martedì 26 novembre 2013

l’Unità 26.11.13
Camusso, Cgil: «Ora gli uomini si mettano loro in discussione»
di Natalia Lombardo


«A questo punto gli uomini dovrebbero interrogarsi sulla loro sessualità, cominciare a guardarsi e a mettersi in discussione, a compiere quel percorso di liberazione che le donne hanno intrapreso da tanto tempo», perché il dramma della violenza sulle donne, è un problema culturale, da affrontare non solo con un’ottica «sicuritaria» e repressiva.
È la strada indicata da Susanna Camusso, segretaria nazionale della Cgil, intervenuta ieri al dibattito promosso dal sindacato alla Casa del cinema di Roma: «Contro la violenza sulle donne, segnale dentro e fuori lo schermo», con Lunetta Savino, la direttrice di RaiFiction Eleonora Andreatta, la consigliera Rai Benedetta Tobagi, e Gad Lerner unico uomo al tavolo. Tema: l’urgenza di cambiare linguaggi dei media e soprattutto nel servizio pubblico, per abolire quegli stereotipi che perpetuano la concezione proprietaria che gli uomini hanno delle donne.
Un punto di vista fuori dalle convenzioni, quello della leader sindacale che ha vissuto il movimento femminista: piuttosto che cercare «di essere uguali», per le donne è ora di rivendicare le «differenze». Perché «un Paese che non riconosce i soggetti non è un Paese democratico», basti pensare al razzismo, prosegue Camusso, fino al femminicidio che è «una sconfitta per tutti, anche degli uomini, ed è una sconfitta della democrazia». La responsabilità dei media è grande: «sul caso delle baby prostitute ci sono voluti cinque giorni perché si parlasse dei clienti», ma alle donne servono anche prevenzione e aiuto. Una priorità del governo la lotta alla violenza, spiega Letta.
Anche gli uomini però si attivano, come nel progetto «Maschio per obbligo». Il presidente Napolitano ieri ha auspicato che anche gli uomini si uniscano alla battaglia contro la violenza sulle donne. E a Montecitorio la presidente Laura Boldrini ha incontrato Denise Garofalo, figlia di Lea, uccisa dal marito in quanto testimone di giustizia.

l’Unità 26.11.13
Verso il boicottaggio
No ai pomodori degli schiavi
«Non sono etici. Evitate i prodotti agricoli pugliesi»
In Norvegia, Francia e Inghilterra cresce la mobilitazione contro «gli schiavi del pomodoro»
Auchan, Carrefour e Lidl serrano i controlli
I sindacati a Bruxelles: campagna di boicottaggio
di Gino Martina


In Norvegia, Francia e Inghilterra cresce la mobilitazione contro gli «schiavi del pomodoro» nel sud Italia. In Svezia un’organizzazione etica ha chiesto alle grandi catene di effettuare controlli. E su France 2 va in onda un’inchiesta sul lavoro nei campi pugliesi.
Pomodori e prodotti agricoli pugliesi sotto accusa. In Norvegia, Francia e Inghilterra, consumatori e sindacati sono shoccati e indignati per ciò che hanno visto e letto sulle campagne italiane: lavoratori sottopagati e migranti ridotti in condizioni che spesso superano il concetto di schiavitù, per ridursi a quello di oggetti da usare e abbandonare. Esponenti della Flai Cgil di Puglia parlano addirittura di campagne di boicottaggio o blocchi di alcuni prodotti. Di certo c’è che organizzazioni come Ethical Trading Initiative Norway (Ieh), nel paese scandinavo, e Ethical Trading Initiative, a Londra, fanno pressioni sulle grandi catene di importazione e distribuzione dei loro paesi, e chiedono chiarimenti all’Italia. E che in Francia, le catene Auchan, Carrefour e Lidl hanno serrato i loro controlli sull’eticità dei prodotti agricoli italiani, perché pressate dall’opinione pubblica, in subbuglio, dopo aver guardato a settembre il reportage dei giornalisti di Cash investigation, un programma d’inchiesta del canale Tv France 2, su ciò che accade nella campagne pugliesi.
La Flai Cgil pugliese, assieme all’Effat ( Federazione europea sindacati alimentazione agricoltura e turismo), ieri ha raccontato a Bruxelles, nella sede della Regione, a parlamentari europei, rappresentanti delle commissioni agricoltura, giustizia e lavoro, qual è la situazione, presentando il dossier «Agricoltura: migranti e lavoro in Puglia». Un dossier che racconta come l’80 per cento dei contratti, nelle campagne della regione non sia rispettato: si dichiara 60 euro di salario al giorno ma non si percepisce più di 27/30 euro per giornata. Campagne dove sono stati censiti oltre 34mila lavoratori migranti, di cui l’80 per cento provenienti da Romania e Bulgaria, e almeno 10 mila stipati nei ghetti del foggiano per la raccolta del pomodoro. Campagne nelle quali il 25 per cento dei braccianti, su 176 mila iscritti negli elenchi ufficiali, è a nero. Vale a dire spiega Giuseppe Deleonardis, segretario regionale Flai stimando per difetto, almeno 40 mila lavoratori senza nessuna garanzia e alla mercé degli sfruttatori».
IL REPORTAGE
Una realtà filmata dal giornalista Wandrille Lanos e altri collaboratori della trasmissione di France 2, che hanno lavorato al servizio dal titolo «Les recoltes de la honte», i raccolti della vergogna. Nel quale hanno ripercorso la filiera di broccoli e pomodori, partendo da un’azienda di distribuzione in Veneto. Attraverso i marchi impressi sulle casse degli ortaggi sono risaliti alle campagne del foggiano e all’azienda, con certificazione bio, dove i lavoratori nei campi e nella catena della conservazione, sono pagati quattro euro l’ora e il padrone dichiara di pagarli dieci.
Di lì il viaggio è proseguito tra i migranti costretti a vivere in baraccopoli improvvisate di cellofane e lamiere, senz’acqua e collegamenti, e tra le imposizioni dei caporali. Storia simile nel leccese per i cocomeri e in Africa, seguendo la filiera delle banane. I giornalisti di Cash per primi hanno domandato alle grandi catene di distribuzione se sapessero cosa c’è dietro quei prodotti.
La risposta, in sostanza, è stata che non è responsabilità loro ciò che accade in Italia. A una nostra richiesta di informazioni Auchan e Carrefour francesi non hanno, per adesso, risposto. Ma secondo Ivan Sagnet, tra i protagonisti del primo sciopero dei migranti nelle campagne di Nardò e responsabile del coordinamento immigrazione Flai Cgil Puglia, l’opinione pubblica francese costringe a delle misure le catene della grande distribuzione, come è accaduto in Inghilterra e in Norvegia, dove hanno fatto scalpore gli articoli della testata Aftenposten e Medici senza frontiere.
Tanto che l’ottobre scorso, a Roma, i rappresentanti di Ieh e Eti hanno firmato un protocollo con Fai Cisl, Flai e Uila Uil e le associazioni datoriali Aiipa e Anicav, per spingere verso la tracciabilità etica dei prodotti e ottenere un marchio qualità etico-sociale. «L’interesse dell’opinione pubblica dell’Europa sottolinea il segretario nazionale Uila Stefano Mantegazza può portare a ottimi risultati per contrastare il lavoro nero sfruttato nei nostri campi». «Deve esserci tracciabilità anche su chi lo lavora il prodotto precisa De Leonardis perché la riduzione della schiavitù arriva anche negli scaffali della grande produzione. La nostra battaglia è costruire un Europa dei diritti».

l’Unità 26.11.13
Pensioni, la marcia indietro del governo
Non c’è più la rivalutazione degli assegni fino a 2000 euro lordi, resta il nodo della tutela del reddito
Ai sindacati non basta, nuove mobilitazioni
Venerdì protesta dei pensionati. Cgil Cisl e Uil valutano il da farsi dopo lo sciopero
di Massimo Franchi


ROMA Retromarcia sulla rivalutazione delle pensioni. Dopo aver annunciato in pompa magna un emendamento per rendere possibile la rivalutazione del 100 per cento le pensioni fino a circa 2mila euro lordi, nella bagarre per chiudere il testo in commissione Bilancio e arrivare in aula, dove l’aspetta la fiducia, l’emendamento è stato ritirato dai relatori Santini e D’Alì.
Ad annunciare la marcia indietro è stato il presidente della Commissione Bilancio Antonio Azzollini (Ncd). La proposta di modifica finanziava la maggior rivalutazione (nel testo attuale è ora prevista solo al 90 per cento) tramite un prelievo di solidarietà sulle pensioni d'oro già a quota 90mila euro l'anno (con il 5%) che saliva fino al 15% per gli importi oltre i 190mila euro annui. Il testo quindi uscirà dal Senato con le sole pensioni fino a 1.500 euro lordi rivalutate al 100 per cento, mentre lo scaglione da 2.000 a 2.500 euro lo sarà al 75%, da 2.500 a 3.000 euro al 50%. Oltre i 3.000 euro non ci sarà alcuna rivalutazione. Mentre l’intero meccanismo è stato modificato: se fino a quest’anno lo schema era a scaglioni (ogni parte della pensione aveva una rivalutazione) , ora si passa a fasce (dall’anno prossimo l’intero importo ricadrà in un’unica fascia).
Gli stessi relatori e fonti del governo ribadiscono l’impegno a tornare sull’argomento nel passaggio alla Camera. Ma le critiche dei sindacati sono fortissime. Il governo «non può lavarsene le mani», attacca il segretario generale dello Spi-Cgil Carla Cantone. «Il governo trovi la forza e la volontà politica di dare un segno tangibile di cambiamento. Rivalutare le pensioni rappresenta un modo per ridurre concretamente le disuguaglianze, perché sono anni che il potere d'acquisto dei pensionati viene duramente colpito». «Bisogna ritornare aggiunge Cantone al sistema di rivalutazione introdotto dal governo Prodi e aprire immediatamente il tavolo di confronto con le organizzazioni sindacali dei pensionati. Non mi pare una grande soluzione lavarsene le mani, è troppo comodo. I pensionati conclude attendono risposte e non le solite promesse che restano regolarmente solo sulla carta». Anche la Fnp Cisl chiede al governo di tornare indietro: «Reintrodurre la rivalutazione delle pensioni per restituire ai pensionati il potere d’acquisto che è stato tolto loro nel corso degli ultimi anni»,attacca il segretario generale dei pensionati Cisl Gigi Bonfanti. Una manifestazione unitaria nazionale di Spi-Cgil, Fnp-Cisl e Uilp-Uil era già stata convocata per venerdì, ma dopo ieri assume ancora più valore. La manifestazione si svolgerà
presso il teatro Italia, in via Bari 18, con inizio alle ore 9,30 e termine entro le 13. I sindacati chiederanno tutela del potere d'acquisto delle pensioni, equa redistribuzione della ricchezza a favore di lavoratori e pensionati, politiche in grado di garantire un welfare universalistico, una legge nazionale a sostegno delle persone non autosufficienti e delle loro famiglie.
OGGI ESECUTIVI DI CGIL, CISL E UIL
Questa mattina invece si riuniranno unitariamente gli esecutivi di Cgil, Cisl e Uil per valutare gli esiti dello sciopero territoriale di 4 ore e nuove mobilitazioni. Il «niet» di Raffaele Bonanni a nuovi scioperi fa propendere per una serie di iniziative per riuscire ad ottenere i cambiamenti richiesti alla legge di Stabilità, concentrandosi ora sulla Camera. Probabile l’avvio di una campagna di informazione su larga scala sulle richieste sindacali. Difficile invece che ci siano iniziative comuni con Confindustria e Rete Imprese, mentre è probabile che verrà ribadita la richiesta di un in
contro al premier Enrico Letta.

l’Unità 26.11.13
L’emendamento del governo prevede lo stanziamento per tre policlinici romani
Alla sanità privata regalo di 430 milioni
di Luigina Venturelli


«Temo che la scomoda verità sia una sola: per alcuni i soldi si trovano sempre, per altri non si trovano mai». L’amarezza con cui la senatrice del Pd Nerina Dirindin commenta l’emendamento proposto dal governo alla legge di Stabilità per regalare 430 milioni di euro a tre ospedali privati romani si spiega, soprattutto, nel contesto degli emendamenti che in questi giorni sono già stati bocciati. Due, in particolare, le stroncature che hanno scatenato l’ira della capogruppo democratica in commissione Sanità a Palazzo Madama: quella della modifica per garantire un’adeguata assistenza sanitaria alle persone gravemente non autosufficienti (in aggiunta ai 75 milioni finora stanziati per l’assistenza sociale) e quella della norma per destinare 20 milioni di euro alla tutela della salute delle persone detenute in carcere.
Niente da fare. Entrambe le proposte sono state bocciate per mancanza di coperture, mentre sembra intoccabile il finanziamento di 50 milioni di euro per il 2014 e di 35 milioni all’anno per i prossimi dieci anni (dal 2015 al 2024) in favore dei policlinici universitari gestiti da università non statali (definizione in cui rientrano solo il Policlino Gemelli Columbus e il Campus Biomedico di Roma), a cui si aggiungono 30 milioni di euro per il 2014 al Bambin Gesù. Risorse che, oltretutto, vengono assegnate alle tre strutture ospedaliere per un generico «sostegno alle attività istituzionali», e non in cambio di determinate prestazioni sanitarie.
«È davvero sconcertante, soprattutto in un momento economico così difficile» accusa Dirindin, «che tutte queste risorse siano assicurate a strutture private che nell’esercizio della loro attività si comportano come vogliono, senza rispettare le norme del pubblico su concorsi e appalti, e per le quali non può e non deve venir meno il principio che i disavanzi finanziari sono a carico di chi li produce».
Sugli stessi toni la segretaria nazionale della Cgil, Vera Lamonica: «Mentre le risorse per la sanità, per la formazione e per la ricerca pubblica subiscono tagli pesantissimi, si finanzia la sanità privata con risorse dello Stato e si coprono, in alcuni casi, i buchi di bilancio dei policlinici privati. L’emendamento va ritirato perché ben altre sono le priorità su cui investire per garantire il diritto alla salute e alle cure, la ricerca e la formazione di personale sanitario. E, in ogni caso, i dissesti finanziari di aziende private non possono essere scaricati sui cittadini».

l’Unità 26.11.13
La riforma contestata
Beni culturali in rivolta per il riassetto del ministero
Oggi un incontro sulla Relazione che dovrebbe trasformare il Mibact in base ai tagli della Spending review
Ma dai sindacati ai dirigenti di musei, archivi e biblioteche è un coro di no
di Luca del Fra


ROMA «FINORA NON HO SENTITO UNA SOLA PERSONA CUI PIACESSE QUESTA PROPOSTA DI RIFORMA DEL MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI (MIBACT)», dice sorridendo Marisa Dalai Emiliani, così una delle nostre più importanti museologhe e storiche dell’arte sintetizza il disappunto montante che attraversa tutto il settore, dalle associazioni ai sindacati, dagli operatori ai dirigenti. Non è stata bene accolta la Relazione della Commissione per la riforma del Mibact istituita dal Ministro Bray, che entro il 31 dicembre dovrà comunque presentare un riassetto del suo dicastero per ottemperare ai risparmi della «Spending review».
Oggi un primo incontro per discutere la Relazione si terrà all’Istituto Sturzo di Roma, dove si sono date convegno varie associazioni e analoghe iniziative partiranno dai sindacati. Mani avanti per non cadere indietro: si sottolineano gli spunti interessanti della Relazione, si precisa che si vuole discutere e fare nuove proposte da indirizzare al ministro. Ma dietro tanti convenevoli c’è nervosismo e lo slogan è «No alla mutazione genetica del Ministero!». In che senso potrebbe essere stravolto il Mibact lo spiega il responsabile della Uil Beni culturali Enzo Feliciani: «Il nostro doveva essere un ministero di tecnici, storici dell’arte, archeologi, architetti, archivisti, bibliotecari: la Relazione tuttavia propone di passare da 6 direzioni generali tecnico-scientifiche a una sola, quella del patrimonio, che inglobando tutto, dall’archeologia all’arte contemporanea, non potrà che essere diretta da un amministrativo». Gli fa eco Irene Berlingò a capo di Assotecnici: «Staccare i musei dal territorio, cioè dalle soprintendenze è contro la natura stessa del Mibact». Insomma un Ministero che invece di trovare energie dalle competenze e dal territorio, è immolato al «centralismo burocratico».
Ma le critiche non si limitano a questo: «La proposta di una direzione generale all’innovazione non mi convince affatto insiste Dalai Emiliani -: è generica, si rischia di commettere errori già fatti, come il portale Italia per la cultura, con un enorme
dispendio di danaro, risultati deludenti e che non servono a nessuno». Un portale che, ricordiamo, è valso al Mibact solenni critiche e prese in giro pindariche da parte della stampa, ma l’innovazione e la digitalizzazione sono cose cui Bray tiene molto: «Per questo dovrebbero partire dalle competenze rilancia Dalai Emiliani -: se si vuole innovazione vera, scientifica, di alto livello, occorre rilanciare gli istituti centrali che la hanno sempre fatta con successo, come quelli del Restauro, delle Pietre Dure o del Catalogo Unico. Da lì devono uscire le novità e le linee guida per poi irradiarsi sul territorio».
Salvatore Settis nel suo Italia Spa aveva statuito che «l’ossessione del modello americano è tale che buona parte del discorso sulla “modernizzazione” del sistema italiano è puntato sui musei (anzi, sul museo-azienda), dimenticando il territorio in cui essi sono radicati (e le soprintendenze che vi hanno giurisdizione), col rischio gravissimo di spezzare il nesso museo-città-territorio che è il cuore della nostra cultura istituzionale e civile». Oggi sulla separazione tra musei e soprintendenze che la Relazione propone, Settis consigliere del ministro mantiene il più stretto riserbo. Chi può valutare pregi e difetti del modello soprintendenze/musei è Rita Paris che è del pari soprintendente all’area archeologica dell’Appia Antica nonché direttore del Museo nazionale romano: «Separarli significa spezzare un legame culturale spiega -, ma rischia anche di trasformarsi in un costo, che potrebbero permettersi forse solo gli Uffizi, il Colosseo e Pompei. Ma una maggiore indipendenza i musei la meritano, perché oggi le cose non vanno come vorremmo e su di loro gravano compiti insostenibili da un personale scarsissimo, spesso composto dal solo direttore e dai custodi».
Peraltro la riforma del Mibact nasce dall’esigenza di ridurre i costi, e tuttavia dare autonomia ai musei come è proposto nella Relazione implicherebbe che tutti i circa 210 direttori dei musei, oggi amministrativamente semplici funzionari malpagati, acquisiscano anche il rango di direttori di seconda fascia, con un notevole maggiore esborso. Staccati dalle soprintendenze, i musei finirebbero assieme a biblioteche e archivi: tra i più contrari a questo accorpamento sono gli archivisti. Sulle loro spalle pesa oltre l’immenso patrimonio storico, anche l’intero settore della pubblica amministrazione, archivi oggi in buona parte digitali: «Il che significa avere competenze particolarissime spiega Ferruccio Ferruzzi dell’Anai -, perché oltre ai dati, occorre immagazzinare anche il sistema con cui sono accumulati e possono essere riletti, altrimenti non servono a niente. Bisogna confrontarsi con tutte le realtà amministrative per trovare un terreno comune, un lavoro molto complesso, e specifico che rischia di annacquarsi con questi accorpamenti».
Una delle proposte che sta creando maggiori malumori è la fantomatica unità di controllo «che sarebbe alle strette direttive del gabinetto del ministro osserva ancora Feliciani e avrebbe un potere verticale su tutti gli uffici del Mibact, che diventerebbero una dependance della politica. Ora al Mibact non è che manchino i controlli, ma spesso, e con effetti non sempre positivi nonché notevoli polemiche, sono bypassati proprio dal livello politico. Questa Unità mi sembra una pessima idea». Luigi Malnati, direttore generale alle antichità del Mibact, dagli anni 90 ha visto alternarsi ben 4 riforme del Ministero. Siamo alla quinta: tutta questa ginnastica fa bene? «No. Il personale è scarso, esausto e si stava cominciando ad assestare su un modello. Per ottenere risparmi, dunque senza risorse da investire, oggi forse sarebbe meglio migliorare quanto c’è, con l’accorpamento e ridimensionamento di funzioni delle direzioni regionali, insomma con una migliore regolamentazione del traffico».

il Fatto 26.11.13
Per le armi i fpndi si trovano: 6 miliardi per le navi militari
Blitz del ministro Mauro e la norma è nella manovra
Stabilità. Altro che rigore: nell’articolo 3 della legge è stato inserito il mega-stanziamento
Dopo gli F-35, ecco i 6,5 miliardi per “far bella” la Marina militare
di Daniele Martini


Il ministro Mauro dice “signorsì” alle pressioni dell’ammiraglio De Giorgi, lo stesso che si è fatto promotore della crociera da marketing della portaerei Cavour per diffondere il made in Italy nel settore armi.
Se per fare grande e forte l'Aeronautica militare si spendono 15 miliardi di euro per l'acquisto dei cacciabombardieri F-35, può la Marina fare la figura della cenerentola restando a bocca asciutta? Certo che no. E infatti, solerte e comprensivo nei confronti del grido di dolore degli alti comandi, il ministro ciellino della Difesa, Mario Mauro, è corso ai ripari. Al comma 13 dell'articolo 3 della legge di Stabilità ha inserito quasi di soppiatto uno stanziamento monstre che si presume faccia felice lo Stato maggiore marittimo e la società statale Fincantieri che le navi militari le fabbrica, ma che è una specie di bocca di pozzo aperta sui conti pubblici per i prossimi vent'anni: in totale quasi 6 miliardi e mezzo di spesa per “assicurare il mantenimento di adeguate capacità della Marina militare”. In pratica per rinnovare la flotta. Su Mauro hanno fatto breccia le valutazioni e le pressioni del nuovo capo di Stato maggiore della forza navale, l'ammiraglio Giuseppe De Giorgi. Lo stesso alto ufficiale che si è fatto promotore della circumnavigazione dell'Africa e di puntate in Medio Oriente con la portaerei Cavour, vanto della marineria militare italiana, trasformata all'uopo in un bazar itinerante inviato a illustrare le eccellenze del made in Italy. Inteso nella sua accezione più vasta: Nutella, mobili, design, yacht, cavi, pneumatici, sistemi ferroviari. E soprattutto armi, ovviamente.
ALCUNE SETTIMANE fa l'ammiraglio ha perorato al ministro la causa del rinnovamento della flotta presentandola come un'esigenza assai più impellente di quella degli F-35. Secondo il capo della Marina la vera minaccia da cui l'Italia deve difendersi è quella che grava sulle rotte di approvvigionamento delle materie prime, insidiate dalla pirateria internazionale. Per difendere quelle rotte meglio dei cacciabombardieri sono le navi. Il ministro Mauro ha immediatamente recepito il messaggio senza però minimamente ritoccare il programma di acquisto degli F-35, che anzi viene integralmente confermato. Il ministro si è limitato ad affiancare l'uno all'altro, sommando megaspesa a megaspesa. Come se l'Italia fosse il paese del bengodi militare. È una decisione grave, soprattutto in considerazione dello stato disastroso della nostra economia e dei conti pubblici e che sottovaluta la sofferenza acuta di una parte sempre più estesa di cittadini a cui si continuano a chiedere sacrifici e tasse alla rincorsa perenne di sfuggenti parametri di bilancio imposti dall'Europa.
Quella scelta è grave anche da un punto di vista politico perché effettuata quasi a ripicca rispetto a una parte del partito di maggioranza, il Pd, che infatti ora soffre in un imbarazzato stato d'impotenza soprattutto per il metodo seguito. Con l'impegnativo stanziamento a favore della Marina militare vengono per l'ennesima volta trascurate le prerogative del Parlamento. E ciò avviene nel momento in cui gli stessi democratici avevano molto insistito perché le scelte sugli investimenti militari fossero riportate nelle aule parlamentari e sottratte alla potestà esclusiva e sostanzialmente insindacabile di ministri e capi di stato maggiore. Quella battaglia politica aveva preso le mosse dalla polemica sulla stratosferica spesa per gli F-35 e si era concretizzata dal punto di vista parlamentare nell'istituzione di una commissione di indagine per verificare l'opportunità o meno dell'acquisto dei cacciabombardieri, un'inchiesta poi estesa alla valutazione di tutti i circa 70 costosissimi programmi di spesa militare. L'indagine è tuttora in corso e la conclusione prevista per gennaio. Sono stati sentiti capi di stato maggiore, manager industriali, esperti militari con l'obiettivo di accertare una volta per tutte, in una logica complessiva e il più possibile sottratta alle interessate ed estemporanee pressioni delle lobby, che cosa ci fosse da confermare in quel fiume ingentissimo di spesa e che cosa invece tagliare. Che cosa fosse più prudente rinviare e che cosa al contrario accelerare.
RISPETTO a questa impostazione, la decisione del ministro appare come una specie di colpo di mano e di fatto ridicolizza l'attività della commissione di indagine sulle spese militari e più in generale l'iniziativa parlamentare in tema di difesa. Di più: essendo il mega-investimento per la Marina inserito nella legge di Stabilità su cui verrà posta la fiducia in Parlamento, esso è di fatto sottratto a qualsiasi possibilità di modifica da parte dei senatori. Insomma, con una specie di passo del gambero per le spese militari, anche le più ingenti, viene di nuovo imposto a tutti un ultimativo prendere o lasciare. E il Parlamento risospinto verso un mortificante e passivo ruolo notarile.

l’Unità 26.11.13
La polemica
Fioroni: no alla grande sinistra unita nel Pse


«In un partito uno può starci anche stretto, ma io mi impegno fino all’8 dicembre e lo faremo con l’iniziativa pubblica del 6 dicembre, affinché non si cada nella tentazione di mettere in piedi una grande sinistra unita, che faccia sentire meno solo il Nuovo centrodestra». Così Beppe Fioroni, ieri in tv. Alla Convenzione del Pd Fioroni non c’era ma ha ascoltato gli interventi e ha notato «che avevano una parola in comune che era il termine socialismo». «Noi abbiamo dato vita a un soggetto che si chiama Pd contesta Fioroni ma vedo che ci preoccupiamo di essere o la parte buona della destra o la parte cattiva della sinistra, io vorrei invece ricordare che il Pd è nato per essere un soggetto di centrosinistra». E dopo la polemica, sulla stessa onda, che aveva sollevata nei giorni scorsi, ha proseguito: «Vorrei evitare che scompaia una delle tradizioni fondanti del Pd, cioè i cattolici democratici e il popolarismo, che ieri (domenica, ndr) sono stati i grandi assenti su quella platea. Anche chi poteva ricordarne la storia, per interessi di cassa e di bottega ha infatti continuato a scavalcare a sinistra». Per Fioroni si dice preoccupato perché «in un colpo solo si annuncia che si organizza il congresso del Pse «e se si va all'iscrizione del Pd nel Partito socialista europeo, si entra nell’Internazionale socialista e si fanno le liste alle Europee con Vendola, e questa è una grande sinistra che si riorganizza, mentre io ritengo che bisogna fare un grande centrosinistra».

il Fatto 26.11.13
La scissione premia il centrodestra: è primo nei sondaggi


Silvio Berlusconi, spesso, per risollevarsi il morale commissiona sondaggi alla Ghisleri. E dagli ultimi rilevamenti s’è accorto, ma forse lo sospettava, che il divorzio pacifico con Angelino Alfano avrebbe portato più voti al centrodestra, al quale lui si immagina al vertice. In conferenza stampa nella sede di Forza Italia, dopo una requisitoria sulla sentenza Mediaset che l’ha condannato in Cassazione, il Cavaliere svela i suoi dati: “Ho avuto i sondaggi di Euromedia: Forza Italia arriva intorno al 21 per cento il Nuovo centrodestra al 3,9 per cento. Sommati alle altre forze del centrodestra, superano di due punti la coalizione della sinistra”.

La Stampa 26.11.13
Tessere in bianco a Salerno
Ascoltato il coordinatore locale dell’area Cuperlo


È stato ascoltato per circa un’ora dal sostituto procuratore della Dda di Salerno Vincenzo Montemurro il coordinatore provinciale dell’area Cuperlo Simone Valiante. Il deputato del Pd, interrogato come persona informata sui fatti accompagnato dall’avvocato Vincenzo Speranza (anche se la presenza del legale non era necessaria) del foro di Vallo della Lucania uscendo dal palazzo di giustizia ha definito «proficuo» il colloquio con il magistrato. «Ci siamo confrontati a lungo spiega ai giornalisti ma ci sono in corso indagini e non mi sembra il caso entrare nei dettagli». Al magistrato, Valiante ha ribadito anche le perplessità sulla campagna di tesseramento in provincia di Salerno già espresse pubblicamente e contenute anche in un ricorso alla commissione di garanzia nazionale del Partito Democratico.
«Ho sottolineato dice come a Salerno si sia registrata un’affluenza di voto sproporzionata rispetto ai tempi per espletare le operazioni».
L’indagine riguarda il ritrovamento di un pacchetto di tessere originali e in bianco del 2012 e di un elenco di nominativi presso un imprenditore di Nocera Inferiore. Nei prossimi giorni sarà interrogato anche il responsabile organizzativo del Pd fino a ottobre scorso Nello Mastursi, prima di acquisire atti e documenti ufficiali presso la sede nazionale del Pd a Roma e ascoltare i componenti della commissione di garanzia nazionale e l’ex segretario democratico Pier Luigi Bersani.
Nei giorni scorsi le polemiche tra i due principali sfidanti alla segreteria del Pd, Matteo Renzi e Gianni Cuperlo, erano state anche assai aspre, anche a causa di alcune situazioni nel mirino, come quella di Salerno. Poi all’assemblea di due giorni fa i due si sono abbracciati e rivolti critiche soltanto politiche.

Corriere 26.11.13
Alfano, Renzi, Letta
Tre leader in cerca di maggioranza L’occasione dei nuovi «democristiani»
di Mauro Magatti


Alfano, Renzi, Letta: l’Italia è  dunque destinata a ritrovarsi democristiana?
In effetti, quello che sta accadendo potrebbe essere visto come una nemesi storica: buttata fuori dalla porta, la Dc rientra dalla finestra. Ma è proprio così?
Forse qualcuno ci pensa o ci spera. Molti lo temono e, io penso, non c’è da augurarselo. Ma, in realtà, quello che sta accadendo, è un’altra cosa. Il riemergere di leader di estrazione democristiana, collocati in formazioni politiche diverse, suggerisce infatti che, profondamente smarrito, il Paese tende a tornare, al di là di tutto, attorno al suo principale baricentro culturale. Che, comunque la si voglia mettere, ha a che fare con la sua radice cattolica.
Sul piano politico, ancora oggi, quando si parla di «centro» si pensa a quei partiti che si pongono nella posizione mediana dello schieramento parlamentare. Un luogo incolore, privo di identità e virtù, regno delle astuzie e degli scambi di potere inconcludenti. Pratiche rispetto alle quali il Paese ha sviluppato una forte allergia, che manifesta tutte le volte in cui si intravvedono segnali di un ritorno della Dc. Per questo il «centro» è diventato sinonimo di immobilismo, affarismo, sottogoverno.
Esattamente per questo, quando la Dc crollò, la Seconda Repubblica si strutturò secondo una dinamica reattiva: per vent’anni i leader dei due schieramenti — Berlusconi e D’Alema — si sono combattuti sfruttando il rifiuto di tutto ciò che anche lontanamente ricordava la Dc. E semmai stabilendo, ciascuno a modo suo, una relazione di scambio con il mondo cattolico e i suoi interessi. Una soluzione che non ha fatto bene né al Paese né alla Chiesa.
I progetti di modernizzazione dei due principali partiti non solo hanno radicalizzato la loro contrapposizione, ma hanno anche (e soprattutto) minato quel comune terreno culturale e istituzionale che è necessario per il buon funzionamento della democrazia. Anche perché, per vincere le elezioni, erano costretti ad allearsi con le ali estreme a cui veniva di fatto concesso un forte potere di ricatto.
Così, invece di convergere al centro, il bipolarismo italiano si è polarizzato, dando vita a coalizioni incoerenti e litigiose. Svuotando il centro politico, la Seconda Repubblica ha anche progressivamente perso contatto con la realtà sociale e culturale italiana. Esattamente il contrario di ciò che occorreva fare per poter governare.
Di fronte alla crisi profonda nella quale l’Italia è finita, ora il sistema politico riconverge attorno al suo baricentro, quasi in forma automatica e irriflessa. Ma questo movimento è ben lontano dall’essere approdato a un punto stabile.
La situazione a destra e a sinistra appare ancora molto precaria. Renzi vincerà il prossimo congresso del Pd, ma dovrà poi governare un partito che, nella sua struttura, farà fatica ad accettare la nuova leadership. Alfano deve consolidare la sua posizione e soprattutto rafforzare il radicamento della formazione che ha fondato. Una partita difficile. Entrambi i fronti necessitano di tempo per trovare un equilibrio nuovo non solo tra le forze politiche ma soprattutto con la società italiana.
Trovare la quadratura del cerchio è assai complesso. Anche perché la soluzione ha a che fare solo in parte con la vita interna dei partiti. Molto dipende dalle regole del gioco istituzionale.
Per questo, il nuovo quadro politico che si è andato costituendo in queste settimane apre un’occasione straordinaria per i tre leader: lavorando insieme per il prossimo anno e mezzo, essi hanno la possibilità di ridisegnare le basi della nuova stagione politica, che potrà poi pienamente nascere dopo le prossime elezioni. Sia in campo economico e sociale, sia in campo istituzionale, il 2014 potrebbe rivelarsi un tempo utile per mettere finalmente a frutto le larghe intese, anche in considerazione del fatto che si va delineando una maggioranza trasversale che può fare a meno di Berlusconi. La realizzazione delle linee di riforma costituzionale presentate dalla commissione dei saggi, la nuova legge elettorale, la rinegoziazione della linea di politica economica europea nel semestre di presidenza, l’avvio di alcune grandi riforme in campo economico e sociale (dalla scuola al mercato del lavoro) sono obiettivi a portata di mano.
Se andranno in questa direzione, con coraggio e lungimiranza, i tre leader «democristiani» — con la benedizione di Napolitano — daranno un fondamentale contributo a spingere il Paese verso il suo futuro.
A vent’anni dal crollo della Dc, sono tre eredi di quel partito che hanno in mano la partita per delineare i termini di una nuova stagione politica ed economica. Una stagione che, senza prevedere il ritorno della Balena Bianca e sfruttando il cambiamento di clima che il nuovo pontificato porta con sé, potrebbe finalmente contemplare la nascita di un bipolarismo migliore in quanto meglio ancorato al centro sociale e culturale profondo di questo Paese.

l’Unità 26.11.13
Roma, rischio default
Marino: «È il conto di Alemanno»
Il sindaco: «Rissa causata da chi ha lasciato il buco»
Marchini scatena l’ostruzionismo
di Jolanda Bufalini


ROMA Il sindaco Ignazio Marino, in visita al cantiere della Nuvola di Fuksas, rigira il caschetto bianco fra le mani: «Me lo porto in Aula», medita, con riferimento al clima di domenica sera, quando in Campidoglio si è aperta la discussione sul bilancio 2013. Strumento di programmazione della spesa che il predecessore Gianni Alemanno avrebbe dovuto far approvare un anno fa. Fischi, botte, ostruzionismo, l’opposizione di centrodestra ha considerato (non si sa bene perché) offensiva la convocazione di domenica sera, coadiuvata dal gruppo di Marchini che ha depositato 100.000 ordini del giorno con il dichiarato intento di portare la capitale al commissariamento. Così, mentre l’ex presidente dell’aula Giulio Cesare, Marco Pomarici, dirigeva le cacofoniche grida dal pubblico, un altro pasdaran, il fascistissimo
Dario Rossin, si precipitava al banco della presidenza, colpendo con il gomito la testa del primo cittadino, nell’intento di strappare il microfono al presidente. Un fallo «non volontario», si è scusato ieri. «Danno derivante da altro reato» reciterebbe il codice, perché effettivamente, ammesso che il Rossin non si sia accorto di aver colpito il sindaco, la furia con cui si è scagliato non era involontaria e, anzi, è proseguita con un ceffone a freddo contro il capogruppo di Sel Gianluca Peciola, il quale orgogliosamente è rimasto fermo «come un budda».
Dario Rossin è quello dei manifesti elettorali con la frase di Wojtyla, «semo romani damose da fà» subito corretta nel web da un più appropriato «semo coatti». Non è la prima volta che, come si dice a Roma, si è fatto «riconoscere»: contro Alemanno, durante la vicenda della vendita di Acea, rovesciò la scrivania delle stenografe. Poi è passato dalla Destra (Polverini l’aveva nominato, in quota Storace, al vertice dell’istituto Arturo Carlo Jemolo) a Fli e al sostegno dell’ex sindaco, con argomenti di difficile comprensione come questi: «Le forme democratiche di un'eventuale scelta, adottate invece dalla formazione politica alla quale si vorrebbe aprire, non sono state seguite». La sceneggiata sul bilancio pare sia originata da una nuova esigenza di visibilità legata alle spaccature del centrodestra, con la nascita annunciata ieri del gruppo di Forza Italia capitolino.
Purtroppo, la situazione a Roma, se non è seria è molto grave. Il bilancio deve essere approvato per legge entro il 30 novembre, pena il commissariamento e, ieri sera, ordini del giorno ed emendamenti avevano raggiunto quota 160.000, la previsione è che oggi saranno 200.000. Per quanto la discussione generale si concluda questa sera, e le votazioni inizino mercoledì, è fisicamente impossibile, se le cose restano come sono, approvare il bilancio dentro la scadenza. «Complimenti! è la reazione del sindaco Stiamo cercando di riparare al danno del disavanzo di quasi 1 miliardo di euro che coloro che ieri hanno alzato le mani fisicamente in aula, hanno causato». E ha ribadito: «Con serietà e rigore, cercheremo di chiudere il bilancio dell'amministrazione precedente e soprattutto di disegnare il bilancio del 2014 che è quello del rilancio di Roma».
Si sta parlando di soldi già spesi nel primo semestre dell’anno da Alemanno. Per questo appare incomprensibile lo scatenamento di Alfio Marchini e il numero abnorme di emendamenti presentato dalla sua lista. Il sindaco lo punzecchia sulle torri dell’Eur, ormai scheletri stile Beirut, che incombono sul nuovo centro congressi di Fuksas. Marchini nega di essere parte in causa. Però c’è chi ricorda il suo antico legame con Caltagirone. L’estremismo del rampollo «calce e martello» (Alemanno è più cauto e ha espresso solidarietà al sindaco) potrebbe trovare spiegazione nelle tensioni sui cantieri della linea C della metro o quelle su Acea.
«Il miliardario che siede in consiglio non si preoccupa del default? si scandalizza Gianluca Peciola Cioè di 23.000 dipendenti che si troverebbero nella situazione di quelli di Washington quando Obama è stato paralizzato dai Tea Party». Il Pil della Capitale, reagisce Fabrizio Panecaldo, portavoce di maggioranza, è il 7% di quello nazionale, se salta il bilancio il primo effetto «sarebbe un abbassamento del rating, anche il governo nazionale è molto preoccupato». In più, friggono le partecipate come Atac, dove, con il taglio prospettato di altri 100 milioni di euro, si teme per la continuità aziendale.
Lionello Cosentino, segretario del Pd romano, considera «inaccettabile la violenza contro una giunta appena insediata. Si è scatenata una rissa senza argomenti di merito, il consiglio deve poter esercitare il diritto-dovere del voto». Con Marino, con il quale Cosentino si è incontrato ieri sera, sono allo studio gli strumenti. Compresa l’inammissibilità degli emendamenti ripetitivi.

il Fatto 26.11.13
Bernoccoli, guanti e mattoni: Roma sgonfia la bici di Marino
Colpito durante l’ultimo consiglio
Il trattamento che la città sta riservando al “marziano” alle prese con i buchi di bilancio, gli squali e le opere incompute
di Antonello Caporale


“Ho un bernoccolo in testa”. E ha quasi sorriso. Questa forma espressiva conduce Ignazio Marino a resistere ai più feroci trattamenti che Roma, la città di cui è sindaco, gli sta riservando. La gomitata che il consigliere comunale dei Fratelli d’Italia ha sganciato (senza alcuna intenzionalità, come ha poi chiarito) nell’aula Giulio Cesare sul tetto della città, nella fattispecie la testa di Ignazio, è il segno che la Capitale promuove nella continuità il libero confronto delle idee. Se si parla di soldi, palazzi e poltrone si tratta con i guantoni. È successo con Alemanno e prima con Veltroni e ancor prima con Rutelli, e con ogni risma di giunta capitolina, ogni fascia tricolore. Loro, più navigati, hanno schivato, lui da inesperto ciclista della politica s’è trovato il bernoccolo alla prima conta del potere. Più di 850 milioni di euro di debiti, soldi già spesi da chi c’era e che lui si trova a rendicontare. Non aveva compreso, o ha capito male, oppure ha capito tardi che Roma è la capitale dell’ostruzione, in senso proprio e metaforico. Gli sono cascati addosso solo dal gruppo capitanato da Alfio Marchini, costruttore di famiglia di antico lignaggio e di vaste relazioni, 150 mila emendamenti, un mare in cui annegare tutti.
A ROMA l’ostruzionismo non è solo consentito dai regolamenti comunali, ma favorito, incoraggiato, sostenuto. E allora Marino, sorridendo, ha riunito la giunta e ha detto: “Bisogna cambiare passo”. E si è diretto, nella coerenza della sua proiezione visiva, (perciò disteso, ben rasato, col nodo della cravatta perfetto), a salutare la Nuvola di Fuksas, qui siamo all’architettura concettuale, che Roma inaugura ogni anno, nell’attesa che si completi. I lavori singhiozzano e giustamente si sincronizzano con l’indole cittadina al dubbio permanente, al-l’incompiutezza come segno dell’imperfezione umana. È una sorta di allineamento astrale, una condizione necessaria, A Roma ogni prova da completare è una fatica primordiale, ogni consegna dei lavori una ipotesi allo studio, ogni promessa un debito incagliato. Marino col bisturi in mano aveva promesso che no, lui avrebbe inciso e si sarebbe voltato pagina. “Mi sento un marziano. Una definizione che mi si addice”, aveva chiarito agli infedeli perchè fosse chiaro progetto e proposito. Invece, e purtroppo, ogni giorno un guaio. Ha pensato di chiudere i Fori Imperiali, e i commercianti riuniti tra via Labicana e via Merulana, le strade angolari al-l’area interessata alla chiusura, hanno inscenato drammatici sit-in con cartelli apocalittici: “Non vogliamo morire tra i veleni”. Non è stato conveniente cambiare le abitudini e i sensi di marcia. E Ignazio l’ha capito dopo, sempre dopo. Infatti alle proteste è seguito un micro piano di adeguamento della viabilità cittadina. E sempre biciclettando Marino è incappato nei tunnel delle varianti della Metro C, il più grande cantiere italiano, e anche il più buio, il più denso di inghippi e di inguacchi. Il luogo di coagulo del potere eletto della città: le imprese edili, i grandi palazzinari. Senza garbo, o forse senza misura, o anche, e soprattutto, senza ponderazione, la giunta del chirurgo ha preteso di rivedere ogni virgola del progetto e ogni centesimo del suo costo, che era intanto lievitato di alcune centinaia di milioni di euro. Risultato: l’associazione degli appaltatori ha bloccato i lavori, gli operai hanno bloccato la città. E un fiume di inchiostro ha colorato la faccia del sindaco per merito anzitutto del Messaggero, il giornale storico della Capitale, guarda caso di proprietà di Caltagirone, il dominus delle opere, pubbliche e private. Risultato? La Giunta ha corretto gli intendimenti, le varianti sono state accolte, i soldi in qualche modo sganciati. Marino ha capito dopo, tardi e male. E, sorridendo, ha ricevuto l’ingegner Caltagirone nel suo studio. Pace fatta. Ci mette tutto l’impegno che può. Arriva ogni mattina prima delle otto al Campidoglio e indossa i guanti da chirurgo. É così pignolo che non dosa la fatica: con la stessa determinazione duetta su un avverbio, i suoi assistenti hanno dovuto provare lo stupore di vederlo all’opera con la correzione di un comunicato stampa, e sul piano regolatore. “Alla fine della giornata sei stanco morto ma non hai prodotto niente”, confessa uno di loro. “Ignazio è scrupolosissimo, si documenta su tutto. Ma per me la sua destinazione più giusta era il ministero della Salute. Lì sarebbe stato un campione”, dice Felice Casson, suo amico e collega di banco senatoriale. “Che sia onesto non lo discuto, ma che sia ambizioso oltre forse ogni misura è una percezione che si fa più forte ogni giorno che passa”, garantisce Alemanno. É un po’ Forrest Gump e un po’ carogna? “Più carogna che altro”. Questo è il resoconto di un vigile urbano che ciondola nella sala Giulio Cesare. Anche coi pizzardoni, gli storici e dibattuti vigili urbani di Roma che il sindaco vorrebbe rimandare in strada a conquistare la gloria, la questione si è fatta complicata e a tratti così buffa da apparire una piece teatrale.
L’AMORE di Marino verso i curricula, la sua fede incrollabile nel merito (cosa in sé straordinaria se riferita al corso delle nomine italiane) è stata tale che un impappinamento generale ha condotto lo staff a promuovere al comando dei vigili un carabiniere che, in base ai suoi titoli, non aveva i meriti pretesi. E dunque: annuncio, proteste, scuse. Marino, sorridendo, si è ricreduto. É stato scelto un poliziotto e speriamo che se la cavi. Qui dunque la domanda da girare al Pd, il partito che l’ha candidato e poi – vedendolo all’opera – se ne è pentito: è davvero un Forrest Gump o un simulatore professionista? Sorride per inconcludenza o per strategia? Francesco D’Ausilio, quarantenne capogruppo al Comune: “È un uomo che ha rotto l’equilibrio e il patto tra generone e popolo che i suoi predecessori avevano costruito. Per governare Roma devi però trovare una relazione con la città e anche con chi la rappresenta. Io dico sempre ad Ignazio: il potere ce l’hai, adesso trova una grande idea sulla quale organizzare il consenso”.

Corriere 26.11.13
In coda e senza soldi: la Capitale dello scontento
Cortei non autorizzati, cantieri fermi, gomitate in consiglio
Venti giorni fa un incontro segreto Marino-Caltagirone
di Goffredo Buccini


La maionese è impazzita. «Magari! Vorrebbe dire che si muove... qua stamo tutti incartati!». Il poliziotto allarga le braccia, davanti alle transenne che sbarrano anche il tratto di solito non proibito dei Fori Imperiali, tra clacson e imprecazioni. «C’è una manifestazione improvvisata. Provi un po’ a parcheggiare là», indica. E là è un groviglio di moto e scooter davanti ai cancelli del Palatino, sotto gli occhi di turisti allibiti e finti centurioni indifferenti.
Mezzogiorno. In duecento, forse trecento accorsi qui da tutta Italia invocano il metodo Stamina, innalzano striscioni (Vite a tempo ) e rabbie anche legittime: paralizzando il cuore di Roma, senza autorizzazione, com’è ovvio. Confusi tra i malati campani, con le stesse maglie nere della manifestazione ma molta legittimazione in meno, tifosi della Nocerina e della Salernitana, teste calde che vogliono arrivare alla chetichella sotto Montecitorio a fare ammuina (ne identificheranno una ventina). Cinquecento metri più su, i senzacasa occupano un pezzo di piazza Santi Apostoli. Una fila di autobus di linea e pullman turistici è ferma per tre ore da piazza Venezia a piazza Colonna e oltre. Via Cavour è un serpente di macchine fino alla Stazione. Sembra una vecchia domenica di austerity, il centro della capitale, in questa bolla di immobilità rancorosa. Invece è un lunedì, e non un «lunedì nero», come piace ai titolisti. È un dannato lunedì quasi di routine, perché a Roma si scaricano ormai senza preavviso tensioni e umori di un Paese sempre più teso e di malumore.
Alemanno non se ne faceva una ragione, e aveva pensato — tra molti sberleffi — di mettere addirittura una tassa sui cortei. Che non erano colpa sua, almeno quelli. Come non sono colpa di Ignazio Marino, il nuovo contestatissimo sindaco, eletto dal Pd: un genovese di madre svizzera con lunga esperienza da chirurgo in America, non proprio un prodigio di sintonia con l’anima buiaccara di Rugantino e i motti di Pasquino. Come direbbe Guccini, il cuore è di simboli pieno. Il simbolo della Roma mariniana, e del suo ripiegarsi sui propri guai, sta in questa marmellata di lamiere immote, di appuntamenti saltati, di lavori impossibili: capitale stracotta, nazione in ginocchio; Roma incarna più che mai, in peggio, la povera Italia dei nostri giorni. Questo lunedì non è colpa di Marino, ripetiamolo.
E però Marino ha un sesto senso per stare nel posto sbagliato al momento sbagliato (era a Cracovia mentre gli antagonisti assaltavano i Palazzi romani: per una visita ad Auschwitz sacrosanta ma infelice nella tempistica). Sicché adesso, mentre i romani boccheggiano nel caos del centro, lui è all’Eur, a concionare sulla Nuvola di Fuksas, «nuovo punto di forza dello skyline cittadino». Peccato che la struttura («l’edificio inesistente più famoso del mondo dopo la torre di Babele», scriveva ieri Giuseppe Pullara sul Corriere romano), costata finora 200 milioni per soli tre quarti, avrebbe bisogno, per essere completata dopo sei anni (!) di 170 milioni che, valli a trovare, di questi tempi. Sulla Nuvola e dintorni duellano acidi a distanza il sindaco e il suo maggiore avversario, Alfio Marchini, famiglia dei costruttori «rossi» di Botteghe Oscure, molto appoggiato in campagna elettorale dall’imprenditore più potente e ricco di Roma, Francesco Gaetano Caltagirone. «Sarà un omonimo, non quello di Amo Roma , chi ha lasciato questa visione tipo Beirut all’Eur», sibila Ignazio, alludendo agli scheletri delle Torri ex Finanze, ancora lì in brutta vista. «Non posseggo le Torri delle ex Finanze», fa sapere Alfio: «Il sindaco è inadeguato e superficiale. E, da permaloso, confonde questioni politiche con squallidi attacchi personali».
Il clima politico è questo. Il deficit di 867 milioni di euro (ereditato e denunciato) non aiuta. Per uscire dall’angolo, tre settimane fa, Marino ha invitato in gran segreto al Campidoglio proprio Caltagirone. Per dare un’idea dei rapporti tra i due, avvelenati anche dalle tensioni sull’Acea, basta un titolo del Foglio: «L’Ingegnere e il Marziano. Quer pasticciaccio brutto tra il Messaggero e il sindaco di Roma ». Mesi di attacchi, attribuiti alla volontà dell’editore (non molto generosamente verso l’autonomia dei colleghi del maggior quotidiano romano). Poi l’incontro: un’ora tesa, nell’ufficio con vista sui Fori. «Andato male», dicono voci vicine a Marino. Il sindaco sperava di parlare di metro C, «che è strategica». Tradotto: altra grana infinita, tre miliardi e mezzo per 30 stazioni, tremila posti di lavoro a rischio ora che i soldi mancano, gli stipendi ballano e il capolinea ipotizzato si sposta indietro allo spostarsi in giù del budget. Il 12 novembre i lavoratori hanno, tanto per cambiare, bloccato centro storico e dintorni.
Marino dà una forte sensazione di solitudine anche ai suoi: «Stiamo sfidando i poteri forti della città, costruttori, editori, imprenditori», proclama, saltato l’abboccamento con Caltagirone. Poi saltano le sedute di consiglio comunale perché la giunta produce poco. Dicono sia in freddo persino con Bettini (saluti formali alla festa di compleanno di Goffredo, un tempo appuntamento imperdibile della Roma potentona ). Dicono anche che l’eterno kingmaker si sfoghi ogni tanto: «Se non mi chiama lui, dovrei chiamarlo io?». Chissà. Di sicuro, da qualche giorno, Marino convoca i suoi assessori più importanti come martiri perseguitati, in colloqui più o meno catacombali in cui invoca un secondo tempo, un 2014 che mandi «forti segnali alla città». Ma è una parola.
Joyce diceva che i romani campano mostrando ai turisti il cadavere della nonna in cantina. Ora non ci sono nemmeno più i soldi per scenderci, in cantina. Il bilancio impossibile (tardivamente preventivo, ossia del 2013) va approvato entro il 30 novembre. L’opposizione (Marchini soprattutto) gli ha scaricato sopra 130 mila emendamenti: «Meglio il default e il commissario piuttosto che questo sindaco». Maurizio Gasparri gongola: «Marino ha fallito, la chiuda qui». In consiglio comunale, all’esordio della maratona proprio per l’approvazione del bilancio, l’altra sera sono volati gli schiaffi, il sindaco ha rimediato una gomitata in testa da Dario Rossin, Fratelli d’Italia. «Gomitata non involontaria », sostiene adesso, con un contorcimento lessicale che la dice lunga sulla sua capacità di parlare dritto al cuore della gente. Rossin s’era scusato. Ora dice: «Ho rivisto il filmato, Marino è un simulatore». Peggio del peggior Cristiano Ronaldo, insomma.
La verità è che, per rimettere insieme la città in pezzi com’è, occorrerebbe carisma. Molti dubitano che ne abbia, con quell’aria da giovane marmotta stralunata e una certa tendenza a sbagliare le scelte-chiave, assessori e comandanti dei vigili compresi.
«Ma io lo difendo», dice Lionello Cosentino, neosegretario del Pd romano: «C’è una sproporzione tra la guerra che gli fanno in consiglio e i pochi mesi di governo della città. Dico: 130 mila emendamenti su un bilancio previsionale, cioè già speso... non mi tornano, è una farsa. Certo, i problemi di Roma ci sono e grossi. Ma la crisi delle grandi città non è da mettere sulle spalle di Ignazio». Cosentino fa il suo mestiere, da politico navigato. Secondo alcuni maligni, sarebbe una specie di tutore che il partito avrebbe messo accanto al sindaco, per un ultimo salvataggio. Chissà.
Di sicuro le grane si susseguono. Quasi tutte le istituzioni culturali romane ballano coi vertici sotto rinnovo (l’assessore Flavia Barca è alquanto sulla graticola). Ieri sera in una riunione infinita si è riusciti a scacciare lo spettro dello sciopero al teatro dell’Opera per la prima dell’Ernani, un ceffone mondiale all’immagine della città. Scricchiola persino la Camera di commercio, che con Andrea Modello fu volano del Modello Roma, e che ancora ha soldi in cassa ma è paralizzata dal lungo dimissionamento del presidente Cremonesi. Insomma, i Fori pedonalizzati da Ignazio il ciclista rischiano a questo punto, nella migliore delle ipotesi, di passare come un’operazione di pura immagine all’insediamento; nel peggiore, di finire come il lungomare «liberato» di Giggino de Magistris, l’icona del disastro... Marchini rilancia: «Nel 2014 avremo un miliardo di disavanzo. Rischiamo di finire come la Grecia. Marino ha fatto promesse elettorali su beni non reali, ora squarci il velo di ipocrisia sul default». Nella lunga sera delle trattive per l’Ernani, il centro si blocca di nuovo. Stavolta è Putin, con un sobrio corteo imperiale di una trentina di macchine. Il nostro governo pare sogni di rifilargli una parte delle grane nazionali dell’Ilva. Tutti fermi, aspettando. I pullman coraggiosamente scoperti tengono in ostaggio turisti americani ormai rassegnati. Sulla fiancata la scritta in inglese recita: tour raccontato, ci prendiamo cura di te. Ciao Roma . 

il Fatto 26.11.13
La Fiat e la Fiom ritornano a parlarsi
Incontro al Lingotto tra Landini e i funzionari di Marchionne
Fim e uilm contrari a un tavolo unitario
di Salvatore Cannavò


La Fiat e la Fiom sono tornate a parlarsi. Lo hanno fatto ieri a Torino, nella sede del Lingotto con il sindacato guidato, al massimo livello, dal segretario Maurizio Landini e con l’azienda che, invece, ha voluto tenere un profilo molto più basso. Nemmeno il suo responsabile per le relazioni industriali, Pietro De Biasi, ha partecipato al vertice limitandosi a un breve saluto di cortesia. Però l’incontro c’è stato e per la Fiom si è trattato di “un fatto positivo”. Dopo la sentenza della Corte costituzionale di luglio, con cui l’organizzazione sindacale ha visto riaprirsi i cancelli delle fabbriche sul piano della rappresentanza, ora viene fatto un nuovo passo in avanti. Per la prima volta, dalla rottura avvenuta sul contratto separato per Pomigliano, prima, e per tutto il gruppo, poi, la Fiom torna a essere un interlocutore sindacale. Difficile dire se dagli incontri possa scaturire qualcosa di concreto. La piattaforma sindacale presentata ieri da Landini e compagni è quanto di più distante possa esserci per la Fiat: giudizio negativo su Fabbrica Italia, contratti di solidarietà per reagire al calo di mercato, recupero dei giorni di malattia pagati, ri-discussione degli orari e, soprattutto, principio di “una testa, un voto” nella rappresentanza in fabbrica. La piattaforma punta a una “verifica” della situazione aziendale con l’obiettivo di un riconoscimento pieno.
Per questo la Fiom ha proposto di riconvocare un tavolo sindacale unitario con tutti i soggetti, richiesta a cui la Fiat non si è formalmente opposta scaricando su Fim, Uilm e Ugl la responsabilità. Da parte degli altri sindacati, però, la chiusura è totale: “Come si può - chiede il segretario della Fim, Giuseppe Farina - pretendere di partecipare a un rinnovo di un contratto che non si riconosce e contro il quale si è ricorso in tribunale? ”. La Fim si ritiene “insultata” e chiede che la Fiom, innanzitutto, sottoscriva il contratto in vigore. Le parti hanno comunque convenuto di rivedersi a dicembre.
Intanto, sul fronte americano, Chrysler ha deciso di rinviare la quotazione in Borsa ai primi mesi del 2014. Le condizioni per quotarsi nel 2013 non ci sono ancora. Un altro rinvio per Sergio Marchionne.

il Fatto 26.11.13
Napolitano evita la Corte “Mia deposizione inutile”
Doveva testimoniare nel processo sulla trattativa tra Stato e mafia
Ma il Capo del Quirinale ha invece scritto sottraendosi alle domande
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza


Palermo Non ha nulla da riferire ai giudici perché non ha mai ricevuto da Loris D’Ambrosio alcun “ragguaglio o specificazione” su quelle che Napolitano definisce le “ipotesi – solo ipotesi – da lui enucleate” e sul “vivo timore, di cui il mio consigliere ha fatto generico riferimento sempre nella drammatica lettera del 18 giugno”. Il capo dello Stato, inoltre, non si è mai intrattenuto con il suo consigliere giuridico su vicende relative ad anni nei quali neppure lo conosceva, impegnato (da presidente della Camera) in funzioni pubbliche del tutto “estranee a responsabilità” in tema di antimafia. Ecco perché Giorgio Napolitano, nella lettera depositata ieri mattina in cancelleria, chiede al presidente della Corte d’assise di Palermo Alfredo Montalto che sta celebrando il processo sulla trattativa Stato-mafia di valutare “il reale contributo” che le sue dichiarazioni “potrebbero effettivamente arrecare all’accertamento processuale in corso”, suggerendo apertamente la norma del cpp che gli permetterebbe di fare marcia indietro: il ricorso alla revoca (prevista dall’articolo 495, comma 4) del-l’ordinanza con cui la Corte ha ammesso la sua testimonianza.
DEL “VIVO timore” di D’Ambrosio di essere stato un “utile scriba”, usato come scudo per “indicibili accordi”, tra l’89 e il ’92, Napolitano, dunque, non sa nulla e in quattro punti (denominati a, b, c, d) ricostruisce il contenuto dei suoi ultimi incontri con il consigliere giuridico, lanciando frecciate ai giornalisti, sospettati di non avere riportato “correttamente” le conversazioni tra D’Ambrosio e Mancino. Il capo dello Stato esordisce ricordando di aver pubblicato lui stesso, spontaneamente, la tormentata lettera di D’Ambrosio nella raccolta “Sulla Giustizia” (“un’iniziativa non dovuta”), sottolineando “l’intento di massima trasparenza nel documentare e onorare il travaglio umano e morale’” del consigliere giuridico, provocato “dalla diffusione, sulla stampa, di testi registrati (non si sa quanto correttamente e integralmente riprodotti) di conversazioni con il senatore Mancino, intercettate dalla Procura di Palermo”, e da cui venivano ricavati elementi di “grave sospetto” sui comportamenti tenuti dal suo collaboratore.
UNA LETTERA, quella dello spin doctor del Quirinale, che Napolitano descrive come “caratterizzata da profonda amarezza e sgomento” e “anche indignazione per interpretazioni (dello scambio di telefonate con il senatore Mancino) e, più in generale, arbitrarie insinuazioni che colpivano la costante linearità della condotta tenuta da D’Ambrosio, in modo particolare rispetto all’impegno dello Stato nella lotta contro la mafia”. Così l’inquilino del Colle ricorda come il giorno seguente, il 19 giugno 2012, invitò D’Ambrosio nel suo studio, alla presenza del segretario generale Donato Marra, “per tentare di rasserenarlo, e per confermargli stima e fiducia e farlo anche per iscritto, consegnandogli la lettera, con la quale lo invitavo a mantenere l’incarico di mio consigliere”. Ma né durante quell’incontro, né in altre occasioni, Napolitano ricevette da D’Ambrosio notizie ulteriori: “L’essenziale – scrive Napolitano – è comunque il non aver io in alcun modo ricevuto da D’Ambrosio qualsiasi ragguaglio o specificazione circa le ‘ipotesi’ da lui ‘enucleate’ e il ‘vivo timore’, di cui il mio consigliere ha fatto generico riferimento, sempre nella drammatica lettera del 18 giugno, rinviando al suo scritto inserito, come sapevo, nel recente volume di Maria Falcone’’. E precisa: “Né io avevo modo e motivo – neppure riservatamente, nel colloquio del 19 giugno – di interrogarlo su quel passaggio della sua lettera, né mai... ebbi occasione di intrattenermi con lui su vicende del passato, relative ad anni nei quali non lo conoscevo”. E dunque: “Non ho da riferire alcuna conoscenza utile al processo”. Da ieri la lettera del capo dello Stato è all’esame della Procura di Palermo e delle difese: le parti, dopo averla valutata, dovranno esprimere il loro parere – forse già nella prossima udienza il 28 novembre – sulla sua acquisizione agli atti. Se decideranno all’unanimità di acquisirla al fascicolo processuale, si riaprirà la discussione sulla testimonianza del presidente. È la prima volta, infatti, che un capo dello Stato chiede di deporre in un processo in modo unilaterale e per iscritto, sottraendosi alle domande delle parti. Una garanzia che non è indicata dalla legge (che prevede all’articolo 205 la testimonianza presidenziale) e che, di fatto, estenderebbe le guarentigie presidenziali ben al di là di quelle previste dalla Costituzione, spianando il terreno alle polemiche.

l’Unità 26.11.13
La grosse Koalition non piace alla base Spd
A due mesi dal voto non c’è un’intesa
mentre monta l’insofferenza
tra i 470.000 socialdemocratici chiamati a approvarla con un referendum
di Paolo Soldini


C’è un convitato di pietra al tavolo delle trattative per la formazione della grosse Koalition a Berlino. Anzi, i convitati sono tanti: due o trecentomila. Tanti sono gli iscritti alla Spd che si prevede parteciperanno al referendum con cui nei prossimi giorni i dirigenti del partito chiederanno alla base di approvare l’accordo di governo che, intanto, dovrebbe essere stato raggiunto con la Cdu e la Csu. Dovrebbe, al condizionale, giacché l’intesa programmatica è ancora lontana sui dossier più importanti, tanto che si è deciso di toglierli dalle mani degli esperti che, divisi in 12 gruppi li hanno trattati finora, per affidarli direttamente alle cure dei leader, la cancelliera Merkel, il presidente della Csu (e del Land) della Baviera Horst Seehofer, il presidente della Spd Sigmar Gabriel e, almeno in qualche caso, i futuri ministri sulla nomina dei quali esiste, o esisterebbe, già un’intesa di massima. Come l’ex capo della frazione socialdemocratica al Bundestag Frank-Walter Steinmeier, il quale dovrebbe ripetere alla guida degli Esteri l’esperienza che dal 2005 al 2009 fece sotto la prima grosse Koalition targata Merkel. Comunque sia, è molto improbabile che si riesca a tener fede al calendario indicato solo qualche giorno fa secondo il quale già oggi si sarebbe dovuto presentare pubblicamente almeno lo schema di massima dell’intesa.
Insomma, sulla strada del nuovo governo tedesco gli ostacoli sono ancora molti. E le incertezze ancor di più se corrisponde al vero quello che lo Spiegel va scrivendo da qualche giorno sull’edizione on-line e cui dedica una eloquente copertina dell’edizione cartacea, in cui si vede Gabriel assiso su una poltrona il terreno sotto la quale viene segato dal basso sotto gli occhi preoccupati di Frau Angela. E cioè che il clima della base socialdemocratica non è affatto favorevole alla prospettiva di un’intesa, come risulterebbe dai sondaggi condotti dal settimanale in molte centinaia di circoli e organizzazioni territoriali. Un po’ perché molti elettori della Spd avrebbero preferito un altro governo: con i Verdi (ma non c’è la maggioranza) o con i Verdi e i radicali della Linke (e qui una maggioranza, almeno teorica, al Bundestag ci sarebbe). Molto perché si è diffusa la sensazione che i negoziatori della Spd abbiano guardato più alle eventuali poltrone ministeriali che alle istanze sociali della loro base, soprattutto in materia di riequilibrio fiscale.
SCELTA «PERVERSA»
La prospettiva di una possibile, pur se non probabile, bocciatura da parte del «popolo rosso» genera ovvie preoccupazioni e anche qualche malcelata irritazione. Il responsabile della commissione economica della Cdu Kurt Lauck riassume l’opinione di molti del suo partito denunciando come «una perversione» il fatto che il destino del governo dipenda «da qualche decina di migliaia di iscritti alla Spd» che contraddirebbero il risultato delle elezioni per il Bundestag. E forse non è del tutto priva di fondamento l’osservazione di un altro cristiano-democratico di punta, il vicepresidente federale Thomas Strobl, secondo il quale il referendum «fa sì che i negoziatori della Spd abbiano in testa più le prossime quattro settimane che i prossimi quattro anni».
I toni, insomma, si stanno facendo più duri, l’ottimismo dei primi giorni del negoziato è un ricordo: le posizioni sono ancora lontane anche sul capitolo che sembrava meno controverso, ovvero l’istituzione di un salario minimo garantito generalizzato, mentre non si sono mai avvicinate sull’inasprimento delle aliquote sui redditi più alti, sull’età pensionabile e su alcuni diritti civili, come la doppia cittadinanza e il riconoscimento delle coppie gay. E dal seno della Cdu e della Csu cominciano a levarsi voci che evocano strade alternative: se la grosse Koalition naufraga «per colpa della Spd» c’è sempre la prospettiva di un negoziato con i Verdi (certo difficile, ma c’è chi lo vede praticabile) o un ritorno alle urne, nel quale i partiti democristiani avrebbero gioco facile a presentare i socialdemocratici come irresponsabili da punire. Una prospettiva che certo qualche timore lo solleva anche a sinistra. Tant’è che fra i dirigenti della Spd si vanno accentuando le divisioni tra chi, come Gabriel e Steinmeier, preme per un compromesso e chi, come l’organizzazione giovanile, gli esponenti vicini ai sindacati e la segretaria organizzativa Andrea Nahles, pongono paletti al negoziato, soprattutto in materia di tasse.

l’Unità 26.11.13
Accordo con l’Iran, a dicembre via le sanzioni Ue
di Umberto De Giovannangeli


L’Europa apre. Israele e Arabia Saudita chiudono. Il «Day after» dell’accordo preliminare a Ginevra sul programma nucleare iraniano ha visto reazioni internazionali di segno opposto. I mercati hanno reagito postivamente con un calo del prezzo del petrolio, sceso sotto i 94 dollari a barile a New York. E per Teheran, che si è impegnata a ridurre l’arricchimento dell’uranio dall’attuale 20% a un 5% inservibile per produrre armi atomiche, si profilano i primi dividendi della distensione: il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, ha reso noto che la Ue dovrebbe revocare già «a dicembre» parte delle sanzioni. I capi delle diplomazie dei Ventotto, ha aggiunto Fabius, si riuniranno nel giro di «poche settimane» per mettere a punto una proposta. «Sarà limitata, mirata e reversibile», ha precisato, e comunque soggetta all’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri Ue. Il capo del Quai D’Orsay, intervistato dall’emittente radiofonica francese Europe-1, ha inoltre spiegato che un’analoga iniziativa verrà assunta dagli Stati Uniti e che nelle prossime settimane si terrà a Bruxelles un vertice ministeriale europeo per discutere della questione.
POSIZIONI OPPOSTE
Quanto alla possibilità di un attacco preventivo israeliano sui siti nucleari iraniani, Fabius ha sottolineato di non avere timori «in questo momento, perché nessuno capirebbe una tale iniziativa da parte dello Stato ebraico». Infine, il ministro degli Esteri francese ha spiegato che l’intesa raggiunta a Ginevra «garantisce un programma di arricchimento, il che non è la stessa cosa di un diritto all’arricchimento, nei termini accordati fra le parti: ciò vuol dire che l’Iran non può fare qualsiasi cosa in materia, vi sono delle precise limitazioni».
Dura la risposta indiretta di Israele che ha annunciato la costruzione di 829 nuove case per coloni a nord di Gerusalemme, una decisione apparsa come una rappresaglia contro gli Usa. Neppure la telefonata con cui Barack Obama ha cercato di rassicurare il premier Benjamin Netanyahu è valsa a placare il governo israeliano. Secondo un sondaggio condotto dal quotidiano Israel Hayom, oltre tre cittadini israeliani su quattro sono certi che il regime degli ayatollah non rispetterà gli impegni.
Due settimane fa Israele aveva annunciato la costruzione di 20.000 nuove case per i coloni, ma poi la decisione era stata annullata da Netanyahu su pressione degli Stati Uniti. Ora con questo nuovo strappo Israele rischia però l’isolamento, come ha osservato il neo segretario del Partito laburista israeliano, Isaac Herzog, che ha chiesto a Netanyahu di ricucire con Washington e di «tornare a uno stretto dialogo con i leader delle potenze mondiali». Un appello poi in parte raccolto da Netanyahu con la decisione di inviare a Washington il proprio consigliere per la sicurezza nazionale, Yossi Cohen. A dare l’annuncio dell'iniziativa è stato lo stesso Netanyahu durante una manifestazione del suo partito, il Likud. «Ho parlato l’altra notte con il presidente Obama afferma il premier israeliano e siamo rimasti d’accordo che nei prossimi giorni una delegazione israeliana guidata dal consigliere per la sicurezza nazionale, Yossi Cohen, si recherà a Washington per discutere con gli Stati Uniti i termini di un accordo permanente con l’Iran, che porti allo smantellamento delle capacità nucleari militari» di Teheran. Per Nabil Abu Rudeinah, principale consigliere del presidente dell’Anp, Abu Mazen, Netanyahu «non dovrebbe regolare i conti con gli Usa a spese del popolo palestinese».
Non meno dura di quella israeliana è la posizione di Riad. L’Arabia Saudita è stata tenuta all’oscuro dagli Usa sulle trattative per un accordo nucleare con l’Iran; per questo motivo perseguirà d’ora in poi una propria politica estera indipendente. A sostenerlo è un alto consigliere della famiglia reale, Nawaf Obaid, sottolineando come Riad non sia stata informata dei negoziati con Teheran dagli Stati Uniti, ma di averlo appreso da propri contatti in Oman. «Ci hanno mentito, ci sono state tenute nascoste delle cose ha detto Obaid, citato dal Telegraph il problema non sta nell’accordo raggiunto a Ginevra, ma nel modo in cui è stato raggiunto».

La Stampa 26.11.13
Il sollievo di Teheran
“È la vittoria di tutti”
Anche Khamenei benedice l’intesa. E il Paese si sente di nuovo parte del mondo
di Roberto Toscano


A Teheran il sollievo è esplicito, palpabile. Solo gli esperti sono in grado di interpretare gli esatti contenuti dell’accordo di Ginevra sul nucleare.
Ma a nessuno sfugge il senso politico di questa svolta: le prospettive di una escalation verso uno scontro militare si allontanano, e si avvicina la prospettiva di una normalizzazione dei rapporti dell’Iran con il mondo, e in primo luogo con gli Stati Uniti.
Quello che colpisce è che si tratta di opinioni e sentimenti ampiamente, anzi quasi unanimemente, condivisi da tutti i settori della popolazione, da tutte le tendenze politiche.
Sono soddisfatti i «centristi» del regime (che hanno come implicito ma sempre evidente punto di riferimento la figura di Rafsanjani), i riformisti (che hanno a suo tempo accolto l’indicazione di Khatami di fare confluire il loro voto sul «rafsanjanista» Rohani) e persino chi non si identifica con nessuna delle possibili versioni del regime islamico, ma sogna che il Paese possa avviarsi verso un suo superamento in chiave di democrazia liberale – e laica.
Non si tratta di una convergenza inspiegabile, e nemmeno di una novità. È invece la stessa convergenza che ha prodotto l’inattesa elezione di Rohani al primo turno delle recenti elezioni presidenziali, quando – dando prova di una profonda maturità politica – più della metà degli elettori ha deciso di optare per quanto di meglio offrisse il panorama politico della Repubblica Islamica, un panorama condizionato e limitato dal meccanismo del filtro delle candidature, ma non al punto da renderlo privo di significato.
Molto interessante, in questo «day after», è analizzare le reazioni di chi di questo sistema è il decisore finale, il Leader Supremo ayatollah Khamenei. Dopo avere ammonito, per tutto il corso dei negoziati, a non svendere le posizioni irrinunciabili dell’Iran, Khamenei ora si congratula con i negoziatori e saluta il «lodevole risultato» di Ginevra attribuendolo «alla grazia di Dio e alle preghiere della nazione iraniana». Non manca, nel suo commento, il riferimento al fatto che il risultato conseguito a Ginevra è destinato a formare la base «di ulteriori prudenti misure», in un processo in cui – esorta – gli iraniani dovranno continuare a «resistere a richieste eccessive».
Persino l’oltranzista «Kayhan», le cui pagine fino ad oggi contenevano solo esortazioni a non fidarsi ed espressioni di sfiducia sulla capacità dei negoziatori iraniani di difendere gli interessi nazionali contro le pressioni occidentali, titola in positivo «Fumata bianca a Ginevra» e cita in negativo, sempre in prima pagina, quelle che definisce le «rabbiose reazioni dei sionisti» contro l’accordo.
Colpisce, va detto, il contrasto fra le reazioni positive a Teheran e l’interpretazione piuttosto minimalista, se non reticente, che proviene da Washington, dove una nota della Casa Bianca insiste sul fatto che l’intesa raggiunta prevede «un allentamento limitato, temporaneo, mirato e reversibile delle sanzioni», che peraltro verranno sostanzialmente mantenute.
In questo diverso tono emerge certamente la preoccupazione dell’amministrazione Obama di ridurre i prevedibili attacchi all’accordo di oppositori (parte significativa del Congresso, Israele, Arabia Saudita) senza dubbio pronti a denunciare quella che non da oggi definiscono l’eccessiva apertura americana all’Iran, ma anche qualcosa di meno contingente e più significativo. Si tratta del fatto che per l’Iran, sia per il regime che per l’opinione pubblica, la questione nucleare è sempre stata considerata sotto un ben più vasto profilo politico, ovvero come «test case», ostacolo ma anche occasione, per un pieno inserimento del Paese in un normale contesto di relazioni internazionali.
La flessibilità dei negoziatori iraniani e in primo luogo dall’abilissimo Zarif – che ha accettato di non insistere su un esplicito riconoscimento del diritto all’arricchimento dell’uranio (sostenendo, correttamente, che si trattava di un diritto
implicito nell’art. IV del Trattato di non-proliferazione) – si spiega proprio con questa priorità, in netto contrasto con la vera e propria ossessione nucleare di chi dipinge l’Iran come deciso a puntare sul possesso, e magari sull’uso contro Israele, delle armi nucleari. In questo senso sono più vicini alla realtà i Paesi del Golfo, che temono invece che l’Iran, dimostrando quella che Khamenei ha definito una «eroica flessibilità», punti invece a rompere, anche pagando un prezzo in termini di limitazioni e controlli sulle attività nucleari, l’isolamento che lo indebolisce economicamente e lo neutralizza diplomaticamente impedendogli di esercitare la funzione di potenza regionale cui storicamente l’Iran aspira.
Si capisce quindi perché a Teheran nessuno, fautori o oppositori del regime, si preoccupi più di tanto di andare a verificare quanto sia stato ottenuto e quanto concesso a Ginevra, ma si festeggi invece il fatto stesso dell’accordo raggiunto. La foto pubblicata da tutti i quotidiani di Zarif assieme a Lady Ashton e ai Ministri degli Esteri di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina e Germania è più importante, qui, delle clausole dell’intesa.
E non si tratta solo di politica estera. Oggi i molti iraniani che sperano in un cambiamento in senso democratico – anche se tengono a freno un’euforia già sperimentata e già delusa (negli anni del riformismo di Khatami e nei giorni prima inebrianti e poi tragici del Movimento Verde del 2009) sono pienamente consapevoli del fatto che i margini per un miglioramento sia economico che politico siano inversamente proporzionali alla tensione internazionale e all’isolamento del Paese.
Si tratta di un nesso che, è da sperare, non dovrebbe sfuggire a chi dovrà continuare a negoziare con l’Iran lungo un itinerario diplomatico ancora lungo e problematico. Chi sostiene di avere a cuore non solo la sicurezza regionale e mondiale, ma anche le sorti del popolo iraniano e la sua aspirazione a maggiore libertà e pluralismo, farebbe bene a meditare su un testo molto significativo: la lettera aperta che 400 dissidenti iraniani (sia esuli che tuttora residenti in Iran) hanno rivolto pochi giorni fa al presidente Hollande per esortarlo a non ignorare il fatto che solo in presenza di un allentamento delle tensioni internazionali, a partire da quelle derivanti dalla questione nucleare, vi sarà per il popolo iraniano una possibilità di avanzare verso la piena realizzazione delle proprie aspirazioni alla democrazia, e che al contrario l’isolamento internazionale fornisce sul piano interno un facile pretesto ai fautori di irrigidimento e repressione.
Si coglie infine, nelle reazioni che l’accordo di Ginevra ha prodotto a Teheran, l’aspettativa che il risultato conseguito, nonostante la sua natura di passo preliminare, sia già sufficiente per aprire la via a una normalizzazione dei rapporti economico-commerciali. Si sa che gli operatori economici, anche quelli americani, sono pronti a muoversi appena sia materialmente possibile, e da parte loro i businessmen iraniani – che ultimamente avevano dovuto ricorrere, per eludere le sanzioni, a contorte e costose triangolazioni – sono pieni di idee che non vedono l’ora di poter realizzare: anche, e per certi settori soprattutto, con l’Italia, un Paese con cui gli iraniani si sentono molto a loro agio anche sul piano culturale.
In Iran la «domanda d’Italia» è stata sempre molto più alta dell’offerta, e ciò soprattutto da quando le sanzioni, cui il nostro Paese si è disciplinatamente allineato, hanno non solo limitato, ma spesso anche chiuso del tutto i tradizionali canali di interazione economica.
Nel clima di speranza che oggi prevale a Teheran emerge anche l’aspettativa che il ritorno dell’Italia non si faccia troppo attendere.

La Stampa 26.11.13
Dove sono i vecchi in Cina?
di Teresio Asola


In Cina finalmente si è detto basta al figlio unico. Ma adesso mi piacerebbe sapere dove sono i 500 milioni di anziani. Almeno a giudicare da ciò che ho visto la scorsa estate nella Terra di Mezzo. Tramonto, ora dell’ammainabandiera in piazza Tienanmen a Pechino. Ragazzi a sciami. Un papà si avvicina con un telefonino. Indica sua figlia, poi mio figlio di 12 anni; chiede se può fotografarli insieme. Ma certo che può. La ragazzina si accosta a Giacomo, gli scuce un sorriso che chiude quando lei gli sfiora un ricciolo. Altra bambina, stessa scena. Un minuto e siamo circondati da flash e sorrisi grandi come il mondo. Poi, a Badalin, un gruppone di ragazzini sulla Grande Muraglia brulicante di turisti ci prende d’assalto armato di sorrisi, smartphone e i voglia di parlare. Una ragazzina del Sichuan spalanca gli occhi stupiti perché le dico che io so dov’è quella Provincia «really you know Sichuan?». Sì, e anche Chengdu, la tua città. Ride, mentre gli altri ragazzini ci fotografano e ci chiedono la provenienza augurandosi a gran voce di poter vedere l’Italia. Uno di loro ci vuole fare un regalo. Devo accettare. Una medaglietta di latta con un Buddha.
Pochi giorni dopo a Pingyao nello Shanxi. Il cielo non è lattescente come sempre, ma sulle mura il sole picchia d’inferno. È «piao liang», bello, dice indicando il cielo il giovane Xiaolong. Sul selciato bollente della via pedonale che parte dalla Porta Occidentale di questa città antica, risuonano lievi i passi dei turisti cinesi. Uno stuolo di ragazzi seduti sul marciapiede disegnano particolari architettonici. Così trascorrono le vacanze, in Cina. Un giovane maestro dà consigli. Tutti tacciono e lavorano, qualcuno ci sbircia di sottecchi. Un bambino ci avvicina. «Hello, can I take a picture at you?» Certo, che puoi farci una foto. Come a piazza Tienanmen, come a Badalin. Una schiera di bambini. Ma dove sono i vecchi in Cina? Ne ho visto qualcuno la mattina su nel parco Jingshan a Pechino (chi faceva ginnastica, chi danzava), e praticare Taichi nell’isola pedonale attorno alla stazione della metro di Jing’an Temple a Shanghai. E poco più.

Corriere 26.11.13
Cina, il ribelle di Tienanmen che non riesce a farsi arrestare
Vuole tornare in patria ma viene respinto alla frontiera Leader
di Guido Santevecchi


Wuer Kaixi, nato nel 1968 a Pechino, è stato un leader studentesco a Tienanmen
1989
Nel giugno 1989, in seguito alla sanguinosa repressione della rivolta riuscì a fuggire all’estero
Dopo essere stato in Francia e negli Stati Uniti, studiando a Harvard, ha stabilito la sua residenza a Taiwan

PECHINO — Negli elenchi della polizia è «il ricercato numero due». Latitante dal giugno del 1989, dai giorni della strage della Tienanmen. Lo studente Wuer Kaixi, uno dei capi della protesta repressa nel sangue dal regime cinese, riuscì a fuggire. Ieri è ricomparso a Hong Kong, al posto di polizia dell’aeroporto internazionale. Voleva arrendersi ed essere portato in Cina. Perché da 24 anni non ha potuto vedere i genitori e forse perché pensa che sia ora di chiudere i conti con il passato. Ma parlare dell’orrore successo in piazza Tienanmen il 4 giugno del 1989 a Pechino è ancora tabù. Così, dopo una rapida consultazione con la madrepatria, gli ufficiali di polizia dell’aeroporto di Hong Kong (che è territorio speciale della Repubblica popolare dopo la fine dell’era coloniale britannica nel 1997) hanno respinto la richiesta del «ricercato» e lo hanno espulso, caricandolo sul primo aereo in partenza per Taiwan.
Nessuna cattura, nessuna estradizione verso Pechino, nessun processo per Wuer Kaixi, perché significherebbe parlare di quello che in Cina si definisce «l’incidente della Tienanmen», o meglio, non si definisce proprio: la censura ancora oggi interviene non appena qualcuno prova a digitare su un motore di ricerca online la parola tabù, o anche la data 4 giugno.
È una storia dolorosa e assurda quella di Wuer: nei quasi due mesi di proteste sulla piazza simbolo del potere comunista cinese, l’allora ragazzo diventò celebre comparendo in televisione mentre cercava di aprire un dibattito con il primo ministro Li Peng. Dopo la strage e la fuga fu accusato di «cospirazione sediziosa». Da allora ha vissuto quasi sempre a Taiwan. Ma con il passare del tempo la nostalgia di casa è diventata insopportabile. E anche il desiderio di rilanciare la sfida.
«È dal 2009 che cerco di costituirmi, perché voglio rivedere i miei genitori prima che muoiano, anche a costo di doverlo fare attraverso le sbarre di una cella. Ma il governo cinese che ha ordinato il mio arresto allo stesso tempo mi impedisce di tornare», ha detto ieri.
Il «ricercato numero due» aveva provato una prima volta a consegnarsi nel 2009 a Macao, che come Hong Kong è una regione cinese ad amministrazione speciale dopo la restituzione nel 1999 da parte della potenza coloniale portoghese. Fu respinto. Ci riprovò nel 2010 presentandosi al cancello dell’ambasciata cinese a Tokyo: ancora bloccato e cacciato. L’anno scorso un altro tentativo, alla rappresentanza diplomatica della Repubblica popolare a Washington: anche qui gli agenti della sicurezza cinese lo fermarono e lo spinsero fuori.
Ieri, al rientro a Taiwan, l’ex ragazzo della Tienanmen indossava una maglietta con la mappa della Cina e la scritta «Voglio tornare a casa». La maggior parte dei leader studenteschi del 1989 vive ancora in esilio. Il ricercato «numero uno», Wang Dan, è negli Stati Uniti. Insegna all’università. Ieri sul suo profilo Facebook ha ricordato di aver provato la stessa via del ritorno attraverso Hong Kong nel 2004 e di essere stato espulso. Wuer dice che non finisce qui, ci riproverà. E cerca di trasformare il rifiuto di arresto ed estradizione da parte della polizia cinese di Hong Kong in un successo politico: «Tutto sommato, significa anche che non accettano la posizione ufficiale di Pechino... Se è così li ringrazio». 

il Fatto 26.11.13
Thailandia
Bangkok di lotta: 100 mila in piazza contro la Shinawatra
di Roberta Zunini


Sembrava che la bella e scafata Yingluck Shinawatra, sorella dell'ex premier Thaksin, deposto da un golpe nel 2006, ce l'avesse ormai fatta. A riportare la stabilità politica ed economica in una Thailandia rimasta polarizzata da allora. Ma, proprio all'inizio dell'alta stagione turistica e a due anni e mezzo dalle ultime elezioni, vinte per l'appunto dalla ricchissima imprenditrice, il Paese è di nuovo nel marasma. La capitale, Bangkok, da domenica è invasa da oltre centomila manifestanti. Che, questa volta, chiedono le dimissioni della premier quarantacinquenne, perché ritenuta solo una controfigura del fratello, fuggito all'estero nel 2008 per sottrarsi all'arresto per corruzione. C'è da chiedersi perché si siano accorti solo ora che l'ex top manager sia l'incarnazione del “taksinismo” o del “regime taksinista”, come è stato definito dall’ex vicepremier Suthep Thaugsuban, che guida le proteste.
FORSE PERCHÉ Yingluck è reduce da un tour di grande successo all'estero – a settembre è venuta anche in Italia dove ha incontrato il suo omologo Enrico Letta con il quale ha suggellato un'intesa per fare sistema – e perché l'economia del Paese è in forte espansione: solo nel 2012 è cresciuta del 6,4%.
È dal 2008 che le manifestazioni tra pro Taksim e pro democratici rendono precarie le sorti del Paese che invece potrebbe godere di una crescita economica tra le più forti del mondo. Nel 2010, quando per settimane il Paese del sud-est asiatico sfiorò la guerra civile, a scendere in piazza per primi furono invece i sostenitori del Pheu Thai, il partito di Taksin, le cosiddette “camicie rosse”, per chiedere il suo reintegro. La situazione sembrò precipitare nel pozzo nero di un conflitto civile nel momento in cui i supporter del partito democratico, legato all'elite giuridico-militare e al vecchio establishment, decisero di indossare le camice gialle per andare in strada. Spalleggiati dall'esercito, sfidarono gli occupanti rossi, accampati nelle tende davanti ai palazzi delle istituzioni, in un braccio di ferro psicologico che si trasformò in una strage quando i soldati spararono. Alla fine degli scontri furono registrati 90 morti e circa 2 mila feriti. Ora la storia sembra ripetersi, al contrario. L'inversione dell'ordine dei fattori però, si sa, non cambia il risultato e, pertanto, molti temono una riedizione di ciò che accadde tre anni fa.
COME ALLORA, le proteste sono iniziate in modo pacifico ma, con il passare delle ore, i cortei si sono ingrossati e hanno puntato a entrare nei gangli centrali del corpo governativo. Dopo aver marciato davanti alla tv di Stato ed essere riusciti a entrare nella sede del ministero delle Finanze, migliaia di persone nel pomeriggio di ieri hanno fatto irruzione nel complesso del ministero degli Esteri. Il portavoce, Sek Wannamethee, ha fatto sapere che i dimostranti hanno promesso di non invadere gli uffici ma nuovi cortei hanno circondato altre sedi istituzionali, tornando davanti al palazzo dei media per iniziare un sit-in che andrà avanti tutta la notte. Un fotoreporter tedesco, che documenta da anni le proteste nel Paese, è stato malmenato dalla folla. Già l'altro ieri il carismatico Suthep, che si è dimesso da parlamentare per diventare il leader delle proteste, aveva invocato una “grande battaglia di tre giorni” per paralizzare il governo. Ieri ha minacciato di occupare tutti i ministeri entro oggi. Per questo-Yingluck, ha attivato la “legge di sicurezza interna”, un provvedimento simile allo stato di emergenza. Ma è improbabile che il governo passi alla forza nelle prossime ore anche se, durante questo mese di tensione crescente, Suthep tende a innescare un'escalation perché sa che una repressione alimenterebbe ancora di più la rabbia dei suoi seguaci. Se le proteste del 2008 furono scatenate, come quelle attuali, dalle camicie gialle, che occuparono per mesi la sede del governo e per una settimana i due aeroporti della capitale, per protestare contro due governi filo-Thaksin, quelle dell'ultimo mese sono state scatenate dai rumors circa un'imminente legge di amnistia politica che avrebbe consentito il suo ritorno. L'ex premier continua a vivere all'estero, tra Dubai e Paesi vicini alla madrepatria, sostenuto dalla sua immensa fortuna economica.
IL MAGNATE e la sorella appartengono a una ricca e prolifica famiglia (in tutto sono nove figli) di origine cinese, trasferitasi nel nord del Paese dove il padre è stato per molti anni un esponente politico. I Shinawatra oggi sono tra i più ricchi del Paese, grazie all'atteggiamento spregiudicato negli affari, a matrimoni “fortunati” e alla conoscenza dei meccanismi economici, imparati nelle università più prestigiose degli Stati Uniti, che anche la premier ha frequentato. L'abbondanza di risorse economiche ha consentito a Thaksin di comprare canali e spazi televisivi e di organizzare campagne elettorali con premi in denaro per coloro che lo avrebbero votato. La sorella ha aggiunto alla formula una dose ancora più abbondante di populismo, fidelizzando i voti della classi medio-basse del popoloso nord-est rurale. Per questo l'unico modo per scalzarla sarebbe un nuovo golpe. Intanto gli amici statunitensi hanno condannato l'occupazione di spazi istituzionali da parte dell'opposizione.

il Fatto 26.11.13
Piergiorgio Odifreddi Il matematico impertinente
Norimberga fu uno show ma non sono negazionista
di Andrea Scanzi


Il matematico impertinente propaga polemiche quasi suo malgrado. Ha 63 anni, ha dialogato con Ratzinger, è stato accusato di negazionismo. “Credo in un solo Signore, l’Uomo, plurigenito figlio della Natura, nato dalla Madre alla fine di tutti i secoli”. L’ha detto lui, Piergiorgio Odifreddi.
Perché non possiamo essere cristiani?
Lo possiamo essere, ma non razionalmente. Il cristianesimo, e in particolare il cattolicesimo, si ispirano a libri sacri indirizzati a popoli analfabeti di pastori. Oggi il cristianesimo è anacronistico. La scienza, ciò in cui credo, osserva i fatti e li analizza.
E il cattolicesimo?
È dogmatico e per questo non può più far parte dell’Occidente. Secondo alcune indagini fatte alla Royal Society inglese e alla National Academy statunitense, il 93% degli scienziati è ateo e agnostico. Il restante 7% è ebreo o protestante, le religioni più critiche. Per uno scienziato essere cattolici è innaturale.
Ha scritto, riprendendo il Vocabolario Etimologico di Pianigiani, che la parola “cristiano” deriva da “cretino”.
Una battuta di cattivo gusto. Non era essenziale. A volte faccio provocazioni come Eco, che ha scritto le prime cento pagine de Il nome della rosa per liberarsi dei lettori che non voleva. Chi non vuole ascoltare una mia battuta, è bene che non mi legga. E comunque l’etimologia esiste.
Come è stato dialogare con Papa Ratzinger?
Mi sento più vicino a Ratzinger che a Bergoglio. Papa Francesco è un pubblicitario strepitoso, vende il suo prodotto in maniera incredibile. Con lui non devi aspettarti cambiamenti del prodotto, ma della pubblicità. Dottrinalmente Bergoglio dice poco e nulla, si limita a cambiare la comunicazione. Concede al pubblico ciò che il pubblico vuole.
Meglio Ratzinger, quindi.
È un professore, un intellettuale: un teologo interessato ai contenuti. Siamo uniti dalla ricerca della verità che entrambi crediamo di avere trovato. Abbiamo idee opposte, ma l’approccio è lo stesso. Bergoglio è agli antipodi. Quando Scalfari gli ha posto quesiti concettuali, ha detto: “Lei mi ha fatto tante domande, ma io risponderò ad altro”. Forse perché non sapeva cosa rispondere.
Le è piaciuta l’intervista di Scalfari a Papa Francesco?
Uno scoop, ma poi si è scoperto che Scalfari aveva attribuito a Bergoglio virgolettati inventati. Scalfari ha poi sbagliato interlocutore: se vuoi risposte chiedi a Ratzinger, non a Bergoglio.
Alla Zanzara credeva davvero di dialogare con Bergoglio. È sembrato molto garbato.
Certo che ero garbato. Sono una persona educata. Cruciani e Parenzo sono trash radiofonico, non giornalismo.
Cacciari la definisce “un piccolo Voltaire”.
Lo fa per punzecchiarmi, ma siamo amici. Non vedo perché dovrei offendermi. Sarebbe come se io dicessi a Cacciari che è “un piccolo Kant”. E potrei dirlo.
Lei fa arrabbiare un sacco di persone. Per esempio Zichichi.
Nulla di personale, ma Zichichi rappresenta un modo di fare scienza intrallazzone e amico dei potenti. Prima era comunista, poi ha abbracciato la Dc di Andreotti. Va dove gli fa comodo. Durante le conferenze amava interrompersi e dire: “Scusate, mi ha chiamato il Papa”. Incarna quella minoranza scientifica cattolica che si fa scudo della Chiesa.
Anche La Russa e Gelmini non la amano.
Non mi hanno criticato, ma insultato. La Russa, in tivù, si tappava le orecchie mentre parlavo. La persona è quella.
Lei è vicino a Vendola. Che effetto le ha fatto ascoltare quella telefonata e quelle risate con Archinà?
Non l’ho ascoltata, ma questo modo di giornalismo – anche vostro – di creare bersagli e poi sparare non mi piace. Un giorno Berlusconi, un altro la Cancellieri, quello dopo Vendola. E magari ogni tanto Odifreddi. Non mi piace.
Però l’audio della telefonata, pubblicato dal Fatto.it , non l’ha ascoltato.
No, non l’ho ascoltato.
Per le sue opinioni sulla striscia di Gaza, Repubblica le ha chiuso il blog. Come Saramago e Chomsky, sostiene che gli isrealiani stiano facendo ai palestinesi ciò che i nazisti hanno fatto agli ebrei. Di recente è perfino passato per negazionista.
Ho scelto un momento inopportuno (la morte di Priebke) e il luogo sbagliato (il mio blog) per toccare un tema spinoso. Tra i commenti al mio post è intervenuto un negazionista. Il mio approccio scientifico non mi consente di negare a priori qualsiasi tesi. Così ho specificato cosa fosse giusto e cosa sbagliato.
E cosa c’è di giusto nel negazionismo?
Per esempio che il processo di Norimberga fu propaganda, come quello a Saddam. L’Imperatore giapponese era colpevole quanto Hitler, eppure nessuno lo ha processato. In quei processi la forma è più importante del contenuto: non si vuole fare giustizia, ma dare un messaggio e vendicarsi.
Ha scritto che Norimberga fu un po’ come Hollywood.
Attraverso Hollywood ci siamo convinti che i buoni erano i cow boy e non gli indiani d’America, vittime di un eccidio di 18 milioni di persone: tre volte l’Olocausto. Norimberga è stata un’opera analoga di propaganda. Tutto qua. Mai negato le camere a gas, mai stato negazionista.
In tanti lo hanno pensato e forse pensano ancora.
Colpa anche dei giornalisti. Persino quelli bravi, come Furio Colombo sul Fatto. Mi hanno attribuito frasi mai dette. Mi conoscono: perché non hanno sentito la mia versione? Torniamo a Scalfari e Bergoglio: inventare virgolettati è la norma.
Zichichi era amico di Andreotti, ma anche lei le deve la libertà.
(sorride). Fui trattenuto alcuni mesi in Siberia dall’Unione Sovietica come forma di ritorsione. Un agente sovietico era stato arrestato a Genova per spionaggio industriale e i russi si vendicarono. Fui liberato grazie a Pertini e Andreotti, allora ministro degli Esteri.
L’ha mai ringraziato?
Molti anni dopo. Ci trovammo in uno studio televisivo e glielo dissi. Non si ricordava. Poi gli chiesi la prefazione al mio libro “Zichicche”, per difendermi dalle querele di Zichichi. Ci riuscii. A pensarci bene, Andreotti mi ha salvato due volte.

Corriere 26.11.13
Quell’amicizia finita male tra Mussolini e Roosevelt I forti motivi di sintonia tra il fascismo e il New Deal
di Paolo Mieli


Ci fu un tempo in cui i rapporti tra Mussolini e Roosevelt furono idilliaci. «Mio caro presidente», scriveva Benito Mussolini a Franklin Delano Roosevelt il 24 aprile del 1933, «in risposta alla vostra richiesta di avere uno scambio di idee sui problemi economici e politici del mondo ai quali gli Stati Uniti e l’Italia sono reciprocamente interessati, ho chiesto al ministro delle Finanze on. Guido Jung di venire a Washington come mio rappresentante. Egli vi dirà con quanto grande interesse io stia seguendo il lavoro del governo degli Stati Uniti, per la soluzione delle attuali difficoltà del mondo, che soltanto attraverso la mutua collaborazione e la buona volontà delle nazioni possono essere risolte». Poi il Duce aggiungeva: «È con grande piacere che ho affidato al signor Jung la riproduzione dei codici di Virgilio e di Orazio che sono conservati alla Biblioteca “Laurenziana” di Firenze… Ho scelto questi due autori non soltanto perché le loro opere poetiche (nell’originale, per un lapsus, aveva scritto “politiche”, ndr) sono il più grande lascito letterario di Roma, ma anche perché sono esempi di quella nobiltà dello spirito e umana comprensione che credo essere le due qualità fondamentali del carattere americano». Questa più che cordiale lettera del dittatore fascista al presidente americano, scritta appena otto anni prima che i due si trovassero su fronti opposti nella Seconda guerra mondiale, ha attirato l’attenzione di Lucio Villari, il quale le ha dedicato un’interessante riflessione nel libro America amara. Storie e miti a stelle e strisce , pubblicato in questi giorni dalla Salerno editrice.
Il libro prende le mosse dalla stima reciproca tra l’illuminista napoletano Gaetano Filangieri e Benjamin Franklin; dall’ammirazione di Hermann Melville per Giacomo Leopardi («introdotto» in America dal poeta bostoniano Henry T. Tuckerman) e da quella di Edgar Allan Poe per Alessandro Manzoni. E dall’impresa fondamentale che fu la traduzione della Divina Commedia ad opera di Henry W. Longfellow. Un intreccio intellettuale che, dopo due secoli, già nella prima metà Novecento produce in Italia (nell’Italia fascista) un interesse allargato allorché viene dato alle stampe Che ve ne sembra dell’America? (Mondadori, 1940) di William Saroyan, mentre Elio Vittorini con Cesare Pavese prepara l’antologia Americana (Bompiani, 1941). Ma, nota Villari, Giulio Einaudi aveva anticipato Pavese e Vittorini pubblicando già nel 1934, subito dopo aver inaugurato la sua casa editrice, Che cosa vuole l’America di Henry A. Wallace e L’America al bivio del giornalista Amerigo Ruggiero. Probabilmente, scrive Villari, queste pubblicazioni si dovevano a suo fratello, Mario Einaudi, che era andato a insegnare alla Harvard University.
Prima di loro, ad accorgersi di quanto importante stesse diventando l’America era stato Benito Mussolini, che aveva fortemente cercato l’incontro con Roosevelt. Mussolini apprezzava molto le corrispondenze di Ruggiero sulla «Stampa», di cui volle scrivere di persona (sul «Popolo d’Italia»): «Non si tratta di articoli di colore, né di panzane romanzesche; sono articoli redatti con chiarezza di vedute e onestà di ragguagli». Apprezzamento che fu anche più ampio nei confronti del libro di Wallace, sul quale Mussolini intervenne ancora una volta con un articolo di suo pugno nel quale elogiava l’opera di Roosevelt, ma — a prendere le distanze dall’editore — criticava l’introduzione di Mario Einaudi («una specie di glossa prolissa a un testo che è straordinariamente chiaro»).
Ma torniamo alla lettera di Mussolini a Roosevelt. Il 2 maggio 1933, il ministro Jung e la delegazione italiana sbarcarono a New York dal «Conte di Savoia»; il giorno successivo furono ricevuti alla Casa Bianca, recapitarono missiva e doni, poi discussero con Roosevelt in un clima di grande familiarità. Concordarono nel giudizio (assai trattenuto) su Adolf Hitler, giunto al potere poche settimane prima; ebbero identità di vedute sul fatto che Stati Uniti e Italia fossero in quel momento gli unici Paesi capitalistici al mondo che, sul terreno economico, sociale e politico, cercavano una «terza via». La Francia, ricorda Villari, «era ancora lontana dal Fronte popolare, i giovani laburisti inglesi erano inchiodati alle strategie e agli obblighi dell’impero, la Spagna, da poco repubblicana e democratica, era incerta sul da farsi». La scelta, avviata dall’Italia, dell’intervento dello Stato in economia e di una politica per la sicurezza sociale, scrive Villari, «non poteva quindi lasciare indifferenti i riformatori progressisti americani». Mussolini «ne era talmente convinto che si fece anche divulgatore, attraverso il lungo articolo (di cui si è detto, ndr) dedicato a un libro tradotto in italiano del ministro più di sinistra del governo Roosevelt, Henry Wallace, pieno di elogi e di apprezzamenti».
Il 7 luglio dello stesso 1933 Mussolini diede alle stampe per l’Universal Service (un’agenzia giornalistica americana) un altro articolo, Roosevelt e il sistema , dove, in riferimento al libro del presidente americano appena pubblicato negli Stati Uniti, Looking Forwards (e prontamente tradotto in italiano da Bompiani con il titolo Guardando al futuro ) esprimeva ammirazione per come l’uomo del New Deal aveva saputo liberarsi «dai dogmi del liberalismo economico». Secondo il Duce, molti si stavano domandando, in America e in Europa, «quanto “fascismo” ci sia nella dottrina e nella pratica del presidente americano». Una domanda cui «Mussolini e alcuni newdealisti cercheranno di dare una risposta in numerosi interventi pubblici e privati fino a tutto il 1934, quando l’impronta democratica di Roosevelt cominciò a dare un significato diverso all’orizzonte politico e ideale che si era aperto negli Stati Uniti». Ma durante quell’anno e mezzo Roosevelt credette che qualcosa potesse nascere da quell’intesa, tant’è che nel 1934 inviò in Italia un suo uomo di fiducia, Rexford Tugwell, affinché incontrasse Mussolini e studiasse da vicino le realizzazioni del fascismo.
Roosevelt e i suoi collaboratori (in particolare Tugwell e Raymond Moley), sostiene Villari, «erano alla ricerca di un metodo di intervento pubblico e di impegno dello Stato che, senza distruggere il carattere privato del capitalismo, ne colpisse la degenerazione e trasformasse il mercato capitalistico, asociale e incontrollato, in un sistema sottoposto ai principi di giustizia sociale e insieme di efficienza produttiva». Ciò detto, «anche il capo del fascismo italiano guardava al programma del New Deal con attenzione, sia per le iniziative concrete (le leggi, i codici, gli istituti messi immediatamente in atto dall’amministrazione americana), sia per lo spirito con cui Roosevelt sgomberava il terreno dai miti del liberalismo».
Il capo del fascismo — come ha ben messo in risalto, anni fa, Renzo De Felice in Mussolini il duce. Gli anni del consenso 1929-1936 (Einaudi) — aveva cominciato a inoltrarsi su questi temi molto tempo prima che Roosevelt andasse al potere. Anche se, ha poi precisato De Felice, «Mussolini non imboccò mai la via (sulla quale pure la parte più viva del fascismo lo avrebbe seguito con entusiasmo) di una vera e propria pianificazione degli interventi e programmazione degli obiettivi da realizzare». Il Duce, che pure «amava affrontare certi problemi come altrettante “battaglie” e attivizzare attorno ad essi tutto l’apparato della propaganda del regime», preferì invece «ricorrere a una serie di provvedimenti, anche assai significativi — si pensi alla costituzione dell’ Imi e dell’Iri — ma sostanzialmente episodici, spesso non ben coordinati e talvolta in contraddizione tra loro». Tanto «da dare l’impressione che essi fossero presi più in base a necessità via via dettate dall’urgere della crisi che secondo una consapevole strategia d’insieme».
E però la svolta ci fu. Il socialisteggiante «discorso dei diaframmi», tenuto a Napoli il 25 ottobre del 1931, ne è una prova. «Quanto tempo dovrà ancora passare», si domandava il Duce, «per convincerci che nell’apparato economico del mondo contemporaneo c’è qualcosa che si è incagliato e forse spezzato?». «Nella politica interna», proseguiva, «la parola d’ordine è questa: andare decisamente verso il popolo, realizzare concretamente la nostra civiltà economica, che è lontana dalle aberrazioni monopolistiche del bolscevismo, ma anche dalle insufficienze stradocumentate della economia liberale». E fin qui… Ma poi Mussolini entrava più in dettaglio: «Non abbiamo nulla da temere; le plutocrazie degli altri Paesi hanno troppe difficoltà in casa loro per occuparsi delle nostre questioni e dell’ulteriore sviluppo che vogliamo dare alla nostra rivoluzione… Se ci fossero dei diaframmi che volessero interrompere questa comunione diretta del regime con il popolo, diaframmi di interessi di gruppi e di singoli, noi, nel supremo interesse della nazione, li spezzeremo!» Quindi, in un crescendo, il capo del fascismo diceva: «La crisi mondiale che non è più soltanto economica, ma è ormai soprattutto spirituale e morale, non ci deve fermare in uno stato di abulia e di inerzia: tanto maggiori sono gli ostacoli, tanto più precisa e diretta deve essere la nostra volontà di superarli».
Nei giorni successivi, «Il Popolo di Roma» pubblicava ben quattro articoli di esegesi sul tema dei «diaframmi». Con accenni assai duri alle «classi abbienti», alla «molta, troppa gente» che «seguitava a vivere e ad agire come se il fascismo fosse quel tale difensore delle casseforti borghesi pel quale molti, più o meno in buona fede, lo presero nove anni fa, quando andò al potere». Di qui, proseguiva «Il Popolo di Roma», «lo scatto del Duce a Napoli quando ha alluso a diaframmi opachi interponentisi ostinatamente tra il fascismo e il popolo, e ha imperiosamente gridato che, se occorre, si spezzeranno, si abbatteranno senza pietà... Il tempo delle grandi decisioni è venuto; la fine del capitalismo è, forse, ancor lontana; ma, certo, la fine del liberalismo economico non è più da venire perché è già avvenuta. Esso è morto nelle anime prima che nella realtà sociale».
In seguito «Il Popolo di Roma» indicava per nome i «diaframmi da spezzare»: le società elettriche, le banche e le industrie, «che pretendevano di vivere sulla pelle degli operai e degli impiegati chiedendo ad essi continue riduzioni di stipendio»; i padroni di abitazioni e le società edilizie, «che preferiscono tenere vuote le loro case piuttosto che fittarle a prezzi proporzionati ai minori guadagni di tutti».
Quando nel 1933 verrà creato l’Iri, la rivista di Giuseppe Bottai, «Critica fascista» accoglierà la fondazione dell’Istituto come un concreto passo sulla via di un’«economia programmata» e pubblicherà una serie di articoli di Federico Maria Pacces in favore di un vero e proprio «piano economico corporativo». Articoli che saranno accusati nell’ambito del conservatorismo fascista (in particolare dal mensile «Vita nova» di Bologna) di «estremismo», pulsioni da «sindacalismo russo», aspirazione a un «socialismo di Stato».
Il 1933 è in effetti un anno fondamentale per comprendere fino a che punto Mussolini vedesse in Roosevelt un punto di riferimento. Clamorosa è la circostanza che il 7 marzo «Il Popolo d’Italia» (direttamente ispirato da Mussolini) dedicasse il suo fondo non alle elezioni tedesche, che avevano consacrato Adolf Hitler, bensì ad una dichiarazione di Roosevelt dalla quale si poteva arguire, a detta del giornale, che il nuovo presidente degli Stati Uniti intendeva seguire una linea d’azione simile a quella di Mussolini. E Roosevelt — come hanno notato John Patrick Diggins in L’America, Mussolini e il fascismo (Laterza) e Arthur Meier Schlesinger in L’età di Roosevelt (Il Mulino) — prestò attenzione a quelle espressioni di riguardo provenienti dall’Italia. Disse che Mussolini era «un vero galantuomo», di essere «molto interessato e profondamente impressionato da ciò che egli ha realizzato e dal suo comprovato onesto sforzo di rinnovare l’Italia e di cercare di impedire seri sconvolgimenti in Europa».
E non si trattava solo degli Stati Uniti. In Inghilterra, il 17 gennaio del 1933, il leader liberale David Lloyd George concesse un’intervista al «Manchester Guardian», nella quale affermò che lo Stato corporativo mussoliniano era «la più grande riforma sociale dell’epoca moderna». Qualche tempo dopo, il 22 giugno 1933, Dino Grandi scrisse a Mussolini: «Ho incontrato ieri sera, ad un pranzo a corte, Lloyd George… Mi è venuto incontro per dirmi che desiderava io ti ripetessi ancora una volta le espressioni della sua sincera ammirazione». Alla conversazione, precisava Grandi, avevano assistito il principe Giorgio, figlio del re, l’ambasciatore di Polonia, il ministro dell’Interno Sir John Gilmour e «quattro o cinque membri della Camera dei Lord».
Lloyd George — riferisce Grandi — gli aveva detto: «O il mondo si decide a seguire Mussolini, ovvero il mondo è perduto. Non c’è che il vostro capo il quale abbia delle idee chiare, e che cammini sicuro sulla strada segnata dalla sua volontà… Non vi sembra strano che un vecchio liberale come me pensi e dica cose del genere di colui che è il giustiziere del liberalismo?». Grandi gli avrebbe risposto che non era affatto strano che Lloyd George dicesse quel tipo di cose, era strano semmai che egli continuasse «a credersi un vecchio liberale»: nulla era infatti «più errato, nell’attuale tempo rivoluzionario che l’intero mondo attraversa, di classificare il proprio pensiero servendosi di nomenclature politiche morte e trapassate». A suo dire si doveva «avere il coraggio, se si voleva essere compresi e seguiti, non soltanto di pensare in senso moderno, ma altresì di usare il dizionario politico vivente e aggiornato alla nostra generazione». Al che Lloyd George gli avrebbe risposto: «Forse avete ragione, ma i vecchi hanno i loro innocenti e tenaci pudori; ad agni modo il liberalismo è morto, ma io ancora no».
Sempre in Gran Bretagna, il 16 febbraio del 1933, il capo dell’opposizione laburista George Landsbury rilasciava un’altra clamorosa intervista, stavolta al «News Chronicle». Per affrontare il problema della disoccupazione, sosteneva, «io non riesco a vedere che due metodi, e questi sono già stati indicati da Mussolini: lavori pubblici e sussidi. A mio avviso vi è una enorme quantità di opere che possono essere compiute nel campo dell’agricoltura e della bonifica, nelle strade, nelle comunicazioni e nelle miniere… Se io fossi dittatore, io farei come Mussolini: sceglierei cioè gli uomini che sappiano tracciare dei piani di opere pubbliche effettivamente utili al Paese e continuerei risolutamente sulla mia strada fino a portare una completa riorganizzazione nella vita nazionale».
Un esempio «assai significativo di questo interesse» è offerto, secondo De Felice, dal numero speciale sul corporativismo italiano pubblicato nel 1934 da «Fortune». Gli articoli pubblicati su «Fortune» offrono «infatti bene la possibilità di rendersi conto sia dei caratteri e dei limiti dell’interesse americano per il corporativismo, sia delle riserve che l’andamento dell’economia italiana suscitavano oltre oceano, sia infine di cosa intendessero coloro che affermavano che “lo Stato corporativo sta a Mussolini come il New Deal sta a Roosevelt”».
Il 18 febbraio del 1933 il futuro primo ministro Winston Churchill, nel venticinquesimo anniversario della Lega antisocialista britannica, pronunciò un discorso destinato ad essergli rinfacciato, in seguito, più di una volta: «Il genio romano impersonato in Mussolini, il più grande legislatore vivente, ha mostrato a molte nazioni come si può resistere all’incalzare del socialismo e ha indicato la strada che una nazione può seguire quando sia coraggiosamente condotta. Col regime fascista, Mussolini ha stabilito un centro di orientamento dal quale i Paesi che sono impegnati nella lotta corpo a corpo con il socialismo non devono esitare ad essere guidati».
Di lì il discorso anglo-italiano scivolò addirittura verso un larvato apprezzamento — ovvio per Mussolini, assai meno per inglesi e americani — nei confronti dei sistemi dittatoriali. Il 28 giugno del 1933 Mussolini scrisse sul «Popolo d’Italia»: «Il Congresso americano ha concesso i pieni poteri a Roosevelt. Si tratta veramente di pieni, anzi di pienissimi poteri. Quella del presidente è una dittatura … Il curioso, in tutto ciò, è che gli stessi esaltatori del regime democratico trovano che l’attuale sviluppo assolutamente dittatoriale della politica americana è nell’ordine fatale delle cose… Non è fascismo; è, per ora, semplice negazione del sistema, non soltanto politico… Milioni di uomini si domandano: a che servono gli immortali principi, se nelle ore di crisi essi appaiono e sono insufficienti?».
Nel mesi di luglio di quello stesso 1933, a Londra lord Arthur Ponsonby, sottosegretario agli Esteri del primo governo presieduto da James Ramsay MacDonald e leader laburista alla Camera dei Lord, scriveva sulla «Contemporary Review»: «Noi rifuggiamo dall’idea di una dittatura, e del resto non abbiamo nessuno che potrebbe occupare l’ufficio di dittatore. Ma segretamente noi invidiamo i metodi della dittatura quando vediamo come energicamente essa funziona altrove». I Paesi «retti a dittatura forse non fanno quello che noi vogliamo, ma agiscono, si muovono, si trasformano, tentano esperimenti nuovi, mentre noi siamo affondati in un pantano e attaccati a un sistema antiquato, che, ove fallisca, può portarci al disastro. C’è voluto un anno a ricostruire una gran parte di Roma, e noi abbiamo impiegato tre anni a non costruire due nuovi ponti a Londra». È in questo contesto, ha scritto De Felice, che si devono collocare «la personale fortuna, il prestigio, il successo, l’interesse, la curiosità» di cui Mussolini godette in quegli anni sia negli Stati Uniti che in Inghilterra. Una «fortuna» che, nella prima metà degli anni Trenta, «non ebbe probabilmente uguali».
Villari trae conferma di questo assunto da alcuni brani dei diari di Tugwell, il quale nel 1934 fece, per conto di Roosevelt, un viaggio in Europa e fece sosta in Italia. «Trovo che l’Italia stia facendo molte cose che mi sembrano necessarie», scrive Tugwell il 20 ottobre del 1934, «e, a ogni modo, si sta ricostruendo materialmente in maniera sistematica. Qui la brava gente si preoccupa del bilancio, eccetera. Certo, Mussolini ha gli stessi oppositori di F.D. Roosevelt. Ma ha il controllo della stampa, per cui non possono urlargli menzogne ogni giorno. E ha una nazione compatta e disciplinata, anche se priva di risorse. Almeno in superficie, sembra aver fatto enormi progressi. Ma ho qualche domanda da fargli che potrebbe imbarazzarlo, o forse no. Mi dicono che ha il senso dell’umorismo e un modo di fare diretto, sempre che si riesca a restare completamente soli con lui».
Poi, il 22 ottobre 1934, Tugwell, che non è certo uno sprovveduto, torna sull’argomento di ciò che non lo convince. «La certezza matematica che tutto quello che scrivo e imposto da qui sarà quantomeno letto m’impedisce di buttar giù alcune notazioni che mi piacerebbe registrare. Negli ultimi due giorni ho visitato le paludi Pontine in via di bonifica, dove non ho riscontrato nulla di qualche rilievo o interesse dal punto di vista dell’organizzazione sociale». Ma Mussolini lo convince, eccome. «Di fatto l’altro giorno, quando sono andato con Long a una parata militare, lui (il Duce, ndr) mi stava proprio di fronte, sul suo cavallo bianco. È stata un’esperienza sconcertante, in cui rientravano elementi che colpivano la sensibilità americana. La sua forza e l’intelligenza sono evidenti, come anche l’efficienza dell’amministrazione italiana. È il più pulito, il più lineare, il più efficiente campione di macchina sociale che abbia mai visto. Mi rende invidioso». Addirittura.
Trascorrono nove anni da quei «giorni dell’invidia» ed ecco come Villari descrive il cambiamento attraverso le parole dello scrittore italo-americano Gay Talese, a proposito del giorno in cui la notizia della caduta di Mussolini giunse in America. «Nel luglio 1943 quando i tifosi americani che assistevano a una partita di baseball appresero dall’impianto radiofonico dello Yankee Stadium che Mussolini era stato destituito, si alzarono tutti in piedi con un applauso. Quando la notizia fu comunicata al pubblico che era presente nello studio della Nbc al Rockefeller Center di New York, interrompendo un concerto di musiche verdiane diretto da Arturo Toscanini, anche lì la gente si alzò in piedi applaudendo. Il giorno dopo il “Times” disse che il maestro “si era preso la testa tra le mani e aveva alzato gli occhi al cielo, come se le sue preghiere fossero state finalmente esaudite”. Il sindaco di New York, Fiorello La Guardia, commentò l’annuncio definendo Mussolini “il traditore d’Italia”. Il “Washington Post” lo chiamò “imperatore di segatura”, il “New York Herald Tribune” salutò la fine dell’“egoismo napoleonico” di Mussolini e il “Christian Science Monitor” applaudì la fine delle sue “smargiassate dal balcone”».
Certo, c’era stato di mezzo un capovolgimento di alleanze e una guerra. Ma nella distanza tra le parole di Tugwell e quelle di Talese c’è nascosta la grande occasione perduta dall’Italia negli anni Trenta. Per un momento (abbastanza lungo, a dire il vero) una felice intuizione di Mussolini aveva portato il nostro Paese a un passo da un’alleanza strategica con il mondo anglosassone. Un’alleanza che, ad ogni evidenza, avrebbe cambiato il corso della storia. Ma l’uomo che aveva avuto quell’intuizione, purtroppo non fu poi capace di dare ad essa una prospettiva. Purtroppo per lui. Ma, in un certo senso, purtroppo anche per noi.

Repubblica Salute 26.11.13
Disturbi mentali. Indagine in 10 Paesi europei:
Italia al secondo posto per la contenzione e coercizione nei reparti psichiatrici
Il dramma dei malati e degli operatori “dimenticati”
Diritti negati e cure coatte Fallimenti di atti medici
di Francesco Cro


In Italia più della metà delle persone ricoverate in psichiatria, con trattamento sanitario obbligatorio (Tso) o comunque contro la loro volontà, può essere sottoposta a immobilizzazione fisica (contenzione) o a somministrazione forzata di psicofarmaci. È quanto risulta dallo studio Eunomia, che ha monitorato l’uso delle misure coercitive in dieci nazioni europee, coinvolgendo in due anni e mezzo più di duemila pazienti. Il nostro Paese si è posizionato al secondo posto per l’utilizzo della forza, riferita dal 58% dei ricoverati, pur risultando tra i migliori per quanto riguarda alcuni indici di qualità, come il numero di operatori disponibili (77 ore di lavoro a settimana per paziente, più alto rispetto alla media europea) o quello di posti letto per reparto (13, più basso). I fattori che portano all’uso della coercizione possono essere legati alle caratteristiche dei pazienti, ma anche all’organizzazione e all’orientamento degli operatori all’interno dei reparti psichiatrici. È su queste ultime variabili che si concentra lo psichiatra Pietro Sangiorgio, coordinatore di un gruppo di lavoro che dal 2005 monitorizza il ricorso alla contenzione fisica nei reparti psichiatrici del Lazio. Per Sangiorgio, che ritiene la contenzione “un fallimento della cura più che un atto medico”, vittime della violenza delle istituzioni sono non solo i pazienti, ma anche gli operatori, depositari di un mandato ambiguo da parte della società, che da una parte chiede loro di esercitare una funzione di controllo, colpevolizzandoli quando un paziente compie atti di devianza, ma dall’altra nonvuole sapere né rendersi conto che troppo spesso nei reparti psichiatrici vengono negati i diritti dei cittadini. Peppe Dell’Acqua, direttore emerito del dipartimento di salute mentale di Trieste, sottolinea come in molti casi la preoccupazione per i comportamenti disturbanti possa prevalere sul diritto alla cura, rischiando di far riaffiorare la logica manicomiale. Il problema sarà posto in maniera ancora più evidente dalla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, prevista dalla legge n. 9 del 17 febbraio 2012, ma che slitterà molto probabilmente al 2015.
Il ricovero rappresenta spesso l’ultimo anello di una catena di eventi: la prevenzione delle contenzioni deve nascere anche dalla diffusione di una differente cultura clinica ed eticadentro e fuori le strutture di ricovero. A questo proposito la psicologa Teresa Di Fiandra, della Direzione Generale Prevenzione del Ministero della Salute, auspica che le raccomandazioni emanate nel 2010 da Regioni e Province Autonome (monitorare contenzioni e comportamenti violenti nei luoghi di cura, promuovere la formazione dei soggetti coinvolti, il miglioramento della qualità e la trasparenza) possano essere al più presto ratificate e rese operative dalla Conferenza Permanente Stato-Regioni.
* Psichiatra, Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura, Viterbo

Repubblica Salute 26.11.13
L’indagine
Interviste a pazienti e ricerca: in 10 anni triplicate le prescrizioni di psicofarmaci. Le terapie arrivano in ritardo
Depressione, il disagio nascosto per anni
di Alessandra Margreth


Tristezza, tensione interiore, riduzione del sonno, incapacità di provare sensazioni, pensieri pessimistici: è quello che sperimentano coloro che sono colpiti da depressione. La recente indagine di Doxa Pharma LiberaMente, condotta su pazienti e psichiatri di alcuni centri specializzati, ha cercato di mettere meglio a fuoco questa realtà.
Si è verificato che nel 16% dei pazienti trascorrono più di due anni dai primi sintomi al ricorso al medico. Aggiunge Claudio Mencacci, presidente della Società Italiana di Psichiatria: «Abbiamo evidenziato per il paziente depresso una condizione gravemente debilitante, ma nonostante questo, in Italia molte persone rimangono senza trattamento. Bisogna fare uno sforzo per garantire le cure più adeguate e assicurare il potenziamento dei servizi sul territorio».
Un aspetto molto sentito è il disagio che il depresso deve affrontare nella sua attività lavorativa. Tanto che l’associazione Progetto Itaca ha dato vita a un centro per lo sviluppo dell’autonomia socio-lavorativa di persone con una storia di disagio psichico. È un aiuto concreto per sostenere queste persone a integrarsi nella società. (http://www.progettoitaca.org).
Nel nostro Paese si stima che i depressi siano circa 5 milioni. Secondo quanto riportato da LiberaMente, l’attuale crisi economica incide negativamente sul rischio di malattia in tutti gli strati sociali. Stando ai dati del consumo di farmaci si sta verificano una vera a propria esplosione della depressione: in soli 10 anni, tra il 2000 e il 2011 le prescrizioni di antidepressivi sono aumentate del 340%.

Repubblica Salute 26.11.13
Lo studio
La psicoterapia meglio dei farmaci


Per molti disturbi psicologici, tra i quali la depressione, la psicoterapia ha effetti superiori e più lunghi rispetto agli psicofarmaci. Lo afferma una risoluzione ufficiale dell’American Psychological Association, basata su ricerche validate, e pubblicata in Italia sulla rivistaPsicoterapia e Scienze Umane, (direttore Paolo Migone) in libreria, in simultanea con l’uscita negli Usa. Oltre a dimostrare l’efficacia della psicoterapia, la risoluzione dell’American Psychological Association indica si è dimostrata in molti casi anche economicamente conveniente (cost-effective), meno costosa dei farmaci e capace di ridurre interventi medici e chirurgici non necessari

Repubblica 26.11.13
Il carisma orizzontale
di Massimo Recalcati


UNO dei temi più vicini all’indagine psicoanalitica che attraversano il dibattito politico è quello del carisma. A destra e a sinistra, passando per il M5S, l’aggregazione del consenso non sembra poter prescindere dalla dimensionecarismatica del leader.
QUESTA constatazione appare preoccupata soprattutto in coloro che ne sono privi e che guardano il cosiddetto “uomo solo al comando” con sospetto. Non hanno però tutti i torti. Non è forse il carisma quella forma di potere che rende ciechi, che muove le masse suggestivamente, ipnoticamente? Non è il fascino carismatico del leader a spegnere il giudizio critico celebrando religiosamente l’Imago del leader come una sorta di idolo pagano?
Indubbiamente la dimensione carismatica del potere suscita legittime preoccupazioni anche se solo si rilegge la storia del Novecento e i disastri generati da masse irretite dal fascino morboso provocato dalla voce e dallo sguardo invasati del leader. Freud ne ha fornito un ritratto insuperabile nel suo
Psicologia delle masse e analisi del-l’Io proprio mentre l’Europa si infilava nel tunnel dei totalitarismi. E tuttavia queste condivisibili preoccupazioni sembra scaturiscano da una concezione della politica ancora ingenuamente razionalista secondo la quale il consenso sarebbe il risultato di un discernimento puramente logico del livello di persuasività degli argomenti dei diversi contendenti. Non era certo necessario il ventennio berlusconiano per smontare questa idea solo “cognitivista” del consenso. Uno dei contributi decisivi che la psicoanalisi ha introdotto nel campo della politica consiste, infatti, nel pensare che le scelte degli individui — anche quelle elettorali — siano sempre mobilitate non solo dal giudizio ma anche da spinte pulsionali acefale, da desideri più forti, da esigenze “illogiche” che la ragione non è mai in grado di governare del tutto. Queste esigenze non sono solo quelle avidamente pulsionali del guadagno immediato, della difesa accanita ed egoistica dei propri interessi, dell’accrescere la propria potenza, ma anche quelle — altrettanto pulsionali — dell’aspirazione al cambiamento, alla trasformazione dell’esistente, alla giustizia, all’apertura di mondi nuovi, all’affermazione coraggiosa di una visione differente del nostro futuro. Questo significa che la politica implica sempre la pulsione e il desiderio e non solo la ragione. È un dato di fatto. Gli enunciati senza la forza singolare dell’enunciazione (desiderio) risultano vuoti.
Traduciamo questa tesi più semplicemente con un esempio: io posso condividere quasi tutto di ciò che dice un segretario di partito, ma il modo in cui lo dice, le parole che usa nel dirlo, il livello singolare (desiderante) della sua enunciazione, può rischiare di contraddire proprio ciò che dice e ciò ben al di là della sua volontà poiché è il livello dell’enunciazione che può fare vivere, o morire, il valore degli enunciati. Basta entrare in un’aula universitaria per rendersene conto. Il professore preparato può non sapere cosa sia un’ora di lezione. Saper tenere una lezione non risiede solo nella retorica di chi parla, nella sua capacità di comunicazione, ma nella forza di saper incarnare la verità di quello che dice, la trasformazione che la parola introduce in chi la ascolta. Questa forza ha precisamente a che fare con il carisma. Il problema, infatti, non è demonizzare il carisma nel nome di una visione razionalistica della politica che esclude dal suo orizzonte la dimensione della forza e dell’eccesso — pulsione e desiderio — , ma costruire una clinica differenziale del carisma. Cosa osserviamo a questo proposito? Semplice: l’esistenza di carismi differenti.
Il carisma berlusconiano non è assimilabile a quello renziano o a quello grillino. Si tratta di carismi che hanno supporti diversi: il carisma berlusconiano poggia sul fan-tasma della libertà, o, meglio, sulla riduzione della libertà al principio di fare quel che si vuole, sull’inno dell’individualismo — la riduzione della Legge a Legge ad personam—come valore antropologico assoluto che finisce per rendere impossibile la vita insieme. Gli altri suoi attributi — non secondari — sono quelli del potere, del sesso e del denaro che radunano il consenso a partire da un meccanismo elementare di identificazione proiettiva: essendo il nostro tempo il tempo della morte degli Ideali, ciò che conta è godere il più possibile senza vincoli di sorta e Berlusconi incarna con forza carismatica questo godimento libero dalla Legge e per questa ragione ha saputo generare un consenso ventennale attorno alla sua persona. Non nonostante infrangesse la Legge, ma proprio perché sottoponeva la Legge a una volontà — la sua — più forte. Si tratta, come si vede, di una versione del carisma che trova la sua linfa sulfurea nell’antipolitica, cioè in una rivendicazione di totale estraneità rispetto al mondo della rappresentanza politica.
È su questa linea — quella dell’antipolitica — che dobbiamo collocare anche il carisma di Grillo che, sebbene antropologicamente assai differente da quello berlusconiano, condivide la stessa rivendicazione di se stesso come di un corpo estraneo e separato dalle istituzioni democratiche della rappresentanza. In Grillo il vento dell’antipolitica è suscitato non da un fantasma di libertà, ma da quello di purezza e di incontaminazione sostenuto da un confine immunitario rigido e fondamentalmente paranoico che rende impossibile qualunque trattativa con chi non appartiene alla casta identitaria dei puri. Qui non è il potere, né il sesso, né il denaro, né una visione iperindividualista della libertà, a fondare il carisma. Le ragioni da cui scaturisce il carisma di Grillo sono le stesse ragioni della sinistra, ma in esso si miscelano in modo singolare e inquietante estremismo (verso l’esterno) e autoritarismo (verso l’interno) secondo la più tipica fenomenologia di tutti i leader integralisti.
Ci si può chiedere di quale natura sia il carisma di Renzi. Mi pare che questo carisma faccia perno essenzialmente su un’idea positiva della giovinezza. Non certo quella estetica perseguita pateticamente da Berlusconi, ma quella che coincide con l’esigenza del sogno e della trasformazione, del progetto e del coraggio, della necessaria assunzione di responsabilità che attende le nuove generazioni. Per questo, probabilmente, esso sa radunare attorno a sé quei giovani che abbandonano le sedi più tradizionali dei partiti, Pd compreso, e che rischiano di essere assorbiti dall’antipolitica dell’iperindividualismo berlusconiano o del fondamentalismo grillino. Si tratta chiaramente di un carisma che non si sostiene più — come accadeva per i grandi leader storici della sinistra democratica — sull’autorevolezza della figura paterna. Da questo punto di vista i funerali di Enrico Berlinguer non hanno solo chiuso una stagione politica, ma hanno anche segnato il tramonto definitivo del carisma patriarcale di cui il leader era la personificazione. Con Achille Occhetto inizia un processo di umanizzazione e fragilizzazione del leader che giunge sino a Matteo Renzi, il cui carisma sembra sganciarsi decisamente dalla forza verticale del padre per assumere una dimensione più orizzontale. Anziché aver nostalgia dell’epoca del leader-padre conviene interrogare la natura di questa nuova versione del carisma. Quale? Quella della fratellanza di una nuova generazione che chiede diritto di parola esigendo che questo sia il tempo nel quale dare prova della propria capacità di governo? Staremo a vedere.

Repubblica 26.11.13
Una biologa americana, in una ricerca pubblicata su “Science”, analizza a fondo il Dna maschile I geni che erano ritenuti indispensabili alla procreazione sono solo due, e i ricercatori puntano a sostituirli
La solitudine del cromosoma Y sempre più inutile per fare figli
di Elena Dusi


La domanda se l’è posta una donna. Che cosa, di un uomo, è necessario per avere dei figli? Essendo la donna in questione una biologa (Monika Ward dell’università delle Hawaii a Honolulu), la risposta è andata a cercarla nel Dna. In particolare si è messa a scandagliare quel cromosoma Y che è simbolo maschile per eccellenza, distingue gli uomini dalle donne ed è responsabile della formazione di testicoli e spermatozoi.
I risultati dei suoi studi, pubblicati suScience, contengono una notizia metà buona e metà cattiva (almeno se considerata dal punto di vista maschile). Da un lato infatti il cromosoma Y è quasi del tutto inutile ai fini della riproduzione. La Ward e il suo gruppo sono riusciti a ottenere dei cuccioli di topolino usando solo due geni. Considerando che l’uomo ha 24mila geni, il contributo maschile alla procreazione nel test di Honolulu è stato davvero minimo.
Guardando il bicchiere mezzo pieno, però, gli studi della Ward hanno dato l’ennesimo colpo di piccone a una teoria che da un decennio terrorizzava gli uomini, e non solo: quella secondo cui il cromosoma Y è solo un relitto dell’evoluzione, una brutta copia del cromosoma X destinata a perdere geni al ritmo di 4 o 5 ogni milione di anni e — avendone in tutto 78 per quanto ne sappiamo — condannata al deperimento e all’estinzione. La Ward e i suoi collaboratori hanno dimostrato che, ancorché pochi, i geni indispensabili alla procreazione restano saldi al centro del cromosoma Y.
La paura che i maschi della specie umana potessero estinguersi era nata da un’osservazione. Circa 300 milioni di anni fa (quando il cromosoma X e quello Y si sono differenziati nel corso dell’evoluzione dei mammiferi), l’Y aveva un migliaio di geni. Oggi questi frammenti di Dna si sono ridotti a78, almeno per quanto ci è possibile contare. Nonostante il sequenziamento completo del Dna umano sia stato completato nel 2001, infatti, metà del cromosoma maschile resta pieno di “N”, cioè di sezioni illeggibili.
Il problema dell’Y è la solitudine. Mentre gli altri cromosomi sono presenti nel nucleo delle cellule in due copie — una ereditata dal padre, una dalla madre — l’Y dei maschi ha di fronte a sé un partner molto differente da sé, predominante per dimensioni e funzioni e con il quale il dialogo è ridotto quasi a zero: quel cromosoma X di cui invece le donne hanno due copie.
Il dialogo e lo scambio di informazioni fra le due copie di uno stesso cromosoma permettono la correzione reciproca degli errori che normalmente si accumulano sulla doppia elica. Non avendo un partner a cui ricorrere per riparare i suoi danni — secondo quanto sosteneva la teoria dello sgretolamento — il cromosoma Y sarebbe stato destinato ad accumulare mutazioni diventando sempre più corrotto. Oggi in realtà si è capito che il cromosoma solitario è in grado di ovviare al suo solipsismo duplicando dentro di sé molte versioni di uno stesso gene, fabbricando copie corrette da usare in caso di mutazione.
Anche se l’esperimento di Honolulu ha ridotto al minimo il contributo maschile alla riproduzione, i ricercatori sono stati costretti a usare una tecnica di procreazione assistita molto spinta. «I risultati ottenuti sui topi non possono essere applicati agli uomini » scrive la Ward. Con i solidue geni lasciati in funzione nel cromosoma Y, infatti, i testicoli dei topolini erano in grado di produrre spermatozoi molto immaturi. Iniettare in una cellula uovo questi precursori dei gameti maschili presenta molte difficoltà e ha un’alta probabilità di dar vita a una prole malata.
Anche nel concludere il suo articolo, Science ci lascia con una notizia buona e una cattiva. La buona è che la riproduzione “minimalista” che sfrutta solo due geni è molto inefficiente. Resta dunque indispensabile per gli uomini usare l’Y tutto intero. La cattiva è che la Ward continuerà ad approfondire la questione: «È possibile secondo noi eliminare del tutto anche quei due geni. Basterà trovare dei ricambi adeguati».

Repubblica 26.11.13
L’intervista
Paolo Francalacci insegna genetica all’università di Sassari
“Attenti a dire che non serve ci fa ricostruire la genealogia”
di E. D.


ROMA — «Per noi genetisti il cromosoma Y è uno strumento straordinario. Ci aiuta a ricostruire il passato dell’uomo». Paolo Francalacci insegna genetica all’università di Sassari e lo scorso agosto con il Cnr e il centro di Pula Crs4 ha pubblicato suSciencela ricostruzione dell’albero genealogico degli europei grazie allo studio del cromosoma Y di 1.200 sardi.
Perché usate questo cromosoma?
«In massima parte non si ricombina con altri cromosomi e le sue mutazioni vengono trasmesse intatte di padre in figlio. È come un cognome: ci permette di ricostruire la storia di una genealogia. Ma mentre un cognome si ferma diciamo a 400 anni fa, con l’Y arriviamo fino a 180 mila anni fa circa. A quell’epoca risale il più antico antenato dei maschi viventi oggi».
Pensa che l’Y diventerà inutile?
«Ce ne vorranno di prove prima di dire che non serve a nulla. Però in effetti molte regioni dell’Y ci sono ignote. Buona parte del cromosoma deve ancora essere letto».
(e. d.)

Repubblica 26.11.13
L’incontro
“Intellettuali e di sinistra” In ricordo di Nello Ajello


ROMA — Si terrà oggi alle 17, nella sede romana della casa editrice Laterza, l’incontro “C’eravamo tanto amati. Intellettuali e sinistra ieri e oggi” in ricordo di Nello Ajello, storico giornalista di Repubblica recentemente scomparso. La discussione si aprirà con gli interventi di Simonetta Fiori, Tullio De Mauro e Fabrizio Barca. Parteciperanno, tra gli altri, Alberto Asor Rosa, Piero Bevilacqua, Giancarlo Bosetti, Enzo Golino, Bruno Manfellotto, Paolo Mauri, Pierluigi Battista, Alfredo Reichlin, Giovanni Valentini.