giovedì 28 novembre 2013

l’Unità 28.11.13
Staminali, ascoltate i nostri ricercatori
di Carlo Flamigni


I malati e i parenti dei malati che protestano davanti ai palazzi del potere perché esigono (non chiedono, esigono) di poter utilizzare cure sperimentali sono, in ultima analisi, le stesse persone che esigevano di aver accesso alle cure anti-tumorali di un medico di Modena.
Quel medico che proponeva loro e che oggi sappiamo essere del tutto prive di effetti terapeutici. Queste persone chiedono che sia lo Stato a farsi carico di queste terapie, il che significa che esiste, a questo proposito, un coinvolgimento collettivo: se non fosse così, credo che non interverrei sul merito del problema. Queste persone sono certe di essere nel giusto e di chiedere cose che hanno il diritto di ottenere. Sono in buona fede e hanno tutti i motivi del mondo per battersi per le proprie ragioni. Credo che sia giusto discutere con loro i motivi che inducono molti di noi a ritenere che siano invece nel torto, con la premessa che il verbo discutere implica il dovere di entrambe le parti di ascoltare (non fingere di ascoltare ) l’altra, disponibili sempre a considerare con grande attenzione le sue ragioni e anche (soprattutto) a cambiare idea.
Debbo cominciare con una premessa, banale, ma necessaria: la medicina non è una scienza e non possiede verità assolute, è invece una disciplina empirica che vive sui consensi. I medici si confrontano continuamente con una serie di perplessità, molte delle quali prospettano soluzioni multiple e pertanto hanno bisogno di una selezione razionale: è utile un certo farmaco? Quando si deve considerare irreversibile uno stato comatoso? Quando considerare terminato uno studio sperimentale? Qual è la miglior definizione di un certo evento biologico? In questi casi è prassi affidare la soluzione del problema alle persone considerate più esperte e competenti, le quali decidono tenendo conto di alcune regole considerate adatte a quel particolare dilemma e scelte sulla base del principio di razionalità.
Tutti i medici sono consapevoli del fatto che un consenso comincia a morire dal momento stesso in cui è stato formulato: nuove conoscenze, migliori interpretazioni delle conoscenze in nostro possesso, ci costringeranno in tempi più o meno brevi a modificare la maggior parte dei consensi, qualche volta in modo clamoroso, qualche volta in modo impercettibile. Ma fino a quando il nuovo consenso non verrà formulato, l’esistente è la nostra verità, l’unica alla quale possiamo ispirare le nostre scelte. Perché, questo è un altro problema fondamentale, il percorso del medico non è illuminato da una luce che arriva dall’alto e, quando va bene, tutto dipende dalla fiaccola che gli hanno messo in mano quando ha iniziato il suo cammino.
I consensi non servono solo per stabilire se un determinato farmaco è utile o se invece i suoi effetti collaterali sono superiori a quelli ritenuti terapeutici, hanno anche altre finalità: ad esempio regolano la significatività delle esperienze e stabiliscono, solo per fare un esempio, che nessuna sperimentazione ha valore se non viene confermata, elencano le modalità necessarie per considerare utile e onesto uno studio clinico e via dicendo. Non accettare questa serie di regole è, ancor prima che stupido, disonesto: è disonesto affermare che la cosiddetta pillola del giorno dopo è embrionicida, perché l’Organizzazione Mondiale della Sanità, basandosi sui consensi dei suoi ricercatori, ha detto che non è così; è disonesto affermare che la gravidanza comincia dal concepimento, perché la stessa organizzazione ha stabilito che l’inizio della gestazione coincide con l’impianto dell’embrione in utero; è disonesto (ma anche molto stupido) affermare che i maschi della nostra specie diventano sterili perché le femmine della nostra specie prendono la pillola e poi riversano tonnellate di questi potenti ormoni nell’ambiente (insomma, fanno la pipi nei prati) e lo inquinano. Bisognerebbe tener conto di queste regole (e anche del fatto che una medicina senza regole certe si preannuncia come un vero disastro) quando si ragiona sulle medicine alternative, un’analisi che dovrebbe richiedere maggiore attenzione da entrambe le parti: perché è vero che alcune di queste medicine non riescono a dare alcuna prova della propria efficacia, ma è anche vero che alcune di esse (ad esempio le fitoterapie) ce le siamo dimenticate noi, posso stilare un elenco di molte pagine citando erbe che potrebbero avere capacità terapeutiche e che non sono mai state sperimentate. Ma lasciatemi dire alcune cose anche sulle cellule staminali: in questo Paese (e non accade purtroppo per tutti i possibili temi di ricerca) abbiano la fortuna di avere alcuni esperti considerati con grande rispetto da tutti gli scienziati del mondo. Ebbene questi esperti concordano nel dichiarare che non esistono prove dell’efficacia delle cellule staminali nella cura di alcune patologie, che non esiste a tutt’oggi una documentazione credibile della loro efficacia e che non è nemmeno possibile dichiarare che sono prive di effetti negativi. Per giustificare gli apparenti miglioramenti che sarebbero stati osservati nel corso di questi terapie sperimentali si possono elencare molte possibili cause, nessuna delle quali ha veramente a che fare col risultato di un effetto positivo delle cure.
Ho letto, con molto dispiacere, che i nostri scienziati sono stati accusati delle cose più sgradevoli e strane, e lo trovo profondamente ingiusto. Sarei veramente stupito se scoprissi che qualcuno di loro ha interessi personali e trova vantaggio nel prendere un partito piuttosto che un altro: ne conosco più d’uno (ad esempio ho lavorato a lungo nel Comitato di Bioetica con la professoressa Cattaneo) e ho per loro rispetto e ammirazione. Non ho alcun dovere nei loro confronti e non credo di essere conosciuto come persona dal giudizio facile, per cui vi prego di credermi se dico che si tratta di ricercatori pieni di umanità, dotati di una grande capacità di compassione, cittadini esemplari e trasparenti. Per favore, ascoltateli.

Repubblica 28.11.13
La riforma costituzionale del Barone di Münchausen
di Stefano Rodotà


La maggioranza di governo si riduce, le intese da larghe si fanno strette, e sembra pure che si restringa il programma delle riforme costituzionali. Ricordate? Il “cronoprogramma”, diciotto mesi per vincere una sfida che dura da anni, comitati di saggi, una sessantina di articoli da modificare: una costruzione barocca, per certi versi politicamente e culturalmente insensata, culminata nel disegno di legge costituzionale di manipolazione dell’articolo 138 della Costituzione, l’essenziale norma di garanzia scritta per mettere il testo costituzionale al riparo da forzature congiunturali. Ora si parla di tornare sulla via maestra, di circoscrivere le modifiche da apportare alla Costituzione e di seguire la procedura dell’articolo 138 nella sua integralità.
Che cosa accadrà in concreto, è troppo presto per dirlo. E tuttavia questa tardiva resipiscenza merita un momento di attenzione. Tardiva, perché fin dai giorni della formazione del governo Letta s’era detto che sarebbe stato più corretto, e anche più funzionale, avviare una revisione sui punti già assistiti da un sufficiente consenso (uscita dal bicameralismo perfetto, riduzione del numero dei parlamentari). Se fosse stata subito imboccata questa strada, oggi potevamo essere vicini all’approvazione di questa non indifferente riforma. Ma questa resipiscenza, proprio perché tardiva, fa nascere problemi che debbono essere subito messi in evidenza, che non possono essere furbescamente elusi o occultati.
Il primo riguarda il fatto che proprio questa inversione di rotta conferma che ormai la Costituzione viene considerata come una semplice pedina di giochi politici a breve, di convenienze. Non siamo di fronte ad un vero recupero della cultura costituzionale, ma quasi al suo contrario. Che questo, oggi, possa avere un effetto positivo, non è certo indifferente. Ma la complessiva temperie istituzionale non muta e altri effetti, tutt’altro che positivi, possono prodursi.
L’attenzione, allora, deve essere rivolta al disegno di legge di modifica dell’articolo 138, già approvato dal Senato in seconda lettura e che sta per essere portato alla Camera per la sua approvazione definitiva. Che fine farà? Sarà messo prudentemente in un angolo o si procederà con la logica delle azioni parallele? In quest’ultimo caso saremmo di fronte ad una sorta di stralcio, con un paio di questioni – bicameralismo, riduzione dei parlamentari – affidate alla procedura di un articolo 138 non modificato, mentre la questione di fondo, dunque la modifica della forma di governo, rimarrebbe prigioniera dello strappo determinato dalla manipolazione dell’articolo 138, divenuta così ancor più evidente e clamorosa.
È una soluzione inaccettabile, in cui si riflette soltanto la disperazione di una maggioranza che proclama in ogni momento d’essere forte perché sa benissimo d’essere debolissima, e che assomiglia sempre di più a quel barone di Münchausen che voleva uscire dalle sabbie mobili tirandosi per i propri capelli. Un doppio binario non è ammissibile. Si certificherebbe che, là dove si riesce a costruire quel consenso largo necessario per le riforme costituzionali, si possono rispettare le regole. Dove, invece, questo non è possibile, si procede per strappi e forzature. Che razza di democrazia “costituzionale” diverrebbe la nostra?
Considerando il merito delle riforme, poiché vi sono molti modi di affrontare le questioni ricordate, si deve discutere seriamente almeno quali sarebbero gli effetti dell’abbandono del bicameralismo perfetto per quanto riguarda la nomina del presidente del Consiglio, che può avere riflessi sul ruolo del presidente della Repubblica; la questione della fiducia al governo; il procedimento legislativo, che non può essere totalmente concentrato in una sola camera. Inoltre, la furia un po’ cieca che ha portato a ritenere, troppe volte con argomentazioni soltanto di risparmio di spesa, che l’efficienza si raggiunga con il taglio dei parlamentari, dovrebbe essere temperata da una riflessione che, mantenendo fermo questo criterio, tuttavia si chieda quanto tutto questo inciderebbe sulla rappresentanza dei cittadini. Scomparsa, infatti, l’elezione diretta del Senato, questa sarebbe tutta affidata agli eletti alla Camera dei deputati, il cui numero diventa determinante. Emerge così la questione generale del mantenimento, attraverso la riforma, del carattere parlamentare e rappresentativo della nostra Repubblica.
Si giunge così ad un punto chiave. Sembra di scorgere, dietro questo possibile cambiamento di linea, anche la volontà di creare condizioni più propizie alla riforma della legge elettorale. Se, tuttavia, questa assumesse caratteristiche sostanzialmente ipermaggioritarie, sacrificando tutto all’affermazione falsa che in tutti i paesi democratici immediatamente dopo il voto è sempre automaticamente identificata la maggioranza di governo (e la Germania di oggi? e la Gran Bretagna di ieri?), la forma di governo ne risulterebbe modificata in maniera surrettizia, impropria.
Non sollevo difficoltà. Cerco di indicare i punti di una discussione che può essere proficua se viene liberata dalle forzature e dai secondi pensieri che l’hanno finora accompagnata, e rischiano di inquinarla ancora. E, soprattutto, se viene ricondotta al nuovo contesto politico così bene individuato ieri da Piero Ignazi, ricordando quanto sia mutato da quello originario, di cui era parte organica un’altra idea di riforma costituzionale. Questa è la novità dalla quale non si può sfuggire, e mi pare che lo abbia opportunamente messo in evidenza, con anticipo, Pippo Civati sottolineando come, al di là del fatto contabile, non vi siano più politicamente i “numeri” per la riforma dell’articolo 138. Questa è la riflessione alla quale non ci si può sottrarre, a meno che la politica non si incaponisca nel ritenere che l’unico orizzonte possibile sia quello della brevissima convenienza, senza recuperare un briciolo del rispetto dovuto alla sua fondazione costituzionale e al modo in cui questa, con ben diversa sensibilità, è ormai percepita in una parte sempre più larga della società italiana.

l’Unità 28.11.13
Strage di Bologna, la beffa dei risarcimenti
Nella Legge di Stabilità saltano gli indennizzi promessi: 5 milioni
Paolo Bolognesi: «Questa legge non la voto». Il sindaco Merola: «Grave»
di Ariana Comaschi


Basterebbero 5 milioni. «“Spiccioli, vedrai che la facciamo”, mi aveva assicurato il ministro Graziano Delrio lo scorso 2 agosto a Bologna. Ora invece nella Legge di Stabilità gli indennizzi che aspettiamo da anni non ci sono. Ma io così non la voto». Dopo mesi di attesa si sfoga Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna e deputato Pd, che insieme al vicepresidente dell’Associazione italiana vittime del terrorismo (Aviter) Roberto Della Rocca avverte: «Se le cose rimanessero così il disprezzo dei familiari delle vittime per questo governo sarebbe totale». Stringata la rassicurazione del ministro per gli Affari regionali, «sono convinto che la Camera rimedierà e lavoriamo per questo». Ma le speranze riaccese dall’esecutivo hanno subìto un duro colpo. E la fiducia sembra spezzata.
L’annuncio che dopo tanti rinvii si è perso anche l’ultimo treno per dare una risposta alle vittime del terrorismo suscita infatti un coro di reazioni. Lo stop è «grave» per il sindaco di Bologna Virginio Merola, «vergognoso» per il segretario del Pd bolognese Raffaele Donini, appena riconfermato, che ora chiede «con forza che alla Camera sia trovata una soluzione: una dilazione ulteriore non è più tollerabile». «Gli impegni vanno rispettati, è una questione di giustizia per cui non può passare altro tempo», concorda la presidente dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna Paola Costi, mentre di «ennesima vergogna del governo Letta» parla Sel sotto le due torri. Per tacere dei commenti che a destra e nei dintorni prendono di mira Bolognesi, in sostanza per non avere portato a casa il risultato.
E dire che nell’aula del Comune di Bologna, affollata e commossa al 33°anniversario della strage alla stazione, sembrava cosa fatta: il governo Letta avrebbe finalmente risolto i problemi legati alla legge 204 del 2006 in favore di tutte le vittime di terrorismo e strage. Un passaggio indispensabile, da parte dello Stato, per assicurare una vita dignitosa ai sopravvissuti. E per testimoniare vicinanza a chi ha perso un familiare e spesso ancora non sa perché, come nel caso della bomba alla stazione di Bologna (85 morti e 200 feriti), rimasta senza mandanti. O di Ustica, dell’Italicus, di piazza Fontana e di piazza della Loggia...
Eppure la 204 è rimasta di fatto inapplicata. «Il governo Monti aveva accantonato un milione ricorda Bolognesi presso il commissario straordinario. Nella nostra proposta c’erano tre nuove norme per cui il centinaio circa di persone che ne hanno diritto avrebbero ricevuto vitalizi per un totale di 5 milioni». Le associazioni premono poi da anni per la revisione delle tabelle Inps e Inpdap su cui si calcolano gli indennizzi, con l’Inps racconta sempre Bolognesi è in atto da tempo un vero braccio di ferro, «non riconosce la 204 e invoca un’altra legge». Anche di questo aveva parlato con il ministro ad agosto, e pubblicamente Delrio si era impegnato: «Credo sia un atto dovuto, oltre alla verità dobbiamo anche una riconoscenza a questi familiari delle vittime, dobbiamo un risarcimento per la loro pazienza e la loro costanza».
Il ministro parlò allora di un provvedimento da inserire nell’imminente decreto sulla sicurezza. Si slitta però a settembre, pare più adatto veicolarlo con le misure per gli esodati. Finchè non si arriva all’ultima spiaggia, la Legge di Stabilità. I senatori bolognesi del Pd (Broglia, Lo Giudice, Ghedini, Sangalli) presentano un emendamento ad hoc. Ed ecco l’amaro risveglio, «con grande amarezza e profonda delusione vediamo che nel maxiemendamento predisposto per il voto di fiducia dei risarcimenti non c’è traccia. Gli impegni presi solennemente a Bologna a oggi non sono stati mantenuti», insorgono Bolognesi e Della Rocca. Il redde rationem è fissato ora alla Camera, Bolognesi coglie al balzo la palla lanciata da Delrio con una sfida: «Se davvero vogliono cambiare ci mettono due minuti. Presenterò io stesso l’emendamento necessario». Ma c’è chi già vede nero, come il capogruppo M5s in Comune a Bologna Massimo Bugani: «Mi auguro che Bolognesi si renda conto di essere stato preso in giro dai suoi colleghi e finti amici, e che se ne sia stancato».

l’Unità 28.11.13
La violenza del bangla tour
A Roma è caccia al nero
di Luigi Manconi e altri


Il deputato del Pd Khalid Chaouki ha presentato alla Camera un’interrogazione al ministro dell’Interno Angelino Alfano sui «bangla tour» che si stanno svolgendo in alcuni quartieri di Roma a opera di giovani neofascisti. Si tratta di vere e proprie ronde anti-immigrati e nello specifico anti-bengalesi che, come sostiene Chaouki, «evidenziano una violenza di chiara matrice politica e ideologica che sembra far capo a Forza Nuova, il gruppo di estrema destra romana». Attraverso l’interrogazione si vuole conoscere «quali provvedimenti il ministero dell’Interno prenderà per contrastare, quanto prima, il degenerare di tali azioni squadriste ai danni dei bengalesi e delle altre comunità straniere». La ragione di tanta violenza sarebbe da ricercarsi in un rito di passaggio «violento e vigliacco che individua nell’immigrato una preda “facile”, particolarmente indifesa. Condanniamo e respingiamo con forza una brutalità tanto feroce e vigliacca». Chaouki sostiene inoltre che un’assenza governativa e degli amministratori locali, sarebbe gravissima perché tocca proprio a loro trovare delle soluzioni a breve e a lungo termine. Si tratta dunque sia di mettere a punto provvedimenti in grado di far cessare queste attività, sia di pianificare politiche che incidano sull’aspetto più fragile e meno coltivato in tema di immigrazione: ovvero quello culturale.
È infatti attraverso gesti concreti che si costruisce un terreno fertile all’integrazione di persone straniere in Italia e che impedisce il proliferare di fenomeni quali le ronde o di gesti ostili all’immigrazione. In questo senso, e per spigare come i provvedimenti normativi influiscano sulla cultura dell’accoglienza, è utile ricordare il «pacchetto sicurezza 2009» firmato dall’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni con cui, oltre a introdurre il reato di immigrazione clandestina, vennero regolamentate le ronde attraverso la creazione di un albo presso le prefetture e definendo i requisiti per partecipare. Entrambi questi provvedimenti hanno avuto un effetto negativo sulla percezione collettiva dell’immigrazione. Per quanto riguarda il reato, infatti, da quel momento ogni persona straniera era vista come potenziale criminale da assolvere solo nel momento dell’esibizione del regolare titolo di soggiorno. La regolamentazione delle ronde era, poi, a sostegno del piano sulla sicurezza per cui i cittadini stessi dovevano prendersi cura del proprio quartiere. Quell’introduzione contestuale, però, non ha fatto altro che identificare come nemici gli stranieri che, in alcune zone d’Italia, soprattutto quelle in cui la Lega regnava, erano visti come degli invasori da allontanare. Per fortuna, a un anno dall’introduzione del «pacchetto sicurezza», erano poche le associazioni di volontari ad aver chiesto il riconoscimento ufficiale al sindaco e al prefetto: una a Treviso, una a Milano e un’altra a Bolzano.
I «bangla tour» dei giorni scorsi sono lontani dall’idea di Maroni, ma probabilmente l’effetto discriminante è lo stesso.

l’Unità 28.11.13
È morto Raimondo Ricci, bandiera dell’antifascismo genovese


È morto a Genova Raimondo Ricci, bandiera dell’antifascismo ligure. Novantatre anni, tra gli ultimi testimoni del Novecento, già presidente nazionale del’Associazione nazionale partigiani, ha dedicato la sua vita alla difesa dei valori della Resistenza.
Si è spento nella sua abitazione. Partigano, nelle mani della Gestapo Ricci fu torturato e imprigionato nel campo di concentramento di Mauthausen. Liberato, continua la sua battaglia morale e politica e, in qualità di avvocato penalista, difende i sindacalisti e i militanti comunisti nel dopoguerra. Presidente provinciale dell’Anpi nel 1969, parlamentare per tre legislature dal 1976, fa parte della commissione di inchiesta sulla P2 e davanti all’irruzione del terrorismo è una delle figure politiche che ha contribuito a costruire quel fronte tra istituzioni e movimento operaio che ha garantito la continuità dello stato democratico.
Giurista autorevole sarà anche membro del consiglio di presidenza della Corte dei Conti.
Nell’età avanzata, Raimondo Ricci dedica tutte le sue energie e il suo tempo all’Istituto Storico della Resistenza a cui fu chiamato per ricoprire il ruolo di presidente. Nonostante fosse quasi cieco, viaggia da una parte all’altra dell’Italia, passa da comizio a comizio, affascina i giovani. La sua voce attraversa le piazze e i cuori. In qualche misura diventa lui stesso un simbolo.
Nel giugno 2002, a quasi sessant’anni di distanza dalla fine del conflitto, ad Amburgo incontra per la prima volta Friedrich Engel, il responsabile dell’eccidio del Turchino, il carnefice a cui solo per merito della sorte era sfuggito. Anche questo accade in una vita non comune.
La camera ardente sarà allestita oggi, giovedì, dalle 8 alle 12 in Provincia, in largo Lanfranco. La salma sarà sepolta a Imperia.

l’Unità 28.11.13
L’eredità del Caimano fra estremismo e populismo
di Michele Ciliberto


Vorrei provare a svolgere una riflessione da una diversa distanza, senza lasciarmi influenzare eccessivamente dalle polemiche di questi giorni, individuando alcuni problemi. Cosa ha rappresentato Berlusconi nella storia italiana? In sintesi: ha dato, agli inizi degli anni Novanta, una risposta, da destra, alla lunga, e convulsa, crisi italiana e al tracollo della «Repubblica dei partiti».
E nel farlo non si è servito di strumenti di tipo fascista, ma ha fatto una operazione più complessa e pericolosa: si è mosso sul terreno delle forme democratiche e parlamentari, ma sostanziandole di contenuti autoritari ed anche dispotici. In questo senso, è completamente estraneo alla storia del moderatismo italiano, quale era stato rappresentato per quasi mezzo secolo dalla Dc: mentre quest'ultima si era situata al centro e nei suoi migliori esponenti guardava a sinistra, Berlusconi ha fatto l'operazione opposta: ha spinto lo schieramento moderato a destra, spostando l'asse, e gli assetti complessivi, della politica italiana attraverso una ideologia bipolarista che si è però configurata, sul piano storico, come una incarnazione del nostro tradizionale trasformismo. Dall'inizio alla fine della sua carriera politica, Berlusconi si è mostrato pronto a qualunque operazione, pur di salvare se stesso e il suo potere: è stato, sempre, un singolare intreccio di estremismo e trasformismo.
I luoghi nei quali questo estremismo si è espresso sono noti: svuotamento del Parlamento, rottura dell'equilibrio dei poteri, attacchi sistematici alla magistratura e, soprattutto, sostanziale rifiuto del vincolo «costituzionale» su cui è fondata la Repubblica, al quale ha contrapposto, come proprio tratto originario, il primato del popolo quale «principio» della legittimità e del potere democratico. Quando si apre lo scontro tra popolo e principi giuridici e costituzionali, sono questi ultimi che dovrebbero perciò sottomettersi al primo, dato il nesso diretto che esiste tra popolo e democrazia: se questo non avviene, e le regole non accettano di essere calpestate, c'è come abbiamo sentito dire in questi giorni un «colpo di stato». Qui estremismo e populismo si congiungono in modo compiuto, e la democrazia dispotica si spoglia delle «forme» in cui si era occultata, e si svela per quello che è stata fin dall'inizio: una contrapposizione frontale, e una alternativa, alla democrazia rappresentativa.
Ma tutto questo ed è l'elemento di «modernità» del fenomeno è stato reso possibile dalla profonda trasformazione generata dal berlusconismo nelle modalità di concezione e formazione delle «identità» personali; nelle forme della «comunicazione» sociale, sia individuale che collettiva e, di conseguenza, nella politica ridotta a puro «spettacolo» senza contenuto, di cui i vari leader anche quelli di sinistra sono stati a volta protagonisti, più spesso comparse, con una progressiva, e grave, trasformazione, e delegittimazione, del loro ruolo istituzionale e della funzione della politica in generale – cioè, in una parola, della democrazia. Al Parlamento è stato sostituito il «grado zero» della «spettacolarizzazione»: in questo periodo, e gli storici dovranno tenerne conto, è esistita infatti una terza Camera, accanto alle due previste dalla Costituzione: i talk-show, concepiti come sede effettiva di confronto politico e momento centrale, anche sul piano simbolico, di certificazione, e riconoscimento, dell'ascesa al potere e del successo personale.
A loro volta, questi processi «materiali» si sono connessi ed è un altro elemento di «modernità» a una ideologia assai potente che ha puntato con successo grazie alla azione dei media, alla fine dei modelli culturali e politici novecenteschi e alla crisi delle culture della sinistra su una serie di «valori» precisi: sfrenato individualismo; primato del privato sul pubblico, concepito come puro intralcio e impedimento al proprio successo individuale; giovanilismo; «valorizzazione» in chiave feticistica del corpo e delle donne; rifiuto del diverso; rigetto dell'«altro» in qualunque forma... Perfino lo sport è caduto sotto questa mannaia, riducendosi a puro affare economico e a strumento di affermazione personale e di potere. Ne è scaturito una profonda decadenza della nazione italiana, una drammatica degenerazione dell'ethos pubblico, un indebolimento dei vincoli sociali e politici, fondamento della nostra democrazia.
Ridurre un fenomeno così articolato e complesso a puro fatto italiano, o a un fenomeno da baraccone, oppure a un revival del fascismo sarebbe però profondamente sbagliato: certo, è stato potenziato da caratteri propri della nostra storia, da specifiche arretratezze nazionali. Ma la crisi della democrazia di cui il berlusconismo è una tragica degenerazione non è stata, e non è, solo un fatto italiano; né può essere superata se non se ne mettono a fuoco, con freddezza, le ragioni profonde, compreso il consumarsi delle culture politiche della sinistra e delle forme della politica di massa novecentesca. È con il problema della crisi della democrazia contemporanea oggi che bisogna confrontarsi, se si vuole chiudere effettivamente questo terribile ventennio.
Berlusconi è finito ma sono ancora vive le radici che hanno reso possibile la sua ascesa al potere e il suo lungo dominio.

l’Unità 28.11.13
Risposta a Macaluso

Dalla via italiana di Togliatti all’autonomismo del Psi
di Rino Formica


Pubblichiamo ampi stralci del testo inviato dall’ex ministro socialista a Emanuele Macaluso a proposito del suo libro «Comunisti e riformisti»

Caro Emanuele,
ho letto il tuo libro e dico subito che vi ho trovato conferma del fatto che passione e rigore possono essere tenuti assieme solo a partire da una grande esperienza politica, la tua, vissuta, tra l’altro in un rapporto diretto con Togliatti.
Il Togliatti da te raccontato (con il supporto di una corposa e selezionata documentazione) risulta un personaggio «incompreso». Infatti la via italiana al socialismo fu osteggiata dall’Urss e dal suo agente fiduciario ancorché di grande spessore politico e intellettuale, Secchia.
Una accorta storiografia oggi non registra più incertezze su questo punto, che tra la visione della democrazia progressiva che è stata di Secchia e quella di Togliatti non vi è solo una differenziazione tattica ma è di sostanza. Nella visione di Secchia le vie nazionali alla democrazia di matrice terzinternazionalista sono l’espediente per «entrare» nel campo della democrazia borghese per decretarne le incompatibilità e su queste innestare processi conflittuali a sbocco rivoluzionario. In Togliatti, all’opposto, l’idea della via nazionale al socialismo deve trovare le «vie» per rendersi compatibile e accompagnarsi per un lungo tratto con le esperienze di liberaldemocrazia, pena lo stesso esaurimento del progetto rivoluzionario e, dall’altro, l’affievolimento dello spirito delle Costituzioni di natura liberal-borghese. Gli interventi di Togliatti alla Costituente vanno letti come un continuo e travagliato esercizio di costruzione di un ponte tra queste visioni delle «Costituzioni delle libertà», diverse ma non estranee, le libertà e i diritti individuali e le libertà e i diritti dei movimenti sociali organizzati.
Questa è la grande operazione politica, vincente, di Togliatti, il legame indissolubile e la formazione di un blocco unico tra democrazia-antifascismo-Costituzione; questo è il suo capolavoro e, al tempo stesso, la grande scommessa di agganciare con la formula della democrazia progressiva le grandi correnti democratiche che si alzavano dalla nuova Europa e dalle frontiere liberate dai totalitarismi.
Il punto è che la via italiana al socialismo (con annesse «riforme di struttura») si costruisce tutta attorno a questo asse sistemico e ideologico. Fu, per Togliatti, un deliberato ed efficace esorcismo della questione democratica. Togliatti non risolse mai, fino al Memoriale di Yalta, il problema della democrazia e tutte le citazioni dei testi togliattiani da te utilizzate confermano questo nodo politico e teorico. Il modello democratico nazionale, per Togliatti, non ha il carattere generale, classico della liberaldemocrazia ma quello particolare segnato dalla Resistenza e dalla Costituzione.
Nell’importante intervento svolto da Togliatti l’11 marzo del 1947 all’assemblea costituente sul primo progetto di Costituzione, il leader del Pci definisce bene il ruolo che l’antifascismo deve avere nella costruzione del modello di democrazia nazionale, nel presidio della democraticità della Costituzione e colloca la «via italiana» e la «democrazia progressiva» in questo preciso punto di incontro-scontro tra forze democratiche e reazionarie. In sostanza l’antifascismo per Togliatti (ma per l’intera sinistra italiana perfino in quella di matrice socialdemocratica) non è semplicemente un sentimento democratico, un sentimento da alimentare di continuo con l’impegno civile e politico nella dialettica liberaldemocratica ma è il filtro selettivo delle nuove classi dirigenti, tanto più legittimate a governare quanto più ispirate dai principi «sociali» e di emancipazione.
Ed è su questo terreno della legittimazione antifascista delle forze politiche, al quale viene attribuito un valore discriminante (dentro o fuori la democrazia) che si forma lo schema compromissorio del sistema politico nazionale, schema che sarà ripreso e sviluppato dalle due culture politiche protagoniste della Costituente: il comunismo italiano e il cattolicesimo democratico.
E veniamo all’altro snodo del tuo libro: il Psi e il valore fondante dell’unità del movimento operaio inteso come scenario di fondo che ha, con alterne vicende, dominato la linea dei due partiti di massa della Sinistra italiana sino quasi alla fine degli anni ’70. Su questo punto va detto con chiarezza che il Psi non solo è dentro la logica unitaria ma ne è condizionato. Anche l’autonomismo di Nenni ne è subalterno. Infatti l’operazione del Psu è finalizzata ad accrescere il potere contrattuale dei socialisti (unificati) nei confronti della Dc ma non del Pci. L’autonomismo di Nenni non fuoriesce in nessun caso dall’unità del movimento
dei lavoratori, che resta in vincolo ideologico del socialismo italiano, fino a Craxi.
Tu sei convinto che la svolta di Berlinguer (una svolta «azionista» la chiami) trova una giustificazione nella radicalizzazione dell’autonomismo di Craxi, e vedi giusto. Dove non convengo con te è su un giudizio indifferenziato e negativo delle due svolte, di Craxi e di Berlinguer, anche se si sono tenute assieme e assieme sono cadute e soprattutto è difficile da sostenere che una ripresa (creativa) della «vita italiana» di Togliatti (come ebbe a sostenere Napolitano nel 1981 in polemica con Berlinguer) avrebbe consentito da sola la ripresa del rapporto unitario a sinistra e dato l’avvio alla normalizzazione del sistema politico nazionale. Così come è da condividere pienamente l’idea, con la quale chiudi il libro, secondo cui il cortocircuito tra diversità-questione moralegiustizialismo non soltanto è completamente estraneo alla tradizione del togliattismo e del comunismo italiano, anzi ne capovolge la logica «laica» (la laicità della politica è propria della visione di Togliatti) ma ha compromesso (e speriamo non definitivamente distrutto) l’identità della Sinistra in Italia. Resta il dubbio che questa miscela di nuovismo e giustizialismo abbia rappresentato il propellente per le involuzioni e le miserie della Seconda Repubblica.

l’Unità 28.11.13
Oggi le liste Pd. Ma è battaglia tra le correnti
Con Cuperlo Lerner, Reichlin, D’Alema, Marini e Crocetta
Con Civati, Lanzetta e Schlein. Barca dice no
I renziani puntano sugli amministratori ma è polemica con veltroniani e Areadem
di Simone Collini


ROMA Si sapeva che il nodo sarebbe stato duro da sciogliere, e infatti i comitati elettorali dei tre candidati alla segreteria del Pd avevano concordato di darsi qualche giorno in più rispetto alla data decisa all’ultima Direzione del partito, rinviando la scadenza per presentare le liste dal 25 al 28 novembre. Oggi, appunto. Ma la battaglia all’interno degli schieramenti è andata avanti fino a ieri notte.
La novità rispetto alle precedenti primarie, quando per ogni candidato si potevano presentare più liste rappresentative delle diverse correnti che lo appoggiavano, è che questa volta Matteo Renzi, Gianni Cuperlo e Pippo Civati avranno a sostegno una sola lista ciascuno. Una semplificazione, per gli elettori che l’8 dicembre andranno a votare ai gazebo, ma una difficoltà ulteriore per i comitati dei candidati. Queste liste servono infatti ad eleggere i mille membri dell’Assemblea nazionale (a cui si aggiungono cento parlamentari) e gli equilibri che si determineranno in questo organismo sono tutt’altro che ininfluenti rispetto alla vita futura del Pd.
La necessità di trovare un accordo tra le diverse anime dei propri sostenitori ha complicato le cose soprattutto all’interno del comitato del sindaco di Firenze, con i cosiddetti renziani della prima ora che hanno voluto gestire in proprio la pratica a scapito di franceschiniani, lettiani, veltroniani. I quali raccontano che i tavoli istituiti nei giorni scorsi, composti da esponenti di tutte quelle componenti e che avrebbero dovuto portare alla stesura delle liste, di fatto hanno perso la loro funzione quando Luca Lotti si è intestato il potere dell’ultima parola.
Renzi ha voluto che fosse il suo braccio destro a sbrigare la pratica non a caso: come si è visto nel passaggio sulla sfiducia mancata alla ministra della Giustizia Cancellieri, il sindaco già non controlla i gruppi parlamentari; che abbia dalla sua la maggior parte dei segretari provinciali è tutt’altro che certo; e allora intanto deve essere sicuro di avere una maggioranza su cui può fare affidamento all’interno del maggiore organismo del partito, che è l’Assemblea nazionale, per andare poi avanti così a cascata con la Direzione. Per questo vuole per sé la decisione finale sulle liste, in cui troveranno posto molti amministratori, anche a costo di far irritare gli stessi suoi supporter.
Anche nel comitato Cuperlo non sono mancate le difficoltà. Qui i tavoli hanno continuato a lavorare fino a ieri notte, ma non sempre è stato facile trovare un’intesa tra bersaniani, dalemiani, giovani tuchi. Cuperlo ha chiesto ai territori di presentare una lista di nomi, ma ha anche chiarito che una parte dei posti l’avrebbe riservata a personalità scelte direttamente da lui. Una di queste è Gad Lerner, che ha spiegato sul suo blog perché, insieme a Luciano Segre e Massimo Toschi, in continuità con l’Ulivo e la scelta del Pd, voterà per lo sfidante di Renzi. Nelle liste del deputato triestino ci saranno anche Rosario Crocetta, in Sicilia, Alfredo Reichlin, nel Lazio, e Franco Marini. Massimo D’Alema sarà candidato a Foggia, città di cui è cittadino onorario (ha rinunciato a Bari dopo la polemica innescata da Michele Emiliano, dato come capolista di Renzi, e dopo che un gruppo di parlamentari e consiglieri regionali di tutte le anime del Pd ha lanciato a entrambi l’appello a fare un passo indietro).
Quello che a ieri sera era più avanti con i lavori nella definizione delle liste è il comitato Civati. Qui le difficoltà a trovare un’intesa tra diverse componenti non ci sono state. Saranno candidati sotto il nome di Civati la fondatrice di Occupy Pd Elly Schlein, la sindaca anticamorra Maria Carmela Lanzetta, l’assessore di Reggio Emilia che si è battuto per la chiusura dell’inceneritore Mirko Tutino, economisti come Filippo Taddei, della Johns Hopkins University di Bologna, parlamentari come Felice Casson, Walter Tocci e Laura Puppato. Fabrizio Barca, che pure nei giorni scorsi ha fatto sapere di aver votato per Civati, ha deciso di non candidarsi e di rimanere fuori dall’Assemblea nazionale, perché ritiene l’organismo pletorico e perché, spiega a chi ci ha parlato in queste ore, non condivide le regole statutarie.
Oltre ai mille eletti l’8 dicembre entreranno nell’Assemblea cento tra deputati, senatori ed europarlamentari. Si sta discutendo anche se far entrare di diritto, oltre agli ex segretari del Pd, anche i ministri in carica.

l’Unità 28.11.13
Il sondaggio di www.unita.it
Già 15mila votanti. In testa Cuperlo


In testa Gianni Cuperlo con il 36% dei voti. Secondo Giuseppe Civati con il 32% e solo terzo Matteo Renzi con il 24%. Gli indecisi solo l’1% e l’area del non voto è limitata al 6%. No, non sono le previsioni di un mago, ma i risultati provvisori del sondaggio lanciato da Unita.it il 25 novembre e che in tre giorni ha già raccolto oltre 15mila voti. Mancano meno di due settimane all’8 dicembre e alle Primarie Pd che eleggeranno il nuovo segretario. Nell’attesa, Unita.it ha lanciato la votazione on line per testare gli umori dei lettori. Il risultato, ovviamente senza valore statistico, è ancora aperto: nelle prime ore è andato in vantaggio Civati, poi è toccato a Renzi e, al momento, Cuperlo guida il terzetto. Ma fino all’8 dicembre tutto può ancora succedere... Basta votare.
C. B.

l’Unità 28.11.13
Eutanasia, il Belgio verso il sì per i minori


Il Belgio si appresta a estendere l’eutanasia anche ai malati terminali minorenni. Una proposta di legge in questo senso è stata approvata dalla commissione Giustizia e Affari sociali del Senato dopo un mese di discussioni con 13 voti a favore e quattro contrari. La proposta, che ha scatenato un intenso dibattito in Belgio, dovrà essere ora esaminata dall’aula del Senato e poi dall’altra Camera.
La nuova legge consentirà l’eutanasia ai minorenni affetti da patologia terminale se giudicati capaci di decidere da soli e colpiti da un dolore che non possa essere «alleviato». La «dolce morte» dovrà comunque essere approvata da un team medico e necessiterà del consenso dei genitori.
Secondo un recente sondaggio, tre quarti dei cittadini condividono la nuova legge in un paese che ha introdotto l’eutanasia nel 2002, seconda nazione a farlo dopo l’Olanda. Lo scorso anno sono stati 1.432 i casi di eutanasia in Belgio, il 25% rispetto al 2011.
«Tristezza e delusione» è stata espressa in una dichiarazione comune dai responsabili religiosi del Paese. «Condividiamo l’angoscia di quei genitori che hanno un bambino che sta andando verso una fine prematura della vita, soprattutto quando soffre. Tuttavia scrivono i leader religiosi -, riteniamo che le cure palliative e la sedazione siano un modo degno di accompagnare un bambino che muore di malattia. Medici, oncologi e rianimatori ce lo hanno affermato chiaramente. Ascoltiamoli». A firmare la dichiarazione congiunta sono il Gran Rabbino di Bruxelles, Albert Guigui, Robert Innes, della Chiesa anglicana, monsignor André-Joseph Léonard, presidente della Conferenza episcopale del Belgio, Geert Lorein, del Sinodo federale delle Chiese protestanti ed evangeliche, il metropolita Panteleimon Kontogiannis, per la Chiesa ortodossa, e Semsettin Ugurlu, presidente dell'Esecutivo dei musulmani in Belgio.
I leader religiosi ribadiscono anche il loro no all’«accanimento terapeutico» e il loro invito a utilizzare le cure palliative perché scrivono «noi crediamo che non abbiamo il diritto di lasciare un bambino soffrire: anche perché la sofferenza può e deve essere sollevata. E la medicina ne ha i mezzi. Non banalizziamo l’atto di dare la morte dal momento che siamo fatti per la vita. Mettere fine alla vita è un atto che non solamente uccide, ma distrugge un poco per volta i legami che esistono nella nostra società».

l’Unità 28.11.13
Netanyahu atteso a Roma e l’Italia arma Israele
Commessa per trenta caccia italiani
Il nostro Paese presente alla più importante esercitazione militare israeliana
di Umberto De Giovannangeli


Lunedì a Roma andrà in scena un bilaterale particolarmente importante, delicato, strategicamente rilevante. Il bilaterale Italia-Israele. L’amicizia tra Roma e Gerusalemme non è in discussione. Ma gli amici veri sono quelli che aiutano a non perseverare negli errori. Gli amici veri sono quelli che sanno praticare una politica di equivicinanza con Israeliani e Palestinesi, rimarcando, ad esempio, che la colonizzazione dei Territori palestinesi di fatto svuota di ogni significato reale una pace fondata sul principio di «due Stati per due popoli». Di questo e di altro discuteranno lunedì a Villa Madama Enrico Letta e Benyamin Netanyahu. Ma il vertice intergovernativo ha avuto una anticipazione, che è passata sotto silenzio. Un silenzio imbarazzante. E, per molti versi, inquietante.
MANOVRE
Il suo nome in codice è «Blue Flag». Si tratta della più grande esercitazione multinazionale di aerei da combattimento mai ospitata da Israele. «Blue Flag» è iniziata domenica scorsa e si concluderà oggi, con la partecipazione di Stati Uniti, Grecia e anche dell’Italia. Alla esercitazione partecipano un sessantina di aerei da combattimento fra cui F-15, F-16, Tornado, Amx e B-152. Secondo un report dettagliato dell’analista americana Stephanie Westbrook, l’aeronautica israeliana mira ad aumentare di 10 volte il numero di obiettivi che è in grado di rilevare e distruggere. Il piano in cantiere, Expanding Attack Capacity (EAC), punta a un uso «massiccio, persistente e punitivo» della cosiddetta «forza aerea di precisione» per ridurre la durata delle guerre future ed evitare l’uso di forze di terra, considerato costoso e dannoso in termini diplomatici. Lo scenario simulerà un attacco in profondità in un territorio nemico dotato di forti difese aeree (come è ad esempio l’Iran). La partecipazione italiana all’esercitazione nel Neghev riaccende i riflettori su un capitolo di questa «amicizia» su cui vale la pena soffermarsi: quella militare. Con 473 milioni di euro, Israele si è aggiudicato il primo posto fra gli acquirenti di armi italiane, merito soprattutto dell’acquisto di 30 caccia da addestramento M-346. Nonostante la riesplosione della crisi mediorientale – rileva Antonio Mazzeo, tra i più acuti reporter e analisti italiani di strategie e affari militari proprio il 2012 ha rappresentato l’anno chiave nei trasferimenti di sistemi d’arma tra i due Paesi. Il 19 luglio, in particolare, il ministero della Difesa italiano e l’omologo israeliano hanno ratificato la fornitura alle forze armate israeliane di 30 velivoli da addestramento avanzato M-346 «Master» prodotti da Alenia Aermacchi. La commessa ha un valore di poco inferiore al miliardo di dollari, ma prevede vantaggiose contropartite per le industrie israeliane. Elbit Systems, azienda specializzata nella produzione di tecnologie avanzate, svilupperà il nuovo software che verrà caricato sugli addestratori. Il Virtual Mission Training System (Vmts) «ingannerà i sensori degli M-346 simulando le funzioni di un moderno radar di scoperta attiva capace di gestire numerose funzioni tattiche, nonché scelte d’armamento complesse», riporta la World Aeronautical Press Agency. «Utilizzando il software una volta in volo, il pilota in addestramento potrà esercitarsi in scenari avanzati, quali la guerra elettronica, la caccia alle installazioni radar e l’uso di sistemi d’arma all’avanguardia». Alle future guerre rimarca Mazzeo le forze aeree israeliane si addestreranno cioè con il made in Italy.
In cambio dei caccia, le autorità dello Stato ebraico hanno anche imposto che l’aeronautica militare italiana si doti di due velivoli di pronto allarme «Gulfstream 550» con relativi centri di comando, controllo e sistemi elettronici, prodotti da Israel Aerospace Industries (Iai) ed Elta Systems (costo complessivo, 800 milioni di dollari circa). Selex Elsag, una controllata di Finmeccanica, s’incaricherà per conto delle aziende israeliane a fornire ai velivoli i «sottosistemi» di comunicazione e link tattici secondo gli standard Nato. Le forze armate italiane dovranno pure acquistare un sistema satellitare elettro-ottico ad alta risoluzione di seconda generazione «Ofeq», anch’esso di produzione Iai ed Elbit Systems (245 milioni di dollari). Prime contractor degli israeliani sarà Telespazio, azienda controllata in parte da Finmeccanica, che assicurerà entro il 2015 la costruzione del segmento terrestre, il lancio e la messa in orbita del nuovo sistema satellitare. In aggiunta, Roma sarebbe anche interessata all’acquisto di droni senza piloti.
FARE CHIAREZZA
In vista del bilaterale di lunedì, si parla di accordi politici, economici e culturali. A spiegarne senso e sostanza saranno Letta e Netanyahu. Rafforzare le relazioni tra Roma e Gerusalemme su questi terreni è un bene, così come evocare boicottaggi accademici o di prodotti alimentari non aiuta certa il dialogo in Terrasanta ma finisce per favorire i falchi presenti nei due campi e non certo quanti, israeliani e palestinesi, sanno che la pace, quella vera, non può che nascere dal basso. Ma la partita militare non può restare sullo sfondo, o passare sotto silenzio. Perché non è con le armi che si cambia in meglio il volto del Medio Oriente. Semmai lo si rende più insanguinato.

Repubblica 28.11.13
Israele
Multa di 120 euro per ogni giorno di ritardo La donna ha presentato ricorso all’Alta corte
Elinor contro i rabbini “Mio figlio non sarà circonciso”
di Fabio Scuto


GERUSALEMME Finirà davanti alla Corte Suprema di Israele il caso di Elinor H. e di suo figlio, che la madre si rifiuta di far circoncidere. Perché una Corte rabbinica, che ha giurisdizione legale in Israele per tutte le questioni che hanno che fare con la religione — e quindi anche matrimoni, divorzi, nascite — ha stabilito che la donna dovrà pagare una multa di 500 shekel (120 euro) per ogni giorno di attesa se non farà circoncidere il figlio entro una settimana. «Il bambino è nato con un problema di salute, quindi non poteva essere circonciso l’ottavo giorno, come di consueto», ha raccontato Elinor al quotidiano Haaretz. «Poi col passare del tempo, ho iniziato a leggere ciò che realmente accade nella circoncisione, e ho capito che non potevo fare questo, a mio figlio. È perfetto così com’è».
La madre racconta che anche il padre del bambino ha avuto una parte nella decisione, ma quando la coppia ha iniziato a discutere del loro divorzio davanti alla Corte rabbinica, il marito ha «inaspettatamente» deciso di insistere sul fatto che il loro figlio deve essere circonciso. «La circoncisione è una procedura chirurgica standard che viene eseguita su ogni bambino ebreo, così quando uno dei genitori lo richiede, l’altro non può ritardare il fatto se non si è dimostrato che è pericoloso dal punto di vista medico», hanno scritto i tre rabbini-giudici che componevano la Corte. «Effettuare la circoncisione non è solo un atto chirurgico», scrivono nella loro sentenza, «... Brit Milah,(il rito della circoncisione), è un patto che Dio ha fatto con il suo popolo eletto, la nazione di Israele». Poi precisano: «La rimozione del prepuzio prepara l’anima del bambino ad accettare il giogo del Cielo, studiare la Torah e i comandamenti di Dio».
Il ricorso di Elinor alla Corte Suprema, attraverso il suo avvocato Marcella Wolf, arriva in un momento molto delicato in Israele. Alla Knesset sono in discussione diversi progetti di legge — sostenuti da laburisti, centristi di Yesh Atid e dalla signora Livni, ministro della Giustizia, — per una progressiva limitazione della religione nella vita politica e sociale. E una piccola rivoluzione è probabilmente alle porte: si sta discutendo del matrimonio civile, perché in Israele esiste solo quello religioso, dell’unione omosessuale davanti a ufficiali di stato civile. Questo con grande scandalo dei partiti religiosi — che negli ultimi dieci anni sono sempre stati al governo impedendo ogni riforma in questo senso — e la rivolta annunciata dalle comunità religiose, specie quelli più osservanti come gli ultra- ortodossi che sono un terzo degli abitanti di Israele.
Sulla liceità della circoncisione maschile e della mutilazione genitale femminile, in quanto pratiche rituali che comportano menomazioni fisiche imposte ai bambini che non possono decidere autonomamente, si discute da tempo in Europa e anche negliUsa. Una nuova sensibilità che arriva soprattutto nei paesi del nord Europa, dove è cresciuta la componente islamica e il problema si fa sentire tra le comunità diimmigrati. In termini generali la totalità della popolazione maschile di religione ebraica è circoncisa, così come la maggioranza dei maschi musulmani (l’attoavviene però tra gli 8 e i 10 anni). Ma anche negli Stati Uniti la maggioranza dei maschi è circoncisa: non è stata la religione ad averne alimentato la diffusione, ma laconvinzione di medici e genitori degli effetti benefici sulla futura salute del figlio, anche come prima difesa contro l’Aids.

Repubblica 28.11.13
Usa-Cina Mari di guerra
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON Attorno a tre inutili isolotti vulcanici, poco più che scogli, affiorati nel nulla del Mar della Cina Orientale va in scena il nuovo atto del dramma che dominerà il futuro del mondo: il duello per la supremazia globale tra la superpotenza di ieri e la superpotenza di domani, Usa e Cina.
Se di questi tre scogli importa pochissimo a tutti — erano addirittura proprietà privata fino al recente acquisto da parte del governo giapponese — anche il mini-arcipelago delle Senkaku, come le chiama Tokyo, o Diaoyu, secondo Pechino che le considera sue, hanno un valore simbolico. Il duello a distanza fra i B52 americani che le hanno sorvolate e la portaerei cinese Liaoning che le sta raggiungendoa tutta forza è altissimo. E tutto ciò cheè simbolico, in Asia è sempre sostanziale.
Da quando, liquidati gli orpelli del maoismo e imboccata la via della “dittatura di sviluppo” a ogni costo umano e sociale, la Cina è divenuta la fabbrica dei consumi americani e la sua principale finanziatrice, l’assurdità del rapporto fra cinesi e americani si fa progressivamente più vistosa.
Con il proprio immenso surplus commerciale, la Cina finanzia non soltanto l’economia Usa, ma quelle armi, quelle flotte navali e aeree che ancora consentono a Washington di allungare la propria ombra sull’Asia Orientale. Senza il credito misurato in migliaia di miliardi che Pechino fornisce agli Usa perchè acquisti i prodotti “Made in China”, il Pentagono non avrebbe i soldi necessari per far volare i B52 sopra le isole contese e manovrare le 70 unità navali della Settima Flotta nel Pacifico.
Dentro questo paradosso degli “amici-nemici”, dei due grandi soci che collaborano alla spartizione economica e finanziaria del mondo nel nome formale di ideologie contrapposte, c’è una rivalità che finora nessun vertice, comunicato, accordo commerciale o acquisto di buoni del Tesoro americani ha potuto risolvere. È una lunga storia che nell’età contemporanea, dopo l’uscita della Cina rivoluzionaria dal protettorato e dal colonialismo delle potenze europee e del Giappone invasore, esplode in una mattina gelida del 25 ottobre 1950, quando 200mila soldati regolari cinesi sorpresero le truppe americane e sud coreane che aveva attraversato il 38esimo parallelo e preso la capitale del Nord, Pyongyang. Nel massacro e nella Caporetto delle unità americane in fuga, per la prima e finora ultima volta dopo Nagasaki, l’alto comando Usa propose di contrattaccare sganciando bombe atomiche sulle forze di Mao.
Fortunatamente, e saggiamente, il Presidente HarryTruman ebbe il coraggio di licenziare in tronco il generalissimo McArthur e accettare, dopo anni di battaglie inconcludenti e sanguinose, il compromesso fra Nord e Sud che ancora regge 60 anni dopo.
Mai più “l’aquila e il drago” sarebbero arrivati a uno scontro militare diretto e a un passo da una guerra nucleare che avrebbe risucchiato certamente l’Unione Sovietica, non disponendo di bombe atomiche nè i cinesi nè i coreani.
Ma sarebbero state necessarie rivoluzioni e controrivoluzioni culturali dentro la Repubblica Popolare, e il superamento negli Usa della psicosi del “pericolo giallo” — diretto erede del “pericolo rosso” — perchè si arrivasse al semplice riconoscimento diplomatico della più popolosa nazione del pianeta e la sua ammissione all’Onu,nel 1971. Riconoscimento diplomatico che non condusse e ancora non conduce a un rapporto d’amicizia: ci sono troppe radici, e troppo profonde, nell’ostilità secolare fra Oriente e Occidente e nella inconfessabile, reciproca diffidenza — quando non disprezzo — razziale. La relazioni fra Washington e Pechino avrebbero continuato, e continuano, a oscillare fra gli interessi di un matrimonio costruito sul profitto e l’antagonismo di una opposizione che ha nel controllo del Pacifico occidentale il quadrante immenso ed esplosivo del Risiko.
Persino la presidenza diGeorge W. Bush, pure figlio del primo americano inviato a Pechino come ambasciatore di fatto, George Senior, si sarebbe aperta con un incidente che ricorda molto quanto sta avvenendo attorno agli scogli delle Senkaku/Diaoyu. La collisione fra un quadrimotore spia inviato dal Pentagono nello spazio aereo cinese e un intercettore dell’aviazione cinese, che precipitò uccidendo il pilota, fu un gesto di sfida che Bush aveva promesso in campagna elettorale e che lo costrinse all’umiliazione di scuse formali al governo della Repubblica Popolare.
Fino a quando gli interessi impediranno che questo strano matrimonio degeneri in un divorzio violento, eventi come quello del 2001 o questo di oggi resteranno parte di quel kabuki militare nel quale i due grandi attori recitano soprattutto a beneficio del principale e cruciale spettatore: il Giappone. Ma il tempo non lavora a favore di Washington e del Pentagono. Il costo dell’“ombrello” aereo-navale americano nel Pacifico, dalle truppe ancora sul 38esimo parallelo coreano alle basi in Giappone, sta diventando insostenibile. La crescita delle spese cinesi nel riarmo, che ha prodotto quella prima portaerei oggi in navigazione verso le isole contese, è ancora lontanissima dalle spese americani, che restano, con i 600 miliardi di dollari all’anno versati al Pentagono ben superiori ai 150 miliardi consumati dai cinesi.
Ma la curva delle spese militari Usa è in discesa, quella dei cinesi in ascesa e la convinzione che il Regno di Mezzo, che la Cina non possa continuare a essere il classico “gigante economico” e “nano politico” come una Germania asiatica è ormai radicata nella dirigenza del regime e nel nazionalismo risorgente della popolazione. La scommessa, non soltanto americana, è che lo sviluppo politico e democratico della grande repubblica acceleri e raggiunga finalmente lo sviluppo industriale e tecnologico, spegnendo ambizioni di egemonia e di concorrenza strategica.
Ma i simboli contano, in Asia. Inviare proprio i B52, i vecchi, formidabili bombardieri alla Dottor Stranamore, specialmente detestati in quel continente che li vide coprire di bombe l’Indocina, è un gesto di sfida preciso e rischioso. Il Pentagono, e i falchi che sognano di saldare il conto lasciato aperto dall’ottobre del 1950, farebbero bene a ricordarsi del monito che un grande soldato asiatico rivolse ai propri superiori proprio dopo avere sfidato gli Usa: «Temo che abbiamo svegliato un gigante che dormiva». Anche svegliare il drago non è una buona idea.

Repubblica 28.11.13
L’ultima sfida tra le super potenze
In lotta per il dominio del secolo, Washington e Pechino si fronteggiano per il controllo di una manciata di scogli in pieno oceano Pacifico
Un pretesto per sfidarsi nel dominio del mondo, ma potrebbe sfuggire di mano
Con conseguenze devastanti per i paesi dell’aerea e non solo
di Giampaolo Visetti


PECHINO La prossima “guerra del Pacifico” non ha bisogno di una dichiarazione. È già cominciata, ricorre all’esibizione delle armi per rendere credibili le parole e riscatta dalle nebbie i due nemici ufficiali: la Cina e gli Stati Uniti, le sole due super-potenze del mondo, ormai in lotta per il dominio del secolo. In mezzo il Giappone, con una manciata di scogli che promettono limitati tesori energetici, e le economie emergenti dell’Asia: Corea del Sud, Australia, ma anche Indonesia e Vietnam, e più lontano l’India. A provocazione segue così provocazione, dai cieli si passa ai mari e sulla terraferma si mobilitano anche gli eserciti.
Al terzo round Pechino, dopo aver offerto a Washington qualche ora di tregua, si è dunque decisa ieri a una mossa senza precedenti: ha fatto salpare la sua prima portaerei indirizzandola lungo la stessa rotta di quella che gli Usa hanno mosso da una base in Corea del Sud. Giganti improvvisamente impegnati in “esercitazioni programmate”: due macigni sulla strada del riaffermato “dialogo alla pari” dell’imploso G2, che pesano ora sulla missione che fino al 7 dicembre porterà il vicepresidente americano Joe Biden, «fortemente preoccupato», proprio a Pechino, Tokyo e Seul.
A far traboccare un vaso che andava riempiendosi da oltre due anni, dopo lo strappo cinese di sabato, l’ordine della Casa Bianca di alzare in volo due bombardieri disarmati, per confermare di essere ancora il tutore del Sol Levante. La Cina è stata così costretta a minacciare di «essere pronta ad abbattere gli aerei che sorvoleranno con intenzioni ritenute ostili la nuova zona di identificazione per la difesa aerea (Zai)». Gli Usa hanno subito ripetuto che «la decisione di Pechino di stabilire un’area di protezione aerea sul Mar cinese orientale è inquietante e destabilizzante per i Paesi vicini». Diplomazia superata dagli eventi, perché mentre i portavoce stilavano comunicati, i generali muovevano uomini e mezzi. Pechino, per guadagnare tempo, ha detto di «aver monitorato e identificato» i B52 americani che martedì hanno violato la nuova Zai, proclamata in modo unilaterale, ma si è astenuta da ventilate azioni di rappresaglia. Il ministero della Difesa si è mostrato anzi in difficoltà per l’immediato compattamento ostile dei Paesi vicini, uniti dalla reazione Usa. «L’esercito cinese ha registrato l’intero volo dei B52 — recita una nota — e ha la capacità di mantenere un controllo efficiente sullo spazio aereo interessato». La nuova leadership di Pechino, dopo aver riacceso il fuoco delle contese territoriali nel Pacifico, lascia dunque intendere che gli Usa sono per ora risparmiati da attacchi diretti, ma ribadisce che il quadro delle rivendicate sovranità, in Estremo Oriente, ormai è mutato.
E l’escalation della tensione tra Cina e Giappone per il controllo dell’arcipelago delle Senkaku-Diaoyu, scoppiata per necessità di contrapposto consenso nazionalistico interno, dal cielo si è spostata nell’oceano. Dal porto di Qingdao ha mollato gli ormeggi la Liaoning, la portaerei che Pechino ha acquistato dall’Ucraina, relitto sovietico sottoposto a ristrutturazione totale e ora in rotta verso il Mar cinese meridionale assieme a due incrociatori lanciamissili. Versione ufficiale: addestramento dell’equipaggio. Nei fatti naviga proprio tra le isole contese a Tokyo, nelle stesse ore in cui solca quelle acque anche la portaerei Usa spostata precipitosamente dalla base sudcoreana e accompagnata da una flotta di navi da guerra giapponesi. E’ il più impressionante confronto a distanza tra gli arsenali atomici più avanzati del mondo e la mobilitazione ha fatto riscattare l’allarme in tutta l’Asia. Alle proteste di Tokyo contro la Zai, a cui si è aggiunta la solidarietà del nuovo ambasciatore Usa in Giappone, Caroline Kennedy, si è unita infatti la rivolta di Australia, Corea del Sud e Taiwan, che hanno «chiesto spiegazioni» su una «zona aerea difensiva» che viola anche la loro sovranità. «Se i conflitti territoriali e le questioni storiche si mescolano con il nazionalismo — ha detto Seul — lo stato della regione può rapidamente degenerare». Pechino, dove riesplode sul web lo storico odio anti- giapponese, ha cercato così di rassicurare la comunità internazionale «libera dall’influenza americana». «Le altre nazioni non devono allarmarsi — ha fatto sapere — perché la Zai è solo una misura necessaria a proteggere la sovranità e la sicurezza della Cina». Messaggio distensivo in codice, esito del timore, cresciuto in serata, che Usa e Giappone possano compiere azioni a fronte delle quali«sarebbe impossibile evitare di reagire con la forza».
La nuova Zai però è una realtà, alcune compagnie aeree nel dubbio hanno fatto sapere che la rispetteranno e le cancellerie straniere non nascondono più i timori per «un conflitto innescato dalla necessità politica di controllare le rotte commerciali e i fondali ricchi di energia nel Pacifico». Uno scontro preparato ogni giorno, ma che a Pechino, Tokyo e Washington gli strateghi definiscono «ancora prematuro», convinti che «la tensione diplomatica salirà per mesi, ma chegli interessi economici comuni impediscono un rapido precipitare dello stallo». Le prime tre economie del mondo, secondo alti funzionari governativi, «trarrebbero benefìci da un clima militare altamente instabile», ma risulterebbero «pesantemente danneggiate da uno scontro armato nel breve periodo». La Zai servirebbe alla Cina per «confermare un peso esterno all’esercito», ridimensionato dal nuovo sistema di sicurezza interno approvato dall’ultimo Plenum, e per dare una “dimensione visibile” al suo nuovo ruolo mondiale. Al tempo stesso la mossa cinese consente agli Usa, alleggeriti inMedio Oriente, di «rilanciare industria bellica nazionale e presenza militare nel Pacifico», compattando «gli alleati storici dell’Oriente spaventati dall’ascesa del Dragone». I venti di guerra attorno alle Senkaku, secondo la stessa stampa nipponica, offrirebbero infine al Giappone l’opportunità di «sviare l’attenzione popolare dalle difficoltà dell’Abenomics (l’aggressiva politica di bilancio lanciata un anno fa dal premier conservatore Shinzo Abe)».
Avessero ragione i think-tank, sarebbe l’esordio di una nuova Guerra fredda, con la Cina al posto dell’Urss e il Giappone sul fronte opposto rispetto alla Ddr, protetto dagli Usa. Cieli interdetti, territori contesi e mari occupati per un tacito accordo attorno a una «sequenza controllata di provocazioni reciproche a scopo di dissuasione bellica». «Agli arsenali atomici — ha commentato a Pechino un influente diplomatico della zona euro — seguono gli interessi commerciali e dopo la svolta in Iran si avvicina la resa dei conti sulla Corea del Nord». Guerra per Tokyo pensando dunque a Pyongyang, con il rischio che nel Pacifico un evento casuale faccia sfuggire di mano la situazione a qualcuno. «Un errore di calcolo — ha osservato il Pentagono — è possibile. Piccolo particolare che trascinerebbe non solo l’Estremo Oriente in un conflitto che minaccia di estendersi fino a rendere velleitaria anche la più modesta ambizione di una ripresa globale».

l’Unità 28.11.13
Brescia, 28 maggio 1974
Figli di piombo
Il romanzo di una strage impunita Benedetta Tobagi e piazza della Loggia
L’autrice ricostruisce il primo attentato organizzato per colpire una precisa porzione di cittadini, gli antifascisti
di Marco Amagisti


Un altro tassello della riflessione sugli anni 70 avviata da chi ha perso il padre per mano del terrorismo

NEL CORSO DI UNA MANIFESTAZIONE ANTIFASCISTA, IL 28 MAGGIO 1974 IN PIAZZA DELLA LOGGIA A BRESCIA ESPLODE UNA BOMBA CHE UCCIDE OTTO PERSONE E NE FERISCE CENTODUE. Nel suo ultimo libro, Una stella incoronata di buio. Storia di una strage impunita (Einaudi), Benedetta Tobagi spiega perché quella strage costituisca un punto di svolta drammatico per l’intera storia italiana. A Brescia non è avvenuta la strage più sanguinosa di quegli anni, e neppure la più nota, ma per la prima volta un attentato non si rivolge ad una porzione indistinta e casuale di cittadini, bensì colpisce una manifestazione antifascista indetta dai sindacati. È la «strage col più alto tasso di politicità» e rappresenta uno snodo cruciale della «strategia della tensione». Un mese dopo, a Padova, le Brigate Rosse compiranno il loro primo omicidio uccidendo Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci nella sede del Msi.
Negli anni Settanta Brescia è una città con una forte presenza operaia e sindacale. Dopo il 1968 diviene teatro di numerosi atti violenti di matrice neofascista, a cui rispondono manifestazioni unitarie della sinistra e della Dc. È proprio in una di queste occasioni di risposta alla violenza politica, la mattina del 28 maggio 1974, che il discorso rivolto ad una piazza gremita di lavoratori dall’ex partigiano Franco Castrezzati, segretario generale dei metalmeccanici Cisl, viene interrotto dal boato di una bomba.
Con uno stile in parte già affiorato nella sua opera d’esordio (Come mi batte forte il tuo cuore, Einaudi, 2009), Benedetta Tobagi riesce a combinare ricostruzione storica e narrazione letteraria, soffermandosi su squarci di biografie personali travolte dalle tempeste della storia italiana. Compresa la biografia dell’autrice: infatti, un altro 28 maggio, sei anni esatti dopo Piazza della Loggia, un gruppo armato di estrema sinistra ucciderà Walter Tobagi, padre di Benedetta e giornalista del Corriere. Il libro ricostruisce sia le articolate trame del terrorismo neofascista con il corollario dei numerosi depistaggi e di una verità guidiziaria ancora inafferrabile sia il ricco e vivace contesto in cui agiscono molte delle persone coinvolte, ricordate assieme alle passioni che sovente le animavano. In molte parti, l’autrice attinge alla preziosa esperienza di Manlio Milani, presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime di Piazza della Loggia, che nella strage ha perso sua moglie Livia.
La ricostruzione della storia d’amore fra Livia e Manlio Milani è struggente e intreccia la dimensione privata con i riverberi delle passioni politiche, con la fitta trama di rapporti sociali, solidarietà e impegno di cui si componeva la loro vita sino ad un istante prima della deflagrazione. Il capitolo Marx e il Gattopardo rappresenta una precisa ricostruzione di un’atmosfera e di un tempo in cui era ancora possibile cogliere appieno le connessioni fra i destini delle persone, i legami sociali e la politica.
Benedetta Tobagi è nata nel 1977, non ha memoria diretta degli anni Settanta, ma la sua capacità di ricostruire i tratti culturali e gli stili di vita diffusi allora varrebbe da sé la lettura del libro.
Negli ultimi anni i figli delle vittime del terrorismo hanno arricchito con la propria ricerca la riflessione sugli anni Settanta. Oltre a Benedetta Tobagi ricordiamo i testi di Mario Calabresi, Agnese e Giovanni Moro, Silvia Giralucci ed Eugenio Occorsio. Mi ha sempre colpito in questi libri l’utilizzo parsimonioso dell’espressione «anni di piombo». È una scelta che condivido. Infatti, cristallizzare la complessità delle vicende del decennio in quella definizione rischia di farci dimenticare che si trattò anche di «anni del tritolo», ossia di stragi sulle quali non è ancora stata fatta piena luce. E anni della partecipazione: stavano infatti emergendo nuove forme di cittadinanza e si manifestavano forme di soggettività politica originali, come ha ricostruito Giovanni Moro (Anni Settanta, Einaudi, 2007).
Grandi leader quali Aldo Moro ed Enrico Berlinguer avevano compreso che non si poteva aspirare al rinnovamento della politica italiana senza intercettare le nuove soggettività diffuse nella società, senza percorrere quelle strade che la violenza ha invece interrotto. In aggiunta al dolore delle vite spezzate, stiamo ancora pagando il prezzo delle strade interrotte. Ne risulta indebolita tanto la fiducia dei cittadini quanto la legittimità delle istituzioni.
Il fossato che divide gli uni dalle altre, ricorda Benedetta Tobagi, si può colmare soltanto conoscendo fino in fondo la nostra storia. Averne ricordato le molteplici sfaccettature è il grande merito di un grande libro.
IL LIBRO: Una stella incoronata di buio, di Benedetta Tobagi pagine 480 euro 20,00 Einaudi

il Fatto 28.11.13
Evangelii Gaudium
Il Papa fa sul serio Ora è ufficiale
di Marco Politi


Ora che la perestrojka di papa Francesco è messa nera su bianco con la pubblicazione dell’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium, credenti e mondo laico possono misurare l’ampiezza del progetto di riforma, che il nuovo pontefice ha in mente. Questa volta non si tratta di interviste o di riflessioni colloquiali, ma di ciò che in linguaggio ecclesiastico si chiama un “atto di magistero”. Cioè di un intervento che promana direttamente dall’autorità suprema della Chiesa cattolica. Su questo testo si potranno misurare nei mesi e negli anni a venire successi, resistenze, conflitti (come ne conobbero Giovanni XXIII e Paolo VI) e possibili sconfitte del pontificato argentino.
Francesco vuole rimodellare la Chiesa nella sua struttura, nel suo stile di cura delle anime e nel suo approccio verso la società contemporanea. Allo stesso tempo il nuovo papa sviluppa ancora più robustamente la dottrina sociale della Chiesa, portando a conseguenze più nette l’insoddisfazione di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI nei confronti delle politiche liberiste senza vincoli, che acuiscono la miseria, la precarietà e l’emarginazione sociale, arrivando al punto di lanciare un grido di allarme non retorico: “Fino a quando non si eliminano l’esclusione e l’inequità nella società e tra i diversi popoli sarà impossibile sradicare la violenza.
SI ACCUSANO della violenza i poveri e le popolazioni più povere, ma, senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione”. Nettissima nelle sue argomentazioni, la parte sociale del documento sarà rapidamente archiviata dalle attuali élites governanti (a cominciare in Italia sia dai partiti di centro e centro-destra che si richiamano alla tradizione democristiana e del partito popolare europeo sia dall’attuale governo e dal rampante aspirante alla segreteria del Pd, Renzi) perché il papa chiede una rifondazione dell’economia sociale di mercato e nessuno dei politici in questione ha il coraggio di affrontare il tema.
Sul piano interno – la fisionomia della comunità ecclesiale e il modo di rapportarsi dei “pastori” ai fedeli e ai loro problemi esistenziali – la Chiesa di Bergoglio torna a pensare in grande come ai tempi del concilio Vaticano II, a cui evidentemente si riallaccia. Non perché Giovanni Paolo II e papa Ratzinger non pensassero in grande. Ma il papa polacco si muoveva in grande nel suo dinamismo geopolitico, tenendo però immutata dottrina e struttura della Chiesa. Mentre Benedetto XVI pensava in grande sul piano filosofico, ma lasciava che la Chiesa si chiudesse in una trincea contraria ad ogni innovazione.
FRANCESCO intende lavorare per una ristrutturazione del potere nella Chiesa. Vuole chiudere con il centralismo esasperato, arrivare a un ragionevole decentramento, rivedere il modo di esercizio del primato papale riprendendo l’dea di un confronto con le altre Chiese cristiane come auspicato da Giovanni Paolo II nell’enciclica Ut Unum sint. Vuole archiviare il clericalismo esasperato e coinvolgere nei processi decisionali i laici e in particolare le donne, che – scandisce – devono essere presenti nei “luoghi dove vengono prese le decisioni importanti”. (Benché il sacerdozio resti maschile).
Soprattutto il suo programma postula un ruolo attivo e proprio delle conferenze episcopali. Qui la rottura con la linea di Ratzinger è netta. Per Ratzinger le conferenze episcopali non avevano nessuna autorità ecclesiale né potevano impegnare il singolo vescovo. Francesco dice il contrario: le conferenze episcopali abbiano un loro statuto preciso, “attribuzioni concrete (e) anche qualche autorità dottrinale”. È la fine (almeno come progetto) dell’assolutismo ereditato dal Concilio di Trento e dell’ossessione di un potere papale quasi divino come l’aveva voluto Pio IX.
Quanto alla pastorale il papa sferza i preti, che si abbandonano alla mondanità, l’impigrimento, l’egocentrismo, la rassegnazione, la mania di parlare dal pulpito in veste di “esperti di diagnosi apocalittiche o giudici oscuri che si compiacciono di individuare ogni pericolo o deviazione”. Francesco vuole una Chiesa gioiosa nell’evangelizzare. L’aborto resta una male, il matrimonio resti unito, ma non è compito dei preti agire come alla barriera di una “dogana”, perché “l’eucaristia… non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli”. Anche qui l’inversione di rotta rispetto alla linea di Wojtyla e Ratzinger è palpabile.

Repubblica 28.11.13
Il duce semidio e l’amnesia italiana
La storica assenza nel paese di anticorpi verso gli avventurieri
di Franco Cordero


Giovedì 10 aprile 1930, nella Casa del Fascio sulla milanese piazza Belgioioso, l’arcivescovo cardinale Ildefonso Schuster benedice l’ivi fondata Scuola di mistica fascista. L’insegna antirazionalistica è esplicita nell’aggettivo: i discenti s’immergono nel «pensiero del Duce»; al quale debbono una «fede intransigente», ribadita nel triplice imperativo «credere, ubbidire, combattere». Ormai ha uno status metaumano l’ex socialista anarcoide: dirigeva l’Avanti; improvvisamente bellicoso contro i reazionari Imperi centrali, s’era guadagnata l’espulsione dal partito antimilitarista. Post vittoria mutilata (così la deplora D’Annunzio) scompare al primo vaglio elettorale: nemmeno un seggio, ma riapparso come mano armata delle classi padronali nel velleitario biennio rosso, non ancora quarantenne, dal 31 ottobre 1922 guida un lunghissimo governo (20 anni,8 mesi, 25 giorni) nella girandola dei ministri, finché i carabinieri l’arrestano a Villa Savoia, domenica 25 luglio. Sapeva gestire l’anima collettiva e se avesse l’astuzia cautelosa dell’allievo dittatore spagnolo, Francisco Franco y Bahamonde, invecchierebbe tra Villa Torlonia e Sala del Mappamondo, magari entrando in guerra dalla parte vincente contro lo psicotico caporale austriaco. Ha tre doti utili nell’Italia ancora controriformista: parla e scrive in battute imperiose; fiuta gli umori della folla; intende la politica come teatro. Tra i difetti è un macigno l’Io ipertrofico i cui rumori gli confondono la mente, sicché stravede, sordo ai fatti: crede d’avere forgiato una razza guerriera, munendola d’armi formidabili; l’applaudono generali, ammiragli, industriali. L’assurda avventura abissina incantava gl’italiani, inclusi eminenti antifascisti quali Benedetto Croce o Vittorio Emanuele Orlando. Secondo lui, Francia e democrazie anglosassoni sono biologicamente condannate, quindi salta sul carro hitleriano, 10 giugno 1940 (illo tempore malediceva gli Unni): con mille o duemila morti vuol farsi un secondo impero mediterraneo; ha gran paura che Berlino e Londra transigano. Non gli dicono niente l’offensiva aerea fallita nel cielo inglese e il mancato «Leone marino». Churchill manda in Egitto parte dei pochi carri armati disponibili, avendo individuato nell’Italia il «ventre molle dell’Asse». Metafora perfetta. Era una partita intellettuale: l’empirista britanno combina cervello freddo e fantasia strategica; l’oratore romagnolo declama ruotando gli occhi, mani sui fianchi, mascella in fuori. Siccome Hitler s’è preso il petrolio rumeno, lui vuol restituirgli il colpo invadendo la Grecia nell’anniversario della Marcia su Roma, 28 ottobre: atto allucinatorio, sul presupposto che l’assalita non resista; invece combatte; manca poco che perdiamo l’Albania, appendice sabauda, mentre gl’inglesi in Libia sbaragliano un piagnucoloso Rodolfo Graziani, già eroe sanguinario contro gl’inermi. A parte qualche illusione presto spenta in Egitto e sul Don, il séguito porta sventure. Finché nella notte da sabato a domenica 25 luglio 1943 il Gran Consiglio restituisce i poteri a Sua Maestà: l’odg era «tradimento dell’idea»; conia questo singolare nomen delictiun Tribunale costituito ad hoccomminando condanne a morte; uno dei fucilati nella schiena è Galeazzo Ciano, vanesio ex ministro degli Esteri, genero-delfino, odiato dagli squadristi (non gli perdonano la carriera fulminea).
I cinque traditori muoiono nel poligono veronese l’11 gennaio 1944. Torniamo indietro d’un mese, e chiedo scusa se i verbi saltano alla prima persona. Siamo ricaduti in mano fascista. Domenica 12 settembre reparti della divisione SS Leibstandarte occupavano Cuneo: sette giorni dopo, Joachim Peiper massacra e incendia Boves; dispersi della IV Armata resistono. Sotto mano nazista nasce una Repubblica cosiddetta sociale. Le scuole riaprono tardi, lunedì 15 novembre, mentre i revenants neri tengono congresso a Verona. Siamo in quinta ginnasio. L’indomani nevica. Lunedì 6 dicembre nel sobborgo sulla riva destra del Gesso qualcuno visita Edoardo Cumar, fattorino del Fascio, nonché pugile, ora adibito alle sevizie: vengono a prenderlo partigiani scesi dalla Bisalta, ma il nome non circola ancora; li chiamano ribelli o patrioti. L’indomani sera, vigilia dell’Immacolata, tripodi accesi e guardia armata segnalano una camera ardente aperta al pubblico; vi metto piede, mosso da incauta curiosità. L’estinto giace in alta uniforme. Ai vecchi tempi passava pedalando, chino sul manubrio, e qualcuno gridava «ciao Cumar». Dev’essere forestiero un tale ben vestito in borghese, che racconta a due signore d’analoga figura come l’abbiano rinvenuto. La conclusione suona commiserante: «finiremo tutti così, l’hanno ucciso perché stava con noi»; le madame ascoltano compunte. Ipocriti, penso: sanno benissimo perché sia morto; la fede fascista non c’entra; i padroni gli affidavano lavori sporchi e li riteneva importanti, orgoglioso della promozione; abitava fuori città sentendosi sicuro. L’epopea repubblichina dura 19 mesi, squallida: gli esteti guerrieri della bella morte spariscono; a Cuneo, domenica 29 aprile non ne resta uno. Viene comodo pensare che i vent’anni fossero un incubo svanito al mattino, e così, senza dolorose autoanalisi, chiude i contiBenedetto Croce.

Repubblica 28.11.13
Anticipazione di un saggio sulla crisi della rappresentanza
Quando la democrazia funziona in presa diretta
di Nadia Urbinati


L’11marzo 2013, il parlamento ungherese ha approvato modifiche sostanziali alla Costituzione che limitano i poteri dell’Alta corte e le libertà civili. Il procedimento di revisione è stato promosso dal Partito nazional-populista Fidesz che controlla la maggioranza dei seggi in parlamento. Tra i ventidue articoli modificati spiccano quelli che rendono lecite le limitazioni della libertà d’espressione (...). Alle preoccupazioni sollevate dai rappresentanti dell’Unione europea, Viktor Orbán, leader della maggioranza, ha risposto (...): «La gente si preoccupa delle bollette, non della Costituzione».
Pochi mesi prima, il 20 ottobre 2012, in Islanda i cittadini approvavano con referendum la nuova Costituzione. Al testo erano giunti dopo un processo radicalmente democratico e non pilotato da una maggioranza parlamentare. Nel 2009, un an-no dopo lo scoppio della crisi finanziaria che atterrò l’economia islandese, per iniziativa di alcune associazioni della società civile, un’Assemblea di millecinquecento persone (in maggioranza sorteggiate) si riunì per discutere e poi suggerire i punti della riforma della Costituzione. L’anno successivo, un Consiglio costituzionale veniva eletto a suffragio universale in base a candidature che escludevano parlamentari e membri dei partiti. I venticinque eletti, non politici di professione ma ordinari cittadini, giunsero all’approvazione della nuova carta dopo una diretta discussione con i cittadini tramite Facebook e Twitter. (...) Due storie che testimoniano la schizofrenia nella quale il sistema democratico si dibatte. Le democrazie contemporanee manifestano un sorprendente paradosso: il sistema democratico gode di un sostegno egemonico e perfino di un’attrattiva universale (...), eppure le sue esistenti forme di funzionamento sono sotto pressione a causa in primo luogo di un declino di legittimità. (...) Dall’Italia viene il terzo esempio. A partire dai primi anni del ventunesimo secolo, Beppe Grillo, già conosciuto al largo pubblico per la sua attività di comico, negli anni novanta si è fatto promotore di un movimento di denuncia satirica del fenomeno di corruzione politica a cascata che Tangentopoli ha messo davanti agli occhi della pubblica opinione. In pochi anni, da cantastorie di piazza la sua attività si è trasformata nel 2005 in vera e propria agitazione po-litica, grazie alla creazione di un blog personale (beppegrillo.it), progettato e gestito dall’azienda di Gianroberto Casaleggio.(...) A pochi anni dalla sua fondazione, il movimento di Grillo ha operato la trasformazione da movimento di opinione a movimento politico, senza perdere la sua originaria identità non partitica epoi sempre più antipartitica. (...) Pur non avendo riscritto la Costituzione formale, il M5S ha riscritto una parte importante della pratica politica organizzata e gestita dai partiti, introducendo un elemento di “direttezza” nella democrazia rappresentativa, dando vita a quel che con un ossimoro chiamerò democrazia rappresentativa in diretta. Alcuni studiosi propongono di includere questo tipo di movimento nel fenomeno populista, altri invece sostengono che, benché condivida alcuni temi propri dei populismi di destra (per esempio, l’avversione per gli immigrati e l’antieuropeismo), si tratti tuttavia di un soggetto politico di nuovo tipo, caratterizzato non dall’appello al popolo ma dall’orizzontalità comunicativa tra cittadini. (...) Possiamo intanto dire che la democrazia cambia di segno con l’avanzare della politica web-diretta, la quale fa rinascere, trasformandolo, il mito dell’autogoverno diretto (l’antica promessa democratica dell’autonomia), con il rischio tuttavia di generare forme politiche identitarie, demagogiche o populistiche, modi di fare politica che escludono e discriminano, che gettano le basi, come in Ungheria, di una vera e propria tirannia della maggioranza. Ma l’appello all’autogoverno diretto non è un ritorno all’antico e nemmeno una rinascita delle forme assembleari di democrazia proprie della contestazione studentesca e operaia degli anni sessanta (...). È invece una nuova e aggiornata rinascita partecipazionista che non rifiuta le forme indirette di partecipazione, come la rappresentanza parlamentare e il suffragio elettorale, ma le cambia, le adatta, le stravolge (...). Democrazia rappresentativa diretta vuole essere democrazia elettorale in-diretta, dunque, senza i partiti politici e attuata attraverso movimenti in rete che raccordano il dentro e il fuori delle istituzioni, ma senza alcun controllo sulle forme di questo raccordo, senza alcuna certezza procedurale che esso sia realizzato secondo regole che danno ai cittadini un potere censorio non aleatorio o invece secondo il ruolo preminente degli animatori della rete o, come nel caso del M5S, dei proprietari privati del blog.

IL LIBRO Democrazia in diretta Le nuove sfide alla rappresentanzadi Nadia Urbinati (Feltrinelli, pagg. 208, euro 18)

mercoledì 27 novembre 2013

l’Unità 27.11.13
Sindacati in azione: il 14 dicembre nelle piazze d’Italia
«Con questa manovra nel 2014 sarà una catastrofe occupazionale»
Cgil Cisl e Uil non smobilitano
Dopo lo sciopero di nuovo in pressing per chiedere «meno tasse e più lavoro»
di Massimo Franchi

ROMA La mobilitazione va avanti. Ma il clima è cambiato: c’è la delusione per le mancate modifiche al Senato, c’è l’amara constatazione che «il livello di mobilitazione degli scioperi non è stato sufficiente», c’è l’orgogliosa rivendicazione dell’aver provocato la promessa di Letta di utilizzare tutti i proventi della spending review per la riduzione del cuneo fiscale.
Alla riunione degli esecutivi unitari di Cgil, Cisl, Uil la domanda che riecheggia di più negli interventi di vari segretari territoriali è la stessa di Lenin nel 1902: «Che fare?». La risposta in realtà l’aveva già annunciata in apertura Luigi Angeletti: manifestazioni in ogni regione sabato 14 dicembre precedute da una tre giorni di mobilitazione per informare «l’altro mondo» delle proposte del sindacato grazie a «milioni di volantini e manifesti», «con cui tappezzeremo il Paese» e a «striscioni negli stadi». Lo slogan dovrebbe essere: «Meno tasse, più lavoro».
Gli esecutivi unitari all’Auditorium di via Rieti a Roma sono però lo specchio fedele di un sindacato alle prese con una decisione difficile: fidarsi o non fidarsi del governo Letta? Da una parte c’è Raffaele Bonanni che spinge per dare credito al premier. Dall’altro ci sono Susanna Camusso e Luigi Angeletti, molto meno convinti e molto più agguerriti nel contrapporsi al governo. Ne viene fuori una soluzione di compromesso nella quale la mobilitazione va avanti (ma diventa «non smobilitiamo»), l’obiettivo si sposta sul passaggio alla Camera della legge di Stabilità ma già si guarda al futuro, alla Spending review.
Per Cgil, Cisl e Uil il problema principale è infatti quello di «portare a casa dei risultati». Quei risultati che per ora non sono per niente arrivati. La «piattaforma sindacale» rimane la stessa: serve uno shock fiscale, servono investimenti per la crescita, un contratto per i dipendenti pubblici (e non la mobilità), risolvere il dramma degli esodati e degli ammortizzatori sociali (cig in deroga e incentivi fiscali per i contratti di solidarietà), ridare soldi in tasca ai pensionati, appena beffati dall’emendamento prima annunciato e poi ritirato sull’aumento delle rivalutazioni fino ai 2mila euro lordi.
Tocca a Luigi Angeletti aprire l’assise. «Siamo intenzionati a non arrenderci, è necessario proporre iniziative di mobilitazione per rompere l’equilibrio politico che si sta cristallizzando intorno a questa legge di stabilità. La nostra intenzione è parlare a milioni di persone contemporaneamente: lo sciopero è uno strumento efficace, ma limitato. Per questo abbiamo pensato di fare cose diverse dal tradizionale».
Una posizione in larga parte condivisa da Susanna Camusso. Che però parte da una analisi molto più amara. «Il tempo non è una variabile indipendente, se la manovra è questa nel 2014 avremo una catastrofe occupazionale. I lavoratori ormai fanno fatica a vedere l’uscita dalla crisi, una politica di galleggiamento riduce il ruolo di chi, come il sindacato, vuole cambiare le cose. Oramai l’Europa è diventata un gigantesco alibi per non cambiare le politiche economiche, il vero rischio è la deflazione e in pochi se ne sono accorti». Il fulcro però dell’attacco al governo arriva qui: «Di infiniti annunci non ne possiamo più». Mentre sprona il sindacato: «Non possiamo nasconderci che gli scioperi non hanno avuto un livello di mobilitazione sufficiente, dobbiamo pensare a rimontare parlando anche all’altra parte del mondo». Sulla spending review il rischio che vede Camusso «è che alla fine si mettano come al solito in contrapposizione i lavoratori, in questo caso i pubblici, a cui applicare la mobilità, ai privati, che stanno subendo le ristrutturazioni in tutte le grandi aziende di servizi».
A chiudere invece è Raffaele Bonanni. Il leader Cisl capisce il momento difficile e decide di non usare giri di parole. «Il nostro problema non è organizzare lo sfogo dei lavoratori ma un’iniziativa che eviti lo sfascio del Paese». E rivendica i risultati già raggiunti: «Sul taglio della spesa pubblica è passata la nostra proposta, quella di Cottarelli sulla Spending review non è una proposta banale, ma per la prima volta dettagliata. Saremmo ingiusti o poco accorti se svalutassimo la presa di posizione del presidente del Consiglio: perché è arrivata da una nostra precisa richiesta assieme alle imprese. A Letta ora chiediamo: trasforma al più presto la tua promessa in un emendamento del governo alla Camera. Così potremo valutare subito, nei prossimi giorni, se è solo una promessa o se invece questa volta si cambia davvero. Per questo ci mobilitiamo, per sfidare il governo a farlo».
I primi a mobilitarsi saranno i pensionati venerdì, mentre sabato tocca al mondo della scuola, entrambi con manifestazioni nazionali a Roma.

l’Unità 27.11.13
I precari saranno poveri i pensionati lo sono già
Rapporto Ocse: i redditi pensionistici
di chi inizia a lavorare oggi saranno inferiori agli attuali
Contributi previdenziali tra i più alti dell’area, salari medi tra i più bassi
di Laura Matteucci

MILANO  L’Italia ha il tasso di contributi previdenziali più alto in tutta l’area Ocse, Ungheria a parte. Eppure, nonostante il peso dei contributi, chi entra oggi nel mercato del lavoro dovrà aspettarsi una pensione più bassa rispetto agli standard attuali, con un autentico rischio povertà per i precari (che in genere non se la passano bene nemmeno prima dell’età pensionabile). I salari, in compenso, sono nettamente tra i più bassi dell’area, pari a 28mila 900 euro, ovvero 38.100 dollari, quando la media Ocse è di 32.400 euro, cioé 42.700 dollari, su cui pesano i 94.900 dollari degli svizzeri, i 91mila dollari dei norvegesi, i 76.400 dollari degli australiani, i 59mila dollari dei tedeschi e i 58.300 degli inglesi. Sono i principali capisaldi intorno ai quali si snoda il rapporto dell’Organizzazione parigina «Pensions at a glance 2013», che una volta di più mette in luce le difficoltà e le pesantezze del lavoro in Italia.
PAGARE TANTO, OTTENERE POCO
Contributi previdenziali altissimi, si diceva: nel 2012 sono infatti stati pari al 33% del totale lordo della retribuzione, il 9% del Pil e il 21,1% del totale delle tasse. La media Ocse è del 19,6% (il 5,2% del Pil e il 15,8% del totale delle tasse). Sono a carico per 9,2 punti del lavoratore, e per 23,8 punti del datore di lavoro. Ma chi inizia a lavorare oggi avrà una pensione più bassa rispetto alle attuali, e se questo principio è valido in genere in tutti i Paesi Ocse, come conseguenza delle riforme approvate negli ultimi vent’anni in molti Paesi, lo è ancor di più in Italia. «La sostenibilità sociale del sistema pensionistico e l’adeguatezza delle entrate da pensione potrebbero quindi diventare una grande sfida per le autorità politiche», si legge nel rapporto. «I futuri pagamenti saranno generalmente più bassi e non tutti i Paesi hanno costruito un sistema di protezione speciale per i redditi bassi». I precari, ovvero «le persone senza una carriera a contributo pieno», «incontreranno difficoltà nel raggiungere adeguati redditi da pensione secondo gli schemi pubblici, e ancora meno in quelli privati, che di solito non redistribuiscono il reddito ai pensionati più poveri», aggiunge l’Organizzazione, laddove «i disoccupati, i malati e i disabili potrebbero non riuscire a maturare requisiti adeguati per la pensione». Morale: secondo l’Ocse i governi devono fare di più per incoraggiare le persone a lavorare più a lungo e risparmiare di più per la pensione, in modo da garantire che i benefici siano sufficienti a mantenere gli standard di vita attuali. E l’azione politica è necessaria anche per evitare gli aumenti di disuguaglianza tra i pensionati. Anche perché il pilastro privato non è ben sviluppato: a fine 2010 la copertura dei piani pensionistici privati raggiungeva solo il 13,3% della popolazione in età lavorativa. In generale, sottolinea l’Ocse, la riforma Fornero adotatta in Italia «può avere implicazioni per il mercato del lavoro e per le politiche sociali che devono essere prese in considerazione» per garantire la piena consapevolezza degli individui.
IL PESO DELLE RIFORME
Ancora dal rapporto: «Lavorare più a lungo potrebbe aiutare a compensare parte delle riduzioni», continua, «ma ogni anno di contributi produce benefici inferiori rispetto al periodo precedente tali riforme», sebbene «la maggior parte dei Paesi abbia protetto dai tagli i redditi più bassi». Le riforme previdenziali nell’area hanno posticipato l’eta pensionabile, che «sarà di almeno 67 anni entro il 2050 nella maggior parte dei paesi Ocse». Il che è accaduto anche da noi. Con una spesa pubblica per pensioni di vecchiaia pari al 15,4% del reddito nazionale (rispetto ad una media Ocse del 7,8%), l’Italia aveva nel 2009 il sistema pensionistico più costoso, situazione radicalmente cambiata con la riforma adottata nel 2011. Peraltro, i lavoratori italiani lasciano il posto ad un’età relativamente bassa: 61,1 anni per gli uomini e 60,5 per le donne, contro una media Ocse di 64,2 e 63,1 anni.
Se i pensionati di domani saranno più poveri, ad oggi, invece, la ricchezza pensionistica in Italia è (al lordo) maggiore rispetto alla media Ocse: quanto viene ricevuto complessivamente negli anni della pensione, infatti, è pari a 11,9 volte il salario medio annuale per gli uomini, e a 13,7 volte per le donne, riflesso alla maggiore attesa di vita, contro medie Ocse di 9,3 e 10,6 volte. Ma, essendo questa una proporzione sui salari percepiti, che come abbiamo visto sono tra i più bassi esistenti, non significa affatto che in assoluto le pensioni italiane siano tra le più alte. Anzi.

l’Unità 27.11.13
Il Paese dei ricchi, quello dei poveri
Perché non si può chiedere un contributo a quel 10% di famiglie che ha 4mila miliardi?
di Nicola Cacace

I DATI OCSE SU SALARI E PENSIONI CONFERMANO UNA REALTÀ NOTA, QUELLA DELLE DUE ITALIE, L’ITALIA DEI RICCHI E QUELLA DEI POVERI, che nessuno degli ultimi governi, da Monti e anche Letta senza parlare di Berlusconi, ha quasi mai preso in considerazione. Se l’Ocse ci conferma che i nostri salari sono del 12% inferiori alla media Ocse, ma del 50% inferiori a quelli tedeschi, inglesi e francesi, mentre tutti sanno che i guadagni dei nostri top manager privati e pubblici sono i più alti di tutti, lo stesso Ocse ci dice che il mondo delle pensioni è diviso in due, pensioni più alte della media per gli attuali pensionati, che includono anche milioni di baby pensionati di ieri e «pensioni a rischio povertà per i precari di oggi». L’Italia oggi soffre da morire per la crisi perché è divisa in due, quella dei poveri e quella dei ricchi ed i governi lo ignorano.
I dati Ocse fanno il paio con il dato Bankitalia della ricchezza totale privata che da anni sono noti. Con poco meno di 9mila miliardi di euro, quasi il 6% del Pil, la ricchezza privata italiana batte un record relativo mondiale. Anche questi dati mostrano un’Italia profondamente divisa, un blocco fortunato formato dal 10% delle famiglie che possiede il 46% di tutta la ricchezza, quasi 2 milioni di euro a famiglia, un blocco mediano, che la crisi sta erodendo, formato dal 40% delle famiglie, che possiede il 10% della ricchezza, 500mila euro a famiglia ed il blocco dei poveri, vecchie e nuovi, formato dall’ultimo 50% delle famiglie, di poveri vecchi e nuovi che possiedono come patrimonio netto meno del 10% (9,8%, dati Bankitalia), 60mila euro a famiglia, di cui 30mila in immobili (molto meno di una casa in proprietà per famiglia) e 30mila in risparmi liquidi. In queste famiglie, se sparisce il reddito, si vive poco più un anno con i risparmi della vita, poi, chi ce l’ha, vende la casa, poi è la fine.
L’aumento della povertà dopo anni di crisi ha messo a terra almeno mezza Italia ed i governanti non possono continuare a non tenerne conto. Perché, di fronte ad un Paese diviso in due, l’Italia dei ricchi e quella dei poveri, di fronte ad un debito pubblico crescente che ha superato i 2mila miliardi ed il 30% del Pil, di fronte alla realtà di una norma, il Fiscal Compact che ci imporrà presto di ridurre il debito in modi convincenti -di almeno una ventina di miliardi l’anno come da Bruxelles il commissario Olli Rehn ci ricorda in ogni occasione-, di fronte ad una ricchezza privata non trascurabile, perché nessun governo azzarda qualche proposta in tal senso? Eppure, sino a poco fa proposte del genere, un contributo patrimoniale straordinario, erano state avanzate anche da autorevoli borghesi, dall’antesignano banchiere cattolico Pellegrino Capaldo a Luigi Abete, presidente Bnl, Pietro Modiano, presidente Nomisma, Carlo De Benedetti, Vito Gamberale, etc..
Perché, per iniziare a salvare il Paese, non si può chiedere un contributo a quel 10% di famiglie che posseggono 4mila miliardi di patrimonio netto? Monti aveva obiettato che non ci sono dati certi ma non è più vero, c’è il catasto per gli immobili e c’è la banca dati in mano alla Finanza per i beni mobili. Un contributo straordinario dello 0,5% del patrimonio del 10% delle famiglie più ricche, da 2 milioni in su, darebbe 20 miliardi di entrate e costerebbe una media di 8mila euro a ciascuna delle 2,4 milioni di famiglie più brave e fortunate d’Italia. Nessuno fallirebbe, la speranza di uscire dal buco nero della crisi sarebbe più concreta, i valori di solidarietà del popolo italiano sarebbero esaltati, alla luce dell’esempio di civismo che le classi dirigenti darebbero.

il Fatto 27.11.13
Ultime modifiche alla legge di Stabilità
Manovra confusa di Letta aspettando il dopo-Caimano
Arriva il maxi-emendamento governativo e il voto di fiducia
La nuova maggioranza costa a Letta 110 milioni di euro: Alfano ottiene soldi per i suoi
Per essere sicuro di passare, Letta trova 110 milioni per i senatori calabresi di Alfano decisivi a Palazzo Madama
di Marco Palombi

Applausi. Evviva. Entusiasmo sparso al vento nel pomeriggio della nuova Forza Italia. Persino Renato Brunetta, non proprio l’uomo più amato nell’ultima trincea del berlusconismo, strappa il sonoro plauso all’assemblea dei gruppi neo-azzurri: “Mettiamo a regime una patrimoniale e questo è dirimente e non ci permette di votare la legge di stabilità. Se dovessimo votarla come potremmo presentarci al nostro elettorato? ”. Battimani. Felicità. Poco importa che le stesse scene, qualche settimana fa, si erano concluse con la retromarcia nell’aula di palazzo Madama di Silvio Berlusconi, poco importa che la nuova Forza Italia nasca solo come ridotta lealista per reagire alla decadenza da senatore del capo. A volte il desiderio e le circostanze riescono a far percepire vere al mentitore le sue stesse menzogne: così è accaduto ai nuovi gruppi di Forza Italia, autoconvintisi che la manovra di Enrico Letta – se non migliore almeno simile a quelle approvate dai vari governi Berlusconi
– sia invotabile per questioni di credo economico. E così alle cinque del pomeriggio Renato Brunetta e Paolo Romani, ex ministri oggi capigruppo, si presentano ai giornalisti per dire: “Forza Italia esce dalla maggioranza. Le larghe intese sono finite”. La sorpresa per la notizia è pari a zero. Il reprobo Angelino Alfano festeggia con una dichiarazione: “Avevamo detto e ripetiamo che è sbagliato sabotare il governo e portare il paese al voto, per di più con questa legge elettorale, a seguito della decadenza di Berlusconi”. Gli ex amici lo accusano di tenere solo alla poltrona.
NEL FRATTEMPO il governo s’incartava nel tentativo di arrivare al voto in Senato sulla legge di stabilità entro la notte. Missione fallita, visto che il sì finale arriverà stamattina, dopo un Consiglio dei ministri convocato per approvare una Nota di aggiornamento ai conti pubblici. Prima ancora la stessa commissione Bilancio – pur di votare la manovra prima della decadenza di Berlusconi come chiedeva Alfano – aveva licenziato il testo per l’aula senza finire i suoi lavori: per comporre il ma-xi-emendamento su cui chiedere la fiducia, dunque, il governo ha dovuto fare un lavoraccio, passato per una lunga trattativa pomeridiana coi partiti di maggioranza con tanto di urla e minacce che arrivavano fino in corridoio. Il risultato, oltre a un ritardo di tre ore sul programma, comporta la presenza nella legge di cose tipo lo stanziamento da 110 milioni di euro per gli Lsu della Calabria: cinque senatori di quella regione sono, d’altronde, una componente fondamentale del gruppo in Senato degli scissionisti di Alfano. Non solo. Quando finalmente il maxi-emendamento arriva in aula è un’accozzaglia di incoerenze, con tanto di note a margine scritte a penna, cifre lasciate in bianco e con una relazione tecnica – fondamentale per permettere a tutti i parlamentari di capire cosa votano – lacunosa e senza tabelle, anche se miracolosamente dotata della necessaria bollinatura della Ragioneria generale dello Stato. Nella notte, al termine di una giornata di passione, si comincia a votare la fiducia: al momento di andare in stampa la procedura non è ancora conclusa, ma non dovrebbero esserci sorprese. La nuova maggioranza politica deberlusconizzata conta, infatti, su 167 voti al netto dei senatori a vita e di altri sostegni. Ora la guerra si sposta su un altro fronte: Forza Italia vuole un altro voto di fiducia, solo politico, per sancire la nuova maggioranza; Letta e Napolitano invece, dopo un incontro ieri sera al Colle, sostengono che basti quello sul ddl Stabilità.

il Fatto 27.11.13
Povertà e pensionati
Nasce il reddito minimo, ma è solo sperimentale
Assegni previdenziali bloccati e statali senza aumenti

ARRIVA IL FONDO per il contrasto alla povertà, che andrà a finanziare il reddito minimo garantito. Le risorse arriveranno dalle pensioni d’oro (a partire da 90.000 euro). Si tratta di poca cosa, però, e in larga misure è a carattere sperimentale. Pensionati e statali continuano però a pagare. La legge di Stabilità proroga, infatti, per i prossimi 3 anni il blocco dell’adeguamento all’inflazione: l’indicizzazione sarà completa solo fino circa 1.500 euro lordi al mese, al 90 per cento per la parte fino a duemila per scendere poi al 50 per cento e a zero a partire dai tremila euro lordi mensili. Quanto alle cosiddette pensioni d’oro c’è un contributo di solidarietà del 5 per cento tra i 90 e i 150 mila euro, del 10 fino a 200 mila e del 15 oltre questa soglia, ma vengono pure stanziati i soldi per risarcire gli stessi pensionati per lo stesso contributo voluto dal governo Monti e bocciato dalla Corte costituzionale. Viene prorogato al 2014, per il quinto anno consecutivo, anche il blocco dei contratti degli statali: secondo Istat la perdita di potere d’acquisto cumulata è pari al 9 per cento per 11,5 miliardi di risparmi totali.

il Fatto 27.11.13
Le nuove tasse
Tra imposte e balzelli vari c’è in vista una mazzata

NON MANCANO le nuove tasse nel ddl Stabilità: in generale, rimanendo ai dati macro, se si fa la sottrazione tra maggiori e minori entrate previste dalla manovra per il 2014 si scopre che il conto è a vantaggio delle prime per 1,1 miliardi. Tra queste c’è l’aumento dell’imposta di bollo sul dossier titoli – assai recessiva, perché colpisce tutti i risparmiatori a prescindere da guadagni o perdite – che dovrebbe portare un gettito di 940 milioni l’anno; poi la rivalutazione dei beni delle imprese ai valori di mercato che è messa a bilancio per ottocento milioni. Non mancano i balzelli sparsi, tipo l’imposta di bollo forfettaria da 16 euro per le comunicazioni online con la Pubblica amministrazione o la tassa da 50 euro che bisogna versare per potersi iscrivere al-l’esame di Stato per diventare avvocato, notaio o magistrato.

Corriere 27.11.13
Ventottomila euro in più a onorevole. Così le Regioni superano il Parlamento
Quanto sono costati i contributi ai gruppi, ecco le cifre record del 2012
di Sergio Rizzo

ROMA — Un fiume di denaro, per anni, ha alimentato i politici regionali. Tanti soldi, più di quanti se ne possano immaginare. Tanti da costringere a rifare persino i conti, correggendoli ovviamente al rialzo, del finanziamento pubblico dei partiti. Basta dire che nel 2012, l’anno dello scandalo di Batman & co. nella Regione Lazio, i contributi ai gruppi politici dei Consigli regionali hanno toccato la cifra astronomica di 95 milioni 655 mila euro. Più del finanziamento pubblico ai partiti francesi e spagnoli, più dei rimborsi elettorali che la legge di un anno fa ha fissato in 91 milioni, ancora più dei denari (molti, moltissimi) versati nelle casse dei gruppi parlamentari di Camera e Senato. E questo, naturalmente, oltre alle retribuzioni dei consiglieri, costate 228 milioni 609 mila euro. Somma perfino superiore a quella prevista nello stesso anno dai bilanci di Montecitorio e Palazzo Madama per le competenze di deputati e senatori: 225 milioni 852 mila. Per non parlare dei vitalizi agli ex consiglieri: 172,5 milioni contro i 191,9 pagati dalle Camere repubblicane, decisamente più anziane.
Ed è proprio da qui che bisogna partire, come ha fatto su lavoce.info Roberto Perotti in un’analisi sui bilanci dello scorso anno di tutti i Consigli regionali, per avere un’idea del grado di follia raggiunto dalla politica nelle Regioni. Dove il costo della politica ha raggiunto livelli inaccettabili, soprattutto in rapporto a compiti e responsabilità dei 1.117 consiglieri regionali: decisamente senza alcun confronto con l’impegno richiesto a deputati e senatori.
Anche grazie all’assenza di regole che ha consentito il proliferare dei gruppi consiliari di una sola persona (75 in tutta Italia), i contributi pubblici sono andati rapidamente in orbita. E l’assenza di controlli, introdotti soltanto nel 2012 per il clamore suscitato da vergognose vicende, ha permesso per anni che quei soldi venissero impiegati per finalità che con la politica hanno davvero poco a che fare, come stanno a dimostrare le innumerevoli inchieste giudiziarie che coinvolgono i Consigli regionali. Fatti che la dicono lunga sulla caratura di quella classe dirigente.
Nello scorso anno le Regioni hanno erogato contributi ai gruppi politici consiliari pari a 85.635 euro per ogni consigliere. Ovvero, 28 mila euro ciascuno in più, mediamente, rispetto a quanto versato dalla Camera ai gruppi parlamentari: 57.539 euro procapite. La differenza è abissale: +48 per cento. E questo in dispregio della situazione di profondissima crisi economica attraversata dal Paese.
Ad alzare la media, è vero, aveva dato una mano consistente la Regione Lazio, raggiungendo d’impeto nel 2012 la vetta della graduatoria nazionale dei contributi ai gruppi consiliari. Con una cifra, stando ai dati pubblicati nello studio di Perotti, di 13 milioni 414 mila euro: 188.929 procapite. Ovvero, più del triplo rispetto alla Camera. Ma al secondo posto figurava anche la più «virtuosa» Regione Lombardia. Nello scorso anno i gruppi politici del Consiglio regionale lombardo hanno avuto, si evince dalla tabella pubblicata da lavoce.info , contributi pubblici per 11 milioni 288 mila euro: 153.650 procapite. Cifra anche maggiore di quella della Regione siciliana, la cui assemblea regionale risultava la più spendacciona in assoluto. A Palermo i contributi ai gruppi politici toccavano 136.577 euro per ognuno dei 90 consiglieri.
Ci sono poi alcuni aspetti, messi in evidenza nello studio di Perotti, la cui enormità va ben al di là della dimensione pur sorprendente del costo. Perché al calcolo complessivo della spesa dei Consigli regionali nel 2012, pari secondo i conti di Perotti a 985 milioni, somma paragonabile al costo annuale di Montecitorio, sfuggono alcune voci. Sfuggono per forza, non comparendo nei bilanci dei Consigli. Reperirle, spiega Perotti, è stata un’autentica caccia al tesoro. Quando ci si è riusciti: in qualche circostanza la voce non si trovava nel bilancio del Consiglio, ma era affogata nelle migliaia di capitoli del bilancio della giunta. Il caso più clamoroso è quello della spesa per il personale del Consiglio regionale del Lazio, introvabile che nei documenti contabili. Eppure non è una somma irrilevante, considerando il numero: oltre 700 persone. Il quadruplo, in rapporto agli eletti, rispetto alla Camera e al Senato. La nota che Perotti ha messo in calce al suo studio fa letteralmente cadere le braccia: «Il Comitato regionale per il controllo contabile del Lazio, presieduto dalla consigliera 5 Stelle Valentina Corrado, da me contattato innumerevoli volte dall’ inizio di settembre fino a metà novembre, non è stato in grado di fornirmi i dati sulla spesa per il personale del Consiglio regionale, né alcuna informazione utile su come e dove ottenerli. Tentativi con altri uffici finora non hanno avuto successo. Semplicemente, la Regione Lazio non sa quanto spende per i dipendenti del Consiglio regionale, e soprattutto sembra non essersi mai posta il problema».

Repubblica 27.11.13
Solo 25 euro di detrazione media la Iuc potrà costare più dell’Imu
Conto salato per le famiglie se i Comuni scelgono l’aliquota più alta
di Valentina Conte

ROMA — La Iuc, la nuova Imposta unica comunale, sarà meno salata dell’Imu per le prime case solo se l’aliquota scelta dai sindaci rimarrà quella base all’1 per mille. Se dovesse salire - fino a un massimo del 2,5 per mille - addio ai risparmi in moltissimi casi. Anche perché le detrazioni che il governo ha reintrodotto purtroppo sono briciole rispetto al passato. Appena 25 euro medi a famiglia, per un totale di 500 milioni, calcolano Uil e Cgia. A meno che i Comuni vogliano concentrare gli aiuti su alcune categorie. Ma una cosa è certa: una larga parte dei cinque milioni di proprietari già esenti con l’Imu per effetto delle detrazioni non lo sarà più.
Due fatti, intanto. Anche le prime case pagheranno la Iuc. E poi non esiste, nel testo finale, alcuna quantificazione delle detrazioni. La nuova imposta ha tre gambe: Imu (solo sulle seconde abitazioni e le prime di lusso), Tasi per i servizi e Tari per i rifiuti. La Tasi (aliquota tra 1 e 2,5 per mille) è dovuta anche dalle prime abitazioni, affittuari compresi (verseranno tra il 10 e il 30%). Ma temperata dalle detrazioni. Il Fondo vincolato da 500 milioni, stanziato in extremis nella legge di Stabilità, sarà ripartito tra i Comuni, in proporzione al numero di prime case.
Il centro studi della Uil calcola in 27 milioni il tesoretto per Roma (al top delle città principali, con oltre un milione di prime case) e 12 milioni quello per Milano, adesempio. Come li distribuiranno i sindaci? Una soluzione piatta - 25 euro per tutti - esenterebbe solo 1,8 milioni di abitazioni italiane, tra popolari e ultrapopolari. Ma scelte selettive potrebbero premiare zone specifiche, classe catastali, famiglie in base al numero dei figli o in base al reddito Isee. Con tutti i paradossi del caso, visto che la coperta è corta. Aiutare le case di periferia, ma escluderequelle popolari diffuse in zone centrali, ad esempio. E così via. La Cgia raffronta invece la Tasi con l’Imu 2012 e le rispettive detrazioni: 25 euro nel primo caso, 200 euro nel secondo più 50 a figlio. Ebbene se l’abitazione è nella categoria A2 (di tipo civile), con un figlio la Tasi conviene quasi sempre. Ma all’aumentare dell’aliquota e della numerosità della prole, parte la nostalgia per l’Imu. Se la casa è un A3 (di tipo economico), la Tasi conviene ancora meno. Meglio l’Imu.
Le perplessità sulla Iuc, nonostante gli annunci rassicuranti, sfiorano anche il governo. Ieri Delrio invitava a «valutare bene». «Vediamo se ci sono margini per migliorarla e stiamo attenti a non consegnare ai sindaci uno strumento azzoppato», suggeriva il ministro. Delrio teme un buco da 1,3 miliardi nei bilanci comunali per via della riduzione al 10,6 per mille (dall’11,6) del tetto all’aliquota per le seconde case (totale tra Imu e Tasi). Buco certo non compensato dai 500 milioni in più, tra l’altro vincolati alle detrazioni. Né dagli altri 238 milioni trovati ieri per le imprese che potranno dedurre l’Imu sui capannoni (al 30% già sul 2013, al 20% dal prossimo anno). L’Anci, l’associazione dei Comuni, intanto teme di non riuscire a pagare le tredicesime. Il suo presidente, il sindaco di Torino Fassino, ha scritto a Letta chiedendo un incontro urgente. E facendo capire che la situazione è «al limite della rottura dei rapporti istituzionali». Il nodo è l’Imu 2013, cancellata per le prime case. I Comuni hanno alzato le aliquote e chiedono 500 milioni in più di rimborso allo Stato.

il Fatto 27.11.13
Patrimonio all’italiana
C’era una volta la Biblioteca
di Tomaso Montanari

È DAVVERO brillante l'idea – lanciata dal Sole 24 Ore e rilanciata dal presidente del Consiglio Enrico Letta – di spendere soldi pubblici per consacrare, ogni anno, una capitale italiana della cultura: sarebbe più o meno come proclamare a rotazione alcune località del Sahara ‘capitale del-l’acqua’. La cultura non ha bisogno di carrozzoni, cerimonie, parate, liturgie: ha solo bisogno di quelle indispensabili strutture pubbliche che una politica suicida ed eversivamente incostituzionale sta scientificamente distruggendo. L’agonia delle biblioteche pubbliche manifesta e annuncia l’agonia cerebrale del Paese, tradito dalla classe dirigente più ignorante dell’emisfero occidentale. La monumentale Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, per esempio, ha gli orari ridotti al lumicino, va sott’acqua a ogni temporale, non ha più soldi né personale. La gloriosa Biblioteca Universitaria di Pisa rischia di essere smembrata e finire in casse, condannata da un’ubicazione tanto pregiata da far gola ad avvoltoi tenaci quanto insospettabili. Ora un appello dell’Associazione Amici della BUP e dell’Associazione lettori della BNCF denuncia che “Gli archivi e le biblioteche statali italiane, custodi di un enorme patrimonio di libri e documenti, rischiano la chiusura nel giro di pochi anni per mancanza di risorse e di personale (l’ultimo concorso è stato bandito nel 1978) ”. E ricorda che le biblioteche servono alla conoscenza, alla ricerca, alla civiltà.
Ovvio? Per nulla, a giudicare dal sito www.miragu.com , che offre la Sala di distribuzione della Nazionale di Firenze come “location perfetta per meeting aziendali, lanci di prodotti, cene, ricevimenti”, precisando – surrealmente – che si tratta di “uno dei rari esempi di edilizia bibliotecaria, e che fa parte dell’area monumentale del complesso di Santa Croce”.
Letta potrebbe organizzare proprio lì il lancio del prodotto ‘capitale della cultura’: così forse qualche soldo arriverebbe davvero alla biblioteca. Pardon, alla location perfetta.

il Fatto 27.11.13
Volano i fustini, sono le primarie Pd
A Renzi che intimava a Letta “O così o Finish” replica cuperlo “Se non fa come dico io Dash”
di Luca De Carolis

Fustino contro fustino. Il Finish che rottama contro il Dash che difende le intese. Suona come una guerra di spot tra detersivi (molto anni ‘80) e invece è la puntata di ieri delle primarie del Pd. Al Renzi che lunedì da Prato dettava le condizioni a Letta (“O il governo fa quel che diciamo noi o finish”) ha risposto ieri via Twitter Gianni Cuperlo: “Se vinco io, o EnricoLetta fa quel che dico io o Dash”. Uno a zero per il dalemiano. Renzi sta al gioco, sempre con tweet: “Certo che questi candidati che fanno battute eh” con faccina per il sorriso e tag per Letta. Annessa, la spiegazione: “Ho detto finish solo dopo che una signora mi ha chiesto per quattro volte cosa avrei fatto se il governo non avesse realizzato il mio programma”. Da buon terzo incomodo, cinguetta pure Giuseppe Civati: “Senza detersivi, nè diversivi, si voti a marzo”. Sulfureo il lettiano Francesco Sanna: “C’è un tempo per Dash, uno per Finish, poi arriva e vince Coccolino”. Intanto nella diretta su Twitter Renzi semina buoni propositi. Promette che da segretario Pd non prenderà indennità (“ho lo stipendio da sindaco, 4300 euro”) e rivendica di essere di sinistra “molto più di tanti che fingono di esserlo”. Dà la sua quota di sicurezza per le primarie: “Se l’8 dicembre un paio di milioni di persone dicono che vogliono cambiare verso, può cambiare davvero l’Italia”. Giura di non voler stravincere: “Basta il 50 per cento più uno dei voti”. Quindi, attacco a Grillo: “Può fare una volta l’anno il Vaffa Day e mettersi l’elmetto della guerra contro i partiti. Quel giorno insulta noi, ma gli altri 364 offende gli elettori, a cui non dà risposte”. Cita Berlusconi: “Occhio, ha iniziato la campagna elettorale”. In serata, dal suo staff trapela: Renzi chiederà a Letta un patto di un anno , fino al 2015. Niente passaggi alle Camere o rimpasti, ma “la definizione di un nuovo programma”. Primo punto, la nuova legge elettorale. Mentre circolano indiscrezioni, il sindaco è al teatro Argentina a Roma, alla presentazione del libro di Aldo Cazzullo Basta Piangere. È torvo verso Maurizio Crozza: “Le sue imitazioni mi dipingono come il nulla assoluto”. Ma, paradosso, se la prende con “i leader della sinistra, convinti che sorridere sia un modo di essere vuoto”. Butta lì un “mi consenta” alla Berlusconi. Precisa: “Sono un giovane per finta, solo in un rappresentazione stanca vengo descritto come forever young”. Cita Calvino e Kraus, sulla falsariga del libro incita: “L’Italia ce la fa se smette di piangere”.

Corriere 27.11.13
Berlusconi lascia la maggioranza
La contromossa del governo: ritoccare la Carta
di Francesco Verderami

La fine delle larghe intese è l’inizio di un conflitto istituzionale che contrappone Berlusconi a Napolitano, è uno scontro destinato a radicalizzarsi, è una sfida che si gioca sul terreno delle procedure parlamentari ma che origina dalla battaglia sulla decadenza del Cavaliere.
Ritoccare la Costituzione al più presto La contromossa del (nuovo) governo L’obiettivo: poche riforme ma veloci per aggirare i possibili veti SEGUE DALLA PRIMA Perché è vero che Forza Italia ha deciso ieri di lasciare la maggioranza per dissenso sulla legge di Stabilità, e che in virtù di un mutamento sostanziale del quadro politico ha chiesto al premier di salire al Quirinale per essere poi — eventualmente — rinviato alle Camere per ottenere una nuova fiducia. Ma è altrettanto vero che la scelta è avvenuta alla vigilia del giorno del giudizio per Berlusconi, e che la manovra mira al blocco dell’attività parlamentare, quindi anche allo slittamento del voto sull’estromissione del Cavaliere dal Senato.
La scelta dell’esecutivo di porre la fiducia sulla legge di bilancio e di blindare in un solo colpo i conti dello Stato e la nuova maggioranza è stata però condivisa e assecondata dal capo dello Stato, provocando così la reazione degli azzurri, che accusano il Quirinale di «vulnus» alle regole del gioco. Ecco il preludio del conflitto che potrebbe segnare in modo drammatico l’epilogo della Seconda Repubblica. È la prova che Berlusconi non intende arrendersi, che punta alla delegittimazione del Colle e scommette sulla debolezza del quadro politico, magari con l’«aiuto» di Renzi per una crisi a breve termine.
È il rischio del «caos» a cui ha fatto riferimento ieri Letta, che sotto il patronato di Napolitano identifica il suo governo come l’alveo dentro cui arginare le convulsioni del sistema. Ma per evitare che il sistema imploda, l’esecutivo ha una sola strada: avviare subito la revisione della Carta. Il punto è che la fine delle larghe intese si porta appresso la fine del percorso riformatore previsto con la nascita del Comitato dei saggi: senza Forza Italia non ci sono più i due terzi dei voti parlamentari necessari per evitare un referendum, che vecchi e nuovi avversari del governo potrebbero utilizzare per far saltare il banco. Per incanto si unirebbero le estreme, da Berlusconi a Grillo, dalla Fiom ai custodi dell’ortodossia costituzionale: Colle e Palazzo Chigi verrebbero stritolati.
È un azzardo che lo stesso Renzi ha suggerito a Letta di evitare, e che incrocia il parere favorevole di Alfano. È preferibile piuttosto procedere con il tradizionale meccanismo dell’articolo 138, al quale sta già lavorando il ministro delle Riforme Quagliariello, che si appresta a presentare il primo pezzo della riforma, che è il passo d’avvio e forse anche di arrivo. Con la trasformazione del Senato nella Camera delle Autonomie si otterrebbe un triplice risultato: il superamento del bicameralismo perfetto e insieme la riduzione del numero dei parlamentari e dei costi della politica, visto che i 315 senatori sarebbero sostituiti (senza emolumenti) dai rappresentanti delle realtà locali.
Così si potrebbe anche evitare un «taglio» alla Camera degli attuali 630 deputati, sarebbe più semplice varare una legge elettorale e il cerchio si chiuderebbe. Tutto fatto? Niente affatto. Certo, Forza Italia e Cinquestelle faticherebbero a ostacolare un simile progetto di riforma, ma c’è da convincere i senatori ad abbandonare Palazzo Madama, impresa finora mai riuscita. Una cosa però è sicura: questo pacchetto viene sponsorizzato da Renzi, che non è ancora formalmente diventato il «player» della maggioranza ma di fatto adopera già la sua golden share sull’esecutivo.
Il futuro segretario del Pd si dispone al tavolo da gioco con due carte: potrebbe attendere che una maggioranza fragile al Senato si sfilacci, aprendo la strada alle elezioni, o — come sostiene di voler fare — mostra di dar credito a Letta, di appoggiare il percorso delle riforme che sposterebbe l’orizzonte del voto almeno al 2015. Che sia tattica o strategia, poco importa: Renzi vuole dettare l’agenda al governo, consapevole — nel caso — di poter ottenere le urne senza nemmeno lasciarci le impronte, visti i desideri di rivalsa che covano nell’area montiana...
Da ieri è cambiato tutto, e la sfida per Alfano inizia in salita: con Renzi che vuol contare e con Forza Italia che tenterà di schiacciarlo a sinistra, dovrà evitare di farsi «cespuglizzare». Tuttavia il vicepremier sa di avere una chance nel medio termine, se riuscirà a condividere con gli alleati di governo i primi refoli della ripresa economica — tutta da consolidare — e se riuscirà a intestarsi le riforme, dove peraltro potrebbe ricevere di qui a breve un prezioso contributo dalla Lega di Maroni, interessata al progetto di revisione della Carta. Sarebbe il primo passo verso un nuovo assetto del futuro rassemblement di centrodestra. Ma si fatica a scrutare l’orizzonte. Da ieri le nubi del conflitto istituzionale minacciano tempesta.

Corriere 27.11.13
Ipotesi di revisione e ricorso alla Consulta
Sulle parole di Boccia mezza rivolta nel Pd
di R. R.

ROMA — Sono bastate poche frasi ieri a Francesco Boccia, deputato del Pd di «osservanza» lettiana, per ritrovarsi isolato nel suo partito e difeso soltanto da Forza Italia.
Perché a Radio24 ha dichiarato che, se le carte americane annunciate lunedì da Berlusconi trovassero riscontro, allora si «aspetterebbe una revisione del processo come per qualsiasi altro cittadino». E poi: «In un Paese normale si sarebbe aspettata la delibera della Corte sull’interpretazione della legge Severino». Quasi un’adesione alla linea pro rinvio di Pier Ferdinando Casini, o una sorta di ciambella di salvataggio lanciata a Berlusconi proprio alla vigilia del voto del Senato sulla decadenza.
Quattro senatrici pd hanno preso immediatamente le distanze: «In un Paese normale un giovane parlamentare come Boccia si sarebbe limitato a parlare di cose che conosce, senza avventurarsi in campi in cui naviga a vista», hanno detto Donatella Albano, Doris Lo Moro, Laura Puppato e Lucrezia Ricchiuti, segnando così un drastico distinguo tra il partito e il collega. E poco dopo il senatore Stefano Esposito ha insistito: «Caro Boccia, le tue dichiarazioni sono un insulto al lavoro dei tuoi colleghi di Palazzo Madama». Boccia ha tentato di chiarire, di minimizzare: «Non ho fatto alcuna valutazione sui documenti presentati da Berlusconi. Ho risposto a una precisa domanda dicendo che se si scoprono nuovi testimoni e nuovi fatti che lo scagionerebbero, allora potrebbe chiedere la revisione del processo. Come ogni cittadino. È così eretico questo banale pensiero?»
Eretico o no, non è stato digeribile né per il Pd, né per il cosiddetto Popolo viola, che oggi manifesterà davanti al Senato in attesa del voto sulla decadenza: «Stia attento Boccia a tirare troppo la corda. Non tollereremo che, anche dentro il Pd, ci sia qualcuno che spalleggi i tentativi di Berlusconi di farla franca», ha affermato infatti Gianfranco Mascia. Tutto mentre il berlusconiano Sandro Bondi diramava attestati di solidarietà nei confronti di Boccia: «Le aggressioni verbali fino alle intimidazioni da parte di esponenti del suo partito, analogamente a quanto era già avvenuto contro Luciano Violante, fanno paura».
Così, alla fine di un pomeriggio di fuoco, Boccia interviene di nuovo per chiudere il caso: «Se fossi in Senato farei ciò che hanno fatto i miei colleghi. Il Pd è sempre compatto». E voterebbe per la decadenza: «Sì, in linea con il partito».

Repubblica 27.11.13
L’amaca
di Michele Serra

Sono volati ceffoni e spintoni alla Regione Piemonte (ieri) e in Campidoglio (ieri l’altro). Zuffe istituzionali. Uomini sull’orlo di una crisi di nervi che si afferrano per la cravatta. Ecco una possibile risposta a chi si domanda come mai, con una situazione economica e sociale così drammatica, la gente non si scanna per le strade. La gente non si scanna per le strade perché, in sua vece, si scannano i consiglieri comunali e regionali, e presto, forse, deputati e senatori. Il principio di rappresentanza, una volta tanto, ne esce confermato.
Un’ipotesi di massima (che metterebbe d’accordo, una volta tanto, quelli che odiano la politica e quelli che la ritengono indispensabile) sarebbe incaricare dello scontro estremo e simbolico — tipo Orazi e Curiazi — gli eletti dal popolo. Che si guadagnerebbero eccome il pane, e anche il companatico, immolandosi per le rispettive cause, incarnando pubblicamente il conflitto sociale, lo scontro ideale, l’odio politico. Ulteriore vantaggio è che i giovani, più vigorosi e prestanti, avrebbero certamente la meglio garantendo, ben più drasticamente di Renzi, il ricambio della classe dirigente.

Repubblica 27.11.13
Bergoglio. Donne e aborto
«C’è ancora bisogno di allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa. Il genio femminile è necessario in tutte le espressioni della vita sociale». Ma sull’aborto «non ci si deve attendere che la Chiesa cambi la sua posizione». E per Bergoglio «non è progressista pretendere di risolvere i problemi eliminando una vita umana». Il “no” all’aborto, spiega, «è legato alla difesa della vita nascente e di qualsiasi diritto umano».

Repubblica 27.11.13
Il vento della Curia
di Hans Küng

LA RIFORMA della chiesa procede: nell’esortazione apostolica “Evangelii Gaudium” Papa Francesco ribadisce non solo la sua critica al capitalismo e al dominio del denaro, ma si dichiara anche inequivocabilmente favorevole ad una riforma ecclesiastica «a tutti i livelli» . Si batte concretamente per riforme strutturali come la decentralizzazione verso diocesi e parrocchie, una riforma del ministero di Pietro, la rivalutazione dei laici e contro la degenerazione del clericalismo, per una efficace presenza femminile nella chiesa, soprattutto negli organi decisionali. Si dichiara altrettanto espressamente favorevole all’ecumenismo e al dialogo interreligioso, soprattutto con l’ebraismo e l’Islam.
Tutto questo troverà ampio consenso ben oltre l’ambito della chiesa cattolica. Il rifiuto indiscriminato dell’aborto e del sacerdozio femminile dovrebbero
suscitare critiche.
Mostrano i limiti dogmatici di questo Papa. O forse Francesco subisce le pressioni della congregazione della dottrina della fede e del suo prefetto, l’arcivescovo Gerhard Ludwig Müller?
Quest’ultimo ha manifestato la propria posizione ultraconservatrice in un lungo intervento sull’Osservatore Romano (23 Ottobre 2013), in cui ribadisce l’esclusione dai sacramenti dei divorziati risposati. Dato il carattere sessuale della loro relazione vivono presumibilmente nel peccato, a meno che non convivano «come fratello e sorella» (!) Da vescovo di Ratisbona, Müller, fonte di numerosi conflitti con parroci, teologi, organi laici e il comitato centrale dei cattolici tedeschi per le sue posizioni ultraclericali, era discusso e malvisto. Il fatto che nonostante ciò fosse stato nominato da papa Ratzinger, in qualità di fedele sostenitore nonché curatore della sua opera omnia, prefetto della congregazione per la dottrina della fede, non stupì quanto sorprende ora che sia stato da subito confermato in questo incarico da papa Francesco.
E già gli osservatori, preoccupati, si chiedono se il Papa emerito Ratzinger per il tramite dell’arcivescovo Müller e di Georg Gänswein, il suo segretario, anch’egli nominato arcivescovo e prefetto della casa pontificia, effettivamente non agisca come una sorta di «Papa-ombra». Agli occhi di molti la situazione appare contraddittoria: da una parte la riforma della chiesa e dall’altra l’atteggiamento nei confronti dei divorziati risposati.
Il Papa vorrebbe andare avanti— il “prefetto della fede” frena.
Il Papa ha in mente l’umanità concreta — il prefetto soprattutto la dottrina tradizionale cattolica. Il papa vorrebbe praticare la carità — il prefetto si appella alla santità e alla giustizia divina.
Il Papa vorrebbe che i sinodi episcopali nell’ottobre 2014 trovassero soluzioni pratiche ai problemi della famiglia anche sulla base delle consultazioni dei laici — il prefetto si basa su tesi dogmatiche tradizionali per poter mantenere lo status quo, privo di carità.
Il Papa vuole che i sinodi episcopali intraprendano nuovi tentativi di riforma — il prefetto, già docente di teologia dogmatica, pensa di poterli bloccare in partenza con la sua presa di posizione. C’è da chiedersi se il Papa controlli ancora questa sua sentinella della fede.
Va detto che Gesù stesso si è espresso senza mezzi termini contro il divorzio. «Ciò che Dio ha unito l’uomo non separi» (Mt 10,9). Ma lo faceva soprattutto a vantaggio della donna, che nella società del tempo era penalizzata a livello giuridico e sociale e contro l’uomo, che nel mondo ebraico era l’unico a poter avanzare richiesta di divorzio. Così la chiesa cattolica, in qualità di successore di Gesù, pur in una situazione sociale completamente mutata, ribadisce con forza l’indissolubilità del matrimonio che garantisce ai coniugi e ai loro figli rapporti stabili e duraturi.
I cristiani neotestamentari non considerano la parola di Gesù riguardo al divorzio una legge, bensì una direttiva etica. Il fallimento dell’unione matrimoniale chiaramente non corrisponde al disegno della creazione. Ma solo la rigidità dogmatica non può ammettere che la parola di Gesù sul divorzio già in epoca apostolica fosse usata con una certa flessibilità, e cioè in caso di «lussuria» (cfr. Mt 5,32; 19,9) e nel caso di separazione tra un partner cristiano e uno non cristiano (cfr. Cor. 7,12-15). È evidente che già nella chiesa primitiva ci si rendeva conto che esistono situazioni in cui proseguire la convivenza diventa irragionevole.
E la credibilità di papa Francesco verrebbe immensamente danneggiata se i reazionari del Vaticano gli impedissero di tradurre presto in azioni le sue parole e i suoi gesti pervasi di carità e di senso pastorale. L’enorme capitale di fiducia che il Papa ha accumulato nei primi mesi del suo pontificato non deve essere sperperato dalla Curia. Innumerevoli cattolici sperano che il Papa esamini la discutibile posizione teologica e pastorale di Müller; che vincoli la commissione per la difesa della fede alla sua linea teologica pastorale; che le lodevoli consultazioni dei vescovi e dei laici in vista dei prossimi sinodi sulla famiglia conducano a decisioni dotate di fondamento biblico e vicine alla realtà.
Papa Francesco dispone delle necessarie qualità per guidare da capitano la nave della chiesa attraverso le tempeste di questi tempi; la fiducia dei fedeli gli sarà di sostegno. Avrà contro il vento della curia e spesso dovrà procedere a zig zag, ma la speranza è che affidandosi alla bussola del vangelo (non a quella del diritto canonico) possa mantenere la rotta in direzione del rinnovamento, dell’ecumenismo e dell’apertura al mondo. “Evangelii Gaudium” è una tappa importante in questo senso, ma non è certo il punto di arrivo.
(Traduzione di Emilia Benghi)

Repubblica 27.11.13
Dalla Nuvola di Roma alle Torri di Milano così si arenano i cantieri degli archistar
Ritardi epolemiche: all’opera di Fuksas nella capitale mancano 170 milioni
di Francesco Erbani

ROMA — Un cantiere infinito. Un groviglio inestricabile. La Nuvola di Massimiliano Fuksas avrebbe dovuto aleggiare nel firmamento dell’architettura contemporanea. E invece è rimasta lì, scheletro metallico nel cuore del quartiere romano dell’Eur, in attesa di conoscere il proprio destino. Che cosa si aspetta perché questo destino si compia? Ancora tanti soldi (170 milioni), ancora tanto tempo (almeno due anni).
Ma come si è arrivati a questo punto? È il consueto, tragico rovello delle Grandi Opere d’architettura? In parte sì. E perché le Grandi Opere sono in affanno? Molti sostengono che queste vicende sono anche l’effetto del considerare l’architettura come una soluzione a sé, bella quanto si vuole, ma che prescinde dall’urbanistica, cioè dalla sua relazione con la città. Una relazione che si tenta in ogni modo di forzare.
Vengono allora in mente lo stadio del nuoto progettato da Santiago Calatrava, a Roma: cominciato e rimasto tristemente incompiuto. Oppure il nuovo Palazzo del cinema al Lido di Venezia disegnato da Rudy Ricciotti e ingoiato, insieme alle logiche da Protezione civile che l’hanno sorretto, nel colossale buco che ancora troneggia davanti al vecchio Palazzo del cinema. E che ne sarà dei tre grattacieli di City Life a Milano, firmati da Zaha Hadid, Arata Isozaki e Daniel Libeskind? Oppure del contestatissimo Crescent che Ricardo Bofill sta realizzando a Salerno e il cui cantiere è stato appena sequestrato? Un altro caso è a poche decine di metri dalla Nuvola e la sua storia è strettamente intrecciata all’opera di Fuksas: il progetto, ora abbandonato, che Renzo Piano aveva realizzato per sostituire le due Torri di Cesare Ligini, che — altri scheletri — svettano davanti al laghetto dell’Eur.
La storia della Nuvola è emblematica di una relazione poco felice con il contesto. Comincia nel 2000, quando Fuksas vince un concorso per il nuovo Centro congressi della capitale. Disegna una teca d’acciaio e vetro alta 40 metri che racchiude, sospesa, una struttura in fibra di vetro e silicone. Totale: 27mila metri cubi. Architettura ardita, coperta di lodi e di polemiche. Il costo iniziale è di 130 milioni. Ma si arriva al doppio: l’appalto è fissato a 273 milioni. Come finanziare la spesa? Eur Spa, il committente dell’opera (per il 90 per cento di proprietà del ministero dell’Economia, per il 10 del Comune di Roma), si indebita con le banche e spera di ottenere quattrini da alcune operazioni immobiliari, spremendo soldi con spericolate scorribande che si abbattono sui suoli dell’Eur, i suoli pubblici che Eur Spa amministra come un privato.
Accanto alla Nuvola viene costruito un altro edificio, una specie di paravento di vetro nero. Lo chiamano la Lama. Nelle intenzioni dovrebbe essere un albergo di lusso. Lo si vorrebbe vendere, ma nessuno si fa avanti. Si pensa di darlo in gestione, ma neanche quest’operazione va in porto. Una buona architettura può fare a meno della buona urbanistica? Chi si affaccia da una finestra della Lama capisce che non si può. A poche decine di metri svettano proprio gli scheletri delle Torri di Ligini: scorticate, ma mai demolite perché l’intera operazione non aveva più convenienza (fra coloro che vi si erano impegnati Salvatore Ligresti, i fratelli Toti e Alfio Marchini). Come si può vendere un albergo cinque stelle difronte a un pezzo di Beirut?
Altra vicenda urbanistica: Eur Spa spera di far cassa valorizzando l’area in cui c’era il Velodromo, gioiello dell’architettura di fine anni Cinquanta, anch’esso di Cesare Ligini, anch’esso distrutto, ma stavolta definitivamente. Dove un tempo sfrecciavano i ciclisti, si vorrebbero tirar su palazzi. Ma l’iniziativa (che qualcuno chiama semplicemente speculazione edilizia) non va in porto, anche perché ora il Campidoglio la vuole fortemente ridimensionare. Dall’altro lato lievitano i costi della Nuvola: nei piani interrati si realizzano altre sale e sono necessari nuovi parcheggi. Le modifiche al progetto hanno ritardato i lavori e hanno prodotto altri oneri.
Ora la partita della Nuvola si gioca sui tavoli di una complessa trattativa. Che cercherà di evitare alla teca di Fuksas il triste destino di gigantesca incompiuta.

Corriere 27.11.13
Laicità in Francia, una festa fraintesa
Nostra Signora Laicità. La tentazione (fraintesa) dei cugini d’Oltralpe
Il 9 dicembre la Francia celebra la Festa della Laicità istituita nel 2011:
il giorno è stato scelto in omaggio alla Legge del 9 dicembre 1905 sulla separazione tra Chiesa e Stato
di Emanuele Trevi

Negli ultimi mesi il calendario  delle festività  è stato oggetto di dibattito.
A settembre l’antropologa Dounia Bouzar, esponente dell’Osservatorio francese per
la laicità, lo ha definito «troppo cristiano» e ne ha proposto la modifica
La studiosa vuole sostituire alcune festività cristiane con feste celebrate dai fedeli di altre religioni.
Il presidente dell’Osservatorio,  il socialista Jean-Louis Bianco,  ha chiarito che la modifica del calendario «non è una priorità»

La Festa della Laicità che si celebra in Francia il 9 dicembre, come tante idee nobili e degne di rispetto, rischia di attirarsi qualche sonora pernacchia. La stessa idea di una festa, infatti, evoca in qualche maniera la personificazione di una virtù astratta, e dunque la creazione di una nuova divinità. Un vero laico non può che storcere il naso. A sostituire una religione con un’altra si rischia solo di far rimpiangere amaramente quella che è stata spodestata.
Come tante idee nobili e degne di rispetto, anche la Festa della Laicità che si celebra in Francia il 9 dicembre rischia di attirarsi qualche sonora pernacchia. La stessa idea di una festa, infatti, evoca in qualche maniera la personificazione di una virtù astratta, e dunque la creazione di una nuova divinità. Un malinteso ricorrente nella storia francese: fin dai banchi di scuola abbiamo imparato a sorridere del culto della Ragione che i giacobini intendevano sostituire alla vecchia fede, nemica del progresso e complice della tirannia. Un vero laico non può che storcere il naso. A sostituire una religione con un’altra si rischia solo di far rimpiangere amaramente quella che è stata spodestata. Mille volte meglio le vecchie, care monache di un nuovo ordine di sacerdotesse del materialismo, del disincanto, della geometria! E allora, bisognerà cercare di spiegare bene in cosa consiste, ridotta all’essenziale, la questione della laicità, e perché si tratta di una cosa talmente importante che agli occhi di molti, non solo francesi, la stessa qualità della nostra vita ne viene coinvolta. Purtroppo, si tratta di un tema che riguarda solo quella parte dell’umanità che gode di forme, più o meno raffinate, di democrazia. Un governo tirannico può essere indifferentemente laico o teocratico, e questo è l’ultimo dei problemi per coloro che ne sono oppressi. Nelle democrazie, invece, le forme della convivenza sono stabilite da leggi, per le quali è necessario che si impegnino rappresentanti del popolo liberamente eletti. Ma questo potere è così fragile e complesso che non può fondarsi su nient’altro che se stesso e rispondere a nient’altro che alle sue regole. Detta in soldoni, possono partecipare alle decisioni solo coloro che hanno ricevuto un mandato ufficiale, presentandosi alle elezioni. Non devono esistere suggeritori esterni, di nessun genere, perché il potere che si fonda sull’invisibile, tenendo un piede in un Parlamento e un altro chissà dove, è sempre una specie di tirannia. La laicità, dunque, non è un’opzione della democrazia come per esempio la scelta fra un sistema elettorale maggioritario o proporzionale. Della democrazia, è una condizione essenziale e irrinunciabile. Da questo punto di vista, tutti farebbero bene, qui in Italia, a trattenere per un po’ le pernacchie e tentare di capire perché in Francia si prendano tanto a cuore la vicenda. È parere di molti (ed anche il mio) che il nostro sia un Paese terribilmente arretrato da questo punto di vista. Concezioni metafisiche del tutto opinabili intervengono a ledere diritti fondamentali che riguardano il rapporto dell’individuo con tutti i nodi che prima o poi vengono al pettine: la sofferenza fisica e psicologica, il destino dei propri cari, la necessità di far fronte alla morte nella maniera più indolore possibile. Noi devoti della laicità a questo punto facciamo il solito errore, che è quello di prendercela con il Vaticano. Ma i preti fanno solo il loro mestiere. Sarebbe molto difficile convincerli a presentarsi alle elezioni, invece di lavorare dietro le quinte. Non farebbero nessun danno se non ci fossero sempre stati quei politici così ignoranti da non capire che i poteri ufficiali non possono convivere con quelli non ufficiali. Che lo facciano per convinzione, o per la più bieca ricerca di consensi elettorali, non cambia l’entità del danno che arrecano a tutti, laici e credenti. Ogni minima deroga alla laicità implica uno spostamento del baricentro della democrazia, e il transito dei processi di decisione all’interno di zone oscure che li stravolgono e ne minano la legittimità. Un regime apertamente teocratico, come quello degli ayatollah, appare addirittura preferibile a questa sordida confusione di prerogative (l’eterno miscuglio italiano di martedì grasso e mercoledì delle ceneri, come direbbe il Manzoni). La stessa idea di un politico cattolico, o di un politico buddhista, o shintoista, mi sembra tremendamente nociva all’idea stessa di una vita democratica. E se a qualcuno venisse in mente di rappresentare la Laicità, in una statua o in un francobollo, avrei un suggerimento iconografico. Come la Giustizia porta in mano la bilancia, alla sua nuova collega si addicono due bei tappi per le orecchie.

Corriere 27.11.13
Marjane Satrapi: «L’accordo con l’Iran riaccende le speranze di libertà»
La gioia della scrittrice in esilio: nessuna guerra è mai servita
di Elisabetta Rosaspina

Di solito le pesa parlare dell’Iran. Il Paese dove è nata e dove non può tornare da oltre 14 anni. Di solito rifugge dal cliché dell’esiliata nostalgica o rabbiosa, da domande e giudizi, preferibilmente critici, sul governo di Teheran, sulla bomba atomica, sugli ayatollah, sulle donne velate e sulla politica dei divieti. Stavolta no. Stavolta Marjane Satrapi non si sottrae. Per i suoi 44 anni, festeggiati venerdì scorso, i «Cinque più uno» le hanno inconsapevolmente fatto, da Ginevra, un regalo tanto atteso quanto insperato, almeno fino alle recenti elezioni presidenziali, che hanno chiuso l’era intransigente di Ahmadinejad: «Sono davvero molto contenta. Perché questi negoziati hanno aperto finalmente la strada a una soluzione diplomatica. La Storia dimostra che nessuna guerra ha mai migliorato la situazione di un Paese. Non è accaduto in Afghanistan, né in Iraq, né altrove. Non accadrebbe certamente neppure in Iran», osserva l’autrice di Persepolis , Il Pollo alle prugne e Taglia e cuci , la serie di libri a fumetti che l’hanno resa famosa e che — meglio di qualunque saggio — hanno saputo spiegare al mondo la vita quotidiana in Iran, vista dagli iraniani.
È contenta, e oggi ha finalmente voglia di parlarne: «Perché questo accordo rafforza la classe media iraniana che, a causa dell’embargo economico, stava per scomparire. E, nelle società contemporanee, è la classe media la garante della democrazia e, quindi, della libertà» riflette, da Parigi dove risiede, la scrittrice.
Perché soltanto la classe media? «I ricchi non vogliono i cambiamenti, vogliono soprattutto che tutto rimanga com’è. E i poveri hanno altre priorità, altre urgenze da risolvere, prima di preoccuparsi della democrazia. Le sanzioni economiche contro l’Iran stavano distruggendo il ceto medio, la fascia più attenta ai problemi della giustizia sociale e della libertà. Sparita questa, tutto diventerebbe molto più difficile».
In Italia, poche settimane fa, per ricevere il premio della Fondazione Masi, Marjane Satrapi aveva contestato le sentenze emesse contro intere nazioni: «Nessun popolo nasce per essere terrorista. Tutti gli esseri umani desiderano le stesse cose: vivere in pace, portare a spasso o al cinema i propri figli, divertirsi. Se non si comprende questo concetto, non si va da nessuna parte».
Da qualche anno rivendica questo diritto anche per se stessa: divertirsi, cambiare genere, sperimentare. Ci prova con i suoi strumenti e la sua immaginazione, dalla matita alla cinepresa, dalle storie iraniane alle commedie o ai thriller. «Sono affascinata da tutto ciò che è nuovo — dice — amo gli effetti speciali. E amo il cinema. Mica perché sono iraniana devo parlare solamente del velo o delle armi nucleari, no? Forse che gli italiani parlano soltanto di Berlusconi? Sono un essere umano anch’io, m’interessa l’amore. Faccio quello che mi dice il cuore». Ed è stata la saggezza cardiaca a suggerire a Marjane Satrapi di dirigere il suo primo film non d’animazione, Le voci . Quando le è arrivata la sceneggiatura di Michael R. Perry, la storia surreale di uno schizofrenico, operaio in una fabbrica di vasche da bagno, che ascolta i consigli di un cane e di un gatto parlanti, non ha esitato: «Non potevo credere che, per dirigerlo, i produttori volessero proprio me. Con tanti grandi registi che ci sono in giro».
La vita è piena di sorprese, per Marjane: anche quella di essere censurata, dopo l’Iran, negli Stati Uniti. «Mesi fa mi è arrivata l’email di un gruppo di studenti di un liceo di Chicago — racconta —. Mi dicevano che volevano leggere Persepolis , ma che la scuola intendeva proibirlo. Pensavo fosse uno scherzo. Essere tra gli autori proibiti, è emozionante, soprattutto se a metterti al bando è la più grande democrazia del mondo». Nella capitale dell’Illinois, un’insegnante aveva giudicato troppo violente le immagini delle torture subite in carcere dagli oppositori dello Scià: «Impressionanti i miei disegni? E allora nei videogiochi che circolano fra i quattordicenni c’è meno violenza? Mi piaceva l’idea che gli studenti manifestassero per avere il diritto di leggermi, ma non so come sia finita e non mi sono intromessa. La stupidità non merita risposta».
Tanto più che il proibizionismo giova alle vendite: «Al festival letterario di Dubai, veniva gente dal Kuwait a comprare Persepolis . In Iran ogni libro vietato viene letto dieci volte di più. Da adolescente andavo, come tanti altri, al mercato nero per comprare la musica censurata dei Clash. Chi l’avrebbe detto che un giorno sarei diventata altrettanto cool ?».
Era più facile immaginare che non sarebbe mai diventata una fifona: «La paura paralizza. La nostra società ha paura di tutto: del terrorismo, sì. Del nucleare, certo. Ma anche della mucca pazza e dell’influenza aviaria o del disastro ecologico. Un giorno a Parigi ero entrata in un panificio per comprare un sandwich di pollo: scherza?, mi ha risposto la panettiera, non ha sentito del virus che ha ucciso un pappagallo in Romania?».

Corriere 27.11.13
il riavvicinamento tra Iran e Usa e le nuove alleanze in Medio Oriente
di Farian Sabahi

Se Teheran ha firmato l’accordo non è solo per un alleggerimento delle sanzioni ma per rivendicare il ruolo di potenza regionale. Contribuendo alla stabilità di Siria e Libano, Afghanistan e Iraq, nel contesto di un ridimensionamento della presenza americana nella regione. Come la Gran Bretagna nel 1971, anche Washington vuole tagliare sulle spese, è alla ricerca dell’indipendenza energetica e sembra non badare alle conseguenze sulla sicurezza di lungo periodo degli alleati arabi. A temere il riavvicinamento tra Iran e Usa sono — oltre alla destra israeliana perché darà modo ad Obama di passare alla questione palestinese — anche l’Arabia Saudita e le altre monarchie arabo-sunnite del Golfo Persico. Membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo, un’organizzazione voluta nel 1981 da Riad su spinta degli Stati Uniti in chiave anti-iraniana.
Il riavvicinamento tra Teheran e Washington potrebbe portare a una situazione simile al 1971: andandosene, gli inglesi lasciarono allo scià il ruolo di guardiano del Golfo. Fu allora che l’Iran prese possesso di tre isole, tuttora rivendicate dagli Emirati: «Una questione assai sentita tra le popolazioni locali», osserva Matteo Legrenzi di Ca’ Foscari. Un asse Washington-Teheran è percepito negativamente dagli arabi perché — continua lo studioso di paesi del Golfo — «danneggerebbe molte delle loro politiche, a cominciare dal sostegno ai ribelli siriani». Senza contare che, se non ci fossero tensioni sarebbe difficile contrastare l’egemonia iraniana nello stretto di Hormuz.
Infine, in un Medio Oriente in cui tante dispute sono spesso lette in chiave settaria e gli sciiti sono perseguitati, l’Iran si erge a protezione di questa minoranza. Pensiamo al Bahrein, dove una dinastia sunnita ha soffocato nel sangue (con l’aiuto dei sauditi) la primavera di una popolazione sì araba ma a maggioranza sciita. L’alleanza con Washington darebbe legittimità alle aspirazioni iraniane e dunque non possiamo escludere che Netanyahu e il principe saudita Bandar uniscano le forze per attaccare l’Iran come avanzato da Uzi Mahnaimi sul Sunday Times. Uno scenario devastante.

il governo afghano, tenuto in piedi dalle armi anche italiane
Corriere 27.11.13
Lapidazione pubblica Kabul la ripropone
Frustate e Cherry Berry, locali occidentali e lapidazioni.
di Michele Farina

Giovani maschi nella yogurteria chic appena aperta a Kabul, ragazze al piano di sotto con le famiglie: cartoline dall’Afghanistan della mancata parità tra i sessi. Parità che al ministero della Giustizia afghano stanno pensando di promuovere a modo loro. Aggiornando, si fa per dire, il codice penale. Per il reato di adulterio, la cosa migliore sarebbe lapidare i «colpevoli» sulla pubblica piazza: uomini e donne.
Dopo la denuncia di Human Rights Watch, l’ha confermato al Wall Street Journal il direttore dell’ufficio legislativo del ministero, Abdul Raouf Brahawee: il gruppo che lavora alla riforma della giustizia sta valutando la reintroduzione della pena di morte per lapidazione tanto amata dai talebani. «Non c’è niente di strano - dice Brahawee - Lo prevede la Sharia». Detto, quasi fatto: «Non siamo soddisfatti dalla bozza di legge», precisa il direttore. Così l’Afghanistan corre verso il fatidico 2014 (ritiro completo degli stranieri) guardando indietro. «La lapidazione ha un grande significato simbolico in questo Paese: è quasi il marchio di fabbrica del regime talebano» dice al Wsj Heather Barr di Human Rights Watch. E non è l’unico segnale di ritorno al passato: la proposta, sostiene Barr, si inquadra in un più vasto piano per «ritirare» i diritti delle donne salvaguardati (sulla carta) dalla Costituzione. Piano che comprende una recente iniziativa legislativa per diluire in Parlamento la legge sulle violenze di genere. Il prossimo aprile ci saranno cruciali elezioni presidenziali. Pensare a questo piano come a una manovra elettoralistica per conquistare voti non consola, anzi fa ancora più paura.
Nelle campagne i costumi non sono cambiati di molto da quando quindici anni fa governavano i talebani. La nostalgia della lapidazione non viene da imam o capi villaggio nelle province più conservatrici, arriva da tranquilli funzionari incravattati al ministero i cui rampolli, la sera, magari affollano i locali occidentali e vanno da Strikers a giocare a bowling. Qualcuno lo dica ai ragazzi e alle ragazze di Kabul che, complici i social network, si danno appuntamento e flirtano da Blue Flame: oltre alle pietre unisex per gli adulteri, la legge allo studio prevede altri rimedi taleban style . Come una dose di frustate (in pubblico) per i single (uomini e donne) che faranno sesso fuori dal matrimonio. Diversi osservatori occidentali a Kabul minimizzano: le autorità si sono impegnate a salvaguardare i diritti umani, se non vogliono perdere gli aiuti economici dall’estero non potranno promuovere il ritorno all’età delle pietre.

il Fatto 27.11.13
Grecia, l’abisso della crisi: “I giovani si iniettano l’Hiv”
I dati divulgati dall’Oms: lo fanno per percepire i 700 euro di sussidio
di Roberta Zunini

È una di quelle scoperte che lasciano sconvolti: in Grecia, alcuni tossicodipendenti disoccupati si sono iniettati consapevolmente il virus dell’Hiv per poter percepire l’assegno statale di 700 euro e ottenere più velocemente l’ammissione ai programmi di recupero con il metadone. Che sostituisce l’eroina ma, sempre più spesso, viene usato al posto dell’eroina. Un altro dato che racconta gli effetti tragici della crisi ellenica è l'aumento del numero di contagiati a causa dello scambio di siringhe infette perché non hanno i soldi per comprarne di nuove. Per questo il mese scorso ad Atene è stata aperta la prima “stanza del buco” dove ai tossicodipendenti viene offerto gratuitamente un kit costituito da siringa, tampone e laccio emostatico, oltre alla supervisione di medici e infermieri.
TUTTE LE SERE nel centro della capitale, in piazza Omonia e sotto i portici delle strade limitrofe, si ha la visualizzazione dei dati agghiaccianti pubblicati, e solo in parte rettificati, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Decine di giovani tossicodipendenti chiedono l’elemosina con lo sguardo da zombie e le mani ricoperte di buchi e piaghe, aspettando il pusher che gli consegnerà la dose di eroina quotidiana. Quasi tutti se la iniettano seduta stante, scambiandosi la siringa, sotto lo sguardo allibito dei pochi turisti perché gli ateniesi di lì cercano di passarci il meno possibile. Secondo uno studio commissionato dal dipartimento europeo dell’Oms, all'Istituto di Equità dell’Università di Londra, per valutare il divario esistente in ambito sanitario tra i Paesi dell’Unione, è emerso che, tra gli effetti della crisi economica, c’è stato un aumento di contagiati dal virus dell'Hiv. L'Oms, però, ha dovuto correggere l'errore commesso nella pubblicazione del rapporto. Nello studio, ripreso anche dalla prestigiosa rivista scientifica Lancet, non si affermava come scritto sul sito dell'Oms che la metà delle nuove infezioni da Hiv sia voluta, bensì che alcuni componenti di questa metà si sono auto iniettati il virus.
L’organizzazione aggiunge che “la Grecia nel 2011 ha registrato un aumento del 52 % delle nuove infezioni da Hiv, rispetto al 2010”. La maggior parte dei contagi è avvenuta tra i consumatori abituali di eroina.
L'Okana è l’organizzazione nazionale contro l’uso di droga che tiene sotto controllo i cambiamenti nell'ambito del consumo. “La domanda di luoghi e kit sta aumentando giorno dopo giorno e siamo convinti che molto presto avremo bisogno di nuove strutture in altre zone della città”, ha detto Sakis Papaconstantinou, che gestisce il centro.
LA GRECIA HA tagliato la spesa sanitaria, come parte delle misure di austerità volute dagli istituti di credito internazionali in cambio di fondi che dovrebbero aiutarla a stare a galla. “Bisogna cercare in tutti i modi di non sacrificare i trattamenti farmacologici sull'altare dell' austerità”, ha Panos Kakaviatos, portavoce del Consiglio d'Europa. L’organismo intergovernativo lancerà un appello a tutti i governi affinché aumentino le risorse per i programmi di recupero dei tossicodipendenti.
Il Paese non sta dunque galleggiando. “Stiamo andando a fondo poco per volta”, dice Anna, una dottoressa volontaria di Medici del mondo che due volte la settimana presta servizio a Perama, una cittadina vicino al Pireo dove quasi tutti lavoravano nei cantieri navali. “In questi ultimi due anni la disoccupazione nel settore è arrivata al 95% e i miei pazienti sono ormai solo greci disoccupati e i loro figli. Ci sono contagiati da Hiv ma anche tossicodipendenti che a causa dello scambio di siringhe ora soffre di epatite C, che è una malattia da tenere sotto controllo costante. Con le cure esistenti si potrebbero inoltre trattare le donne incinte affette da Hiv in modo tale che i loro bambini nascano senza il virus, ma ci vogliono soldi. E queste persone non ce li hanno. La cosa grave è che qui in Grecia, dopo un anno di disoccupazione, perdi il diritto di essere curato gratuitamente presso il servizio sanitario pubblico. Molta gente perciò non va più in ospedale ma viene da noi. Purtroppo non è la stessa cosa”. Oltre il danno anche la beffa.

l’Unità 27.11.13
La Germania, Frau Merkel e il salario minimo
di Paolo Borioni

NELLE TRATTATIVE PER LA FORMAZIONE DEL GOVERNO TEDESCO IL SALARIO MINIMO AFFIORA GIUSTAMENTE COME UNA DELLE QUESTIONI DIRIMENTI (PER LA FATTIBILITÀ DELLA GROSSE KOALITION) E DECISIVE (PER LA CRISI EUROPEA). En passant si può notare che invece la necessità di fornire un governo «la sera stessa delle elezioni» (come i sostenitori dei sistema maggioritario ripetono ossessivamente) non è importante per i tedeschi (come in pressoché tutti i Paesi più avanzati d’Europa): le trattative procedono senza fretta già da due mesi. Comunque, pare Frau Merkel si sia decisa ad accettare la versione socialdemocratica del salario minimo: 8.5 euro l’ora per legge. Ella pensava in un primo tempo di lasciare la materia alle trattative locali. Questa, del resto, era anche la posizione classica dei sindacati più forti d’Europa.
Oggi, però, la confederazione sindacale tedesca Dgb affronta una situazione diversa. Le riforme Hartz del mercato del lavoro, introdotte purtroppo proprio dal governo Spd-Verdi 1998-2005, hanno «sfondato» il pavimento del mercato del lavoro. Oggi, inoltre, i contratti coprono una quota sempre minore di lavoratori, e i sindacati organizzano una percentuale di essi vicina al 20%, molto più bassa di un tempo. I bassi e bassissimi salari quindi sono dilagati, costituendo parte eccessiva della competitività tedesca (e degli squilibri europei): il minimo salariale per legge è l’unica arma che ora Spd e sindacati riescano ad opporre. Purtroppo però non è sicuro che ciò basti affinché la Spd recuperi i molti milioni di voti persi fra i lavoratori. Ciò perché, come sostengono i sindacati e le socialdemocrazie nordiche, a garantire il salario più che le leggi, è la forza dell’organizzazione politico-sindacale. In effetti, i dati (dalla ricerca Painful separation, di J. Bailey, J. Coward, M. Whittaker) evidenziano che negli anni 2000 la distribuzione della ricchezza prodotta è stata molto più eguale nei Paesi nordici che altrove.
La ricerca adotta un calcolo per cui se i salari fossero cresciuti al passo della ricchezza, l’indice sarebbe pari a uno. I suoi dati dicono due cose: intanto che ovunque i salari sono cresciuti troppo più lentamente rispetto alla ricchezza prodotta, ovvero il loro indice di crescita è sempre minore di 1. E questo è il problema principale della crescita europea. Poi dicono che l’indice è, nei Paesi nordici, compreso fra 0, 60 (Danimarca) e 0, 77 (Finlandia). Altrove esso invece è 0,43 (Regno Unito), 0,26 (Usa) e 0,12 (Francia): questi ultimi, salario minimo legale o meno, sono tutti Paesi a sindacato debole.
Fa soprattutto riflettere il dato tedesco, che addirittura è 0,08! Questo dice molto sul nesso fra diseguaglianza e protezionismo di fatto della Germania. Ma quel dato suggerisce anche che questa incredibile differenza fra ricchezza prodotta e redistribuita dipenda anche da altro. Per esempio dal «triplo» mercato del lavoro tedesco: quello dei lavori più protetti e ben pagati, quello interno dei famigerati «mini jobs» pagati pochissimo, e quello esterno (Ungheria, Polonia) in cui vengono prodotti segmenti cospicui dei prodotti tedeschi. Quest’ultimo mercato del lavoro «esterno» che fornisce segmenti di prodotto alla Germania si va allargando e impoverendo: per esempio comprende anche sempre di più i nostri salari massacrati dalle misure di austerità.
Se non cambieranno di molto (non di poco) le assurde politiche di austerità e diseguaglianza galoppante, esso continuerà probabilmente a risucchiare verso il basso anche i salari tedeschi. Infatti, anche in presenza del salario minimo, potrebbe quasi certamente verificarsi il fatto che molti salari più alti scendano verso questo minimo. Ecco perché un ottimo economista vicino al sindacato tedesco, Thorsten Schulten, propone un salario minimo europeo flessibile: che lasci ai nordici i loro sistemi di parità capitale-lavoro (che funzionano ancora nonostante tutto meglio degli altri) e imponga agli altri un salario minimo al 60% di quello mediano. Il pavimento, insomma, va bene in Germania, ma serve in tutta Europa, a partire (lo ripetiamo) dal cambiamento di passo nelle politiche.
Il salario minimo, infatti, può servire per aiutare a sospingere tutti verso l’alto, ma solo in una strategia complessiva di rilancio del sindacato, dell’investimento di lungo periodo e della riforma del capitalismo in genere. Altrimenti può essere utilizzato come giustificazione legalistica per portare verso valori bassi (ma legali) anche gli altri salari più elevati. In sostanza, comunque, la misura del salario minimo era indispensabile per arginare il comprensibile malcontento dell’opinione socialdemocratica per la coalizione con Frau Merkel. Vedremo cosa ne diranno i 500.000 iscritti alla Spd, di cui attenderemo la prevista eventuale ratifica democratica dell’accordo di governo. Così ragiona la sinistra europea: gli iscritti ai partiti contano, e il loro voto a posteriori sulla sostanza dei programmi è ritenuto più democratico di primarie che forniscono enormi deleghe a leader eletti sulle ali dell’euforia mediatica.

La Stampa 27.11.13
Le confessioni del produttore di Pretty Woman
Arnon Milchan ammette in Tv:
«Io, spia per Israele. Lo ammetto, ero nel Mossad»
di Piero Negri
qui

La Stampa 27.11.13
Ex terroristi eliminavano i compagni
La Cia reclutava agenti anche a Guantanamo
di Maurizio Molinari

Terroristi di Al Qaeda trasformati in agenti doppi per dare la caccia ai loro compagni di Jihad: è l’operazione «Penny Lane». La Cia scelse un titolo dei Beatles per l’operazione segreta che, dal 2003 al 2006, ruotò attorno ad una sfida apparentemente impossibile: reclutare alcuni dei jihadisti più pericolosi, detenuti nel carcere militare di Guantanamo sull’isola di Cuba. Il richiamo ai Beatles nasce dal fatto che l’operazione si svolse in una base segreta della Cia, sempre a Guantanamo, il cui nome in codice è «Strawberry Fields».
Sono otto cottages, nascosti da pareti di cactus, dove i detenuti considerati più «accessibili» vennero ospitati. Per «girarli», come si dice nel gergo di Langley, gli agenti fecero leva su tre carte: un comodo letto per dormire, riviste pornografiche a volontà e la promessa di ricompense per milioni di dollari a missione compiuta.
L’idea dell’operazione nacque dalla grande disponibilità di potenziali «reclute»: nel 2002 vennero portati a Guantanamo 632 sospetti militanti di Al Qaeda e nel 2003 ne seguirono altri 117. Una dozzina di 007 studiarono con cura i profili, individuarono i più abbordabili e incrociarono i loro luoghi di origini con la mappa degli «obiettivi da colpire» ovvero i leader di Al Qaeda braccati da Washington.
Almeno il 16% dei prigionieri di Al Qaeda, secondo documenti del governo Usa ottenuti dall’Associated Press, hanno accettato di collaborare dall’indomani degli attacchi dell’11 settembre e fra loro molti vengono dall’operazione «Penny Lane», a cui la Cia rivendica il merito di essere riuscita a trovare ed eliminare «dozzine di terroristi» traditi dai loro stessi compagni. Ma è una storia ancora tutta da scrivere perché alcuni detenuti, una volta liberati, fecero di testa propria. Senza contare poi il top secret sull’entità dei soldi versati ai traditori di Al Qaeda, come anche sulla loro attuale residenza.

La Stampa 27.11.13
La nuova rotta di Xi: più tasse e più welfare
Il nuovo leader disposto a perdere competitività
di Alberto Simoni

Per capire quanto sta accadendo in Cina con il corso che il Presidente Xi Jinping sta tracciando, bisogna spostarsi a Sud, nel vicino Vietnam. E cosa sta succedendo fra Ho Chi Mihn City e Hanoi lo spiegano gli stessi cinesi. Sono arrivati gli europei, gli americani, e persino i businessmen di Pechino hanno trasferito lì alcune unità produttive e industrie. Laggiù costa meno produrre, costa meno il lavoro, le leggi vantaggiose e la logistica sono perfette. Si badi, non è in corso nessuna grande fuga dal Gigante asiatico verso il Vietnam; chi è in Cina per produrre, moltiplicare i capitali, investire, importare o trovare il modo di esportare, ci resta; dovrà però fare i conti con la ricetta che Xi e i suoi dirigenti vogliono far digerire a tutti. Basta ai sontuosi vantaggi fiscali alle imprese, alle esenzioni in nome dell’attrazione ad ogni costo di capitali, alla forza lavoro a basso costo e alla qualità dei prodotti difficilmente sopra la media. Fino al 2008 chi produceva nelle zone speciali del Paese (come Shenzhen) godeva di un’imposizione fiscale complessiva di circa il 30% fra Iva, accise varie, costi burocratici, tassa sul patrimonio e sui profitti. Poi è scesa al 25%. Forte di queste condizioni Pechino ha esportato ovunque e fatto marciare la sua economia a una media di oltre il 9% in dieci anni. Ma quel tempo dice l’economista consulente del governo Zhang Yangsheng è finito, si volta pagina (non intende certo che la crescita del Pil subirà uno stop). Spiega invece che non è più sostenibile il fatto che la Cina debba produrre a basso costo beni di modesta qualità e con operai poco retribuiti e che questo genera diseguaglianze sociali intollerabili. Lo stesso ex premier Wen Jiabao solo un anno fa aveva anticipato il tema definendo il modello economico attuale «instabile, squilibrato, insostenibile». L’idea uscita direttamente dal Terzo Plenum è quella di alzare l’imposizione fiscale per le aziende straniere (anche oltre il 45%) in modo da poter dirottare le entrate verso quelle aree di sola competenza statale (istruzione, sanità, servizi pubblici, risorse naturali e attività strategiche) necessarie per controbilanciare gli squilibri che il mercato, nella percezione dei cinesi, rischia di causare. Delocalizzare in Cina non sarà più così vantaggioso per gli occidentali. Ma non è questo il timore dei leader cinesi: l’obiettivo del regno di Xi è quello di avere un moderno Stato sociale pagato con le tasse di tutti, stranieri compresi. Che per un Paese dove regna sovrano un Partito comunista non è niente male.

l’Unità 27.11.13
Il Bengodi dei libri
A Roma una «scorpacciata» di titoli e di eventi
Sfida alla crisi Dal 5 all’8 dicembre, al palazzo dei Congressi, torna l’appuntamento con la fiera della piccola e media editoria
di Maria Serena Palieri

ROMA «PIÙ LIBRI PIÙ LIBERI»: DAL 5 ALL’8 DICEMBRE ALL’EUR, PALAZZO DEI CONGRESSI, TORNA L’APPUNTAMENTO CON LA FIERA DELLA PICCOLA E MEDIA EDITORIA. C’è un motivo in più per andare a visitare questa dodicesima edizione? Sì, c’è. E si annida nel cuore della crisi che colpisce anche questo settore dell’economia. Vi siete accorti, da lettori e acquirenti, che non solo la piccola libreria indipendente che avevate nel quartiere ha chiuso ma che, in quella che resiste, così come nel bookshop della grande catena che c’è nella vostra città, l’offerta è sempre più povera, più massificata e più volatile? Il motivo si chiama «rese»: le «rese», cioè i libri che i librai restituiscono al mittente, l’editore, sono raddoppiate o più, per fare cassa si restituiscono novità uscite da una settimana, magari trovandosi a doverne richiedere nuove copie venti giorni dopo, se il libro per qualche motivo ha avuto solo un avvio lento, ma si restituiscono anche titoli di catalogo, in magazzino da un decennio... Il libraio trasforma il libro che restituisce in soldi e l’editore vede lo stesso libro trasformarsi, per lui, in un segno meno al fatturato e in un costo logistico di immagazzinamento. Invece in Fiera saranno in mostra romanzi, saggi, raccolte di poesie, libri di viaggio, di fotografia, in una variopinta ricchezza come non vedete più nelle librerie. Ieri mattina la presentazione di fiera e programma. Nella sala del Palazzo delle Esposizioni per l’Aie, che promuove l’evento, il presidente Marco Polillo, il presidente dei «pm» Enrico Iacometti, il direttore della fiera Fabio del Giudice, poi gli assessori di Comune, Flavia Barca, e Regione, Lidia Ravera, per il Mibac Rossana Rummo (non presente la Provincia, che pure è coinvolta)
«Uno spaccato magnifico del Paese che non c’è, un Paese di uomini e donne che hanno sviluppato una sana dipendenza dall’intelligenza altrui»: così Lidia Ravera definisce la Fiera che, negli anni precedenti, ha visitato da scrittrice. 374 espositori: 160 dal Lazio, ma anche 25 dalla Toscana, 22 dalla Puglia, 47 lombardi. La crisi fa sentire i suoi effetti: 25 gli editori piccoli che c’erano l’anno scorso e nei dodici mesi sono morti. Il settore tra il 2010 e il 2012 ha perso un sesto dei posti di lavoro, da 6650 a 5700 e un 14% di fatturato. La convegnistica professionale farà il punto su alcuni snodi della crisi, dal rapporto editoria-banche («le banche non apprezzano i beni immateriali» commenta Iacometti) alla strage di punti vendita specie al Sud.
In fiera scrittori e intellettuali italiani Melania Mazzucco e Marco Malvaldi, Raffaele La Capria come ex del Gruppo ’63 che celebra il suo cinquantennale e tra gli stranieri Edna O’Brien, Tahar Ben Jelloun, Eric-Emmanuel Schmitt, il poeta messicano Marco Antonio Campos e, sempre dal Messico, il giornalista investigativo Diego Enrique Osorno, autore di un celebre reportage sulla guerra tra narcos. In crescita il settore «off» che, con l’insegna Più libri più luoghi da oggi all’apertura della Fiera tocca dentro Roma tre municipi, 38 editori, 50 librerie, biblioteche.
Quanto costa Più libri più liberi? 1.300mila euro, di cui 510mila dalle istituzioni, con un calo, in particolare per il Mibac, dai 200mila del 2011 ai 65mila di quest’anno. Ma il problema vero,dicono gli organizzatori, è la mancanza di programmazione: certezza di fondi è arrivata solo a fine ottobre. L’anno scorso la fiera registrò 50.000 visitatori. In un paese il cui spread vero ricordava Rossana Russo è quello culturale, più della metà dei cittadini non legge e 7 cittadini su 10 non entrano in un museo, in 50mila hanno pagato un biglietto per entrare in un posto dove comprare libri (certo, con lo sconto). O la gadgeteria giocosa e intelligente, tratto tipico, ormai, di questo appuntamento a ridosso del Natale. Qui c’è il Paese che non c’è...

l’Unità 27.11.13
Il Sogno Sovietico degli italiani
«Il treno va a Mosca», una parabola del comunismo negli anni 50
di Alberto Crespi

TORINO «LENIN, LA TUA DOTTRINA SI DIFFONDE E VOLA / LENIN, LA TUA PAROLA È QUELLA CHE CONSOLA / IL DOLCE SOGNO SANTO / DELLA GRAN CITTÀ DEL SOLE / CHE HA VAGHEGGIATO OGNI CUORE / TU REALIZZASTI QUAGGIÙ / LENIN, IL PIÙ GRAN DONO DEL MONDO SEI TU...».
Questi versi potrebbero sembrarvi semplicemente ridicoli, ma ora dovete fare una cosa, dovete collaborare alla «lettura» di questo articolo mettendoci del vostro: dovete intonarli sull’aria di Mamma, la famosa canzone di Beniamino Gigli. «Lenin, la tua dottrina si diffonde e vola» deve suonare come «Mamma, solo per te la mia canzone vola», e via a seguire. Entrerete in un vortice edipico-comunista (Lenin come la mamma?! Ma andiamo!!!) che vi travolgerà. La canzone Lenin e Stalin non è il frutto di una fantasia nostalgico-dadaista del XXI secolo. È esistita davvero, è conservata nell’archivio dell’Istituto De Martino ed è uscita sul disco Sventolerai lassù. Antologia della canzone comunista in Italia uscito nel 1977 per i Dischi del Sole. La canta Agostino Vibbia, i versi sulla musica, appunto, di Mamma furono scritti da Raffaele Offidani, in arte «Spartacus Picenus». La si ascolta nel film Il treno va a Mosca, secondo titolo italiano in concorso a Torino che ieri ci ha riportato ai tempi del vecchio Pci e della «grande Unione Sovietica», come la chiamavano negli anni ’50. I versi su Stalin, nel film, non si sentono. Leggete questo pezzo fino in fondo e li troverete.
Il treno va a Mosca è diretto da Federico Ferrone e Michele Manzolini, due giovani film-makers già autori di Merica e Il nemico interno. Il nuovo film è qualcosa più di un documentario. Tecnicamente è un film di montaggio: i due ragazzi hanno messo le mani su alcuni straordinari filmati d’epoca conservati nell’archivio di film «familiari» Home Movies. A queste immagini, bellissime ma informi, hanno dato una forma narrativa con il decisivo contributo della montatrice Sara Fgaier (la stessa di La bocca del lupo di Pietro Marcello). Il risultato è un film che racconta una storia e, insieme, una parabola: quella del comunismo italiano, forza decisiva nella ricostruzione del Paese dopo la guerra, capace di cementare milioni di persone e di dar loro un’identità collettiva... nel nome di un’utopia che era meravigliosa nella sua astrattezza, ma si incarnava in un esperimento sociale che di meraviglioso aveva ben poco: l’Unione Sovietica.
Il treno va a Mosca è la storia del Sogno Sovietico che molti comunisti italiani hanno coltivato, dandogli una potenza che in certi momenti, e per certe persone, ha sfidato quella del Sogno Americano. Per poi sentirsi dire, dopo il ’56 e dopo il ’68 e dopo tante altre cose, che quel sogno era un incubo.
Il protagonista del film, ripreso anche nella sua quotidianità di oggi, è Sauro Ravaglia, un compagno di Alfonsine, provincia di Ravenna. I filmati utilizzati da Ferrone e Manzolini sono girati da lui, da Enzo Pasi e da Luigi Pattuelli (questi ultimi, deceduti) che nel 1957 furono membri della delegazione italiana al Festival della Gioventù di Mosca. Erano tutti comunisti ferventi, come si poteva esserlo allora in quell’angolo di Romagna (Alfonsine è una località mitica, uno di quei posti dove alle elezioni il Pci superava l’80%). Nel ’57 erano giovani, pieni di vita, ancora segnati da un passato recente di guerra e di privazioni. Non erano mai usciti dalla Romagna. Già Venezia, prima tappa del treno per l’Urss, sembrava un luogo esotico. Figurarsi Mosca! Grazie alle loro riprese amatoriali, in bianco e nero e talvolta a colori, lo spettatore di oggi ha la sensazione di vedere la capitale russa per la prima volta.
Le riprese della manifestazione inaugurale allo Stadio Lenin, con il discorso d’apertura di Vorosilov che allora era presidente del Soviet Supremo, hanno un grande valore storico. Ma Ravaglia, Pasi, Pattuelli e tutti i loro compagni non si limitano a filmare gli incontri ufficiali. Parlicchiando due parole di russo, se ne vanno in giro per Mosca da soli e riprendono di tutto. Ravaglia abborda una ballerina georgiana («Mo’ era di un bello, veh!», dice fuori campo, con la sua voce di arzillo ottantenne) e grazie a lei riprende le prove di uno spettacolo del Bolscioj. Vedono anche cose che non avrebbero dovuto vedere: qualche «komunalka» (gli appartamenti collettivi), qualche baracca di periferia dove gli uomini dormono per terra e la mattina vengono portati al lavoro stipati sui camion. È, si diceva, il 1957: c’è stato il XX congresso (febbraio ’56), c’è stata l’Ungheria (ottobre-novembre ‘56), la destalinizzazione è in corso ma le direttive del Pci ai compagni in trasferta in Urss sono all’insegna dell’ortodossia.
Prima di partire, i tre giovanotti si sentono chiedere dagli amici di portare delle foto di Stalin, «perché in Italia non se ne trovano più». A Mosca una statua del dittatore è ancora in piedi, non le buttarono giù tutte in un giorno... I compagni italiani vedono un paese che brama l’apertura, che accoglie i giovani stranieri con slancio e curiosità (e del resto, lo dicono gli studi demografici, nove mesi dopo il Festival, Mosca ebbe un boom di nascite ...), ma sembrano ignorare ciò che è successo nel ’56. Nessuno, nel film, ne parla. «È una cesura che per noi oggi è un dato storico ci dicono i registi ma che per Ravaglia e per i suoi compagni sembrava non esserci stata. Loro vivevano dentro un’utopia della quale sono ancora oggi orgogliosi. Il trauma fu al ritorno, quando cominciarono a portare i loro ‘filmini’ in giro per le sezioni e i capi del Pci romagnolo fecero loro sapere che, insomma, alcune cose era meglio non mostrarle... Del resto, ancora nel ’57, le uniche fonti di informazioni erano l’Unità e le radio in lingua italiana dei paesi dell’Est, come Radio Praga. Il mito sovietico venne smantellato solo molti anni dopo».
Eppure, con tutte le amarezze che sarebbero arrivate, Il treno va a Mosca è emozionante e commovente. «Perché racconta un mondo aggiungono i registi dove comunque molte persone credevano nel cambiamento. Oggi non c’è più nessuna utopia. L’impegno politico è diventato quasi una brutta parola». Era un mondo in cui, nella seconda strofa di Lenin e Stalin, si poteva cantare: «Stalin, su Stalingrado la leggenda vola / Stalin, fermava il mostro la tua forza sola / Gloria sia a te in eterno / Senza la tua grande vittoria / ritorna indietro la storia / di due millenni e anche più / Stalin, il degno erede del gran Lenin sei tu / Due vostri pari, sopra la terra non verranno mai più». Ma anche un mondo dove il comunismo italiano lottava per i diritti e per la solidarietà. Il treno va a Mosca racconta una Russia che non c’è mai stata e un’Italia che non c’è più.

Repubblica 27.11.13
Qualcuno era comunista
Sauro e i suoi amici ragazzi romagnoli in viaggio per l’Urss sognando Lenin e il sol dell’avvenire
di Clara Caroli

Applaudito al Festival di Torino “Il treno va a Mosca”: Ferrone e Manzolini hanno montato i filmini d’epoca di chi partiva

TORINO Nel 1957 un barbiere comunista di Alfonsine, paese della Romagna “rossa” devastata dalla guerra, parte con due amici cineamatori per partecipare al Festival mondiale della gioventù socialista a Mosca: un “viaggio dell'utopia” nella capitale del-l'Urss, allora mitizzato come “grande paese del Socialismo”. «Il Socialismo era la nostra meta», racconta Sauro Ravaglia, ilbarbiere, oggi ottantenne, nel film di Federico Ferrone e Michele Manzolini Il treno va a Mosca, in concorso al Torino Film Festival, applaudito alla proiezione per la stampa e - sull'onda delle vittorie diSacro Gra eTira Venezia e Roma, tra i candidati al premio.
Realizzato montando per l’80 per cento materiali video e sonori d’epoca, con i filmini in super8 recuperati dai due autori negli archivi di Home Movies (l’archivio nazionale del film di famiglia), racconta la nascita e la morte del grande sogno comunista in Italia, dalle campagne felici dei canti contadini e della propaganda della falce e del martello, alle Feste dell'Unità, fino alla morte di Togliatti, a rappresentare, come chiosa la voce del barbiere, “la fine di un mondo”.
Il film è prodotto da Kiné e Vezfilm e distribuito da Istituto Luce. Montatrice è Sara Fgaire, come per La bocca del lupo che vinse al Tff nel 2009. I due autori, Ferrone e Manzolini, hanno già co-diretto il documentario Merica!, sugli immigrati italiani in Brasile, e lavorato come registi eproduttori per Al-Jazeera. Ai loro occhi di trentenni, l’utopia di Sauro e dei giovani comunisti del Pci di Togliatti «ha la malinconia di uno sogno mancato». «Un sentimento - dicono - quello della fiducia assoluta nella capacità della politica di cambiare il mondo, che alla nostra generazione manca completamente».
«I miei erano contadini, ho respirato l'aria dei padroni, del Fascismo e della miseria», fa loro da contraltare Sauro Ravaglia, all’inizio del film, mentre mostra un tesoro di filmini amatoriali realizzati in tutto il mondo.Dopo Mosca («Pagai il biglietto del treno con i soldi messi da parte distribuendo il giornale del Partito - racconta - allora a Mosca c'erano andati solo Togliatti e i capi del partito. Quando partii mia madre pianse») ha continuato a viaggiare, «inseguendo rivoluzioni e lotte di liberazione», dall’Algeria a Cuba, e poi per i continenti in cerca di vita: Sydney, Tahiti, Messico, Nuova Zelanda. «Alla scoperta di un mondo - dice - che non si poteva capire leggendo l'Unità». In questo momento il “barbiere” si trova in Thailandia (da dove ha inviato un videomessaggio al Tff di Virzì). D’estate torna ad Alfonsine e quando comincia a far freddo riparte per il sudest asiatico: «Per risparmiare sulla bolletta».
Il treno per Mosca si apre con gli “italiani felici” del dopoguerra, e con i ragazzi di Romagna che guardano ad Est gonfi di speranze: «Per noi c'era solo una realtà, quella del Socialismo e dell'Unione Sovietica». Ma la realtà vista da vicino è altra cosa. E il viaggio dell’utopia si trasforma in disillusione: dal vivo Stalin era “un omino”, nelle case più povere “si dormiva per terra, ammassati”. È il sogno infranto. «Tutti volevano vedere Mosca ma nessuno voleva sentir parlare di povertà - racconta Sauro - Al ritorno siamo stati interrogati dalla polizia. Ci hanno chiesto: ma perché non siete rimasti là?».
Chicca del film, che ha strappato risate in sala, la versione socialista diMamma, solo per te la mia canzone vola: “Lenin, la tua dottrina per il mondo vola/ Lenin, la tua parola è quella che consola”, a firma di un compositore anarchico, tal Odifreddi.

La Stampa 27.11.13
Così antica, così facile, così moderna Dante, la lingua del futuro
di Gian Luigi Beccaria

Nell’ambito del premio Napoli, che riceverà il 13 dicembre, Gian Luigi Beccaria tiene oggi a Napoli (ore 17, Maschio Angioino) una lectio magistralis su «Leggere Dante oggi». Ne anticipiamo uno stralcio
ADante spetta un altro merito: l’aver segnato, cinque secoli prima dell’unità reale, la data d’inizio di un’unità ideale, quando nel De vulgari eloquentia vede per primo l’Italia come uno spazio geografico e culturale prima che esso esista realmente. Soltanto sei secoli dopo si realizzerà quell’unità inventata dalla appassionata perseveranza dei poeti, che si protende nel tempo tra le pieghe delle scritture.
Quell’unità anche, che sotto forma di aria di famiglia, noi rifacciamo ogni giorno ancora nel parlare quotidiano. Penso alle parole delle patrie lettere che usiamo come echi di un riconoscimento, quelle che affondano le radici nel Dante letto a scuola, e che hanno costantemente fatto da collante, fatto da contrappeso alla labilità della nostra coesione. Il padre della nostra lingua continua a fornire molta materia al parlare colloquiale e allo scrivere mediamente colto («le dolenti note», «perdere il ben dell’intelletto», «senza infamia e senza lode», «ma guarda e passa», «mi fa tremare le vene e i polsi», «nel mezzo del cammin di...», il «lasciate ogni speranza o voi...», «Galeotto fu...» ecc.).
E a proposito dell’importanza della lingua letteraria come ripetizione, come tenuta o continuità, e come riconoscimento, la grande letteratura delle Origini ha fatto sì, col suo gran peso culturale, che la lingua rimanesse sino a oggi relativamente stabile. L’italiano di Dante non è così distante da noi. È ancora chiaro e parlante alle orecchie di un italiano del Duemila, sembra talvolta fresco di giornata. Dante è facile da leggere. Non lo è al contrario Chauser per un inglese, così come non lo è il Cid per uno spagnolo, o la Chanson de Roland per un francese, che vanno tradotti perché oggi li si possa capire. Dante invece non è linguisticamente lontano. Nessuno dovrebbe pensare di tradurlo.
La Commedia, testo venerato, fonda l’«alfabeto» letterario del futuro, e ciò è importante per una paese frammentato. Noi non abbiamo mai avuto il senso profondo di una comunità nazionale, la solidità di un’appartenenza, ma la letteratura e il culto della lingua hanno costituito il vettore di un desiderio unitario. Nessuno lo ha detto meglio di Raffaele La Capria, quando scrive: «Ogni volta che riesco a comporre una frase ben concepita, ben calibrata e precisa in ogni sua parte, una frase salda e tranquilla nella bella lingua che abito, e che è la mia patria, mi sembra di rifare l’Unità d’Italia».

Corriere 27.11.13
La guerra italiana in Etiopia, perché le sanzioni fallirono
risponde Sergio Romano

Il 18 novembre è caduto il 78° anniversario delle «inique sanzioni» decretate dalla Società delle Nazioni contro l’Italia per condannare la nostra invasione dell’Etiopia. Allora ero piccolo, ma ricordo bene che se ne parlò e scrisse moltissimo, anche a scuola, tanto che la data mi rimase impressa per tutti questi anni. Le sanzioni, come è noto, non servirono a nulla (anche se ebbero effetti abbastanza indesiderati, come l’avvicinamento dell’Italia alla Germania e il mito dell’autarchia), soprattutto perché non vennero osservate neppure dai principali promotori delle sanzioni stesse, Regno Unito e Francia. Ma se si fosse voluto veramente impedire la guerra etiopica, non sarebbe stato più semplice chiudere il Canale di Suez e Gibilterra alle navi italiane o dirette in Italia? O qualcuno, anche all’estero, aveva piacere e/o interesse a che noi conquistassimo l’Etiopia?
Riccardo Valente

Caro Valente,
Le sanzioni non furono efficaci perché erano parziali e non concernevano beni e prodotti utili alla guerra come il ferro, l’acciaio, il rame, il piombo, lo zinco, il cotone, la lana, il petrolio. Qualcuno propose sanzioni militari e la chiusura del canale di Suez. Ma Jean-Baptiste Duroselle, nella sua Storia diplomatica dal 1919 ai nostri giorni, ricorda che la convenzione del 1888 imponeva alla Gran Bretagna di assicurare la libera navigazione anche in tempo di guerra. Londra avrebbe chiuso il canale, probabilmente, senza troppo preoccuparsi della convenzione, se avesse deciso di lanciare un forte segnale militare al governo italiano. Ma la politica britannica, in quelle settimane, era agitata da sentimenti contraddittori. Era contraria alla conquista italiana dell’Etiopia perché temeva, tra l’altro, che avrebbe avuto ripercussioni sulla gestione del Nilo e sulla irrigazione dell’Egitto (la stessa preoccupazione che ha ispirato una recente protesta dei militari egiziani ad Addis Abeba). Ma pochi mesi prima, alla fine di giugno, era accaduto qualcosa di straordinariamente nuovo. Per la prima volta, nella storia di un Paese democratico, i grandi giornali avevano promosso un sondaggio popolare che andò sotto il nome di «scrutinio della pace». Sugli undici milioni e mezzo di cittadini britannici che parteciparono alla consultazione, undici dichiararono che la Gran Bretagna doveva restare membro della Società delle nazioni, più di dieci auspicarono la riduzione universale degli armamenti, più di dieci si dichiararono favorevoli a sanzioni economiche contro uno Stato aggressore. Alla domanda sulla ipotesi di sanzioni anche militari, i voti favorevoli furono meno di sette milioni. Era evidente che la maggioranza della società britannica non avrebbe approvato un’azione militare contro l’Italia. Il governo di Londra ne tenne conto e adottò una linea che si dimostrò, all’atto pratico, del tutto inefficace.
Aggiunga, caro Valente, che gli Stati Uniti, proclamandosi neutrali, non imposero alcun embargo alle aziende dei loro cittadini e che l’Italia poté contare, per tutta la durata della guerra, sia sul petrolio americano, sia sul carbone tedesco. Addis Abeba fu conquistata il 5 maggio 1936 e l’annessione dell’Etiopia fu annunciata dal balcone di Palazzo Venezia il 9. Poche settimane dopo, il 4 luglio, l’Assemblea della Società delle nazioni votò una risoluzione che revocava le sanzioni economiche contro l’Italia.
Se l’efficacia militare delle sanzioni fu molto modesta, il loro effetto psicologico sulla opinione pubblica ebbe invece l’effetto di suscitare l’indignazione della grande maggioranza degli italiani. Il mito della «nazione proletaria» alla ricerca di un «posto al sole» aveva conquistato anche coloro che non erano necessariamente fascisti. Paradossalmente le sanzioni furono il miglior regalo che la Società delle nazioni potesse fare a Mussolini in quel momento. Mai prima di allora aveva goduto di tanto consenso.

Repubblica 17,11.13
Lo scempio dell’Appia Antica
risponde Corrado Augias

Gentile dottor Augias, a Francoforte, dove vivo, leggo delle lottizzazioni abusive sull’Appia antica. I Criminali (scusi l’epiteto ma questi costruttori abusivi sono proprio così) hanno costruito diversi edifici all’interno del parco regionale dell’Appia antica, all’interno d’un bosco di alto fusto, un’area protetta sottoposta a vincoli paesaggistici e ambientali. Perché avvengono queste infrazioni ai danni di tutti? Credo di poter rispondere: perché i responsabili (committenti delle opere, progettisti, direttori dei lavori, esecutori materiali e chiunque altro sia implicato) non vengono puniti per i loro reati o, al massimo, devono, forse, pagare multe irrisorie. Il che non fa paura a nessuno e dunque, quando si ripresenterà l’occasione, rifaranno gli stessi abusi. Io vorrei invece che le loro punizioni fossero sollecite ed esemplari. E poi ancora chiedo: mentre questi hanno lavorato per mesi a sbancare terreni, cementificare il sottobosco, tagliare e danneggiare piante d’alto fusto, possibile che nessuno di chi avrebbe dovuto abbia visto niente?
Anna Maria Micheli Kiel

Non vorrei sembrare eccessivo ma la tentazione di collegare gli ultimi scempi nell’area dell’Appia antica alla scena umiliante delle risse in Campidoglio è forte. Viene in mente la celebre frase di Tito Livio che abbiamo letto da ragazzi Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur, mentre a Roma si questiona, Sagunto viene conquistata (da Annibale). Questa volta la situazione è peggiore: non Sagunto ma Roma viene espugnata dai nemici e nemmeno si discute, ci si prende direttamente a schiaffi. Nella sua cronaca suRepubblica (domenica 24.11) Paolo Boccacci ha riportato questa dichiarazione di Rita Paris, responsabile del parco archeologico: «Dal 1967, dopo il vincolo di assoluta inedificabilità, sono stati costruiti oltre un milione e mezzo di metri cubi senza considerare capannoni industriali, tettoie, depositi a cielo aperto». Gliautori dell’abuso avevano l’impudenza di pubblicizzare così i loro manufatti: «Residenza di charme, circondata da uno splendido parco di due ettari di terreno, tra le rovine dell’Appia antica presso la tomba di Cecilia Metella». Prezzo dell’affitto: 916 dollari a settimana per turisti americani con voglia di classicità. Devo però una rassicurazione alla signora Micheli Kiel: l’intervento c’è stato grazie alle denunce che finalmente arrivano ma anche grazie all’azione del municipio interessato. Basterà? Non lo so. Mezzi e strumenti di controllo sono quelli che sono, la burocrazia è lenta anche per evitare opposizioni in un possibile contenzioso, i costruttori non si fanno certo scrupoli. Ogni anno un pezzo di Appia sparisce con un danno che non investe solo Roma o l’Italia ma l’intera cultura occidentale.

Repubblica 27.11.13
La ricerca condotta dall’università di Bonn
L’ossitocina spinge verso la propria partner
Fedeli con un ormone, scoperto il segreto dell’amore eterno
di Andrea Tarquini

BERLINO Care donne, cara altra (e migliore) metà del cielo, non disperate. Il vostro partner maschio, si sa, è spesso spinto da istinti primordiali a curiosità intime e voglia d’avventure fuori dalla coppia, insomma all’infedeltà. Eppure un rimedio naturale in teoria esiste: è l’ormone della tenerezza di coppia, l’ormone della fedeltà maschile. Si chiama ossitocina, e se in modo naturale (con frequenti carezze e coccole) la coppia se lo somministra, o se meglio ancora esistessero congegni facili come spray nasali per dosarlo a lui su richiesta di lei, allora le infedeltà maschili oggetto di spesso triste cronaca quotidiana diverrebbero cosarara. Incredibile ma vero: ce lo dice la ricerca di un team dell’università di Bonn, rilanciato nel web e su carta a livello mondiale dalla National academy of sciences americana.
Peccato che le donne tradite più famose della storia recente non lo abbiano saputo prima: un’alta dose di carezze e coccole esalta nel partner maschio la voglia di fedeltà, sveglia in lui il desiderio verso la partner, spegne la tentazione di cercare intimità e tenerezza altrove. E peccato soprattutto che il metodo usato dai ricercatori dell’università di Bonn e della National academy of sciences non si sia tradotto in pratica commerciale. Già, perché i test da cui deriva il verdetto sono stati condotti affidando a quaranta maschi eterosessuali dosi di spray nasale (come le gocce nasali contro il raffreddore) cariche dell’ormone ossitocina. E hanno segnalato che l’ossitocina appunto spinge i maschi, se accoppiati, alla fedeltà e al desiderio verso la partner e all’indifferenza verso “l’altra”, l’eterna rivale.
Forse, se la ricerca fosse stata condotta secoli addietro, la Storia dell’umanità si sarebbe risparmiata le conseguenze digrandi infedeltà. Sissi d’Austria, la splendida e amata imperatrice del regno dell’aquila bicipite, se non fosse stata sistematicamente tradita da Francesco Giuseppe non avrebbe amato, a quanto si dice, l’affascinante conte Andrassy, leader del Risorgimento ungherese. O Lady Diana, se Camilla non avesse messo il suo zampino nel difficile Royal Wedding di allora, non sarebbe precipitata nella disperazione e nella tragica morte. E che dire della bellissima, aristocratica Jacqueline Kennedy o di Veronica Lario?
L’ossitocina può diventare la panacea della fedeltà, insistono i ricercatori di Bonn. Valla pena di ascoltarli, ne va della felicità quotidiana di molti di noi. Se i maschi hanno una dose superiore alla media di ossitocina nel loro cervello cresce in loro la voglia di tenerezza.
La monogamia, tra i mammiferi, è la regola, avverte René Baumann, responsabile dello studio dei ricercatori di Bonn. Ma aggiunge subito: “Il genere umano costituisce piuttosto l’eccezione a questa regola”. La tentazione dell’infedeltà, specie tra i maschietti, la curiosità verso “l’altra”, è un motore biologico. Ma l’ossitocina, soprannominata dagli scienziati di qui “l’ormone delle coccole”, può correggere difetti o vizi dei maschi rafforzando la tendenza monogamica. Se è prodotta dal proprio organismo (su stimolo della partner coccolosa) o assunta con lo spray nasale dell’esperimento, nel cervello di lui si attiva uno stimolo che lo fa sentire felice, desideroso e maschio verso la partner, non verso le altre. «È un meccanismo biologico simile a una droga, come con l’assunzione di droghe l’ossitocina spinge i maschi a reagire a uno stimolo e a un sistema di ricerca di ricompensa dello stimolo che agisce sul loro cervello». E in generale, l’ossitocina rende i maschietti, di solito desiderosi di mostrarsi freddi o indifferenti per presunta virilità, più sensibili ed empatici verso lo stato d’animo degli altri. A cominciare dalla partner. Ecco perché è bene che le coppie continuino per anni o decenni a tenersi per mano, carezzarsi o coccolarsi: è vaccino contro il rischio dell’infedeltà di lui. Peccato che le dosi di spray nasale di ossitocina non siano sul mercato, altrimenti molte donne regalandole ai compagni per Natale avrebbero una vita sentimentale più felice o tranquilla.

Repubblica 27.11.13
Dolore e dignità
Così le relazioni umane ci salvano dall’indifferenza
Nel nuovo libro dello psichiatra Eugenio Borgna la riflessione sulla sofferenza e la malattia
di Luciana Sica

Al cuore del nuovo libro di Eugenio Borgna c’è una riflessione molto tesa sulla sofferenza e la ma-lattia, sulla loro significazione umana, con un continuo rimando alla lezione di Rilke: il dolore riconduce nella interiorità la esteriorità della nostra esperienza del mondo. E il compito di un medico sarebbe anche quello di riconoscere alla persona che “cade” nella malattia la ricerca oscura di un “altro” destino, comunque l’esigenza e la via di una trasformazione, paradossalmente più vicina alla vita rispetto a certe sue sonorità tanto vuote e assordanti.
Certo, se Borgna fosse solo uno psichiatra, per quanto straordinario, La dignità ferita(Feltrinelli) avrebbe potuto deragliare tra i vagoni plumbei di una disciplina che spesso sembra difettare di ogni vita. Ma Borgna, quel signore che nella stagione basagliana ha smantellato il manicomio di Novara, è un intellettuale innamorato di poesia e di letteratura, e quindi di musicalità delle parole, di filosofia — delle più ardite esplorazioni della mente piuttosto che di tecnicismi astratti. Con lui il pericolo di ritrovarsi per le mani un orrendo,illeggibile manuale non c’è mai stato, ne ha scritti tanti di libri bellissimi, difficilmente poteva esserci ora il rischio dell’aridità concettuale e della noia.
Qui — in queste pagine appassionate, coinvolgenti — del corpo ferito dalla malattia si parla innanzitutto come dell’espressione di un’intimità dell’anima oltraggiata dalla perdita della fiducia e della speranza. Borgna citaGuerra e pace di Tolstoj: il profondo dolore di Natascia suggerisce che ogni malattia, non solo quella psichica, ha una sua propria forma legata a diversi stati d’animo, alle emozioni meno trasparenti e dicibili. Lo stesso Thomas Mann, nei Buddenbrook, scrivendo del tifo che colpisce un adolescente, entra a pieno titolo nelle enigmatiche correlazioni tra anima e corpo, convinto già allora che ogni malattia somatica sempre si accompagna a risonanze psichiche decisive nell’aiutarci a resistere o meno alla malattia. Per dirla con la sobrietà elegante di Borgna, «non sono cose dimostrabili, ma il vivere e il morire sono intrecciati l’uno all’altro; e talora si muore quando non c’è più il desiderio di vivere, e talora non si muore quando ci sia il desiderio di vivere: questo, forse, è possibile immaginarlo».
Fonte originaria dei diritti umani, al centro del lessico della sinistra di ogni tempo, la parola “dignità” che qui impegna l’autore — non solo sul versante della relazione terapeutica — oggi sembra particolarmente ferita dall’indifferenza e dal male nelle sue infinite forme di espressione. Scrivendo delle sue fondazioni storiche e filosofiche, ma anche delle lacerazioni della dignità, è forte il “j’accuse” di Borgna nei confronti della sua disciplina amata-odiata che in anni non lontanissimi (e ancora oggi con altre modalità) si è così colpevolmente alleata alla sociologia e alla politica teorizzando la distinzione tra una vita degna di essere vissuta, quella “normale”, e la vita che invece non lo sarebbe, contrassegnata dalla difficoltà del fare, dall’impossibilità dell’eterna efficienza. E invece, puntualizza Borgna citandoKant, ogni essere umano è o dovrebbe essere sempre un fine e mai un mezzo, ogni uomo conta aldilà di ogni sua particolare connotazione: possiamo offenderne la dignità, non rispettandola, anche con le parole che diciamo o che soprattutto non diciamo, ma può anche darsi che non riusciremo mai a privarlo del tutto di quel suo sentimento così soggettivo e mai del tutto violabile.
Certamente sanguinano le ferite alla dignità delle persone, quando escludiamo di avere tempo per quella minima attenzione — appartiene all’ordine della grazia, diceva Simone Weil — che consenta di andare incontro alle loro attese e alle loro angosce. Qui il pensiero di Borgna non esita ad allargarsi a una sfera decisamente politica, con una denuncia del silenzio, di quella che lui chiama l’indifferenza del cuore, davanti all’estremo dolore degli ultimi della terra — così vicini così lontani — che tutto lasciano alle spalle nella speranza spesso impossibile di cambiare la propria vita, anzi di salvarla. Secondo l’autore, non si coglie il dramma di ogni forma di malinconia e di solitudine umana, proprio come di ogni forma di emigrazione, se innanzitutto non si rispetta la presenza di una struggente nostalgia di vicinanza umana e di qualche accoglienza.
Ci sono modi di essere, forme di vita, che aiuterebbero a mantenere la dignità e a testimoniarne la grazia, con la possibilità di creare relazioni umane dotate di senso, più autentiche e creatrici. Qui Borgna chiama in soccorsoun grandissimo come Iosif Brodskij, il Nobel russo per la letteratura nell’87, che poco prima di morire in un suo bellissimo saggio ricollegava la dignità umana alla gentilezza e alla civiltà dei modi: un modo di conoscere le persone e di prendersene cura, di evitare sempre le parole che feriscano, un ponte che consente di uscire dai confini angusti della soggettività a favore di invisibili alleanze e comunità di destino.
Non proprio un discorso astratto, visto che le relazioni quotidiane sono radicalmente influenzate dalla presenza o dall’assenza della gentilezza, nei modi di essere e nei modi di parlare. Eppure sì, il tutto rischia di suonare come qualcosa di nostalgico, in un mondo dove trionfa la disfatta di ogni mitezza (del sorriso e delle lacrime, non esita a scrivere Borgna), in un carosello senza fine di parole, silenzi, gesti che fanno male, non arginano affatto paure e fragilità, lasciando un senso penoso di vuoto e di smarrimento.
Cosa possa fare la psichiatria per il rispetto della dignità, è nella tesi radicale di questo libro coraggioso di Eugenio Borgna: una scienza umana e sociale — non solo naturale — può e deve indicare l’importanza psicologica, e anche politica, di relazioni interpersonali che non siano divorate dalla funzionalità ma animate dalle “ragioni pascaliane del cuore”, consegnando un qualche senso al dolore e a volte alla disperazione. Una tesi nel segno dell’ottimismo, che lo stesso Borgna non trascura come pura ma necessaria illusione.
nell’immagine: Francisco Goya Il cortile dei pazzi (1794)
IL LIBRO: La dignità ferita di Eugenio Borgna, Feltrinelli pagg. 240 euro 17

Repubblica 27.11.13
Ritrovato il tempio buddista più antico del mondo

KATMANDU — Alcuni resti di una struttura in legno, che secondo un team di archeologi potrebbe essere il più antico tempio buddista del mondo, sono stati rinvenuti nel sud del Nepal. Kosh Prasad Acharya, un esperto nepalese che ha lavorato al progetto insieme agli archeologi britannici dell'università di Durham (Inghilterra), ha fatto sapere che i resti sono stati scoperti durante alcuni scavi all’interno del tempio Maya Devi, situato nel sito religioso e di pellegrinaggio di Lumbini, considerato il luogo di nascita di Buddha e patrimonio mondiale dell’Unesco dal 1997. I test scientifici avrebbero confermato che si tratta di una struttura risalente al VI secolo a.C. Prima di questa scoperta, ha detto Acharya, si pensava che la più vecchia costruzione buddista fosse una colonna con alcune iscrizioni risalente solo al III secolo a. C. I risultati della ricerca sono stati pubblicati nel numero di dicembre della rivista Antiquity.
Sinora, molti studiosi hanno ritenuto che Buddha, noto anche come Siddhartha Gautama, sia nato tra VI e V secolo a.C. a Lumbini, situata a circa 250 chilometri a sudovest della capitale nepalese Katmandu, al confine con l’India.

Repubblica 27.11.13
All’incontro da Laterza in ricordo del giornalista un messaggio di Napolitano
Nello Ajello, il racconto della cultura a sinistra
di Raffaella De Santis

La cultura e la politica, il giornalismo e la passione civile. Sono gli interessi che hanno animato la vita di Nello Ajello. Il giornalista, storica firma di Repubblica e dell’Espresso, è stato ricordato ieri, a pochi mesi dalla scomparsa, nella sede romana di Laterza in un incontro affollato di amici, familiari, compagni di lavoro, esponenti del mondo politico, che insieme hanno riallacciato i fili di una ricca esperienza. Ha introdotto Giuseppe Laterza, editore dei saggi più importanti di Ajello, che ha rievocato l’amicizia di Nello con il padre Vito e il ruolo di «costante accompagnamento e dialogo» avuto con la casa editrice. Tema del convegno: «C’eravamo tanto amati. Intellettuali e sinistra ieri e oggi». Un titolo indovinato, perché di quell’amore complicato e via via sempre meno ardente, Nello ha ripercorso le alterne fasi.
Saggista, studioso di storia e di letteratura, liberale di sinistra, Ajello ha indagato con sagacia ed eleganza i mutamenti dei rapporti tra quella che un tempo si chiamava l’intellighenzia e il potere (Lo scrittore e il potere era il titolo di un suo saggio del 1974 edito da Laterza), senza fare sconti al suo mondo di appartenenza e senza venire meno alla vena ironica delle sue analisi. «Della storia d’amore tra partito e mondo intellettuale, Nello ha seguito avvicinamenti e distacchi, a partire da Intellettuali e Pci,scritto nel 1979 e ora ristampato da Laterza, cui è seguito Il lungo addio, del 1997. E lo ha fatto senza pregiudizi», ha detto Simonetta Fiori. Ajello aveva iniziato come redattore della rivista Nord e Sud di Francesco Compagna. Su quel periodo è tornato Tullio De Mauro: «La rivista fu una scuola importante, perché cercava di ampliare l’orizzonte del crocianesimo guardando agli studi sociologici ed economici». Per via di questa indissolubile alleanza tra idee e vita attiva, non potevano mancare le voci della sinistra. È stato Fabrizio Barca a sollevare la questione sul ruolo della sinistra oggi e sul rapporto mancato con il mondo della cultura: «Le grandi svolte sono sempre state influenzate dagli intellettuali, ma oggi i tecnici rischiano di essere risucchiati dagli specialismi e gli intellettuali si sono trasformati in opinionisti». Il dibattito si è acceso con gli interventi di Emanuele Macaluso, Mauro Calise, Alfredo Reichlin, Alessandro Campi, Enzo Golino. Alberto Asor Rosa ha sottolineato come solo un intellettuale non comunista come Ajello poteva riuscire a scrivere con la «chiarezza necessaria» la storia dei rapporti tra gli intellettuali e Pci, mentre Paolo Mauri ha commentato: «Se oggi Ajello dovesse scrivere un libro tra intellettuali e Pd ci metterebbe forse un quarto d’ora. In questo momento la cultura di sinistra non è più egemone, non ci sono più luoghi in cui parlare di politica».
Tra gli altri erano presenti il figlio Mario, Walter Tocci, Giuliano Amato, Giovanni Valentini, Piero Bevilacqua, Andrea Vianello, Bruno Manfellotto. Ed è arrivato anche un messaggio di Giorgio Napolitano: «I suoi scritti sui rapporti tra intellettuali e Pci hanno lasciato il segno per la loro acutezza e accuratezza». Tra le ultime pubblicazioni di Nello iTaccuini del Risorgimento,nati su Repubblica e pubblicati da Laterza.

Repubblica 27.11.13
La rivista “Nature Neuroscience” denuncia le norme italiane contro gli esperimenti sulle cavie, dopo le proteste degli animalisti
I limiti della scienza
Tagli, leggi e ignoranza. Tutti i nemici della ricerca
di Elena Dusi

Il taglio dei finanziamenti, le condanne dell’Aquila, il caso Stamina, la legge sulla sperimentazione animale.
Sono tutti episodi con un minimo comun denominatore: l’Italia non sembra essere un paese per scienziati. Alla conclusione arriva un duro editoriale che la rivista
Nature Neuroscience dedica al nostro paese. “La ricerca biomedica italiana sotto attacco” è il titolo dell’articolo, che parte scrivendo: «Gli ultimi due anni sono stati un periodo molto duro per gli scienziati italiani». L’editoriale prosegue citando la nuova “legge miope” sulla sperimentazione animale come «uno degli ostacoli insuperabili», capace di «minare alle fondamenta quasi tutta la ricerca biomedica del paese». E conclude puntando il dito anche contro gli scienziati, «colpevoli di non aver spiegato in termini adeguati i metodi e i fini della loro ricerca, facendo sì che false informazioni e sfiducia si diffondessero tra la popolazione».
Nature è un gruppo editoriale che ha sede a Londra e insieme alla rivista americana Science pubblica tutti i più importanti risultati scientifici ottenuti nel mondo. Nei suoi editoriali non è mai stata tenera con l’Italia. Lo scorso aprile ci ha accusato di avallare il metodo Stamina «usando i pazienti come animali da esperimento». Ma tra tante ombre, la rivista ha anche riconosciuto le nostre luci. Due giorni fa il direttore Philip Campbell era al Quirinale per consegnare i “Nature Award for Mentoring in Science” a tre importanti scienziati italiani, scelti per la loro bravura nel formare giovani allievi.
Michela Matteoli, premiata lunedì al Quirinale con due colleghi, fa ricerca sulle sinapsi del cervello all’università di Milano. Così prova a spiegare la contraddizione di un paese premiato per la bravura dei suo maestri ma additato (sempre secondo Nature Neuroscience)per “il profondo fossato che divide gli scienziati italiani dal loro governo”. «La scienza in Italia ha delle punte di diamante nonostante i grandi ostacoli che la politica pone sul nostro cammino». Anche Campbell sottolinea la natura dottor Jekyll-mister Hide della nostra ricerca. «L’Italia sta diventando sempre più ostile alla scienza e agli scienziati, attraverso tagli dei fondi e restrizioni legislative. Questo non fa presagire bene per il vostro futuro economico». Eppure «il paese produce molti scienziati di valore mondiale. Spero che loro sentano la nostra solidarietà e che la corrente della politica viri in loro favore».
I venti che tirano per ora sono piuttosto di guerra. E dopo la giornata da tregenda vissuta dal centro di Roma lunedì, con i malati di Stamina che hanno versato il loro sangue di fronte a Montecitorio, un’altra giornata di battaglia èprevista per venerdì a Milano. Il gruppo “Animal Amnesty” ha organizzato una marcia verso l’Istituto Farmacologico Mario Negri, che utilizza animali per le sue sperimentazioni. Gli autobus degli attivisti partiranno da una decina di città. E dopo il precedente dello scorso 20 aprile, quando un gruppo di animalisti fece irruzione nel dipartimento di farmacologia dell’università di Milano liberando i topolini e un coniglio, questa volta la questura ha imposto il suo stop. “Per motivi di sicurezza – scrive Animal Amnesty su Facebook – non sarà possibile chiudere il corteo in prossimità dell’Istituto. Il punto d’arrivo è spostato a oltre un chilometro dal Mario Negri». «Lo scopo è quello di intimidirci, ma si otterrà l’effetto contrario».
La controversa legge sulla sperimentazione animale nasce da una direttiva europea del 2010. Nonostante Bruxelles vietasse ulteriori inasprimenti delle norme, l’Italia ha inserito vari emendamenti restrittivi. Il testo modificato è uscito dal Parlamento il 6 agosto ed è stato approvato solo in via preliminare (quindi non è ancora effettivo) dal Consiglio dei Ministri giovedì scorso. Prevede il divieto di allevare e di usare in laboratorio cani, gatti e primati (già oggi l’80% delle cavie usate in Europa sono topi e ratti) e obbliga a somministrare analgesici prima di ogni procedura, iniezioni incluse. La norma della legge 96 del 6 agosto 2013 che inquieta gli scienziati e che ha spinto Nature Neuroscience a parlare di “attacco alla ricerca italiana” è però un’altra: quella che “vieta l’utilizzo di animali per gli xenotrapianti”.
Gli xenotrapianti sono trapianti di cellule od organi da una specie all’altra. Buona parte della ricerca oncologica oggi si svolge prelevando delle cellule dal tumore di un paziente e impiantandole nei topolini, per seguire nell’animale andamento della malattia ed effetto delle cure. «La nuova legge ostacolerebbe la ricerca di nuove terapie contro il cancro. Il problema riguarda gli xenotrapianti, ma anche i test di tossicità dei nuovi farmaci. In Italia un laboratorio su due, fra quelli che effettuano ricerca preclinica, vedrebbero il loro lavoro compromesso» spiega Pier Paolo Di Fiore, ex direttore dell’istituto di ricerca oncologica Ifom e professore all’università di Milano.
Contro questa eventualità, i ricercatori dell’associazione “Pro Test” hanno manifestato il 19 settembre a Montecitorio e hanno organizzato conferenze nei prossimi giorni in varie città. Tutti i direttori degli Istituti di ricerca oncologica in Italia hanno firmato la petizione della Federazione italiana scienze della vita. Un’altra raccolta di firme su www. salvalasperimentazioneanimale.it ha raggiunto 13mila adesioni. Il 29 novembre la sede del Cnr ospiterà il convegno “Spera - Sperimentare per curare” per trovare metodi efficaci di comunicazione del ruolo della sperimentazione animale. «In realtà ci siamo sempre sforzati, eccome di spiegarlo» dice Matteoli, che lavora nel dipartimento assaltato ad aprile. «Ma di fronte all’uso dell’emotività non abbiamo strumenti. I servizi in tv parlano di sperimentazione mandando in onda immagini di gattini maltrattati. Ma noi usiamo topi, e seguiamo fior di controlli e precauzioni, previsti già dalla legge attuale». E proprio la mancanza di “comprensione reciproca” fra cittadini, ricerca e politica, sottolinea Nature, è il tratto comune che lega tutti gli episodi degli “anni orribili” vissuti dalla scienza in Italia.

Repubblica 27.11.13
Caro presidente, caro premier ecco perché il nostro paese sta morendo
di Elena Cattaneo

Il mondo ci guarda esterrefatto. L’editoriale diNature Neuroscience addita l’Italia come un esempio negativo a cui gli altri paesi occidentali devono guardare per evitare di fare la stessa fine. L’oggetto della reprimenda è la legge sulla sperimentazione animale votata dal Parlamento italiano che, di fatto, fermerà ogni sviluppo della ricerca biomedica, nel senso che comporterà un peggioramento delle capacità di lavoro dei nostri gruppi di ricerca. Peggiorerà la loro capacità di attrarre con la forza delle loro idee finanziamenti stranieri: nostri soldi che andranno quindi alle ricerche – anche sugli animali - degli altri Paesi. Ebbene, se si cercano risposte sul perché molti giovani, scienziati ma non solo, fuggono dall’Italia, ecco la risposta. Con queste leggi, il Paese non solo umilia la scienza e la cultura, ma umilia i nostri figli, suggerendo loro che il loro impegno e i loro studi a questo Paese non servono. Queste “non scelte” politiche lasciano frastornati i colleghi all’estero, abituati a lavorare con scienziati italiani internazionalmente stimati e competitivi. Ci chiedono: ma come è possibile che versi in condizioni così pietose il Paese dove lavorano Luigi Naldini, che a Milano ha messo a punto un’avanzatissima terapia genica che utilizza alcunivirus modificati, o Michele De Luca che con il suo Centro di Medicina Rigenerativa a Modena, insieme al San Raffaele, ha sviluppato trattamenti straordinari con staminali per due condizioni di malattia, oppure Giacomo Rizzolatti, un neuroscienziato che alla soglia della pensione ha sbaragliato la ferrea competizione dello European Research Council e che tutto il mondo ci invidia per la spettacolare scoperta dei neuroni specchio (usando scimmie) e che ora punta a capire l’autismo. Potrei andare avanti a lungo. Forse non tutti si rendono conto di quanto arido sia il nostro deserto. Gli stranieri che ci offrono opportunità lontano da qui si chiedono perché continuiamo a restare. E si prendono i nostri giovani. Ma noi, meno giovani, continuiamo a sentire il dovere di restare e lottare, anche in nome di una Costituzione che prevede il diritto di fare ricerca. Avendo conosciuto, anche sulla mia pelle, lo sfacelo di leggi antiscientifiche, mi chiedo come l’Italia riesca ancora a dare alla luce a scoperte e scienziati così unici al mondo. Signor Presidente del Consiglio, Signor Presidente della Repubblica, non so dirvi per quanto resisteremo. Bisogna far qualcosa. Il Paese muore.
biologa e senatrice a vita

Repubblica 27.11.13
Domenico Quirico. Cronache del male dagli abissi siriani
È uscito per Neri Pozza il libro scritto con Pierre Piccinin
di Stefano Malatesta

Quando qualcuno rivela di aver incontrato il Male in genere si tratta di una allucinazione, oppure di millantato credito. Ci sono però dei casi in cui il male è così evidente e fisico e ti riguarda così direttamente che è impossibile ignorarlo e il più carogna di questi mali ha sempre una forma umana. Gli antichi romani dicevano: «Homo homini lupus». Domenico Quirico, inviato di guerra de La Stampa, incontrò il male l’8 aprile 2013, in Siria. Dopo le prime settimane gli scontri della guerra civile nel paese avevano preso un andamento casuale e confuso, le alleanze non sembravano così certe e non si capiva bene chi stava con chi. E molti gruppi si erano trasformati in bande di razziatori e di briganti. Lo scopo di Quirico era di chiarire tuttoquesto. Il nostro inviato era partito insieme a un altro giornalista, il belga Pierre Piccinin da Prata. Arrivati in Siria gli dissero che non sarebbe stato possibile raggiungere Damasco. Il giorno dopo i due giornalisti decisero comunque di mettersi in viaggio per la capitale siriana, ma appena usciti dal paese la loro macchina fu bloccata da un pickup da cui scesero due energumeni, che li massacrarono di pugni e calci. E poi ripartirono a tutta velocità portandoli in una località dove le case erano adibite a carceri.
Il clima della guerra civile in Siria era caduto talmente a livello primordiale che per finanziare le loro imprese molti capibanda hanno cominciare a sequestrare donne e bambini per chiedere poi il riscatto, una pratica comune che si è diffusa con grande rapidità. In un articolo ben documentato sulla New York Review of Books,
Charles Glass ha raccontato la storia di come il corpo del giovane leader di questi guerriglieri, caduto durante recenti scontri, chiamato Ribal, sia stato scambiato con la liberazione di otto prigionieri. Quando la giovane e bella vedova si presentò perché le fosse consegnata la salma, venne immediatamente fermata, contraddicendo un principio basilare dell’Islam, una volta molto rispettato, che considera sacri gli ospiti. Furono abbastanza accorti nel non trattarla male, come lei stessa dichiarò, e dopo qualche giorno venne liberata e scambiata con cinque donne prigioniere e un pacco di medicine. Più tardi il capo dei ribelli mandò un regalo a chi aveva condotto la trattativa per la vedova, una pistola, in segno di amicizia.
Si potevano concludere altri affari del genere e probabilmente il rapimento di Quirico rientrava in questo contesto. Ma i due giornalisti ebbero un trattamento molto diverso: fin dall’inizio i maltrattamenti e le torture furono brutali e prolungati. Così, nei pochi momenti in cui riuscivano a ragionare, Quirico e Piccinin arrivarono alla convinzione che non l’avrebbero scampata. Altrimenti non avrebbero avuto interesse a “guastare la merce”. Questa sensazione di essere alla fine era acuita dal comportamento e dall’aspetto dei carcerieri, dalle facce lombrosiane da killer che si comportavano di conseguenza. Avevano un modo di torturare spontaneo, quasi naturale, era una routine per loro. Non è stata una galera, è stato un calvario durato centocinquantadue giorni che adesso è raccontato in un libro molto emozionante, scritto a quattro mani dai due giornalisti: Il Paese del Male — 152 giorni in ostaggio in Siria(Neri Pozza). Il libro è insieme catalogo di orrori e cronaca nera. Uno dei giochi malefici più popolari era quello di entrare senza preavviso nelle celle e di puntare la pistola alla tempia dei prigionieri e finalmente premere il grilletto, sparando a vuoto. È un miracolo che Quirico e Piccinin abbiano resistito a tutte le violenze e che siano ancora tra noi.
C’è solo una osservazione da fare e riguarda il titolo. Non esiste un solo paese del Male, ne sono esistiti molti e tutti sembravano nazioni civili, come la Germania. Gli eredi dei samurai, questi delicati creatori di Ikebana e di poesie haiku di tre righe, quando hanno preso Nanchino, durante l’invasione della Cina, per festeggiare il successo fecero a gara a chi tagliava più teste di cinesi. Vinse un ufficiale che riuscì a tagliare centotrenta teste in un solo giorno. Poi facevano le foto con i decapitati a fianco, e le mandavano ai parenti in Giappone con saluti e baci. Ricordate le foto sull’impiccagione di Cesare Battisti, quel nobile italiano che aveva la colpa di aver optato per la sua patria? In una di quelle immagini, tra le più ignobili che siano mai state scattate, si vedono ragazzi e militari austriaci assiepati accanto alla forca con l’impiccato ancora con la corda al collo, come se fossero di domenica davanti a un fotografo del Prater. Una volta Conrad ha detto che non è necessario credere in una fonte sovrannaturale del Male: gli uomini da soli sono perfettamente capaci di qualsiasi malvagità.
Oggi alle ore 18.30 Domenico Quirico presenterà il suo libro a Roma, presso lo Spazio Mastai (Piazza Mastai 9) Saranno presenti Emma Bonino ed Ezio Mauro Ingresso libero

LIBRO Il paese del male di Domenico Quirico e Pierre Piccinin Neri Pozza pagg.176 euro 15

Repubblica 27.11.13
Il ritorno di Nanni Moretti protagoniste sono tre donne
A gennaio le riprese di “Mia madre”
di Franco Montini

ROMA L’universo femminile irrompe nel cinema di Nanni Moretti. Saranno tre donne, di altrettante generazioni, le protagoniste del nuovo film del regista, titolo provvisorio Mia madre. La lavorazione si svolgerà interamente a Roma e le riprese inizieranno a cavallo fra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio.Mia madre, precedentemente annunciato col titoloMargherita,è prodotto dalla Sacher Film e dalla Fandango con la francese Le Pacte e sostenuto da Rai Cinema e da Arte France Cinéma.
La sceneggiatura, scritta da Moretti con Francesco Piccolo e Valia Santella, è ancora segreta, ma si dice che la storia sia imperniata sulle sorprendenti e tragicomiche disavventure di una cineasta impegnata, colta in un momento di profonda crisi professionale e privata. Annunciando la partecipazione al progetto di Arte France Cinèma, il responsabile del gruppo, Olivier Pére ha spiegato che Mia madre«intende descrivere la confusione dei nostri giorni, la difficoltà a comprendere e a raccontare una crisi culturale e sociale che ci riguarda tutti da vicino».
A interpretare la regista impegnata sarà Margherita Buy, che ha già partecipato agli ultimi due film del regista: Il caimano eHabemus papam. Un record. Accanto alla Buy ci saranno anche un’anziana madre e una figlia. La prima potrebbe essere Elena Cotta, che Moretti ha provinato nei mesi scorsi. Dopo una lunga carriera teatrale, Elena Cotta è stata recentemente “scoperta” dal cinema: scelta da Emma Dante per Via Castellana Bandiera dove, con un’intensa interpretazione silenziosa, tutta affidata agli sguardi, ha conquistato la Coppa Volpi all’ultima Mostra di Venezia. Il ruolo della figlia sarà invece affidato a un’esordiente che Moretti avrebbe individuato organizzando una lunga serie di provini nei licei romani, seguendo un percorso a suo tempo già praticato, che lo portò a scegliere l’allora sconosciuta Jasmine Trinca per il ruolo di sua figlia inLa stanza del figlio.
In ogni caso Moretti non rinuncerà a essere presente anche come attore: inMia Madre interpreterà il ruolo del fratello di Margherita Buy.