea dei funzionari e l’ha fatto con maestria: la convenzione (o la circonvenzione) del Pd gli è riuscita benissimo. Gianni Cuperlo si è confermato per quello che è, la versione più nobile e intelligente della declinante sinistra europea, dunque può promettere al popolo suo soltanto una sconfitta bella. Pippo Civati è ormai scientifico nel citare uno per uno i temi che appassionano gli utenti della rete, non poco per un partito incapace di farsi ascoltare dai quarantenni in giù.
Ma alla fine eravamo venuti tutti qui per capire cosa Renzi farà dal 9 dicembre di una vittoria che ha già in tasca e la risposta l’abbiamo avuta. Renzi continuerà a fare Renzi. Il Rottamatore manderà a casa l’intero gruppo dirigente e insieme a quello il governo delle larghe intese, meglio se subito, in modo da votare a primavera, con qualsiasilegge elettorale. Non farà il segretario del Pd, che è un mestiere impossibile. Chiunque vi abbia provato ne è uscito con le ossa rotte. Ma il giovane Renzi ha capito che nel Pd si passa in fretta dalla domenica delle palme direttamente al calvario e dunque non finirà come Veltroni e Bersani. Si manterrà lontano dal Palazzo, a fare il sindaco diFirenze, verrà a Roma una volta alla settimana per tranquillizzare Letta e per gli altri sei giorni sparerà a palle incatenate contro il governo delle larghe intese. Peraltro, non è il solo. Nella giornata di ieri, se proprio si deve trovare un punto in comune fra i discorsi dei tre candidati alla segreteria del Pd, distanti anni luce, questo è l’ostilità nei confronti di un governo incapace di far accadere cose nuove. A sinistra è cominciato l’inverno dello scontento.
Per il resto, la distanza fra i due principali competitori, Renzi e Cuperlo è davvero abissale e inedita. Alfano e Berlusconi dicono le stesse cose e il Pdl si è diviso. Veltroni e D’Alema si odiavano fin dall’adolescenza, ma venivano da un ceppo comune. Renzi e Cuperlo non si odiano (anzi c’è perfino una carezza del deputato al sindaco nel saluto all’arrivo) perché non ne hanno bisogno, incarnano giù due mondi opposti, nell’antropologia prima che nell’ideologia. Non è soltanto questione di stile, linguaggio o banalmente di look, jeans contro completo scuro. Il sindaco di Firenze è il nostro Blair, in ritardo di qualche decennio. L’analogia fra la biografia, i discorsi, le parole d’ordine, le circostanze è impressionante. Nel ’93 un Blair coetaneo del Renzi di oggi si prese il vecchio Labour con un discorso assai simile a quello ascoltato all’Ergife e concluso con l’appello a concentrare la campagna elettorale sulla scuola. Gianni Cuperlo incarna i valori del socialismo classico, una storia lunga. Scrive meglio di quanto parli, come i leader di una volta, e il suo documento congressuale è uno dei migliori mai letti. E’ un autentico figlio del popolo, per quanto non ne abbia l’aria, e di conseguenza disprezza ogni forma di populismo. Il suo problema è che in Italia nessuno legge nulla, tantomeno i documenti politici, e il paese va pazzo per i miliardari populisti.
La peggiore e dunque più probabile delle ipotesi è che questi due mondi vadano alla rottura e alla scissione dopo l’8 dicembre. La migliore è che trovino un accordo, in vista di una missione storica che è più importante di Renzi, di Cuperlo, di Civati, della segreteria del Pd,del governo Letta e di tutti noi: la sconfitta politica del berlusconismo, nelle urne e non nelle aule di giustizia. Quella sconfitta che cambierebbe davvero il verso al Paese e ci restituirebbe un futuro. Ma sono in pochi a crederci e nessuno della vecchia guardia che ha disertato la giornata di ieri. Soltanto uno, Dario Franceschini, che si è accollato il compito di mediare fin tanto che sarà possibile fra la voglia di spaccare tutto del nostro novello Blair fiorentino e la volontà di conservare tutto della nomenclatura, ma anche lui, all’uscita dalla sala della convenzione, appare meno convinto. L’inverno dello scontento della sinistra rischia di non diventare mai un’estate sfolgorante, come da citazione, ma di prolungarsi all’infinito, nell’esercizio di un cinismo spicciolo che ripugnerebbe perfino al vero Riccardo III.

Repubblica 25.11.13
Cacciari: “Diciamo la verità: se il sindaco diventerà segretario metterà in difficoltà l’esecutivo e lo stesso partito”
“Il Pd doveva dividersi, ma ormai è troppo tardi”
intervista di Andrea Montanari


MILANO — Massimo Cacciari, il Pd si rinnoverà con la sfida dei tre candidati ammessi alle primarie?
«Non è una questione di età. Il cambio generazionale è ormai inevitabile. Nel centrosinistra come del resto nel centrodestra. Mi pare che alla fine Renzi, Cuperlo e Civati non dicano cose molto diverse. Tutti e tre devono dire che le riforme sono necessarie, che bisogna ridurre la spesa pubblica, i costi della burocrazia. La vera questione non sono i programmi».
Cuperlo polemizza con Renzi e dice che il partito non rappresenta il volto buono della destra.
«Cosa vuol dire? Il problema non è la divisione tra destra e sinistra. È chiaro che Renzi gioca per la premiership ed è stato obbligato a passare da queste primarie. Sa benissimo che in realtà non potrà fare tutte le cose che dice. Il suo compito dovrebbe essere quello di traghettare questo governo al semestre europeo senza peggiorare la situazione. Ma diciamolo una buona volta senza ipocrisie. Se Renzi diventerà segretario del Pd metterà in difficoltà il governo Letta e lo stesso Pd. La parte del responsabile la sta facendo il presidentedel Consiglio non Renzi».
Renzi, però, ieri ha ribadito che il governo con lui dovrà cambiare rotta.
«Lo dice ora, ma dubito molto che in questo caso la classe dirigente del Pd gli lascerebbe continuare a fare il segretario. Il vero problema è che il Pd è fallito, anzi non è mai nato. Lo sanno benissimo sia D’Alema, Veltroni, Renzi, Cuperlo e Civati. Tutti però devono continuare a fingere di non saperlo perché il partito non sarebbe in grado di fare una separazione consensuale. Se il Pd si sfascia adesso è un disastro per tutti. A cominciare dal governo. E questo sfascio rischia di pagarlo alle prossime elezioni».
Perché?
«Basta vedere quello che sta succedendo nel centrodestra dove, invece, sta avvenendo proprio quel divorzio consensuale che avrebbe dovuto fare il Pd. Alle prossime elezioni il centrodestra sarà composto dai berlusconiani guidati magari da una figlia del Cavaliere, gli alfaniani, la Lega e gli ex missini. Dall’altra parte, invece, ci sarà un solo partito e in più sfasciato ».
C’è tempo per rimediare?
«No. Bisognava farlo prima. Il Pd doveva dividersi tra la sua componente ex democristiana e quella più di sinistra. Ma in questo momento non può farlo».
Renzi ripete che con lui segretario del Pd la Cancellieri si
sarebbe dovuta dimettere
«Anche questa è stata una frase strumentale. Che la Cancellieri avrebbe dovuto dimettersi è fuori discussione, ma Renzi non può dire se fossi al posto di Letta la farei dimettere. Non dimentichiamo che c’era chi aveva proposto la Cancellieri tra i candidati per la presidenza della Repubblica. La verità è che Renzi vorrebbe andare subito al voto».
Andrà così?
«Se una volta segretario del Pd sarà coerente con quello che dice oggi prevedo che il partito andrà in fibrillazione e il governo pure. Ma non lo credo. Oltretutto è vero che ormai siamo il paese del carnevale perpetuo, ma qualcuno dovrebbe pur chiedersi seriamente come farà mai Renzi a fare contemporaneamente il segretario del Pd e il sindaco di Firenze»?

Repubblica 25.11.13
Salerno, tra gli iscritti al partito pregiudicati e uomini vicini alla camorra

SALERNO — Pregiudicati. Anche per gravi reati. E iscritti (di recente) al Pd di Salerno. È caccia ai “possessori sospetti” di tessere. È il salto di qualità che potrebbe registrare l’inchiesta del pm antimafia Vincenzo Montemurro. Decine di nomi segnati in rosso: donne e uomini iscritti al Pd, soprattutto nei circoli della città, che avrebbero procedimenti in corso o che apparterrebbero a famiglie di camorra del salernitano. Intanto il caso Salerno, con l’indagine della Dda, surriscalda lo scontro tra Cuperlo e Renzi. Non si esclude, proprio per non incidere sulla corsa del sindaco di Firenze, che il suo “collega” di Salerno e viceministro, De Luca, possa decidere entro la settimana di dimettersi dalla carica di primo cittadino.

La Stampa 25.11.13
Immigrati, un egoismo razionale
di Giovanna Zincone


Molti degli italiani che guardano all’immigrazione con ostilità sono mossi da sentimenti egoistici, dal timore di essere privati di qualcosa. Si tratta tuttavia di un egoismo incapace di valutare razionalmente cosa giovi ai propri interessi, al benessere del sistema economico italiano. Cito tre dati elementari, riportati nel Dossier Statistico Immigrazione 2013 a cura dell’Unar (Ufficio Nazionale contro le Discriminazioni Razziali): gli immigrati rappresentano il 7,4% dei residenti in Italia, il 10% degli occupati, il 7,8% delle imprese.
Significano quindi consumi, realtà produttive, servizi, in particolare servizi alle famiglie. Va ricordato però a tutti noi che gli immigrati non sono un fattore qualunque, sono persone. Possono evolvere, stare meglio, far stare meglio il paese in cui tutti viviamo. O, al contrario, possono precipitare in gravi difficoltà, non aiutarci a contrastare il declino, costituire anzi un problema in più.
Se adottiamo un’attitudine egoistica nei confronti della immigrazione, facciamo almeno in modo che si tratti di un egoismo razionale. Ci occuperemo così con discernimento del futuro italiano in genere. Faccio qualche esempio. Siamo un popolo di vecchi e gli immigrati stanno dando una mano a ringiovanire la nostra popolazione: i figli di stranieri rappresentano nel 2012 quasi il 15% dei nuovi nati. Tuttavia, l’esperienza dei paesi di antica immigrazione insegna che le famiglie di origine immigrata, con il tempo, si assimilano a quelle autoctone. E fare figli in Italia non conviene. Nel nostro Paese, infatti, sono proprio le famiglie numerose che corrono maggiori rischi di povertà, e tra gli immigrati le famiglie povere sono più del doppio di quelle italiane. Sono quindi scarse le speranze che gli immigrati ci aiutino in futuro a essere meno senili, se non cambiamo rotta. L’Italia usa solo l’1,1% della proprio bilancio per le famiglie e i minori: in Europa solo Grecia e Lettonia fanno peggio. Parlamento e Governo si sono impegnati a fare di più, vedremo.
Un altro aspetto sul quale l’immigrazione può incidere in positivo o in negativo a seconda delle politiche adottate è il capitale umano, le competenze di cui l’Italia può disporre. Non basta che ci siano più bambini, occorre che siano meglio istruiti che proseguano negli studi, acquisendo da adulti gli strumenti necessari a interagire con le complessità del presente e del prossimo futuro. Secondo l’ ultima classifica dell’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), gli studenti del nostro Paese non ottengono buoni risultati neppure nella scuola primaria, in un punteggio che va da 0 a 500 raggiungiamo 235 punti nelle competenze linguistiche (11 in meno della media dei paesi avanzati) e 229 in quelle numeriche (8 in meno). Sulle capacità reali è un disastro: siamo ultimi per comprensione dei testi, penultimi sia in matematica, sia per capacità di cavarsela con le nuove tecnologie. Non solo non impariamo abbastanza, ma restiamo pure indietro per livelli di istruzione raggiunti. Nel 2011 l’Italia si colloca all’ultima posizione nella graduatoria dell’Unione Europea, per numero di giovani tra i 30 e i 34 anni che hanno una laurea o un titolo equivalente. Il nostro 20,1% è un valore inferiore di oltre 14 punti rispetto alla media Ue a 27 e ben lontano dall’obiettivo del 40% indicato da «Europa 2020». La Spagna, ad esempio, l’ha già raggiunto. Come se non bastasse esportiamo capitale umano: tra coloro che hanno lasciato l’Italia nel 2011, il 22% ha una laurea, il 24% è iscritto all’università.
Può aiutarci l’immigrazione a fare meglio? Per ora no. Nel 2011 tra i residenti di età compresa tra i 15 i 64 anni i laureati sono il 9% degli immigrati e il 13% degli italiani. Per i paesi da cui provengono quei laureati rappresentano una risorsa preziosa, che da noi però va sprecata. Il 61% dei lavoratori stranieri svolge un lavoro inferiore alla sua qualifica, La scarsa capacità di attrarre immigrati molto istruiti, la sotto utilizzazione dei qualificati si deve al fatto che il nostro sistema economico è a sua volta arretrato, prevede cioè una notevole quantità di mansioni per le quali non chiediamo alti livelli di istruzione:pensiamo all’esercito delle badanti e delle colf straniere. Attrarre immigrati molto qualificati in Italia quindi è difficile. Se vogliamo che arrivi un maggior numero di bravi, serve un sistema economico più ambizioso. Ma il circolo virtuoso si può avviare anche all’incontrario: quelle stesse desiderabili produzioni sofisticate che attraggono i bravi lavoratori sono a loro volta attratte da bacini dove si concentra forza lavoro molto qualificata. Quindi produrre bravi lavoratori in Italia può aiutare a spezzare il cerchio. Già oggi alcune Università e politecnici italiani producono e attraggono ottimi studenti. Bisogna agire in modo che il fenomeno si espanda e si consolidi. Bisogna fare sì che quegli studenti stranieri si fermino. È stato utile aver semplificato i rinnovi dei permessi di soggiorno per motivi di studio, aver prolungato di un anno il permesso per trovare lavoro a studi conclusi, è bene incoraggiare le Università a togliere il requisito della cittadinanza per le borse di studio, è bene aver semplificato la procedura di riconoscimento dei titoli di studio ottenuti all’estero. Ma è tutto il nostro sistema di istruzione che ha bisogno di profonde riforme, ce lo hanno ricordato in tempi recenti i Ministri Giovannini e Carrozza, il Governatore Visco. La strada da seguire è nota: cominciare ai insegnare ai molto piccoli, quando si costruiscono le basi logiche e linguistiche, investire sulla qualità degli insegnanti. La ricetta va adottata a maggior ragione per gli studenti di origine immigrata.
Quelli nati in Italia se la cavano più o meno come gli italiani, lo scarto è piccolo. Questo non significa che su di loro, come su tutti i piccoli studenti in difficoltà a causa del contesto, non si debba intervenire tempestivamente. Una strategia intelligente è quella già adottata: investire nei nidi e nelle materne dove sia il disagio economico, sia gli insuccessi e gli abbandoni scolastici sono più frequenti, utilizzando allo scopo anche i fondi europei disponibili. Se vogliamo contrastare lo svantaggio culturale, non basta includere però le quattro regioni meridionali incluse nell’obiettivo convergenza dell’Unione Europea, non dobbiamo dimenticare le zone degradate di tante città del Nord, dove risiedono pure famiglie immigrate. Non dobbiamo trascurare questo aspetto cruciale nella ricostruzione della massacrata Sardegna, che soffre da tempo di un svantaggio educativo.
Per gli studenti di famiglie immigrate lo svantaggio rispetto ai nazionali aumenta se non sono nati in Italia: crescono i ritardi e gli abbandoni scolastici, peggiorano i voti. Volendo affrontare questo problema ci si scontra però con un’altra categoria di persone: gli altruisti irrazionali. Lo abbiamo visto anche di recente quando in una scuola media di Bologna si è riproposta la soluzione di una classe riservata a studenti stranieri che non conoscono ancora abbastanza l’italiano. Le classi di inserimento ci sono in tutta Europa e nessuno si lamenta. Anzi, se vogliamo aiutare i ragazzi a integrarsi, possiamo cominciare a farlo nei paesi di origine, con quelli in attesa di ricongiungimento familiare. Dovremmo investire nell’insegnamento a distanza, con strumenti telematici. Questo abbasserebbe i costi e consentirebbe di utilizzare su bacini di utenti più ampi insegnanti specializzati per varie fasce di età nell’ italiano come seconda lingua. Un po’ più di altruismo razionale, meno ideologico gioverebbe in generale al nostro Paese.


il Fatto 25.11.13
Roma
I lavoratori bloccano l’Opera di Muti

Nessuna prima per l’Opera di Roma. I lavoratori hanno deciso lo sciopero, contro l’ipotesi di commissariamento, annullando così l’”Ernani” che, mercoledì, avrebbe dovuto dirigere Riccardo Muti. Oggi sono stato di nuovo convocati dalla direzione del testro.
Lo sciopero, i rappresentanti dei lavoratori lo avevano annunciato già venerdì, al termine di una singolare manifestazione in Campidoglio - con tanto di concerto ed esecuzione di brani d’opera sotto la statua del Marc’Aurelio. In quell’occasione avevano anche avuto un incontro in Comune senza esito

Repubblica 25.11.13
Il Maestro ha diretto ieri la generale di “Ernani” che mercoledì dovrebbe aprire la stagione a Roma. Ma i sindacati hanno proclamato lo stato di agitazione
Opera nel caos Muti: “Abbiamo fatto un buon lavoro spero che ora non venga fermato”
intervista di Anna Bandettini


ROMA Gli applausi senza riserve alla generale di Ernani, ieri, sono la prova che la musica vive su un’isola intoccata, qualsiasi cosa succeda intorno. E intorno, all’Opera di Roma, c’è un gran caos dopo lo sciopero proclamato sempre ieri da una ottantina di lavoratori su 480 perchè non ci sono soldi per gli stipendi. Se confermato, verrebbe cancellata la “prima” di mercoledì (era anche annunciato in sala il presidente Napolitano) che inaugura una stagione già tesa e le repliche successive. Ma nulla è sicuro: fervono trattative per l’agognata pacificazione e «se il sindaco ci incontra, torniamo al lavoro», dicono i sindacati. Nel clima pesante e concitato, a dare fiducia è l’impegno, il magnetismo di Riccardo Muti, il suo lavoro, ancora ieri puntiglioso, serio con l'orchestra e il coro che giurano e spergiurano di non voler fare nulla contro “il nostro maestro”. «Anch’io mi auguro che non succeda nulla che possa fermare la fase di crescita intrapresa con loro», ha dichiarato il maestro, prima che lo sciopero fosse proclamato.
La preoccupa questa situazione di incertezza del teatro?
«Mi preoccupa se venisse interrotto il lavoro che abbiamo fatto finora. Con l’orchestra e il coro abbiamo lavorato bene in questi tre anni. L’orchestra ha raggiunto una sua identità e parlo di timbro, intonazione, colore del suono che non si inventa, è frutto di un lavoro. Ecco, se questo lavoro si fermasse, sarebbe un delitto per Roma».
Ma cosa potrebbe fermarlo? Nei giorni scorsi si era parlato di commissariamento, o forse no. Lei quale situazione auspica per il Teatro dell’Opera?
«Non sta a me trovare soluzioni. Certo, constato amaramente che in Italia le fondazioni liriche sono ciclicamente esposte a fasi di crisi per gli scarsi investimenti. Bisognerebbe coinvolgere di più i privati ».
E lei? Non è che potrebbe decidere di lasciare?
«Qui a Roma sono venuto chiamato per la prima volta da Veltroni. “Dammi una mano per risollevare il teatro”, mi disse. E questo ho fatto, credo. Certo, se non riuscissi più a lavorare bene come è stato finora potrei riconsiderare il mio ruolo qui. Ma sono fiducioso. E la musica farà la sua parte».
Non tutto è scongiurato: eseguire l’Ernani sarebbe un bel sigillo all’anno verdiano.
«Manca dall’Opera da 25 anni. Io stesso l’ho fatta una volta sola nell’82 per un 7 dicembre alla Scala prima che ne diventassi direttore nell’86. Ha bellissime pagine da melomani, a cominciare dal celebre “Si ridesti il leon di Castiglia”. Ma è un’opera difficile dal punto di vista vocale. A me piace perché è la prima dove Verdi si allontana dall’opera oratoriale, come Nabucco,e avvia quello scavo psicologico dei personaggi che porterà aTraviata, Rigolettoe le grandi opere. Mi commuove sempre quando penso che una persona come Verdi ebbe un filo diretto e profondo con la grande letteratura, Hugo, Shakespeare... elevandola a livelli universali con la musica, pur essendo rimasto un provinciale, un contadino, uno col fuoco dentro. Questa è l'italianità di Verdi che amo. Quando mette in musica espressioni del nostro parlato e racconta passioni, gelosie... Più lo studio più vedo Verdi nei personaggi di Verdi, maschi e femmine ».
Che giudizio dà di questo anno verdiano?
«Mah, si sono fatte più opere di Verdi ma nessuno si è posto il problema dell’esecuzione. La scrittura verdiana ha una precisione scientifica, invece ancora sento cantanti o direttori che eseguendo Verdi dicono 'io lo sento così' . Ma che senti?? Si fa di Verdi carne da macello, si fa ciò che non è permesso con Mozart, Strauss, Wagner: taglia qui, aggiungi lì... Perché? Perché come dice Alberto Sordi nel filmMi permette babbo? “si è sempre fattocosì”. Frase mortale».
E allora come si fa?
«Io non posseggo la verità verdiana ma mi riconosco di essermi dedicato a Verdi attraverso Mozart, cioè attraverso il rispetto per la musica. Ho lottato per ricondurre Verdi alla nobiltà italica dei Michelangelo, Brunelleschi, Dante, Manzoni... Lui stesso ha combattuto tutta la vita perchè non gli cambiassero note e parole, ognuna pensata meditata per un preciso scopo drammaturgico. Se “La donna è mobile”diventa un ritornello hai perduto l'effetto della canzonaccia cantata dal duca nella taverna di Sparafucile ».
Ma così è diventato popolare.
«Popolare è una bellissima parola, ma anche pericolosa. Tutti vorremmo essere popolari ma se questo vuol dire porchetta, lambrusco e coro, no. Il pop non è approssimazione. E figuriamoci Verdi».
Lei l’ascolta la musica pop?
«Non ho molto tempo per farlo. E oggi mi pare che il pop vada versol'estrema semplificazione, con frasi musicali al limite della banalità, del soporifero. Mi piace, e dirà che sono antico, Sergio Bruni per la finezza, perché sussurrava e non urlava proprio come deve essere eseguita la canzone napoletana. Diciamo che quando ho tempo, ascolto per imparare».
Imparare? E da chi?
«Dai grandi direttori. Ricordo un'ottava di Bruckner con von Karajan, ilLied von der Erde con Christa Ludwig, cose inarrivabili. Anche se, diceva Carlos Kleiber, si impara più da una pessima esecuzione perché per caso ci sono due battute venute bene e sono illuminanti».
Se non ci fosse la musica nella sua vita cosa ci sarebbe?
«Me ne starei in Puglia a coltivare erbe pugliesi. Non mi sono mai abituato al mondo della ribalta: alberghi, viaggi, cene... Sono più un animale da casa, io. Ho forzato la mia natura in questi quasi 50 anni di attività. È come se vivessi una perenne frizione tra quello che sono dentro e quello sono fuori. Dice che il risultato è ottimo? Non me lo spiego».

il Fatto 25.11.13
L’Italia è un museo Ma ancora non lo sa
Uno dei più grandi patrimoni al mondo, un tesoro da cui ricavare cultura, crescita, profitto. Ma che resta ancora dimenticato
Pompei si sfarina. Gli Uffizi sono snobbati dai fiorentini. A Roma ci si perde nel buio della periferia
Il confronto con la Francia ci uccide
di Sara Frangini, Vincenzo Iurillo e Mario Molinari


Il Colosseo sempre primo in classifica
I MUSEI PIÙ VISITATI IN ITALIA sono all’aperto. Al primo posto nella classifica redatta dal Ministero per le Attività culturali, infatti, c’è il “Circuito archeologico Colosseo, Foro romano, Palatino) che ha totalizzato nel 2012 5,2 milioni di visitatori per 37,4 milioni di introiti. Al secondo posto, Pompei: 2,3 milioni di visitatori e 19,1 milioni di incasso. Per entrare al chiuso occorre spostarsi a Firenze, agli Uffizi: 1,7 milioni per 8,7 milioni di entrate. Seguono poi la Galleria dell’Accademia, ancora a Firenze (1,2 milioni di visitatori), Castel Sant’Angelo (900 mila) il circuito fiorentino degli Argenti, Boboli e Galleria del Costume (607 mila), la Reggia di Caserta (531 mila) e, infine, il Museo Egizio di Torino (495 mila), la Galleria Borghese (494 mila) e il Cenacolo Vinciano a Milano (407 mila).
SCARSA AFFLUENZA Il dato si riferisce a Musei, Aree archeologiche e complessi museali. Nel 2011 erano più di 40 milioni. Nel 2010 erano invece 37 milioni. Gli incassi complessivi nel 2012 sono stati 113,3 milioni. SETTORE FERMO Le visite ai musei in senso stretto (escluse aree archeologiche e circuiti) si sono ridotte rispetto al 2002. Da 10,5 milioni a poco più di 10 milioni. Immutati gli incassi complessivi: circa 30 milioni. ORGANIZZARE RENDE A reggere il settore ci sono i circuiti organizzati che hanno visto quasi raddoppiare l’afflusso di visite e di incassi. Dai 24,9 milioni del 2002 si passa a quasi 50 milioni nel 2012.

L’Italia è terra di cultura. E di bellezze. I musei dovrebbero esserne i custodi elettivi. Eppure le visite complessive sono sempre più rarefatte. Quelle nei musei in senso stretto, in un anno, sono paragonabili al solo Louvre di Parigi. Rispetto a dieci anni fa il numero è addirittura diminuito. Se non ci fossero i parchi archeologici, Foro romano e Pompei, il saldo sarebbe ancora peggiore. Si salvano i circuiti museali, le strutture pensate e organizzate. Segno che con una politica mirata si può crescere. E anche guadagnare. Ma andare per musei è ancora una fatica, una delusione. A volte una gimkana. Come quella che questa settimana ha fatto il nostro “signor Rossi”.
A Pompei piove. Piove ininterrottamente. E si legge il terrore negli occhi. Della bigliettaia, delle guide turistiche, dei turisti in k-way giallo che parlano lingue esotiche. Negli Scavi si respira la paura che un patrimonio archeologico senza uguali possa continuare a sfarinarsi sotto l’acqua e il vento dei mesi brutti. Novembre 2013, piove sotto un cielo chiuso da nuvole grigie, fa un freddo boia e di conseguenza non c’è quasi nessuno. Un gruppo di giapponesi, qualche spagnolo, una scolaresca. Non c’è calca, non c’è fila. C’è, ma quello è indelebile, il ricordo del novembre di tre anni fa, quando al termine di un paio di giorni di pioggia crollò con grande rumore la Domus dei Gladiatori e con essa la credibilità del nostro paese nel mondo, lasciata in balìa degli estri del ministro poeta Sandro Bondi. Una ferita mai cicatrizzata, la paura è entrata nel dna del luogo. Da allora, alcuni ulteriori piccoli cedimenti di siti minori e chiusi al pubblico, il Grande Progetto Pompei da 105 milioni di euro per restaurare e mettere in sicurezza decine di domus entro il 2015, due nuovi governi e due ispezioni della Dia a caccia di infiltrazioni camorristiche negli appalti.
La pioggia di Pompei
Piove. Piove ininterrottamente. E si forma, e scorre forte, un fiumiciattolo d’acqua sulla salita del sentiero d’ingresso degli Scavi. Costellati qua e là da transenne, cartelli di divieto e di lavori in corso. Precarietà. Disagio. Senso di smarrimento. Il gazebo delle guide turistiche, all’ingresso di Villa dei Misteri, è vuoto. Non bisogna meravigliarsi. È bassissima stagione. Il trenino della Circumvesuviana, che nei mesi caldi trasporta verso Pompei migliaia di turisti provenienti dagli alberghi della costiera sorrentina e amalfitana, è praticamente vuoto. Non è un veicolo affidabile al cento per cento. Il ministro Massimo Bray, che da Napoli lo utilizzò in incognito il giorno dopo la nomina proprio per recarsi agli Scavi, dovette abbandonarlo in fretta e furia a causa di un’avaria. E farsi scortare per raggiungere la destinazione.
Piove. Piove ininterrottamente. Una guida racconta a quattro turisti italiani che nella Pompei antica non esistevano le fogne. L’Anfiteatro è una pozza. Sbucano due cani enormi, che si dissetano nelle pozzanghere mentre un professore dall’accento emiliano tiene la sua lezione a una trentina di studenti. I cani sembrano senza padrone. Viene in mente che grazie al progetto Cave canem, finanziato dal ministero durante la stagione allegra dei commissariati straordinari, prima che un’inchiesta della Procura di Torre Annunziata svelasse l’andazzo, fu commissionato un censimento dei randagi ospiti negli Scavi, finalizzato all’adozione degli animali. Risultato: 55 randagi censiti, 26 adottati e oltre 100 mila euro spesi. Quasi 4.000 euro di soldi pubblici per ogni cane affidato. I randagi nel frattempo hanno continuato ad azzannare i turisti: nel maggio orribile del 2011, furono morsi il custode, una signora veneta, un accompagnatore turistico tedesco.
Piove. Piove ininterrottamente. Ci sono cartelli di lavori in corso che spiegano bene come vanno le cose. L’allestimento espositivo della Palestra Grande è iniziato nel febbraio 2010 e doveva concludersi “il 19 dicembre 2010”. Un residuo del disciolto commissariato retto dall’indagato Marcello Fiori. Piove. Piove ininterrottamente. All’uscita si ascolta una guida dai capelli bianchi cantare una vecchia canzone napoletana: “Torna, sta casa aspetta ‘a te. Torna, che smania ‘e te vedè”. Dietro di noi, l’ultima notizia: un tetto di circa 10 metri quadrati, in travi di legno e tegole di terracotta, all'interno della Casa dell'Atrio Corinzio, è crollato. Forse, si dice, a causa delle forti piogge.
La fila degli Uffizi
Anche gli Uffizi sono vuoti. Ma solo di cittadini fiorentini. I capolavori li trovi uno dietro l’altro, senza sosta: rarità, opere preziose, pezzi unici. E capisci perché le sale e i corridoi sono affollati da visitatori che arrivano da ogni angolo del mondo. Eppure manca qualcosa, ed è un’assenza pesante. Non c’è l’ombra di un fiorentino, nemmeno uno. Non è un caso se solo dopo quindici sale, si riesca a trovare qualcuno che parli in italiano.
Tra visitatori irrequieti, avidi di bellezza, sale piene zeppe di opere meravigliose, gli Uffizi raccontano molto altro. Svelano una meraviglia di Firenze vissuta solo da chi abita la città per pochi giorni, o per una manciata di ore: turisti stranieri, scolaresche rumorose, gruppi che sembrano reduci da un pellegrinaggio. Il museo è lo specchio di chi affolla il centro, di chi riempie le strade che un tempo erano dei fiorentini: gli stessi che oggi si tengono a debita distanza. Proprio come i monumenti e le piazze della loro città, gli Uffizi sono a due passi da loro, che scelgono di evitare quel posto caotico ed estraneo alla vita di ogni giorno. Dover pagare l'ingresso non aiuta. Anzi, non piace affatto. E piace ancora meno stare ore in coda per sborsare 11 euro per un biglietto che, da giugno al prossimo gennaio (per otto mesi filati), comprende anche la mostra dedicata al Gran principe Ferdinando de' Medici. Bellissima, suggestiva. Ma obbligatoria, anche per chi non desidera vederla. A ben vedere, poi, non aiuta neppure il fatto di trovarsi davanti un bel po' di sale – dalla 19 alla 23 - chiuse per lavori.
Così, agli Uffizi, si trovano solo stranieri o quasi. Alcuni hanno lo sguardo pieno della meraviglia e dell'impazienza di chi è venuto da lontano, smaniosi di scoprire se davvero la magia dell’arte di cui hanno letto è racchiusa lì dentro, altri sono distratti dai cellulari, aspettano il loro turno per entrare con gli occhi incollati alla guida o tentano, come un gruppo di francesi, di ripiegare un’ingombrante carta della città. Dietro di loro si fa notare una coppia chiassosa. Due americani, che si muovono con il passo sicuro dei turisti navigati fino a raggiungere l’ingresso: lei agguanta la macchina fotografica, sfodera un sorriso da cartolina e immortala l’arrivo. L’espressione è eloquente, ha raggiunto la meta. Ora potrà dire: “Sono stata qui”.
È una rarità che gli Uffizi non siano affollati. Accade poche volte, mai nei weekend e solo in inverno. Nei giorni di festa, o nei fine settimana di Primavera, dopo ore e ore di fila si riesce ad accedere alle sale in cui, tra la calca e l’afa, si scorgono quadri dei quali è difficilissimo godere a pieno. Per qualcuno, come la giovane francese che incontriamo davanti alla Tribuna, nel primo dei tre corridoi che costituiscono la storica forma a U dell’edificio, che ci sia una persona o cento non fa alcuna differenza. Alla turista interessano solo le foto che riuscirà a rubare al museo beffando i controlli. Si guarda attorno di continuo, e se nessuno la osserva estrae il tablet e scatta. “Lo fanno in tanti - ci spiega un’addetta alla sorveglianza - e se interveniamo sa che succede? Niente. Cambiano sala e fotografano altri quadri”.
Si parla dell'ipotesi di affidamento delle visite al Corridoio Vasariano alle guide private. Il Corridoio dovrebbe aprire in via sperimentale a gennaio, offrendo 12 tour al giorno per gruppi fino a 25 persone. Ma, a quanto trapela, a prezzi elevati. Le tariffe al vaglio parlano chiaro: dai 34 euro (biglietto intero) a 25 (per quello ridotto). Fino a 16 euro per chi ha l'ingresso gratuito per gli Uffizi ma che, nel caso scelga di vedere il Corridoio Vasariano, si troverà a sostenere i costi per le prenotazioni e per le guide. Molti lavoratori del museo, davanti a questa prospettiva, storcono il naso. Perché, spiega un dipendente, “è in discussione la fruibilità dell’arte come bene della collettività”. Così, mentre “in questi giorni
- aggiunge - è stato aperto un confronto con la Soprintendenza per valutare la possibilità della gestione delle visite da parte del personale interno” crescono l'insofferenza e “i timori che un affidamento esterno faccia lievitare i costi”. “Per non parlare - incalza - della distanza che si creerebbe tra gli Uffizi e chi vive la città: già di fiorentini qui ne vengono pochissimi”. Non ci sono dubbi: il rischio che aumenti quella frattura che già c'è, ed è palpabile, tra gli abitanti di Firenze e il loro museo.
La preistoria a Roma sa di muffa
La prima impressione, entrando nel museo Preistorico Etnografico Luigi Pigorini di Roma, è quella dell’imponenza. Straripante ingresso in stile fascista, come del resto l’intero quartiere dell’Eur in cui il museo è situato. Di fronte c’è quello delle Arti e tradizioni popolari, accanto quello del-l’Alto Medioevo. Poco più avanti si trova il Planetario, meta di genitori con bambini al seguito. Le strade, di sabato pomeriggio, sono deserte, il buio dell’autunno romano restituisce silenzio e malinconia. Un’offerta museale di tale portata farebbe pensare a luci sgargianti, una buona offerta ristoro (non c’è un bar aperto), percorsi guidati, trasporti efficaci. Qui, però, l’idea del “circuito museale” non sembra essere arrivata. Eppure, davanti al Pigorini c’è folla. Forse i romani amano la Preistoria. Ma alla biglietteria non c’è nessuno, e questo sembra strano. La turista giapponese fa lo sforzo di parlare inglese per avere informazioni all’impiegato. “Non parla italiano? ” le chiede quello con fare annoiato. Lei non capisce, continua, impegnata, con il suo inglese balbettante ma la risposta è secca: “Siamo in Italia, si parla italiano”. Una volta salite le grandi scale che portano al primo piano, la zona etnografica, si scopre il segreto di tanta ressa. C’è una Conferenza-spettacolo di danza classica indiana Bharata Natyam. L’affluenza deve aver sorpreso l’organizzazione perché il pubblico è seduto sulle scale che portano al secondo piano, quello dell’esposizione preistorica. Non si può passare, non c’è nessun addetto (e per tutta la visita non incontreremo nessuno), ripieghiamo sull’ascensore. Al secondo piano è di nuovo deserto. L’odore dominante è quello della muffa. Le sale sono buie, gli scavi archeologici esposti non hanno nessuna protezione. Sorpresa amara, poi, quando si arriva al pezzo forte (per chi ha portato i bambini): la catena evolutiva dell’uomo ricostruita con le varie strutture scheletriche. Lo spazio è vuoto, i pezzi sono in riparazione, i bambini restano delusi. Si consoleranno con le stanze etnografiche dedicata all’Africa o all’America. Ma è già tardi. Usciamo nel buio dell’Eur, lo spettacolo indiano è finito e resta il silenzio del sabato sera. Di fronte al Planetario solo cartacce e lattine abbandonate. Nessuno sospetta che questo angolo di Roma potrebbe trasformarsi in un’offerta culturale davvero ampia. Basterebbe un po’ di inventiva. E magari rispondere in inglese al giapponese di turno.
I genovesi dimenticano i loro tesori
“Andiamo a vedere una bella mostra? ”, si chiede un genovese. Magari quella splendida di Edvard Munch, proprio in città, a Palazzo Ducale. Altri puntano verso Roma, addirittura c’è chi immagina un weekend a Londra. Poi, magari per caso, dopo decenni che mancavi, ti capita di entrare dentro Palazzo Rosso, uno dei grandi musei cittadini. Non ci andavi dai tempi del liceo, quando avevi altro cui pensare che i quadri. Ma appena entrato resti a bocca aperta: Van Dych, Durer, Guercino, Reni, Veronese, Grechetto, Palma il Vecchio, Carracci. Roba che faresti mille chilometri per andare a vederla e invece ti dimentichi ti avere in casa. Ecco la sorte di tanti musei italiani. Li abbiamo a portata di mano e ce ne dimentichiamo. Palazzo Rosso - ben conservato, ben tenuto - conta 91mila visitatori l’anno. Accanto c’è Palazzo Bianco, altra meraviglia in quella che è stata definita la strada più bella del mondo: Strada Nuova, oggi via Garibaldi. In gran parte vengono da fuori (molti francesi). Altri gioielli genovesi, con direttori di prim’ordine, sono frequentati soprattutto dalle scuole. Se va bene. Il Chiossone, uno dei maggiori per l’arte orientale, arriva a 16.100 visitatori, i musei di Nervi con i Guttuso e i Boldini a 18.000, Castello d’Albertis tocca i 15.100 e Villa Croce 13.000. Musei di interesse nazionale, in tanti quartieri della città. Spesso appena ristrutturati come quelli di Nervi. Eppure capitano giorni che ti si stringe il cuore a entrare: quattro, cinque visitatori in una giornata. Tanti genovesi - ma accade in tutte le città - ci vivono accanto e non conoscono il patrimonio che hanno. Pensare che alcuni sono perfino gratis. Basta entrare. E guardare.

il Fatto 25.11.13
Il senso degli italiani per i loro capolavori
di tommaso Montanari


IL MUSEO è un'istituzione permanente senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali e immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, le comunica e specificamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto”. Nel discorso pubblico dell’Italia del 2013 anche l’innocua definizione dell’International Council of Museums suona rivoluzionaria. Il museo è un’istituzione politica, perché è un elemento cruciale nella costruzione della polis. Le opere dei musei sono uscite, faticosamente, dal circuito economico. Hanno un senso nuovo. Un museo che noleggia le sue sale a pagamento non è un museo. I musei non sono al servizio delle “società di servizi” - che spesso ne hanno fatto “cosa loro” - ma al servizio della società. In Italia i musei sono al servizio del progetto della Costituzione: della sovranità del popolo, del-l’uguaglianza sostanziale, del pieno sviluppo della persona umana. Il museo deve essere uno spazio pubblico aperto. Ai cittadini, prima che ai turisti. Un luogo dove i bambini possono crescere, gli adulti rimanere umani, gli anziani godersi la libertà. Un luogo dove, chi lo desidera, venga guidato: ma dove chi vuole perdersi possa farlo. Un luogo comodo: con molte sedie, buoni ristoranti, belle librerie. Un museo che non fa ricerca è un deposito di roba vecchia. Un museo che non è guidato da un ricercatore è come un aereo che non è guidato da un pilota. Studio vuol dire amore, educazione è tirar fuori l’umanità chiusa nell’uomo, il diletto è la dolcezza che ci avvince alla vita. Se un museo riesce a ridare a queste tre parole il loro significato profondo, quello è davvero un museo.

il Fatto 25.11.13
L’ambiente può essere il nostro petrolio
di Ferruccio Sansa


Che cosa facciamo noi per l’ambiente?
In Sardegna oggi, in Toscana nel 2012, in Liguria e in Veneto nel 2011 la natura sfoga la sua rabbia in piogge che corrono sul cemento. Uccidono. Colpa del cielo, ma prima di chi lo maltratta.
E di nuovo quella domanda: che cosa facciamo noi per l’ambiente? Chi scrive ripensa ai giorni della scuola, quando, con la calligrafia incerta del bambino, tappezzava il paese di manifesti – “Abbasso la caccia” – sfidando gli sguardi degli uomini che ogni sabato d’inverno uscivano con lo schioppo (si chiamava così, allora). Era la loro passione e quel bambino rompiscatole gliela faceva andare di traverso. Poi un giorno si smette: non si mettono più manifesti, non si firmano più petizioni. Ti senti ridicolo. E hai già abbastanza problemi, altro che i fagiani! Ma la ragione profonda è un’altra: ti convinci che alla fine non cambierà niente. É il bivio dell’età adulta: accettare la vita (chiamatelo realismo o rassegnazione) oppure batterti sapendo che servirà a poco o a nulla (che sia velleitarismo o idealismo)? Ognuno dà la sua risposta. Capita per tante battaglie. Così per l’ambiente, parola che abbiamo scelto non a caso, un po’ asettica e distante. Che, però, più concretamente, significa la terra dove viviamo. L’aria che respiriamo. Il cibo che mangiamo. Il mondo che lasceremo ai figli.
Ecco, come raccontiamo questo lunedì, la nostra generazione ha un’opportunità unica. L’alternativa sviluppo-ambiente si può superare. Possiamo “sfruttare” la natura proprio salvaguardandola e proteggendo noi stessi. Possiamo trarne un beneficio economico per le nostre famiglie e milioni di posti di lavoro. In Italia la prima industria è il turismo (15% del pil), che ha bisogno di ambiente integro. Di più: 3,3 milioni di persone hanno un’occupazione grazie alle professioni “verdi”. Potrebbero essere molti di più, perché nessuno forma 500 figure professionali che l’economia richiede. Bisognerebbe che lo Stato e noi tutti ci credessimo.
Come dimostra la legge di stabilità, il governo Letta ha imboccato la direzione opposta: con lo specchietto per le allodole degli stadi fa un regalo ai signori del cemento. Poi la sanatoria per i comuni che non fanno la raccolta differenziata. Infine il via libera all’asfalto con i 10 miliardi della Mestre-Orte. Ma noi facciamo la nostra parte? Certo, possiamo non votare i Cappellacci di turno. Partiamo, però, dalla casa. Ci vuole un investimento, ma garantisce risparmi futuri. E offre lavoro. Serve una scelta di fondo. Che non si fa solo per il portafogli. Come dice Luca Mercalli: non vogliamo il ritorno al medioevo, anzi. Sarà una soddisfazione più profonda a ripagarci. La consapevolezza di contribuire al bene comune. Il ritrovato senso del futuro. Che ci aiuta ad affrontare questo aspro presente.

La Stampa 25.11.13
Cosa vediamo davvero quando visitiamo la Storia
La Città Proibita? Ricostruita. La grotta di Lascaux? Rifatta. I marmi greci? Sbiancati. C’è molto presente nel nostro passato
di Vittorio Sabadin


Quando si visita la  Città Proibita a  Pechino, ben poco  di quello che si vede è antico. I cinesi non restaurano, demoliscono e rifanno uguale. Nella loro cultura circolare non  c’è un inizio, non esiste un  originale. Gli oggetti e i palazzi sono costruiti per essere funzionali e quando si degradano bisogna ricostruirli. Questo atteggiamento  spiega anche perché i cinesi  siano così restii ad accettare  le leggi del copyright: le borse di Vuitton esistevano prima che Vuitton le inventasse, e anche per loro non c’è  stato un inizio e non ci sarà  una fine, quindi chiunque le  può rifare.  Gli europei la pensano diversamente. Le rovine delle  loro antiche civiltà vanno  conservate come sono, fossero anche solo un pezzo di  pietra spaccata in due con  qualche graffio sopra.  L’emozione che si prova a visitare il Colosseo non ci coglierebbe se ne visitassimo  una copia. Solo nell’originale si percepisce la sofferenza  che ha permeato quell’anfiteatro, e solo  camminando  sulle stesse  pietre possiamo immaginarci Tito e  Domiziano lì  seduti, a guardare lo spettacolo dei gladiatori. I luoghi e gli oggetti antichi possiedono un’aura che è stata  creata dalla loro storia e dal  passare del tempo, ed è per  questo che ci piace andarli a  visitare.  Ma ormai, anche in Europa e in molti altri Paesi, non  tutto quello che vediamo  corrisponde al vero o a quello che ci fanno credere i  dépliant delle agenzie di  viaggio. Molti siti archeologici sono stati chiusi a causa  dei danni provocati da un  eccessivo afflusso di turisti  e non è rimasta altra soluzione, per mantenere invariati gli affari, che farne una  copia.  Fino a pochi anni fa si poteva ad esempio andare nel Perigord e visitare la grotta di Lascaux, che con i suoi incredibili affreschi è la Cappella Sistina della preistoria. Ma i visitatori mettevano a rischio i disegni e parte della grotta è stata  rifatta tale e quale.  Anche quando i reperti sono davvero quelli antichi, non  sempre quello che vediamo  corrisponde all’originale. Al  British Museum sono conservati i frontoni del Partenone,  la cui sala è una delle più visitate. La visione d’insieme delle  figure intagliate da Fidia nel  marmo bianco è ancora impressionante, ma non è più  quella che gli ateniesi del 400  a. C. ammiravano.  I fregi erano infatti colorati  con pigmenti che sono scomparsi nel tempo e i cui resti sono stati sconsideratamente  grattati via negli Anni Trenta.  Sempre in Inghilterra, a  Portsmouth, è  ormeggiata la  HMS Victory, la  nave sulla quale  Nelson morì nel  1805 mentre  sconfiggeva la  flotta francese a  Trafalgar. Decine di migliaia di  persone salgono  a bordo ogni anno, per respirare  l’atmosfera di quei gloriosi  momenti della storia britannica. Ma quello che vedono non è  la nave di Nelson: meno del 10  per cento degli ottoni e del legno di quercia che l’ammiraglio e i suoi marinai avevano  toccato è sopravvissuto.  Decine di altri importanti  reperti storici sono stati ricostruiti, spesso senza rispetto  per la loro storia, generando  discussioni senza fine. Ma almeno uno è sicuramente migliore dell’originale. Nel refettorio di San Marco Maggiore,  a Venezia, c’è l’enorme dipinto  delle Nozze di Cana di Veronese, creato per la prospettiva  della sala progettata da Palladio. La tela venne razziata dai  soldati di Napoleone nel 1797 e  quella che si vede ora è una copia realizzata con tecnologie  così sofisticate da permettere  di replicare persino le pieghe  della tela e di ritrovare i colori  originali, ricoperti dai rimaneggiamenti del 900. Nel contesto dell’oratorio, la copia ha  adesso più aura dell’originale,  mestamente collocato al Louvre di fianco ai turisti che sgomitano per la Gioconda, e per  vedere solo quella.

La Stampa 25.11.13
Urla, insulti e gomitate al sindaco
Il Campidoglio sprofonda nel caos
Roma, sospesa la seduta del consiglio. Marino: io colpito di proposito


«Non è stata involontaria. Mi ha  dato una gomitata. Ho un bernoccolo in testa.  Non ho visto chi fosse. Ho visto solo una figura urlante  che usava turpiloquio. Non so  chi sia e non sono neanche intenzionato a conoscerlo».  Ecco il commento a caldo  di un offeso e ammaccato  Ignazio Marino. Il sindaco di  Roma ieri era pronto a una  maratona, non a una lotta con  momenti di boxe per approvare il bilancio 2013 entro il 30  novembre ed evitare così il rischio del commissariamento.  Il sindaco ha detto di non  sapere di chi fosse il gomito, e  che nemmeno gli interessava  saperlo. L’avrà poi saputo: la  «figura urlante che usava turpiloquio», Marino dixit, era  quella del consigliere di Fratelli d’Italia, Dario Rossin,  che protestava sempre più  energicamente. Insomma,  dalle parole ai fatti, e nel tentativo di raggiungere lo  scranno del presidente dell’assemblea, Mirko Coratti,  Rossin ha urtato in testa il  sindaco Marino, che ha poi lasciato l’aula Giulio Cesare, sede  del consiglio comunale. (La  versione di Rossin: «Invito Marino a rivedere il video e a ritirare le sue dichiarazioni sulla  volontarietà del mio gesto»).  Comunque. Che l’aria in  Campidoglio non fosse lieve era  noto: l’opposizione (con la Lista  Marchini), si era presentata in  Consiglio con decine di pacchi  impilati al centro degli scranni.  La materializzazione del dissenso: in ognuno dei pacchi  1.500 tra emendamenti e ordini  del giorno, per un totale astronomico di 100mila. Prima della  bagarre Marino era riuscito a  sembrare tranquillo e ironico,  pur davanti a quel muro di carta da abbattere: «Bisogna vedere se sono scritti bene. Mi  aspetto un contributo straordinario, che possa aiutarci a migliorare l’ottimo lavoro fatto  dalla giunta e in particolare  dall’assessore (al bilancio, ndr),  Morgante». Poi, ancora uno  scambio di frecciatine tra il primo cittadino e il capogruppo  del Ncd Sveva Belviso: «Non  posso parlare con lei perché  non ci sono i requisiti minimi... » aveva gettato lì.  Ma appena il Consiglio si è  aperto, ecco la tempesta: le  opposizioni hanno coperto di  fischi la maggioranza (e  l’esponente del movimento 5  Stelle Marcello De Vito), quindi la bagarre e la gomitata al  sindaco. A seguire, la sospensione del Consiglio e la ripresa  con la relazione dell’assessore  al bilancio.

l’Unità 25.11.13
Ginevra, sì all’accordo sul nucleare iraniano
Soddisfazione a Teheran per l’intesa con i Grandi, stop alle sanzioni
per sei mesi
Obama: «Ora un mondo più sicuro». Israele: un grave errore
di Umberto De Giovannangeli


A notte fonda, dopo quattro giorni di estenuanti trattative, Ginevra partorisce l’«accordo del secolo, o almeno il suo avvio»: quello raggiunto a tra le potenze del 5+1 (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania) e l’Iran.
Lo ha annunciato a notte fonda (le quattro dell’altro ieri), dopo quattro giorni di colloqui, il portavoce del capo della diplomazia Ue Catherine Ashton. La rappresentante della Ue ha confermato che si tratta di un’intesa limitata nel tempo e che permetterebbe la prosecuzione dei colloqui per una soluzione definitiva del conflitto che si era creato tra il regime di Teheran e le potenze occidentali. L’Alto rappresentante dell’Ue ha poi formalmente annunciato il raggiungimento dell’intesa sul nucleare iraniano, in presenza del ministro degli Esteri di Teheran Mohammad Javad Zarif e dei ministri delle potenze del 5+1 (Usa, Russia, Cina, Francia, Regno unito, più Germania).
Un accordo salutato con soddisfazione ovunque, tranne che in Israele che ha voluto, invece, ribadire il suo scetticismo e la sua ostilità verso la Repubblica Islamica. «Il mondo è più pericoloso ha detto il premier israeliano Netanyahu perché il regime più pericoloso ha compiuto un passo significativo in avanti verso l’arma più pericolosa». Secondo il premier, in cambio dell’allentamento delle sanzioni, l’Iran si è impegnato a «rinunce di carattere cosmetico, che possono essere annullate in alcune settimane». La conclusione? «Israele non si sente vincolato da questo accordo le cui ripercussioni ha affermato Netanyahu rappresentano una minaccia per il suo Paese». «Voglio chiarire ha aggiunto -. Noi ci difenderemo, non consentiremo all’Iran di sviluppare una capacità nucleare militare».
VINTI E VINCITORI
In un tweet lanciato dopo l’annuncio dell'intesa di Ginevra sul nucleare, il presidente iraniano Hassan Rohani ha affermato che «il voto del popolo iraniano per la moderazione e l’impegno costruttivo e gli instancabili sforzi da parte dei team negoziali apriranno nuovi orizzonti». La Guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, ha elogiato l’operato della squadra negoziale iraniana a Ginevra e ha detto che l’intesa nucleare è «la base per altre mosse intelligenti da parte loro»: lo riferiscono agenzie iraniane. Da Teheran a Washington. Sono le 22.35 a Washington, le 4.35 di domenica in Italia, quando Barack Obama dà lo storico annuncio dalla Casa Bianca. «La diplomazia ha aperto una nuova strada verso un mondo più sicuro, un futuro nel quale potremo verificare che il programma nucleare iraniano è pacifico e non potrà costruire un’arma nucleare» afferma Obama. «Si tratta solo di un primo passo osserva ma otteniamo un grande risultato». «Per la prima volta in un decennio spiega abbiamo fermato i progressi del programma nucleare iraniano e alcune sua componenti saranno smantellate» perché «l’Iran si è impegnato a sospendere alcuni livelli di arricchimento dell’uranio, a neutralizzare parte delle sue scorte, a non usare le centrifughe di nuova generazione, a non installare nuove centrifughe ed a limitare la produzione delle centrifughe esistenti». Inoltre «l’Iran fermerà i lavori al reattore al plutonio» di Arak e «nuove ispezioni garantiranno ampio accesso agli impianti nucleari dell’Iran, consentendo alla comunità internazionale di verificare il mantenimento degli impegni».
La conclusione del capo della Casa Bianca è che si tratta di «limiti importanti» che Teheran ha accettato di rispettare e «gli impediranno di realizzare un’arma nucleare». È comunque solo un «primo passo» a cui seguirà fra sei mesi un «nuovo negoziato che affronterà tutte le preoccupazioni portare dal programma iraniano».
Immediata è arrivata la replica del ministro degli Esteri di Teheran: nessun impianto iraniano ha assicurato verrà chiuso in base all’accordo raggiunto a Ginevra e non vi sarà invio all’estero di materiale atomico. Zarif ha precisato che il «diritto all’arricchimento» è stato riconosciuto nelle sezioni sugli «obiettivi» e nel «passaggio finale» dell’accordo in tre parti, firmato l’altra notte.
Soddisfazione, ma anche consapevolezza che molto ci sarà ancora da fare nei prossimi mesi, è stata espressa dalla ministra degli Esteri italiana, Emma Bonino, dalle più importanti cancellerie europee e da Mosca. In base ai termini dell’accordo di Ginevra, l’Iran si è impegnato a interrompere l’arricchimento dell’uranio sopra il 5%, a non aggiungere altre centrifughe e a neutralizzare le sue riserve di uranio arricchito a quasi il 20%, mentre le maggiori potenze non imporranno per i prossimi sei mesi sanzioni a Teheran. L’«accordo» conta quattro pagine di cui una sull’ammorbidimento delle sanzioni economiche contro Teheran, hanno aggiunto dal canto loro le fonti iraniane. E gli Usa si sono impegnati a sospendere per sei mesi le sanzioni e a fornire aiuti all’Iran per circa 6-7 miliardi di dollari. Obama ha chiesto esplicitamente al Congresso americano di non inasprire ulteriormente le sanzioni contro Teheran, per non compromettere il proseguimento del negoziato che, entro e non oltre sei mesi, dovrà portare ad un’intesa definitiva tra il regime iraniano e i Paesi occidentali. Sei mesi cruciali, per radicare l’«accordo del secolo».

l’Unità 25.11.13
Iran, la speranza di un accordo storico
di Rocco Cangelosi


L'ACCORDO RAGGIUNTO A GINEVRA FRA IL GRUPPO 5+1 (USA,RUSSIA, CINA,GRAN BRETAGNA, GERMANIA E FRANCIA) e l'Iran assume una valenza storica e segna il rientro del regime di Teheran come soggetto politico a pieno titolo sullo scenario internazionale, schiudendo concrete prospettive a una stabilizzazione nel Grande Medio Oriente,che dovrà passare in primo luogo attraverso la sistemazione del problema siriano, di cui Teheran rappresenta uno dei principali stakeholder.
A fronte dell'impegno a sospendere temporaneamente il programma nucleare,Teheran ottiene alcuni allentamenti delle sanzioni, che gravano pesantemente sulla sua economia.
L'intesa sottoscritta dovrebbe consentire di «raggiungere entro sei mesi un accordo generale», ha precisato Obama da Washington. L'Iran si è impegnato a interrompere l'arricchimento dell'uranio sopra il 5%, a non aggiungere altre centrifughe e a neutralizzare le sue riserve di uranio arricchito al 20%, a congelare la costruzione del reattore ad acqua pesante di Arak, ritenuta un potenziale generatore di plutonio utilizzabile per costruire un ordigno nucleare.
In contropartita non verranno imposte ulteriori sanzioni a Teheran per i prossimi sei mesi. L'Iran inoltre potrà accedere all'equivalente di circa 4,2 miliardi di dollari derivanti dalla vendita di greggio ma bloccati in banche asiatiche a causa delle sanzioni. Verranno poi alleggerite alcune misure che colpiscono il commercio di oro e metalli preziosi, il settore dell'auto e le esportazioni iraniane di prodotti petrolchimici per un valore complessivo pari a 1,5 miliardi di dollari.
La convergenza di interessi di diversa natura di Washington, Pechino e Mosca, ha consentito di superare i residui ostacoli posti dalla Francia, fattasi portavoce delle preoccupazioni di Israele, e di raggiungere un'intesa di grande portata politica che peserà nella ridefinizione degli equilibri nella regione. Il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif ha manifestato la sua soddisfazione per l'accordo raggiunto, che secondo Teheran salvaguarda i diritti dell'Iran all'uso pacifico dell'uranio arricchito, ricordando che è stata costituita una «commissione congiunta per sorvegliare l'attuazione dell'accordo. Secondo il segretario di Stato John Kerry l'accordo è «un primo passo che rende il mondo più sicuro. Ora c'è ancora da lavorare».
Israele, da parte sua, ha definito l'intesa raggiunta un cattivo accordo che permette all' Iran di ottenere tutto quello che voleva per l'allentamento delle sanzioni, mantenendo praticamente immutato il proprio programma nucleare. Mancano ancora le valutazioni ufficiali dell'Arabia Saudita e dei paesi del Golfo ma sicuramente esse andranno nella direzione della posizione israeliana, tanto più che una maggiore disponibilità del petrolio iraniano sul mercato internazionale contribuirà ad abbassare i profitti del petrolio arabo che serve ad alimentare e sostenere monarchie politicamente asfittiche e sempre più contestate. In un frangente così importante l'Unione europea dimostra ancora una volta la sua marginalità nel contesto medio orientale, dove oltre agli Usa, sono la Russia e la Cina a dettare l'agenda.
L'Italia, da parte sua ha svolto il ruolo che poteva giocare.
Estromessasi per sua volontà dal gruppo 5+1, al momento della sua costituzione a seguito di una improvvida decisione del governo Berlusconi, Roma ha cercato di ricavarsi uno spazio di manovra, che il ministro Bonino ha giocato al meglio fiancheggiando e sostenendo la ricerca di un 'intesa con l'Iran,nella speranza di poter capitalizzare nei prossimi mesi un investimento politico coraggioso e lungimirante.

il Fatto 25.11.13
Un colpo all’asse Usa-Israele
di Giampiero Gramaglia


Un accordo solido, perché tutte le parti vi hanno un loro tornaconto, ma provvisorio. Un’intesa che può prefigurare nuovi equilibri nel Medio Oriente, ma che vale sei mesi. In questo periodo, chi ci tiene, ai nuovi equilibri, farà di tutto per consolidarlo; e chi invece li teme farà di tutto per mandarlo all’aria. Su un punto, gli esperti concordano: il patto di Ginevra, che prevede limitazioni e verifiche sui programmi nucleari iraniani maggiori di quanto finora ipotizzato, è “un passo avanti”. Ma il più duro “resta da fare”.
L’accordo fra l’Iran e i Paesi del 5 + 1 – i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia, cioè le potenze nucleari ‘storiche’, più la Germania- prevede che Teheran accetti vincoli ai suoi piani atomici, conservando, però, il diritto ad arricchire l’uranio, sia pure sotto la soglia del potenziale utilizzo militare, in cambio di un alleggerimento delle sanzioni economiche adottate nei suoi confronti. Nei prossimi sei mesi, le parti continueranno a negoziare per definire un’intesa stabile. La relativa malleabilità di Teheran in questa fase conferma che l’economia iraniana ha davvero cominciato ad accusare il peso delle sanzioni. Ma basta leggere le reazioni a caldo degli interessati per capire che l’accordo di Ginevra apre crepe in alleanze consolidate, senza per altro poterne cementare di nuove, là dove c’è di mezzo una generazione di diffidenze, tensioni, vere e proprie ostilità.
OVVIAMENTE, tutti positivi i commenti dei protagonisti della trattativa, anche della Francia, che pure s’è assunta il ruolo nuovo di Paese più vicino a Israele. L’Onu e l’Ue suggeriscono ovvia prudenza, ma esprimono speranza e soddisfazione. Il presidente Usa Barak Obama dice all’America che l’intesa di Ginevra rende il Mondo “più sicuro”, mentre il premier israeliano Benjamin Netanyahu la definisce “un errore storico”. Israele non si fida dell’Iran e ne teme la bomba, che altererebbe i rapporti di forza nella Regione; e, oggi, si fida un po’ meno degli Stati Uniti. Obama e Netanyahu, poi, non sono mai stati in sintonia, per i successivi ammiccamenti dell’Amministrazione democratica al Mondo islamico, alle Primavere arabe e, adesso, in Iran, al presidente Hassan Rohani. Gli ottimisti ritengono che il passo avanti fatto sia in qualche modo irreversibile e possa avvicinare, per l’influenza dell’Iran in Siria sul regime di al-Assad e in Libano sugli Hezbollah, la conferenza di pace di Ginevra e la soluzione politica del conflitto siriano. Susanne Maloney, specialista di Iran alla Brookings, prestigioso ‘thing tank’ di Washington, pensa che l’accordo possa tenere perché vincola “Teheran a un processo diplomatico le cui ricompense principali non saranno ottenute fin quando l’intesa definitiva non sarà stata raggiunta”. L’ennesima versione del gioco del bastone e della carota. Vi partecipano i falchi del Congresso Usa, che già minacciano nuove più pesanti sanzioni, se l’Iran dovesse ‘sgarrare’. In un tweet, il ministro degli Esteri Emma Bonino, fra i primi ad aprire un credito a Rohani, parla di "un paasso importante per la pace in Medio Oriente" ed esprime "fiducia" per la Siria, "Ginevra 2 e i corridori umanitari”.

La Stampa 25.11.13
“Teheran è il vero vincitore ma rischia il blitz israeliano”
L’analista Klein-HaLevi: Usa più deboli, nasce l’asse ebrei-sunniti
di Maurizio Molinari


Yossi Klein-HaLevi, statunitense, lavora allo Shalom Hartman Institute di Gerusalemme Studia i rapporti di forza e strategici in Medio Oriente
Ha detto: Vuoto di potere A contendersi l’eredità dell’egemonia americana in Medio Oriente saranno le potenze locali: Israele, Arabia Saudita e Turchia. Il rischio di nuove
guerre si moltiplica e non diminuisce
«L’accordo di Ginevra sul nucleare iraniano apre la strada a sconvolgimenti epocali in Medio Oriente»: parola di Yossi Klein-HaLevi, lo stratega americano in forza allo Shalom Hartman Institute di Gerusalemme, a New York per una serie di seminari.
Quali saranno gli effetti immediati dell’intesa raggiunta?
«L’assedio internazionale a Teheran si allenta mentre l’Iran può continuare ad arricchire l’uranio fino al 5 per cento che, in poche settimane, può essere portato al 20 per cento necessario per l’atomica. L’Iran ha vinto ed è la potenza nascente in Medio Oriente, una regione dove la percezione vale assai più dei fatti concreti. E la percezione oggi è che l’Iran ha piegato le maggiori potenze, facendo accettare il suo programma nucleare».
Come reagirà l’Arabia Saudita, rivale strategico dell’Iran?
«Aumenterà l’impegno militare a sostegno dei ribelli anti-Iran e anti-Assad in Libano e Siria portando ad un inasprimento delle ostilità. Per Riad il cedimento di Obama sul nucleare iraniano è il seguito naturale del mancato intervento in Siria: l’America si riposiziona a favore degli sciiti contro i sunniti. Per questo Riad aprirà i cieli al blitz di Israele contro l’Iran».
Cosa avverrà nel Golfo?
«Le minoranze sciite sostenute da Teheran si sentiranno più forti e ciò spingerà anche altri Paesi sunniti all’intesa con Israele».
Quali le implicazioni della convergenza Israele-sunniti?
«È una scossa epocale agli equilibri regionali. Diventa possibile arrivare, in breve tempo, alla composizione del conflitto israelo-palestinese. Ma ciò che più conta sono gli aspetti militari: l’apertura dello spazio del Golfo a Israele».
Ma dopo l’intesa a Ginevra, Israele può ancora attaccare?
«Israele da solo non può più attaccare. Se lo facesse diventerebbe il paria del mondo. Prenderebbe il posto finora avuto dall’Iran.
Senza contare che dopo il blitz contro l’Iran Israele sarebbe colpita da migliaia di missili di Iran ed Hezbollah. Fronteggiarli senza la cooperazione Usa sarebbe un incubo».
Ciò significa che l’opzione militare israeliana svanisce?
«Non svanisce, si modifica. Israele ha bisogno dell’alleanza con i sunniti perché gli dà la copertura che Obama non garantisce più».
Quali Paesi sunniti potrebbero seguire i sauditi?
«La maggioranza, a cominciare dall’Egitto. L’unica capitale sunnita in bilico è Ankara in ragione delle tensioni con Israele».
Netanyahu potrebbe lanciare l’attacco a dispetto degli Usa?
«Si preannuncia come la decisione più difficile, direi terribile, della storia di Israele. Ma credo che, alla fine, lo farà».
Quale è l’immagine degli Stati Uniti nella regione dopo Ginevra?
«Arabi sunniti, iraniani sciiti, ebrei israeliani e musulmani turchi sono d’accordo, per motivi diversi, nel considerare gli Usa una superpotenza che evapora».
Quale potenza è in grado di riempire tale spazio?
«Non la Russia, considerata opportunista, non la Cina, ancora non abbastanza presente, e non l’Europa per cui gli israeliani nutrono una sfiducia uguale e opposta a quella degli europei per loro». Dunque, gli Usa sono senza eredi?
«A contendersi l’eredità dell’egemonia americana sono le potenze locali: Iran, Israele, Arabia Saudita, Turchia. E ciò apre la strada ad una nuova, imprevedibile, stagione di sconvolgimenti».

La Stampa 25.11.13
Da Israele all’Arabia i grandi perdenti fanno fronte comune
Netanyahu avverte: “Errore storico, pronti ad agire” E i sauditi pensano di acquisire l’atomica dal Pakistan
di Francesca Paci


L’altra faccia dell’accordo sul nucleare iraniano è quella torva dei Paesi che fino all’ultimo hanno remato contro e continuano a farlo. Israele, ovviamente. Ma anche l’Arabia Saudita, l’Egitto e, dietro la maschera triste del pagliaccio che ride, la Turchia, lesta a congratularsi con i negoziatori per guadagnare un credito presso il nuovo vincente fronte sciita dopo le ripetute batoste subite nel tentativo di porsi alla guida dell’islam sunnita.
In Israele l’umore tende al nero. Sebbene il presidente Peres si sia detto «cautamente ottimista» e le borse abbiano reagito positivamente, il premier Netanyahu ha definito «un errore storico» la fiducia accordata a Teheran. Secondo Yoel Guzansky dell’Institute for National Security Studies di Tel Aviv i nuovi sviluppi allontanano l’ipotesi di un attacco militare, che sarebbe visto ormai come «un sabotaggio dei 10 anni trascorsi tentando di spingere l’Iran a trattare». Ma Bibi, forte del malcontento regionale, insiste che «tutte le opzioni sono sul tavolo».
Riad non ama l’associazione con Israele e mantiene un profilo basso, ma lo schiaffo ricevuto da un’America sempre più prossima all’indipendenza energetica brucia. Il principe Alwaleed bin Talal afferma che «Obama è stato sopraffatto dall’Iran» e il consulente esteri dello Shura Council Abdullah al Askar ammette l’allarme nazionale per l’espansionismo di Teheran che «ha provato mese dopo mese di avere una brutta agenda regionale, rispetto alla quale nessuno dormirà più». La corona però, diversamente dai giorni della retromarcia di Washington sull’intervento in Siria, tace. Gli analisti ritengono che cercherà di avere una compensazione (più libertà di manovra in Siria?), essendogli impossibile condannare chiaramente un accordo applaudito dal governo sciita di Baghdad e dal presidente siriano Assad (contro cui Riad finanzia la rivolta).
«Il mondo arabo potrebbe preoccuparsi che, forti del successo con l’Iran, gli Usa facciano meno in Siria e in Egitto» twitta in serata il guru della Johns Hopkins University Vali Nasr.
Di certo il ritorno di Teheran non garba ai paesi sunniti del Golfo. Secondo l’ex ambasciatore americano a Riad Robert Jordan i sauditi potrebbero sentirsi addirittura meno minacciati dall’atomica iraniana (rispetto alla quale ripetono ancora di essere pronti ad acquistarne una dal Pakistan) che dalla neo superpotenza sciita, sponsor di Damasco, degli Hezbollah libanesi, dell’Iraq post Saddam, del Bahrain e delle irredente provincie orientali saudite.
Il terremoto mediorientale è appena cominciato. Eppure il premier turco, reduce dallo scontro a colpi di ambasciatori ritirati con l’Egitto, sta cercando riparo modificando in corsa la sua politica estera (che voleva avere zero problemi con i vicini e avendo invece sposato la causa perdente dei Fratelli Musulmani si ritrova nei guai). Così il ministro degli esteri Davutoglu è appena stato a Baghdad e si prepara a recarsi a Teheran.
L’Egitto vigila cupo. L’ex beniamino di Tahrir el Baradei si compiace dell’apertura all’Iran ma lui è ormai considerato un traditore in patria, dove il quotidiano governativo «al Ahram» sottolinea la vaghezza dell’accordo. Di certo la giunta militare al potere non apprezza, come s’intuisce da fonti vicine all’esercito («è la prova della debolezza di Obama, una vittoria netta di Teheran»). Dopo la deposizione dell’ex presidente Morsi il Cairo ha ricongelato i rapporti con la repubblica degli Ayatollah. Inoltre, alla ricerca di una posizione di forza, i generali si son messi a flirtare con Mosca per far capire a Washington che la vecchia alleanza non era garantita. Un bluff, concordano gli analisti, che potrebbe finire male se gli Stati Uniti, concentrati sull’Iran, li prendessero in parola.

La Stampa 25.11.13
«La crisi esaspera la popolazione Ayatollah costretti al compromesso»
3 domande a Shirin Ebadi premio Nobel
di Fra. Pa.


Il premio Nobel per la pace Shirin Ebadi è in viaggio, ma la testa è sintonizzata sulla Storia in divenire a Teheran.
Che cosa pensa della stretta di mano tra gli ex nemici Kerry e Zarif? È lecito credere che sia la volta buona ?
«È un accordo che giudico positivamente. Ma onestamente non saprei dire se ci si possa o meno fidare, è una valutazione che spetta ai negoziatori».
Le sanzioni sembrano aver funzionato. Da almeno un anno la protesta dei mercanti del bazar di Teheran era diventata il simbolo dell’insofferenza della popolazione schiacciata dalla svalutazione di oltre il 30% del rial, la disoccupazione oltre l’11%, il blocco delle importazioni tradottosi nella mancanza di materiale da costruzione e perfino di buste nei supermercati. Quanto ha pesato la crisi economica?
«Credo che l’intesa sia stata raggiunta proprio perché l’Iran era sotto una enorme pressione economica da anni. Il regime iraniano avrebbe dovuto firmare questo accordo 5 anni fa, così avrebbe evitato al popolo enormi sofferenze e all’economia i gravissimi danni che hanno messo in ginocchio il paese».
Possiamo attribuire la svolta all’elezione di Rohani?
«Poche ore dopo l’accordo Khamenei, il leader religioso della repubblica iraniana, si è congratulato con il presidente Rohani e ha dimostrato di approvare quanto stava accadendo: in Iran non succede nulla senza l’avallo di Khamenei, tutti i poteri sono nelle sue mani».

Repubblica 25.11.13
Satana e la Canaglia l’abbraccio del dialogo nella guerra dei 30 anni
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON SVOLTA storica o inganno la stretta di mano fra il “Grande Satana” e la “Canaglia”?

SESSANT’ANNI esatti dopo il colpo di stato angloamericano in Iran per imporre al paese il regime del Grande Pavone, il perno dell’“Asse del Male” e il “Grande Satana” americano tornano a comportarsi non da amici, ma almeno da governi razionali. Quella stretta di mano fra il Segretario di Stato americano John Kerry e il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif non raggiunge il pathos storico ed epocale dell’abbraccio fra Sadat e Begin a Gerusalemme e non stempera in amicizia e fiducia reciproca due generazioni di odio, ma è il primo segnale che fra la nazione leader dell’Occidente laico e lo stato chiave della rivoluzione fondamentalista sciita più intransigente è possibile parlarsi. In fondo era questo ciò che Obama aveva chiesto nel suo discorso del Cairo al mondo islamico, costruito sul principio kennedyano del «parlare soprattutto con i nemici », ed è la stessa logica razionale che impedì lo scoppio della TerzaGuerra Mondiale fra Usa e Urss.
Ma ancora più di quanto fosse stato difficile per americani e russi passare dalla sfida mortale di Cuba allo smantellamento degli arsenali nucleari, la feroce ostilità fra Iran e Usa aveva, e ancora ha, radici di irrazionalità mistica e di intolleranza culturale che neppure la Guerra Fredda aveva mai prodotto. Nel comunismo e nel capitalismo, le due potenze vedevano avversari ideologici, sistemi politici ed economici opposti, ma ancora alimentati dalla vecchia cultura materialista del marxismo- leninismo contro il liberismo e il mercatismo. Ma gli Stalin e i Truman, i Kennedy e i Kruscev, i Breznev e i Nixon fino ai Reagan e Gorbaciov erano dirigenti politici, persone che si muovevano lungo percorsi diversi e comprensibili. Di fronte alla rivoluzione khomeinista del 1979, alla presa e al sequestro — inauditi nell’età moderna — di un’ambasciata e di 52 funzionari per 444 giorni, di fronte a quei turbanti sopra barba fluenti, l’America, nata proprio dalla rigorosa speranza fra Stato e religione, era culturalmente disarmata.
Per più di 30 anni, dal 1979 all’accordo — ancora molto vago e poroso — di Ginevra fra Kerry e Zarif, il discorso impossibile fra l’America della Costituzione e l’Iran della Sharia è stato quindi, inevitabilmente, una sequenza di gaffe, di errori, di passi falsi. Fin dagli anni dell’agonia politica, e poi fisica, dello scià, il comportamento dei governi americani era stato ambiguo e incerto, dando agli iraniani solo messaggi sbagliati, sempre troppo prepotenti per i ribelli, sempre troppo deboli per i conservatori. Nelle ore finali del regime monarchico, il presidente Carter e il suo braccio destro Zbigniew Brzezinsky esortavano in pubblico Reza Palhavi a «resistere» e incitavano l’esercito, armato dagli Usa, a un possibile colpo di Stato per fermare la rivoluzione. Ma in privato, lo stesso Brzezinsky considerava lo scià «uno zombie» con le ore contate.
Toccò poi a Reagan, al quale Teheran aveva fatto il regalo della liberazione degli ostaggi per testimoniare il disprezzo verso Carter e il grottesco fallimento della tarda, dilettantistica operazione “Artiglio d’Aquila”, complicare la situazione cercando di utilizzare proprio il grande nemico in tonaca nera e turbante per finanziare e armare illegalmente i Contras anticomunisti che in Nicaragua volevano rovesciare i sandinisti. In un sensazionale pasticcio di armi vendute ai presunti e sempre immaginari “moderati” iraniani attraverso Israele per ottenere finanziamenti da passare ai Contras, vietati dal Congresso Usa, non mancarono momenti di comicità, come la torta al cioccolato destinata a Khomeini per addolcirgli la bocca. L’Iran, dopo essere stato corteggiato, divenne così il perno dell’Asse del Male, surrogato a quell’Impero del Male, l’Urss, che si era autodistrutto. Nell’ossessione, nell’incomprensione di una nazione e di un regime che l’esperienza americana non riusciva a interpretare e a razionalizzare con i semplici criteri dei buoni e cattivi, fra i due paesi si arrivò alla guerra di sterminio per procura, quando Saddam Hussein fu incoraggiato appoggiato e aiutato proprio da Washington nella guerra all’Iran. I gas letali usati dal raìs per decimare le ondate di soldati bambini spediti contro di lui da Khomeini non sollevavano allora alcuna indignazione a Washington e in Europa. Anzi. L’intelligence americana forniva a Saddam le coordinate per condurre le battaglia, con la benedizione di quel Donald Rumsfeld che pochi anni dopo si sarebbe trasformato nel giustiziere del presidente iracheno.
Nel groviglio di odi reciproci, alimentati nella sponsorizzazione di gruppi terroristici come Hezbollah da parte iraniana e dalla intensa propaganda israeliana contro Teheran divenuto il nuovo nemico numero uno con l’avvento di Ahmadinejad, l’America si era smarrita. Dopo l’11 settembre, nonostante mai alcun sospetto di complicità o di sostegno agli odiati sunniti di Osama bin Laden fosse emerso, l’Iran fu definitivamente promosso al rango di «Stato Canaglia». Un rango che lo sviluppo di tecnologie nucleari elevò a minaccia non più soltanto regionale, ma globale. Per lunghi mesi, nel corso del 2012, un attacco militare con bombardamenti massicci a migliaia di obbiettivi era sembrato inevitabile, di fronte all’apparente insuccesso delle sanzioni.
Per giudicare dunque se la stretta di mano fra «Satana» e la «Canaglia» sia una storica inversione di marcia o un inganno che non fermerà le ambizioni nucleari dell’Iran, come insiste Israele davanti alla possibile perdita del monopolio nucleare (mai ufficialmente ammesso) nella regione, si deve partire da quell’“orlo del precipizio” al quale gli Usa, Israele e Iran erano arrivati, appena ieri. Certamente l’accordo di Ginevra non è la Rejkiavik dove Reagan e Gorbaciov seppellirono per sempre la corsa nucleare fra Usa e Urss e non è neppure il trattato di pace fra Sadat e Begin che per 30 anni ha impedito ogni conflitto aperto in Medio Oriente. Ma la marcia della follia si è fermata e gli Stati Uniti hanno dimostrato di poter accettare, e di poter essere accettati come interlocutori in diplomazia anche del più importante fra gli Stati che si proclamano integralmente islamici. Per ora, una nuova guerra attorno alle centrali iraniane è più lontana e in quel negoziato con gli Usa si può sperare che vi sia — ancora impronunciabile ma già visibile — il germe della lenta, futura e forse inevitabile laicizzazione dell’Iran.

La Stampa 25.11.13
Washington - Teheran
Un duello di 60 anni segnato dal golpe contro Mossadegh
Ma ora “il grande Satana” è un interlocutore
di Gianni Riotta


Nel 1953, a Teheran, l’uomo d’affari americano James Lockridge gioca a tennis su un campo all’interno dell’ambasciata turca, bravo e simpatico a tutti.

Ospiti e connazionali restano però un po’ sorpresi quando Lockridge, frustrato per un errore banale sottorete, grida irritato «Oooh Roosevelt!». Che c’entra mai la dinastia dei due presidente americani, Theodore e F. D. Roosevelt, con un dritto mal giocato? «Nulla ride Lockridge sono un repubblicano estremista, quando impreco me la prendo con F.D.R. quattro volte democratico alla Casa Bianca». Sorrisi, la partita continua.
James Lockridge, per la passione del tennis, mette a rischio la sua missione segreta, si chiama in realtà Kermit Roosevelt, è nipote del presidente Theodore e si trova nella capitale iraniana come agente Cia, per orchestrare, su mandato del capo Allen Dulles e del riluttante presidente Eisenhower, il colpo di stato contro il presidente eletto Mohammad Mossadegh.
Ci riesce alla perfezione, in collaborazione con lo spionaggio inglese. Compra i direttori dei giornali, organizza false manifestazioni «comuniste» del Tudeh, «Viva Mossadegh, Viva l’Urss, a Morte l’America» e persuade gli ayatollah a denunciare il laico, nazionalista e democratico presidente come «ateo» nelle moschee. Quando Lockridge-Roosevelt rimette lo Shah Reza Pahlevi sul trono, l’imperatore gli dice «Ho vinto grazie a Dio, al mio popolo, all’esercito e a lei».
Molti osservatori, lo scrittore Stephen Kinzer per esempio nel suo bel saggio «All the Shah men», datano la crisi lunga 60 anni tra Teheran e Washington alla tragedia del colpo di stato contro Mossadegh, sino alla morte nel 1967, poi esiliato nella sua fattoria. Lo Scià reprime ogni dissidenza, sia degli islamisti sciiti che poi porteranno alla Repubblica di Khomeini nel 1979 sia dei laici nazionalisti alla Mossadegh, come il primo presidente Abolhassan Banisadr, e si aliena la popolazione. L’odio contro di lui diventa odio contro il suo sponsor, «Amrika«, dai religiosi visto come «il grande Satana» materialista e antiislamico, dai laici secolari come potenza coloniale, infida e nemica della ricchezza e dello sviluppo dell’Iran, perché legato a filo doppio agli alleati Israele e Arabia Saudita. Contro Israele Teheran ha l’animosità dei musulmani in Medio Oriente, la divide dai sauditi il millenario scisma Sunniti-Sciiti.
Il presidente Hassan Rohani
Fino all’accordo preliminare raggiunto sabato notte a Ginevra sul nucleare da Iran, Usa, Europa, Russia, Cina, Germania, Francia e Gran Bretagna, niente arricchimento dell’uranio in chiave militare, meno sanzioni contro il regime, le antiche correnti di odio tra Washington e Teheran hanno avvelenato il negoziato, andato avanti in segreto tra Usa e Iran, faccia a faccia, per mesi. Ma, alla fine, proprio le ancestrali trame del Medio Oriente hanno aperto al presidente Obama e al suo collega neoletto Rohani, la strada dell’intesa. Rohani, e l’astuto ministro degli esteri Javad Zarif abile sui social media come @jzafir, sapevano di dover stringere un accordo. Rowhani è stato eletto, dopo gli anni del rancore populista di Ahmadinejad, dal ceto medio impoverito, dai mercanti del bazar, straordinaria classe che prospera in Iran da millenni, ma che il regime rovina.
L’economista Mohammad Jahan Parvar calcola che sotto lo Shah, 1955-1978, l’economia iraniana cresceva del 6,18% l’anno, arrivando a essere quasi tre volte più ricca della Turchia e vicina al sorpasso della Spagna, grazie a riserve di petrolio seconde a quelle dei sauditi. Khomeini, persuaso che «l’economia è materia per gli asini», affossa il paese dietro la Turchia e oggi la ricchezza di Teheran non raggiunge un terzo della Spagna.
Rohani ottiene dal leader supremo Khamenei semaforo verde per il negoziato, presentandogli i dati della realtà, sintetizzati dallo studioso Afshin Molavi. La Turchia, gli Emirati Arabi, i sauditi, vantano aziende globali, l’Iran no. La minuscola Dubai ha fatto precipitare del 15% la valuta iraniana, il rial, annunciando che le sue banche non l’avrebbero più trattato. Nella buona stagione tecnici, intellettuali, professionisti si imbarcano su giunche malridotte e emigrano in Australia, dove li attendono detenzione, interrogatori e poi confino in località remote. «La Cina non è diventata potenza con il nucleare, ma con l’economia» è l’argomento di Rohani per Khamenei che, per ora, funziona.
Anche Barack Obama è stato mosso da ragioni, pressanti, di casa. La débâcle estiva sulla Siria e la riforma sanitaria, la popolarità al 40%, lo smarrimento della sua amministrazione andavano fermati con un successo, e l’accordo con l’Iran lo è. I suoi rivali in Congresso proveranno a umiliarlo con nuove sanzioni contro Teheran, ma già il saggio Leslie Gelb del Council on Foreign Relations li ammonisce «Non scatenate i cani della guerra».
Il sequestro dei diplomatici americani a Teheran, l’umiliazione del blitz fallito di Carter, la guerra sanguinosa Iran-Iraq, il canto perenne in strada «Morte all’America», il sostegno di Teheran a Hezbollah e Assad in Siria, l’illusione Usa che Saddam Hussein in Iraq potesse «contenere» gli ayatollah, degenerato poi nell’attacco a Baghdad, mezzo secolo di rispettivi passi falsi in una coreografia di morte e distruzione, muovono tutti dall’animosità seguita al golpe di Kermit Roosevelt contro Mossadegh. Ora il premier israeliano Netanyahu tuona contro il patto, ma -con maggiore pragmatismo la Borsa di Israele schizza in alto, prevedendo pace, stabilità e buoni affari. I sauditi rivendicano il proprio programma nucleare, magari comprandolo chiavi in mano dal Pakistan, che si diede la bomba proprio grazie ai finanziamenti segreti sauditi. Teheran rinvia il nucleare militare vedremo se per sempre ma ottiene meno sanzione e il ruolo di leader regionale. La strage all’ambasciata iraniana a Beirut segnala che il cammino non sarà incruento.
Se Eisenhower, 60 anni fa, avesse tenuto duro contro Churchill e Dulles e detto no al golpe di Kermit Roosevelt molto sangue, molto odio, molta sofferenza si sarebbero evitati: vedremo ora se Rowhani e Obama hanno solo «legato» o infine «ammansito» i «cani della guerra» Usa Iran.

l’Unità 25.11.13
Svizzera: no al tetto alle retribuzioni dei top manager
Bocciato dai due terzi il referendum lanciato dai giovani socialisti: dice no il 65,3%
In tutti e 26 i Cantoni favorevoli in minoranza
di Virginia Lori


I cittadini della civilissima Svizzera hanno detto di no. Gli stipendi dei super manager non verranno toccati. È stato, infatti, bocciato il referendum soprannominato «iniziativa 1:12» organizzato per chiedere una limitazione delle remunerazioni dei top manager.
I cittadini della Confederazione Elvetica, infatti, erano stati chiamati alle urne per esprimere il proprio parere su una legge di iniziativa popolare avanzata lo scorso marzo da un comitato di cui facevano parte anche i giovani socialisti. L’iniziativa era partita sull’onda dell’indignazione per i casi di compensi eccessivi emersi durante la crisi finanziaria internazionale de-
gli anni scorsi. Contro si erano pronunciati il governo e il Parlamento (con una maggioranza formata dai partiti di centro e di destra) e soprattutto le associazioni delle imprese e le oligarchie economiche e finanziarie molto presenti nel Paese che si sentivano minacciate dalla proposta.
La loro campagna ha dato risultati, visto che dai voti di tutti i cantoni conteggiati è emerso che la proposta è stata bocciata dal 65,3% degli elettori, mentre solo il 34,7% si è espresso a favore. Un risultato che è risultato abbastanza omogeneo, visto che in tutti i 26 cantoni la proposta di limitazione dei super stipendi non è passata.
Il quesito cui erano chiamati ad esprimersi i cittadini svizzeri era confermare con il referendum l’introduzione di un limite legale alla base del-
le retribuzioni d’oro degli «chief executive». In concreto la norma prevedeva che all’interno di un’azienda lo stipendio più alto non avrebbe dovuto superare di oltre 12 volte il salario del dipendente a livello più basso, in modo che «nessuno potesse avere uno stipendio mensile pari a quando un dipendente guadagna in un anno».
Una norma «solidale» che ha scatenato un forte dibattito pubblico. Alla fine gli argomenti degli oppositori al referendum, che hanno cavalcato le preoccupazioni e il malcontento che serpeggia tra gli svizzeri, devono aver fatto presa. E non bisogna dimenticare che nel Paese hanno sede molte grandi aziende come le società farmaceutiche Novartis e Roche, gruppi assicurativi come Zurich e Swiss Re, e banche come Ubs e Credit Suisse.
Alle logiche solidali avanzate dai promotori dell’«iniziativa 1:12» gli oppositori hanno controbattuto che la proposta «avrebbe indebolito la competitività», rendendo così più difficile «attirare grandi talenti» e avendo come conseguenza il trasferimento di alcune compagnie in altri Stati. Non solo, vi sarebbero stati anche effetti negativi sulle risorse per le pensioni.
«Questa iniziativa era stato un altro degli argomenti usati dal Comitato del No mette in pericolo il nostro benessere. È un boomerang sociale che farà aumentare i disoccupati. In Svizzera i salari sono tra i più elevati al mondo, se passasse il sì risulterebbero ridimensionati».
Argomenti che molto probabilmente hanno fatto presa sugli elettori elvetici. «Oggi abbiamo perso» è stato il commento di David Roth, leader dei Giovani socialisti che avevano proposto il referendum. Mentre il Comitato del «No» ha parlato di «perfetto autogol».
Tra gli oppositori della proposta si segnala anche Sepp Blatter, il presidente della Fifa con sede in Svizzera, secondo il quale come effetto collaterale l’eventuale legge avrebbe anche danneggiato il calcio svizzero.

il Fatto 25.11.13
La Svizzera vota no
I top manager esultano: bocciato il referendum sul taglio della paga


SONORA SCONFITTA per i promotori del referendum soprannominato “iniziativa 1:12” in Svizzera, organizzato per chiedere una limitazione degli stipendi dei top manager. Con i voti di tutti i cantoni conteggiati, emerge che la proposta è stata bocciata dal 65,3% degli elettori, mentre solo il 34,7% si è espresso a favore del tetto ai maxi salari. Tutti i 26 cantoni hanno votato contro. La proposta era di imporre ai salari dei manager un limite legale in base al quale, all’interno di un’azienda, lo stipendio più alto non potesse superare di oltre 12 volte quello più basso, in modo che nessuno potesse avere uno stipendio mensile pari a quando un dipendente guadagna in un anno. In Svizzera hanno sede grandi aziende come le società farmaceutiche Novartis e Roche, gruppi assicurativi come Zurich e Swiss Re, e banche come Ubs e Credit Suisse. I sostenitori della “iniziativa 1:12” sostengono che imporre un limite di legge ai salari avrebbe garantito maggiore equità, ma gli uomini d’affari svizzeri ritengono che la proposta avrebbe indebolito la competitività, rendendo più difficile attirare grandi talenti e facendo trasferire alcune compagnie in altri Stati. Tra gli oppositori della proposta c'era Sepp Blatter, presidente della Fifa con sede in Svizzera, secondo il quale come effetto collaterale l’eventuale legge avrebbe anche danneggiato il calcio svizzero.

l’Unità 25.11.13
La guerra alla corruzione nella Cina di Xi Jinping
La campagna del presidente frutto di una lotta senza quartiere per l’egemonia sul partito
Le novità del Plenum ma la censura resta
di Gianni Sofri


Dal 9 al 12 novembre si è tenuto a Pechino il terzo Plenum del XVIII Comitato centrale del Pcc, al termine del quale è stato pubblicato un lungo documento, che rispecchia le idee e i propositi del nuovo gruppo dirigente eletto al Congresso del Partito un anno fa (nel novembre 2012), e del suo Presidente Xi Jinping.
Nella prima puntata di questo articolo, apparsa ieri, abbiamo esaminato tre dei temi di cui più si è parlato nel Plenum e nel suo documento finale, nonché nei commenti successivi: le riforme economiche, la modifica della legge del figlio unico, la prossima abolizione del laojiao («rieducazione attraverso il lavoro»). Ma il documento finale del terzo Plenum presenta numerosi altri temi, e anche una doppia innovazione di tipo istituzionale. Una commissione si incaricherà di garantire l’esecuzione delle riforme economiche; un Comitato di sicurezza nazionale (che sembra ispirarsi all’analogo comitato esistente negli Stati Uniti) unirà il controllo della sicurezza interna a quello della sicurezza internazionale (compresa, a quanto pare, la Difesa) e i servizi segreti, non senza una compartecipazione alla politica estera. Questi neonati istituti faranno capo (soprattutto il secondo) direttamente al Presidente Xi Jinping, che vede così aumentato il proprio potere da questa aggiunta alla sicura (per ora, almeno) fedeltà degli altri 6 membri del Comitato permanente dell’Ufficio politico. Si conferma così che la vittoria di Xi al XVIII Congresso nel novembre dello scorso anno non è stata soltanto un normale cambio tra campo e panchina, ma il risultato di una lotta senza quartiere per l’egemonia sul partito. Una lotta nella quale la campagna contro la corruzione, favorita da un vasto consenso popolare, ha giocato un ruolo importante, spesso mescolandosi allo scontro politico, o comunque determinando conseguenze politiche. A parte il caso Bo Xilai, di cui si dirà, appare abbastanza evidente che Xi e i suoi alleati abbiano scelto oculatamente, nel vasto campo dei corrotti o supposti tali, i già noti o i possibili avversari politici di una linea che già da tempo alcuni hanno lapidariamente definito a destra in economia, a sinistra in politica: per sinistra intendendo, senza ombra di dubbio, “conservatrice”, nel senso di ostile alle riforme economiche (quanto a quelle politiche, di tipo democratico, va da sé che l’ostilità appartiene all’intero gruppo dirigente).
LA BATTAGLIA
La campagna contro la corruzione, avviata da Xi Jinping, ha occupato le prime pagine degli ultimi due anni. Nel luglio scorso, il Presidente ha promesso di dare una caccia spietata «non solo alle mosche ma anche alle tigri», e cioè non solo ai piccoli funzionari locali, ma anche ai grandi esponenti del regime. La campagna ha infatti mirato alto, colpendo per esempio Zhou Yongkang, già membro del Comitato permanente dell’Ufficio politico, potente “zar” della sicurezza, nonché massimo controllore del mercato petrolifero. Anche diversi suoi collaboratori sono finiti nella rete.
Ma ciò che è più interessante è che Zhou era molto legato al vecchio, ma sempre influente, Jiang Zemin, Presidente dal 1993 al 2003, per il quale l’essere lambito dalla campagna ha avuto praticamente il significato di un avvertimento. Zhou era anche uno stretto alleato di Bo Xilai, la qual cosa ha influito non poco sulla sua caduta.
Un’altra vittima eccellente della campagna contro la corruzione è stato in ottobre il sindaco di Nanchino (una carica paragonabile a quella di un vice-primo ministro) Ji Jianye. Ma non va dimenticato che negli stessi mesi c’è stato un repulisti a tutti i livelli del Partito e dell’amministrazione, mentre sono giunti a conclusione procedimenti avviati con il precedente governo: in luglio, per esempio, c’è stata la condanna a morte, poi sospesa e tramutata in ergastolo, dell’ex ministro delle ferrovie Liu Zhijun.
I PRINCIPI ROSSI
Il caso Bo Xilai appare oggi sempre più cruciale per chi voglia interpretare (tra mille difficoltà) l’evoluzione della politica cinese. Si mescolano in esso delitti e tradimenti, corruzione e lotta alla corruzione (condotta con grande spregiudicatezza), una crescita economica che ha favorito in vari modi i cittadini di Chongqing e un uso quasi provocatorio non tanto delle idee di Mao quanto della sua retorica (slogan, canzoni, ecc.).Tutto questo, prima che si scivolasse nel crimine, aveva fatto della città governata da Bo il luogo-simbolo di una «sinistra» che intendeva frenare la corsa alle riforme e al mercato.
Se è impensabile fare di Bo un martire, non si può neppure sottovalutare il ruolo cui questo politico in rapida ascesa aspirava, di capo di un’opposizione a Xi Jinping. E colpisce anche che entrambi questi uomini appartenessero alla stessa frazione del Pcc, quella dei «principi rossi», figli di grandi protagonisti della storia del Partito (il padre di Bo, Bo Yibo, si era iscritto al Partito nel 1925, aveva partecipato alla Lunga marcia, era stato in prigione per dieci anni, vittima della rivoluzione culturale; quanto a Xi Zhongxun, padre dell’attuale Presidente, fu anche lui incarcerato ai tempi della rivoluzione culturale, poi vice premier con Deng e amico dello sfortunato Hu Yaobang, sincero riformatore, segretario del Partito dal 1982 ma caduto in disgrazia cinque anni dopo). Ma come suol dirsi, non possono esserci due galli in un pollaio, e Xi non faceva eccezione.
Un giorno forse si saprà quanto la lotta alla corruzione abbia interferito con uno scontro violento tra riformatori e conservatori, e quale ruolo abbiano giocato gli errori e le ambizioni di questi ultimi. Per ora, la storia cinese continua a trasmetterci misteri. Ma è certo che prima di dare il via alle sue riforme, Xi ha passato un anno a individuare i suoi nemici e a combatterli duramente. Né la campagna contro la corruzione è stato il solo terreno di questa lotta.
Oggi si capiscono meglio anche certe iniziative di Xi nei confronti delle forze armate, delle quali ha fatto, grazie anche all’uso del nazionalismo e di una strategia aggressiva (si pensi ai conflitti per gli arcipelaghi), degli alleati fidati. Si capisce meglio il significato di un suo viaggio del marzo scorso nel Guangdong, definito «teatro delle operazioni». Indossando una giacca maoista, Xi ha parlato agli alti ufficiali criticando il «romantico pacifismo», ed esaltando il ruolo dei militari; ha mangiato in mensa, è salito su un carro armato e così via.
Ed ecco allora come mai Xi Jinping esca rafforzato da questa nuova fase dopo una dura lotta che ha aperto la strada alle riforme riducendo il potere degli oppositori. Come mai si sia impadronito, sottraendola a Bo, della retorica maoista che lo copre a sinistra: occorre osservare «la linea di massa»; «non si possono rinnegare gli anni di Mao»; «la Cina è rossa e non cambierà mai colore», e così via.
IL POSITIVO
Certo, va riconosciuto che almeno nelle intenzioni del III Plenum c’è qualcosa di buono. Fra le promesse del documento del Plenum ci sono anche, ad esempio, la progressiva diminuzione dei crimini passibili di pena di morte e l’eliminazione della tortura come strumento per ottenere confessioni.
Tuttavia, sia in questi casi sia in quelli di cui abbiamo parlato più ampiamente all’inizio (il figlio unico, il laojiao), non si tratta di conquiste o di convinzioni etiche profonde, ma di concessioni che nascono dalla paura. La paura di un ceto dominante che si sente minacciato e che sempre più numeroso si trasferisce all’estero o vi manda i suoi figli; che viene a sapere che nel 2010 ci sono stati 180.000 «incidenti collettivi» (così si chiamano in Cina disordini, scioperi, ribellioni piccole e grandi, attentati, proteste), vale a dire tre volte di più che nel 2000.
L’OBIETTIVO STABILITÀ
Deng Xiaoping aveva raccomandato ai suoi eredi di «mantenere ad ogni costo la stabilità della società». Un termine, «stabilità», che è diventato una parola chiave nel linguaggio politico cinese (accompagnato o no dal più confuciano «armonia»). È di questo che si tratta: del conservare il proprio potere, del timore di perderlo, da parte di un gruppo dominante che nei suoi esponenti più consapevoli del rischio (e Xi è tra questi) è disposto a liberare il regime dei suoi pesi più vergognosi, odiati e opprimenti. Ma non certo di lasciare spazio a organizzazioni concorrenti e a una discussione libera. Liu Xiaobo è ancora in prigione. Qualcuno penserà a liberarlo? Quale migliore pietra di paragone di questa per capire se è in atto un cambiamento? L’8 novembre scorso, i partigiani di Bo Xilai hanno annunciato la nascita di un nuovo partito politico, con Bo presidente a vita, chiamato Zhixian («La Costituzione è l’autorità suprema»). Alla fine degli anni novanta, Xu Wenli con altri dissidenti dette vita a un Partito democratico. Fu subito arrestato e condannato a 13 anni, scontati i quali venne messo su un aereo e mandato in esilio negli Stati Uniti.
I DISSIDENTI
Vedremo. Per ora, Xi continua a tenere (e a mandare) in prigione molti dissidenti, a chiudere sempre più i rubinetti di internet, l’unico «muro della democrazia» permanente che rimane ai cinesi. Continua a permettere che gli accusati di corruzione (o di altri reati) si confessino in lacrime in una specie di reality show televisivo molto seguito dagli spettatori cinesi: un’autentica gogna. Le sue case editrici e le sue riviste costringono a tagli inverecondi scrittori, giornalisti, intellettuali che vogliano vendere o anche solo farsi leggere in Cina: da J.K. Rowling agli autori di monumentali biografie di Deng Xiaoping e di Steve Jobs (va detto che Hillary Clinton è tra i pochi che hanno ritirato un proprio libro pur di non cedere alla censura cinese); fino all’agenzia Bloomberg, che ha dovuto ritirare un’inchiesta «sensibile» di un suo giornalista. Fino a Romano Prodi, che ha annunciato di aver visto un proprio articolo tagliato! Insomma, guardiamo con attenzione a quanto accade in Cina, in un momento particolarmente delicato. Ma senza farci troppe illusioni.
2. fine. La prima puntata su l’Unità di domenica 24 novembre.

Repubblica 25.11.13
Parte in anticipo Gary Locke, primo rappresentante di origini cinesi
Un commiato per eccesso di smog, ma anche per problemi diplomatici
“Pechino è troppo inquinata” e l’ambasciatore Usa se ne va
di Giampaolo Visetti


PECHINO Smog e nostalgia. Ottime ragioni per abbandonare una terra lontana. Non sufficienti però, almeno non fino ad oggi, se a porle sul piatto della bilancia delle decisioni impegnative è il rappresentante diplomatico della prima potenza del mondo, inviato per controllare la crescita della seconda. Invece Gary Locke, primo ambasciatore americano di origini cinesi ad essere atterrato a Pechino, a sorpresa ha annunciato al presidente Barack Obama che con i primi mesi del 2014 considererà conclusa la sua missione asiatica. Un addio anticipato, pur leggermente scortese, non manca di precedenti. Il suo predecessore, il repubblicano Jon Huntsman, nella primavera del 2011 fece rapidamente i bagagli per correre alle primarie delle presidenziali Usa. Casa Bianca: «Ragioni di forza maggiore».
A far scoppiare il caso Locke, non solo in Cina e negli States, intervengono invece ora “ragioni personali” ufficiali e senza precedenti, sul filo delbon ton diplomatico: l’inquinamento record che soffoca la capitale cinese, tale da consigliare la fuga alla famiglia dell’ambasciatore, innescando la sua necessità di invocare il ricongiungimento affettivo. È stata proprio Mona Locke, moglie e di Gary e madre dei loro tre figli, a spiegare lo strappo. «I nostri bambini – ha detto – devono poter uscire di casa e respirare senza paura. E voglio che vadano in una scuola pubblica, che si facciano gli amici della vita, che imparino a rispettare la comunità e ad aiutare gli altri». Nel nome di una vita sostenibile, all’inizio dell’anno, signora e bambini sono così tornati a Seattle, dopo nemmeno due anni nella dorata prigione pechinese, avvolta nei gas tossici. Già allora, ha rivelato il New York Times, la decisione era presa: papà Gary li avrebbe seguiti a ruota, nel segno della nostalgia e di un amore famigliare superiore alla ragion di Stato.
In Asia, come nel mondo surreale del business e dei maneggi diplomatici, lo stupore è stato grande. Scatenati gli analisti e il popolo del web, uniti nel sospetto che il cuore sia la ruota, non il motore, dell’anticipato viaggio di ritorno della stella dei democratici, primo rappresentante in Oriente di Barack Obama. Domanda più comune sia a Pechino che a Washington: smog e nostalgia, oppure attriti politici e fallimenti commerciali? «Un omogeneo impasto di molti ingredienti», confida un alto funzionario dell’ambasciataUsa in Cina e i fatti degli ultimi mesi lo confermano.
Gary Locke era arrivato nella terra natale degli avi nell’agosto del 2011. Ancora prima di mettere piede a Pechino, per i cinesi era già una star. Ex segretario americano al commercio, due volte governatore di Washington, 63 anni, fu sorpreso in fila, zaino in spalla e mano nella mano con la figlia, mentre attendeva il suo turno per un caffè in aeroporto. Semplicità impensabile, per un funzionario del partito comunista, antropologicamente incline alla “sindrome dell’imperatore”. Locke poi ci mise subito del suo, fiondandosi a visitare Taishan, il villaggio del Sud da cui suo nonno prima e suo padre poi erano emigrati per aprire una bottega di alimentari a Washington. «Un cinese in Cina», si spinse a titolare ilQuotidiano del popolo, e tutto lasciava presagire, se non uno storico matrimonio del promesso G2, quantomeno un trionfo personale.
Il clima invece, alla vigilia della decennale successione alla guida della Città Proibita, cambiò all’improvviso. L’“ambasciatore qualunque” che piaceva alla gente si è trovato prima alla prese con lo scandalo Bo Xilai, l’ex leader neo-maoista tradito dal braccio destro, riparato nel consolato Usa di Chengdu. Poi è stato investito dalla cinematografica fuga del dissidente cieco Chen Guangcheng, rifugiato nell’ambasciata Usa di Pechino mentre Hillary Clinton atterrava nella capitale e le autorità cinesi, per evitare lo strappo, furono costrette a concedere un visto “di studio” per New York.
La luna di miele era già dimenticata: Locke è stato infine travolto dalle tensioni Cina-Giappone per il controllo del Pacifico, dalle inchieste cinesi contro le tangenti pagate dalla multinazionali americane per conquistare il più ricco mercato del pianeta e dalle ultime rivelazioni sulla parentopoli sino-statunitense. «Le nostre relazioni bilaterali – ha ammesso ieri confermando l’addio – sono decisamente complesse, ma il mio rientro anticipato resta ispirato da opportunità strettamente private». Voglia di cieli azzurri e di weekend fuori porta con la famiglia, miraggi che già mettono in fuga dalla Cina centinaia di manager stranieri, spaventati per la salute dei figli piccoli. Gary Locke lo sapeva anche prima, ma rendere ufficiale che «Pechino oggi è inadatta alla vita umana» pone la l’emergenza su un livello di imbarazzo superiore pure per il partito- Stato. Anche perché la resa di Locke, lasciando vacante la sede estera più importante della Casa Bianca, apre una stagione diplomatica nuova in Asia: una Kennedy a Tokyo, trionfalmente presentata all’imperatore Akihito nel 50esimo anniversario dell’omicidio del padre, e nessuno a Pechino, mentre Xi Jinping intima agli Usa di «ripensare il rapporto tra le due grandi potenze». Cercasi dunque urgentemente ambasciatore americano per la Cina: preferibilmente dotato di maschera a gas e senza famiglia.

il Fatto 25.11.13
Africa
Ricchi di ingiustizie
Cinquanta miliardari e 400 milioni di disperati
di Véronique Viriglio
*

Un continente di 54 Stati dalle sterminate risorse naturali, tassi di crescita economica sostenuti, una popolazione giovane e prospettive molto promettenti in termini di investimenti nonostante crisi e conflitti aperti. Eppure un terzo del suo miliardo e 110 milioni di abitanti continua a vivere nella povertà, tra carestia, malattie e pochi servizi di base. Sono queste le due facce della stessa medaglia chiamata Africa. Per fare un esempio concreto: la Nigeria che sguazza nel petrolio, i succosi profitti realizzati dalle multinazionali straniere e i nigeriani costretti a rubare l’oro nero dagli oleodotti per procurarsi benzina, mettendo in pericolo la propria vita.
Parlano chiaro i dati del Fondo monetario internazionale (Fmi) e della Banca mondiale. Per il 2013 la crescita del Prodotto interno lordo (Pil) in Africa è stimata al 5,6% mentre gli investimenti diretti stranieri (+5,5% nel 2012) sono in costante aumento. Ma non basta per ridurre la fascia di popolazione che vive ancora nell’estrema povertà, cioè con meno di 1,25 dollaro al giorno. Quest’anno sono 400 milioni gli africani che non riescono a sbarcare il lunario. É in Africa sub sahariana che si concentra un terzo delle persone più povere al mondo, mentre 30 anni fa erano solo l’11%. Sorge spontanea la domanda: chi trae beneficio dalla ricchezza prodotta in Africa (basta citare il petrolio della Nigeria, l’uranio del Niger, i diamanti del Sudafrica, il coltan della Repubblica democratica del Congo e il cacao della Costa d’Avorio?
Innanzitutto le multinazionali straniere: quelle delle storiche potenze coloniali - tra cui le francesi Total e Areva -, dei pesi massimi dell’economia mondiale - Cina in primis - e delle potenze emergenti - quale l’India – che si sono accaparrate il ‘supermercato’ Africa nonostante la maggior parte dei paesi abbia conquistato l’indipendenza 50 anni fa. Così è stato coniato il termine di “neo-colonialismo economico”, esasperando tensioni sociali già sedimentate da un lungo dominio politico-culturale.
A guadagnarci sono anche i padri-padroni al potere da decenni in numerosi paesi, che hanno trasformato la loro presidenza in un vero e proprio regno basato su nepotismo, clientelismo e corruzione radicati ad ogni livello dello Stato. Paul Biya in Camerun, Denis Sassou Nguesso in Congo, Teodoro Obiang Nguema in Guinea equatoriale per non parlare delle famiglie Bongo, in Gabon, e Kabila in Repubblica democratica del Congo.
E poi ci sono loro, gli uomini d’affari miliardari: in Africa nell’ultimo decennio, come nel resto del mondo, i ricchi sono diventati più ricchi. Secondo l’ultima classifica stilata dalla rivista Forbes, nel 2003 erano soltanto due su tutto il continente, oggi sono una cinquantina, con un patrimonio totale di 103,8 miliardi di dollari. In testa c’è l’uomo d’affari nigeriano Aliko Dankote, che ha una fortuna di 20,8 miliardi di dollari, ben 8,8 miliardi in più rispetto al 2012.
Cresce l’economia, aumentano gli investimenti, i miliardari sono più numerosi, ma la povertà non diminuisce in modo significativo. É questa l’ingiusta equazione che la maggioranza vive sulla propria pelle; c’è chi direbbe lo “scandalo africano”.
Sulla scena continentale, per lo più nei centri urbani, si sta affacciando un nuovo protagonista: la classe media. In base allo studio Oxford Economics intitolato “Un continente luminoso: il futuro delle opportunità nelle città dell’Africa”, entro il 2030 la nuova frontiera del consumo di massa si localizzerà a Johannesburg, Il Cairo, Luanda, Lagos e Città del Capo.
Intanto la Banca mondiale ha evidenziato i rischi di una “crescita a due velocità” mentre l’Africa Progress Panel, presieduto da Kofi Annan, ha lanciato l’allarme per “le ineguaglianze stridenti e sempre più grandi tra la minoranza dei ricchi e la maggioranza dei poveri”, causando “un profondo malessere sociale” soprattutto tra i giovani africani che non trovano un lavoro e sono costretti ad emigrare.
Esperti africani ma non solo suggeriscono da tempo che basterebbe reinvestire le ricchezze nella sanità, l’istruzione e il lavoro, ma anche promuovere l’agricoltura in sistemi basati sulla giustizia, l’equità e il buon governo per portare l’Africa sulla strada della pace e dello sviluppo. Solo così, ne è convinto Annan, “le promesse che si aprono al continente e alle generazioni future non saranno vane”.
*Agenzia Misna

La Stampa 25.11.13
Famoso per i discorsi anti Rom
Slovacchia, neonazista eletto governatore
L’ estrema destra di Marian Kotleba trionfa nella regione di Banska Bystrica


Nell’Europa dei populismi anche la Slovacchia fa notizia. Dopo la scalata del «Front National» di Marine Le Pen in Francia e l’exploit del «Partito delle libertà» di Geert Walders in Olanda, ora ad allarmare l’Unione è Marian Kotleba. Il candidato neonazista ha vinto le elezioni regionali che si sono tenute sabato, diventando così governatore della regione di Banska Bystrica, nel centro del Paese. Marian Kotleba, presidente del «Partito nazionale solidarietà slovacca», è un militante di estrema destra, famoso soprattutto per i discorsi contro la minoranza rom (nel Paese i nomadi rappresentano il 9% dei 5,4 milioni di abitanti, ndr). Il suo partito era già stato messo fuori legge in passato per le forti connotazioni xenofobe, ma successivamente venne reintegrato. Kotleba ritiene che la Nato sia un’organizzazione terroristica, vorrebbe che la Slovacchia abbandonasse l’euro e ha più volte espresso apprezzamenti neanche troppo velati per il governo nazista instaurato nel Paese durante la seconda guerra mondiale. Sabato ha ottenuto il 55 per cento dei voti. Un successone. Ciononostante, in base ai risultati delle elezioni regionali diffusi ieri, il partito di sinistra «Direzione-Socialdemocrazia» che fa capo al primo ministro Roberto Fico ha vinto in sei regioni su otto, riconfermandosi il partito più forte della Slovacchia. Nella capitale Bratislava ha vinto invece il candidato dell’opposizione di centro-destra, Pavol Freso, che ha definito il successo del neonazista Kotleba «un enorme colpo alla democrazia». [E. ST. ]

il Fatto 25.11.13
Panico quotidiano
Amare vuol dire vivere
di Emiliano Liuzzi


Che non sarebbe neppure da scherzarci. La medicina semiufficiale non la considera una patologia molto grave. Te ne accorgi dall’odore, dalle stanze di vita quotidiana che puzzano di solitudine. Si chiama philofobia, è la paura di innamorarsi. Lucio Battisti e Mogol ne avevano fatto anche uno dei loro brani più celebri. Ma era solo una canzonetta, come direbbe Jannacci.
In realtà ci sono persone che quel blocco mentale lo vivono ogni volta che trovano un compagno o una compagna di viaggio, anche se la sensazione vorrebbe non avessero un timetable sulla faccia, un’ora di partenza e un’a l t ra di arrivo. E’ questione d’inconscio, ma si riconosce dalla paura di aprirsi, mostrare i sentimenti, pronunciare parole che invece rimangono in un pensiero, spesso su una penna. Paura d’amare? Può essere una delle definizioni più sbrigative. Gli psichiatri spiegano che un filo conduttore che accomuna tutti coloro che sono affetti dalla patologia esiste: “E’ una modalità per difendersi dalla parte oscura dell’amore, non amiamo per non soffrire. Se l’amore non entra nella nostra vita è perché non gli abbiamo permesso di entrare. E non l’abbiamo permesso perché ci sono persone che non vogliono soffrire”.
Se dovessimo trovare anche una causa bisogna tornare, come sempre, all’infanzia, all’origine famigliare, a come si è cresciuti, in quale contesto. Potrebbe essere uno dei motivi. Qualcuno azzarda anche i modi di vivere, cambiati e velocizzati, per cui non c’è più tempo per nulla, neanche per pensare.
Amore vuol dire anche affetto. Implica una serie di conseguenze comportamentali che ci rendono meno soli al-l’interno di un mondo. Implicano spirito di sacrificio e di adattamento. Per questo si ripercuote in tutta un’a l t ra serie di distrubi collaterali. Che fanno della philofobia un problema da affrontare. Perché è il sintomo di una una patologia più grave che si chiama paura di vivere.

Repubblica 25.11.13
Nuovi documenti e un convegno ricordano l’intellettuale morto settanta anni fa
Pintor segreto
Amori, commedie e traduzioni nelle carte ritrovate
di Simonetta Fiori


Prima santino della Resistenza, poi voltagabbana sedotto dalla divisa nazista. Ma mai un uomo con i suoi tormenti, anzi un giovane di vent’anni, il ragazzo irrequieto che scopre l’eros e insieme la vanità del vivere, affascinato dalle donne ma anche dal destino di morte, in febbrile attesa del riscatto per sé e per una generazione. È un Giaime Pintor intimo e sconosciuto che affiora da diverse scatole di documenti inediti. In una cartellina ora conservata all’Archivio di Stato è raccolto il diario integrale, con le pagine che furono tagliate nel 1978 dall’edizione einaudiana. Da una cantina di casa Pintor spunta l’officina artistica rimasta finora in penombra: un dramma filosofico indue atti, probabilmente scritto nel 1941, e una riduzione cinematografica deLa figlia del Capitano di Puskin che però non piacque al regista Mario Camerini. E in una cassa a lungo conservata dal nipote Giaime junior è conservata la traduzione diLa dittatura di Carl Schmitt, di cui si aveva notizia ma mai ritrovata: un lavoro che era stato pensato per la nuova collana einaudiana di diritto e politica progettata con Cesare Pavese. Materiali preziosi, molto eterogenei, che restituiscono la poliedricità di un genio enigmatico, soggetto in Italia a fortune alterne.
È capitato a molti dei suoi coetanei, quelli cresciuti tra le due guerre. Sono i figli della crisi, prima appiattiti sull’antifascismo, poi sul fascismo secondo la nuova vulgata tesa a sostituire l’altra. Nel caso di Pintor, luci e ombre appaiono moltiplicate dal suo profilo impaziente, figura del rischio e dell’inquietudine, «costantemente in movimento » scrisse il fratello Luigi davanti all’irreale inerzia delle sue spoglie, sotto un cielo plumbeo di settant’anni fa. Aveva 24 anni, Giaime, quel 1° dicembre del 1943. Un destino di irrequietezza interrotto da una mina tedesca, ma presto riverberato su altre vite, soprattutto su quella del fratello minore, destinatario del messaggio dall’Oltretomba «che avrei preferito non ricevere ». L’ultima lettera, la bibbia sacra dell’intellettuale engagé.
E da Luigi Pintor occorre ripartire, dai manoscritti in grafia minuta che negli anni Novanta decise di affidare a una giovane ricercatrice fiorentina. Ne sarebbe scaturita nel 2007 la bellissima biografia Il costante piacere di vivere (Utet). «Non potrò mai dimenticarlo», racconta ora Maria Cecilia Calabri. «Vedi, mi disse, il problema è che Giaime è stato una figura originalissima, di difficile comprensione. Come lo collochi? Sembra più quasi l’eroe sottile di un romanzo, che andrebbe interpretato chiave poetica». Le narrò anche un aneddoto della madre Adelaide che, invitata in un liceo a parlare dell’eroe, suggeriva di pensare a Giaime come a un ragazzo. A non ridurre la sua vita a un gesto estremo.
Un ragazzo di vent’anni, che ancora oggi continua a parlare attraverso le sue pagine più private, quelle espunte dall’edizione einaudiana delDoppio Diario.
«Nell’avvertenza», continua Calabri, «si dichiarava che il testo era stato pubblicato integralmente, rinunciando a pochissimi frammenti appena abbozzati. In realtà compaiono numerosi tagli che sacrificano non solo il Giaime più intimo, il suo complicato rapporto con le donne, ma anche la ricchezza delle sue frequentazioni, tra Balbo e Pavese, Mila e Dionisotti. E anche la sua intensa amicizia con l’ebreo Mischa Kamenetzsky, con cui condivideva lo pseudonimo di Ugo Stille». Brani di natura diversa, anche riflessioni politiche dell’“agente volante” einaudiano, che la Calabri in parte già include nella sua biografia, ma che saranno da lei reintegrati completamente nella nuova edizione critica di
Doppio Diario. E per la prima volta, su iniziativa della soprintendente Monica Grossi, l’autografo sarà esposto a Cagliari, dove oggi e domani Pintor viene ricordato in un convegno al Teatro Lirico.
Che fa Giaime? «Giaime spazia », rispondevano gli zii Pintor che lo ospitavano a Roma. Giaime spazia anche nella vita sentimentale, alla ricerca di un senso che fatica a trovare. Le storie occasionali gli lasciano il disgusto «per un inutile spreco di tempo e di energie». A Perugia, nell’estate del 1940, prima di partire per la guerra, l’incontro con due donne importanti. Filomena d’Amico, l’amica colta con cui avrebbe stretto un sodalizio intellettual-sentimentale. E Ilse Bessel, una giovane tedesca di Heidelberg che sarà il suo grande amore, ispiratrice delle ultime poesie e dedicataria del libro di traduzioni di Rilke. Bionda, sguardo vivace, una figura slanciata dalle lunghe gambe. «Era una giovane deliziosa », avrebbe ricordato la cugina Lia Pinna Pintor. «Io mi sentivo un po’ impacciata perché lei era un tipo disinvolto, molto elegante, ma di un’eleganza sportiva. Giaime era molto affascinato». Si accende qualcosa che con Filomena resta assopito. Le righe qui accanto raccontano l’esaurimento di quel rapporto sentimentale, non però di un’amicizia.
Ma nelle carte trovate più direcente da Cecilia Calabri non c’è solo il Giaime innamorato. Ecco il drammaturgo in erba che, sotto il titolo diTempo perduto, compone “Dialoghi sulla vita dell’uomo”. Un’opera teatrale in due tempi, che anticipa alcune riflessioni della sua ultima lettera. «Si tratta di un genere per lui inusuale», commenta la biografa, «ma una vocazione teatrale è già evidente in alcune lettere da Besançon. E anche da allievo ufficiale aveva scritto
Tragedia al corpo di guardia su una rivistina del Reggimento». InTempo perduto però è la morte a dominare sulla scena, non come prodotto dell’azione – che in realtà è sostituita da un dialogo in un salotto – ma come evento in tragica connessione con la vita. «C’è un passaggio in particolare che richiama il suo testamento politico, là dove un personaggio dice: non è vero che chi muore lascia un vuoto, dopo un po’ tutto si rimette a posto. E se il morto tornasse al mondo tu non sapresti dove metterlo. Non c’è più posto».
Giaime lo dirà meglio nell’ultima lettera a Luigi: «Una delle poche certezze acquistate nella mia esperienza è che non ci sono individui insostituibili e perdite irreparabili. Un uomo vivo trova sempre ragioni sufficienti di gioia negli altri uomini vivi. E tu che sei giovane e vitale hai il dovere di lasciare che i morti seppelliscano i morti». Per Luigi non sarà così. L’avrebbe sorpassato negli anni, diventandone il fratello maggiore. Ma senza mai riuscire a seppellirlo, a riempire quel posto lasciato vuoto.

Repubblica 25.11.13
Gli inediti
“Che giornata straordinaria, tutto il tempo insieme a lei”
di Giaime Pintor


Firenze, 22 luglio 1941
Sono arrivato a Firenze inquieto. Dubitavo molto di trovare Ilse dopo accordi così vaghi. Invece era arrivata in albergo dieci minuti prima di me. Ci siamo visti aprendo le finestre e attraverso un piccolo cortile. Era intenta a riordinare i suoi vestiti. Per lei è stata soprattutto una sorpresa: sentirsi chiamare e ridere con la voce di una volta a Perugia. Era commossa ma difesa, come è sempre ai primi incontri. Dopo cena abbiamo passeggiato a lungo sull’Arno. E a poco a poco si animava e si addolciva. Ha parlato molto di sé, più delle altre volte, dicendo delle proprie paure e dei rimorsi che la tormentavano. È molto tedesca: sente il fascino che viene dalla sua gente e dice di soffrirne.
Ha citato Rilke e George. Teme che questo suo consumare gli altri sia la sua condanna (uno pensa sia la sua fortuna, per il suo egoismo).
Per me quel linguaggio è familiare, ho potuto consolarla quasi con le stesse parole e dirle la verità (in fondo è la mia stessa esperienza). Mi abbracciava stretta, meravigliata di questa identità di linguaggio, e credo che mi abbia voluto bene. Dice di recitare, ma riesce a mantenere una grande purezza.
Siamo tornati tardi, un po’ eccitati, e l’ho sentita addormentarsi nella camera accanto.
Firenze, 23 luglio 1941
È stata una giornata di grande intensità, come quelle che dividono il tempo e fanno ardere i ricordi lentamente accumulati. Tutto un giorno con Ilse, liberi di fermarci dove volevamo, di scendere in ogni ristorante, di sedersi in un caffè o in un giardino.
Quello che è impareggiabile in lei è la suagaiezza, la sua attenzione ai fatti esterni, quella facoltà di vedere tutto con meraviglia e ironia. La sera a San Miniato era dolce e remissiva come mai le ragazze nostre. Ho capito il pregio di queste giornate: durante tutto il giorno è un’amica intelligente e carissima che fa trascorrere il tempo, la sera dà quella che nessuna amica mi potrebbe dare, la dolcezza dei capelli sulle mie braccia e baci lenti e calmi. Siamo tornati molto stanchi e partendo mi sono ricordato che la lasciavo senza un soldo. Terribile rimorso.
Torino, 20 novembre 1941
La mattina in ufficio. Il primo pomeriggio in albergo; poi a casa Pinna Pintor dove Lia festeggiava la sua laurea. Il solito pubblico di giovani intellettuali imbarazzati. Passato rapidamente da Einaudi a sentire le novità. *** Dire che cosa resta di F. (ndr Filomena D’Amico) è più difficile: non ebbi mai per lei una vera affezione. E fin dal primo momento mancava tra noi quella superba e (...) che mi rivelava l’esistenza di una donna e stringeva alla sua figura fantasie e miti senza (...). (Così la prima volta che vidi Ilse in una strada di Perugia, e Barbie a Heidelberg in un vecchio ristorante: figure sconosciute, ma già (...). Con F. nacquero rapporti amichevoli che solo la mia debolezza senza alcuna necessità trasformò in (...).
Qui sopra alcune pagine inedite del Diario di Giaime Pintor. Gli spazi bianchi, indicati con le parentesi, sono un tratto costante del Diario. Pintor aveva l’abitudine di lasciare in sospeso la parola, per poi definirla con precisione.

il Fatto 25.11.13
Palcoscenico
Bellocchio libera lo zio Vanja
di Tommaso Chimenti


La staticità e lo stallo sono le colonne portanti del cechoviano Zio Vanja qui rese dalla neutralità delle scene, un legno chiaro e morbido, dove i rossi s’accendono e sottolineano i momenti cardini del dramma russo. La regia di Marco Bellocchio s’affida generosa e lascia campo libero a Sergio Rubini (s’esalta a fiammate), nei panni di Vanja, gran lavoratore senza ambizioni che ha riposto le sue aspettative nell’intellettuale di famiglia, e Michele Placido (peso e personalità), appunto il Professore, che gode in città di un sostanzioso vitalizio che dalla campagna puntualmente i parenti gli inviano.
Le luci sul fondale determinano i cambiamenti di stato, meteo e interiore, aiutate anche da un grande pannello deformante che storpia le figure, quasi le liquefà, modifica e altera. Al contrasto con il legno della dacia emergono pennellate di vermiglio didascalico d’effetto (come il cappottino della bambina in Schindler’s list): dapprima la giacca del Prof, che sfrutta parassita il lavoro alacre delle formiche, la casacca del protagonista che arde ribellandosi alla sudditanza psicologica nei confronti del letterato, il gomitolo che riannoda il filo per, gattopardescamente, ritornare allo status quo iniziale.
L’emblema feticcio è l’albero surreale sullo sfondo, la famiglia senza radici né busto, solo rami solitari, che ricorda i paradossi di De Chirico o l'assurdo di Magritte. La regia restituisce insoddisfazione, apatia, spleen, rassegnazione.
Positiva Anna Della Rosa (“La grande bellezza”) Sonja la figlia del prof, che già aveva interpretato questo ruolo nel Vanja con Haber. Nel ‘14 la trasposizione cinematografica.