mercoledì 27 novembre 2013

l’Unità 27.11.13
Sindacati in azione: il 14 dicembre nelle piazze d’Italia
«Con questa manovra nel 2014 sarà una catastrofe occupazionale»
Cgil Cisl e Uil non smobilitano
Dopo lo sciopero di nuovo in pressing per chiedere «meno tasse e più lavoro»
di Massimo Franchi

ROMA La mobilitazione va avanti. Ma il clima è cambiato: c’è la delusione per le mancate modifiche al Senato, c’è l’amara constatazione che «il livello di mobilitazione degli scioperi non è stato sufficiente», c’è l’orgogliosa rivendicazione dell’aver provocato la promessa di Letta di utilizzare tutti i proventi della spending review per la riduzione del cuneo fiscale.
Alla riunione degli esecutivi unitari di Cgil, Cisl, Uil la domanda che riecheggia di più negli interventi di vari segretari territoriali è la stessa di Lenin nel 1902: «Che fare?». La risposta in realtà l’aveva già annunciata in apertura Luigi Angeletti: manifestazioni in ogni regione sabato 14 dicembre precedute da una tre giorni di mobilitazione per informare «l’altro mondo» delle proposte del sindacato grazie a «milioni di volantini e manifesti», «con cui tappezzeremo il Paese» e a «striscioni negli stadi». Lo slogan dovrebbe essere: «Meno tasse, più lavoro».
Gli esecutivi unitari all’Auditorium di via Rieti a Roma sono però lo specchio fedele di un sindacato alle prese con una decisione difficile: fidarsi o non fidarsi del governo Letta? Da una parte c’è Raffaele Bonanni che spinge per dare credito al premier. Dall’altro ci sono Susanna Camusso e Luigi Angeletti, molto meno convinti e molto più agguerriti nel contrapporsi al governo. Ne viene fuori una soluzione di compromesso nella quale la mobilitazione va avanti (ma diventa «non smobilitiamo»), l’obiettivo si sposta sul passaggio alla Camera della legge di Stabilità ma già si guarda al futuro, alla Spending review.
Per Cgil, Cisl e Uil il problema principale è infatti quello di «portare a casa dei risultati». Quei risultati che per ora non sono per niente arrivati. La «piattaforma sindacale» rimane la stessa: serve uno shock fiscale, servono investimenti per la crescita, un contratto per i dipendenti pubblici (e non la mobilità), risolvere il dramma degli esodati e degli ammortizzatori sociali (cig in deroga e incentivi fiscali per i contratti di solidarietà), ridare soldi in tasca ai pensionati, appena beffati dall’emendamento prima annunciato e poi ritirato sull’aumento delle rivalutazioni fino ai 2mila euro lordi.
Tocca a Luigi Angeletti aprire l’assise. «Siamo intenzionati a non arrenderci, è necessario proporre iniziative di mobilitazione per rompere l’equilibrio politico che si sta cristallizzando intorno a questa legge di stabilità. La nostra intenzione è parlare a milioni di persone contemporaneamente: lo sciopero è uno strumento efficace, ma limitato. Per questo abbiamo pensato di fare cose diverse dal tradizionale».
Una posizione in larga parte condivisa da Susanna Camusso. Che però parte da una analisi molto più amara. «Il tempo non è una variabile indipendente, se la manovra è questa nel 2014 avremo una catastrofe occupazionale. I lavoratori ormai fanno fatica a vedere l’uscita dalla crisi, una politica di galleggiamento riduce il ruolo di chi, come il sindacato, vuole cambiare le cose. Oramai l’Europa è diventata un gigantesco alibi per non cambiare le politiche economiche, il vero rischio è la deflazione e in pochi se ne sono accorti». Il fulcro però dell’attacco al governo arriva qui: «Di infiniti annunci non ne possiamo più». Mentre sprona il sindacato: «Non possiamo nasconderci che gli scioperi non hanno avuto un livello di mobilitazione sufficiente, dobbiamo pensare a rimontare parlando anche all’altra parte del mondo». Sulla spending review il rischio che vede Camusso «è che alla fine si mettano come al solito in contrapposizione i lavoratori, in questo caso i pubblici, a cui applicare la mobilità, ai privati, che stanno subendo le ristrutturazioni in tutte le grandi aziende di servizi».
A chiudere invece è Raffaele Bonanni. Il leader Cisl capisce il momento difficile e decide di non usare giri di parole. «Il nostro problema non è organizzare lo sfogo dei lavoratori ma un’iniziativa che eviti lo sfascio del Paese». E rivendica i risultati già raggiunti: «Sul taglio della spesa pubblica è passata la nostra proposta, quella di Cottarelli sulla Spending review non è una proposta banale, ma per la prima volta dettagliata. Saremmo ingiusti o poco accorti se svalutassimo la presa di posizione del presidente del Consiglio: perché è arrivata da una nostra precisa richiesta assieme alle imprese. A Letta ora chiediamo: trasforma al più presto la tua promessa in un emendamento del governo alla Camera. Così potremo valutare subito, nei prossimi giorni, se è solo una promessa o se invece questa volta si cambia davvero. Per questo ci mobilitiamo, per sfidare il governo a farlo».
I primi a mobilitarsi saranno i pensionati venerdì, mentre sabato tocca al mondo della scuola, entrambi con manifestazioni nazionali a Roma.

l’Unità 27.11.13
I precari saranno poveri i pensionati lo sono già
Rapporto Ocse: i redditi pensionistici
di chi inizia a lavorare oggi saranno inferiori agli attuali
Contributi previdenziali tra i più alti dell’area, salari medi tra i più bassi
di Laura Matteucci

MILANO  L’Italia ha il tasso di contributi previdenziali più alto in tutta l’area Ocse, Ungheria a parte. Eppure, nonostante il peso dei contributi, chi entra oggi nel mercato del lavoro dovrà aspettarsi una pensione più bassa rispetto agli standard attuali, con un autentico rischio povertà per i precari (che in genere non se la passano bene nemmeno prima dell’età pensionabile). I salari, in compenso, sono nettamente tra i più bassi dell’area, pari a 28mila 900 euro, ovvero 38.100 dollari, quando la media Ocse è di 32.400 euro, cioé 42.700 dollari, su cui pesano i 94.900 dollari degli svizzeri, i 91mila dollari dei norvegesi, i 76.400 dollari degli australiani, i 59mila dollari dei tedeschi e i 58.300 degli inglesi. Sono i principali capisaldi intorno ai quali si snoda il rapporto dell’Organizzazione parigina «Pensions at a glance 2013», che una volta di più mette in luce le difficoltà e le pesantezze del lavoro in Italia.
PAGARE TANTO, OTTENERE POCO
Contributi previdenziali altissimi, si diceva: nel 2012 sono infatti stati pari al 33% del totale lordo della retribuzione, il 9% del Pil e il 21,1% del totale delle tasse. La media Ocse è del 19,6% (il 5,2% del Pil e il 15,8% del totale delle tasse). Sono a carico per 9,2 punti del lavoratore, e per 23,8 punti del datore di lavoro. Ma chi inizia a lavorare oggi avrà una pensione più bassa rispetto alle attuali, e se questo principio è valido in genere in tutti i Paesi Ocse, come conseguenza delle riforme approvate negli ultimi vent’anni in molti Paesi, lo è ancor di più in Italia. «La sostenibilità sociale del sistema pensionistico e l’adeguatezza delle entrate da pensione potrebbero quindi diventare una grande sfida per le autorità politiche», si legge nel rapporto. «I futuri pagamenti saranno generalmente più bassi e non tutti i Paesi hanno costruito un sistema di protezione speciale per i redditi bassi». I precari, ovvero «le persone senza una carriera a contributo pieno», «incontreranno difficoltà nel raggiungere adeguati redditi da pensione secondo gli schemi pubblici, e ancora meno in quelli privati, che di solito non redistribuiscono il reddito ai pensionati più poveri», aggiunge l’Organizzazione, laddove «i disoccupati, i malati e i disabili potrebbero non riuscire a maturare requisiti adeguati per la pensione». Morale: secondo l’Ocse i governi devono fare di più per incoraggiare le persone a lavorare più a lungo e risparmiare di più per la pensione, in modo da garantire che i benefici siano sufficienti a mantenere gli standard di vita attuali. E l’azione politica è necessaria anche per evitare gli aumenti di disuguaglianza tra i pensionati. Anche perché il pilastro privato non è ben sviluppato: a fine 2010 la copertura dei piani pensionistici privati raggiungeva solo il 13,3% della popolazione in età lavorativa. In generale, sottolinea l’Ocse, la riforma Fornero adotatta in Italia «può avere implicazioni per il mercato del lavoro e per le politiche sociali che devono essere prese in considerazione» per garantire la piena consapevolezza degli individui.
IL PESO DELLE RIFORME
Ancora dal rapporto: «Lavorare più a lungo potrebbe aiutare a compensare parte delle riduzioni», continua, «ma ogni anno di contributi produce benefici inferiori rispetto al periodo precedente tali riforme», sebbene «la maggior parte dei Paesi abbia protetto dai tagli i redditi più bassi». Le riforme previdenziali nell’area hanno posticipato l’eta pensionabile, che «sarà di almeno 67 anni entro il 2050 nella maggior parte dei paesi Ocse». Il che è accaduto anche da noi. Con una spesa pubblica per pensioni di vecchiaia pari al 15,4% del reddito nazionale (rispetto ad una media Ocse del 7,8%), l’Italia aveva nel 2009 il sistema pensionistico più costoso, situazione radicalmente cambiata con la riforma adottata nel 2011. Peraltro, i lavoratori italiani lasciano il posto ad un’età relativamente bassa: 61,1 anni per gli uomini e 60,5 per le donne, contro una media Ocse di 64,2 e 63,1 anni.
Se i pensionati di domani saranno più poveri, ad oggi, invece, la ricchezza pensionistica in Italia è (al lordo) maggiore rispetto alla media Ocse: quanto viene ricevuto complessivamente negli anni della pensione, infatti, è pari a 11,9 volte il salario medio annuale per gli uomini, e a 13,7 volte per le donne, riflesso alla maggiore attesa di vita, contro medie Ocse di 9,3 e 10,6 volte. Ma, essendo questa una proporzione sui salari percepiti, che come abbiamo visto sono tra i più bassi esistenti, non significa affatto che in assoluto le pensioni italiane siano tra le più alte. Anzi.

l’Unità 27.11.13
Il Paese dei ricchi, quello dei poveri
Perché non si può chiedere un contributo a quel 10% di famiglie che ha 4mila miliardi?
di Nicola Cacace

I DATI OCSE SU SALARI E PENSIONI CONFERMANO UNA REALTÀ NOTA, QUELLA DELLE DUE ITALIE, L’ITALIA DEI RICCHI E QUELLA DEI POVERI, che nessuno degli ultimi governi, da Monti e anche Letta senza parlare di Berlusconi, ha quasi mai preso in considerazione. Se l’Ocse ci conferma che i nostri salari sono del 12% inferiori alla media Ocse, ma del 50% inferiori a quelli tedeschi, inglesi e francesi, mentre tutti sanno che i guadagni dei nostri top manager privati e pubblici sono i più alti di tutti, lo stesso Ocse ci dice che il mondo delle pensioni è diviso in due, pensioni più alte della media per gli attuali pensionati, che includono anche milioni di baby pensionati di ieri e «pensioni a rischio povertà per i precari di oggi». L’Italia oggi soffre da morire per la crisi perché è divisa in due, quella dei poveri e quella dei ricchi ed i governi lo ignorano.
I dati Ocse fanno il paio con il dato Bankitalia della ricchezza totale privata che da anni sono noti. Con poco meno di 9mila miliardi di euro, quasi il 6% del Pil, la ricchezza privata italiana batte un record relativo mondiale. Anche questi dati mostrano un’Italia profondamente divisa, un blocco fortunato formato dal 10% delle famiglie che possiede il 46% di tutta la ricchezza, quasi 2 milioni di euro a famiglia, un blocco mediano, che la crisi sta erodendo, formato dal 40% delle famiglie, che possiede il 10% della ricchezza, 500mila euro a famiglia ed il blocco dei poveri, vecchie e nuovi, formato dall’ultimo 50% delle famiglie, di poveri vecchi e nuovi che possiedono come patrimonio netto meno del 10% (9,8%, dati Bankitalia), 60mila euro a famiglia, di cui 30mila in immobili (molto meno di una casa in proprietà per famiglia) e 30mila in risparmi liquidi. In queste famiglie, se sparisce il reddito, si vive poco più un anno con i risparmi della vita, poi, chi ce l’ha, vende la casa, poi è la fine.
L’aumento della povertà dopo anni di crisi ha messo a terra almeno mezza Italia ed i governanti non possono continuare a non tenerne conto. Perché, di fronte ad un Paese diviso in due, l’Italia dei ricchi e quella dei poveri, di fronte ad un debito pubblico crescente che ha superato i 2mila miliardi ed il 30% del Pil, di fronte alla realtà di una norma, il Fiscal Compact che ci imporrà presto di ridurre il debito in modi convincenti -di almeno una ventina di miliardi l’anno come da Bruxelles il commissario Olli Rehn ci ricorda in ogni occasione-, di fronte ad una ricchezza privata non trascurabile, perché nessun governo azzarda qualche proposta in tal senso? Eppure, sino a poco fa proposte del genere, un contributo patrimoniale straordinario, erano state avanzate anche da autorevoli borghesi, dall’antesignano banchiere cattolico Pellegrino Capaldo a Luigi Abete, presidente Bnl, Pietro Modiano, presidente Nomisma, Carlo De Benedetti, Vito Gamberale, etc..
Perché, per iniziare a salvare il Paese, non si può chiedere un contributo a quel 10% di famiglie che posseggono 4mila miliardi di patrimonio netto? Monti aveva obiettato che non ci sono dati certi ma non è più vero, c’è il catasto per gli immobili e c’è la banca dati in mano alla Finanza per i beni mobili. Un contributo straordinario dello 0,5% del patrimonio del 10% delle famiglie più ricche, da 2 milioni in su, darebbe 20 miliardi di entrate e costerebbe una media di 8mila euro a ciascuna delle 2,4 milioni di famiglie più brave e fortunate d’Italia. Nessuno fallirebbe, la speranza di uscire dal buco nero della crisi sarebbe più concreta, i valori di solidarietà del popolo italiano sarebbero esaltati, alla luce dell’esempio di civismo che le classi dirigenti darebbero.

il Fatto 27.11.13
Ultime modifiche alla legge di Stabilità
Manovra confusa di Letta aspettando il dopo-Caimano
Arriva il maxi-emendamento governativo e il voto di fiducia
La nuova maggioranza costa a Letta 110 milioni di euro: Alfano ottiene soldi per i suoi
Per essere sicuro di passare, Letta trova 110 milioni per i senatori calabresi di Alfano decisivi a Palazzo Madama
di Marco Palombi

Applausi. Evviva. Entusiasmo sparso al vento nel pomeriggio della nuova Forza Italia. Persino Renato Brunetta, non proprio l’uomo più amato nell’ultima trincea del berlusconismo, strappa il sonoro plauso all’assemblea dei gruppi neo-azzurri: “Mettiamo a regime una patrimoniale e questo è dirimente e non ci permette di votare la legge di stabilità. Se dovessimo votarla come potremmo presentarci al nostro elettorato? ”. Battimani. Felicità. Poco importa che le stesse scene, qualche settimana fa, si erano concluse con la retromarcia nell’aula di palazzo Madama di Silvio Berlusconi, poco importa che la nuova Forza Italia nasca solo come ridotta lealista per reagire alla decadenza da senatore del capo. A volte il desiderio e le circostanze riescono a far percepire vere al mentitore le sue stesse menzogne: così è accaduto ai nuovi gruppi di Forza Italia, autoconvintisi che la manovra di Enrico Letta – se non migliore almeno simile a quelle approvate dai vari governi Berlusconi
– sia invotabile per questioni di credo economico. E così alle cinque del pomeriggio Renato Brunetta e Paolo Romani, ex ministri oggi capigruppo, si presentano ai giornalisti per dire: “Forza Italia esce dalla maggioranza. Le larghe intese sono finite”. La sorpresa per la notizia è pari a zero. Il reprobo Angelino Alfano festeggia con una dichiarazione: “Avevamo detto e ripetiamo che è sbagliato sabotare il governo e portare il paese al voto, per di più con questa legge elettorale, a seguito della decadenza di Berlusconi”. Gli ex amici lo accusano di tenere solo alla poltrona.
NEL FRATTEMPO il governo s’incartava nel tentativo di arrivare al voto in Senato sulla legge di stabilità entro la notte. Missione fallita, visto che il sì finale arriverà stamattina, dopo un Consiglio dei ministri convocato per approvare una Nota di aggiornamento ai conti pubblici. Prima ancora la stessa commissione Bilancio – pur di votare la manovra prima della decadenza di Berlusconi come chiedeva Alfano – aveva licenziato il testo per l’aula senza finire i suoi lavori: per comporre il ma-xi-emendamento su cui chiedere la fiducia, dunque, il governo ha dovuto fare un lavoraccio, passato per una lunga trattativa pomeridiana coi partiti di maggioranza con tanto di urla e minacce che arrivavano fino in corridoio. Il risultato, oltre a un ritardo di tre ore sul programma, comporta la presenza nella legge di cose tipo lo stanziamento da 110 milioni di euro per gli Lsu della Calabria: cinque senatori di quella regione sono, d’altronde, una componente fondamentale del gruppo in Senato degli scissionisti di Alfano. Non solo. Quando finalmente il maxi-emendamento arriva in aula è un’accozzaglia di incoerenze, con tanto di note a margine scritte a penna, cifre lasciate in bianco e con una relazione tecnica – fondamentale per permettere a tutti i parlamentari di capire cosa votano – lacunosa e senza tabelle, anche se miracolosamente dotata della necessaria bollinatura della Ragioneria generale dello Stato. Nella notte, al termine di una giornata di passione, si comincia a votare la fiducia: al momento di andare in stampa la procedura non è ancora conclusa, ma non dovrebbero esserci sorprese. La nuova maggioranza politica deberlusconizzata conta, infatti, su 167 voti al netto dei senatori a vita e di altri sostegni. Ora la guerra si sposta su un altro fronte: Forza Italia vuole un altro voto di fiducia, solo politico, per sancire la nuova maggioranza; Letta e Napolitano invece, dopo un incontro ieri sera al Colle, sostengono che basti quello sul ddl Stabilità.

il Fatto 27.11.13
Povertà e pensionati
Nasce il reddito minimo, ma è solo sperimentale
Assegni previdenziali bloccati e statali senza aumenti

ARRIVA IL FONDO per il contrasto alla povertà, che andrà a finanziare il reddito minimo garantito. Le risorse arriveranno dalle pensioni d’oro (a partire da 90.000 euro). Si tratta di poca cosa, però, e in larga misure è a carattere sperimentale. Pensionati e statali continuano però a pagare. La legge di Stabilità proroga, infatti, per i prossimi 3 anni il blocco dell’adeguamento all’inflazione: l’indicizzazione sarà completa solo fino circa 1.500 euro lordi al mese, al 90 per cento per la parte fino a duemila per scendere poi al 50 per cento e a zero a partire dai tremila euro lordi mensili. Quanto alle cosiddette pensioni d’oro c’è un contributo di solidarietà del 5 per cento tra i 90 e i 150 mila euro, del 10 fino a 200 mila e del 15 oltre questa soglia, ma vengono pure stanziati i soldi per risarcire gli stessi pensionati per lo stesso contributo voluto dal governo Monti e bocciato dalla Corte costituzionale. Viene prorogato al 2014, per il quinto anno consecutivo, anche il blocco dei contratti degli statali: secondo Istat la perdita di potere d’acquisto cumulata è pari al 9 per cento per 11,5 miliardi di risparmi totali.

il Fatto 27.11.13
Le nuove tasse
Tra imposte e balzelli vari c’è in vista una mazzata

NON MANCANO le nuove tasse nel ddl Stabilità: in generale, rimanendo ai dati macro, se si fa la sottrazione tra maggiori e minori entrate previste dalla manovra per il 2014 si scopre che il conto è a vantaggio delle prime per 1,1 miliardi. Tra queste c’è l’aumento dell’imposta di bollo sul dossier titoli – assai recessiva, perché colpisce tutti i risparmiatori a prescindere da guadagni o perdite – che dovrebbe portare un gettito di 940 milioni l’anno; poi la rivalutazione dei beni delle imprese ai valori di mercato che è messa a bilancio per ottocento milioni. Non mancano i balzelli sparsi, tipo l’imposta di bollo forfettaria da 16 euro per le comunicazioni online con la Pubblica amministrazione o la tassa da 50 euro che bisogna versare per potersi iscrivere al-l’esame di Stato per diventare avvocato, notaio o magistrato.

Corriere 27.11.13
Ventottomila euro in più a onorevole. Così le Regioni superano il Parlamento
Quanto sono costati i contributi ai gruppi, ecco le cifre record del 2012
di Sergio Rizzo

ROMA — Un fiume di denaro, per anni, ha alimentato i politici regionali. Tanti soldi, più di quanti se ne possano immaginare. Tanti da costringere a rifare persino i conti, correggendoli ovviamente al rialzo, del finanziamento pubblico dei partiti. Basta dire che nel 2012, l’anno dello scandalo di Batman & co. nella Regione Lazio, i contributi ai gruppi politici dei Consigli regionali hanno toccato la cifra astronomica di 95 milioni 655 mila euro. Più del finanziamento pubblico ai partiti francesi e spagnoli, più dei rimborsi elettorali che la legge di un anno fa ha fissato in 91 milioni, ancora più dei denari (molti, moltissimi) versati nelle casse dei gruppi parlamentari di Camera e Senato. E questo, naturalmente, oltre alle retribuzioni dei consiglieri, costate 228 milioni 609 mila euro. Somma perfino superiore a quella prevista nello stesso anno dai bilanci di Montecitorio e Palazzo Madama per le competenze di deputati e senatori: 225 milioni 852 mila. Per non parlare dei vitalizi agli ex consiglieri: 172,5 milioni contro i 191,9 pagati dalle Camere repubblicane, decisamente più anziane.
Ed è proprio da qui che bisogna partire, come ha fatto su lavoce.info Roberto Perotti in un’analisi sui bilanci dello scorso anno di tutti i Consigli regionali, per avere un’idea del grado di follia raggiunto dalla politica nelle Regioni. Dove il costo della politica ha raggiunto livelli inaccettabili, soprattutto in rapporto a compiti e responsabilità dei 1.117 consiglieri regionali: decisamente senza alcun confronto con l’impegno richiesto a deputati e senatori.
Anche grazie all’assenza di regole che ha consentito il proliferare dei gruppi consiliari di una sola persona (75 in tutta Italia), i contributi pubblici sono andati rapidamente in orbita. E l’assenza di controlli, introdotti soltanto nel 2012 per il clamore suscitato da vergognose vicende, ha permesso per anni che quei soldi venissero impiegati per finalità che con la politica hanno davvero poco a che fare, come stanno a dimostrare le innumerevoli inchieste giudiziarie che coinvolgono i Consigli regionali. Fatti che la dicono lunga sulla caratura di quella classe dirigente.
Nello scorso anno le Regioni hanno erogato contributi ai gruppi politici consiliari pari a 85.635 euro per ogni consigliere. Ovvero, 28 mila euro ciascuno in più, mediamente, rispetto a quanto versato dalla Camera ai gruppi parlamentari: 57.539 euro procapite. La differenza è abissale: +48 per cento. E questo in dispregio della situazione di profondissima crisi economica attraversata dal Paese.
Ad alzare la media, è vero, aveva dato una mano consistente la Regione Lazio, raggiungendo d’impeto nel 2012 la vetta della graduatoria nazionale dei contributi ai gruppi consiliari. Con una cifra, stando ai dati pubblicati nello studio di Perotti, di 13 milioni 414 mila euro: 188.929 procapite. Ovvero, più del triplo rispetto alla Camera. Ma al secondo posto figurava anche la più «virtuosa» Regione Lombardia. Nello scorso anno i gruppi politici del Consiglio regionale lombardo hanno avuto, si evince dalla tabella pubblicata da lavoce.info , contributi pubblici per 11 milioni 288 mila euro: 153.650 procapite. Cifra anche maggiore di quella della Regione siciliana, la cui assemblea regionale risultava la più spendacciona in assoluto. A Palermo i contributi ai gruppi politici toccavano 136.577 euro per ognuno dei 90 consiglieri.
Ci sono poi alcuni aspetti, messi in evidenza nello studio di Perotti, la cui enormità va ben al di là della dimensione pur sorprendente del costo. Perché al calcolo complessivo della spesa dei Consigli regionali nel 2012, pari secondo i conti di Perotti a 985 milioni, somma paragonabile al costo annuale di Montecitorio, sfuggono alcune voci. Sfuggono per forza, non comparendo nei bilanci dei Consigli. Reperirle, spiega Perotti, è stata un’autentica caccia al tesoro. Quando ci si è riusciti: in qualche circostanza la voce non si trovava nel bilancio del Consiglio, ma era affogata nelle migliaia di capitoli del bilancio della giunta. Il caso più clamoroso è quello della spesa per il personale del Consiglio regionale del Lazio, introvabile che nei documenti contabili. Eppure non è una somma irrilevante, considerando il numero: oltre 700 persone. Il quadruplo, in rapporto agli eletti, rispetto alla Camera e al Senato. La nota che Perotti ha messo in calce al suo studio fa letteralmente cadere le braccia: «Il Comitato regionale per il controllo contabile del Lazio, presieduto dalla consigliera 5 Stelle Valentina Corrado, da me contattato innumerevoli volte dall’ inizio di settembre fino a metà novembre, non è stato in grado di fornirmi i dati sulla spesa per il personale del Consiglio regionale, né alcuna informazione utile su come e dove ottenerli. Tentativi con altri uffici finora non hanno avuto successo. Semplicemente, la Regione Lazio non sa quanto spende per i dipendenti del Consiglio regionale, e soprattutto sembra non essersi mai posta il problema».

Repubblica 27.11.13
Solo 25 euro di detrazione media la Iuc potrà costare più dell’Imu
Conto salato per le famiglie se i Comuni scelgono l’aliquota più alta
di Valentina Conte

ROMA — La Iuc, la nuova Imposta unica comunale, sarà meno salata dell’Imu per le prime case solo se l’aliquota scelta dai sindaci rimarrà quella base all’1 per mille. Se dovesse salire - fino a un massimo del 2,5 per mille - addio ai risparmi in moltissimi casi. Anche perché le detrazioni che il governo ha reintrodotto purtroppo sono briciole rispetto al passato. Appena 25 euro medi a famiglia, per un totale di 500 milioni, calcolano Uil e Cgia. A meno che i Comuni vogliano concentrare gli aiuti su alcune categorie. Ma una cosa è certa: una larga parte dei cinque milioni di proprietari già esenti con l’Imu per effetto delle detrazioni non lo sarà più.
Due fatti, intanto. Anche le prime case pagheranno la Iuc. E poi non esiste, nel testo finale, alcuna quantificazione delle detrazioni. La nuova imposta ha tre gambe: Imu (solo sulle seconde abitazioni e le prime di lusso), Tasi per i servizi e Tari per i rifiuti. La Tasi (aliquota tra 1 e 2,5 per mille) è dovuta anche dalle prime abitazioni, affittuari compresi (verseranno tra il 10 e il 30%). Ma temperata dalle detrazioni. Il Fondo vincolato da 500 milioni, stanziato in extremis nella legge di Stabilità, sarà ripartito tra i Comuni, in proporzione al numero di prime case.
Il centro studi della Uil calcola in 27 milioni il tesoretto per Roma (al top delle città principali, con oltre un milione di prime case) e 12 milioni quello per Milano, adesempio. Come li distribuiranno i sindaci? Una soluzione piatta - 25 euro per tutti - esenterebbe solo 1,8 milioni di abitazioni italiane, tra popolari e ultrapopolari. Ma scelte selettive potrebbero premiare zone specifiche, classe catastali, famiglie in base al numero dei figli o in base al reddito Isee. Con tutti i paradossi del caso, visto che la coperta è corta. Aiutare le case di periferia, ma escluderequelle popolari diffuse in zone centrali, ad esempio. E così via. La Cgia raffronta invece la Tasi con l’Imu 2012 e le rispettive detrazioni: 25 euro nel primo caso, 200 euro nel secondo più 50 a figlio. Ebbene se l’abitazione è nella categoria A2 (di tipo civile), con un figlio la Tasi conviene quasi sempre. Ma all’aumentare dell’aliquota e della numerosità della prole, parte la nostalgia per l’Imu. Se la casa è un A3 (di tipo economico), la Tasi conviene ancora meno. Meglio l’Imu.
Le perplessità sulla Iuc, nonostante gli annunci rassicuranti, sfiorano anche il governo. Ieri Delrio invitava a «valutare bene». «Vediamo se ci sono margini per migliorarla e stiamo attenti a non consegnare ai sindaci uno strumento azzoppato», suggeriva il ministro. Delrio teme un buco da 1,3 miliardi nei bilanci comunali per via della riduzione al 10,6 per mille (dall’11,6) del tetto all’aliquota per le seconde case (totale tra Imu e Tasi). Buco certo non compensato dai 500 milioni in più, tra l’altro vincolati alle detrazioni. Né dagli altri 238 milioni trovati ieri per le imprese che potranno dedurre l’Imu sui capannoni (al 30% già sul 2013, al 20% dal prossimo anno). L’Anci, l’associazione dei Comuni, intanto teme di non riuscire a pagare le tredicesime. Il suo presidente, il sindaco di Torino Fassino, ha scritto a Letta chiedendo un incontro urgente. E facendo capire che la situazione è «al limite della rottura dei rapporti istituzionali». Il nodo è l’Imu 2013, cancellata per le prime case. I Comuni hanno alzato le aliquote e chiedono 500 milioni in più di rimborso allo Stato.

il Fatto 27.11.13
Patrimonio all’italiana
C’era una volta la Biblioteca
di Tomaso Montanari

È DAVVERO brillante l'idea – lanciata dal Sole 24 Ore e rilanciata dal presidente del Consiglio Enrico Letta – di spendere soldi pubblici per consacrare, ogni anno, una capitale italiana della cultura: sarebbe più o meno come proclamare a rotazione alcune località del Sahara ‘capitale del-l’acqua’. La cultura non ha bisogno di carrozzoni, cerimonie, parate, liturgie: ha solo bisogno di quelle indispensabili strutture pubbliche che una politica suicida ed eversivamente incostituzionale sta scientificamente distruggendo. L’agonia delle biblioteche pubbliche manifesta e annuncia l’agonia cerebrale del Paese, tradito dalla classe dirigente più ignorante dell’emisfero occidentale. La monumentale Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, per esempio, ha gli orari ridotti al lumicino, va sott’acqua a ogni temporale, non ha più soldi né personale. La gloriosa Biblioteca Universitaria di Pisa rischia di essere smembrata e finire in casse, condannata da un’ubicazione tanto pregiata da far gola ad avvoltoi tenaci quanto insospettabili. Ora un appello dell’Associazione Amici della BUP e dell’Associazione lettori della BNCF denuncia che “Gli archivi e le biblioteche statali italiane, custodi di un enorme patrimonio di libri e documenti, rischiano la chiusura nel giro di pochi anni per mancanza di risorse e di personale (l’ultimo concorso è stato bandito nel 1978) ”. E ricorda che le biblioteche servono alla conoscenza, alla ricerca, alla civiltà.
Ovvio? Per nulla, a giudicare dal sito www.miragu.com , che offre la Sala di distribuzione della Nazionale di Firenze come “location perfetta per meeting aziendali, lanci di prodotti, cene, ricevimenti”, precisando – surrealmente – che si tratta di “uno dei rari esempi di edilizia bibliotecaria, e che fa parte dell’area monumentale del complesso di Santa Croce”.
Letta potrebbe organizzare proprio lì il lancio del prodotto ‘capitale della cultura’: così forse qualche soldo arriverebbe davvero alla biblioteca. Pardon, alla location perfetta.

il Fatto 27.11.13
Volano i fustini, sono le primarie Pd
A Renzi che intimava a Letta “O così o Finish” replica cuperlo “Se non fa come dico io Dash”
di Luca De Carolis

Fustino contro fustino. Il Finish che rottama contro il Dash che difende le intese. Suona come una guerra di spot tra detersivi (molto anni ‘80) e invece è la puntata di ieri delle primarie del Pd. Al Renzi che lunedì da Prato dettava le condizioni a Letta (“O il governo fa quel che diciamo noi o finish”) ha risposto ieri via Twitter Gianni Cuperlo: “Se vinco io, o EnricoLetta fa quel che dico io o Dash”. Uno a zero per il dalemiano. Renzi sta al gioco, sempre con tweet: “Certo che questi candidati che fanno battute eh” con faccina per il sorriso e tag per Letta. Annessa, la spiegazione: “Ho detto finish solo dopo che una signora mi ha chiesto per quattro volte cosa avrei fatto se il governo non avesse realizzato il mio programma”. Da buon terzo incomodo, cinguetta pure Giuseppe Civati: “Senza detersivi, nè diversivi, si voti a marzo”. Sulfureo il lettiano Francesco Sanna: “C’è un tempo per Dash, uno per Finish, poi arriva e vince Coccolino”. Intanto nella diretta su Twitter Renzi semina buoni propositi. Promette che da segretario Pd non prenderà indennità (“ho lo stipendio da sindaco, 4300 euro”) e rivendica di essere di sinistra “molto più di tanti che fingono di esserlo”. Dà la sua quota di sicurezza per le primarie: “Se l’8 dicembre un paio di milioni di persone dicono che vogliono cambiare verso, può cambiare davvero l’Italia”. Giura di non voler stravincere: “Basta il 50 per cento più uno dei voti”. Quindi, attacco a Grillo: “Può fare una volta l’anno il Vaffa Day e mettersi l’elmetto della guerra contro i partiti. Quel giorno insulta noi, ma gli altri 364 offende gli elettori, a cui non dà risposte”. Cita Berlusconi: “Occhio, ha iniziato la campagna elettorale”. In serata, dal suo staff trapela: Renzi chiederà a Letta un patto di un anno , fino al 2015. Niente passaggi alle Camere o rimpasti, ma “la definizione di un nuovo programma”. Primo punto, la nuova legge elettorale. Mentre circolano indiscrezioni, il sindaco è al teatro Argentina a Roma, alla presentazione del libro di Aldo Cazzullo Basta Piangere. È torvo verso Maurizio Crozza: “Le sue imitazioni mi dipingono come il nulla assoluto”. Ma, paradosso, se la prende con “i leader della sinistra, convinti che sorridere sia un modo di essere vuoto”. Butta lì un “mi consenta” alla Berlusconi. Precisa: “Sono un giovane per finta, solo in un rappresentazione stanca vengo descritto come forever young”. Cita Calvino e Kraus, sulla falsariga del libro incita: “L’Italia ce la fa se smette di piangere”.

Corriere 27.11.13
Berlusconi lascia la maggioranza
La contromossa del governo: ritoccare la Carta
di Francesco Verderami

La fine delle larghe intese è l’inizio di un conflitto istituzionale che contrappone Berlusconi a Napolitano, è uno scontro destinato a radicalizzarsi, è una sfida che si gioca sul terreno delle procedure parlamentari ma che origina dalla battaglia sulla decadenza del Cavaliere.
Ritoccare la Costituzione al più presto La contromossa del (nuovo) governo L’obiettivo: poche riforme ma veloci per aggirare i possibili veti SEGUE DALLA PRIMA Perché è vero che Forza Italia ha deciso ieri di lasciare la maggioranza per dissenso sulla legge di Stabilità, e che in virtù di un mutamento sostanziale del quadro politico ha chiesto al premier di salire al Quirinale per essere poi — eventualmente — rinviato alle Camere per ottenere una nuova fiducia. Ma è altrettanto vero che la scelta è avvenuta alla vigilia del giorno del giudizio per Berlusconi, e che la manovra mira al blocco dell’attività parlamentare, quindi anche allo slittamento del voto sull’estromissione del Cavaliere dal Senato.
La scelta dell’esecutivo di porre la fiducia sulla legge di bilancio e di blindare in un solo colpo i conti dello Stato e la nuova maggioranza è stata però condivisa e assecondata dal capo dello Stato, provocando così la reazione degli azzurri, che accusano il Quirinale di «vulnus» alle regole del gioco. Ecco il preludio del conflitto che potrebbe segnare in modo drammatico l’epilogo della Seconda Repubblica. È la prova che Berlusconi non intende arrendersi, che punta alla delegittimazione del Colle e scommette sulla debolezza del quadro politico, magari con l’«aiuto» di Renzi per una crisi a breve termine.
È il rischio del «caos» a cui ha fatto riferimento ieri Letta, che sotto il patronato di Napolitano identifica il suo governo come l’alveo dentro cui arginare le convulsioni del sistema. Ma per evitare che il sistema imploda, l’esecutivo ha una sola strada: avviare subito la revisione della Carta. Il punto è che la fine delle larghe intese si porta appresso la fine del percorso riformatore previsto con la nascita del Comitato dei saggi: senza Forza Italia non ci sono più i due terzi dei voti parlamentari necessari per evitare un referendum, che vecchi e nuovi avversari del governo potrebbero utilizzare per far saltare il banco. Per incanto si unirebbero le estreme, da Berlusconi a Grillo, dalla Fiom ai custodi dell’ortodossia costituzionale: Colle e Palazzo Chigi verrebbero stritolati.
È un azzardo che lo stesso Renzi ha suggerito a Letta di evitare, e che incrocia il parere favorevole di Alfano. È preferibile piuttosto procedere con il tradizionale meccanismo dell’articolo 138, al quale sta già lavorando il ministro delle Riforme Quagliariello, che si appresta a presentare il primo pezzo della riforma, che è il passo d’avvio e forse anche di arrivo. Con la trasformazione del Senato nella Camera delle Autonomie si otterrebbe un triplice risultato: il superamento del bicameralismo perfetto e insieme la riduzione del numero dei parlamentari e dei costi della politica, visto che i 315 senatori sarebbero sostituiti (senza emolumenti) dai rappresentanti delle realtà locali.
Così si potrebbe anche evitare un «taglio» alla Camera degli attuali 630 deputati, sarebbe più semplice varare una legge elettorale e il cerchio si chiuderebbe. Tutto fatto? Niente affatto. Certo, Forza Italia e Cinquestelle faticherebbero a ostacolare un simile progetto di riforma, ma c’è da convincere i senatori ad abbandonare Palazzo Madama, impresa finora mai riuscita. Una cosa però è sicura: questo pacchetto viene sponsorizzato da Renzi, che non è ancora formalmente diventato il «player» della maggioranza ma di fatto adopera già la sua golden share sull’esecutivo.
Il futuro segretario del Pd si dispone al tavolo da gioco con due carte: potrebbe attendere che una maggioranza fragile al Senato si sfilacci, aprendo la strada alle elezioni, o — come sostiene di voler fare — mostra di dar credito a Letta, di appoggiare il percorso delle riforme che sposterebbe l’orizzonte del voto almeno al 2015. Che sia tattica o strategia, poco importa: Renzi vuole dettare l’agenda al governo, consapevole — nel caso — di poter ottenere le urne senza nemmeno lasciarci le impronte, visti i desideri di rivalsa che covano nell’area montiana...
Da ieri è cambiato tutto, e la sfida per Alfano inizia in salita: con Renzi che vuol contare e con Forza Italia che tenterà di schiacciarlo a sinistra, dovrà evitare di farsi «cespuglizzare». Tuttavia il vicepremier sa di avere una chance nel medio termine, se riuscirà a condividere con gli alleati di governo i primi refoli della ripresa economica — tutta da consolidare — e se riuscirà a intestarsi le riforme, dove peraltro potrebbe ricevere di qui a breve un prezioso contributo dalla Lega di Maroni, interessata al progetto di revisione della Carta. Sarebbe il primo passo verso un nuovo assetto del futuro rassemblement di centrodestra. Ma si fatica a scrutare l’orizzonte. Da ieri le nubi del conflitto istituzionale minacciano tempesta.

Corriere 27.11.13
Ipotesi di revisione e ricorso alla Consulta
Sulle parole di Boccia mezza rivolta nel Pd
di R. R.

ROMA — Sono bastate poche frasi ieri a Francesco Boccia, deputato del Pd di «osservanza» lettiana, per ritrovarsi isolato nel suo partito e difeso soltanto da Forza Italia.
Perché a Radio24 ha dichiarato che, se le carte americane annunciate lunedì da Berlusconi trovassero riscontro, allora si «aspetterebbe una revisione del processo come per qualsiasi altro cittadino». E poi: «In un Paese normale si sarebbe aspettata la delibera della Corte sull’interpretazione della legge Severino». Quasi un’adesione alla linea pro rinvio di Pier Ferdinando Casini, o una sorta di ciambella di salvataggio lanciata a Berlusconi proprio alla vigilia del voto del Senato sulla decadenza.
Quattro senatrici pd hanno preso immediatamente le distanze: «In un Paese normale un giovane parlamentare come Boccia si sarebbe limitato a parlare di cose che conosce, senza avventurarsi in campi in cui naviga a vista», hanno detto Donatella Albano, Doris Lo Moro, Laura Puppato e Lucrezia Ricchiuti, segnando così un drastico distinguo tra il partito e il collega. E poco dopo il senatore Stefano Esposito ha insistito: «Caro Boccia, le tue dichiarazioni sono un insulto al lavoro dei tuoi colleghi di Palazzo Madama». Boccia ha tentato di chiarire, di minimizzare: «Non ho fatto alcuna valutazione sui documenti presentati da Berlusconi. Ho risposto a una precisa domanda dicendo che se si scoprono nuovi testimoni e nuovi fatti che lo scagionerebbero, allora potrebbe chiedere la revisione del processo. Come ogni cittadino. È così eretico questo banale pensiero?»
Eretico o no, non è stato digeribile né per il Pd, né per il cosiddetto Popolo viola, che oggi manifesterà davanti al Senato in attesa del voto sulla decadenza: «Stia attento Boccia a tirare troppo la corda. Non tollereremo che, anche dentro il Pd, ci sia qualcuno che spalleggi i tentativi di Berlusconi di farla franca», ha affermato infatti Gianfranco Mascia. Tutto mentre il berlusconiano Sandro Bondi diramava attestati di solidarietà nei confronti di Boccia: «Le aggressioni verbali fino alle intimidazioni da parte di esponenti del suo partito, analogamente a quanto era già avvenuto contro Luciano Violante, fanno paura».
Così, alla fine di un pomeriggio di fuoco, Boccia interviene di nuovo per chiudere il caso: «Se fossi in Senato farei ciò che hanno fatto i miei colleghi. Il Pd è sempre compatto». E voterebbe per la decadenza: «Sì, in linea con il partito».

Repubblica 27.11.13
L’amaca
di Michele Serra

Sono volati ceffoni e spintoni alla Regione Piemonte (ieri) e in Campidoglio (ieri l’altro). Zuffe istituzionali. Uomini sull’orlo di una crisi di nervi che si afferrano per la cravatta. Ecco una possibile risposta a chi si domanda come mai, con una situazione economica e sociale così drammatica, la gente non si scanna per le strade. La gente non si scanna per le strade perché, in sua vece, si scannano i consiglieri comunali e regionali, e presto, forse, deputati e senatori. Il principio di rappresentanza, una volta tanto, ne esce confermato.
Un’ipotesi di massima (che metterebbe d’accordo, una volta tanto, quelli che odiano la politica e quelli che la ritengono indispensabile) sarebbe incaricare dello scontro estremo e simbolico — tipo Orazi e Curiazi — gli eletti dal popolo. Che si guadagnerebbero eccome il pane, e anche il companatico, immolandosi per le rispettive cause, incarnando pubblicamente il conflitto sociale, lo scontro ideale, l’odio politico. Ulteriore vantaggio è che i giovani, più vigorosi e prestanti, avrebbero certamente la meglio garantendo, ben più drasticamente di Renzi, il ricambio della classe dirigente.

Repubblica 27.11.13
Bergoglio. Donne e aborto
«C’è ancora bisogno di allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa. Il genio femminile è necessario in tutte le espressioni della vita sociale». Ma sull’aborto «non ci si deve attendere che la Chiesa cambi la sua posizione». E per Bergoglio «non è progressista pretendere di risolvere i problemi eliminando una vita umana». Il “no” all’aborto, spiega, «è legato alla difesa della vita nascente e di qualsiasi diritto umano».

Repubblica 27.11.13
Il vento della Curia
di Hans Küng

LA RIFORMA della chiesa procede: nell’esortazione apostolica “Evangelii Gaudium” Papa Francesco ribadisce non solo la sua critica al capitalismo e al dominio del denaro, ma si dichiara anche inequivocabilmente favorevole ad una riforma ecclesiastica «a tutti i livelli» . Si batte concretamente per riforme strutturali come la decentralizzazione verso diocesi e parrocchie, una riforma del ministero di Pietro, la rivalutazione dei laici e contro la degenerazione del clericalismo, per una efficace presenza femminile nella chiesa, soprattutto negli organi decisionali. Si dichiara altrettanto espressamente favorevole all’ecumenismo e al dialogo interreligioso, soprattutto con l’ebraismo e l’Islam.
Tutto questo troverà ampio consenso ben oltre l’ambito della chiesa cattolica. Il rifiuto indiscriminato dell’aborto e del sacerdozio femminile dovrebbero
suscitare critiche.
Mostrano i limiti dogmatici di questo Papa. O forse Francesco subisce le pressioni della congregazione della dottrina della fede e del suo prefetto, l’arcivescovo Gerhard Ludwig Müller?
Quest’ultimo ha manifestato la propria posizione ultraconservatrice in un lungo intervento sull’Osservatore Romano (23 Ottobre 2013), in cui ribadisce l’esclusione dai sacramenti dei divorziati risposati. Dato il carattere sessuale della loro relazione vivono presumibilmente nel peccato, a meno che non convivano «come fratello e sorella» (!) Da vescovo di Ratisbona, Müller, fonte di numerosi conflitti con parroci, teologi, organi laici e il comitato centrale dei cattolici tedeschi per le sue posizioni ultraclericali, era discusso e malvisto. Il fatto che nonostante ciò fosse stato nominato da papa Ratzinger, in qualità di fedele sostenitore nonché curatore della sua opera omnia, prefetto della congregazione per la dottrina della fede, non stupì quanto sorprende ora che sia stato da subito confermato in questo incarico da papa Francesco.
E già gli osservatori, preoccupati, si chiedono se il Papa emerito Ratzinger per il tramite dell’arcivescovo Müller e di Georg Gänswein, il suo segretario, anch’egli nominato arcivescovo e prefetto della casa pontificia, effettivamente non agisca come una sorta di «Papa-ombra». Agli occhi di molti la situazione appare contraddittoria: da una parte la riforma della chiesa e dall’altra l’atteggiamento nei confronti dei divorziati risposati.
Il Papa vorrebbe andare avanti— il “prefetto della fede” frena.
Il Papa ha in mente l’umanità concreta — il prefetto soprattutto la dottrina tradizionale cattolica. Il papa vorrebbe praticare la carità — il prefetto si appella alla santità e alla giustizia divina.
Il Papa vorrebbe che i sinodi episcopali nell’ottobre 2014 trovassero soluzioni pratiche ai problemi della famiglia anche sulla base delle consultazioni dei laici — il prefetto si basa su tesi dogmatiche tradizionali per poter mantenere lo status quo, privo di carità.
Il Papa vuole che i sinodi episcopali intraprendano nuovi tentativi di riforma — il prefetto, già docente di teologia dogmatica, pensa di poterli bloccare in partenza con la sua presa di posizione. C’è da chiedersi se il Papa controlli ancora questa sua sentinella della fede.
Va detto che Gesù stesso si è espresso senza mezzi termini contro il divorzio. «Ciò che Dio ha unito l’uomo non separi» (Mt 10,9). Ma lo faceva soprattutto a vantaggio della donna, che nella società del tempo era penalizzata a livello giuridico e sociale e contro l’uomo, che nel mondo ebraico era l’unico a poter avanzare richiesta di divorzio. Così la chiesa cattolica, in qualità di successore di Gesù, pur in una situazione sociale completamente mutata, ribadisce con forza l’indissolubilità del matrimonio che garantisce ai coniugi e ai loro figli rapporti stabili e duraturi.
I cristiani neotestamentari non considerano la parola di Gesù riguardo al divorzio una legge, bensì una direttiva etica. Il fallimento dell’unione matrimoniale chiaramente non corrisponde al disegno della creazione. Ma solo la rigidità dogmatica non può ammettere che la parola di Gesù sul divorzio già in epoca apostolica fosse usata con una certa flessibilità, e cioè in caso di «lussuria» (cfr. Mt 5,32; 19,9) e nel caso di separazione tra un partner cristiano e uno non cristiano (cfr. Cor. 7,12-15). È evidente che già nella chiesa primitiva ci si rendeva conto che esistono situazioni in cui proseguire la convivenza diventa irragionevole.
E la credibilità di papa Francesco verrebbe immensamente danneggiata se i reazionari del Vaticano gli impedissero di tradurre presto in azioni le sue parole e i suoi gesti pervasi di carità e di senso pastorale. L’enorme capitale di fiducia che il Papa ha accumulato nei primi mesi del suo pontificato non deve essere sperperato dalla Curia. Innumerevoli cattolici sperano che il Papa esamini la discutibile posizione teologica e pastorale di Müller; che vincoli la commissione per la difesa della fede alla sua linea teologica pastorale; che le lodevoli consultazioni dei vescovi e dei laici in vista dei prossimi sinodi sulla famiglia conducano a decisioni dotate di fondamento biblico e vicine alla realtà.
Papa Francesco dispone delle necessarie qualità per guidare da capitano la nave della chiesa attraverso le tempeste di questi tempi; la fiducia dei fedeli gli sarà di sostegno. Avrà contro il vento della curia e spesso dovrà procedere a zig zag, ma la speranza è che affidandosi alla bussola del vangelo (non a quella del diritto canonico) possa mantenere la rotta in direzione del rinnovamento, dell’ecumenismo e dell’apertura al mondo. “Evangelii Gaudium” è una tappa importante in questo senso, ma non è certo il punto di arrivo.
(Traduzione di Emilia Benghi)

Repubblica 27.11.13
Dalla Nuvola di Roma alle Torri di Milano così si arenano i cantieri degli archistar
Ritardi epolemiche: all’opera di Fuksas nella capitale mancano 170 milioni
di Francesco Erbani

ROMA — Un cantiere infinito. Un groviglio inestricabile. La Nuvola di Massimiliano Fuksas avrebbe dovuto aleggiare nel firmamento dell’architettura contemporanea. E invece è rimasta lì, scheletro metallico nel cuore del quartiere romano dell’Eur, in attesa di conoscere il proprio destino. Che cosa si aspetta perché questo destino si compia? Ancora tanti soldi (170 milioni), ancora tanto tempo (almeno due anni).
Ma come si è arrivati a questo punto? È il consueto, tragico rovello delle Grandi Opere d’architettura? In parte sì. E perché le Grandi Opere sono in affanno? Molti sostengono che queste vicende sono anche l’effetto del considerare l’architettura come una soluzione a sé, bella quanto si vuole, ma che prescinde dall’urbanistica, cioè dalla sua relazione con la città. Una relazione che si tenta in ogni modo di forzare.
Vengono allora in mente lo stadio del nuoto progettato da Santiago Calatrava, a Roma: cominciato e rimasto tristemente incompiuto. Oppure il nuovo Palazzo del cinema al Lido di Venezia disegnato da Rudy Ricciotti e ingoiato, insieme alle logiche da Protezione civile che l’hanno sorretto, nel colossale buco che ancora troneggia davanti al vecchio Palazzo del cinema. E che ne sarà dei tre grattacieli di City Life a Milano, firmati da Zaha Hadid, Arata Isozaki e Daniel Libeskind? Oppure del contestatissimo Crescent che Ricardo Bofill sta realizzando a Salerno e il cui cantiere è stato appena sequestrato? Un altro caso è a poche decine di metri dalla Nuvola e la sua storia è strettamente intrecciata all’opera di Fuksas: il progetto, ora abbandonato, che Renzo Piano aveva realizzato per sostituire le due Torri di Cesare Ligini, che — altri scheletri — svettano davanti al laghetto dell’Eur.
La storia della Nuvola è emblematica di una relazione poco felice con il contesto. Comincia nel 2000, quando Fuksas vince un concorso per il nuovo Centro congressi della capitale. Disegna una teca d’acciaio e vetro alta 40 metri che racchiude, sospesa, una struttura in fibra di vetro e silicone. Totale: 27mila metri cubi. Architettura ardita, coperta di lodi e di polemiche. Il costo iniziale è di 130 milioni. Ma si arriva al doppio: l’appalto è fissato a 273 milioni. Come finanziare la spesa? Eur Spa, il committente dell’opera (per il 90 per cento di proprietà del ministero dell’Economia, per il 10 del Comune di Roma), si indebita con le banche e spera di ottenere quattrini da alcune operazioni immobiliari, spremendo soldi con spericolate scorribande che si abbattono sui suoli dell’Eur, i suoli pubblici che Eur Spa amministra come un privato.
Accanto alla Nuvola viene costruito un altro edificio, una specie di paravento di vetro nero. Lo chiamano la Lama. Nelle intenzioni dovrebbe essere un albergo di lusso. Lo si vorrebbe vendere, ma nessuno si fa avanti. Si pensa di darlo in gestione, ma neanche quest’operazione va in porto. Una buona architettura può fare a meno della buona urbanistica? Chi si affaccia da una finestra della Lama capisce che non si può. A poche decine di metri svettano proprio gli scheletri delle Torri di Ligini: scorticate, ma mai demolite perché l’intera operazione non aveva più convenienza (fra coloro che vi si erano impegnati Salvatore Ligresti, i fratelli Toti e Alfio Marchini). Come si può vendere un albergo cinque stelle difronte a un pezzo di Beirut?
Altra vicenda urbanistica: Eur Spa spera di far cassa valorizzando l’area in cui c’era il Velodromo, gioiello dell’architettura di fine anni Cinquanta, anch’esso di Cesare Ligini, anch’esso distrutto, ma stavolta definitivamente. Dove un tempo sfrecciavano i ciclisti, si vorrebbero tirar su palazzi. Ma l’iniziativa (che qualcuno chiama semplicemente speculazione edilizia) non va in porto, anche perché ora il Campidoglio la vuole fortemente ridimensionare. Dall’altro lato lievitano i costi della Nuvola: nei piani interrati si realizzano altre sale e sono necessari nuovi parcheggi. Le modifiche al progetto hanno ritardato i lavori e hanno prodotto altri oneri.
Ora la partita della Nuvola si gioca sui tavoli di una complessa trattativa. Che cercherà di evitare alla teca di Fuksas il triste destino di gigantesca incompiuta.

Corriere 27.11.13
Laicità in Francia, una festa fraintesa
Nostra Signora Laicità. La tentazione (fraintesa) dei cugini d’Oltralpe
Il 9 dicembre la Francia celebra la Festa della Laicità istituita nel 2011:
il giorno è stato scelto in omaggio alla Legge del 9 dicembre 1905 sulla separazione tra Chiesa e Stato
di Emanuele Trevi

Negli ultimi mesi il calendario  delle festività  è stato oggetto di dibattito.
A settembre l’antropologa Dounia Bouzar, esponente dell’Osservatorio francese per
la laicità, lo ha definito «troppo cristiano» e ne ha proposto la modifica
La studiosa vuole sostituire alcune festività cristiane con feste celebrate dai fedeli di altre religioni.
Il presidente dell’Osservatorio,  il socialista Jean-Louis Bianco,  ha chiarito che la modifica del calendario «non è una priorità»

La Festa della Laicità che si celebra in Francia il 9 dicembre, come tante idee nobili e degne di rispetto, rischia di attirarsi qualche sonora pernacchia. La stessa idea di una festa, infatti, evoca in qualche maniera la personificazione di una virtù astratta, e dunque la creazione di una nuova divinità. Un vero laico non può che storcere il naso. A sostituire una religione con un’altra si rischia solo di far rimpiangere amaramente quella che è stata spodestata.
Come tante idee nobili e degne di rispetto, anche la Festa della Laicità che si celebra in Francia il 9 dicembre rischia di attirarsi qualche sonora pernacchia. La stessa idea di una festa, infatti, evoca in qualche maniera la personificazione di una virtù astratta, e dunque la creazione di una nuova divinità. Un malinteso ricorrente nella storia francese: fin dai banchi di scuola abbiamo imparato a sorridere del culto della Ragione che i giacobini intendevano sostituire alla vecchia fede, nemica del progresso e complice della tirannia. Un vero laico non può che storcere il naso. A sostituire una religione con un’altra si rischia solo di far rimpiangere amaramente quella che è stata spodestata. Mille volte meglio le vecchie, care monache di un nuovo ordine di sacerdotesse del materialismo, del disincanto, della geometria! E allora, bisognerà cercare di spiegare bene in cosa consiste, ridotta all’essenziale, la questione della laicità, e perché si tratta di una cosa talmente importante che agli occhi di molti, non solo francesi, la stessa qualità della nostra vita ne viene coinvolta. Purtroppo, si tratta di un tema che riguarda solo quella parte dell’umanità che gode di forme, più o meno raffinate, di democrazia. Un governo tirannico può essere indifferentemente laico o teocratico, e questo è l’ultimo dei problemi per coloro che ne sono oppressi. Nelle democrazie, invece, le forme della convivenza sono stabilite da leggi, per le quali è necessario che si impegnino rappresentanti del popolo liberamente eletti. Ma questo potere è così fragile e complesso che non può fondarsi su nient’altro che se stesso e rispondere a nient’altro che alle sue regole. Detta in soldoni, possono partecipare alle decisioni solo coloro che hanno ricevuto un mandato ufficiale, presentandosi alle elezioni. Non devono esistere suggeritori esterni, di nessun genere, perché il potere che si fonda sull’invisibile, tenendo un piede in un Parlamento e un altro chissà dove, è sempre una specie di tirannia. La laicità, dunque, non è un’opzione della democrazia come per esempio la scelta fra un sistema elettorale maggioritario o proporzionale. Della democrazia, è una condizione essenziale e irrinunciabile. Da questo punto di vista, tutti farebbero bene, qui in Italia, a trattenere per un po’ le pernacchie e tentare di capire perché in Francia si prendano tanto a cuore la vicenda. È parere di molti (ed anche il mio) che il nostro sia un Paese terribilmente arretrato da questo punto di vista. Concezioni metafisiche del tutto opinabili intervengono a ledere diritti fondamentali che riguardano il rapporto dell’individuo con tutti i nodi che prima o poi vengono al pettine: la sofferenza fisica e psicologica, il destino dei propri cari, la necessità di far fronte alla morte nella maniera più indolore possibile. Noi devoti della laicità a questo punto facciamo il solito errore, che è quello di prendercela con il Vaticano. Ma i preti fanno solo il loro mestiere. Sarebbe molto difficile convincerli a presentarsi alle elezioni, invece di lavorare dietro le quinte. Non farebbero nessun danno se non ci fossero sempre stati quei politici così ignoranti da non capire che i poteri ufficiali non possono convivere con quelli non ufficiali. Che lo facciano per convinzione, o per la più bieca ricerca di consensi elettorali, non cambia l’entità del danno che arrecano a tutti, laici e credenti. Ogni minima deroga alla laicità implica uno spostamento del baricentro della democrazia, e il transito dei processi di decisione all’interno di zone oscure che li stravolgono e ne minano la legittimità. Un regime apertamente teocratico, come quello degli ayatollah, appare addirittura preferibile a questa sordida confusione di prerogative (l’eterno miscuglio italiano di martedì grasso e mercoledì delle ceneri, come direbbe il Manzoni). La stessa idea di un politico cattolico, o di un politico buddhista, o shintoista, mi sembra tremendamente nociva all’idea stessa di una vita democratica. E se a qualcuno venisse in mente di rappresentare la Laicità, in una statua o in un francobollo, avrei un suggerimento iconografico. Come la Giustizia porta in mano la bilancia, alla sua nuova collega si addicono due bei tappi per le orecchie.

Corriere 27.11.13
Marjane Satrapi: «L’accordo con l’Iran riaccende le speranze di libertà»
La gioia della scrittrice in esilio: nessuna guerra è mai servita
di Elisabetta Rosaspina

Di solito le pesa parlare dell’Iran. Il Paese dove è nata e dove non può tornare da oltre 14 anni. Di solito rifugge dal cliché dell’esiliata nostalgica o rabbiosa, da domande e giudizi, preferibilmente critici, sul governo di Teheran, sulla bomba atomica, sugli ayatollah, sulle donne velate e sulla politica dei divieti. Stavolta no. Stavolta Marjane Satrapi non si sottrae. Per i suoi 44 anni, festeggiati venerdì scorso, i «Cinque più uno» le hanno inconsapevolmente fatto, da Ginevra, un regalo tanto atteso quanto insperato, almeno fino alle recenti elezioni presidenziali, che hanno chiuso l’era intransigente di Ahmadinejad: «Sono davvero molto contenta. Perché questi negoziati hanno aperto finalmente la strada a una soluzione diplomatica. La Storia dimostra che nessuna guerra ha mai migliorato la situazione di un Paese. Non è accaduto in Afghanistan, né in Iraq, né altrove. Non accadrebbe certamente neppure in Iran», osserva l’autrice di Persepolis , Il Pollo alle prugne e Taglia e cuci , la serie di libri a fumetti che l’hanno resa famosa e che — meglio di qualunque saggio — hanno saputo spiegare al mondo la vita quotidiana in Iran, vista dagli iraniani.
È contenta, e oggi ha finalmente voglia di parlarne: «Perché questo accordo rafforza la classe media iraniana che, a causa dell’embargo economico, stava per scomparire. E, nelle società contemporanee, è la classe media la garante della democrazia e, quindi, della libertà» riflette, da Parigi dove risiede, la scrittrice.
Perché soltanto la classe media? «I ricchi non vogliono i cambiamenti, vogliono soprattutto che tutto rimanga com’è. E i poveri hanno altre priorità, altre urgenze da risolvere, prima di preoccuparsi della democrazia. Le sanzioni economiche contro l’Iran stavano distruggendo il ceto medio, la fascia più attenta ai problemi della giustizia sociale e della libertà. Sparita questa, tutto diventerebbe molto più difficile».
In Italia, poche settimane fa, per ricevere il premio della Fondazione Masi, Marjane Satrapi aveva contestato le sentenze emesse contro intere nazioni: «Nessun popolo nasce per essere terrorista. Tutti gli esseri umani desiderano le stesse cose: vivere in pace, portare a spasso o al cinema i propri figli, divertirsi. Se non si comprende questo concetto, non si va da nessuna parte».
Da qualche anno rivendica questo diritto anche per se stessa: divertirsi, cambiare genere, sperimentare. Ci prova con i suoi strumenti e la sua immaginazione, dalla matita alla cinepresa, dalle storie iraniane alle commedie o ai thriller. «Sono affascinata da tutto ciò che è nuovo — dice — amo gli effetti speciali. E amo il cinema. Mica perché sono iraniana devo parlare solamente del velo o delle armi nucleari, no? Forse che gli italiani parlano soltanto di Berlusconi? Sono un essere umano anch’io, m’interessa l’amore. Faccio quello che mi dice il cuore». Ed è stata la saggezza cardiaca a suggerire a Marjane Satrapi di dirigere il suo primo film non d’animazione, Le voci . Quando le è arrivata la sceneggiatura di Michael R. Perry, la storia surreale di uno schizofrenico, operaio in una fabbrica di vasche da bagno, che ascolta i consigli di un cane e di un gatto parlanti, non ha esitato: «Non potevo credere che, per dirigerlo, i produttori volessero proprio me. Con tanti grandi registi che ci sono in giro».
La vita è piena di sorprese, per Marjane: anche quella di essere censurata, dopo l’Iran, negli Stati Uniti. «Mesi fa mi è arrivata l’email di un gruppo di studenti di un liceo di Chicago — racconta —. Mi dicevano che volevano leggere Persepolis , ma che la scuola intendeva proibirlo. Pensavo fosse uno scherzo. Essere tra gli autori proibiti, è emozionante, soprattutto se a metterti al bando è la più grande democrazia del mondo». Nella capitale dell’Illinois, un’insegnante aveva giudicato troppo violente le immagini delle torture subite in carcere dagli oppositori dello Scià: «Impressionanti i miei disegni? E allora nei videogiochi che circolano fra i quattordicenni c’è meno violenza? Mi piaceva l’idea che gli studenti manifestassero per avere il diritto di leggermi, ma non so come sia finita e non mi sono intromessa. La stupidità non merita risposta».
Tanto più che il proibizionismo giova alle vendite: «Al festival letterario di Dubai, veniva gente dal Kuwait a comprare Persepolis . In Iran ogni libro vietato viene letto dieci volte di più. Da adolescente andavo, come tanti altri, al mercato nero per comprare la musica censurata dei Clash. Chi l’avrebbe detto che un giorno sarei diventata altrettanto cool ?».
Era più facile immaginare che non sarebbe mai diventata una fifona: «La paura paralizza. La nostra società ha paura di tutto: del terrorismo, sì. Del nucleare, certo. Ma anche della mucca pazza e dell’influenza aviaria o del disastro ecologico. Un giorno a Parigi ero entrata in un panificio per comprare un sandwich di pollo: scherza?, mi ha risposto la panettiera, non ha sentito del virus che ha ucciso un pappagallo in Romania?».

Corriere 27.11.13
il riavvicinamento tra Iran e Usa e le nuove alleanze in Medio Oriente
di Farian Sabahi

Se Teheran ha firmato l’accordo non è solo per un alleggerimento delle sanzioni ma per rivendicare il ruolo di potenza regionale. Contribuendo alla stabilità di Siria e Libano, Afghanistan e Iraq, nel contesto di un ridimensionamento della presenza americana nella regione. Come la Gran Bretagna nel 1971, anche Washington vuole tagliare sulle spese, è alla ricerca dell’indipendenza energetica e sembra non badare alle conseguenze sulla sicurezza di lungo periodo degli alleati arabi. A temere il riavvicinamento tra Iran e Usa sono — oltre alla destra israeliana perché darà modo ad Obama di passare alla questione palestinese — anche l’Arabia Saudita e le altre monarchie arabo-sunnite del Golfo Persico. Membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo, un’organizzazione voluta nel 1981 da Riad su spinta degli Stati Uniti in chiave anti-iraniana.
Il riavvicinamento tra Teheran e Washington potrebbe portare a una situazione simile al 1971: andandosene, gli inglesi lasciarono allo scià il ruolo di guardiano del Golfo. Fu allora che l’Iran prese possesso di tre isole, tuttora rivendicate dagli Emirati: «Una questione assai sentita tra le popolazioni locali», osserva Matteo Legrenzi di Ca’ Foscari. Un asse Washington-Teheran è percepito negativamente dagli arabi perché — continua lo studioso di paesi del Golfo — «danneggerebbe molte delle loro politiche, a cominciare dal sostegno ai ribelli siriani». Senza contare che, se non ci fossero tensioni sarebbe difficile contrastare l’egemonia iraniana nello stretto di Hormuz.
Infine, in un Medio Oriente in cui tante dispute sono spesso lette in chiave settaria e gli sciiti sono perseguitati, l’Iran si erge a protezione di questa minoranza. Pensiamo al Bahrein, dove una dinastia sunnita ha soffocato nel sangue (con l’aiuto dei sauditi) la primavera di una popolazione sì araba ma a maggioranza sciita. L’alleanza con Washington darebbe legittimità alle aspirazioni iraniane e dunque non possiamo escludere che Netanyahu e il principe saudita Bandar uniscano le forze per attaccare l’Iran come avanzato da Uzi Mahnaimi sul Sunday Times. Uno scenario devastante.

il governo afghano, tenuto in piedi dalle armi anche italiane
Corriere 27.11.13
Lapidazione pubblica Kabul la ripropone
Frustate e Cherry Berry, locali occidentali e lapidazioni.
di Michele Farina

Giovani maschi nella yogurteria chic appena aperta a Kabul, ragazze al piano di sotto con le famiglie: cartoline dall’Afghanistan della mancata parità tra i sessi. Parità che al ministero della Giustizia afghano stanno pensando di promuovere a modo loro. Aggiornando, si fa per dire, il codice penale. Per il reato di adulterio, la cosa migliore sarebbe lapidare i «colpevoli» sulla pubblica piazza: uomini e donne.
Dopo la denuncia di Human Rights Watch, l’ha confermato al Wall Street Journal il direttore dell’ufficio legislativo del ministero, Abdul Raouf Brahawee: il gruppo che lavora alla riforma della giustizia sta valutando la reintroduzione della pena di morte per lapidazione tanto amata dai talebani. «Non c’è niente di strano - dice Brahawee - Lo prevede la Sharia». Detto, quasi fatto: «Non siamo soddisfatti dalla bozza di legge», precisa il direttore. Così l’Afghanistan corre verso il fatidico 2014 (ritiro completo degli stranieri) guardando indietro. «La lapidazione ha un grande significato simbolico in questo Paese: è quasi il marchio di fabbrica del regime talebano» dice al Wsj Heather Barr di Human Rights Watch. E non è l’unico segnale di ritorno al passato: la proposta, sostiene Barr, si inquadra in un più vasto piano per «ritirare» i diritti delle donne salvaguardati (sulla carta) dalla Costituzione. Piano che comprende una recente iniziativa legislativa per diluire in Parlamento la legge sulle violenze di genere. Il prossimo aprile ci saranno cruciali elezioni presidenziali. Pensare a questo piano come a una manovra elettoralistica per conquistare voti non consola, anzi fa ancora più paura.
Nelle campagne i costumi non sono cambiati di molto da quando quindici anni fa governavano i talebani. La nostalgia della lapidazione non viene da imam o capi villaggio nelle province più conservatrici, arriva da tranquilli funzionari incravattati al ministero i cui rampolli, la sera, magari affollano i locali occidentali e vanno da Strikers a giocare a bowling. Qualcuno lo dica ai ragazzi e alle ragazze di Kabul che, complici i social network, si danno appuntamento e flirtano da Blue Flame: oltre alle pietre unisex per gli adulteri, la legge allo studio prevede altri rimedi taleban style . Come una dose di frustate (in pubblico) per i single (uomini e donne) che faranno sesso fuori dal matrimonio. Diversi osservatori occidentali a Kabul minimizzano: le autorità si sono impegnate a salvaguardare i diritti umani, se non vogliono perdere gli aiuti economici dall’estero non potranno promuovere il ritorno all’età delle pietre.

il Fatto 27.11.13
Grecia, l’abisso della crisi: “I giovani si iniettano l’Hiv”
I dati divulgati dall’Oms: lo fanno per percepire i 700 euro di sussidio
di Roberta Zunini

È una di quelle scoperte che lasciano sconvolti: in Grecia, alcuni tossicodipendenti disoccupati si sono iniettati consapevolmente il virus dell’Hiv per poter percepire l’assegno statale di 700 euro e ottenere più velocemente l’ammissione ai programmi di recupero con il metadone. Che sostituisce l’eroina ma, sempre più spesso, viene usato al posto dell’eroina. Un altro dato che racconta gli effetti tragici della crisi ellenica è l'aumento del numero di contagiati a causa dello scambio di siringhe infette perché non hanno i soldi per comprarne di nuove. Per questo il mese scorso ad Atene è stata aperta la prima “stanza del buco” dove ai tossicodipendenti viene offerto gratuitamente un kit costituito da siringa, tampone e laccio emostatico, oltre alla supervisione di medici e infermieri.
TUTTE LE SERE nel centro della capitale, in piazza Omonia e sotto i portici delle strade limitrofe, si ha la visualizzazione dei dati agghiaccianti pubblicati, e solo in parte rettificati, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Decine di giovani tossicodipendenti chiedono l’elemosina con lo sguardo da zombie e le mani ricoperte di buchi e piaghe, aspettando il pusher che gli consegnerà la dose di eroina quotidiana. Quasi tutti se la iniettano seduta stante, scambiandosi la siringa, sotto lo sguardo allibito dei pochi turisti perché gli ateniesi di lì cercano di passarci il meno possibile. Secondo uno studio commissionato dal dipartimento europeo dell’Oms, all'Istituto di Equità dell’Università di Londra, per valutare il divario esistente in ambito sanitario tra i Paesi dell’Unione, è emerso che, tra gli effetti della crisi economica, c’è stato un aumento di contagiati dal virus dell'Hiv. L'Oms, però, ha dovuto correggere l'errore commesso nella pubblicazione del rapporto. Nello studio, ripreso anche dalla prestigiosa rivista scientifica Lancet, non si affermava come scritto sul sito dell'Oms che la metà delle nuove infezioni da Hiv sia voluta, bensì che alcuni componenti di questa metà si sono auto iniettati il virus.
L’organizzazione aggiunge che “la Grecia nel 2011 ha registrato un aumento del 52 % delle nuove infezioni da Hiv, rispetto al 2010”. La maggior parte dei contagi è avvenuta tra i consumatori abituali di eroina.
L'Okana è l’organizzazione nazionale contro l’uso di droga che tiene sotto controllo i cambiamenti nell'ambito del consumo. “La domanda di luoghi e kit sta aumentando giorno dopo giorno e siamo convinti che molto presto avremo bisogno di nuove strutture in altre zone della città”, ha detto Sakis Papaconstantinou, che gestisce il centro.
LA GRECIA HA tagliato la spesa sanitaria, come parte delle misure di austerità volute dagli istituti di credito internazionali in cambio di fondi che dovrebbero aiutarla a stare a galla. “Bisogna cercare in tutti i modi di non sacrificare i trattamenti farmacologici sull'altare dell' austerità”, ha Panos Kakaviatos, portavoce del Consiglio d'Europa. L’organismo intergovernativo lancerà un appello a tutti i governi affinché aumentino le risorse per i programmi di recupero dei tossicodipendenti.
Il Paese non sta dunque galleggiando. “Stiamo andando a fondo poco per volta”, dice Anna, una dottoressa volontaria di Medici del mondo che due volte la settimana presta servizio a Perama, una cittadina vicino al Pireo dove quasi tutti lavoravano nei cantieri navali. “In questi ultimi due anni la disoccupazione nel settore è arrivata al 95% e i miei pazienti sono ormai solo greci disoccupati e i loro figli. Ci sono contagiati da Hiv ma anche tossicodipendenti che a causa dello scambio di siringhe ora soffre di epatite C, che è una malattia da tenere sotto controllo costante. Con le cure esistenti si potrebbero inoltre trattare le donne incinte affette da Hiv in modo tale che i loro bambini nascano senza il virus, ma ci vogliono soldi. E queste persone non ce li hanno. La cosa grave è che qui in Grecia, dopo un anno di disoccupazione, perdi il diritto di essere curato gratuitamente presso il servizio sanitario pubblico. Molta gente perciò non va più in ospedale ma viene da noi. Purtroppo non è la stessa cosa”. Oltre il danno anche la beffa.

l’Unità 27.11.13
La Germania, Frau Merkel e il salario minimo
di Paolo Borioni

NELLE TRATTATIVE PER LA FORMAZIONE DEL GOVERNO TEDESCO IL SALARIO MINIMO AFFIORA GIUSTAMENTE COME UNA DELLE QUESTIONI DIRIMENTI (PER LA FATTIBILITÀ DELLA GROSSE KOALITION) E DECISIVE (PER LA CRISI EUROPEA). En passant si può notare che invece la necessità di fornire un governo «la sera stessa delle elezioni» (come i sostenitori dei sistema maggioritario ripetono ossessivamente) non è importante per i tedeschi (come in pressoché tutti i Paesi più avanzati d’Europa): le trattative procedono senza fretta già da due mesi. Comunque, pare Frau Merkel si sia decisa ad accettare la versione socialdemocratica del salario minimo: 8.5 euro l’ora per legge. Ella pensava in un primo tempo di lasciare la materia alle trattative locali. Questa, del resto, era anche la posizione classica dei sindacati più forti d’Europa.
Oggi, però, la confederazione sindacale tedesca Dgb affronta una situazione diversa. Le riforme Hartz del mercato del lavoro, introdotte purtroppo proprio dal governo Spd-Verdi 1998-2005, hanno «sfondato» il pavimento del mercato del lavoro. Oggi, inoltre, i contratti coprono una quota sempre minore di lavoratori, e i sindacati organizzano una percentuale di essi vicina al 20%, molto più bassa di un tempo. I bassi e bassissimi salari quindi sono dilagati, costituendo parte eccessiva della competitività tedesca (e degli squilibri europei): il minimo salariale per legge è l’unica arma che ora Spd e sindacati riescano ad opporre. Purtroppo però non è sicuro che ciò basti affinché la Spd recuperi i molti milioni di voti persi fra i lavoratori. Ciò perché, come sostengono i sindacati e le socialdemocrazie nordiche, a garantire il salario più che le leggi, è la forza dell’organizzazione politico-sindacale. In effetti, i dati (dalla ricerca Painful separation, di J. Bailey, J. Coward, M. Whittaker) evidenziano che negli anni 2000 la distribuzione della ricchezza prodotta è stata molto più eguale nei Paesi nordici che altrove.
La ricerca adotta un calcolo per cui se i salari fossero cresciuti al passo della ricchezza, l’indice sarebbe pari a uno. I suoi dati dicono due cose: intanto che ovunque i salari sono cresciuti troppo più lentamente rispetto alla ricchezza prodotta, ovvero il loro indice di crescita è sempre minore di 1. E questo è il problema principale della crescita europea. Poi dicono che l’indice è, nei Paesi nordici, compreso fra 0, 60 (Danimarca) e 0, 77 (Finlandia). Altrove esso invece è 0,43 (Regno Unito), 0,26 (Usa) e 0,12 (Francia): questi ultimi, salario minimo legale o meno, sono tutti Paesi a sindacato debole.
Fa soprattutto riflettere il dato tedesco, che addirittura è 0,08! Questo dice molto sul nesso fra diseguaglianza e protezionismo di fatto della Germania. Ma quel dato suggerisce anche che questa incredibile differenza fra ricchezza prodotta e redistribuita dipenda anche da altro. Per esempio dal «triplo» mercato del lavoro tedesco: quello dei lavori più protetti e ben pagati, quello interno dei famigerati «mini jobs» pagati pochissimo, e quello esterno (Ungheria, Polonia) in cui vengono prodotti segmenti cospicui dei prodotti tedeschi. Quest’ultimo mercato del lavoro «esterno» che fornisce segmenti di prodotto alla Germania si va allargando e impoverendo: per esempio comprende anche sempre di più i nostri salari massacrati dalle misure di austerità.
Se non cambieranno di molto (non di poco) le assurde politiche di austerità e diseguaglianza galoppante, esso continuerà probabilmente a risucchiare verso il basso anche i salari tedeschi. Infatti, anche in presenza del salario minimo, potrebbe quasi certamente verificarsi il fatto che molti salari più alti scendano verso questo minimo. Ecco perché un ottimo economista vicino al sindacato tedesco, Thorsten Schulten, propone un salario minimo europeo flessibile: che lasci ai nordici i loro sistemi di parità capitale-lavoro (che funzionano ancora nonostante tutto meglio degli altri) e imponga agli altri un salario minimo al 60% di quello mediano. Il pavimento, insomma, va bene in Germania, ma serve in tutta Europa, a partire (lo ripetiamo) dal cambiamento di passo nelle politiche.
Il salario minimo, infatti, può servire per aiutare a sospingere tutti verso l’alto, ma solo in una strategia complessiva di rilancio del sindacato, dell’investimento di lungo periodo e della riforma del capitalismo in genere. Altrimenti può essere utilizzato come giustificazione legalistica per portare verso valori bassi (ma legali) anche gli altri salari più elevati. In sostanza, comunque, la misura del salario minimo era indispensabile per arginare il comprensibile malcontento dell’opinione socialdemocratica per la coalizione con Frau Merkel. Vedremo cosa ne diranno i 500.000 iscritti alla Spd, di cui attenderemo la prevista eventuale ratifica democratica dell’accordo di governo. Così ragiona la sinistra europea: gli iscritti ai partiti contano, e il loro voto a posteriori sulla sostanza dei programmi è ritenuto più democratico di primarie che forniscono enormi deleghe a leader eletti sulle ali dell’euforia mediatica.

La Stampa 27.11.13
Le confessioni del produttore di Pretty Woman
Arnon Milchan ammette in Tv:
«Io, spia per Israele. Lo ammetto, ero nel Mossad»
di Piero Negri
qui

La Stampa 27.11.13
Ex terroristi eliminavano i compagni
La Cia reclutava agenti anche a Guantanamo
di Maurizio Molinari

Terroristi di Al Qaeda trasformati in agenti doppi per dare la caccia ai loro compagni di Jihad: è l’operazione «Penny Lane». La Cia scelse un titolo dei Beatles per l’operazione segreta che, dal 2003 al 2006, ruotò attorno ad una sfida apparentemente impossibile: reclutare alcuni dei jihadisti più pericolosi, detenuti nel carcere militare di Guantanamo sull’isola di Cuba. Il richiamo ai Beatles nasce dal fatto che l’operazione si svolse in una base segreta della Cia, sempre a Guantanamo, il cui nome in codice è «Strawberry Fields».
Sono otto cottages, nascosti da pareti di cactus, dove i detenuti considerati più «accessibili» vennero ospitati. Per «girarli», come si dice nel gergo di Langley, gli agenti fecero leva su tre carte: un comodo letto per dormire, riviste pornografiche a volontà e la promessa di ricompense per milioni di dollari a missione compiuta.
L’idea dell’operazione nacque dalla grande disponibilità di potenziali «reclute»: nel 2002 vennero portati a Guantanamo 632 sospetti militanti di Al Qaeda e nel 2003 ne seguirono altri 117. Una dozzina di 007 studiarono con cura i profili, individuarono i più abbordabili e incrociarono i loro luoghi di origini con la mappa degli «obiettivi da colpire» ovvero i leader di Al Qaeda braccati da Washington.
Almeno il 16% dei prigionieri di Al Qaeda, secondo documenti del governo Usa ottenuti dall’Associated Press, hanno accettato di collaborare dall’indomani degli attacchi dell’11 settembre e fra loro molti vengono dall’operazione «Penny Lane», a cui la Cia rivendica il merito di essere riuscita a trovare ed eliminare «dozzine di terroristi» traditi dai loro stessi compagni. Ma è una storia ancora tutta da scrivere perché alcuni detenuti, una volta liberati, fecero di testa propria. Senza contare poi il top secret sull’entità dei soldi versati ai traditori di Al Qaeda, come anche sulla loro attuale residenza.

La Stampa 27.11.13
La nuova rotta di Xi: più tasse e più welfare
Il nuovo leader disposto a perdere competitività
di Alberto Simoni

Per capire quanto sta accadendo in Cina con il corso che il Presidente Xi Jinping sta tracciando, bisogna spostarsi a Sud, nel vicino Vietnam. E cosa sta succedendo fra Ho Chi Mihn City e Hanoi lo spiegano gli stessi cinesi. Sono arrivati gli europei, gli americani, e persino i businessmen di Pechino hanno trasferito lì alcune unità produttive e industrie. Laggiù costa meno produrre, costa meno il lavoro, le leggi vantaggiose e la logistica sono perfette. Si badi, non è in corso nessuna grande fuga dal Gigante asiatico verso il Vietnam; chi è in Cina per produrre, moltiplicare i capitali, investire, importare o trovare il modo di esportare, ci resta; dovrà però fare i conti con la ricetta che Xi e i suoi dirigenti vogliono far digerire a tutti. Basta ai sontuosi vantaggi fiscali alle imprese, alle esenzioni in nome dell’attrazione ad ogni costo di capitali, alla forza lavoro a basso costo e alla qualità dei prodotti difficilmente sopra la media. Fino al 2008 chi produceva nelle zone speciali del Paese (come Shenzhen) godeva di un’imposizione fiscale complessiva di circa il 30% fra Iva, accise varie, costi burocratici, tassa sul patrimonio e sui profitti. Poi è scesa al 25%. Forte di queste condizioni Pechino ha esportato ovunque e fatto marciare la sua economia a una media di oltre il 9% in dieci anni. Ma quel tempo dice l’economista consulente del governo Zhang Yangsheng è finito, si volta pagina (non intende certo che la crescita del Pil subirà uno stop). Spiega invece che non è più sostenibile il fatto che la Cina debba produrre a basso costo beni di modesta qualità e con operai poco retribuiti e che questo genera diseguaglianze sociali intollerabili. Lo stesso ex premier Wen Jiabao solo un anno fa aveva anticipato il tema definendo il modello economico attuale «instabile, squilibrato, insostenibile». L’idea uscita direttamente dal Terzo Plenum è quella di alzare l’imposizione fiscale per le aziende straniere (anche oltre il 45%) in modo da poter dirottare le entrate verso quelle aree di sola competenza statale (istruzione, sanità, servizi pubblici, risorse naturali e attività strategiche) necessarie per controbilanciare gli squilibri che il mercato, nella percezione dei cinesi, rischia di causare. Delocalizzare in Cina non sarà più così vantaggioso per gli occidentali. Ma non è questo il timore dei leader cinesi: l’obiettivo del regno di Xi è quello di avere un moderno Stato sociale pagato con le tasse di tutti, stranieri compresi. Che per un Paese dove regna sovrano un Partito comunista non è niente male.

l’Unità 27.11.13
Il Bengodi dei libri
A Roma una «scorpacciata» di titoli e di eventi
Sfida alla crisi Dal 5 all’8 dicembre, al palazzo dei Congressi, torna l’appuntamento con la fiera della piccola e media editoria
di Maria Serena Palieri

ROMA «PIÙ LIBRI PIÙ LIBERI»: DAL 5 ALL’8 DICEMBRE ALL’EUR, PALAZZO DEI CONGRESSI, TORNA L’APPUNTAMENTO CON LA FIERA DELLA PICCOLA E MEDIA EDITORIA. C’è un motivo in più per andare a visitare questa dodicesima edizione? Sì, c’è. E si annida nel cuore della crisi che colpisce anche questo settore dell’economia. Vi siete accorti, da lettori e acquirenti, che non solo la piccola libreria indipendente che avevate nel quartiere ha chiuso ma che, in quella che resiste, così come nel bookshop della grande catena che c’è nella vostra città, l’offerta è sempre più povera, più massificata e più volatile? Il motivo si chiama «rese»: le «rese», cioè i libri che i librai restituiscono al mittente, l’editore, sono raddoppiate o più, per fare cassa si restituiscono novità uscite da una settimana, magari trovandosi a doverne richiedere nuove copie venti giorni dopo, se il libro per qualche motivo ha avuto solo un avvio lento, ma si restituiscono anche titoli di catalogo, in magazzino da un decennio... Il libraio trasforma il libro che restituisce in soldi e l’editore vede lo stesso libro trasformarsi, per lui, in un segno meno al fatturato e in un costo logistico di immagazzinamento. Invece in Fiera saranno in mostra romanzi, saggi, raccolte di poesie, libri di viaggio, di fotografia, in una variopinta ricchezza come non vedete più nelle librerie. Ieri mattina la presentazione di fiera e programma. Nella sala del Palazzo delle Esposizioni per l’Aie, che promuove l’evento, il presidente Marco Polillo, il presidente dei «pm» Enrico Iacometti, il direttore della fiera Fabio del Giudice, poi gli assessori di Comune, Flavia Barca, e Regione, Lidia Ravera, per il Mibac Rossana Rummo (non presente la Provincia, che pure è coinvolta)
«Uno spaccato magnifico del Paese che non c’è, un Paese di uomini e donne che hanno sviluppato una sana dipendenza dall’intelligenza altrui»: così Lidia Ravera definisce la Fiera che, negli anni precedenti, ha visitato da scrittrice. 374 espositori: 160 dal Lazio, ma anche 25 dalla Toscana, 22 dalla Puglia, 47 lombardi. La crisi fa sentire i suoi effetti: 25 gli editori piccoli che c’erano l’anno scorso e nei dodici mesi sono morti. Il settore tra il 2010 e il 2012 ha perso un sesto dei posti di lavoro, da 6650 a 5700 e un 14% di fatturato. La convegnistica professionale farà il punto su alcuni snodi della crisi, dal rapporto editoria-banche («le banche non apprezzano i beni immateriali» commenta Iacometti) alla strage di punti vendita specie al Sud.
In fiera scrittori e intellettuali italiani Melania Mazzucco e Marco Malvaldi, Raffaele La Capria come ex del Gruppo ’63 che celebra il suo cinquantennale e tra gli stranieri Edna O’Brien, Tahar Ben Jelloun, Eric-Emmanuel Schmitt, il poeta messicano Marco Antonio Campos e, sempre dal Messico, il giornalista investigativo Diego Enrique Osorno, autore di un celebre reportage sulla guerra tra narcos. In crescita il settore «off» che, con l’insegna Più libri più luoghi da oggi all’apertura della Fiera tocca dentro Roma tre municipi, 38 editori, 50 librerie, biblioteche.
Quanto costa Più libri più liberi? 1.300mila euro, di cui 510mila dalle istituzioni, con un calo, in particolare per il Mibac, dai 200mila del 2011 ai 65mila di quest’anno. Ma il problema vero,dicono gli organizzatori, è la mancanza di programmazione: certezza di fondi è arrivata solo a fine ottobre. L’anno scorso la fiera registrò 50.000 visitatori. In un paese il cui spread vero ricordava Rossana Russo è quello culturale, più della metà dei cittadini non legge e 7 cittadini su 10 non entrano in un museo, in 50mila hanno pagato un biglietto per entrare in un posto dove comprare libri (certo, con lo sconto). O la gadgeteria giocosa e intelligente, tratto tipico, ormai, di questo appuntamento a ridosso del Natale. Qui c’è il Paese che non c’è...

l’Unità 27.11.13
Il Sogno Sovietico degli italiani
«Il treno va a Mosca», una parabola del comunismo negli anni 50
di Alberto Crespi

TORINO «LENIN, LA TUA DOTTRINA SI DIFFONDE E VOLA / LENIN, LA TUA PAROLA È QUELLA CHE CONSOLA / IL DOLCE SOGNO SANTO / DELLA GRAN CITTÀ DEL SOLE / CHE HA VAGHEGGIATO OGNI CUORE / TU REALIZZASTI QUAGGIÙ / LENIN, IL PIÙ GRAN DONO DEL MONDO SEI TU...».
Questi versi potrebbero sembrarvi semplicemente ridicoli, ma ora dovete fare una cosa, dovete collaborare alla «lettura» di questo articolo mettendoci del vostro: dovete intonarli sull’aria di Mamma, la famosa canzone di Beniamino Gigli. «Lenin, la tua dottrina si diffonde e vola» deve suonare come «Mamma, solo per te la mia canzone vola», e via a seguire. Entrerete in un vortice edipico-comunista (Lenin come la mamma?! Ma andiamo!!!) che vi travolgerà. La canzone Lenin e Stalin non è il frutto di una fantasia nostalgico-dadaista del XXI secolo. È esistita davvero, è conservata nell’archivio dell’Istituto De Martino ed è uscita sul disco Sventolerai lassù. Antologia della canzone comunista in Italia uscito nel 1977 per i Dischi del Sole. La canta Agostino Vibbia, i versi sulla musica, appunto, di Mamma furono scritti da Raffaele Offidani, in arte «Spartacus Picenus». La si ascolta nel film Il treno va a Mosca, secondo titolo italiano in concorso a Torino che ieri ci ha riportato ai tempi del vecchio Pci e della «grande Unione Sovietica», come la chiamavano negli anni ’50. I versi su Stalin, nel film, non si sentono. Leggete questo pezzo fino in fondo e li troverete.
Il treno va a Mosca è diretto da Federico Ferrone e Michele Manzolini, due giovani film-makers già autori di Merica e Il nemico interno. Il nuovo film è qualcosa più di un documentario. Tecnicamente è un film di montaggio: i due ragazzi hanno messo le mani su alcuni straordinari filmati d’epoca conservati nell’archivio di film «familiari» Home Movies. A queste immagini, bellissime ma informi, hanno dato una forma narrativa con il decisivo contributo della montatrice Sara Fgaier (la stessa di La bocca del lupo di Pietro Marcello). Il risultato è un film che racconta una storia e, insieme, una parabola: quella del comunismo italiano, forza decisiva nella ricostruzione del Paese dopo la guerra, capace di cementare milioni di persone e di dar loro un’identità collettiva... nel nome di un’utopia che era meravigliosa nella sua astrattezza, ma si incarnava in un esperimento sociale che di meraviglioso aveva ben poco: l’Unione Sovietica.
Il treno va a Mosca è la storia del Sogno Sovietico che molti comunisti italiani hanno coltivato, dandogli una potenza che in certi momenti, e per certe persone, ha sfidato quella del Sogno Americano. Per poi sentirsi dire, dopo il ’56 e dopo il ’68 e dopo tante altre cose, che quel sogno era un incubo.
Il protagonista del film, ripreso anche nella sua quotidianità di oggi, è Sauro Ravaglia, un compagno di Alfonsine, provincia di Ravenna. I filmati utilizzati da Ferrone e Manzolini sono girati da lui, da Enzo Pasi e da Luigi Pattuelli (questi ultimi, deceduti) che nel 1957 furono membri della delegazione italiana al Festival della Gioventù di Mosca. Erano tutti comunisti ferventi, come si poteva esserlo allora in quell’angolo di Romagna (Alfonsine è una località mitica, uno di quei posti dove alle elezioni il Pci superava l’80%). Nel ’57 erano giovani, pieni di vita, ancora segnati da un passato recente di guerra e di privazioni. Non erano mai usciti dalla Romagna. Già Venezia, prima tappa del treno per l’Urss, sembrava un luogo esotico. Figurarsi Mosca! Grazie alle loro riprese amatoriali, in bianco e nero e talvolta a colori, lo spettatore di oggi ha la sensazione di vedere la capitale russa per la prima volta.
Le riprese della manifestazione inaugurale allo Stadio Lenin, con il discorso d’apertura di Vorosilov che allora era presidente del Soviet Supremo, hanno un grande valore storico. Ma Ravaglia, Pasi, Pattuelli e tutti i loro compagni non si limitano a filmare gli incontri ufficiali. Parlicchiando due parole di russo, se ne vanno in giro per Mosca da soli e riprendono di tutto. Ravaglia abborda una ballerina georgiana («Mo’ era di un bello, veh!», dice fuori campo, con la sua voce di arzillo ottantenne) e grazie a lei riprende le prove di uno spettacolo del Bolscioj. Vedono anche cose che non avrebbero dovuto vedere: qualche «komunalka» (gli appartamenti collettivi), qualche baracca di periferia dove gli uomini dormono per terra e la mattina vengono portati al lavoro stipati sui camion. È, si diceva, il 1957: c’è stato il XX congresso (febbraio ’56), c’è stata l’Ungheria (ottobre-novembre ‘56), la destalinizzazione è in corso ma le direttive del Pci ai compagni in trasferta in Urss sono all’insegna dell’ortodossia.
Prima di partire, i tre giovanotti si sentono chiedere dagli amici di portare delle foto di Stalin, «perché in Italia non se ne trovano più». A Mosca una statua del dittatore è ancora in piedi, non le buttarono giù tutte in un giorno... I compagni italiani vedono un paese che brama l’apertura, che accoglie i giovani stranieri con slancio e curiosità (e del resto, lo dicono gli studi demografici, nove mesi dopo il Festival, Mosca ebbe un boom di nascite ...), ma sembrano ignorare ciò che è successo nel ’56. Nessuno, nel film, ne parla. «È una cesura che per noi oggi è un dato storico ci dicono i registi ma che per Ravaglia e per i suoi compagni sembrava non esserci stata. Loro vivevano dentro un’utopia della quale sono ancora oggi orgogliosi. Il trauma fu al ritorno, quando cominciarono a portare i loro ‘filmini’ in giro per le sezioni e i capi del Pci romagnolo fecero loro sapere che, insomma, alcune cose era meglio non mostrarle... Del resto, ancora nel ’57, le uniche fonti di informazioni erano l’Unità e le radio in lingua italiana dei paesi dell’Est, come Radio Praga. Il mito sovietico venne smantellato solo molti anni dopo».
Eppure, con tutte le amarezze che sarebbero arrivate, Il treno va a Mosca è emozionante e commovente. «Perché racconta un mondo aggiungono i registi dove comunque molte persone credevano nel cambiamento. Oggi non c’è più nessuna utopia. L’impegno politico è diventato quasi una brutta parola». Era un mondo in cui, nella seconda strofa di Lenin e Stalin, si poteva cantare: «Stalin, su Stalingrado la leggenda vola / Stalin, fermava il mostro la tua forza sola / Gloria sia a te in eterno / Senza la tua grande vittoria / ritorna indietro la storia / di due millenni e anche più / Stalin, il degno erede del gran Lenin sei tu / Due vostri pari, sopra la terra non verranno mai più». Ma anche un mondo dove il comunismo italiano lottava per i diritti e per la solidarietà. Il treno va a Mosca racconta una Russia che non c’è mai stata e un’Italia che non c’è più.

Repubblica 27.11.13
Qualcuno era comunista
Sauro e i suoi amici ragazzi romagnoli in viaggio per l’Urss sognando Lenin e il sol dell’avvenire
di Clara Caroli

Applaudito al Festival di Torino “Il treno va a Mosca”: Ferrone e Manzolini hanno montato i filmini d’epoca di chi partiva

TORINO Nel 1957 un barbiere comunista di Alfonsine, paese della Romagna “rossa” devastata dalla guerra, parte con due amici cineamatori per partecipare al Festival mondiale della gioventù socialista a Mosca: un “viaggio dell'utopia” nella capitale del-l'Urss, allora mitizzato come “grande paese del Socialismo”. «Il Socialismo era la nostra meta», racconta Sauro Ravaglia, ilbarbiere, oggi ottantenne, nel film di Federico Ferrone e Michele Manzolini Il treno va a Mosca, in concorso al Torino Film Festival, applaudito alla proiezione per la stampa e - sull'onda delle vittorie diSacro Gra eTira Venezia e Roma, tra i candidati al premio.
Realizzato montando per l’80 per cento materiali video e sonori d’epoca, con i filmini in super8 recuperati dai due autori negli archivi di Home Movies (l’archivio nazionale del film di famiglia), racconta la nascita e la morte del grande sogno comunista in Italia, dalle campagne felici dei canti contadini e della propaganda della falce e del martello, alle Feste dell'Unità, fino alla morte di Togliatti, a rappresentare, come chiosa la voce del barbiere, “la fine di un mondo”.
Il film è prodotto da Kiné e Vezfilm e distribuito da Istituto Luce. Montatrice è Sara Fgaire, come per La bocca del lupo che vinse al Tff nel 2009. I due autori, Ferrone e Manzolini, hanno già co-diretto il documentario Merica!, sugli immigrati italiani in Brasile, e lavorato come registi eproduttori per Al-Jazeera. Ai loro occhi di trentenni, l’utopia di Sauro e dei giovani comunisti del Pci di Togliatti «ha la malinconia di uno sogno mancato». «Un sentimento - dicono - quello della fiducia assoluta nella capacità della politica di cambiare il mondo, che alla nostra generazione manca completamente».
«I miei erano contadini, ho respirato l'aria dei padroni, del Fascismo e della miseria», fa loro da contraltare Sauro Ravaglia, all’inizio del film, mentre mostra un tesoro di filmini amatoriali realizzati in tutto il mondo.Dopo Mosca («Pagai il biglietto del treno con i soldi messi da parte distribuendo il giornale del Partito - racconta - allora a Mosca c'erano andati solo Togliatti e i capi del partito. Quando partii mia madre pianse») ha continuato a viaggiare, «inseguendo rivoluzioni e lotte di liberazione», dall’Algeria a Cuba, e poi per i continenti in cerca di vita: Sydney, Tahiti, Messico, Nuova Zelanda. «Alla scoperta di un mondo - dice - che non si poteva capire leggendo l'Unità». In questo momento il “barbiere” si trova in Thailandia (da dove ha inviato un videomessaggio al Tff di Virzì). D’estate torna ad Alfonsine e quando comincia a far freddo riparte per il sudest asiatico: «Per risparmiare sulla bolletta».
Il treno per Mosca si apre con gli “italiani felici” del dopoguerra, e con i ragazzi di Romagna che guardano ad Est gonfi di speranze: «Per noi c'era solo una realtà, quella del Socialismo e dell'Unione Sovietica». Ma la realtà vista da vicino è altra cosa. E il viaggio dell’utopia si trasforma in disillusione: dal vivo Stalin era “un omino”, nelle case più povere “si dormiva per terra, ammassati”. È il sogno infranto. «Tutti volevano vedere Mosca ma nessuno voleva sentir parlare di povertà - racconta Sauro - Al ritorno siamo stati interrogati dalla polizia. Ci hanno chiesto: ma perché non siete rimasti là?».
Chicca del film, che ha strappato risate in sala, la versione socialista diMamma, solo per te la mia canzone vola: “Lenin, la tua dottrina per il mondo vola/ Lenin, la tua parola è quella che consola”, a firma di un compositore anarchico, tal Odifreddi.

La Stampa 27.11.13
Così antica, così facile, così moderna Dante, la lingua del futuro
di Gian Luigi Beccaria

Nell’ambito del premio Napoli, che riceverà il 13 dicembre, Gian Luigi Beccaria tiene oggi a Napoli (ore 17, Maschio Angioino) una lectio magistralis su «Leggere Dante oggi». Ne anticipiamo uno stralcio
ADante spetta un altro merito: l’aver segnato, cinque secoli prima dell’unità reale, la data d’inizio di un’unità ideale, quando nel De vulgari eloquentia vede per primo l’Italia come uno spazio geografico e culturale prima che esso esista realmente. Soltanto sei secoli dopo si realizzerà quell’unità inventata dalla appassionata perseveranza dei poeti, che si protende nel tempo tra le pieghe delle scritture.
Quell’unità anche, che sotto forma di aria di famiglia, noi rifacciamo ogni giorno ancora nel parlare quotidiano. Penso alle parole delle patrie lettere che usiamo come echi di un riconoscimento, quelle che affondano le radici nel Dante letto a scuola, e che hanno costantemente fatto da collante, fatto da contrappeso alla labilità della nostra coesione. Il padre della nostra lingua continua a fornire molta materia al parlare colloquiale e allo scrivere mediamente colto («le dolenti note», «perdere il ben dell’intelletto», «senza infamia e senza lode», «ma guarda e passa», «mi fa tremare le vene e i polsi», «nel mezzo del cammin di...», il «lasciate ogni speranza o voi...», «Galeotto fu...» ecc.).
E a proposito dell’importanza della lingua letteraria come ripetizione, come tenuta o continuità, e come riconoscimento, la grande letteratura delle Origini ha fatto sì, col suo gran peso culturale, che la lingua rimanesse sino a oggi relativamente stabile. L’italiano di Dante non è così distante da noi. È ancora chiaro e parlante alle orecchie di un italiano del Duemila, sembra talvolta fresco di giornata. Dante è facile da leggere. Non lo è al contrario Chauser per un inglese, così come non lo è il Cid per uno spagnolo, o la Chanson de Roland per un francese, che vanno tradotti perché oggi li si possa capire. Dante invece non è linguisticamente lontano. Nessuno dovrebbe pensare di tradurlo.
La Commedia, testo venerato, fonda l’«alfabeto» letterario del futuro, e ciò è importante per una paese frammentato. Noi non abbiamo mai avuto il senso profondo di una comunità nazionale, la solidità di un’appartenenza, ma la letteratura e il culto della lingua hanno costituito il vettore di un desiderio unitario. Nessuno lo ha detto meglio di Raffaele La Capria, quando scrive: «Ogni volta che riesco a comporre una frase ben concepita, ben calibrata e precisa in ogni sua parte, una frase salda e tranquilla nella bella lingua che abito, e che è la mia patria, mi sembra di rifare l’Unità d’Italia».

Corriere 27.11.13
La guerra italiana in Etiopia, perché le sanzioni fallirono
risponde Sergio Romano

Il 18 novembre è caduto il 78° anniversario delle «inique sanzioni» decretate dalla Società delle Nazioni contro l’Italia per condannare la nostra invasione dell’Etiopia. Allora ero piccolo, ma ricordo bene che se ne parlò e scrisse moltissimo, anche a scuola, tanto che la data mi rimase impressa per tutti questi anni. Le sanzioni, come è noto, non servirono a nulla (anche se ebbero effetti abbastanza indesiderati, come l’avvicinamento dell’Italia alla Germania e il mito dell’autarchia), soprattutto perché non vennero osservate neppure dai principali promotori delle sanzioni stesse, Regno Unito e Francia. Ma se si fosse voluto veramente impedire la guerra etiopica, non sarebbe stato più semplice chiudere il Canale di Suez e Gibilterra alle navi italiane o dirette in Italia? O qualcuno, anche all’estero, aveva piacere e/o interesse a che noi conquistassimo l’Etiopia?
Riccardo Valente

Caro Valente,
Le sanzioni non furono efficaci perché erano parziali e non concernevano beni e prodotti utili alla guerra come il ferro, l’acciaio, il rame, il piombo, lo zinco, il cotone, la lana, il petrolio. Qualcuno propose sanzioni militari e la chiusura del canale di Suez. Ma Jean-Baptiste Duroselle, nella sua Storia diplomatica dal 1919 ai nostri giorni, ricorda che la convenzione del 1888 imponeva alla Gran Bretagna di assicurare la libera navigazione anche in tempo di guerra. Londra avrebbe chiuso il canale, probabilmente, senza troppo preoccuparsi della convenzione, se avesse deciso di lanciare un forte segnale militare al governo italiano. Ma la politica britannica, in quelle settimane, era agitata da sentimenti contraddittori. Era contraria alla conquista italiana dell’Etiopia perché temeva, tra l’altro, che avrebbe avuto ripercussioni sulla gestione del Nilo e sulla irrigazione dell’Egitto (la stessa preoccupazione che ha ispirato una recente protesta dei militari egiziani ad Addis Abeba). Ma pochi mesi prima, alla fine di giugno, era accaduto qualcosa di straordinariamente nuovo. Per la prima volta, nella storia di un Paese democratico, i grandi giornali avevano promosso un sondaggio popolare che andò sotto il nome di «scrutinio della pace». Sugli undici milioni e mezzo di cittadini britannici che parteciparono alla consultazione, undici dichiararono che la Gran Bretagna doveva restare membro della Società delle nazioni, più di dieci auspicarono la riduzione universale degli armamenti, più di dieci si dichiararono favorevoli a sanzioni economiche contro uno Stato aggressore. Alla domanda sulla ipotesi di sanzioni anche militari, i voti favorevoli furono meno di sette milioni. Era evidente che la maggioranza della società britannica non avrebbe approvato un’azione militare contro l’Italia. Il governo di Londra ne tenne conto e adottò una linea che si dimostrò, all’atto pratico, del tutto inefficace.
Aggiunga, caro Valente, che gli Stati Uniti, proclamandosi neutrali, non imposero alcun embargo alle aziende dei loro cittadini e che l’Italia poté contare, per tutta la durata della guerra, sia sul petrolio americano, sia sul carbone tedesco. Addis Abeba fu conquistata il 5 maggio 1936 e l’annessione dell’Etiopia fu annunciata dal balcone di Palazzo Venezia il 9. Poche settimane dopo, il 4 luglio, l’Assemblea della Società delle nazioni votò una risoluzione che revocava le sanzioni economiche contro l’Italia.
Se l’efficacia militare delle sanzioni fu molto modesta, il loro effetto psicologico sulla opinione pubblica ebbe invece l’effetto di suscitare l’indignazione della grande maggioranza degli italiani. Il mito della «nazione proletaria» alla ricerca di un «posto al sole» aveva conquistato anche coloro che non erano necessariamente fascisti. Paradossalmente le sanzioni furono il miglior regalo che la Società delle nazioni potesse fare a Mussolini in quel momento. Mai prima di allora aveva goduto di tanto consenso.

Repubblica 17,11.13
Lo scempio dell’Appia Antica
risponde Corrado Augias

Gentile dottor Augias, a Francoforte, dove vivo, leggo delle lottizzazioni abusive sull’Appia antica. I Criminali (scusi l’epiteto ma questi costruttori abusivi sono proprio così) hanno costruito diversi edifici all’interno del parco regionale dell’Appia antica, all’interno d’un bosco di alto fusto, un’area protetta sottoposta a vincoli paesaggistici e ambientali. Perché avvengono queste infrazioni ai danni di tutti? Credo di poter rispondere: perché i responsabili (committenti delle opere, progettisti, direttori dei lavori, esecutori materiali e chiunque altro sia implicato) non vengono puniti per i loro reati o, al massimo, devono, forse, pagare multe irrisorie. Il che non fa paura a nessuno e dunque, quando si ripresenterà l’occasione, rifaranno gli stessi abusi. Io vorrei invece che le loro punizioni fossero sollecite ed esemplari. E poi ancora chiedo: mentre questi hanno lavorato per mesi a sbancare terreni, cementificare il sottobosco, tagliare e danneggiare piante d’alto fusto, possibile che nessuno di chi avrebbe dovuto abbia visto niente?
Anna Maria Micheli Kiel

Non vorrei sembrare eccessivo ma la tentazione di collegare gli ultimi scempi nell’area dell’Appia antica alla scena umiliante delle risse in Campidoglio è forte. Viene in mente la celebre frase di Tito Livio che abbiamo letto da ragazzi Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur, mentre a Roma si questiona, Sagunto viene conquistata (da Annibale). Questa volta la situazione è peggiore: non Sagunto ma Roma viene espugnata dai nemici e nemmeno si discute, ci si prende direttamente a schiaffi. Nella sua cronaca suRepubblica (domenica 24.11) Paolo Boccacci ha riportato questa dichiarazione di Rita Paris, responsabile del parco archeologico: «Dal 1967, dopo il vincolo di assoluta inedificabilità, sono stati costruiti oltre un milione e mezzo di metri cubi senza considerare capannoni industriali, tettoie, depositi a cielo aperto». Gliautori dell’abuso avevano l’impudenza di pubblicizzare così i loro manufatti: «Residenza di charme, circondata da uno splendido parco di due ettari di terreno, tra le rovine dell’Appia antica presso la tomba di Cecilia Metella». Prezzo dell’affitto: 916 dollari a settimana per turisti americani con voglia di classicità. Devo però una rassicurazione alla signora Micheli Kiel: l’intervento c’è stato grazie alle denunce che finalmente arrivano ma anche grazie all’azione del municipio interessato. Basterà? Non lo so. Mezzi e strumenti di controllo sono quelli che sono, la burocrazia è lenta anche per evitare opposizioni in un possibile contenzioso, i costruttori non si fanno certo scrupoli. Ogni anno un pezzo di Appia sparisce con un danno che non investe solo Roma o l’Italia ma l’intera cultura occidentale.

Repubblica 27.11.13
La ricerca condotta dall’università di Bonn
L’ossitocina spinge verso la propria partner
Fedeli con un ormone, scoperto il segreto dell’amore eterno
di Andrea Tarquini

BERLINO Care donne, cara altra (e migliore) metà del cielo, non disperate. Il vostro partner maschio, si sa, è spesso spinto da istinti primordiali a curiosità intime e voglia d’avventure fuori dalla coppia, insomma all’infedeltà. Eppure un rimedio naturale in teoria esiste: è l’ormone della tenerezza di coppia, l’ormone della fedeltà maschile. Si chiama ossitocina, e se in modo naturale (con frequenti carezze e coccole) la coppia se lo somministra, o se meglio ancora esistessero congegni facili come spray nasali per dosarlo a lui su richiesta di lei, allora le infedeltà maschili oggetto di spesso triste cronaca quotidiana diverrebbero cosarara. Incredibile ma vero: ce lo dice la ricerca di un team dell’università di Bonn, rilanciato nel web e su carta a livello mondiale dalla National academy of sciences americana.
Peccato che le donne tradite più famose della storia recente non lo abbiano saputo prima: un’alta dose di carezze e coccole esalta nel partner maschio la voglia di fedeltà, sveglia in lui il desiderio verso la partner, spegne la tentazione di cercare intimità e tenerezza altrove. E peccato soprattutto che il metodo usato dai ricercatori dell’università di Bonn e della National academy of sciences non si sia tradotto in pratica commerciale. Già, perché i test da cui deriva il verdetto sono stati condotti affidando a quaranta maschi eterosessuali dosi di spray nasale (come le gocce nasali contro il raffreddore) cariche dell’ormone ossitocina. E hanno segnalato che l’ossitocina appunto spinge i maschi, se accoppiati, alla fedeltà e al desiderio verso la partner e all’indifferenza verso “l’altra”, l’eterna rivale.
Forse, se la ricerca fosse stata condotta secoli addietro, la Storia dell’umanità si sarebbe risparmiata le conseguenze digrandi infedeltà. Sissi d’Austria, la splendida e amata imperatrice del regno dell’aquila bicipite, se non fosse stata sistematicamente tradita da Francesco Giuseppe non avrebbe amato, a quanto si dice, l’affascinante conte Andrassy, leader del Risorgimento ungherese. O Lady Diana, se Camilla non avesse messo il suo zampino nel difficile Royal Wedding di allora, non sarebbe precipitata nella disperazione e nella tragica morte. E che dire della bellissima, aristocratica Jacqueline Kennedy o di Veronica Lario?
L’ossitocina può diventare la panacea della fedeltà, insistono i ricercatori di Bonn. Valla pena di ascoltarli, ne va della felicità quotidiana di molti di noi. Se i maschi hanno una dose superiore alla media di ossitocina nel loro cervello cresce in loro la voglia di tenerezza.
La monogamia, tra i mammiferi, è la regola, avverte René Baumann, responsabile dello studio dei ricercatori di Bonn. Ma aggiunge subito: “Il genere umano costituisce piuttosto l’eccezione a questa regola”. La tentazione dell’infedeltà, specie tra i maschietti, la curiosità verso “l’altra”, è un motore biologico. Ma l’ossitocina, soprannominata dagli scienziati di qui “l’ormone delle coccole”, può correggere difetti o vizi dei maschi rafforzando la tendenza monogamica. Se è prodotta dal proprio organismo (su stimolo della partner coccolosa) o assunta con lo spray nasale dell’esperimento, nel cervello di lui si attiva uno stimolo che lo fa sentire felice, desideroso e maschio verso la partner, non verso le altre. «È un meccanismo biologico simile a una droga, come con l’assunzione di droghe l’ossitocina spinge i maschi a reagire a uno stimolo e a un sistema di ricerca di ricompensa dello stimolo che agisce sul loro cervello». E in generale, l’ossitocina rende i maschietti, di solito desiderosi di mostrarsi freddi o indifferenti per presunta virilità, più sensibili ed empatici verso lo stato d’animo degli altri. A cominciare dalla partner. Ecco perché è bene che le coppie continuino per anni o decenni a tenersi per mano, carezzarsi o coccolarsi: è vaccino contro il rischio dell’infedeltà di lui. Peccato che le dosi di spray nasale di ossitocina non siano sul mercato, altrimenti molte donne regalandole ai compagni per Natale avrebbero una vita sentimentale più felice o tranquilla.

Repubblica 27.11.13
Dolore e dignità
Così le relazioni umane ci salvano dall’indifferenza
Nel nuovo libro dello psichiatra Eugenio Borgna la riflessione sulla sofferenza e la malattia
di Luciana Sica

Al cuore del nuovo libro di Eugenio Borgna c’è una riflessione molto tesa sulla sofferenza e la ma-lattia, sulla loro significazione umana, con un continuo rimando alla lezione di Rilke: il dolore riconduce nella interiorità la esteriorità della nostra esperienza del mondo. E il compito di un medico sarebbe anche quello di riconoscere alla persona che “cade” nella malattia la ricerca oscura di un “altro” destino, comunque l’esigenza e la via di una trasformazione, paradossalmente più vicina alla vita rispetto a certe sue sonorità tanto vuote e assordanti.
Certo, se Borgna fosse solo uno psichiatra, per quanto straordinario, La dignità ferita(Feltrinelli) avrebbe potuto deragliare tra i vagoni plumbei di una disciplina che spesso sembra difettare di ogni vita. Ma Borgna, quel signore che nella stagione basagliana ha smantellato il manicomio di Novara, è un intellettuale innamorato di poesia e di letteratura, e quindi di musicalità delle parole, di filosofia — delle più ardite esplorazioni della mente piuttosto che di tecnicismi astratti. Con lui il pericolo di ritrovarsi per le mani un orrendo,illeggibile manuale non c’è mai stato, ne ha scritti tanti di libri bellissimi, difficilmente poteva esserci ora il rischio dell’aridità concettuale e della noia.
Qui — in queste pagine appassionate, coinvolgenti — del corpo ferito dalla malattia si parla innanzitutto come dell’espressione di un’intimità dell’anima oltraggiata dalla perdita della fiducia e della speranza. Borgna citaGuerra e pace di Tolstoj: il profondo dolore di Natascia suggerisce che ogni malattia, non solo quella psichica, ha una sua propria forma legata a diversi stati d’animo, alle emozioni meno trasparenti e dicibili. Lo stesso Thomas Mann, nei Buddenbrook, scrivendo del tifo che colpisce un adolescente, entra a pieno titolo nelle enigmatiche correlazioni tra anima e corpo, convinto già allora che ogni malattia somatica sempre si accompagna a risonanze psichiche decisive nell’aiutarci a resistere o meno alla malattia. Per dirla con la sobrietà elegante di Borgna, «non sono cose dimostrabili, ma il vivere e il morire sono intrecciati l’uno all’altro; e talora si muore quando non c’è più il desiderio di vivere, e talora non si muore quando ci sia il desiderio di vivere: questo, forse, è possibile immaginarlo».
Fonte originaria dei diritti umani, al centro del lessico della sinistra di ogni tempo, la parola “dignità” che qui impegna l’autore — non solo sul versante della relazione terapeutica — oggi sembra particolarmente ferita dall’indifferenza e dal male nelle sue infinite forme di espressione. Scrivendo delle sue fondazioni storiche e filosofiche, ma anche delle lacerazioni della dignità, è forte il “j’accuse” di Borgna nei confronti della sua disciplina amata-odiata che in anni non lontanissimi (e ancora oggi con altre modalità) si è così colpevolmente alleata alla sociologia e alla politica teorizzando la distinzione tra una vita degna di essere vissuta, quella “normale”, e la vita che invece non lo sarebbe, contrassegnata dalla difficoltà del fare, dall’impossibilità dell’eterna efficienza. E invece, puntualizza Borgna citandoKant, ogni essere umano è o dovrebbe essere sempre un fine e mai un mezzo, ogni uomo conta aldilà di ogni sua particolare connotazione: possiamo offenderne la dignità, non rispettandola, anche con le parole che diciamo o che soprattutto non diciamo, ma può anche darsi che non riusciremo mai a privarlo del tutto di quel suo sentimento così soggettivo e mai del tutto violabile.
Certamente sanguinano le ferite alla dignità delle persone, quando escludiamo di avere tempo per quella minima attenzione — appartiene all’ordine della grazia, diceva Simone Weil — che consenta di andare incontro alle loro attese e alle loro angosce. Qui il pensiero di Borgna non esita ad allargarsi a una sfera decisamente politica, con una denuncia del silenzio, di quella che lui chiama l’indifferenza del cuore, davanti all’estremo dolore degli ultimi della terra — così vicini così lontani — che tutto lasciano alle spalle nella speranza spesso impossibile di cambiare la propria vita, anzi di salvarla. Secondo l’autore, non si coglie il dramma di ogni forma di malinconia e di solitudine umana, proprio come di ogni forma di emigrazione, se innanzitutto non si rispetta la presenza di una struggente nostalgia di vicinanza umana e di qualche accoglienza.
Ci sono modi di essere, forme di vita, che aiuterebbero a mantenere la dignità e a testimoniarne la grazia, con la possibilità di creare relazioni umane dotate di senso, più autentiche e creatrici. Qui Borgna chiama in soccorsoun grandissimo come Iosif Brodskij, il Nobel russo per la letteratura nell’87, che poco prima di morire in un suo bellissimo saggio ricollegava la dignità umana alla gentilezza e alla civiltà dei modi: un modo di conoscere le persone e di prendersene cura, di evitare sempre le parole che feriscano, un ponte che consente di uscire dai confini angusti della soggettività a favore di invisibili alleanze e comunità di destino.
Non proprio un discorso astratto, visto che le relazioni quotidiane sono radicalmente influenzate dalla presenza o dall’assenza della gentilezza, nei modi di essere e nei modi di parlare. Eppure sì, il tutto rischia di suonare come qualcosa di nostalgico, in un mondo dove trionfa la disfatta di ogni mitezza (del sorriso e delle lacrime, non esita a scrivere Borgna), in un carosello senza fine di parole, silenzi, gesti che fanno male, non arginano affatto paure e fragilità, lasciando un senso penoso di vuoto e di smarrimento.
Cosa possa fare la psichiatria per il rispetto della dignità, è nella tesi radicale di questo libro coraggioso di Eugenio Borgna: una scienza umana e sociale — non solo naturale — può e deve indicare l’importanza psicologica, e anche politica, di relazioni interpersonali che non siano divorate dalla funzionalità ma animate dalle “ragioni pascaliane del cuore”, consegnando un qualche senso al dolore e a volte alla disperazione. Una tesi nel segno dell’ottimismo, che lo stesso Borgna non trascura come pura ma necessaria illusione.
nell’immagine: Francisco Goya Il cortile dei pazzi (1794)
IL LIBRO: La dignità ferita di Eugenio Borgna, Feltrinelli pagg. 240 euro 17

Repubblica 27.11.13
Ritrovato il tempio buddista più antico del mondo

KATMANDU — Alcuni resti di una struttura in legno, che secondo un team di archeologi potrebbe essere il più antico tempio buddista del mondo, sono stati rinvenuti nel sud del Nepal. Kosh Prasad Acharya, un esperto nepalese che ha lavorato al progetto insieme agli archeologi britannici dell'università di Durham (Inghilterra), ha fatto sapere che i resti sono stati scoperti durante alcuni scavi all’interno del tempio Maya Devi, situato nel sito religioso e di pellegrinaggio di Lumbini, considerato il luogo di nascita di Buddha e patrimonio mondiale dell’Unesco dal 1997. I test scientifici avrebbero confermato che si tratta di una struttura risalente al VI secolo a.C. Prima di questa scoperta, ha detto Acharya, si pensava che la più vecchia costruzione buddista fosse una colonna con alcune iscrizioni risalente solo al III secolo a. C. I risultati della ricerca sono stati pubblicati nel numero di dicembre della rivista Antiquity.
Sinora, molti studiosi hanno ritenuto che Buddha, noto anche come Siddhartha Gautama, sia nato tra VI e V secolo a.C. a Lumbini, situata a circa 250 chilometri a sudovest della capitale nepalese Katmandu, al confine con l’India.

Repubblica 27.11.13
All’incontro da Laterza in ricordo del giornalista un messaggio di Napolitano
Nello Ajello, il racconto della cultura a sinistra
di Raffaella De Santis

La cultura e la politica, il giornalismo e la passione civile. Sono gli interessi che hanno animato la vita di Nello Ajello. Il giornalista, storica firma di Repubblica e dell’Espresso, è stato ricordato ieri, a pochi mesi dalla scomparsa, nella sede romana di Laterza in un incontro affollato di amici, familiari, compagni di lavoro, esponenti del mondo politico, che insieme hanno riallacciato i fili di una ricca esperienza. Ha introdotto Giuseppe Laterza, editore dei saggi più importanti di Ajello, che ha rievocato l’amicizia di Nello con il padre Vito e il ruolo di «costante accompagnamento e dialogo» avuto con la casa editrice. Tema del convegno: «C’eravamo tanto amati. Intellettuali e sinistra ieri e oggi». Un titolo indovinato, perché di quell’amore complicato e via via sempre meno ardente, Nello ha ripercorso le alterne fasi.
Saggista, studioso di storia e di letteratura, liberale di sinistra, Ajello ha indagato con sagacia ed eleganza i mutamenti dei rapporti tra quella che un tempo si chiamava l’intellighenzia e il potere (Lo scrittore e il potere era il titolo di un suo saggio del 1974 edito da Laterza), senza fare sconti al suo mondo di appartenenza e senza venire meno alla vena ironica delle sue analisi. «Della storia d’amore tra partito e mondo intellettuale, Nello ha seguito avvicinamenti e distacchi, a partire da Intellettuali e Pci,scritto nel 1979 e ora ristampato da Laterza, cui è seguito Il lungo addio, del 1997. E lo ha fatto senza pregiudizi», ha detto Simonetta Fiori. Ajello aveva iniziato come redattore della rivista Nord e Sud di Francesco Compagna. Su quel periodo è tornato Tullio De Mauro: «La rivista fu una scuola importante, perché cercava di ampliare l’orizzonte del crocianesimo guardando agli studi sociologici ed economici». Per via di questa indissolubile alleanza tra idee e vita attiva, non potevano mancare le voci della sinistra. È stato Fabrizio Barca a sollevare la questione sul ruolo della sinistra oggi e sul rapporto mancato con il mondo della cultura: «Le grandi svolte sono sempre state influenzate dagli intellettuali, ma oggi i tecnici rischiano di essere risucchiati dagli specialismi e gli intellettuali si sono trasformati in opinionisti». Il dibattito si è acceso con gli interventi di Emanuele Macaluso, Mauro Calise, Alfredo Reichlin, Alessandro Campi, Enzo Golino. Alberto Asor Rosa ha sottolineato come solo un intellettuale non comunista come Ajello poteva riuscire a scrivere con la «chiarezza necessaria» la storia dei rapporti tra gli intellettuali e Pci, mentre Paolo Mauri ha commentato: «Se oggi Ajello dovesse scrivere un libro tra intellettuali e Pd ci metterebbe forse un quarto d’ora. In questo momento la cultura di sinistra non è più egemone, non ci sono più luoghi in cui parlare di politica».
Tra gli altri erano presenti il figlio Mario, Walter Tocci, Giuliano Amato, Giovanni Valentini, Piero Bevilacqua, Andrea Vianello, Bruno Manfellotto. Ed è arrivato anche un messaggio di Giorgio Napolitano: «I suoi scritti sui rapporti tra intellettuali e Pci hanno lasciato il segno per la loro acutezza e accuratezza». Tra le ultime pubblicazioni di Nello iTaccuini del Risorgimento,nati su Repubblica e pubblicati da Laterza.

Repubblica 27.11.13
La rivista “Nature Neuroscience” denuncia le norme italiane contro gli esperimenti sulle cavie, dopo le proteste degli animalisti
I limiti della scienza
Tagli, leggi e ignoranza. Tutti i nemici della ricerca
di Elena Dusi

Il taglio dei finanziamenti, le condanne dell’Aquila, il caso Stamina, la legge sulla sperimentazione animale.
Sono tutti episodi con un minimo comun denominatore: l’Italia non sembra essere un paese per scienziati. Alla conclusione arriva un duro editoriale che la rivista
Nature Neuroscience dedica al nostro paese. “La ricerca biomedica italiana sotto attacco” è il titolo dell’articolo, che parte scrivendo: «Gli ultimi due anni sono stati un periodo molto duro per gli scienziati italiani». L’editoriale prosegue citando la nuova “legge miope” sulla sperimentazione animale come «uno degli ostacoli insuperabili», capace di «minare alle fondamenta quasi tutta la ricerca biomedica del paese». E conclude puntando il dito anche contro gli scienziati, «colpevoli di non aver spiegato in termini adeguati i metodi e i fini della loro ricerca, facendo sì che false informazioni e sfiducia si diffondessero tra la popolazione».
Nature è un gruppo editoriale che ha sede a Londra e insieme alla rivista americana Science pubblica tutti i più importanti risultati scientifici ottenuti nel mondo. Nei suoi editoriali non è mai stata tenera con l’Italia. Lo scorso aprile ci ha accusato di avallare il metodo Stamina «usando i pazienti come animali da esperimento». Ma tra tante ombre, la rivista ha anche riconosciuto le nostre luci. Due giorni fa il direttore Philip Campbell era al Quirinale per consegnare i “Nature Award for Mentoring in Science” a tre importanti scienziati italiani, scelti per la loro bravura nel formare giovani allievi.
Michela Matteoli, premiata lunedì al Quirinale con due colleghi, fa ricerca sulle sinapsi del cervello all’università di Milano. Così prova a spiegare la contraddizione di un paese premiato per la bravura dei suo maestri ma additato (sempre secondo Nature Neuroscience)per “il profondo fossato che divide gli scienziati italiani dal loro governo”. «La scienza in Italia ha delle punte di diamante nonostante i grandi ostacoli che la politica pone sul nostro cammino». Anche Campbell sottolinea la natura dottor Jekyll-mister Hide della nostra ricerca. «L’Italia sta diventando sempre più ostile alla scienza e agli scienziati, attraverso tagli dei fondi e restrizioni legislative. Questo non fa presagire bene per il vostro futuro economico». Eppure «il paese produce molti scienziati di valore mondiale. Spero che loro sentano la nostra solidarietà e che la corrente della politica viri in loro favore».
I venti che tirano per ora sono piuttosto di guerra. E dopo la giornata da tregenda vissuta dal centro di Roma lunedì, con i malati di Stamina che hanno versato il loro sangue di fronte a Montecitorio, un’altra giornata di battaglia èprevista per venerdì a Milano. Il gruppo “Animal Amnesty” ha organizzato una marcia verso l’Istituto Farmacologico Mario Negri, che utilizza animali per le sue sperimentazioni. Gli autobus degli attivisti partiranno da una decina di città. E dopo il precedente dello scorso 20 aprile, quando un gruppo di animalisti fece irruzione nel dipartimento di farmacologia dell’università di Milano liberando i topolini e un coniglio, questa volta la questura ha imposto il suo stop. “Per motivi di sicurezza – scrive Animal Amnesty su Facebook – non sarà possibile chiudere il corteo in prossimità dell’Istituto. Il punto d’arrivo è spostato a oltre un chilometro dal Mario Negri». «Lo scopo è quello di intimidirci, ma si otterrà l’effetto contrario».
La controversa legge sulla sperimentazione animale nasce da una direttiva europea del 2010. Nonostante Bruxelles vietasse ulteriori inasprimenti delle norme, l’Italia ha inserito vari emendamenti restrittivi. Il testo modificato è uscito dal Parlamento il 6 agosto ed è stato approvato solo in via preliminare (quindi non è ancora effettivo) dal Consiglio dei Ministri giovedì scorso. Prevede il divieto di allevare e di usare in laboratorio cani, gatti e primati (già oggi l’80% delle cavie usate in Europa sono topi e ratti) e obbliga a somministrare analgesici prima di ogni procedura, iniezioni incluse. La norma della legge 96 del 6 agosto 2013 che inquieta gli scienziati e che ha spinto Nature Neuroscience a parlare di “attacco alla ricerca italiana” è però un’altra: quella che “vieta l’utilizzo di animali per gli xenotrapianti”.
Gli xenotrapianti sono trapianti di cellule od organi da una specie all’altra. Buona parte della ricerca oncologica oggi si svolge prelevando delle cellule dal tumore di un paziente e impiantandole nei topolini, per seguire nell’animale andamento della malattia ed effetto delle cure. «La nuova legge ostacolerebbe la ricerca di nuove terapie contro il cancro. Il problema riguarda gli xenotrapianti, ma anche i test di tossicità dei nuovi farmaci. In Italia un laboratorio su due, fra quelli che effettuano ricerca preclinica, vedrebbero il loro lavoro compromesso» spiega Pier Paolo Di Fiore, ex direttore dell’istituto di ricerca oncologica Ifom e professore all’università di Milano.
Contro questa eventualità, i ricercatori dell’associazione “Pro Test” hanno manifestato il 19 settembre a Montecitorio e hanno organizzato conferenze nei prossimi giorni in varie città. Tutti i direttori degli Istituti di ricerca oncologica in Italia hanno firmato la petizione della Federazione italiana scienze della vita. Un’altra raccolta di firme su www. salvalasperimentazioneanimale.it ha raggiunto 13mila adesioni. Il 29 novembre la sede del Cnr ospiterà il convegno “Spera - Sperimentare per curare” per trovare metodi efficaci di comunicazione del ruolo della sperimentazione animale. «In realtà ci siamo sempre sforzati, eccome di spiegarlo» dice Matteoli, che lavora nel dipartimento assaltato ad aprile. «Ma di fronte all’uso dell’emotività non abbiamo strumenti. I servizi in tv parlano di sperimentazione mandando in onda immagini di gattini maltrattati. Ma noi usiamo topi, e seguiamo fior di controlli e precauzioni, previsti già dalla legge attuale». E proprio la mancanza di “comprensione reciproca” fra cittadini, ricerca e politica, sottolinea Nature, è il tratto comune che lega tutti gli episodi degli “anni orribili” vissuti dalla scienza in Italia.

Repubblica 27.11.13
Caro presidente, caro premier ecco perché il nostro paese sta morendo
di Elena Cattaneo

Il mondo ci guarda esterrefatto. L’editoriale diNature Neuroscience addita l’Italia come un esempio negativo a cui gli altri paesi occidentali devono guardare per evitare di fare la stessa fine. L’oggetto della reprimenda è la legge sulla sperimentazione animale votata dal Parlamento italiano che, di fatto, fermerà ogni sviluppo della ricerca biomedica, nel senso che comporterà un peggioramento delle capacità di lavoro dei nostri gruppi di ricerca. Peggiorerà la loro capacità di attrarre con la forza delle loro idee finanziamenti stranieri: nostri soldi che andranno quindi alle ricerche – anche sugli animali - degli altri Paesi. Ebbene, se si cercano risposte sul perché molti giovani, scienziati ma non solo, fuggono dall’Italia, ecco la risposta. Con queste leggi, il Paese non solo umilia la scienza e la cultura, ma umilia i nostri figli, suggerendo loro che il loro impegno e i loro studi a questo Paese non servono. Queste “non scelte” politiche lasciano frastornati i colleghi all’estero, abituati a lavorare con scienziati italiani internazionalmente stimati e competitivi. Ci chiedono: ma come è possibile che versi in condizioni così pietose il Paese dove lavorano Luigi Naldini, che a Milano ha messo a punto un’avanzatissima terapia genica che utilizza alcunivirus modificati, o Michele De Luca che con il suo Centro di Medicina Rigenerativa a Modena, insieme al San Raffaele, ha sviluppato trattamenti straordinari con staminali per due condizioni di malattia, oppure Giacomo Rizzolatti, un neuroscienziato che alla soglia della pensione ha sbaragliato la ferrea competizione dello European Research Council e che tutto il mondo ci invidia per la spettacolare scoperta dei neuroni specchio (usando scimmie) e che ora punta a capire l’autismo. Potrei andare avanti a lungo. Forse non tutti si rendono conto di quanto arido sia il nostro deserto. Gli stranieri che ci offrono opportunità lontano da qui si chiedono perché continuiamo a restare. E si prendono i nostri giovani. Ma noi, meno giovani, continuiamo a sentire il dovere di restare e lottare, anche in nome di una Costituzione che prevede il diritto di fare ricerca. Avendo conosciuto, anche sulla mia pelle, lo sfacelo di leggi antiscientifiche, mi chiedo come l’Italia riesca ancora a dare alla luce a scoperte e scienziati così unici al mondo. Signor Presidente del Consiglio, Signor Presidente della Repubblica, non so dirvi per quanto resisteremo. Bisogna far qualcosa. Il Paese muore.
biologa e senatrice a vita

Repubblica 27.11.13
Domenico Quirico. Cronache del male dagli abissi siriani
È uscito per Neri Pozza il libro scritto con Pierre Piccinin
di Stefano Malatesta

Quando qualcuno rivela di aver incontrato il Male in genere si tratta di una allucinazione, oppure di millantato credito. Ci sono però dei casi in cui il male è così evidente e fisico e ti riguarda così direttamente che è impossibile ignorarlo e il più carogna di questi mali ha sempre una forma umana. Gli antichi romani dicevano: «Homo homini lupus». Domenico Quirico, inviato di guerra de La Stampa, incontrò il male l’8 aprile 2013, in Siria. Dopo le prime settimane gli scontri della guerra civile nel paese avevano preso un andamento casuale e confuso, le alleanze non sembravano così certe e non si capiva bene chi stava con chi. E molti gruppi si erano trasformati in bande di razziatori e di briganti. Lo scopo di Quirico era di chiarire tuttoquesto. Il nostro inviato era partito insieme a un altro giornalista, il belga Pierre Piccinin da Prata. Arrivati in Siria gli dissero che non sarebbe stato possibile raggiungere Damasco. Il giorno dopo i due giornalisti decisero comunque di mettersi in viaggio per la capitale siriana, ma appena usciti dal paese la loro macchina fu bloccata da un pickup da cui scesero due energumeni, che li massacrarono di pugni e calci. E poi ripartirono a tutta velocità portandoli in una località dove le case erano adibite a carceri.
Il clima della guerra civile in Siria era caduto talmente a livello primordiale che per finanziare le loro imprese molti capibanda hanno cominciare a sequestrare donne e bambini per chiedere poi il riscatto, una pratica comune che si è diffusa con grande rapidità. In un articolo ben documentato sulla New York Review of Books,
Charles Glass ha raccontato la storia di come il corpo del giovane leader di questi guerriglieri, caduto durante recenti scontri, chiamato Ribal, sia stato scambiato con la liberazione di otto prigionieri. Quando la giovane e bella vedova si presentò perché le fosse consegnata la salma, venne immediatamente fermata, contraddicendo un principio basilare dell’Islam, una volta molto rispettato, che considera sacri gli ospiti. Furono abbastanza accorti nel non trattarla male, come lei stessa dichiarò, e dopo qualche giorno venne liberata e scambiata con cinque donne prigioniere e un pacco di medicine. Più tardi il capo dei ribelli mandò un regalo a chi aveva condotto la trattativa per la vedova, una pistola, in segno di amicizia.
Si potevano concludere altri affari del genere e probabilmente il rapimento di Quirico rientrava in questo contesto. Ma i due giornalisti ebbero un trattamento molto diverso: fin dall’inizio i maltrattamenti e le torture furono brutali e prolungati. Così, nei pochi momenti in cui riuscivano a ragionare, Quirico e Piccinin arrivarono alla convinzione che non l’avrebbero scampata. Altrimenti non avrebbero avuto interesse a “guastare la merce”. Questa sensazione di essere alla fine era acuita dal comportamento e dall’aspetto dei carcerieri, dalle facce lombrosiane da killer che si comportavano di conseguenza. Avevano un modo di torturare spontaneo, quasi naturale, era una routine per loro. Non è stata una galera, è stato un calvario durato centocinquantadue giorni che adesso è raccontato in un libro molto emozionante, scritto a quattro mani dai due giornalisti: Il Paese del Male — 152 giorni in ostaggio in Siria(Neri Pozza). Il libro è insieme catalogo di orrori e cronaca nera. Uno dei giochi malefici più popolari era quello di entrare senza preavviso nelle celle e di puntare la pistola alla tempia dei prigionieri e finalmente premere il grilletto, sparando a vuoto. È un miracolo che Quirico e Piccinin abbiano resistito a tutte le violenze e che siano ancora tra noi.
C’è solo una osservazione da fare e riguarda il titolo. Non esiste un solo paese del Male, ne sono esistiti molti e tutti sembravano nazioni civili, come la Germania. Gli eredi dei samurai, questi delicati creatori di Ikebana e di poesie haiku di tre righe, quando hanno preso Nanchino, durante l’invasione della Cina, per festeggiare il successo fecero a gara a chi tagliava più teste di cinesi. Vinse un ufficiale che riuscì a tagliare centotrenta teste in un solo giorno. Poi facevano le foto con i decapitati a fianco, e le mandavano ai parenti in Giappone con saluti e baci. Ricordate le foto sull’impiccagione di Cesare Battisti, quel nobile italiano che aveva la colpa di aver optato per la sua patria? In una di quelle immagini, tra le più ignobili che siano mai state scattate, si vedono ragazzi e militari austriaci assiepati accanto alla forca con l’impiccato ancora con la corda al collo, come se fossero di domenica davanti a un fotografo del Prater. Una volta Conrad ha detto che non è necessario credere in una fonte sovrannaturale del Male: gli uomini da soli sono perfettamente capaci di qualsiasi malvagità.
Oggi alle ore 18.30 Domenico Quirico presenterà il suo libro a Roma, presso lo Spazio Mastai (Piazza Mastai 9) Saranno presenti Emma Bonino ed Ezio Mauro Ingresso libero

LIBRO Il paese del male di Domenico Quirico e Pierre Piccinin Neri Pozza pagg.176 euro 15

Repubblica 27.11.13
Il ritorno di Nanni Moretti protagoniste sono tre donne
A gennaio le riprese di “Mia madre”
di Franco Montini

ROMA L’universo femminile irrompe nel cinema di Nanni Moretti. Saranno tre donne, di altrettante generazioni, le protagoniste del nuovo film del regista, titolo provvisorio Mia madre. La lavorazione si svolgerà interamente a Roma e le riprese inizieranno a cavallo fra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio.Mia madre, precedentemente annunciato col titoloMargherita,è prodotto dalla Sacher Film e dalla Fandango con la francese Le Pacte e sostenuto da Rai Cinema e da Arte France Cinéma.
La sceneggiatura, scritta da Moretti con Francesco Piccolo e Valia Santella, è ancora segreta, ma si dice che la storia sia imperniata sulle sorprendenti e tragicomiche disavventure di una cineasta impegnata, colta in un momento di profonda crisi professionale e privata. Annunciando la partecipazione al progetto di Arte France Cinèma, il responsabile del gruppo, Olivier Pére ha spiegato che Mia madre«intende descrivere la confusione dei nostri giorni, la difficoltà a comprendere e a raccontare una crisi culturale e sociale che ci riguarda tutti da vicino».
A interpretare la regista impegnata sarà Margherita Buy, che ha già partecipato agli ultimi due film del regista: Il caimano eHabemus papam. Un record. Accanto alla Buy ci saranno anche un’anziana madre e una figlia. La prima potrebbe essere Elena Cotta, che Moretti ha provinato nei mesi scorsi. Dopo una lunga carriera teatrale, Elena Cotta è stata recentemente “scoperta” dal cinema: scelta da Emma Dante per Via Castellana Bandiera dove, con un’intensa interpretazione silenziosa, tutta affidata agli sguardi, ha conquistato la Coppa Volpi all’ultima Mostra di Venezia. Il ruolo della figlia sarà invece affidato a un’esordiente che Moretti avrebbe individuato organizzando una lunga serie di provini nei licei romani, seguendo un percorso a suo tempo già praticato, che lo portò a scegliere l’allora sconosciuta Jasmine Trinca per il ruolo di sua figlia inLa stanza del figlio.
In ogni caso Moretti non rinuncerà a essere presente anche come attore: inMia Madre interpreterà il ruolo del fratello di Margherita Buy.