venerdì 29 novembre 2013

il Fatto 29.11.13
Lampedusa: la strage era evitabile
Il naufragio avvenuto vicino Lampedusa la notte dell’11 ottobre in cui sono morte oltre 300 persone scorso poteva essere evitato. Lo rivela L’espresso oggi in edicola: la Marina sarebbe stata avvertita in tempo da due telefonate e una nave militare italiana avrebbe potuto raggiungere il barcone.

La Stampa 29.11.13
Il nuovo corso potrebbe frenare le riforme costituzionali
di Marcello Sorgi

Le scosse di assestamento post-decadenza di Berlusconi e passaggio di Forza Italia all’opposizione sono state ieri all’esame del Quirinale. Il Presidente della Repubblica ha ricevuto i ministri dei rapporti con il Parlamento Franceschini e delle Riforme Quagliariello, e poco dopo i capigruppo al Senato e alla Camera di Forza Italia Romani e Brunetta. È proprio sul terreno della Grande Riforma, che costituiva l’elemento qualificante del programma del governo di larghe intese, che rischiano di avvertirsi ora le prime conseguenze del mutamento della maggioranza. Non ci sono più infatti i numeri per ottenere un’approvazione con due terzi dei voti parlamentari dell’articolo 138 per snellire i tempi del confronto sui cambiamenti della Costituzione.
L’indisponibilità di Forza Italia, sommata all’ostruzionismo praticato fin qui dai 5 stelle, rende improbabile, per non dire impossibile, raggiungere l’obiettivo; inoltre l’approvazione a maggioranza semplice sottoporrebbe ogni decisione a referendum popolare. Di qui, per Napolitano, la necessità di verificare (anche al costo di consentire una nuova verifica parlamentare che sottolinei il mutamento del quadro politico) se, trascorso un periodo di decantazione, da parte dei berlusconiani possa arrivare qualche ripensamento sulla possibilità di impegnarsi nel merito delle riforme, consentendo almeno la riduzione del numero dei parlamentari e il passaggio a una forma sia pure temperata di monocameralismo.
Analoghi timori riguardano la legge elettorale, anche se in questo caso il desiderio convergente di Forza Italia, M5s e Renzi di andare ad elezioni anticipate già nella prossima primavera potrebbe influire sugli atteggiamenti parlamentari dei diversi partiti. Napolitano, come del resto Letta, punta a far durare la legislatura fino al 2015, lasciando che nel 2014 si celebrino le europee e prendendo tempo per far sì che l’Italia possa svolgere tranquillamente con l’attuale governo il compito di guidare il semestre europeo. Ma al momento ogni prospettiva resta avvolta in una coltre di incertezza. A destra, il deterioramento dei rapporti tra i fedelissimi del Cavaliere e quelli che ormai vengono definiti apertamente i “traditori” rende Alfano prudente su qualsiasi apertura di credito al governo, che anzi, ha ricordato ieri, così come viene sostenuto dal Nuovo centrodestra, potrebbe perderne l’appoggio. Nel centrosinistra l’attesa delle primarie e delle percentuali di voto con cui il nuovo segretario sarà scelto non consente di fare previsioni. La sentenza della Consulta sul Porcellum la prossima settimana rappresenterà così il primo vero punto fermo su cui si potrà ricominciare a ragionare.

il Fatto 29.11.13
Legge elettorale, il Senato rinvia
Martedì arriva la Consulta. E senza Forza Italia le riforme non si fanno
di Sara Nicoli

Noi abbiamo parlamentari sufficienti per tenere in vita il governo, ma anche viceversa”, minaccia Alfano, facendo capire di avere in tasca la golden share del governo. Decaduto Berlusconi, passata Forza Italia all'opposizione, più di un'incognita resta sul tappeto; a partire dalla legge elettorale e dalle riforme istituzionali. Il quadro è cambiato. E su quest'ultimo fronte, il passaggio all'opposizione del Cavaliere ha fatto venir meno la via tracciata da Gaetano Quagliariello per arrivare in tempi brevi alla revisione costituzionale. Non ci sono più, né alla Camera, né al Senato, i due terzi necessari per modificare l'articolo 138 della Carta con l'elezione del comitato dei 42 attraverso l'approvazione del ddl varato dal governo a luglio scorso, atteso in seconda lettura. A meno che Berlusconi non si decida ad appoggiare i “traditori” del governo, cosa al momento impensabile. E dunque il provvedimento voluto fortemente da Letta, ma sostenuto anche dal Quirinale, in arrivo alla Camera dopo il 9 dicembre, sembra destinato a non vedere la luce. Anche se Napolitano ieri ha fatto pressioni sulla stessa Forza Italia in favore delle riforme.
IL CAMBIAMENTO di quadro ha convinto, infatti, il capo dello Stato a fare il punto al Quirinale proprio con Quagliariello e con Franceschini sul da farsi. La volontà di fare le riforme istituzionali resta nell’esecutivo, ma dovrà essere tracciata una strada diversa (si parla di far 'lavorare' Camera e Senato su pezzi diversi delle riforme velocizzando l'iter che non potrebbe che seguire la procedura ordinaria) ma con una priorità, tra le riforme, che con il passare delle ore si sta trasformando in emergenza, appunto quella della legge elettorale. La riunione della Corte costituzionale che dovrà rivedere il Porcellum incombe (è prevista il 3 dicembre), ma ieri, ancora una volta (e forse non a caso) è andata a vuoto la riunione della commissione Affari costituzionali che sta elaborando la riforma, stallo che ha fatto inalberare Quagliariello: “Se non si muoverà il Parlamento a quel punto lo farà il governo”. Un decreto per cambiare la legge? Franceschini lo esclude, ma sta di fatto che ieri a chiedere di fermare le macchine in commissione al Senato sono stati gli alfaniani, ancora incerti – almeno ufficialmente – sulla linea da tenere. E ora, visto il quadro, che conta anche i commenti contrastanti di Scelta civica, Sel, Lega è probabile che la materia venga sottratta alla competenza del Senato e ripassi all'esame della Camera. Al momento, al Senato ci sono solo due ordini del giorno da votare, uno della Lega che propone il Mattarellum e uno del M5s che propone il modello spagnolo. Insomma, è ancora buio pesto. Anche se sono in molti a sottolineare che per Renzi sarebbe già un successo andare alle primarie con in tasca la vittoria sullo spostamento della legge elettorale alla Camera. Dove i suoi numeri farebbero la differenza.

Repubblica 29.11.13
Si avvicina il momento della decisione, in ballo premio di maggioranza e liste bloccate
Spazzare via il Porcellum la tentazione della Consulta
di Liana Milella

ROMA — Alla Consulta, la voglia di fare i conti col Porcellum è tanta. Voglia di spazzarlo via, magari per tornare al Mattarellum. Voglia pari al timore e al fastidio di vedersi piovere addosso, in caso di rinvio o di inammissibilità, l’accusa di vestire i panni di Ponzio Pilato. Tuttavia è probabile, ad ascoltare bene radio Corte, che martedì pomeriggio, quando le alte toghe si ritireranno in camera di consiglio dopo l’udienza pubblica della mattina, più d’una si alzi per chiedere un rinvio. L’obiettivo sarebbe dare alla politica l’ultima chance di fare da sé sulla legge elettorale. È prassi, se un giudice lo chiede, che gli si dica di sì. Va detto però che il presidente Gaetano Silvestri, a margine di una lectio magistralis, ha tagliato corto: «Noi faremo regolarmente la nostra udienza il 3 dicembre, dopo di che decideremo».
Questione di costituzionalità 144/2013. Un numero che può fare il destino del Paese. DietroAldo Bozzi, l’ostinato avvocato di 80 anni che si è rivolto ai giudici contro il Porcellum, e la prima sezione civile della Cassazione, dove il relatore Antonio Lamorgese ne ha sposato la tesi e il 17 maggio ha spedito la questione alla Consulta. Che ora ha davanti a sé due strade. La prima, rinviare. In tal caso non c’è storia. La seconda, decidere all’un tempo sull’ammissibilità e sul merito (i due aspetti non solo scindibili). Sull’effettiva ammissibilità i dubbi ci sono, anche forti, e se non si trattasse del Porcellum verrebbero accolti perché è vero che il quesito ci sta tutto, ma il ricorso riporta a un singolo cittadino che per legge non può ricorrere alla Consulta.
Siamo al merito. Anche qui due strade. La prima. Cancellare tutto il Porcellum, non solo i due aspetti contestati, sfruttando il principio «dell’illegittimità consequenziale », per cui se le due questioni sollevate dalla Cassazione fossero accolte si trascinerebbero dietro l’intera legge elettorale che altrimenti diventerebbe un “mostro giuridico” e non potrebbe restare in piedi. A quel punto può rivivere il Mattarellum? La Corte dice sempre che quando una legge è morta non può risorgere perché non esiste più. Ma nel caso della legge elettorale lo strappo potrebbe essere ammissibile per evitare il rischiodi una clamorosa vacatio legis per cui il Paese rischia il voto senza la legge su cui votare La seconda strada è una «cosmesi normativa», una ricostruzione della legge, sempre con l’obietto di non restare senza legge elettorale. L’intervento sul premio di maggioranza sarebbe quello più semplice. Si cancella lasoglia e si torna al proporzionale puro. Naturalmente, alla Corte, non tutti sono ugualmente risoluti, bensì c’è chi si chiede se una legge, dove un intervento così invasivo, non sia azzoppata per sempre. Altri sono dubbiosi su una Consulta che si assume la responsabilità di mettere in piedi un nuovo sistema elettorale. Nessuna sponda invece per Brunetta e la presunta “decadenza” dei 200 parlamentari eletti ma non convalidati. «Tempus regit actum», il tempo regge l’atto, per cui al momento dell’elezione la legge c’era ed era valida, quindi gli eletti non si toccano. Ma il problema della legge monca si ingigantisce nel caso delle liste bloccate. Qualora il meccanismo venga considerato incostituzionale perché toglie all’elettore il suo diritto al voto libero, che cosa succede? Che legge resta? S’innesta qui la convinzione che tutta la legge debba essere dichiarata illegittima perché comunque non sarebbe applicabile.

Repubblica 29.11.13
Legge elettorale, tocca al governo
di Gianluigi Pellegrino

Ora non basta più che il governo prometta un intervento contro il porcellum. Lo deve fare. Anche perché il rinvio cui ha cinicamente consegnato l’ancoraggio della sua durata rischia di travolgerlo da apprendista stregone, se la Corte costituzionale martedì dovesse sancire con qualsiasi formula la sostanziale incostituzionalità dell’attuale composizione delle Camere.
Ed infatti la riforma spontanea per iniziativa dell’esecutivo lo legittimerebbe e guarderebbe al futuro; la censura della Consulta invece travolgerebbe la stessa legittimità della legislatura e prima ancora sancirebbe l’inanità della politica.
La legge elettorale non è solo un’urgenza democratica, ma anche il banco di prova per dimostrare che, liberate dal ricatto berlusconiano, le intese da larghe ma troppo spesso basse, possono diventare strette ma alte nell’effettivo interesse del paese. E quindi davvero più forti e credibili.
Quanta ipocrisia c’è stata e c’è ancora nell’eterno dibattito sulla riforma del porcellum. Sempre indicata come madre di tutte le priorità è puntualmente scivolata indietro nell’agenda politica, tra meline camuffate da ricerche di accordi, e proposte indecenti. Gli altarini sono scoperti. A Berlusconi il porcellum non solo si acconciava benissimo per averlo voluto e concepito, ad immagine e somiglianza di un partito padronale; ma era diventata anche l’ultima arma del suo estremo ricatto quando minacciava il ritorno alle urne proprio con la legge porcata se un salvacondotto non fosse arrivato. Speculare e ormaiesplicita la posizione di Grillo che senza porcellum vedrebbe dimezzata la sua forza e sarebbe costretto a cercare sul territorio candidati veri e senza vincolo di mandato come vuole la Costituzione.
Anche il Pd sul tema non ha dato grandi prove di coerenza tra parole e fatti. Quando aveva la possibilità di fare maggioranza almeno per il ritorno al mattarellum, ha sorprendentemente tradito se stesso in nome di un non meglio precisato dovere di lealtà politica con i berlusconiani, con i quali pure diceva di aver solo messo insieme i voti parlamentari per un governo di necessità. Per non dire poi del pasticcio (casuale?) con cui proprio il Pd ha imposto che partisse dal Senato l’esame della riforma così azzoppandola in culla.
Sul fronte istituzionale e di governo poi, al di là dei propositi, delle dichiarazioni, delle promesse e dei moniti, ha avuto agio con ogni evidenza il timore che il varo della riforma elettorale avrebbe affrettato la fine dell’esecutivo. E così si fingeva di spingere ma nell’intesa che altri avrebbero frenato, come è puntualmente avvenuto. In realtà basterebbe conoscere le raccomandazioni del Consiglio d’Europa per sapere che esiste un principio esattamente opposto e cioè che le riforme elettorali si approvano lontano dalle urne e che pertanto solo una grezza cultura istituzionale può concepire un automatismo tra il loro varo e lo scioglimento delle camere. È vero se mai che un paese con una legge elettorale impraticabile e incostituzionale è ogni giorno privo di agibilità democratica, e i suoi cittadini finiscono con l’essere non già governati ma tecnicamente sequestrati. Ci sono dunque mille e una ragione per cui l’esecutivo intervenga senza ulteriore indugio. Ed è bufala per creduloni dire che sarebbe materia riservata all’iniziativa parlamentare, quando è vero se mai che i partiti sono sul tema in evidente “conflitto di interessi” e necessitano di una leva che li smuova e li obblighi ad una scelta. Peraltro l’attuale governo è a piena rappresentanza politica proprio per poter effettuare al suo interno le necessarie mediazioni. Nel merito la legge che serve al paese la conoscono ormai anche le pietre. Scelta diretta dei parlamentari sul territorio e governabilità da garantirsi con un premio di maggioranza nazionale. Lo si metta nero su bianco e lo si mandi alle camere con procedura di urgenza, aperti al dialogo con tutti, ma con tempi predeterminati di approvazione. Se il governo lo fa nelle prossime ore potrà forse anche “conquistare” la pazienza o la clemenza della Consulta, ma sicuramente acquisirebbe molti punti nel paese. Che non è poco, ed è comunque condizione non sufficiente ma assolutamente necessaria per il ritorno ad una politica alta che non voglia generare essa stessa la supplenza dei giudici (salvo poi lamentarsene) e per un governo che ha l’ambizione di lasciarsi alle spalle la palude di un mefitico ventennio, non voglia solo galleggiare ma mettere davvero la prua al mare ancora in tempesta di una crisi che è dura a finire. In un paese che è da ricostruire a partire dalle premesse di un patto leale tra governanti e governati di cui la legge elettorale è lo statuto minimo di quotidiana agibilità democratica a prescidere da quando si torni a votare.

Repubblica 29.11.13
Seconda rata Imu cancellata, anzi no rivolta dei sindaci contro il governo
“Letta non tradisca gli impegni o il Parlamento lo sfiducerà”
Pisapia: ci siamo fidati, voltafaccia vergognoso
intervista di Oriana Liso

MILANO — «Io mi auguro che sia lo stesso governo a modificare le decisioni sull’Imu, sempre che siano decisioni già prese e non solo annunci. Perché il rischio concreto è che su questo tema il governo cada. Se si prende un impegno, pubblicamente, per iscritto e a voce, si mantiene: non è giusto che siano i cittadini a pagare, faremo tutto quanto in nostro potere perché non accada».
Sindaco Giuliano Pisapia, l’Imu è stata abolita ma i cittadini di Milano e di molte altre città dovranno pagarne comunque una quota. È colpa del governo che non mantiene le promesse o dei Comuni che hanno alzato l’aliquota quest’anno, facendo quello che molti definiscono un azzardo?
«Noi non abbiamo fatto altro che applicare la legge, che fino a ieri prevedeva espressamente la possibilità di aumentare quelle aliquote. Non è stato un azzardo, ma l’applicazione di una norma dello Stato, fatta perché il governo nel suo insieme ci ha ripetutamente rassicurato sull’intera copertura del gettito 2013. Sindaci di ogni colore politico, indipendentemente dalla partecipazione alla compagine governativa, hanno ritenuto di doversi fidare».
Fiducia mal riposta, a giudicare dagli esiti.
«Aspettiamo a dare per certauna decisione che, al momento, non è scritta. Fino a mercoledì sera, prima dell’inizio del Consiglio dei ministri, avevamo la conferma dell’intera copertura. Ma è evidente che, se c’è stato un ripensamento, questo non può essere fatto pagare ai Comuni che hanno già approvato con difficoltà i bilanci, facendo — come Milano — una fortissima spending review e rimandando fino a quando è stato possibile quell’aumento. Perché questo è uno dei paradossi: chi ha evitato di far pagare di più negli anni scorsi, sitrova ora penalizzato per un voltafaccia inaccettabile».
Lei ha parlato di “scontro istituzionale” con il governo. In che cosa si traduce?
«Quando l’Anci e tutti i sindaci parlano di decisione vergognosa, di governo bugiardo e inaffidabile, è evidente che si consuma uno scontro istituzionale. La sollevazione dei sindaci è molto forte: c’è chi pensa a rimettere le deleghe, a denunciare il governo. Io credo ci siano gli estremi per sollevare una questione di incostituzionalità o per chiedere alle Regioni di sollevare un conflitto di competenza. Aggiungo che 216 milioni di Imu sulla seconda casa pagati dai milanesi tornano al governo: potremmo chiederne la restituzione perché, se le regole cambiano, cambiano per tutti. Ma prima di arrivare a questo ci sono ancora due strade».
Quali?
«Ho l’impressione che la decisione finale non ci sia ancora, e che il Consiglio dei ministri stia ancora valutando cosa fare. Se il governo non vuole fare una brutta figura, perdendo credibilità e consenso, ha modo ancora di rimediare. Altrimenti c’è il forte rischio che andrà in minoranza. Saranno i parlamentari, eletti dai cittadini, a sfiduciare l’Esecutivo, e già diversi esponenti del centrosinistra stanno prendendo posizione affinché non si consumi questo misfatto istituzionale ».
Conta su un voto di sfiducia in un Parlamento già così lacerato?
«Se il centrodestra facesse resistenza, ricordo che alla Camera c’è una maggioranza di centrosinistra che è in grado di modificare un decreto legge. È una vergogna che un governo con la maggioranza di centrosinistra abbia fatto propria la proposta di campagna elettorale su cui Silvio Berlusconi ha recuperato consensi. Una proposta che era l’esatto opposto della promessa del centrosinistra, cioè di rimodulare l’Imu in base a un principio di equità».
Crede davvero che il Pd, nel pieno delle scontro congressuale, possa compattarsi su questa battaglia?
«Le divisioni interne che il Pd sta vivendo, e che dovrebbe cercare di attenuare, diventeranno ancora più forti se si farà pagare ai cittadini il frutto di scelte sbagliate. Sia chiaro: se cade il governo si fa un grande regalo alla destra».
Ha sentito il premier Letta, in questi giorni?
«L’Anci ha chiesto un incontro urgente. Sono certo che il premier, prima di prendere decisioni definitive, sentirà il nostro parere. Ma ripeto: se non ci fosse ragionevolezza da parte del governo saranno i parlamentari, eletti sul territorio, ad ascoltarci. E alcuni l’hanno già fatto».

Corriere 29.11.13
Big schierati, nel Pd la sfida delle liste
D’Alema a Foggia, Fassina a Ostia: parte la corsa per l’assemblea
Cuperlo: Renzi specchio del berlusconismo
Oggi il confronto in tv
di Al. T.

ROMA — Il renziano Dario Nardella fissa l’asticella a due milioni di votanti: «La gente è scoraggiata dai problemi economici e dallo stucchevole dibattito sulla decadenza di Berlusconi, ma spero che trovi il tempo di andare a votare e di cambiare la sinistra». Difficile fare previsioni attendibili sull’affluenza alle primarie dell’8 dicembre, ma intanto la battaglia tra i candidati sale di tono. Avrà un primo confronto importante questa sera alle 21, nella sfida tv trasmessa da Sky Tg24 nell’Arena di X Factor. E un anticipo c’è stato nella composizione delle liste per la nuova assemblea nazionale, dove i renziani hanno cercato di prendere spazio. Anche perché sarà l’assemblea poi a eleggere la nuova Direzione del Pd. 
Le tensioni della competizione sulla segreteria inevitabilmente finiscono per concentrarsi proprio sulla tenuta del governo e sulla durata della legislatura. Guglielmo Epifani esclude il voto in primavera, ma sa bene che, con la decadenza di Silvio Berlusconi, un’era sta finendo e le cose devono cambiare: «Dobbiamo saper rispondere alzando la qualità dell’azione di governo — dice —. Le sfide saranno più impegnative, su questo ci giochiamo l’efficacia dell’azione del governo». Renzi con il suo «finish» ha più volte intimato all’esecutivo di cambiare rotta, pena l’interruzione delle larghe intese. E siccome la quota di elettori democratici non esattamente entusiasti del governo con il Pdl resta alto, anche gli altri candidati battono sul punto. Pippo Civati lo fa da tempo, chiedendo di tornare alle urne. E Gianni Cuperlo intensifica il pressing: «Penso che la sinistra e il governo non abbiano più alibi, non tanto perché Berlusconi non fa più parte della maggioranza, ma perché c’è un Paese che ha bisogno di uscire dalla crisi più devastante della sua storia. Siamo seduti su una polveriera: servono coraggio e radicalità, serve un cambio di passo ora». 
Cuperlo ha deciso di alzare i toni anche contro Matteo Renzi, favorito nei sondaggi: «Si muove in continuità con il ventennio berlusconiano. Non basta una figura carismatica». E ancora: «Invece di Davide Serra, sul palco della Leopolda doveva invitare un pensionato del Sulcis». Civati preferisce concentrarsi sulla legge elettorale — «avanza la Mattarella, bene» — e assicura che non è in coda nei sondaggi: «I dati segreti ci dicono che la partita è ancora aperta». Il candidato monzese lancia la sua sfida, stile Matrix: pillola blu o rossa, ovvero tutto cambia o resta com’è. E attacca Renzi: «Se vinco io, facciamo un ricambio vero, se vince lui no, perché è passato dalla rottamazione all’autorimessa». 
Intanto si chiudono, con molte difficoltà, le liste per l’assemblea. Mille componenti da piazzare, in una lista singola per candidato, più cento parlamentari. Il che pone problemi di collocazione per le correnti. I renziani, per esempio, hanno cercato di togliere spazio a franceschiniani e veltroniani e di privilegiare gli amministratori locali, sostenitori del sindaco di Firenze della prima ora. Gli ex segretari (Veltroni, Bersani e Epifani) faranno parte di diritto dell’assemblea. Tra i cuperliani, D’Alema, dopo le polemiche, si candiderà a Foggia. Stefano Fassina a Ostia. Alfredo Reichlin in centro a Roma. Michele Meta alla Garbatella. E Franco Marini a Tor Bella Monica. Matteo Orfini sarà in lista, ultimo, a Salerno. Per Civati si candida a Bologna Elly Schlein, Ilda Curti, assessore all’Integrazione a Torino, e Mirko Tutino a Reggio Emilia. Per Renzi invece scendono in campo Virginio Merola a Bologna, a Bari Michele Emiliano, Roberto Giachetti nel Lazio. 

Corriere 29.11.13
«Stilnovo» pop e intellettuali precari
I guizzi alterni nei libri dei candidati
di Paolo Di Stefano

Come scrivono i candidati delle primarie Pd? E che cosa si può dedurre dal loro stile? Sono le domande che si pone il linguista Giuseppe Antonelli in una «recensione comparata» in uscita nel nuovo numero dell’Indice dei libri del mese . Il corpus preso in esame si estende dal 2009 a oggi, da Basta zercar di Giuseppe Civati a Oltre la rottamazione di Matteo Renzi. «Il libro di Cuperlo — dice Antonelli — è il più vecchio, non solo perché è stato scritto dal più vecchio dei tre candidati, non solo perché è uscito per primo e perché parte dal 1921. È il più vecchio perché Cuperlo scrive senza guizzi, con una sequenza di capitoli troppo lunghi e troppo piatti». Il titolo, nel suo dialetto triestino, parte da un gioco di parole dei vecchi militanti pci a proposito dello Statuto del Partito, in cui «sta-tuto, basta zercar!». Il riferimento prevalente è a un «noi» che allude alla coesione e all’identità del Partito. Ma il messaggio risulta in definitiva freddo e privo di personalità: «Cuperlo si mette in cattedra senza incidere», sottolinea Antonelli. 
Unico elemento che accomuna la terna (per fortuna) è la messa al bando del turpiloquio in funzione populista, marchio di fabbrica di diversi leader dell’ultimo ventennio. Cavalcando la personalizzazione montante della politica, i più giovani (classe 1975) Civati e Renzi preferiscono puntare sull’«io»; semmai il «noi» serve a indicare gruppi di lavoro, collaboratori, sodali; oppure funziona in chiave generazionale. Diversamente da Cuperlo, entrambi i «giovani» candidati affollano le loro pagine di frasi a effetto e amano citare un ricco «pantheon pop». Con qualche differenza: «Civati — dice Antonelli — è prigioniero del vecchio pregiudizio storico della sinistra: bisogna spiegare… Renzi invece si affida al piano intuitivo». Mentre Renzi ha sposato la trasversalità, Civati punta su un (e)lettore già identificato, laureati e insegnanti, il nuovo precariato intellettuale: «Civati lavora per calchi linguistici e mentali, costruendo immagini colte e ammiccanti». Gli esempi sono vari: dal marxiano «Uno spettro (non) si aggira per l’Italia» al latineggiante «De rottamatione» posti a titolo dei singoli capitoli. «Nei suoi testi, didascalicamente scanditi da brevi paragrafi, Civati nomina Ugolino e Anchise, il crowdsourcing e il Compagno Excel, Cicerone». E non manca di chiamare in causa scrittori suoi coetanei, come Lagioia, Raimo, Parrella. «Usa un lessico selezionato, ma lo fa con un certo snobismo, al punto che Virzì, nella prefazione di un suo libro lo descrive ironicamente come “lo studente che primeggia a scuola (…), metà Bob Kennedy, metà Stefano Accorsi”». 
Da una parte Civati con il «logicismo un po’ logorroico»; dall’altra il sindaco di Firenze, che non si sognerebbe mai di usare il latino, né di affidarsi a una retorica argomentativa. Niente tentazioni didascaliche. Meglio gli slogan, magari studiati visivamente: «Una sua caratteristica è contrapporre il negativo (a destra) e il positivo (a sinistra): burocrazia/semplicità, il Cavaliere/gli italiani, paura/coraggio…». La cultura «alta», se c’è, viene subito abbassata. Un esempio: «Dante era un ganzo… Detta male, gli garbava vivere…». Precisa Antonelli: «La sua “rivoluzione” si alimenta di espressioni locali e di banalizzazioni, e i suoi riferimenti pop sono spinti molto più a fondo di quelli di Civati». Che la conosca o no, Renzi fa sua l’intuizione di Tiziano Scarpa secondo cui è la cultura televisiva, di Sanremo, di Miss Italia e del calcio a fondare la nostra identità nazionale: la sua pagina è ricca di richiami pop, sempre però attenta ad attraversare le generazioni. Le metafore calcistiche, «derby», «catenacci» e «calci di rigore» abbondano, sul modello di Berlusconi: «A differenza di Civati, Renzi non trascura nessuno, il suo linguaggio tende a inglobare: cita Guardiola e Balotelli per i più giovani, ma anche Bartali per le zie e i nonni. Non spiega, piuttosto racconta utilizzando icone già impacchettate, capaci di smuovere l’immaginario collettivo». E non si fa scrupolo di inserire nel suo repertorio, accanto a José Mourinho, a Steve Jobs e all’arbitro Collina, il repubblicano Clint Eastwood e la Coca-Cola, feticcio capitalistico per antonomasia. «Quando si vedono spuntare Baden Powell e Calamandrei, — scrive Antonelli — viene in mente la jovanottiana “grande chiesa che parte da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa”». Uno «stilnovo» post-ideologico, proteiforme, postmoderno. Dunque efficace. 

La Stampa 29.11.13
Con Renzi
In favore del sindaco di Firenze scenderanno in campo il sindaco di Torino Piero Fassino, quello di Catania Enzo Bianco e quello di Bari Michele Emiliano, oltre all’architetto Stefano Boeri e alla ginecologa milanese Alessandra Kustermann.
Con Cuperlo
Per il «Bello e democratico» (questo il suo slogan) si sono schierati Massimo D’Alema, i giovani turchi Andrea Orlando e Stefano Fassina, i governatori della Toscana Enrico Rossi e dell’Umbria Katiuscia Marini, il padre nobile Alfredo Reichlin e il giornalista Gad Lerner.
Con Civati
A sostenere il più giovane candidato alla segreteria nazionale del Pd ci saranno la prodiana Sandra Zampa, l’economista Filippo Taddei, l’ex magistrato e senatore Felice Casson e l’ex candidata alle scorse primarie, Laura Puppato.

La Stampa 29.11.13
Verso il Segretario
Primarie, Marini D’Alema e Fassina in liste anti-Renzi
Spunta l’idea di un asse sindaco-Civati in Assemblea
di Carlo Bertini

ROMA  Se vincere le primarie non viene considerato un problema, invece lo è «riuscire ad avere un segretario che abbia il controllo del partito», ammettono a mezza bocca i renziani alle prese con la limatura delle liste collegate al loro candidato. Un problema non da poco, perché con le pretese di franceschiniani, veltroniani e lettiani saliti sul carro del favorito, Renzi rischia di far eleggere nella sua «quota», cioè la percentuale di voti che uscirà dai gazebo grazie a lui, un buon numero di delegati non di stretta osservanza.
E se non dovessero avere in assemblea nazionale il 51% di voti sicuri, i renziani potrebbero stringere un accordo con Civati e i suoi, rivela un deputato con cognizione di causa. Senza dire però che la linea politica dell’altro rinnovatore è più vicina a quella renziana di quanto non lo sia quella dei neo alleati filo-governativi. E che forse anche questo fattore potrebbe avere un qualche peso per stringere quando sarà una sorta di patto di sindacato. Fatto sta che ora per la carica di presidente dell’assemblea, che fu della Bindi, si parla pure di una giovane, da individuare, di area civatiana.
Tolte quelle che allo stato sono voci, peraltro smentite da Civati, resta la battaglia sulle liste andata avanti fino a notte fonda. E non era un caso se lunedì scorso gli uomini di Bersani rigettavano le letture di un partito ormai libero dei vecchi big, insomma di una rottamazione già compiuta. Solo perché non ce n’era neanche uno all’assemblea del giorno prima. Convocata per lanciare i tre candidati e sciolta subito dopo. A partire da Bersani, i big invece ci saranno tutti e a vario titolo nell’Assemblea «dei mille», quella che durerà tre anni e non un giorno solo. Ma alcuni salteranno la prova dei voti, entrando di diritto: tutti gli ex segretari, quindi oltre a Bersani, anche Veltroni, Franceschini ed Epifani. E nella «delibera» che prevede queste deroghe, sarà compresa come ovvio anche la figura del premier in carica, cioè Letta.
Chi invece vuole cimentarsi ai gazebo “contro” Renzi, oltre a Massimo D’Alema, è Franco Marini, candidato di maggior peso dell’area cattolica ex Ppi, che verrà candidato a Roma. Mentre Beppe Fioroni e la Bindi rientreranno nella quota di cento parlamentari, che in base allo statuto fanno parte del «parlamentino» del Pd.
A rastrellare consensi pro-Renzi e quindi contro Cuperlo, saranno sindaci di prima fascia come Piero Fassino a Torino, Enzo Bianco a Catania. E Michele Emiliano a Bari, la cui candidatura contro quella di D’Alema nello stesso «collegio» avrebbe provocato un terremoto locale, tanto da indurre i capi pugliesi del Pd a chiedere a D’Alema di spostarsi in quel di Foggia. A combattere contro Renzi sono reclutati anche ministri e viceministri, come i giovani turchi Andrea Orlando in Liguria e Stefano Fassina nel Lazio. E governatori, il toscano Enrico Rossi e Katiuscia Marini in Umbria, mentre è in forse Crocetta. Con Cuperlo anche il padre nobile del Pci, Alfredo Reichlin e a Milano il giornalista Gad Lerner. Nel capoluogo lombardo Renzi ha dalla sua Stefano Boeri e la ginecologa Alessandra Kustermann, che vanta un curriculum scientifico di tutto rispetto.
Il braccio di ferro tra i colonnelli che gestiscono la pratica liste ha avuto pure come oggetto la nomina d’ufficio degli ex ministri dei governi di centrosinistra e dei ministri in carica, usciti poi dalla famigerata delibera, insieme agli ex premier: punto spinoso quest’ultimo, poiché avrebbe riguardato non solo D’Alema, comunque candidato, ma anche Romano Prodi, che non ha però neanche rinnovato la tessera.
Il problema per Renzi, che ha depennato vari nomi di lettiani e franceschiniani dalle liste, costringendo a nuove trattative Luca Lotti, è dunque assicurarsi una vera maggioranza in assemblea. E cercare di dare l’immagine di un Pd svecchiato nei suoi organi dirigenti. Intanto ogni giorno che passa se la deve vedere con D’Alema e Bersani: «Non vedo come Renzi possa rivolgersi contro un governo che, oramai, è in gran parte il nostro governo, guidato da un leader del nostro partito e sostenuto per il 90% dai nostri parlamentari. Mi pare problematico», dice il primo. «Sul sostegno al governo si decide tutti assieme», lo mette in guardia l’ex leader...

La Stampa 29.11.13
Stasera il faccia a faccia su Sky Previste anche domande da casa
Il confronto andrà in onda dallo studio di XFactor
di Paolo Festuccia

ROMA Mancano solo i dettagli. Poi lo studio «Arena» di XFactor si tingerà di giallo-rosso come i colori di SkyTg24. Pochi ritocchi e anche il «galà» democrat delle primarie del 2013 (come del resto il confronto dello scorso novembre tra Bersani e Renzi, 1 milione 885mila spettatori per il 6,22% di share) è pronto per essere servito dalla PayTv di Murdoch.
Certo, restano da testare le luci, il suono e le grafiche, ma anche il grande televisore al led che avvolgerà i tre candidati alle primarie del Pd, Gianni Cuperlo, Matteo Renzi, Giuseppe Civati (questo l’ordine secondo sorteggio) ormai è pronto a partire: si comincia alle 21 stasera. Tutto visto, corretto e organizzato in ogni particolare, dai camerini alle sale di ricevimento. Così come il podio, le postazioni che ospiteranno sul palco i tre illustri ospiti. Toccherà poi all’orologio digitale scandire i tempi delle risposte e al giornalista Gianluca Semprini «arbitrare» e condire agli italiani il confronto de-
mocrat in salsa «americana». Una domanda a testa, con tempi certi e uguali per tutti, e la novità dei quesiti twittati all’hashtag #ilconfrontoPD (altri hashtag da seguire sono anche #civoti; #iovotoperché; #cambiaverso oltre a quelli dei tre candidati).
Eh già, perché tra i protagonisti assoluti del confronto televisivo di stasera, ci sarà anche l’interazione con il pubblico da casa: il televoto, e il fact checking live (in collaborazione con la facoltà di Economia dell’Università di Tor Vergata) con il quale i candidati saranno sottoposti in diretta alla verifica delle loro risposte. Tramite My Sky Hd, l’app per iPhone e iPad, Sky go e il sito SkyTg24 da casa si potrà rispondere alla domanda, «Chi ti sta convincendo di più» e decidere così se applaudire o «fischiare» rispetto a quello che i tre aspiranti alla segreteria del Pd diranno durante il confronto.
Al resto, poi, ci penseranno il conduttore (che dovrà tenere a bada eventuali invasioni di
campo, e quindi, sostanzialmente far rispettare le regole) e gli ospiti: ottanta per ciascun candidato seduti nello studio con giornalisti e blogger. A fine serata, e dopo un’ora e mezzo di domande e risposte, tutti e tre avranno a disposizione un minuto-appello per convincere l’elettore a sostenerlo, poi a fine serata (ma non in diretta) toccherà alla curva di share personale. Una scheda grafica riassuntiva, punto per punto, che illustrerà la perfomance e il gradimento ottenuto da ciascun candidato: con l’analisi delle risposte più applaudite e seguite, e quelle meno convincenti e fischiate. Una sorta di «pagellina» virtuale, orientativa ma scientifica, che insieme ai risultati del fact checking live contribuirà, qualora ce ne fosse necessità, a chiarire ai potenziali elettori (soprattutto quelli ancora incerti) dubbi, perplessità, potenzialità, e affidabilità, dei tre pretendenti alla poltrona di segretario del partito democratico. Stasera, dunque, si entra nel vivo. A nove giorni dal voto delle primarie la sfida riparte dalla Tv. Alle 21 su SkyTg24 e in chiaro su «Cielo» e subito dopo con l’approfondimento condotto da Federica De Sanctis. In studio Ilaria D’Amico e Giuseppe Cruciani.

il Fatto 29.11.13
Pd, correnti in guerra per le liste alle primarie
Cuperlo imbarca Bindi, Fioroni e Finocchiaro
Renzi presenta De Luca junior, indagato per corruzione col padre e fa fuori i lettiani nei territori
di Wanda Marra

A Montecitorio ieri i cuperliani sghignazzavano: per tutta la giornata, infatti, c’è stato un braccio di ferro senza tregua tra i sostenitori di Renzi. Oggetto del contendere, la composizione delle liste per l’Assemblea nazionale. Ovvero, la scelta di chi dovrà sedere nel “parlamentino” del Pd, che viene eletto con le primarie, insieme al segretario. Con un meccanismo rigorosamente bloccato, come accade per il Parlamento, quello ufficiale. Ecco allora che la guerra è stata continua e logorante. Il termine era fissato per le 12, e invece c’è stata una proroga alle 20.
OGNUNO dei due candidati aveva le sue gatte da pelare: Cuperlo doveva equilibrare tutti i suoi vari sostenitori, dai dalemiani ai Giovani Turchi, passando per popolari e bersaniani, Renzi arginare le richieste dei big saliti sul suo carro. Non a caso ieri alla fine della giornata non si è sciolto il nodo principale, quello riguardante i 100 parlamentari. Al Nazareno sono arrivate le liste riguardanti i territori, i 100 parlamentari nazionali verranno selezionati “prima” dell’8 dicembre. Probabilmente con una votazione nei gruppi. Gianni Cuperlo, per parte sua, si è impegnato a “imbarcarsi” la maggior parte dei big della vecchia guardia: oltre a Massimo D’Alema a Foggia (contro di lui Ivan Scalfarotto), con lui ci saranno Rosy Bindi e Beppe Fioroni. In Senato, le liste sono già chiuse. Con Cuperlo, tra gli altri, Finocchiaro, Fedeli, Migliavacca e Chiti. Con Renzi, Tonini e Marcucci. E con Civati, ci Laura Puppato e Felice Casson.
Intanto, nei territori ci sono già vincitori e vinti. Alla fine, a rimanere fuori quasi ovunque dalle liste “territoriali” di Renzi sono i lettiani. I sostenitori del Sindaco ne danno una spiegazione molto chiara: “Sarà in Assemblea che si dovrà votare la continuazione delle larghe intese e allora è importante che le proporzioni siano nettamente a favore di Matteo”. Mentre fino a sera è andato avanti il braccio di ferro tra i cosiddetti renziani della prima ora e i franceschiniani. Anche qui, l’esigenza di Renzi era quella di poter arrivare a un controllo dell’Assemblea. Tant’è vero che ha controllato a una a una tutte le liste con il responsabile della pratica, Luca Lotti.
Cuperlo per Milano ha puntato si Gad Lerner. A Ostia sarà capolista Stefano Fassina. Molti amministratori locali nelle liste renziane: il sindaco di Bologna Virginio Merola (ex bersaniano) è capolista a Bologna. Con il Rottamatore a Salerno capolista il figlio del Sindaco De Luca, Piero, anche lui indagato per corruzione con il padre.
A Piacenza, torna in campo Roberto Reggi, ex sindaco, coordinatore della campagna di Renzi nelle primarie dello scorso anno, che sarà il capolista in sostegno del sindaco di Firenze nella sua provincia.
ALTRO motivo di imbarazzo segretari uscenti, vecchi e nuovi: Guglielmo Epifani, Pier Luigi Bersani e Walter Veltroni alla fine entreranno di diritto nel-l’assemblea. Ieri nessuno era ancora in grado di spiegare in virtù di quale meccanismo, ma era abbastanza chiara l’origine della scelta: il “reggente” in carica non vuole schierarsi. Si attende per la prossima settimana una modifica dello Statuto. Stasera intanto ci sarà il duello a tre su Sky: - Un podio "personale" all'americana, 1 minuto e 30 secondi massimo a risposta scandito da un countdown, possibilità di replica e domande da twitter all’hashtag #ilConfrontoPD.

il Fatto 29.11.13
Corruzione, indagato De Luca
Inchiesta sul viceministro e sindaco di Salerno
Sotto accusa anche il figlio di Renzi
di Marco Lillo

Vincenzo De Luca è indagato per corruzione e abuso di ufficio dalla Procura di Salerno. Il sindaco di Salerno e viceministro delle infrastrutture e dei trasporti del governo Letta stavolta non è nei guai per le vicende relative al Crescent. Pochi giorni fa, dopo il sequestro del grattacielo che sfregia il Lungomare della città De Luca era finito sulla graticola.
IN MOLTI AVEVANO chiesto a Matteo Renzi, vincente nel primo round delle elezioni primarie del Pd anche grazie al suo appoggio, se non fosse il caso di mollare un supporter così ingombrante, già indagato per abuso d’uffico e falso in atto pubblico. Ora le polemiche sono destinate a riaccendersi. Le accuse che il Fatto è in grado di rivelare, sono più imbarazzanti per il sindaco di Salerno, giunto al quarto mandato.
Non solo perché il reato contestato, la corruzione, è più grave ma anche perché stavolta insieme a De Luca è indagato anche il figlio Piero, appena asceso a un ruolo di peso nel firmamento politico della sinistra campana. Piero De Luca è infatti uno dei quattro delegati all’assemblea nazionale per la Campania in qualità di capolista pro Renzi della circoscrizione Salerno-costiera. Oltre ai due De Luca, c’è anche un terzo indagato: Mario Del Mese, nipote di Paolo, ex parlamentare Dc e già presidente della commissione finanze dell’Udeur ai tempi del governo Prodi. Mario Del Mese è il personaggio centrale della vicenda insieme a Giuseppe Amato, erede del pastificio Antonio Amato.
Vincenzo De Luca è stato iscritto sul registro degli indagati per corruzione nel novembre del 2012 e ha ricevuto la notifica dell’avviso di proroga delle indagini negli ultimi giorni di maggio. Il governo era appena nato e chissà se il viceministro avrà informato Enrico Letta e Matteo Renzi. Forse avrà glissato, memore di quanto era accaduto con altre accuse. De Luca era stato candidato nel 2010 alle regionali nonostante fosse indagato per accuse che poi si sono rivelate infondate. Proprio per una vicenda legata alle spese affrontate a margine del comizio più importante di quella campagna elettorale, secondo quanto risulta al Fatto, Vincenzo De Luca è ora indagato per corruzione. Giuseppe Amato, 39 anni, erede del pastificio Antonio Amato, ha raccontato ai pm di avere pagato alcune fatture per le spese relative al comizio sul palco montato a Piazza del plebiscito a Napoli nel 2010. A chiedergli di pagare le imprese che si erano occupate del comizio - secondo Amato Jr - era stato Mario Del Mese, un imprenditore molto vicino al figlio di De Luca, Piero.
Da canto suo Amato era interessato ai buoni uffici del comune di Salerno al quale aveva presentato una richiesta di variante urbanistica per un immobile del pastificio Amato. Nel novembre del 2012 Giuseppe, detto Peppino, Amato racconta la sua versione ai pm che indagano sul crac del pastificio. Il pm Vincenzo Senatore segreta l’atto e decide con l’allora procuratore Franco Roberti di creare un fascicolo separato che viene affidato ad altri due sostituti procuratori: Guglielmo Valenti e Antonio Cantarella. Allo scadere dei sei mesi i magistrati hanno notificato a Vincenzo De Luca, difeso dall’avvocato Paolo Carbone, e agli altri due indagati, il figlio Piero e il suo amico Mario Del Mese, l’avviso di proroga delle indagini, richiesto al Gip Maria Zambrano. L’avvocato Carbone, raggiunto dal Fatto, si è rifiutato di commentare.
SULLO SFONDO della nuova indagine c’è la vecchia inchiesta sulla bancarotta del pastificio Amato. Giuseppe Amato jr ha patteggiato una condanna a 3 anni e 6 mesi per le distrazioni del patrimonio dello storico pastificio che nel 2006 era stato sponsor della Nazionale nei mondiali vinti in Germania. Amato jr ha detto ai pm: “Mario Del Mese mi raccontava di viaggi in Lussemburgo per raggiungere Piero De Luca al quale portava soldi da versare sul conto in Lussemburgo, proventi della Ifil”. E ha aggiunto: “Mario Del Mese mi riferì che Piero De Luca in realtà era un socio occulto della Ifil”. Ifil C&D è una società chiave dell’inchiesta. De Luca Jr non è mai stato socio e nega tutto.
Ora i magistrati salernitani hanno avviato una rogatoria in Lussemburgo per verificare le accuse. Piero De Luca lavora in Lussemburgo come referendario presso la Corte di Giustizia e sui suoi viaggi il sito della cronista Angela Cappetta, il più dettagliato sulle vicende salernitane, ha già rivelato altri particolari emersi durante l’inchiesta. Come i biglietti aerei pagati dalla società Ifil C&D di Mario del Mese per il Lussemburgo alla moglie di Piero De Luca e alla ex moglie di Vincenzo De Luca, Rosa Zampetti, madre di Piero.

Corriere 29.11.13
«Progetto per l’Italia», i popolari in Parlamento

l’Unità 29.11.13
Una giornata con il candidato Pippo Civati
Il «terzo incomodo» punta sui giovani e sull’Ulivo
Nei tanti incontri in giro per l’Italia Civati parla di F35 e reddito minimo
E dice stop alla Tav «Voglio portare a votare i delusi dal Pd»
Il feeling con Prodi e Rodotà
di Andrea Carugati

La parte del terzo incomodo gli sta decisamente stretta. E forse è per questo che Pippo Civati, dei tre sfidanti alle primarie Pd dell’8 dicembre, è quello che si sta muovendo di più in giro per l’Italia, dall’Ilva di Taranto alle fabbriche in crisi del Friuli, passando per i distretti produttivi delle Marche fino al piccolo cinema Melies nel centro storico di Perugia, una vecchia sala riaperte dall’Arci, dove lo attendono 200 ventenni in un mercoledì pomeriggio di gelo e pioggia. Due ore di botta e risposta serrato, con Jacopo Fo come guest star ad arringare i ragazzi, e Civati nella parte dell’elettore Pd piombato in un Parlamento «dove si parla una lingua morta e si fa il contrario di quello che abbiamo promesso in campagna elettorale».
L’ex consigliere regionale lombardo, classe ’75 come Renzi, picchia duro sul governo («Non è colpa di Letta, è la formula che non funziona, bisogna votare nel 2014»), tocca tanti tasti che piacciono all’elettorato border line tra Pd e M5S: «No agli F35», «La Tav va fermata, ormai lo dicono anche i prof della Bocconi». E poi il reddito minimo di cittadinanza, il tetto agli stipendi pubblici, la priorità a ambiente, istruzione e ricerca. Il menu non ha paura di contaminarsi con Sel e M5S, al fondo però c’è la storia antica dell’Ulivo, come dimostra il piccolo caso suscitato dei manifesti prodiani del 1996 affissi a Bologna dai civatiani nei giorni scorsi. Nessuna strizzata d’occhio all’antipolitica. «Io nei partiti ci credo», dice Civati, sfidando la giovanissima platea. «Solo mettendosi insieme le cose cambiano». E i 5 stelle? «Il Pd ha fatto tanti errori, lasciando a loro temi come l’ambiente, la tecnologia e il taglio degli sprechi. Ma la loro iperdemocrazia si è rivelata una oligarchia, Casaleggio comanda tutti accarezzando il gatto come il capo della Spectre dei film di James Bond».
I ragazzi ascoltano, per loro l’Ulivo è un rumore lontano, un vecchio Tg, ma la parola «cambiamento» ha un sapore necessario. «Io voglio una sinistra che faccia finalmente il suo dovere», dice Civati, che ritrova i suoi trascorsi di giovane prof (precario) alla Statale di Milano e cita Machiavelli e Delors, per spiegare che «le grida e i tumulti vanno ascoltati e capiti». E che scuola e formazione «devono essere tolti dal tetto del 3%». «Chi me l’ha fatto fare? Io sono per qui vincere», spiega con tono pacato al giovane moderatore. L’obiettivo reale è quello di fare breccia in quella zona grigia, soprattutto under 40, ancora incerta se votare, lontano dal vecchio apparato ma diffidente anche nei confronti del sindaco star. «Sono quelli che decideranno all’ultimo momento se votare o no, quei ragazzi che i sondaggi difficilmente intercettano», spiega sulla Golf nera che lo riporta a Roma all’una di notte, guidata da Sandrino, un militante ex veltroniano “illuminato” dal giovane Pippo che lo scorazza in giro per l’Italia «perché ci credo davvero». Quel popolo deluso dal Pd, distante dai metodi padronali di Grillo e Casaleggio e consapevole che «Sel da sola non va da nessuna parte». «Io sono una queste persone», ragiona Civati. «Se non mi fossi candidato sarei uno di quelli che non si sente rappresentato...».
L’obiettivo è quello di incarnare l’alternativa «di sinistra» a Renzi, sempre nel segno del rinnovamento spinto. «Se vinco io tutto questo gruppo dirigente va a casa», ribadisce in serata dopo la cena a base di porchetta offerta dai volontari alla Fiera di Bastia Umbra. «Si va a votare nel 2014 e i parlamentari li scelgono i cittadini nei collegi uninominali». L’obiettivo realistico è quello di arrivare secondo dopo l’ex sodale Renzi, scavalcando Cuperlo. E forse è anche per questo che verso Matteo i toni sono abbastanza morbidi. E quando Jacopo Fo strapazza il sindaco davanti ai ragazzi che plaudono lui si chiama fuori con un sorriso: «Non mi vorrete mica costringere a difendere Renzi?».
Per coronare la rimonta, Civati confida in questi ragazzi, negli operai della Fiom, nelle piazze di Rodotà e Zagrebelsky, negli ulivisti. Con la speranza, dopo aver ottenuto il sostegno di Barca, che Prodi all’ultimo momento esca dal suo Aventino e si schieri per lui. I rapporti tra «Pippo» e il «Prof» sono buoni, si racconta che parlando in famiglia qualche giorno fa l’ex premier l’abbia persino buttato lì l’idea. «E se votassi Civati?». Solo una privata boutade, per ora. Ma Prodi non ha mai nascosto di guardare con simpatia ai «giovani che si sono fatti strada da soli», cioè lui e Renzi. Non ad altri. Con Civati già si sono schierati fedelissimi come Sandra Zampa, Giulio Santagata e Albertina Soliani. E con tutta probabilità la lista si fermerà qui.
Pippo però non demorde. Sa che il tema dei 101, ormai seppellito tra gli addetti ai lavori del Parlamento, è ancora molto vivo tra gli elettori. «Io non ne ho imbarcato nessuno», dice alla platea di Bastia. E un signore gli grida: «Siamo qui per questo!». Un ragazzino gli chiede se voterebbe Letta al Quirinale. E lui: «Meglio tornare a bussare da Prodi». Sul governo, del resto, è il più duro di tutti: «Ma come si fa a pensare di fare una maggioranza coesa con Alfano e Formigoni? Ma vi rendete conto che stiamo parlando di gente Formigoni e Lupi?». La gente applaude. «Io voglio ricucire con Vendola, e non solo perchè la mia fidanzata è di Sel...». Confessa che «non votare la fiducia per me è stato difficile, perché credo nell’idea di partito. Ma c’è una questione di coerenza...».
Si sente emarginato, Civati, e non lo nasconde. Vaso di coccio, capro espiatorio in un partito «conformista dove si è persa l’idea che le minoranze servono». I ragazzi della porchetta lo consolano con una serie infinita di foto ricordo, lui affila le armi per la sfida tv si stasera su Sky. Il piatto forte sarà la prossima sul reddito minimo, messa a punto dal suo team economico formato dai docenti Rita Castellani, Filippo Taddei e Roberto Renò. Si parte con 3 miliardi di euro, per un primo test che dovrebbe portare un sostegno al reddito fino a 400 euro al mese. Ma il progetto è più ambizioso, e prevede scaglioni successivi, per allargare la platea inglobando altre forme di ammortizzatori sociali. «Quello del governo? Con 40 milioni più che minimo è un reddito misero», taglia corto Civati. «Se vuole risorgere, il Pd deve cambiare pelle».

Repubblica 29.11.13
Primarie, Cuperlo attacca Renzi “Continuità col ventennio di Silvio” Lite sui posti nel listino del sindaco
Il rottamatore: imporre l’agenda Pd. Epifani: niente paura del voto

ROMA — A meno dieci giorni dal voto ai gazebo, la tensione sale fra i tre sfidanti per la guida del Pd. È Cuperlo ad attaccare, come aveva già fatto nella Convenzione di domenica, il super favorito Renzi. «Il sindaco di Firenze — accusa Cuperlo alla vigilia del confronto tv su Sky di stasera — si muove in continuità con il ventennio di Berlusconi. Non basta una figura carismatica alla politica. Bisogna avere il coraggio di chiudere per sempre quella storia». Dà in pratica del berlusconiano al “rottamatore”; gli chiede conto delle ricette economiche che intende mettere in campo; lo mette alle strette sul doppio impegno che ha annunciato ovvero di segretario democratico e sindaco. Però su una questione si trovano entrambi d’accordo ed è sulle critiche al governo Letta. Renzi è più perentorio e incalzante: ora che è decaduto Berlusconi, che è nato il nuovo centrodestra di Alfano,l’agenda non può più essere imposta ai Democratici: «È il momento che il Pd smetta di fare il bravo ragazzo, se no finish». Minacce che non piacciono all’ex segretario Pierluigi Bersani, che appoggia Cuperlo nella corsa per la leadership del partito: «Sul sostegno al governo si decide tutti insieme ». E il renziano Roberto Giachetti twitta: «A Cuperlo sembra abbiano fatto una trasfusione del livore di D’Alema e del linguaggio di Forlani ma il risultato delle primarie non cambierà».
Ma è Epifani a tornare sul governo per dare l’altolà ad eventuali elezioni in primavera: «Noi in primavera abbiamo cinquemila comuni che votano, abbiamo le europee quindi in qualche modo la campagna elettorale c’è già. Se invece pensiamo a eventuali elezioni politiche, io non le voglio e le escluderei. Però sia chiaro che il Pd non ha paura di nessuno». Tuttavia ancheil segretario “traghettatore” — che tra poco più di una settimana rimetterà il suo mandato nelle mani del vincitore delle primarie — chiede un cambio di passo al premier Letta e nuove priorità. Il governo è preoccupato? Il ministro Dario Franceschini, che è sponsor di Renzi, minimizza: «Noi mediamo, il governo farà una mediazione ma è positivo che il Pd cerchi di portare nell’agenda di governo le sue proposte».
È ieri un giorno di scontri e conflitti nelpartito perché sono stati composti i cosiddetti listini di appoggio ai tre sfidanti, per l’Assemblea nazionale. Non molti i big, però ci saranno alcuni componenti di diritto e tra questi Rosy Bindi, Walter Veltroni, Bersani. Il criterio però è stato largo ai giovani e al ricambio. Civati ha candidato a Reggio Calabria, Maria Teresa Lanzetta e in Friuli Laura Puppato. I cuperliani hanno puntato a Firenze su Enrico Rossi, il “governatore” della Toscana e anti renziano della prima ora; in uno dei collegi di Roma sarà capolista Alfredo Reichlin; a Bologna Carla Cantone; Massimo D’Alema sarà alla guida della lista cuperliana di Foggia. Braccio di ferro nei listini renziani con Areadem e i lettiani: molti gli amministratori tra cui Virginio Merola e Daniele Manca, sindaci ex bersaniani.

l’Unità 29.11.13
Non si faranno i referendum radicali: firme insufficienti
di Marzio Cecioni

ROMA Sono saltati i referendum radicali, di cui sei sulla giustizia: la commissione istituita dalla Suprema Corte mercoledì sera ha finito il controllo delle firme presentate in settembre dai Radicali: per nessun quesito è stato raggiunto il tetto, previsto per legge, delle 500mila firme necessario per dare il via libera ai referendum.
I sei quesiti in materia di giustizia riguardavano la responsabilità civile dei magistrati, la separazione delle carriere, l’abolizione dei fuori ruolo in magistratura e dell’ergastolo, e lo stop all’abuso di custodia cautelare in carcere. Il quesito più votato (420 mila firme), è stato quello sulla responsabilità civile. Il meno votato è stato quello per l’abolizione dell’ergastolo. Restano da esaminare altre firme giunte fuori tempo dalla Calabria, difficilmente ammissibili.
«Un’occasione sprecata. Perché sicuramente, se fossimo stati ascoltati, se vivessimo in uno Stato di diritto, quello che si è verificato con il controllo delle firme non sarebbe il responso che ci è stato dato oggi», ha detto la segretaria di Radicali Italiani, Rita Bernardini, che lamenta «l’atteggiamento della sinistra» nei confronti dei referendum, la «firma tardiva di Berlusconi» e la confusione del Pdl nel raccogliere le firme. «Abbiamo tutta la documentazione di decine di pacchi di firme arrivati in ritardo alla Cassazione per ritardi non nostri, ma delle società di spedizione, o addirittura degli stessi Comuni», spiega Bernardini. Secondo il comitato promotore dei referendum, la verifica delle firme non sarebbe ancora conclusa e una conferma diretta di questo sarebbe arrivata ieri proprio dagli uffici della Cassazione.
E Pannella aggiunge: «Se verranno confermate le notizie sulla non validazione delle nostre sei richieste referendarie per “insufficienza” del prescritto numero minimo di 500mila firme, posso sin d’ora preannunciare che il Comitato Promotore dei Referendum sulla Giustizia Giusta presenterà immediatamente dopo la conoscenza della decisione ufficiale della Corte Suprema di Cassazione un nostro, fiducioso ricorso».

il Fatto 29.11.13
Referendum, quella firma ha portato male
di Pino Corrias

È PERSINO POSSIBILE che la firma di Berlusconi a favore dei sei scombiccherati referendum sulla Giustizia promossi lo scorso anno dalla commovente rimanenza degli adepti di Marco Pannella – della sua coda di cavallo e di parole, di Emma Bonino e dei suoi successi in India coi marò e a Casal Palocco con la signora Shalabayeva e figlia – abbia interferito con la già mesta raccolta di consensi, bloccandola all’istante, come farebbe un qualunque choc anafilattico. La sola circostanza che un pluriinquisito miliardario, già in odore di condanna definitiva, amico di Putin e di un’altra dozzina di dittatori transnazionali, firmasse in pubblico la sua piccola vendetta privata contro i magistrati, per di più tra gli applausi della sua banda, armata di denti e di avvocati, deve avere insospettito gli ultimi cuori candidi che ancora si inteneriscono davanti ai digiuni a salve del loro leader radicale, nato un migliaio di anni fa sulle ginocchia di Ernesto Rossi. La perspicace Rita Bernardini si duole “che B. abbia firmato troppo tardi”. Neanche sospetta che questo finale di partita offra il suo piccolo contravveleno al cupo clima della decadenza. E anzi lo rischiari, suscitando una risata.

Repubblica 29.11.13
Dall’amicizia con il ministro Clini alle raccomandazioni di Vendola così funzionava il Sistema Ilva
Tutte le telefonate (intercettate) di Archinà a politici e sindacalisti
di Carlo Bonini e Giuliano Foschini

TARANTO — Nessuno può dirsi innocente di fronte ai veleni dell’Ilva. Nel triangolo Taranto- Roma-Milano, tutto e tutti hanno avuto un prezzo. Non necessariamente economico. Tutto e tutti ne sono irrimediabilmente rimasti sporcati e dunque prigionieri. Nei trentuno faldoni di atti e nelle 50mila intercettazioni telefoniche dell’inchiesta della Procura di Taranto depositati in questi giorni e di cuiRepubblica è in possesso, è la prova documentale che il Sistema Riva e il capitalismo di relazioni di cui è stato espressione hanno appestato, insieme all’aria, all’acqua, al suolo di Taranto, il tessuto connettivo della politica, della pubblica amministrazione, dei controlli a tutela dell’ambiente e della salute. A Girolamo Archinà, il Rasputin dei Riva, l’ex onnipotente capo delle relazioni esterne Ilva da qualche giorno tornato libero dopo un anno e mezzo di carcere, si sono genuflessi nel tempo segretari di partito, ministri della Repubblica, arcivescovi, sindacalisti, giornalisti. Ascoltarne la voce chioccia al telefono mentre blandisce, lusinga, minaccia i suoi interlocutori, dà la misura di quanto estesa, profonda e antica fosse la rete che ha consentito di collocare l’acciaieria in uno stato di eccezione permanente.
A DESTRA E A SINISTRA
Il cuore e il portafoglio dei Riva battono a destra. Da sempre. Dagli anni 2004-2006. È di 575mila euro il finanziamento a Forza Italia, di 10mila quello a Maurizio Gasparri e di 35mila quello all’ex governatore della Puglia e poi ministro Raffaele Fitto. Uomo cui la famiglia è particolarmente grata per aver ritirato, il giorno prima della (unica) sentenza di condanna, la costituzione di parte civile della Regione nei confronti dell’Ilva, consentendo un risparmio di qualche milione di euro. Ma il capitalismo di relazioni impone di scommettere anche sui cavalli di altra sponda.
«Bersani? Si sentono tutte le settimane», assicura Archinà a chi lo avvisa di un interesse dell’allora segreterio del Pd ad un contatto con la famiglia Riva (che per altro ne ha finanziato la campagna elettorale del 2006 con 98 mila euro). Quel Pd, il cui deputato Ludovico Vico eletto a Taranto, è telecomandato come un uomo azienda. E anche con il governatore della Regione, Nichi Vendola, che pure sarà l’unico alla fine a battezzare due leggi contro i fumi dell’Ilva, è un salamelecco di “auguri sinceri” per le feste comandate, attestati di stima. Non solo nella telefonata ormai nota in cui si ghigna della protervia nell’azzittire un giornalista petulante e per la quale Vendola ha fatto pubblicamente ammenda. Ma anche in un’altra conversazione in cui Archinà si offre di fare da “mezzano” per un incontro tra il governatore e l’allora presidente di Confindustria Marcegaglia («Così diamo uno scossone al centro-destra»), cogliendo l’occasione per sollecitare un intervento «caro ai Riva» sulle nomine all’autorità portuale di Taranto. Non esattamente il core business dell’acciaieria.
«Apriamo gli occhi sull’autorità portuale di Taranto», dice Archinà a Vendola. Che risponde: «L’ammiraglio va bene. Non è un ladro. E’ una persona sobria e seria. Siccome è di destra, ho detto al ministro: “È uno vostro, ma è una persona per bene. Niente da eccepire». Ma il problema di Archinà non è «l’ammiraglio». È impedire la nomina di tale Russo, «sponsorizzato dal traditore Michele Conte». «Lei lo sa — insiste con il governatore — che Conte è passato coordinatore cittadino del Pdl?». Vendola conviene: «Michele Conte, mamma mia. Uno raccomandato da tutti. Dalle organizzazioni per la liberazione della Palestina ai gruppi comunisti estremisti. Noi abbiamo il potere di fare bene, ma il ministro ha quello di fare le scelte. Comunque grazie di questa informazione ».
“IL NOSTRO AMICO CORRADO”
Non c’è ente locale o ministero dove Archinà e i Riva non possano arrivare. Dovenon si inciampi in «un amico». Come all’Ambiente, dove Corrado Clini, allora direttore generale e futuro ministro del governo Monti, architetto dell’Aia che assicurerà la sopravvivenza dell’acciaieria, viene rappresentato come uomo a disposizione. «Stamattina ho visto per altri motivi il nostro amico Corrado — confida ad Archinà tale Ivo Allegrini del Cnr — Nel casino che adesso praticamente sta investendo il ministero dell’Ambiente, ho praticamente un’opportunità. A Corrado hanno dato la delega che danno pure ad altri direttori generali no! Allora mi ha detto: “Fatemi unanota del casino che sta succedendo giù a Taranto, poiché nel limite del possibile io cerco di rimettere le cose in sesto». Una solerzia che troverebbe spiegazione — per quanto si ascolta in una seconda telefonata tra Allegrini e Archinà — in qualcosa che «sta a cuore a Clini in Brasile» e per la quale «è necessario un passaggio con i Riva».
QUEL LIBRO CON RAVASI
Già, nel Sistema Riva niente si fa per niente. Anche con gli uomini di Chiesa. Come quando don Marco dell’Arcivescovado di Taranto bussa a quattrini per la presentazione di un libro cui presenzierà Monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per i Beni culturali. «Su cosa mi devo sbilanciare?», chiede Archinà. «La sponsorizzazione totale costerà 25mila — fa di conto don Marco — E l’impresa Garibaldi ha detto che vuole contribuire per 7-8 mila. Va bene?». Naturalmente va bene. Come vanno bene i sette assegni da 15mila euro l’uno staccati alla Curia e all’Arcivescovo Monsignor Benigno Papa per rendere più liete le feste comandate e far tacere sui veleni dell’acciaieria.
IL RAGAZZO BRUNO DI AVETRANA
Del resto, per i Riva comprarsi le indulgenze sembra facile quasi quanto scegliersi i sindacalisti. E per giunta, Archinà non deve neppure chiedere. «Senti Girolamo — gli spiega al telefono Daniela Fumarola della Cisl — siccome io sto lavorando sul nuovo gruppo dirigente della Fim, mi fai sapere qualcosa rispetto al ragazzo, al delegato nostro alla Rsu, aspetta come si chiama.. quello di Avetrana.. ora mi salta il nome.. un ragazzo bruno con gli occhi neri, è giovane.. Io ce l’ho sempre a mente perché è una cosa che ti devo chiedere e ora mi è sfuggito il suo cognome. Praticamente io devo fornire indicazionianche alla segreteria nazionale suchi puntare per il dopo Lazzaro».
UN REGALO DI GOVERNO
Non deve sorprendere, allora, che anche dati per politicamente e industrialmente morti, i Riva continuino a incassare i dividendi del loro sistema di relazioni. Ancora oggi e con un nuovo governo. È diventata recentemente legge dello Stato il decreto voluto dai ministro del governo Monti, Balduzzi (sanità) e Clini (Ambiente) sulla valutazione del danno sanitario per i cittadini di Taranto. Norme che, di fatto, di qui al 2017, lasceranno che i cittadini di Taranto, soprattutto gli abitanti del quartiere Tamburi, continuino ad ammalarsi di cancro senza che questo obblighi l’Ilva a modificare il proprio livello di emissioni. Il governo ha infatti accettato di congelare la valutazione del possibile danno sanitario alla popolazione basandosi sulle rilevazioni dei veleni liberati dall’Ilva in questa fase di produzione limitata. Peccato che, già da oggi, l’azienda sia autorizzata ad aumentare la sua produzione fino a 8 milioni di tonnellate di acciaio. Dice Giorgio Assennato, direttore generale dell’Arpa Puglia, «Il Rompicoglioni», come lo aveva battezzato Fabio Riva: «È un omicidio di Stato. Identico, nella sostanza, a quello già autorizzato dal ministro Prestigiacomo nel 2011». Contro la legge, Assennato e la Regione hanno presentato ricorso. E non sono gli unici a pensarla così. Un dirigente del ministero dell’Ambiente, in una recente riunione con l’Arpa, ha riassunto così il senso dell’ultimo regalo ai Riva: «È come quell’uomo che si getta dalla cima di un grattacielo alto cento metri e che, arrivato al sesto piano, dice: “Fino a qui, tutto bene”».

l’Unità 29.11.13
Riccardo Nencini
«Socialisti, Pd e Sel in un’unica lista col simbolo Pse»
Nel weekend a Venezia il congresso socialista
«Letta abbia più coraggio Con una patrimoniale e Imu alla Chiesa crei risorse per l’occupazione»
intervista di Osvaldo Sabato

Una lista alle prossime elezioni europee di maggio che si richiami al Pse e «che tenga dentro i grandi partiti della sinistra riformista italiana: Psi, Pd e Sel». È quanto auspica il segretario nazionale del Psi Riccardo Nencini. In questo fine settimana i socialisti italiani riuniranno il loro congresso a Venezia, in agenda tanta Europa, in previsione dell’assemblea del Partito Socialista europeo del prossimo febbraio a Roma. Ma anche tanta politica italiana, con un messaggio a Letta «bisogna uscire da questa calma piatta» dice Nencini. Il segretario del Psi chiede a Palazzo Chigi un cambio di rotta: «La mia valutazione non è diversa da quella di Epifani» spiega, convinto che con la decadenza di Berlusconi e il passaggio di Forza Italia all’opposizione «si è chiuso un ciclo, le larghe intese sono tramontate» quindi «c’è l’opportunità per Letta di dare un forte segno di discontinuità con il governo che è nato in primavera».
Su quali fronti chiedete una spinta più vigorosa?
«Pensiamo alla riorganizzazione dello stato sociale, per combattere la povertà di ritorno del ceto medio, precipitato in larga parte nell’area del bisogno».
È sempre una questioni di soldi.
«Noi proponiamo la creazione di un salvadanaio di una cinquantina di miliardi di euro».
Una cifra enorme, come è possibile trovare questi fondi?
«Si potrebbero aumentare i prelievi dello Stato sul gioco. Noi abbiamo previsto 7 miliardi in più, come lotta anche alla ludopatia. Altri 45 miliardi potrebbero arrivare con una patrimoniale una tantum sulle grandi ricchezze di quel 10% di famiglie italiane che hanno in mano il 50% della ricchezza. Infine, recuperando i 4 miliardi di Imu non pagati dal Vaticano per le sue attività commerciali. Da queste voci raccogliamo i soldi che ci servono per combattere le nuove povertà e rilanciare gli investimenti e l’occupazione. Queste proposte le presenteremo alla Camera quando discuterà la legge di stabilità. Ed è qui che Letta deve manifestare un coraggio più marcato».
Voi lanciate l’idea di un osservatorio parlamentare con il Pd, Sel e Scelta Civica. A che cosa serve?
«Dovrebbe affrontare preventivamente le grandi questioni prima di portarle in aula. È anche un modo per coinvolgere il partito di Vendola nelle decisioni che riguardano l’assetto di governo dell’Italia. Questo è possibile perché la fine del ciclo berlusconiano dà la possibilità alle forze politiche italiane di europeizzarsi. Noi avremo sicuramente Casini e Alfano che aderiranno al Ppe, penso che potrebbero presentarsi assieme alle prossime europee, la sinistra che sta, o che deve entrare nel Pse, ha il dovere di prevenire l’azione del centro destra e di ragionare in una prospettiva di unità. Sono questi i due filoni che batteremo nel nostro congresso». Patrimoniale e Imu alla Chiesa. Ma Alfano sarà d’accordo?
«Se lui ha una fonte di denaro alternativa lo dica, noi avanziamo le nostre proposte, oltre alla vendita di parte del patrimonio dello Stato e i tagli sui ministeri. Ma i soldi servono ora se vogliamo sciogliere i nodi che sono caldi». Dovrà convincere anche il Pd.
«Una parte è già d’accordo. La necessità della patrimoniale la sostengono anche il Fondo Monetario Internazionale, banchieri come Profumo, la sostiene anche De Benedetti che non è proprio un sovversivo. È un provvedimento realistico e necessario».

l’Unità 29.11.13
Quando si fece il deserto attorno ai socialisti
di Vittorio Emiliani

IRONIA DELLA SORTE, VEDO AFFIANCATI NELLA VETRINA DELLA LIBRERIA CHE FREQUENTO IL VOLUME DI CLAUDIO MARTELLI «RICORDATI DI VIVERE» (BOMPIANI) E IL MIO «CRONACHE DI PIOMBO E DI PASSIONE» (DONZELLI). I quali ripercorrono, più o meno, gli stessi anni 70 e 80, e mi torna in mente come noi due ci scontrammo frontalmente soprattutto sull’autonomia del giornalisti e del loro sindacato dai partiti, dal Psi, come prese male Claudio, allora responsabile dell’informazione, la mia nomina a direttore del Il Messaggero operata da Mario Schimberni al di fuori dei partiti (fruendo, al termine del ’79, della loro debolezza, seppellita la solidarietà nazionale) e come si adoperò, con Ciriaco De Mita soprattutto, e pure con Bettino Craxi, per piazzare in via del Tritone un proprio direttore «di fiducia».
Ne è passata di acqua sotto i ponti del Tevere da allora. Infatti è del libro di Martelli che vorrei parlare. Un libro certamente acuto, intelligente, ben scritto, nel quale il pedale dell’autobiografia viene schiacciato forse più di quello dell’analisi, del bilancio politico di un’esistenza, di una generazione, grosso modo, che è stata al vertice del Paese fra la metà degli anni 70, a cavallo del Midas. Da quando Craxi esce segretario sino alla fine del centrosinistra, o meglio del pentapartito, con Tangentopoli nel ’93. Gli anni in cui il Psi, precipitato sotto il 10%, prova a risalire presentandosi con una nuova classe dirigente di trenta-quarantenni: Craxi, Martelli, Signorile, De Michelis, Amato, Cicchitto, ma anche Spini, Tognoli, Acquaviva, sindacalisti come Benvenuto, Del Turco, Mattina, con una rivista culturale di grande prestigio, Mondoperaio, che allineava molti dei migliori cervelli del momento (Federico Coen, Cafagna, Giugni, Salvadori, Sylos Labini, Ruffolo, Reviglio, Pedone, Leon, Baratta, Forte, Tamburrano e tanti altri, grande ispiratore Norberto Bobbio), non graditi però a Bettino.
Perché quell’esperienza fortemente improntata all’innovazione, alla modernizzazione, pur fra momenti positivi (più nel governo che nel partito), andò poi scemando di novità, fino a degradarsi e sfibrarsi? Perché, crollato nell’89, fragorosamente, il comunismo, l’area socialista non divenne, come in altri Paesi europei, il riferimento di tutta la sinistra? Pesò, certo, l’indecisione di Occhetto che, di fronte alla scissione di Rifondazione, evitò di imboccare la strada del Partito Socialista Europeo. Ma non pesò di meno quella che Martelli chiama «la grande bonaccia», cioè l’essersi Craxi rattrappito a socio del Caf, senza più aspirazioni mitterrandiane. «È accaduto che la stessa condotta, le stesse scelte che nel passato ci hanno portato al successo si rivelino disastrose se ripetute in un contesto diverso, meno favorevole, o quando la sorte sembra averci preso di mira», scrive Martelli. Non so se basti a spiegare. Lui fu protagonista di un episodio tuttora importante. La sua relazione alla Conferenza programmatica di Rimini dell’82, fondata su «meriti e bisogni» rimane uno dei rari sforzi per uscire dal passato e dalla routine di una sinistra bloccata. Ma, rispetto allo stato del partito, essa resterà un bell’episodio.
Bettino dirà, agli inizi degli anni 90, «ho tutto il partito su di me». Ma questo avveniva proprio perché, rispetto al partito ormai grigio e clientelare ereditato dal demartinismo, c’era, di nuovo, il suo leaderismo di governo. Finché ci fu. Era mancata «l’autoriforma» del Psi. Craxi, leggo, «via via ha finito col credere che i consensi sarebbero aumentati col potere». Per decenni il potere aveva dato sempre più consensi alla Dc ma allo scudo crociato gli italiani sapevano di dovere «la diga al comunismo» nel dopoguerra. Al Psi no. Sulle clientele, sugli scandali Dc avrebbero per questo chiuso a lungo gli occhi. Su quelli del Psi, no, perché i socialisti venivano da una storia, lontana, di gente onesta e appassionata.
L’autoriforma del Psi si scontrava con lo stato del partito, col gonfiamento delle tessere, «col metodo della confisca e della spartizione degli organismi dirigenti e delle rappresentanze esterne, delle fonti di finanziamento da parte di gruppi organizzati». Martelli confessa di essere stato estraneo (e lo era per la sua storia personale) a tutto ciò. E però doveva sentire «estraneo» a lui, magari ostile, pure il gruppo di intellettuali gravitante su Mondoperaio. Invece di cercarvi alleanze riformatrici, lavorò, di fatto, a spegnerlo, lentamente. Come Craxi voleva. Mentre da lì potevano venire stimoli, idee, progetti. Nei confronti di giornali e giornalisti agì più d’impeto che di testa. Basta confrontare i due congressi della Fnsi di Rimini (1974) e di Pescara (1978). Nel primo era responsabile del Psi per l’informazione Fabrizio Cicchitto che si portò con acume e prudenza rispettando la nostra autonomia: chiese di incontrarci sulla terrazza di un hotel, eravamo la maggioranza di Rinnovamento, eleggemmo Paolo Murialdi presidente e a proporlo fummo in quattro, tre socialisti (Barbato, Mazzocchi ed io) e il moroteo Nuccio Fava. Piero Agostini fu presto segretario. A Pescara invece Martelli ci convocò sbrigativamente alla Federazione del Psi (e la cosa non ci piacque per niente), molti colleghi non erano più socialisti, Walter Tobagi aveva rotto con Rinnovamento e solo per poco ricucimmo fra noi portando a casa il sistema elettorale proporzionale per il consiglio Fnsi.
Nel suo libro Martelli ricorda con amarezza i primi gravi scandali: Savona e Torino. Qui andò Rino Formica che fornì una sintesi tagliente: «Il convento è povero, sono i frati ad arricchirsi». «Craxi non gradì» e non lo confermò commissario. «L’occasione non fu colta», conclude Claudio. Rammenta pure che Berlinguer propose compromessi a tutti, alla Dc, alla Chiesa, non ai socialisti e ai radicali. Giudizio che condivido. Ma quali sponde furono offerte al segretario del Pci in quegli anni? Assai poche. Soprattutto non venne accettata la sfida sulla «questione morale» che pure si riteneva sollevata da lui anche in forma strumentale. L’ultima parte del libro è dedicata all’appannamento e alla rottura del rapporto fra Craxi e l’autore divenuto nel ’91 ministro della Giustizia con Giovanni Falcone al fianco. Sono pagine forti, drammatiche, problematiche. Anche se non esauriscono certo una riflessione autocritica e critica («Tutti sanno, nessuno ricorda. Io so poche cose, ma le ricordo benissimo») su anni e uomini ancora demonizzati o santificati. Il che, si sa, serve a poco per capire per quali ragioni attorno al socialismo italiano si è fatto il deserto.

l’Unità 29.11.13
Il caso Roma
La lobby del mattone assedia il «Marziano»
L’ostruzionismo sul bilancio con Marchini in prima fila
La paralisi della Metro C e la protesta operaia: i fronti di guerra del sindaco Marino che ha rotto l’equilibrio dei poteri forti
di Jolanda Bufalini

ROMA Il quadro è questo: in Campidoglio, fra risse, insulti e minacce, va avanti la maratona dei consiglieri per approvare (siamo quasi a Natale) il bilancio preventivo del 2013, con più di 200.000 emendamenti e ordini del giorno fotocopia, fuori dal Campidoglio circa 300 lavoratori dei cantieri della metropolitana C (Astaldi, Caltagirone), senza stipendio da agosto, sono andati ad occupare il campo base di via Gordiani e poi a manifestare davanti al gruppo Vianini. L’ostruzionismo e il contenzioso fra l’Amministrazione di Roma e il consorzio Metro C forse non sono collegati fra loro, almeno Alfio Marchini nega che la sua lista sia l’espressione dei poteri forti romani: «Spero che Caltagirone e Marino si innamorino così nessuno mi romperà più le scatole su questa storia». Però, i lavoratori citano Andreotti, «a pensar male si fa peccato ma raramente si sbaglia», si sentono ostaggio, insieme alla città, delle aziende per cui prestano la loro opera. Si sentono usati come uno strumento di ricatto. I loro salari arretrati ammontano a 187mila euro a fronte di una grande opera già finanziata per due miliardi e mezzo, affidata ai più grandi imprenditori nazionali. Il 13 novembre in un incontro in Campidoglio il consorzio prende l’impegno a pagare gli stipendi, il 23 il Messaggero pubblica la dichiarazione del Consorzio secondo cui non c’è stato nessun impegno a pagare. È la goccia che fa traboccare il vaso della protesta, «Se non c’era nessun impegno ricorda ora Mario Guerci, Fillea Cgil perché ci hanno convocato il 20 per dire che non avrebbero pagato?». L’assessorato ai trasporti ha completato l’iter per il pagamento di 166 milioni di euro, prima tranche dei 253 già concordati con l’amministrazione Alemanno. Non è un problema di liquidità, questo lo ha detto lo stesso Caltagirone a Marino, non è un problema relativo ai soldi che stanno arrivando. Allora di che natura è il problema. Di metodo, hanno sempre sostenuto il sindaco insieme all’assessore Improta: l’opera è una infrastruttura strategica, è stata finanziata con i soldi di tutti gli italiani, sarebbe irresponsabile non portarla a compimento (per quanto si debba vedere se il compimento sarà al Colosseo, a piazza Venezia, è probabile che non arriverà mai a piazzale Clodio come prevedeva il progetto originario). Però Marino rivendica il suo diritto dovere di controllare la congruità fra spesa e lavori svolti. E il «marziano» Marino: «se chiamo un idraulico per rifare il bagno chiedo un preventivo e poi verifico i lavori». È uno che mette il naso in equilibri consolidati da decenni.
Problema di metodo (democratico) anche nell’Aula Giulio Cesare, dove la componente più oltranzista dell’opposizione, con 100mila emendamenti presentati, è proprio quella della lista Marchini, quella che si è presentata alle elezioni con un simbolo a forma di cuore sulla pianta di Roma. Ostruzionismo sul bilancio preventivo del 2013, speso al 90 per cento da Alemanno. Marchini ha trovato sponda, in consiglio, in Sveva Belviso, non in Alemanno che, evidentemente, è consapevole che si sta votando il «suo» bilancio preventivo. Fa sponda anche Dario Rossin, il fratello d’Italia della gomitata al sindaco che ieri sbraitava e minacciava: «Se cancellano gli emendamenti altro che gomitate!».
E, invece, odg ed emendamenti fotocopia vengono cancellati, solo ieri ne sono stati dichiarati inammissibili 6100. L’opposizione promette ricorsi al Tar e ostruzionismo a oltranza. La maggioranza, però, è sicura del fatto suo, il segretario del Pd romano fa l’esempio di Camera e Senato, dove non è ammesso lo strumento ostruzionistico e il copia e incolla. La novità vera della sessione di bilancio è la compattezza della maggioranza e del Pd, che, su questa base, ha tentato, ieri, di lanciare anche messaggi all’opposizione: discutiamo del futuro, dice il capogruppo Pd Francesco D’Ausilio, e il bilancio 2014 è il futuro. Ma chiudiamo con il 2013, con i soldi già spesi di cui Marino non ha altra responsabilità se non quella della ratifica formale. Quindi c’è un «no» netto alla valanga di emendamenti e un «no» netto all’attacco politico che si maschera con la presunta neutralità di un commissariamento. Lo hanno spiegato Nicola Zingaretti e il ministro Del Rio, forze produttive della città. Lo ha ribadito Goffredo Bettini che sottolinea a l’Unità: «Giusta la lotta politica anche dura ma è inaccettabile che si impedisca a un sindaco appena eletto con il 64% dei voti di mettere in atto il suo programma». Un commissario paralizzerebbe Roma per mesi, un commissario può far quadrare i conti non offrire una prospettiva strategica alla città. Francesco D’Ausilio spiega così: «Si tratta di fare scelte coraggiose per strutturare la macchina del Comune sul versante delle entrate e su quello delle uscite ma, a differenza di Marchini, reputiamo che queste siano scelte politiche e non tecniche, non possono essere delegate a un commissario». Discutere sì, dicono nel Pd, ma no alla prova di forza verso il sindaco che dà fastidio per aver rotto un sistema consolidato di consociativismo.
Alfio Marchini contrattacca sul sostegno di Bettini a Marino: «Bettini sembra confondere una legittima critica politica con fantomatiche campagne denigratorie contro il Sindaco. Bettini, non avendo alcun titolo, eviti di dare patenti di moderatismo e provi a fare una sana autocritica se ancora ha mantenuto quella lucidità e l' acume politico che gli ha consentito di essere una delle figure di spicco della sinistra romana». E, in consiglio comunale, attaccando il sindaco sulla sua decisione di non aumentare le tasse: «Non è un mago quindi nel 2014 dovrà aumentare le entrate». Dagli uffici del sindaco fanno notare che, per ora, la scelta di non mettere una addizionale comunale all’Imu, ha risparmiato a Roma il delirio che si è abbattuto su altre città, dove i comuni dovranno imporre il pagamento per quota di una tassa abolita dal governo.
Da questa sera, nell’Aula Giulio Cesare, si vota. Sapremo se la notte ha portato consiglio. Di buono c’è che, finora, il bilancio non è stata occasione di mercato delle vacche.

l’Unità 29.11.13
Goffredo Bettini
«Difendo Ignazio, vogliono colpire il suo progetto»
«Dov’è l’emergenza Marino? Sta approvando un bilancio speso per il 90% da altri
Sta cambiando la realtà e questo dà fastidio»
di J. B.

ROMA C’e il disgelo nei rapporti fra Goffredo Bettini e il sindaco di Roma, raffreddatisi al tempo della formazione della giunta? «Non seguo da anni la gestione amministrativa della città. Anche con Veltroni, con cui ho un rapporto personale fortissimo, non sono mai intervenuto sugli assetti di giunta o delle aziende. Ho molto sostenuto Marino, contribuito alla sua vittoria. Ma ci siamo sempre intesi su un punto: il mio compito finiva il giorno della sua elezione. Ed è stato così. Sono sempre pronto a dare una mano, se è utile. Infatti con il sindaco abbiamo avuto qualche giorno fa una conversazione lunga e molto affettuosa. Nessuna incomunicabilità. Semmai un grande rispetto reciproco».
Le opposizioni puntano al commissariamento sul bilancio 2013
.«Non voglio inasprire la polemica, ma mi domando a quale punto voglia arrivare il nostro Paese. 5 mesi fa Alemanno ha perso nettamente le elezioni. Marchini ha ottenuto quasi il 10%. Marino il 64%. Bene. Si può criticare duramente il sindaco. È legittimo. Ma volerlo disarcionare all’inizio del suo impegno, invalidare un voto democratico, avanzare l’idea che invece di un legittimo rappresentante del popolo possa essere meglio un commissario, mi sembrano affermazioni di una insensibilità istituzionale e democratica tanto grande quanto assurda, soprattutto in bocca a chi ha detto di avere a cuore Roma e di essere un moderato. Dov’è l’emergenza Marino? Ha rubato? Ha assunto parenti? Sta approvando un bilancio già speso da altri al 90%. Obbligato. La verità è che si vuole colpire la sua politica. Lo si faccia con gli strumenti di una battaglia leale. Ho combattuta la destra romana ma non l’ho mai sottovalutata, in essa ci sono dirigenti intelligenti e leali. Confido in un cambio di atteggiamento». Marino è orgogliosamente «un marziano». Quanto pesa nelle sue difficoltà l’estraneità agli equilibri dei poteri romani?
«La forza di Marino è la sua anomalia rispetto alla politica tradizionale. Naturalmente il “marziano” ha un valore dirompente quando mette i piedi sulla terra e comincia a cambiare la realtà. Marino sta cominciando a fare questo e le scosse di assestamento si fanno sentire».
C’è chi legge nell’ostruzionismo di Marchini il sodalizio con Caltagirone.
«Vorrei non personalizzare, penso che le cose che fa e dice Marchini debbano essere attribuite a Marchini. È una persona intelligente che ha dato in campagna elettorale un contributo importante di idee, ha l’ambizione di continuare anche a livello nazionale le sue battaglie. In questa vicenda sbaglia. Ha avuto una posizione grave. Ma io critico lui. Con Caltagirone ci saranno altre sedi di un confronto, sui problemi che lo chiamano in causa, come grande imprenditore romano e nazionale. Mi pare che Marino a questo compito non si sia sottratto».
Come si esce da questo cul de sac?
«Confido nel nuovo autorevole segretario del Pd di Roma, Lionello Cosentino. E nell’aiuto di Zingaretti che ha già fatto tanto per Roma. Soprattutto occorre stabilire un clima di confronto, vigoroso e schietto, non strumentale, denigratorio. Verso tutti. Ma in primo luogo verso chi ha ottenuto il consenso dei romani. Marino sta subendo una campagna molto forte, anche personale, di delegittimazione. La sta affrontando con forza e dignità. Ed è molto consapevole degli adeguamenti necessari nel campo del centro sinistra, nel governo della città e nella sua stessa azione. Non è facile migliorare la situazione di Roma che viene da anni difficilissimi; subisce tagli di risorse nazionali insopportabili e deve affrontare la recessione economica che investe tutta l’Italia».

l’Unità 29.11.13
Estrema destra
Oggi i nazisti di Alba Dorata a Casa Pound
«È impensabile che l'Italia ospiti un movimento di estrema destra come Alba Dorata». Lo ha dichiarato il deputato Emanuele Fiano, capogruppo Pd in commissione Affari costituzionali, a proposito dell’incontro previsto per oggi tra Casa Pound ed esponenti del partito di Alba Dorata, presso la sede romana del movimento dell’estrema destra italiana. «Solo per ricordare le ultime notizie su quel partito, il 28 settembre scorso il leader-fondatore e segretario nazionale del partito Nikólaos Michaloliákos, il portavoce nazionale Ilias Kasidiaris, il vicepresidente nazionale Christos Pappas i deputati Ilias Panagiotaros Yannis Lagos e Nikos Michos, oltre a dodici dirigenti minori del partito e numerosi attivisti, per un totale di trentasei, sono stati arrestati con l’accusa di aver costituito una associazione criminale mandante dell'omicidio del rapper antifascista Pavlos Fyssas ucciso da un attivista di Alba Dorata di Nikeia, Georgios Roupakias. La loro attività razzista, xenofoba e violenta è nota a tutti e molto pericolosa». Il deputato Fiano chiede dunque al Prefetto Giuseppe Pecoraro e alle autorità locali romane di vigilare.

il Fatto 29.11.13
Furio Colombo
Nega la Shoah e “il fatto non sussiste”

CARO FURIO COLOMBO, non so se hai visto la notizia di alcuni giorni fa. Un professore del liceo artistico di via Ripetta, a Roma, ha affermato che la Shoah è una invenzione, che gli ebrei sono infidi, inferiori ed estranei alla “razza italiana”. È stato denunciato da una studentessa ebrea. È stato assolto, nonostante le testimonianze di altri professori, “perché il fatto non sussiste”. Poiché l’ex imputato ha sempre ammesso e ripetuto le cose dette, che cosa non sussiste, secondo il giudice, la Shoah?
Elena

SI TRATTA di una sentenza che fa seriamente riflettere sulla necessità di avere una legge che punisca il negazionismo. Elenco i fatti tristi e squallidi di questa vicenda. Il professore, che si chiama Roberto Valvo e che per fortuna non insegna più (è in pensione e questo gli darebbe la possibilità di fare un salto alle Fosse Ardeatine), dice le cose che ha detto rivolgendosi a una studentessa ebrea sedicenne, Sofia Aronov. Ha detto che i numeri della Shoah sono inventati, le immagini documentarie finte, ha osservato, parlando dei detenuti nei campi di sterminio, che “durante la guerra erano tutti magri”. Il professor Valvo ci ricorda i rischi che gli studenti possono correre a scuola: incontrare docenti come lui. Della studentessa Sofia Aronov sappiamo che solo lei, ebrea, ha denunciato il professore. E sappiamo che il professore, davanti a tutti, stava falsificando la storia, abusando della sua autorità di docente. È stato denunciato invocando l’applicazione della sola legge disponibile in Italia, la legge Mancino che punisce l’odio razziale e l’intento di suscitare e diffondere tale odio. So quello che so da articoli di giornale (Repubblica, 13 novembre) ma mi sembra abbastanza per capire che alcune cose gravi non possono restare non dette o sorvolate, nel corpo delle leggi di un Paese civile. Così come un insegnante non può essere un corruttore, è bene che non sia un falsario. È bene, o si può stabilire per legge? Credo che sulla questione della Shoah la discussione debba restare aperta. Perché se è giusto l’ammonimento a non punire le opinioni, resta il fatto che, per esempio, è sembrato giusto porre dei sostegni di legge alla difesa delle donne perché ci si è accorti del pericolo di abbandonare le donne vittime a una valutazione soggettiva dei difensori designati, polizia e giudici. E dunque sono stati introdotti nella legge alcuni appigli difensivi concreti, alcune ipotesi specifiche di reato. Lo stesso si è fatto proteggendo i bambini dall’ipotesi, un tempo diffusa, che le loro denunce fossero sempre invenzioni di un’età incline alla fantasia e alla bugia. Credo che sia necessario, in caso di deliberata, offensiva, pericolosa negazione della Storia, disporre di uno strumento di intervento. Col tempo e la scomparsa dei testimoni, il potere dei corruttori-falsari si allargherà.

l’Unità 29.11.13
Marco Cavallo si è fermato «Ma la battaglia continua»
La scultura simbolo, con cui è stato denunciato l’orrore dei manicomi criminali, ha finito il viaggio in Italia
Dell’Acqua: «C’è voglia di tornare indietro»
di Oreste Pivetta

Marco Cavallo ha appena concluso un altro «viaggio in Italia». Questa volta ha percorso quattromila chilometri, attraversato dieci regioni, sostato in sedici città, visitato sei opg, ospedali psichiatrici giudiziari ovvero manicomi criminali, incontrato studenti, custodi, vigilanti e vigilati, medici, infermieri, cittadini, il presidente del Senato della Repubblica, preti combattivi, sindaci, assessori. È diventato, con investitura ufficiale e fascia tricolore al collo, cittadino onorario di Barcellona Pozzo di Gotto (Sicilia) e di Limbiate (Lombardia). Quanta strada ha consumato Marco Cavallo da quel giorno del 1973 (quarant’anni: un anniversario tondo), era il 25 febbraio, quando varcò il cancello del San Giovanni di Trieste, con fatica perché troppo bassa era l’inferriata per la sua maestosa statura, e cominciò ad aggirarsi, guadagnandosi gli applausi di tanti concittadini.
Marco Cavallo è appunto un cavallo, nato di cartapesta con l’aiuto di un artista, scultore (Vittorio Basaglia, cugino di Franco Basaglia) e di un letterato, uomo di teatro (Giuliano Scabia) e di tanti degenti del manicomio triestino, che avevano voluto far vivere in lui il ricordo di un altro cavallo, questo in carne ed ossa, che per lunghi anni aveva trainato tra i reparti una carretta carica di ogni mercanzia e soprattutto di biancheria sporca. Colorato tutto d’azzurro (un po’ Chagall un po’ Franz Marc), ossuto, nervoso, irrequieto perché, come stava scritto in un manifesto appeso al muro del padiglione, «Marco Cavallo lotta per tutti gli esclusi», non avrebbe mai pensato ad una carriera tanto lunga.
Il «viaggio in Italia» di Marco Cavallo è stato per denunciare l’orrore nazionale dei manicomi criminali, nei quali sopravvive in condizioni materiali penose e soprattutto nella privazione di ogni diritto un migliaio di «esclusi» (più o meno, da qualche anno, il numero è sempre lo stesso: chi entra pareggia chi esce), «folli» senza una cura, «rei» senza un processo. Una legge del 2012 (firmatari Ignazio Marino, Daniele Bosone, Michele Saccomanno) aveva deciso che venissero chiusi il 31 marzo dell’anno scorso: Montelupo Fiorentino, Aversa, Napoli, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere, Barcellona Pozzo di Gotto. Una proroga rinviò la chiusura. Un’altra, prossima, la rinvierà ancora. E non sarà la scelta peggiore: sarà una decisione che lascerà tempo alla lotta di Marco Cavallo perché ai manicomi non si sostituiscano «manicomietti», piccole strutture, magari meno brutali ma comunque segreganti, appaltate, disperse, soluzione facile, anzi un affare di tanti soldi nel fiume d’oro della sanità privata, e perché invece si investa nei servizi di salute mentale, li si tenga aperti ventiquattro ore su ventiquattro, vi si garantisca il lavoro di persone qualificate, si metta fine a una pratica che, malgrado la legge 180, che troncava la storia manicomiale in Italia (anno 1978), è riemersa, come per le acque di un fiume carsico, nei mille rivoli delle cliniche, le tante Ville Azzurre e Ville Speranza, e nei reparti stessi degli istituti ospedalieri, una pratica insensata, legata ad una ideologia ottocentesca che fa a pugni con le acquisizioni della scienza e della cultura sociale, con il senso stesso della democrazia, con il rispetto dei diritti civili.
DA TRIESTE
Lo dice Peppe Dell’Acqua, psichiatra, salernitano, a Trieste ai tempi di Basaglia, poi direttore (dopo Franco Rotelli) del dipartimento di salute mentale triestino. Ha accompagnato con altri volonterosi Marco Cavallo nel suo viaggio, cui hanno dato manforte varie associazioni, da Stopopg al Forum di salute mentale, da Antigone agli editori di Alphabeta Verlag, alla Cgil, un sindacato che da tempo ha sentito il valore di una battaglia di civiltà, che non ha temuto di compiere «un passo difficile, persino impopolare»: non solo posti di lavoro, anche diritti. «Impopolare» se si pensa ai residui di diffidenza o ai capitali di indifferenza che pesano sul malato mentale o, peggio ancora, su chi viene relegato in ospedale psichiatrico, accusato di qualche delitto, dall’omicidio al furto delle caramelle.
«Il nostro bilancio - ci racconta Peppe Dell’Acqua - sta nelle centinaia di incontri, nel calore che abbiamo sentito attorno a noi, nell’interesse e nello stupore di tanti studenti (stupore perché non sanno e un ragazzo di San Giorgio a Cremano ha protestato: perché non ce l’avete detto prima) anche nelle università, alla curiosità manifestata da tanti cittadini. In una piazza imbandierata a Livorno, in un’aula parlamentare con il presidente Grasso a Roma, a Barcellona Pozzo di Gotto con il sindaco e con don Pippo Insana, a Montelupo Fiorentino, all’Aquila, nel terremoto, dove Marco Cavallo è stato salutato con un inchino da una gru, a Reggio Emilia, a Castiglione delle Stiviere, dove al bar si è avviata un’improvvisata assemblea che ricordava quelle di Gorizia... A Milano infine, dove un giovane assessore, Majorino, lo ha detto chiaro: vanno potenziati i Centri di salute mentale, per sviluppare inclusione sociale, lavorativa e abitativa, “ma il Governo deve mettere a disposizione risorse adeguate”. Risorse e sensibilità, altrimenti è l’abbandono che genera mostri. Di pochi giorni fa, dimenticato per lo più dalle cronache, è il suicidio di un uomo, trentacinque, malato di hiv, internato, nell’opg di Napoli: è bastato un lenzuolo, come una corda, legata alle sbarre della cella. Ad un convegno, alcuni mesi, Rita Bernardini, deputato radicale, denunciò la vicenda di un giovane da otto anni in un manicomio criminale per aver rubato venti euro alla nonna... Ha scritto il padre: «Mio figlio ha superato di quindici volte la pena massima per quel reato, ammesso che reato vi sia stato».
Ovvio. Ma non si punisce per il reato. Sarebbe necessario un processo. Invece basta una perizia di dieci minuti e lo si seppellisce il “pazzo criminale”, per la sua futura pericolosità, per la sua imprevedibilità, per la sua insuperabile cronicità. La sanzione è l’esclusione. Basta che uno psichiatra diagnostichi: incapace di intendere e di volere. Si apre così, in un attimo, la strada dell’ergastolo bianco, di un fine pena mai, di una reclusione che si protrae senza certezze, a discrezione... Con l’obbligo della cura. Quale cura? Dentro stanzoni lerci, freddi, in condizioni igieniche penose, tra muri cadenti e marci per la muffa, tra poche suppellettili consunte dall’uso e dalla sporcizia, gente solitaria, mai raggiunta da un piano terapeutico o riabilitativo. Lo si è visto persino in tv (quante responsabilità ha accumulato e sta accumulando la stampa nel tener vivo un orrore del genere?).
Ci si può sempre consolare. Non è sempre la stessa storia. Se quel ragazzo fosse capitato in Friuli, i suoi diritti sarebbero stati garantiti. «Vai in altre regioni dice Peppe Dell’Acqua e i tuoi diritti svaniscono. Intollerabile è questa geografia a macchia di leopardo. Intollerabile dal punto di vista di un’etica pubblica, che dovrebbe riguardare e proteggere tutti allo stesso modo».
Cambierà? «Il viaggio di Marco Cavallo, che incanta con il suo coraggio e la sua dignità, ha mostrato un Paese vivo e vigile. E occorre essere vivi e vigili. C’è sempre il rischio di tornare indietro». Per alcuni il sogno, ben remunerato, dei manicomi non è mai morto. In epoca di spending review, revisione della spesa, si dovrebbe sapere però che costa di più custodire e abbandonare che accompagnare e curare. Vale per gli ultimi mille degli opg, vale per tutti.

l’Unità 29.11.13
La medicina cambia, è ora di cambiare le regole
Nuovo testo del Codice deontologico
Ma i medici sono ancora troppo vincolati dalla legge
di Maurizio Mori
Professore di bioetica Università di Torino Presidente Consulta di Bioetica Onlus

LA FEDERAZIONE NAZIONALE DEGLI ORDINI DEI MEDICI (FNOMCEO) E I SINGOLI ORDINI STANNO RIFLETTENDO SULLA BOZZA DI UNA NUOVA EDIZIONE DEL CODICE DI DEONTOLOGIA MEDICA che dovrebbe esser varata nella primavera del 2014. Come ha notato il presidente della Fnomceo e senatore Pd Amedeo Bianco, un aspetto nuovo di questa riflessione sul Codice è che sta coinvolgendo ampi strati della società civile e non riguarda solo gli addetti ai lavori. Intendo proporre alcune considerazioni sulla bozza in vista di un dibattito più allargato che spero si sviluppi anche su questo giornale.
Questa nuova discussione sul Codice è un segnale della straordinaria importanza che la medicina ha assunto e sta assumendo nella nostra esistenza, in quanto viene a incidere sugli stili di vita, sulla nascita e sulla morte. In questa situazione il Codice di deontologia medica assume un grande rilievo sociale sia perché è il regolamento interno che scandisce il comportamento dei medici, sia perché è il «biglietto da visita» con cui i medici si autopresentano alla società e dichiarano che servizio intendono svolgere.
Gran parte delle osservazioni fatte sinora sulla bozza ha riguardato singoli temi, come la sostituzione di «paziente» con «persona assistita», o la presunta abolizione dell’obiezione di coscienza e via dicendo. Invece di considerare questioni specifiche, credo sia opportuno richiamare l’attenzione sul suo stesso impianto. Invece che innovare il Codice 2006, la bozza si limita a ricalcarlo e lo appesantisce. Il testo ha uno stile faticoso, pieno di incisi e piuttosto prolisso che fa crescere del 35% la già ampia formulazione del 2006. Anche togliendo i 4 nuovi lunghi articoli, l’aumento netto è del 22.9%. A un esperto di linguistica è stato affidato il compito di «asciugare» il testo, ma quella competenza è poco pertinente, perché il problema non è di carattere grammaticale o sintattico, ma riguarda la stessa struttura concettuale dell’articolato. A titolo di esempio consideri l’art. 56, Pubblicità dell’informazione sanitaria: «Il medico che partecipa, collabora, offre patrocinio o testimonianza all’informazione sanitaria, evita qualsiasi forma anche indiretta di pubblicità promozionale a vantaggio personale o di altri». Come si fa a partecipare a programmi di pubblicità e al contempo evitare un qualsivoglia vantaggio? Altre volte, la bozza mescola assieme valori e norme, e tra queste non distingue con chiarezza tra le norme che prescrivono doveri (al medico) e le norme che conferiscono poteri (all’Ordine). Così nello stesso art. 56 già citato, prima si prescrivono problematici doveri al medico e poi si assegna all’Ordine (provinciale) «il compito di verificare la corrispondenza dell’informazione sanitaria e della pubblicità ai suddetti principi», senza peraltro specificare come tale compito debba esser svolto.
La prolissità del testo è imbarazzante anche sul piano sostanziale. L’esigenza di aggiornare il Codice nasce dai rapidi mutamenti intervenuti in medicina e nella società che sono anche alla base di temi nuovi oggetto di 4 nuovi articoli: sulla medicina potenziativa, sulla medicina militare, sulla informatizzazione, e sulla innovazione e organizzazione sanitaria. Ma basta una rapida lettura di quegli articoli (dal 76 al 79) per rendersi conto di quanto ancora acerba sia la riflessione in materia e di come l’assenza di formule concise e lapidarie mascheri scarsa chiarezza di idee. L’articolo sulle tecnologie informatiche è carente e quello sulla medicina militare va riformulato.
È vero che la società oggi richiede ai medici un atteggiamento nuovo, ed è altresì vero che la bozza fa qualche piccolo passo in avanti. È apprezzabile che l’art. 4 precisi che l’esercizio professionale si fonda sulla libertà e sull’autonomia. Ma nel complesso la bozza è troppo timida perché sembra più preoccupata di sottolineare che il medico deve conformarsi alla legge vigente che ad avanzare una propria «vision» del compito del medico. È ovvio che il medico rispetta l’ordinamento, ma il Codice deontologico dovrebbe essere propositivo di atteggiamenti ideali nuovi a servizio delle persone assistite. Invece, la bozza pare stare «sulla difensiva», quasi in attesa che altri decidano. Il problema di questa linea è che essa preclude l’elaborazione di un Codice che consenta ai medici di porsi alla guida del cambiamento sociale in atto, col risultato che probabilmente lo subiranno.

il Fatto 29.11.13
La Carta tradita punto per punto
di Marco Vitale

In un incontro con dei liceali mi è stata posta una stimolante domanda: è possibile un parallelismo tra Costituzione italiana e tedesca e dare una risposta a Galli della Loggia che, in un recente articolo, si chiedeva: se la Costituzione è così bella perché le cose vanno così male?
Entrambe nascono dalle macerie della guerra e dai disastri dei totalitarismi ed esprimono la grande ansia di dignità e di libertà delle persone. Voglio soffermarmi su tre articoli della Costituzione tedesca che non possono essere cambiati da nessuna maggioranza, ma solo da una rottura politica talmente grande da cancellare la Costituzione stessa: l’articolo 1 recita: “La dignità della persona è inviolabile. Rispettarla e proteggerla è dovere di ogni potere statuale”. Anche la nostra contiene questo principio (soprattutto articoli 2 e 3) ma non è espresso con altrettanta efficacia; il secondo è l’art. 14 dove secondo cui: “1) La proprietà e il diritto di successione sono garantiti. Il loro contenuto e i loro limiti sono fissati dalla legge. 2) La proprietà crea degli obblighi. Il suo uso deve essere utile anche al-l’insieme della collettività”.
Questo articolo trova rispondenza nei nostri 41 e 42. La proprietà e l’iniziativa imprenditoriale sono libere e tutelate, ma non possono essere esercitati a danno della collettività. Questo limite disturba i talebani del liberalismo che continuano a confondere socialità con socialismo. Questa concezione della proprietà, presidio della libertà e dell’iniziativa individuale, inserita in una precisa filosofia pubblica della responsabilità, è in realtà un’idea la cui essenza va alle radici del pensiero democratico occidentale. Già Aristotele insegnava: “Ordunque è meglio, come ben si vede, che la proprietà sia privata ma si faccia comune nell’uso: abituare i cittadini a tal modo di pensare è compito particolare del legislatore”. Il terzo è l’art. 20: “La Repubblica federale tedesca è uno Stato democratico e sociale”. l’art. 20 contiene i cinque pilastri dell’ordinamento costituzionale della Germania, una Repubblica, una democrazia, uno Stato di diritto, uno Stato federale, uno Stato sociale. Caratteristiche immutabili da qualunque maggioranza.
Da noi è invece in corso il tentativo di scardinare l’art. 138, presidio costituzionale assai importante e si tratta di un vero e proprio attacco alla Costituzione. La realizzazione concreta dei principi costituzionali è stata un processo lungo e tormentato con molti ritardi e alcune regressioni, soprattutto per effetto degli strascichi dei totalitarismi e della connessa costituzione economica di impronta collettivista, penetrati profondamente nel tessuto culturale e sociale. Questo processo è stato più lungo e difficile da noi, perché in Germania l’illusione di matrice comunista è stata accantonata sin dagli anni 50, mentre da noi è proseguita sino al crollo del Muro di Berlino; perché nel mondo cattolico, dopo i grandi cattolico-liberali alla De Gasperi ha finito per prevalere la componente caratterizzata da una cultura statalista; perché i sindacati hanno sempre considerato l’impresa come puro luogo di scontro tra capitale e lavoro mentre in Germania, sin dagli Anni 60, i sindacati hanno accettato la sfida della responsabilizzazione attraverso la partecipazione ai consigli di sorveglianza delle imprese di maggiore dimensione.
A questo negli ultimi trent’anni si è inserito la finanziarizzazione dell’economia. È un processo complesso, di matrice anglosassone e soprattutto americana, che ha portato a mettere al centro del sistema la visione puramente finanziaria dell’economia, il “capital gain”, il guadagno derivante dallo scambio di titoli finanziari, gestiti da istituzioni largamente manipolatrici del mercato. Questa involuzione non solo ci ha portato al disastro del crollo finanziario internazionale del 2007-2008, ma ha svuotato di fatto la nostra costituzione economica, che è di stampo liberale ma con un elevato livello di responsabilità sociale e con un ruolo di rilievo per il lavoro (art. 1 e 4). Nella pratica, il nostro sistema è stato più sensibile di quello tedesco al capitalismo finanziario selvaggio di matrice americana. Da qui un conflitto tra la Costituzione voluta dai padri fondatori e la costituzione materiale attuale. La risposta alla domanda di Galli della Loggia è, quindi, abbastanza semplice. Perché la nostra Costituzione è in gran parte non attuata, o abrogata di fatto o platealmente violata.
Farò solo qualche esempio: l’art. 1 è abrogato dalla finanziarizzazione dell’economia, che ha posto al centro il “capital gain” e la manipolazione finanziaria; la legge elettorale (legge non costituzionale ma con effetti negativi di rilievo costituzionale) da ai partiti un predominio, un livello di irresponsabilità e una capacità di appropriazione finanziaria nettamente incostituzionali (art. 49) ; gli articoli 2-3-4 (che sono il cuore della Costituzione) trovano un’applicazione molto parziale; l’art. 9 è, soprattutto per la seconda parte, sistematicamente violato; gli articoli 23-53 (principi base dell’ordinamento fiscale) sono in contrasto plateale con il sistema fiscale effettivo, che è fortemente regressivo e favorisce i più ricchi; l’art. 46 (presenza del lavoro nella gestione delle aziende) è ignorato; l’art. 31 (agevolazioni per la famiglia) è praticamente abrogato; Gli articoli 39 e 49 (regolamentazione democratica di sindacati e partiti) sono inattuati; gli articoli 97 primo comma (imparzialità della pubblica amministrazione) e 54 secondo comma (comportamenti onorevoli dei funzionari di funzioni pubbliche) sono del tutto estranei alla cultura pubblica italiana, come anche il recente caso Cancellieri dimostra. Per questo la nostra Costituzione è tradita e morente, ma forse non nel cuore dei cittadini. Per questo dico ai giovani: impegnatevi per difenderla e ripristinarla perché essa è la parte migliore del nostro passato e contiene il seme del Vostro futuro.

il Fatto 29.11.13
Università. Niente tasse, ma hanno la Ferrari

C’è la studentessa con il padre proprietario di una Ferrari e di case di lusso che dichiarava 19.000 mila euro di reddito annuo. Quella iscritta a Tor Vergata che ha dichiarato 14 mila euro l’anno, dimenticando i 600 mila euro che aveva in banca. E ancora: quella di Roma Tre, per reddito in 60sima fascia – quella per i più indigenti – ma con una villa con piscina (neanche accatastata). E che, oltre a tenersi in tasca i 1.700 euro di retta universitaria, era pure in corsa per una borsa di studio da 26 mila euro. Sono alcuni dei casi eclatanti dei “furbetti d’ateneo”, gli studenti universitari finti poveri che dichiarando redditi molto più bassi del reale usufruivano nelle università di Roma di benefit come alloggi, assegni, sconti sui trasporti e mense. A smascherarli è stata la Guardia di Finanza, che grazie a un patto con la Regione Lazio e i tre atenei romani ha scoperto che nel 2013 ben il 62 per cento degli studenti a Roma, a seguito di controlli mirati, ha dichiarato in modo irregolare il proprio reddito. I risultati dell’indagine sono stati presentati ieri mattina in Regione dal governatore Nicola Zingaretti, con il vicepresidente e assessore all’Università Massimiliano Smeriglio.

Corriere 29.11.13
Autocertificazioni false per avere le borse di studio
La Finanza: scoperte irregolarità in due casi su tre
di Francesco Di Frischia

ROMA – Dichiaravano redditi irrisori per non pagare le tasse universitarie, beneficiare di borse di studio e sconti su posti letto, mense, buoni per l’acquisto di libri e per l’abbonamento ai mezzi pubblici, e altre agevolazioni. Un danno per le casse pubbliche stimato in qualche milione di euro ma soprattutto un duro colpo per i veri studenti universitari bisognosi, che sono rimasti senza contributi per avendone pienamente diritto. È il bilancio di centinaia di false autocertificazioni tra il 2012 e quest’anno scoperte dalla Guardia di Finanza: dopo avere costruito una fitta rete di controlli con la Regione Lazio e gli atenei capitolini La Sapienza, Tor Vergata e Roma Tre, anche incrociando le banche dati, le Fiamme Gialle hanno snidato gli studenti benestanti mascherati da poveri. 
«Abbiamo sottoscritto un patto anti-furbetti — spiega il generale Ivano Maccani, comandante provinciale della Guardia di Finanza di Roma —. In questo periodo di crisi si moltiplicano i tentativi di godere illecitamente di sovvenzioni». Ora, però, i «furbetti» dovranno restituire le somme indebitamente percepite, moltiplicate per tre come prevedono le sanzioni amministrative. Non solo: sono stati o stanno per essere denunciati anche dal punto di vista penale: rischiano da 6 mesi a 3 anni di carcere. 
I dati illustrati ieri dai vertici della Regione e della Guardia di finanza — affiancati dai rettori degli atenei — lasciano pochi dubbi: nel 2012, a fronte di 848 controlli effettuati, sono emersi 521 studenti con dichiarazioni truffaldine e 327 regolari. Analoga situazione quest’anno:dopo avere eseguito 546 controlli, sono stati riscontrati 340 casi «fuorilegge» e 206 a norma. Complessivamente quindi quasi due studenti su tre (il 62,8%) ha dichiarato redditi nettamente più bassi di quelli reali. «Gli studenti evasori sono ladri di diritti — sostiene Nicola Zingaretti, governatore del Lazio, nel corso delle presentazione dell’indagine —. Chi inganna la Regione su una borsa di studio ruba un diritto a chi ne ha titolo e lo nega a chi invece ce l’ha. Non è un furto solo alla comunità». 
Legalità e trasparenza, convengono a tutti: «Non è normale un Paese con queste percentuali di illegalità, è un Paese che va curato — aggiunge Zingaretti —. Del resto, anche a parità d’investimento produrremo più giustizia perché butteremo fuori da queste forme di tutela persone che prendevano la borsa di studio ma avevano famiglie con Ferrari e villa con piscina, quando poi non abbiamo i soldi per darle a chi ne ha diritto». «Vogliamo affermare la cultura della legalità — sottolinea Massimiliano Smeriglio, vicepresidente della Regione e assessore all’Università — dimostrando che attraverso la collaborazione di diverse istituzioni dello Stato migliora la qualità della vita: così c’è più giustizia». 
Dal canto suo Luigi Frati, rettore della Sapienza, taglia corto: «Nel mio ateneo, gli evasori sono diminuiti dal 25 per cento a meno dell'1 per mille per i rigidi controlli fatti. Anche questo è uno dei nostri compiti educativi: così ho anche potuto non aumentare le tasse e diminuire le imposte del 30 per cento per chi ha iscritto anche il secondo e il terzo figlio». La Regione Lazio ha annunciato contro «gli affitti in nero» l’arrivo negli atenei dei «camper della legalità»: lì si potranno denunciare alla Finanza situazioni illegali e con l’aiuto di funzionari dell’Agenzia delle Entrate stipulare sul momento contratti regolari. 

Corriere 29.11.13
«Favori e droga agli specializzandi del cerchio magico»
Prof indagato
di Francesco Alberti

BOLOGNA — Il professor Alessandro Serretti si affaccia dal suo ufficio. Garbato, sorridente, nonostante la bufera: «Mi dispiace, non posso dire niente dell’inchiesta, sono sereno, ma chiedete pure in giro di me, fate il vostro mestiere...». La porta si richiude e il lungo corridoio della Scuola di specializzazione in psichiatria dell’Alma Mater bolognese ripiomba nel silenzio. Due segretarie passano a testa bassa. Gli specializzandi si tengono alla larga. Tre ragazze si avvicinano con fare carbonaro: «In quella denuncia non c’è nulla di inventato: ci sono state discriminazioni e favoritismi molto forti, ma, mi raccomando, noi non abbiamo detto niente». Un docente, sotto garanzia di anonimato, osa qualcosa in più: «Serretti è un tipo strano, molto intelligente, ma che ha sempre giocato una partita tutta sua. Prima venivano lui e i suoi allievi, poi il resto della scuola. Quello che ora è arrivato in Procura girava da mesi nei corridoi... ». 
Il professor Serretti, 47 anni, marchigiano, laureato alla Cattolica di Roma con esperienze al San Raffaele di Milano, autore di decine di pubblicazioni dall’impatto internazionale, da 7 anni sotto le Due Torri, è indagato dalla Procura per reati legati agli stupefacenti come anticipato dal «Corriere di Bologna». Nel gruppo esclusivo che aveva creato con alcuni allievi giravano, stando alle accuse contenute nell’esposto presentato da 25 dei 32 specializzandi della Scuola in psichiatria, droghe e alcol, oltre a rapporti sessuali non si sa quanto disinteressati: il tutto finalizzato a cementare il gruppo, i cui partecipanti godevano di notevoli privilegi in ambito universitario. Un’indagine delicata, dove il confine tra ciò che è penalmente rilevante e ciò che è eticamente riprovevole è piuttosto labile. 
Le voci sugli strani rapporti tra il professore e alcuni suoi allievi (non solo donne, anche qualche ragazzo) giravano da mesi nella Scuola in un’atmosfera carica di veleni e di rivalità accademiche. Una rete relazionale, secondo la denuncia, molto simile a una sorta di «cerchio magico», una corte degli eletti, di cui Serretti, di forte carisma e indubbia competenza, era il centro gravitazionale, il grande sacerdote capace di esercitare sugli allievi un fascino potente, totale. «O eri con lui o contro di lui», raccontano. Dentro o fuori: e la differenza non era di poco conto. Far parte del cerchio magico significava ottenere automaticamente una sorta di status superiore all’interno della Scuola: possibilità di accedere a riviste scientifiche particolarmente prestigiose, facilitazioni nell’utilizzo delle strutture della scuola, weekend liberi dai turni ospedalieri. L’attività del «club» prevedeva anche momenti di intensa ricreazione, stando all’esposto. Serate decisamente ricreative. Come quella a Barcellona, dopo un congresso, quando, nel corso di una festa, comparvero sostanze stupefacenti con l’implicito invito a farne uso e quantità alcoliche in dosi elevate. L’indagine, partita dalla segnalazione di due specializzande escluse dal giro e che ritenevano di essere state discriminate da Serretti, è prima giunta al Garante dell’Ateneo bolognese e poi al rettore Ivano Dionigi, che l’ha girata alla Procura e che ora commenta: «Se anche un decimo di quanto viene scritto, è vero, sarebbe gravissimo». L’inchiesta è ancorata all’ipotesi di reato legato alla droga: il resto (presunti favoritismi e rapporti sessuali) è da accertare. I magistrati si aspettano aiuti: «Tutti i pubblici ufficiali, medici compresi, in presenza di fatti penalmente rilevanti, hanno l’obbligo di informare la Procura». Serretti continui a trovarlo in ufficio. Imperturbabile. «Anche se — raccontano — il rapporto con gli allievi si sta facendo complicato... ». 

Corriere 29.11.13
La figlia del benzinaio con villa e piscina dichiarava 19 mila euro
di F. D. F.

ROMA — La studentessa diciannovenne dichiarava un reddito annuo di 19 mila euro e beneficiava di agevolazioni nel pagamento delle tasse nell’ateneo Roma Tre: i finanzieri, però, hanno scoperto che il reddito reale (indice Iseeu) è di quasi 28 mila euro, la ragazza abita in un villone di 4 piani sul litorale laziale, con annessa piscina scoperta, tutto abusivo. Come se non bastasse, il padre della giovane porta la neo iscritta all’università a bordo di una Ferrari 348. Ma il bello che è il genitore, di professione benzinaio, negli ultimi tre anni ha dichiarato all’Agenzia delle entrate di non avere conseguito utili. È questo uno degli episodi più eclatanti delle centinaia di false dichiarazioni scoperte dalle Fiamme gialle tra il 2012 e quest’anno. L’indagine è stata compiuta in collaborazione con la Regione Lazio e gli atenei pubblici La Sapienza, Tor Vergata e Roma Tre, per smascherare gli studenti ricchi, ma furbi. 
Per la cronaca, la studentessa è stata costretta a pagare 5 mila euro di multa all’università Roma Tre ed è stata declassata dalla settima alla sedicesima fascia di esenzione. È andata, però, peggio al padre: dovrà spiegare all’Agenzia del territorio perché il villone non risulta accatastato e all’Agenzia delle Entrate come fa a mantenere una Ferrari se non fattura utili dal suo lavoro. 
Un altro caso emblematico riguarda un’altra studentessa romana di 20 anni, iscritta a Tor Vergata: ha dichiarato di guadagnare 14 mila euro l’anno, dimenticandosi, sussurrano con ironia i finanzieri, di avere in banca ben 600 mila euro. Pure per lei multa e revoca delle agevolazioni. 
Storie di ordinaria furbizia anche per un’altra diciannovenne iscritta a Roma Tre: godeva di una borsa di studio da 26 mila euro e di agevolazioni per le tasse avendo autocertificato un reddito di 5.229 euro (indice Iseeu) nel 2012. Peccato che il reddito reale era di oltre 75 mila euro l’anno, tenuti sottobanco. Ovviamente la giovane dovrà restituire 26 mila euro di borsa di studio alla Regione Lazio ed è passata dalla prima alla sessantesima fascia di esenzione: in altre parole da non dover pagare nulla è diventata una contribuente al 100 per cento. Addio sconti e agevolazioni. 
Dalle verifiche è stata accertata, tra le altre, la posizione di un avvocato-studente con tre figli che vive a Nettuno, a 50 chilometri da Roma: godeva di sconti e bonus per mensa e tasse, oltre a beneficiare di agevolazioni per il pagamento dell’asilo nido comunale. Il reddito reale, manco a dirlo, è molto più alto di quello autocertificato e le fiamme gialle hanno pure scoperto che l’avvocato è proprietario di un immobile fantasma sempre a Nettuno. Pure per lui è piovuta una sanzione (da 2.170 euro) per il Comune sul litorale laziale, più altri 5.142 euro di multa destinati alla Regione. E non poteva non scattare la segnalazione all’Agenzia del territorio per la casa abusiva. 
Quello delle false autocertificazioni negli atenei è solo l’ultimo capitolo della lotta all’evasione fiscale aperto nella Capitale che interessa le università: nei mesi scorsi è riesploso il problema degli affitti in nero per gli studenti fuori sede. Un business che spesso garantisce a piccoli proprietari consistenti entrate esentasse. Nella Capitale, secondo le stime degli operatori di mercato, il giro d’affari clandestino muove almeno 50-60 milioni di euro al mese. Infatti gli studenti fuori-sede a Roma, fra atenei pubblici e privati, sono circa 90 mila, ma gli alloggi messi a disposizione da Laziodisu, l’ente regionale per il diritto allo studio universitario, sono appena 2.300. E tutti gli altri studenti dove vanno a dormire? 

Corriere 29.11.13
I furbetti (ricchi) dell’Università: rubano il posto a chi ha bisogno
di Orsola Riva

Altro che bamboccioni! Piccoli furbetti crescono all’università. C’è la studentessa con babbo in Ferrari, villa e piscina che dichiarava un reddito familiare annuo di poco meno di 19 mila euro e la «smemorata» di Roma Tre che si è dimenticata oltre 70 mila euro di entrate. Ma c’è anche la regina della distrazione che, iscritta a Tor Vergata, pretendeva di avere un reddito di 14 mila euro ma aveva «rimosso» di possedere un patrimonio mobiliare di 600 mila euro. Sono questi solo alcuni dei casi più vistosi delle false autocertificazioni scoperte dalla Guardia di Finanza a Roma. 
Purtroppo, non un fenomeno isolato: su 546 controlli mirati, 340 dichiarazioni si sono rivelate false. In altre parole, più di 6 studenti su 10 mentono al momento di compilare il modulo Isee che dà diritto a una serie di agevolazioni (sconti sulle tasse universitarie, borse di studio, alloggi) pensate per i più bisognosi. E mentendo, scavalcano in graduatoria chi davvero fatica ad arrivare a fine mese. 
Robin Hood all’incontrario, questi giovani senza scrupoli rubano il diritto allo studio ai poveri per garantire un ulteriore privilegio a se stessi. Non a caso l’operazione condotta dalle Fiamme Gialle d’accordo con la Regione Lazio e i tre atenei romani della Sapienza, di Tor Vergata e di Roma Tre è stata battezzata «Patto anti-furbetti». Perché l’auspicio è che smascherare il malcostume diffuso non serva solo da deterrente per i finti indigenti ma possa anche contribuire a stimolare le coscienze delle giovani generazioni alla cultura della legalità. 
Al di là delle irregolarità accertate, infatti, un altro dato risulta allarmante: dei 196 mila studenti iscritti, l’ 83,7 per cento ha presentato la dichiarazione Isee e di questi il 16% alla Sapienza e il 27% negli altri due atenei risulta nelle prime tre fasce di reddito, quelle più basse (fra gli stranieri , il 15% ha autocertificato redditi inferiori a 1.000 euro). Come ha sottolineato il comandante provinciale della Gdf, generale Ivano Maccani, «nei periodi di crisi aumentano i casi di autocertificazione falsi per richiedere benefici non dovuti». Ma se le guerre fra poveri sono tragiche, quelle vinte a tavolino dai finti poveri sono addirittura sciagurate. 

La Stampa 29.11.13
Troppi, poveri ma belli I musei non fanno rete
Per la prima volta censiti gallerie, collezioni e aree archeologiche del nostro Paese
Le strutture sono numerose ma poco collegate: i visitatori scelgono sempre le stesse
Un terzo dei biglietti è dei primi 15 musei i colossi della cultura
In pochi si parla inglese ma i turisti stranieri sono il 45% del totale
di Stefano Rizzato

A guardarli da vicino, somigliano tanto a tante nostre aziende. Quasi sempre di piccola o media grandezza, poco propensi a comunicare, spesso incapaci di fare rete e aprirsi davvero all’estero. Eppure pieni di qualità e in grado di generare eccellenze famose e apprezzate in tutto il mondo.
A guardare da vicino musei, aree archeologiche e monumenti d’Italia – statali e non – è la prima indagine completa sul settore, compilata dall’Istat in collaborazione con il Ministero dei beni culturali. Un censimento che ha contato ben 4.588 strutture: una ogni tre comuni italiani e 13 mila abitanti, una e mezza ogni cento chilometri quadrati.
La costellazione non potrebbe essere più varia e diversificata. Soprattutto per capacità di attrarre visitatori. Oltre metà del pubblico, infatti, finisce per concentrarsi in tre regioni: Toscana (22,1%), Lazio (20,1%) e Lombardia (8,8%). A staccare il 30 per cento dei biglietti totali è lo 0,3% di musei e simili, la quota che riunisce le prime 15 strutture di una classifica parecchio allungata. Sono i colossi della cultura italiana, una lista che include Colosseo e Uffizi, Palazzo Ducale e scavi di Pompei, insieme ai pochi altri centri capaci di generare ciascuno circa un milione di ingressi l’anno.
I dati si riferiscono al 2011, ma restituiscono un’immagine nota. Quella di un’Italia, che procede a due velocità. Da un lato c’è una sorta di serie A della cultura: poche decine di realtà che rappresentano la parte più nota, internazionale ed efficiente del sistema. Dall’altro, troviamo centinaia di strutture disperse sul territorio e che a volte rischiano l’oblio. Basta guardare i dati sui musei di Abruzzo e Molise, che – in media – non arrivano a 4.500 ospiti l’anno e vanno avanti al ritmo non proprio eccezionale di dieci o 15 visite al giorno.
Con pochissime eccezioni, la qualità del patrimonio messo in mostra non si discute. Invece, qualche riflessione andrebbe fatta su organizzazione e capacità di comunicare. Ben il 43 per cento dei nostri musei ammette di non collaborare con altre istituzioni culturali presenti sul territorio. Meno di un quarto offre agevolazioni legate a trasporti o altri servizi pubblici.
Eppure, nell’era dei coupon e del tutto incluso, fare sistema e riunirsi in consorzio, proporre percorsi e pacchetti complessivi, tornerebbe assai utile. Altro tasto dolente è la visibilità in Rete. Nel 2011, ad avere un proprio sito web era solo la metà dei musei italiani e solo il 42,3 per cento offriva un calendario online per iniziative ed eventi. Probabile che, a due anni dalla rilevazione Istat, la situazione sia migliorata, ma il ritardo è di quelli che colpiscono.
Come da tradizione italica, la carta invece non manca (quasi) mai: nell’81 per cento di musei e simili si trovano opuscoli e cataloghi stampati, nel 75 per cento c’è anche un pannello che spiega ogni opera d’arte esposta.
Colpisce in negativo anche la poca predisposizione alle lingue, altro settore in cui i musei italiani diventano specchio di tutto il Paese. Solo il 42,5 per cento di chi lavora tra scavi, quadri e sculture è in grado di fornire informazioni in inglese. Meno di un quarto (il 23,2%) conosce il francese e ancora peggio va con tedesco (9,7%) e lo spagnolo (7%). Un’autentica rarità è trovare qualcuno capace di comunicare in arabo – lo sanno due addetti su mille – o cinese (uno su mille), come avranno già sperimentato i tanti nuovi ricchi in arrivo da Oriente a visitare le nostre bellezze.
Per fortuna, proprio i turisti finora non si sono fatti scoraggiare e nel complesso è straniero il 45 per cento di chi visita il nostro patrimonio artistico e culturale.

Corriere 29.11.13
Quelle parole radicali del Papa che forse non cambieranno la Chiesa
di Piero Ostellino

Papa Francesco ha fatto due dichiarazioni in (apparente) contrasto con la teologia e la storia della Chiesa di Roma. La prima – «chi sono io per giudicare ?» — mette in discussione, oltre alla stessa autorità pontificia e al sacramento della confessione, il ruolo di mediazione della gerarchia ecclesiastica fra fedeli e Dio che il cattolicesimo istituzionale ha costantemente sostenuto, e ribadito, col Concilio di Trento, dopo che la Riforma protestante l’aveva rinnegato. La seconda — l’attribuzione alla coscienza individuale della funzione di tribunale morale — ripropone la definizione luterana di «sacerdozio universale dei credenti» che esclude la gerarchia ecclesiastica come depositaria e interprete esclusiva della moralità. Paolo Sarpi — un prete, un teologo, uno spirito libero e un testimone che aveva raccontato il Concilio in modo diverso da quello ufficiale — fu assassinato da un sicario, probabilmente incaricato dalla Chiesa di Roma, che se ne riteneva la sola interprete. La cosiddetta Riforma cattolica, che chiamiamo Controriforma, fu la soluzione che la gerarchia romana contrappose alla Riforma protestante di Lutero, generatrice dei prodromi della nascita dello Stato moderno. Essa ha inciso, e continua a incidere, sul pensiero, non solo religioso, ma anche civile e politico degli italiani, impedendo loro di accettare la Modernità. 
Il Concilio di Trento fa il paio col Concilio di Nicea (325 d.C.), dove furono approvati, e votati a maggioranza (!), alcuni dogmi: 1) la dottrina della consustanzialità del Padre e del Figlio; la negazione che il Figlio sia creato e che la sua esistenza sia posteriore al Padre; 2) la nascita verginale del Cristo: «Gesù nacque da Maria vergine», è la sentenza del Concilio che ci è stata tramandata; 3) la morte e la resurrezione di Cristo; la condanna, come eretica, della dottrina di Ario (arianesimo), che sosteneva che Gesù non avesse natura divina come il Padre. 
Questi i precedenti. Ma ciò che mi colpisce, oggi, è che non solo il popolo dei fedeli ma anche la parte secolarizzata e laica del Paese mostra di non essersi accorta della radicalità delle due affermazioni papali. E anche se non dovrei essere autorizzato — a giudicare dalle lettere che ricevo da credenti che, con un rigurgito controriformista, negano a chi non crede persino il diritto di scrivere di questioni della Chiesa — dico ciò che ne penso io. Da agnostico. Non sono credente, ma (solo) un «aspirante credente» che attribuisce — in sintonia con Agostino — alla Grazia divina il dono della Fede e attende, perciò, senza indulgere al facile e ottimistico fideismo, d’esserne (eventualmente) toccato, e raggiungere quella Fede che, non per sua volontaria scelta, bensì per evidente disposizione di Dio creatore, non ha. Il mio modo di guardare al rapporto fra religione e Chiesa è quello di chi non esclude l’esistenza di Dio, ma neppure ci crede, perché «sa di non sapere». È lo stesso sentimento dal quale erano animati gli illuministi del Settecento, allorché, senza negare l’esistenza di Dio, giudicavano la Chiesa del loro tempo un’istituzione storica oppressiva e responsabile dell’oscurantismo di cui soffriva l’umanità. «Abbi il coraggio di pensare con la tua testa», raccomandava Kant nel celebre articolo sull’Illuminismo. 
Non sono un teologo e neppure tanto irresponsabile da voler fare il verso — 500 anni dopo ! — a Lutero e da presumere di fondare una nuova teologia alternativa a quella della Chiesa romana. Sono solo un liberale che segue il consiglio di Kant di pensare con la propria testa; che diffida di ogni potere, compreso quello spirituale. Come liberale mi ritengo, culturalmente ed eticamente, debitore del messaggio universalista di Gesù Cristo che, come il liberalismo con l’Individuo, pone la Persona al centro della fenomenologia sociale e politica. Ma, per me, i rappresentanti della Chiesa sono anch’essi quel «legno storto» che è l’Uomo storico; «legno storto» dal quale sarebbe illusorio pensare di trarre qualcosa di dritto solo perché indossa l’abito rosso dei cardinali o bianco del Papa. 
Il Conclave che elegge il Pontefice è, ai miei occhi — absit iniuria verbis — un consesso di uomini divisi in fazioni, l’una in competizione con l’altra per la conquista dell’enorme potere, le «divisioni del Papa» di cui parlava Stalin, di interpretare e prescrivere la propria idea di dottrina alla comunità dei credenti, secondo la (contingente) convenienza, di una istituzione secolare. Insomma, se vogliamo metterla giù laicamente dura, ma anche col rispetto storicamente dovuto, il Conclave è, ai miei occhi, una sorta di «congresso di partito» (della Chiesa) sui lavori del quale i suoi protagonisti, a parziale giustificazione delle proprie scelte, dicono presieda una sovrastruttura ideale che chiamano Spirito Santo. 
A differenza di quanto mostrano di credere i fedeli, non credo, perciò, che le estemporanee sortite di Papa Francesco siano un tentativo di riforma della Chiesa. Penso piuttosto siano, oltre che il riflesso di una certa, e umanissima, inclinazione personale, la manifestazione della spartizione delle spoglie da parte della fazione vincente che ha eletto il Papa. Del resto stanno a testimoniarlo i cambiamenti che, puntualmente, sopravvengono nelle più alte sfere del governo vaticano dopo ogni elezione di Pontefice. Non c’è nulla di scandaloso, intendiamoci, ma è anche indubbio che in tale prassi ci sia una componente umana comprensibile, e persino giustificabile, e non affatto un’induzione religiosa... 
In conclusione e in definitiva. Ritengo che il mandato di Cristo a Pietro — «fonderai la mia Chiesa» — si sia trasformato, nel corso dei secoli, con la sua formalizzazione istituzionale, nel dominio di alcuni uomini su altri uomini, che non di rado si è persino rivelato feroce. Sulla base, mi si perdoni l’espressione cruda, di un «abuso di Dio», simmetrico all’«abuso della ragione» frutto della degenerazione del razionalismo che ha prodotto i totalitarismi del XX secolo. Non credo, perciò, né blasfemo né scandaloso auspicare il ripristino della distinzione fra religione e Chiesa, riflettendo su ciò che essa è diventata ad opera, e al servizio, di quel «legno storto» attento al proprio potere, che sono, piaccia o non piaccia, anche gli uomini di Chiesa. Non credo, perciò, di fare scandalo sostenendo che anche il credente, che conti responsabilmente sul proprio libero arbitrio, abbia diritto di pensare con la propria testa e di rifiutare, eventualmente, certe prescrizioni imposte dal dominio di un’Autorità alla quale, dopo le non sempre esemplari esperienze del passato, sarebbe difficile dare credito più di quanto non meriti qualsiasi altra autorità umana. 
Voglio credere che la comparsa sul soglio pontificio di questo singolare gesuita non sia un accidente, bensì un’«astuzia della storia» o, se vogliamo, una (felice) manifestazione della Provvidenza. Grazie alla quale il buon Dio non ci viene raffigurato come il giudice implacabile, troppo simile all’Uomo, il «legno storto dell’umanità», per non essere assai poco cristianamente caritatevole. Raffigurazione a lungo propinata ai credenti da una Chiesa molto terrena e molto attenta al proprio potere, per vantare un fondamento divino e che, oggi, invece si rivela — finalmente ! — per bocca di Papa Francesco, nella sua infinita misericordia. 

Corriere 29.11.13
Europa e immigrati: l’onda che sale del neopopulismo
L’incognita alle elezioni Ue del 2014
di Maria Serena Natale

«Combattere il mostro chiamato Europa». Nelle parole del leader del Partito della libertà olandese Geert Wilders l’obiettivo è chiaro: un fronte transnazionale compatto che diluisca le differenze ideologiche, storiche e culturali tra partiti in uno sforzo comune di opposizione all’ingerenza omologante dell’Unione Europea. A metà novembre Wilders ha formalmente annunciato il progetto di un blocco euroscettico in vista delle elezioni del 2014 per il rinnovo dell’Europarlamento, paradossale alleanza al di sopra dei confini e in difesa degli interessi nazionali, che ha come nucleo centrale l’asse tra l’estrema destra dei Paesi Bassi e il Front National guidato in Francia da Marine Le Pen. 
Li chiamano populisti, etichetta che fa perdere di vista la specificità del fenomeno. È l’antieuropeismo il tratto comune a partiti favoriti dall’allontanamento tra cittadinanza e politica tradizionale, decisi a imporsi in quelle stesse istituzioni che demonizzano. Ricalcato sul modello latinoamericano novecentesco, il populismo trae la sua forza dall’esaltazione demagogica del popolo contrapposto alle élite che è stata di fatto monopolizzata dalle destre ma che non è intrinsecamente conservatrice né progressista. Nei movimenti antieuropeisti che preparano l’assalto a Bruxelles, quell’impronta originaria si è mescolata con una retorica anti-immigrazione che ha accentuato l’identificazione tra populismo ed estrema destra e con un radicamento territoriale presentato come sostitutivo di politiche statali appiattite sull’amministrazione della crisi secondo il verbo comunitario dell’austerità. Minaccia ancor più grave poiché dopo il voto del 2014 le famiglie politiche europee esprimeranno i propri candidati alla presidenza della Commissione. 
Bersaglio perfetto, le invisibili e burocratizzate istituzioni dell’Unione, soprattutto nell’Ovest e nel Nord Europa, che a differenza del Centro-Est hanno un ricordo meno vivo dei benefici economici e sociali dell’integrazione. Per questo, più che la Ue, sono le minoranze i capri espiatori offerti all’esasperazione popolare in Paesi che contano molto sulla solidarietà europea, come la Polonia dove si rafforzano movimenti neonazisti spinti dal mai sopito sentimento antirusso; l’Ungheria dei proclami revanscisti, xenofobi e antisemiti di Jobbik, terza forza in Parlamento che non ha esitato a rivolgersi alla Corte dei diritti umani di Strasburgo per riportare in vita il suo braccio paramilitare bandito nel 2009, la Guardia Magiara. Come la Slovacchia, dove pochi giorni fa nella regione di Banska Bystrica ha vinto le amministrative Marian Kotleba, ex leader di un partito neonazista noto per la simpatia verso il presidente collaborazionista Jozef Tiso e per le marce anti-rom organizzate fino alla dissoluzione nel 2006. Oggi Kotleba guida il Partito del popolo-Nostra Slovacchia, è contrario agli investimenti stranieri e sostiene l’uscita dalla Nato, con un’aggressività vicina ai toni degli ultranazionalisti greci di Alba Dorata, che nel 2012 sono entrati in Parlamento ad Atene e ora vorrebbero sfondare anche il muro di Bruxelles. 
Sul lato occidentale molti partiti condividono l’approccio anti-Ue con il Pvv di Wilders — liberale e liberista, in prima fila per i diritti degli omosessuali, antimusulmano, filoisraeliano — e il Fn della Le Pen — protezionista, sostenitrice della famiglia tradizionale e decisa a sganciarsi dall’immagine xenofoba e antisemita del vecchio Front National di suo padre Jean-Marie. In Danimarca la quarta forza è il Partito del popolo: difensore «della libertà e dei valori nazionali», è considerato a tutti gli effetti parte dell’establishment. Nel Belgio a rischio frantumazione tra Fiandre e Vallonia, il fiammingo Vlaams Belang ha inserito nello statuto «un atteggiamento critico verso la Ue con la sua tendenza a interferire dove dovrebbe prevalere la sovranità popolare». 
Caso diverso l’estrema destra del Regno Unito con formazioni come l’Ukip, che contesta all’Europa l’apertura delle frontiere e l’ondata migratoria dall’Est, e la English Defense League, che ha incentrato il suo messaggio sulla necessità di contrastare la diffusione dell’Islam. Più dell’opposizione alla Ue, è il no all’immigrazione di massa il cavallo di battaglia di questi gruppi nel Paese culla dell’euroscetticismo, tratto storico e culturale trasversale cavalcato anche dai grandi partiti — il premier conservatore David Cameron ha promesso un referendum sull’uscita dalla Ue in caso di vittoria alle elezioni del 2015. La Norvegia non fa parte dell’Unione ma è un buon osservatorio sulle dinamiche di normalizzazione del populismo di destra. Dalle elezioni dello scorso settembre è nata una coalizione tra i conservatori della premier Erna-di ferro-Solberg e il Partito del Progresso di Siv Jensen, per la prima volta al governo. Negli anni la Jensen non ha risparmiato invettive contro l’islamizzazione strisciante che minaccerebbe l’integrità culturale norvegese, tema ripreso dall’attentatore di Utoya Anders Behring Breivik che in passato militò nel partito. La replica della leader ai tentativi di etichettare come populista una formazione che si definisce liberale, riassume l’ambiguità della classificazione: «Non siamo populisti, a meno che questo non significhi risolvere i problemi del popolo». Dalla Finlandia arriva l’eurodeputato che alle elezioni europee del 2009 ottenne il più alto consenso personale del Paese, Timo Soini, leader dei Veri Finlandesi, prima forza d’opposizione a Helsinki: orgoglio etnico, conservatorismo sociale, un mix di slogan bipartisan che li connota come «la più a sinistra tra le formazioni non socialiste». 
Per arginare l’onda di protesta che spinge gli antieuropeisti è nata la campagna contro l’astensionismo «Agire. Reagire. Decidere» del Parlamento Ue, impegnato con il Comitato delle Regioni per incoraggiare la mobilitazione dal basso. Uno sforzo che per risultare efficace, dice al Corriere il capo della campagna mediatica di Barack Obama del 2012 Matthew McGregor, ha bisogno di un’americanizzazione della nostra politica: «Coinvolgere le persone in un progetto per il quale possano sentirsi responsabili e lavorare, attraverso la Rete o il porta a porta. Contro il populismo vincono i contenuti». Sarà una sfida, riappassionarci all’Europa. 

Corriere 29.11.13
Il politologo francese Dominique Reyniér
«Attenzione alle ideologie subdole che si insinuano nei grandi partiti»
«Reazione al Disagio in un Mondo Capovolto»
intervista di Stefano Montefiori

Qual è il tratto che accomuna i populismi europei? 
«Direi l’idea diffusa ovunque, dalla Norvegia alla Francia, dalla Spagna dei catalani e baschi al Belgio dei fiamminghi e all’Italia della Lega, che si è più ricchi senza gli altri. Per il resto esistono molte differenze: nel rapporto con l’Islam, l’Europa, l’antisemitismo». Dominique Reynié, politologo a Sciences-Po e autore di «Populismi: la china fatale» (Plon), sottolinea che l’ondata populista non dipende solo dalla crisi economica. 
Quali sono i fattori principali? 
«Non la disoccupazione, nonostante quel che si sente dire spesso. “Riduciamo la disoccupazione e ridurremo il populismo” è un discorso sentito mille volte, ma non ci credo. La xenofobia, l’insofferenza per la globalizzazione e ormai anche per la democrazia parlamentare prosperano in Paesi molto ricchi». 
Per esempio? 
«Guardiamo alla Scandinavia: società affluente, democrazia sociale, pratica del consensus , bassa disoccupazione, stampa libera, poca corruzione, giustizia che funziona, sistema educativo eccezionale: eppure i populismi sono molto forti. In Norvegia (fuori dall’Ue) il Partito del Progresso è addirittura entrato al governo, in Danimarca il Partito del Popolo standone fuori ha comunque fatto approvare importanti leggi sul matrimonio che limitano i raggruppamenti familiari e frenano l’immigrazione, in Svezia gli ex nazisti (in senso stretto, si riunivano in uniforme da Ss) sono in Parlamento e in Finlandia ci sono i “Veri Finlandesi”». 
Quindi la crisi è culturale più che economica? 
«Non bisogna trascurare la reazione alla globalizzazione. Anche la Svizzera con l’Udc e l’Austria con l’Fpö sono Paesi molto ricchi dove però i partiti populisti ottengono ottimi risultati. Il populismo lì è una ricomposizione etnico-culturale, è l’espressione di scontento di una popolazione che sta invecchiando — la demografia è molto importante — e non riconosce più il proprio Paese. Tante persone vivono una destabilizzazione esistenziale, sono a disagio in un mondo sottosopra. E lo mostrano votando». 
In Francia si parla molto dello «sdoganamento» del Front National di Marine Le Pen. 
«I populismi dell’Ovest sono ormai relativamente più presentabili di quelli dell’Est: non saprei dire se sia vero o falso, ma Marine Le Pen tiene molto a propagandare un Fn lontano dall’antisemitismo, per esempio. In Ungheria, Romania, Polonia, Slovacchia, di recente anche Repubblica Ceca, i partiti populisti sono più brutali, apertamente antisemiti. All’Est c’è un problema di cultura politica arretrata, sono Paesi che in qualche caso hanno conosciuto prima il fascismo, poi il comunismo e di colpo la globalizzazione, e non erano preparati ad affrontarla». 
Qual è il suo pronostico per le tanto temute elezioni europee del 2014? 
«Non sono così apocalittico. Va detto che la situazione non è buona e che la classe politica europea non è all’altezza, tranne pochi come Enrico Letta, l’unico a fare un discorso europeista coerente e coraggioso. Eppure, forse la marea populista al Parlamento europeo non ci sarà, perché nei grandi Paesi non credo a un enorme risultato: in Spagna gli indipendentisti catalani e baschi sono pro-europei, in Italia Grillo mi sembra in difficoltà, in Germania gli euroscettici non sono forti, in Francia il Fn guadagnerà qualche eurodeputato, in Inghilterra lo Ukip non può andare molto oltre, e in Polonia gli euroscettici non si sono ancora organizzati bene. Ma la mia paura è un’altra». 
Quale? 
«Che se i partiti populisti non otterranno 300 seggi ma solo 100, diremo “scampato pericolo”. Invece dobbiamo stare attenti al populismo subdolo, quello che si insinua nei grandi partiti di governo di tutta Europa, a destra come a sinistra. Questa è già la più grande vittoria delle formazioni populiste europee». 

Corriere 29.11.13
La Francia laboratorio della nuova politica, ma dietro l’angolo c’è l’ombra del razzismo
di Luigi Ippolito

La Francia è ridiventata il laboratorio europeo. Ed è un laboratorio in ebollizione. Dopo tutto, è un ruolo che nella storia le si addice: dalla Rivoluzione del 1789 alla Comune di Parigi alla gauche di governo mitterrandiana, i francesi hanno sempre anticipato le svolte che si sono propagate a tutto il Continente. 
Ma adesso è proprio l’Europa che fa problema. Secondo un recente sondaggio Pew Research, solo il 41 per cento dei francesi ha una disposizione favorevole nei confronti della Ue: molto meno dei tedeschi (60%) e perfino al di sotto degli scettici britannici (43%). Ben il 77% pensa che l’integrazione europea abbia indebolito l’economia francese: più che in Spagna o in Italia. 
«Per tutta la seconda metà del XX secolo l’Europa era percepita sostanzialmente come una Francia più grande — spiega Emanuel Rivière, direttore per le Strategie dell’opinione pubblica al Tns Sofres, il maggior istituto di sondaggi d’Oltralpe — Col nuovo millennio i francesi hanno cominciato a comprendere la portata della globalizzazione: ed è subentrato un sentimento di perdita e disillusione. La Francia si è sentita sempre meno padrona del suo destino, si è avvertito il senso di una traiettoria di declino. E il modello sociale francese ne è risultato fragilizzato». 
A ciò va aggiunto il progressivo sentimento di distacco dal partner tedesco, componente essenziale del motore europeo: distacco che ha rimesso in questione la fondatezza dell’impegno comunitario. La difficoltà è che destra e sinistra sono globalmente d’accordo sui temi europei, «mentre è proprio questo soggetto — sottolinea Rivière — che risulta essere il più problematico per i francesi: si pone dunque una questione di rappresentanza politica». 
E’ qui che entra in scena il Front National di Marine Le Pen, che rimette in questione gli impegni europei e l’intero sistema partitico tradizionale. «Registriamo una progressione del Front in tutti gli indicatori di opinione — rivela Rivière — e ormai Marine Le Pen non è più percepita come un pericolo per la democrazia. Siamo di fronte a un’eccezione: un grande Paese come la Francia con un partito come il Front National al 20%». 
L’altro elemento di crisi del nuovo millennio è stata la rivolta delle banlieues del decennio scorso, che ha fatto venire allo scoperto il fallimento del modello d’integrazione d’Oltralpe. «I temi più sentiti nel dibattito pubblico sono quelli dell’immigrazione e dell’integrazione, non quelli economici — spiega Rivière — Le inquietudini per la tenuta del sistema sociale si saldano con quelle per l’immigrazione, poiché gli immigrati vengono visti come un fattore di indebolimento del sistema di protezione sociale». 
Tutti temi cavalcati dall’estrema destra di Marine Le Pen. «Si è messa in moto una dinamica importante a nostro favore — proclama trionfale Louis Alliot, compagno di vita della Le Pen nonché vicepresidente del Fronte — I sondaggi indicano che Marine è percepita come la migliore oppositrice del presidente Hollande». 
Nella sede del Front a Nanterre, periferia difficile di Parigi, si respira un profumo di vittorie imminenti. «La storia di Francia è sempre andata avanti per crisi e soprassalti — teorizza Alliot — E ora andiamo verso una ricomposizione totale del sistema politico. Se arriviamo al 30% le nostre idee diventeranno pregnanti, ci sarà una riconfigurazione in cui noi avremo il primo posto». 
Lo snodo fondamentale saranno le elezioni europee della prossima primavera. Il Front è dato in testa nelle preferenze e si è già lanciato in una campagna di alleanze internazionali. Il primo a essere arruolato è stato il Partito della Libertà dell’olandese Geert Wilders, noto per le furiose posizioni anti-Islam, assieme ai belgi fiamminghi del Vlaams Belang. Contatti sono in corso con lo Ukip degli euroscettici britannici, mentre vengono tenuti a distanza gli antisemiti ungheresi di Jobbik. «Puntiamo a un gruppo di 50 deputati europei — spiega Alliot — per dar vita a un’altra voce per un’altra Europa». 
E’ un’onda populista e anti-europea che si leva alta e che rischia di travolgere gli equilibri tradizionali. Fra i primi a suonare l’allarme è stato il nostro presidente del Consiglio Enrico Letta. Anche perché è un sentimento che si nutre di una forte retorica anti-immigrati che comincia a colorarsi di razzismo. La Francia nelle scorse settimane è stata scossa dai casi della giovane Leonarda, la studentessa Rom espulsa a forza verso il Kosovo, e dagli insulti nei confronti della ministra della Giustizia Christine Taubira, originaria della Guyana, giunti fino al lancio di banane. 
Ma gli esponenti del Front non ci stanno. «E’ tutta una manipolazione, vogliono far passare i francesi per razzisti — sbotta Alliot — Il razzismo esiste, certo, ma non è nostro appannaggio. La maggioranza degli atti razzisti sono di tipo antisemita, opera di islamici radicali». 
Una posizione che trova curiosamente d’accordo l’attuale leader della destra gollista, Jean-François Copé, presidente dell’Ump: «Non accetto l’idea che i francesi siano razzisti — scandisce nel suo ufficio all’Assemblea nazionale — Certo, ci sono atti e frasi razziste, ma il nostro Paese è costruito sui valori della lotta al razzismo». Il discorso cambia però se si parla dei Rom: «Vivono in condizioni spaventose — afferma Copé — e rappresentano uno scacco all’integrazione. Quindi devono tornare da dove sono venuti». D’altra parte questa è la politica ufficiale della Francia. Lo confermano anche i più alti dirigenti del ministero dell’Interno: «I Rom vivono in una situazione di alterità molto forte che crea di riflesso un dibattito pubblico. La nostra è una politica pragmatica: chi si integra può restare, altrimenti scatta l’allontanamento». 
Dunque le politiche anti-immigrati vengono presentate come una difesa dell’integrità della République e dei suoi valori. È’ la stessa linea seguita dal Front National: «La nostra è una difesa della laicità, non razzismo o islamofobia — ci tiene a distinguere Alliot — La verità e che manca il rispetto per la laicità: certi musulmani vogliono il cibo halal, le piscine separate, medici donne per le donne, mattatoi orientati alla Mecca. E’ un’avanzata che dobbiamo fronteggiare. Il problema è la compatibilità con la République di un Islam che non rispetta la divisione pubblico-privato». 
Un sentimento che non è più solo appannaggio della destra estrema. Lo racconta con un aneddoto Hervé Morin, ex ministro della Difesa e ora leader dei centristi dell’Udi: «Ero a casa di un giornalista di Libération, un progressista, che mi confessa: “Non è possibile, in questo quartiere non riesco più a trovare una pizza al prosciutto!”. Ecco, secondo molta gente l’Islam minaccia il modello culturale francese». 
Chi sembra non essere toccato da questi fermenti sono gli uomini del governo socialista, anche di fronte alle contestazioni di piazza che ormai si moltiplicano contro il presidente Hollande. «La legittimità del potere non è messa in questione — taglia corto il ministro del Lavoro Michel Sapin, fra quadri, stucchi e candelabri che ornano le sue stanze —. Sono proteste disperse e non coalizzate, dobbiamo tenere la rotta». E la ricetta è ancora più Europa: «Dobbiamo ritrovare il pilastro sociale dell’Unione per reagire al senso di impotenza della gente». 
Sarà, ma la sensazione è di una disconnessione crescente fra le élite tradizionali e i sentimenti collettivi. Qualche settimana fa un rapporto dei prefetti metteva in guardia da una «situazione pre-insurrezionale». La Francia è di nuovo in incubazione. Ma di qualcosa che potrebbe rivelarsi assai spiacevole. 

l’Unità 29.11.13
«Punire i clienti delle prostitute». Parigi si divide
Arriva in Parlamento la discussa proposta di legge
Multe da 1.500 euro, il doppio per i recidivi e «tirocini di sensibilizzazione»
Perplessi socialisti e destra, a favore la sinistra
Laurence Noëlle che ha collaborato alla legge spiega: «La prostituzione volontaria non esiste»
di Marco Mongiello

Ha già diviso la sinistra, spaccato il movimento femminista e scatenato un putiferio di polemiche, di appelli e di contro appelli. E non è che l’inizio. Il vero dibattito sul progetto di legge francese per multare i clienti delle prostitute inizierà oggi all’Assemblea Nazionale, dove la normativa è arrivata lo scorso 27 novembre, e continuerà fuori dal Parlamento, dove i sostenitori e gli oppositori manifesteranno per far sentire le proprie ragioni.
Il testo è stato presentato dalla deputata socialista Maud Olivier insieme al collega del partito di centrodestra Ump, Guy Geoffroy, ed è fortemente voluto dalla ministra per i Diritti delle Donne, Najat Vallaud-Belkacem. Il progetto di legge prevede multe da 1500 euro per i clienti delle prostitute, cifra che verrebbe raddoppiata in caso di recidiva. All’inizio si pensava anche a sanzioni penali come il carcere fino a sei mesi, ma la norma è stata stralciata. Ora il testo parla di «tirocini di sensibilizzazione», come quelli sulla sicurezza stradale e sull’utilizzo di droghe, da utilizzare come pena alternativa o complementare. Infine, la nuova normativa abolisce il reato di adescamento, introdotto nel 2003 da Nicolas Sarkozy. Le prostitute è il ragionamento sono le vittime e non le colpevoli. Per questo si introducono anche delle misure di accompagnamento sociale per chi vuole smettere di prostituirsi e per le straniere, quasi il 90% in Francia, ci sarebbe un «percorso di uscita» con un permesso di soggiorno di sei mesi rinnovabili. «Bisogna fare una piccola rivoluzione nel modo di pensare», ha spiegato la deputata socialista Maud Olivier. Con lei ha collaborato l’ex prostituta Laurence Noëlle, che ha raccontato le sue esperienze traumatiche nel libro Rinascere dalle proprie vergogne. La prostituzione volontaria, ha spiegato Noëlle, «non esiste. Si tratta sempre di una violenza».
LE REAZIONI
Il progetto di legge però ha lasciato perplessi diversi deputati, sia socialisti che dell’Ump, che hanno già fatto sapere che in aula si asterranno. È a favore la sinistra del Front de Gauche, mentre sono indecisi anche i Verdi. La spaccatura riflette quella della società civile. Alcune associazioni abolizioniste e femministe sono a favore, altre sono contrarie. In particolare le ong Médecins du Monde, Act Up-Paris e Planning familial hanno lanciato l’allarme sul rischio di spingere ancora più nell’ombra il fenomeno, lasciando le prostitute senza alcun controllo e senza alcuna protezione medica. Ma non è solo una questione di pragmatismo. La filosofa Elisabeth Badinter e diversi esponenti del movimento femminista hanno definito una «regressione» una legge che disciplina il libero utilizzo del proprio corpo. Contrario lo stesso sindacato dei lavoratori e delle lavoratrici del sesso, Strass, che per oggi ha invitato tutti a manifestare. Come in ogni dibattito francese che si rispetti poi non potevano mancare gli appelli, con tanto di citazioni sessanttottesche. Un gruppo di intellettuali e artisti vicini alla destra ha pubblicato il controverso Manifesto dei 343 mascalzoni («salauds») in cui i firmatari hanno dichiarato di essere clienti delle prostitute. Un richiamo al celebre Manifesto delle 343 sgualdrine («salopes») con cui nel 1971, 343 donne francesi dichiararono di aver avuto un aborto e aver così violato la legge di allora. Tra le firme del ’71 c’era quella dell’attrice Catherine Deneuve, che nei giorni scorsi ha pubblicato un altro appello contrario alla legge, ma più moderato, sottoscritto da 60 celebrità.

il Fatto e The Independent 29.11.13
La Francia è a nudo davanti alla legge sulla prostituzione
Tra puritani, femministe, ex “belle di giorno”, tutti discutono del provvedimento che vuole punire i clienti e non le lucciole
di John Lichfield

C’è stato un tempo nel quale a Rue Saint Denis, nel centro di Parigi, di notte le donne erano appoggiate al muro spalla contro spalla. Oggi a Rue Saint Denis abbondano i sex shop, i negozi di cellulari e i magazzini per la vendita all’ingrosso di prodotti alimentari. Erano per lo più francesi, di mezza età o anche più anziane, modestamente vestite o vestite a mala pena secondo uno stile che aveva tutta l’aria di una divisa.
Fino ad una decina di anni fa quando la mattina accompagnavo i miei figli a scuola passavamo dinanzi ad una signora sulla cinquantina o sessantina che in minigonna batteva il marciapiedi nei pressi dell’Arco di Trionfo. I miei figli l’avevano ribattezzata “Madame leopardata”.
Da un pezzo non c’è più. Ci ha pensato nel 2003 l’allora ministro dell’Interno Nicolas Sarkozy facendo approvare una legge severissima sull’adescamento anche “passivo”. Era considerato reato persino “sembrare” una prostituta in pubblico. Le conseguenze di quella legge furono aberranti. Le prostitute si videro costrette a vestirsi come le altre donne la qual cosa comportò che anche le signore per bene se stavano ferme per strada in certi quartieri di Parigi venivano avvicinate e fatte oggetto di proposte imbarazzanti.
UN’ALTRA CONSEGUENZA indesiderata fu quella di spingere le prostitute ai margini della società e spesso nell’illegalità inducendo la maggior parte delle prostitute francesi a cambiare mestiere. Oggi secondo le stime ci sarebbero in Francia circa 40.000 prostitute, l’80% delle quali straniere (o stranieri) spesso sotto il controllo di bande criminali dell’est europeo, della Cina o dell’Africa. In questi giorni si sta tentando di cancellare dal-l’ordinamento la legge Sarkozy. Un disegno di legge all’esame dell’Assemblea Nazionale dovrebbe depenalizzare l’adescamento e la Francia diventerebbe il secondo paese, dopo la Svezia, a punire il cliente e non la prostituta. Qualora la legge fosse approvata al cliente verrebbe comminata una multa di 1500 euro per la prima infrazione elevabili a 3000 in caso di recidiva. Inoltre dovrebbe seguire corsi di rieducazione sessuale. La legge prevede anche una serie di interventi per aiutare le prostitute a rifarsi una vita e a restare legalmente in Francia.
Il disegno di legge, per quanto controverso, dovrebbe essere approvato dall’Assemblea Nazionale la prossima settimana, ma potrebbe terminare la sua corsa al Senato con la tacita approvazione del governo. Sarebbe la pasticciata e ipocrita conclusione di una serie di tentativi di disciplinare la prostituzione che vanno avanti da 67 anni.
L’ipocrisia sociale e istituzionale non è una prerogativa solamente francese. La legge attualmente in vigore stabilisce che la prostituzione è illegale in linea di principio, ma anche che non è illegale fare la prostituta. È illegale gestire un bordello, sfruttare la prostituzione e adescare i clienti in luoghi pubblici. Non è illegale invece vendere il proprio corpo o comprare quello altrui.
Il film di Bunuel del 1967, “Bella di giorno”, nel quale l’annoiata mogliettina borghese Catherine Deneuve lavora in una casa d’appuntamenti di lusso alcune ore, è fuorviante. Il romanzo di Joseph Kessel, da cui il film era tratto, era ambientato negli anni ’20. I critici del disegno di legge in discussione – tra cui associazioni di prostitute e celebrità con, in prima fila, la stessa Catherine Deneuve – sostengono che la proposta di legge aggiunge ipocrisia a ipocrisia. Da un lato si consente l’adescamento, dall’altro chi cede alle lusinghe dell’adescatrice viene multato. Sarebbe come legalizzare il narcotraffico e continuare a punire chi fa uso di droga.
I SOSTENITORI DEL DISEGNO di legge – gruppi di femministe e organizzazioni di ex prostitute – sono del parere che la nuova legge renderebbe il quadro legislativo più coerente. Infatti nel 1960, ratificando la Convenzione delle Nazioni Unite del 1949, la Francia ha ufficialmente riconosciuto che la prostituzione è una forma di schiavitù e di violenza. La legislazione attuale criminalizza prostitute e sfruttatori. La nuova legge, molto più correttamente, considera le prostitute vittime e i clienti responsabili di crimini a sfondo sessuale. Le tradizionali argomentazioni – siano esse a favore della tolleranza, dell’abolizione o della proibizione – debbono fare i conti con una realtà nuova e inquietante: in Europa la prostituzione, legale o meno, è in mano alla criminalità internazionale. La nuova legge scoraggerebbe il traffico di donne. La Germania ha fatto la scelta opposta nel 2002 legalizzando la prostituzione. Le prostitute da 100.000 che erano sono diventate 400.000, quasi tutte straniere e la maggior parte costrette a prostituirsi.
Per una volta le organizzazioni delle prostitute e la polizia la pensano allo stesso modo: punire i clienti spingerebbe il mestiere più antico del mondo ancora più nell’illegalità e nella criminalità rendendo ancor più arduo il compito di perseguire le reti internazionali che nella sola Europa guadagnano con la prostituzione 2 miliardi di euro l’anno.
© The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Corriere 29.11.13
Lo sparatore di Parigi e il libro di Camus nella valigia

Dopo avere sparato al 23enne fotografo di «Libération», poi esploso colpi davanti alla sede della banca Société Générale e preso in ostaggio un automobilista, il 18 novembre scorso Abdelhakim Dekhar passò la notte all’hôtel Rivoli, rue des Mauvais garçons, nel quartiere del Marais, a Parigi. Qui i poliziotti hanno ritrovato una valigia con la sua carta d’identità, una sorta di testamento e un testo di rivendicazione contro i media, le banche e il sistema capitalistico. Dekhar, arrestato poi in un parcheggio in gravi condizioni dopo avere ingerito una forte dose di farmaci, parla di un «complotto ordito dal grande capitale e diffuso dai media per il ritorno del fascismo». Un ultimo dettaglio, rivelato ieri dal «Parisien», è che nella valigia è stata trovata anche una copia dell’«Uomo in rivolta», il saggio di Albert Camus pubblicato nel 1951 da Gallimard, e all’origine della rottura di Camus con Jean-Paul Sartre. In quel libro vengono affrontati i temi della rivolta (e del suicidio) a partire da individui come Sade, Lautréamont, Dostoievski o Bakunin, senza glorificare le rivoluzioni che hanno tutte «condotto a degli assassinii e a un rafforzamento dello Stato». Eppure, dice un inquirente, «non possiamo non interrogarci sull’eventuale legame tra questo scritto di Camus e gli atti rimproverati a Dekhar». Per una volta, una parte di responsabilità dei gesti di un forsennato non viene frettolosamente attribuita al solito «videogioco violento», ma al testo filosofico di un grande del Novecento. Almeno in questo caso, nessuno proporrà il ritiro dell’opera dalla circolazione. 

l’Unità 29.11.13
Shukria Barakzai
«Diritti delle donne, l’Afghanistan non torna indietro»
Secondo la vicepresidente della commissione Difesa del Parlamento gli amici dei talebani sono pochi ma hanno ruoli istituzionali importanti
di Gabriel Bertinetto

Sorridente e ottimista, Shukria Barakzai, deputata afghana. «Oggi le mie figlie vanno a scuola, e io sono qui a Roma in rappresentanza del mio Paese. Tutto questo non sarebbe potuto accadere fino a dodici anni fa quando comandavano i talebani. Le bambine non potevano studiare, le donne venivano aggredite per strada per i più futili motivi, come capitò anche a me». Shukria è in Italia con una delegazione guidata dalla viceministra degli Affari femminili Fawzia Habibi. L’incontriamo in margine a un convegno svoltosi ieri a Montecitorio.
Lei parla di progressi nella condizione femminile. Tuttavia solo pochi giorni fa il ministero della Giustizia ha proposto la lapidazione come pena per le adultere... «Ma il presidente Karzai l’ha già cassata. Una legge simile sarebbe incompatibile con la Costituzione, che all’articolo 7 obbliga il nostro Paese al rispetto dei diritti umani e delle convenzioni internazionali. Certo rimane il timore che il governo o il parlamento non interpretino correttamente il dettato della legge suprema dello Stato». Colpisce il tentativo di ripristinare pratiche vigenti nell’era talebana, quando manca solo un anno al quasi totale ritiro delle truppe americane. Qualcuno cerca accomodamenti preventivi con i padroni di un tempo, qualora questi tornassero al potere o acquisissero comunque, tramite eventuali accordi, un qualche peso istituzionale?
«Certamente è un messaggio politico di chi vuole dimostare che non ci sono stati e non ci saranno progressi da noi nel campo dei diritti umani. Sullo sfondo è il perdurare dello scontro fra talebanizzazione e democratizzazione della società e dello Stato. Una minoranza vuole impedire alla maggioranza di portare avanti il processo di crescita democratica ben oltre la fine del 2014». Esiste un partito del compromesso a tutti i costi? Gente che non appartiene all’organizzazione armata integralista, ma è disposta a cedere su questioni importanti per ingraziarsene i leader?
«Sì, non sono tanti e non sono forti, ma sono collocati in posizioni istituzionali di grande rilievo. Quanto ai talebani, la loro forza sta unicamente nella paura che riescono a incutere, ammazzando e aggredendo. Solo pochi giorni fa mia figlia è scampata per un soffio al lancio di un ordigno, mentre attraversava la strada per andare a scuola».
Lei presiede la commissione Difesa della Wolesi Jirga, il Parlamento. Come valuta il ruolo svolto dai contingenti internazionali in questi dieci anni?
«Nel 2001 non esisteva una polizia al servizio dei cittadini. Oggi abbiamo 100mila agenti, uomini e donne, impegnati a proteggere vite umane e assicurare servizi per la sicurezza generale. Abbiamo un esercito nazionale, e prima ne eravamo privi. Tutto questo non avremmo potuto costruirlo senza l’assistenza internazionale».
La Loya Jirga (assemblea consultiva) vuole che sia rapidamente approvato il trattato che dovrebbe regolare la cooperazione con gli Usa in materia di sicurezza a partire dal 2015, quando il grosso delle truppe americane sarà partito. Il presidente Karzai vuole che se ne riparli dopo le elezioni di primavera. Chi ha ragione?
«È paradossale che Karzai abbia convocato la Loya Jirga per poi sostenere il contrario di quello che gli viene suggerito. Forse è un prezzo politico che deve pagare a qualche personalità candidata a succedergli. È paradossale anche che Karzai sollevi problemi sulla presenza Usa in Afghanistan, proprio lui che per 12 anni ha lasciato loro totale mano libera. È troppo tardi per interpretare questa parte. Karzai è un amico, ma politicamente non sono d’accordo con lui».

Repubblica 29.11.13
Costretta a dimettersi Shoma Chaudhury , direttrice di Tehelka, il magazine d’inchiesta:
aveva tenuto sotto silenzio la violenza del suo editore su una giovane collega
La pasionaria indiana anti-stupri insabbia le molestie del capo
di Paolo G. Brera

LA SUA era la voce dell’India che si ribella agli stupri, ma ora quella voce tace: Shoma Chaudhury, direttore del magazine di giornalismo investigativo più famoso del subcontinente, si è dimessa ieri dopo una settimana di accuse per aver tentato di insabbiare la violenza sessuale a una sua giovane collega, finita tra le mani dell’editore ubriaco in un albergo a cinque stelle di Goa. Un pasticciaccio indiano che più indigesto è difficile, nato da un «errore di valutazione» del fondatore e padrone di
Tehelka,Tarun Tejpal, che al festival glamour annuale del magazine, tra star internazionali e prime firme del giornalismo, ha alzato troppo il gomito e poi anche le mani, infilandosi nell’ascensore insieme alla sua giovane dipendente.
Quando lei si è confidata con il suo capo, la famosa giornalista Shoma, quella inserita da Newsweek nell’elenco delle “150 donne che fanno tremare il mondo” e chiamata al “Woman in the world summit 2013” per l’ondata di stupri che sconvolse l’India, è rimbalzata su un muro di gomma. Invece di accompagnarla alla polizia, Shoma ha proposto la sospensione di Tejpal e la creazione di una commissione d’indagine. «Ha preso tempo per insabbiare tutto », l’accusano milioni di indiani maledicendo la doppia morale per cui si denuncia solo se avviene in casa d’altri. «Sono passati solo due giorni prima che la notizia esplodesse, e sulla stampa è stata deformata», si difende Shoma, chiamata a dare spiegazioni alla Commissione nazionale femminile di cui era paladina: «Lei mi disse di aver deciso di non andare alla polizia, mi è sembrato giusto rispettarlo». Eppure, è stata proprio la vittima, delusa, ad accusarla.
Intanto l’India freme di indignazione, e la notizia campeggia su tutti i media. Quattro colleghi hanno già detto addio aTehelka, in aperta polemica. La violenza è avvenuta in due occasioni durante il viaggio a Goa, e Tejpal l’ha ridimensionata come «uno sfortunato incidente che contrasta con ciò in cui crediamo e per cui combattiamo », nato dal solito «errore di valutazione» che ha segnato la storia degli stupri. Ma per gli inquirenti quel che Tejpal ha ammesso in una lettera di scuse alla vittima è molto più grave, tanto da averchiesto e ottenuto il mandato d’arresto.
La rivista, il cui nome significa “Sensazionale” in hindi, ha fatto la storia del giornalismo duro del paese. Ha inventato le inchieste sotto copertura, provocando il reato per poi raccontarlo, e ha mietuto vittime illustri come i campioni di cricket, caduti nel tranello scommesse. Ha affondato anche il partito hindu di estrema destra “Sri Ram Sena”, che assaltava le peccatrici nei pub su commissione prezzolata. Così ieri, quando Shoma la pasionaria antistupri ha scritto il suo addio a
Tehelkaribadendo di non aver voluto insabbiare nulla, attivisti del partito nazionalista hindu Bjp si sono radunati sotto casa sua marchiandole il portone d’infamia: “Sotto accusa”.

Repubblica 29.11.13
Repubblica centrafricana, l’Europa faccia la sua parte
di Alain Le Roy

La Repubblica Centrafricana (Rca) sta vivendo oggi la peggiore crisi della sua storia. La comunità internazionale può e deve agire. È la stabilità di tutto il continente cheè nuovamente messa in gioco.
In questo Stato devastato, intere zone del territorio sono in preda alla violenza di bande armate. Saccheggi, reclutamento di bambini-soldati, villaggi bruciati, stupri, esecuzioni sommarie: le popolazioni civili ne stanno pagando il prezzo. Un abitante su dieci ha già dovuto abbandonare la propria casa. Il tasso di mortalità infantile, molto elevato, è ulteriormente peggiorato, fino a raggiungere il 25% in alcune zone. Il sistema sanitario è critico, con la comparsa di epidemie locali e solo 7 chirurghi per cinque milioni di abitanti. Al clima di paura che si è venuto a creare s’accompagna anche la minaccia imminente di una catastrofe umanitaria. In questo territorio potenzialmente ricco ma terribilmente povero, si sviluppano tensioni intercomunitarie e interreligiose. L’ostilità tra cristiani e musulmani è già all’origine di numerosi morti. La spirale di odio che oppone tra loro gli abitanti rappresenta una minaccia:bisogna evitarla ad ogni costo.
Il rischio per l’Europa è quello di vedere tutta la regione destabilizzata con quello che ciò comporta in materia di terrorismo o d’immigrazione illegale, problemi con i quali l’Italia così come la Francia dovranno fare i conti. La Repubblica Centrafricana non si chiama così per caso: si trova difatti al bivio della zona dei Grandi Laghi, dei due Sudan, del Camerun, del Ciad, e del Congo. L’insieme del continente avrebbe molto da perdere se diventasse il santuario di gruppi armati criminali o terroristici.
Non possiamo ignorare la crisi in Rca. I paesi del centro dell’Africa, l’Unione africana, sono in allerta e mobilitati. Né l’indifferenza, né il non agire rappresentano valide opzioni. Cosa dobbiamo fare?
Innanzitutto suscitare l’impegno dei centrafricani stessi. Le autorità locali, anche transitorie, devono garantire l’ordine pubblico, proteggere le popolazioni civili e lottare contro l’impunità. Devono assumere i loro impegni: condurre la transizione politica, organizzare elezioni entro e non oltre l’inizio del 2015 come previsto dagli accordi internazionali. Dal canto loro, gli attori della società civile centrafricana, in particolare i religiosi, devono continuare a mobilitarsi a favore della pace civile. Hanno bisogno di essere sostenuti, come sottolineato dal ministro francese degli Affari esteri, Laurent Fabius, e dalla Commissaria europea agli Affari umanitari, Kristalina Georgieva, in occasione della loro missione congiunta, a Bangui, il 13 ottobre scorso.
Un impegno forte della comunità internazionale è imperativo. Passa attraverso un sostegno umanitario immediato. L’Unione Europea e le Nazioni Unite vi stanno lavorando. La Francia dedica, da sola, diversi milioni di euro ad azioni umanitarie nel campo dell’alimentazione e della salute. Tali sforzi devono accompagnare l’azione delle organizzazioni non governative, in particolare centrafricane, che operano con coraggio a favore delle popolazioni più colpite.
Ma il miglioramento della situazione umanitaria è ovviamente inscindibile dal ripristino prioritario e urgente della sicurezza. Tutti gli attori, politici e umanitari, condividono questa osservazione.
L’Africa è in prima linea e ha cominciato ad intervenire. Prima, i paesi vicini e poi tutta la regione: nel luglio, l’Unione africana ha deciso di dispiegare una forza africana, la Missione internazionale di sostegno in Centrafrica (Misca), che la Francia sostiene e sosterrà. Il ministro francese della Difesa haappena annunciato che, per sostenere l’azione della Misca, la nostra presenza militare nel Paese sarà prossimamente aumentata per raggiungere fino a 1000 uomini.
La comunità internazionale deve sostenere l’azione di questa forza militare, in tutti i settori, compresa la copertura finanziaria. La risoluzione 2121 del Consiglio di sicurezza adottata all’unanimità il 10 ottobre scorso rappresenta una prima tappa. Questa dinamica deve essere estesa tramite un impegno collettivo forte, a New York, a Bruxelles e a Addis Abeba, da parte di tutti i partner che si preoccupano del futuro di questi milioni di donne, uomini e bambini. Il segretario generale delle Nazioni Unite ha appena riferito al Consiglio di sicurezza le scelte da fare. Una nuova risoluzione dell’Onu è imminente, orientata verso l’azione.
La Francia desidera che l’Unione Europea svolga pienamente il suo ruolo in questa mobilitazione internazionale e rafforzi il suo coinvolgimento in Rca. La Francia e l’Italia l’hanno incoraggiata a farlo durante il Vertice italo-francese di Roma il 20 novembre scorso. Essendo il primo finanziatore in Rca, la Ue ha già rafforzato per ben due volte nel 2013 il suo sostegno umanitario a questo paese. Ha sottolineato la sua intenzione a proseguire il suo impegno nel quadro di un approccio globale alla stabilizzazione della situazione in Rca, anche tramite un impegno finanziario alla Misca. È una sfida importante che attende l’Unione Europea nel corso delle prossime settimane e per la quale la Francia conta sulla partecipazione dell’Italia. Dobbiamo continuare ad agire insieme affinché, un anno dopo lo scoppio della ribellione, la Repubblica Centrafricana possa tornare a sperare.
L’autore è l’ambasciatore di Francia in Italia

Corriere 29.11.13
Pacifico, alta tensione
La Cina manda aerei sopra le isole contese
In campo anche i jet di Tokyo e Seul
di Massimo Gaggi

New York – «Escalation» della tensione in Estremo Oriente dopo che la Cina ha unilateralmente istituito una «Zona aerea di difesa e identificazione» su un’area di mille miglia quadrate del Mar della Cina Orientale: un pezzo di oceano delimitato da isole e scogli sotto la sovranità amministrativa del Giappone (l’arcipelago delle Senkaku) e della Corea del Sud, ma rivendicate anche dal governo di Pechino. 
Il sorvolo della zona interdetta da parte di due bombardieri B-52 americani – un’azione con la quale il governo di Washington ha voluto apertamente sfidare un atto che considera illegittimo e molto pericoloso – è stato seguito, mercoledì, da azioni analoghe di aerei da ricognizione giapponesi e coreani. Pur avendo minacciato di reagire, anche militarmente, a voli non autorizzati in questa «air zone», i cinesi fino a ieri sono rimasti a guardare: nessun tentativo di intercettazione né di chiedere spiegazioni via radio. 
Ma ieri il portavoce dell’aviazione cinese ha dichiarato che molti jet da caccia, ricognitori e aerei-radar sono stati spostati nella regione per intensificare le missioni di pattugliamento «come misura difensiva in linea con le abitudini internazionali». La versione in lingua cinese del dispaccio dell’agenzia Xinhua suona un po’ più sinistra: «Lo stato di allerta dei nostri aerei serve a rafforzare il monitoraggio sui bersagli nella zona di difesa aerea». 
Insomma, un rapido aumento della tensione col rischio di fraintendimenti e incidenti più o meno involontari, a cominciare dal rischio che caccia cinesi e giapponesi si incrocino nella sorveglianza dello stesso spazio aereo. Il tutto a poche ore dalla visita del vicepresidente americano Joe Biden che domenica arriverà in Giappone per poi proseguire per la Cina, dove incontrerà anche il presidente Xi Jinping, e la Corea del Sud. 
Una missione di una settimana in quest’area «calda» che potrebbe contribuire a riportare verso il terreno diplomatico una disputa che sta pericolosamente slittando verso un confronto basato sulla forza militare tra la seconda e la terza potenza economica del mondo. Con rischi enormi, come ha sottolineato due giorni fa Caroline Kennedy (figlia di John Fitzgerald Kennedy), nel suo primo discorso da ambasciatrice Usa in Giappone. 
Fare un passo indietro, però, a questo punto non è facile per nessuno: non per il Giappone di Shinzo Abe, un premier conservatore e nazionalista; non per la Cina dove Xi Jinping sta cavalcando l’onda del risentimento nazionalista antinipponico; e nemmeno per gli Stati Uniti che, col ridimensionamento del loro impegno in Medio Oriente, Europa e Asia Centrale, hanno spostato il baricentro dei loro interessi strategici nel Pacifico. E che si sono impegnati solennemente a difendere i loro alleati dell’Estremo Oriente, soggetti alla pressione dell’espansionismo cinese. 
Nei prossimi giorni Biden dovrà capire fin dove Pechino intende spingersi nella sua sfida e se Xi Jinping, che col suo atto unilaterale ha creato un precedente pericoloso, ha un «piano B» per evitare che, davanti a una reazione più dura di quella che aveva messo in conto, la situazione gli sfugga di mano. Secondo gli analisti, però, anche gli Usa devono chiarirsi le idee: fino a che punto sono disposti ad assecondare la nuova ondata del nazionalismo nipponico? Se, come affermano, vogliono andare fino in fondo, devono prepararsi a un «build up» militare in Estremo Oriente ben superiore rispetto al dispiegamento di forze attuale. 
Massimo Gaggi

il Fatto 29.11.13
Cina. Prove di guerra sulle isole Senkaku

Dopo i due B-52 americani, martedì scorso, anche aerei sudcoreani e giapponesi hanno sorvolato sulla “zona di difesa aerea” unilateralmente imposta da Pechino nel mar Cinese orientale. Zona questa che comprende le isole Senkaku, contese tra Cina e Giappone. Continuano così le tensioni nel mar Cinese orientale, dove la Cina ha imposto unilateralmente una zona di difesa aerea. Sabato scorso la Cina aveva pubblicato una mappa della zona, che comprende le isole contese con il Giappone nel mar Cinese orientale, e una serie di regole, secondo cui tutti gli aerei devono informare le autorità cinesi del proprio percorso e sono soggetti alle misure militari di emergenza se non rispettano gli ordini di Pechino. Le autorità di Seul e di Tokyo hanno fatto sapere però che i loro aerei hanno continuato a volare nella zona questa settimana senza informare Pechino. Immediata la reazione della Cina, che ha inviato aerei da guerra nella zona del mar Cinese orientale dove ha imposto unilateralmente una zona di difesa aerea. Il portavoce dell’aviazione cinese, Shen Jinke, spiega all’agenzia di stampa Xinhua che i jet sono stati inviati per un normale pattugliamento aereo, parlando di “una misura difensiva e in linea con le comuni pratiche internazionali”. L’aviazione cinese resterà in alta allerta e adotterà le misure per proteggere lo spazio aereo del Paese, ha affermato il portavoce.

il Fatto 29.11.13
La Turchia a un bivio tra pallottole e futuro
La Turchia in bilico tra islamizzazione e voglia d’Europa, un racconto in presa diretta della protesta di Gezi Park e della repressione. In libreria da oggi “Resistanbul”, il nuovo libro di Roberta Zunini. Ne pubblichiamo uno stralcio.
di Roberta Zunini

Quando inizia la pioggia di pallottole di gomma, il rumore non si sente. È coperto dal coro del Va, pensiero che proviene dalla zona dove sono piantate le tende degli artisti e dalle strofe di Bella ciao che un gruppo di “vandali” sta cantando rigorosamente in italiano. Dall’inizio delle proteste l’ho sentita tutti i giorni, cantata e suonata sotto gli alberi del piccolo parco di Gezi, nel cuore di Istanbul. La sensazione che provo, quando la sento, è di orgoglio e tristezza. Orgoglio perché nel passato siamo stati in grado di opporci e resistere, tristezza perché non lo sappiamo più fare. Ma non ho tempo di riflettere su questo senso di appartenenza a “Resistanbul”. La gioia e la malinconia soffocano nell’aria irrespirabile. In pochi secondi la notte è satura di gas lacrimogeno. Come me, la maggior parte della gente è rimasta sorpresa dal precipitare della situazione, pochi hanno fatto in tempo a tirare fuori le maschere dagli zaini: l’ultimatum di Recep Tayyip Erdogan, il primo ministro, sarebbe dovuto scadere verso mezzanotte o l’indomani. Nel parco, alle 19 di sabato 15 giugno c’erano ancora più donne del solito. Approfittando del pomeriggio festivo erano andate con i loro bambini a portare cibo, vestiti e medicine ai figli e alle figlie maggiori, ai fratelli e alle sorelle. [... ] Ma migliaia di imberbi poliziotti in assetto antisommossa le hanno fermate e picchiate mentre una di loro urlava: “Fermatevi. Vi ho partoriti io! ” [... ] Quella che mi si para davanti è un’affollatissima, colorata tendopoli. Mi fermo appena oltre i gradini, dove ho appuntamento con Emre e Arzu, mentre il vento di Istanbul mi agita davanti agli occhi una gigantesca vignetta appesa a un albero. Non appena cala il vento, vedo il collo e la faccia di Recep Tayyip Erdogan trasformati nel braccio di una scavatrice: le mandibole, sovrastate dai baffi, intente a triturare il tronco di un albero. Accanto un ragazzo vende magliette con il disegno di due bottiglie di birra che brindano alla sua salute: “She-refe Tayyip! ”, all’onore, salute Tayyip! Più che un’allusione, un’ironica condanna della recente legge, che vieta la vendita al dettaglio di alcol dalle 22 alle 6 del mattino e il suo consumo nei luoghi pubblici. [... ] Per i giovani estranei alle logiche della politica mainstream Gezi non deve diventare un terreno di scontro tra partiti ma il luogo dove rivendicare il diritto di essere considerati cittadini e non sudditi o, peggio, bambini inconsapevoli da ammaestrare seguendo le linee guida del Corano e del Dio denaro, impartite con fare minaccioso da un sultano postmoderno. [... ]
“Vogliamo una democrazia più diretta, che ci coinvolga, che prenda in considerazione il nostro parere. Anzi, ti vorremmo chiedere di aiutarci a capire megliocomehafattoilMovimento 5 stelle a trasformarsi da community via internet in un partito vero e proprio e ad avere tutti quei voti”. Anche Dogan Akin, direttore di T24, il quotidiano online, considerato da molti l’unica fonte di informazione indipendente esistente oggi in Turchia, mi chiede informazioni su Beppe Grillo.
“I POLITICI ci trattano come pedine senza coscienza” interviene Emre “da manovrare a piacimento per i loro fini interni e geopolitici. Tayyip vuole espandere la sua leadership in tutta l’area mediorientale sunnita e vuole passare alla storia come l’inventore dell’islam moderno. Il partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) di cui è il fondatore, si è trasformato in un circolo di ‘yes-man’. Chi prova a dissentire non viene minimamente ascoltato. Certo, gli Stati Uniti gli avranno pure dato l’imprimatur, ma noi musulmani moderati non condividiamo questa versione dell’islam. Se l’islam moderno significa imporci uno stile di vita medievale e, allo stesso tempo, un’economia basata sul massimo sfruttamento delle risorse per ottenere il massimo del profitto, come avviene nei Paesi del Golfo, non l’accettiamo. E non siamo più disposti a rimanere passivi. L’era del terrore di Stato è finita. Ci siamo svegliati”.
Il libro: RESIST ANBUL  , R. Zunini, Imprimatur pagg.160, 13,50 euro

l’Unità 29.11.13
Lo schiavo vichingo
Uno studio in Scandinavia svela le vite degli ultimi
Nella tarda età del Ferro i «servi» non se la passavano poi così male
Ma se il padrone moriva venivano uccisi E questo spiega il mistero delle tombe di Flakstad
di Franco Rollo

PRESSO I VICHINGHI LO SCHIAVO, A PARTE IL SOLITO COROLLARIO DI FATICHE SPOSSANTI, BOTTE E MALTRATTAMENTI ASSORTITI che hanno frequentemente accompagnato la sua condizione nelle società antiche non se la passava poi tanto male; di positivo c’è che poteva beneficiare di un regime alimentare paragonabile a quello degli uomini liberi, cosa non da poco per la Scandinavia della Tarda Età del Ferro, dove l’approvvigionamento alimentare rappresentava il problema principale di sopravvivenza .
C’era però un preoccupante handicap: se il padrone moriva, lo schiavo veniva decapitato e posto nella tomba come offerta per il morto. Le prove di una serie di atti collettivi di brutalità che testimoniano quanto poco, agli occhi dei predoni nordici, potesse valere la vita di un uomo, sono rimaste celate per secoli sotto il suolo di un’isoletta a nord-ovest della Norvegia.
Una recente indagine scientifica in cui si è fatto uso di sofisticati metodi di antropologia archeologica e forense le ha riportate alla luce. Tutto ha avuto inizio tra il 1980 e il 1983 con lo scavo di un’area cimiteriale sull’isola di Flakstad, nell’arcipelago delle Lofoten. Nell’area, gli archeologi localizzarono alcune sepolture che risalivano all’epoca vichinga (800-1030 dopo Cristo). Si tratta, per la precisione, di tre tombe individuali, due tombe doppie ed una tripla, per un totale di dieci individui inumati. Fin qui niente di insolito, le sepolture multiple non sono rare nei contesti archeologici e vengono interpretate dagli antropologi alla luce della volontà di evidenziare un legame di parentela o di clan tra i defunti. A Flakstad però qualcosa non tornava: mentre nelle sepolture individuali erano sempre presenti scheletri completi, in quelle doppie e triple lo scheletro completo era uno solo, gli altri mancavano del cranio. Scavando nei cimiteri vichinghi può succedere di imbattersi in situazioni simili. Quando ciò si verifica si ipotizza che si tratti di schiavi sepolti con i loro padroni. Le testimonianze più evidenti di questa pratica sono le decapitazioni, le mani e i piedi legati e le tracce di maltrattamenti che sono rimaste fissate indelebilmente sulle ossa.
Normalmente è relativamente facile identificare, rispettivamente i padroni e gli schiavi, decapitazioni e maltrattamenti a parte: basta esaminare le offerte funerarie che accompagnano i resti; poverissime o inesistenti nel caso degli schiavi, più ricche nel caso dei padroni. A Flakstad c’era però un problema: le offerte consistevano solo in alcuni coltelli, un morso equino, una perlina di ambra, ossa di animali, pezzetti di ferro, una pietra per affilare le lame spezzata e poco altro. Difficile, su una base così misera, identificare con sicurezza i diversi strati sociali. A completare l’inchiesta a trenta anni di distanza, come nella miglior tradizione dei «cold cases» ha provveduto un team di specialisti delle università di Oslo e di Stoccolma.
Occorre premettere che è possibile ricostruire la dieta alimentare di un individuo nelle diverse fasi della sua vita attraverso l’analisi degli isotopi stabili del carbonio, del fosforo e dell’azoto che si accumulano nelle ossa e nei denti seguendo il percorso della catena alimentare. Gli investigatori sono partiti dal presupposto che le tombe singole contenessero gente comune, uomini liberi, seppur poveri. Le sepolture doppie e triple avrebbero invece contenuto un padrone accompagnato da uno o da due schiavi, a seconda delle circostanze. Sempre secondo l’ipotesi di partenza si sarebbe dovuta evidenziare una gerarchia alimentare con il livello più basso negli schiavi (gli scheletri privi di cranio), seguito, a salire, da quello degli uomini liberi, (quelli sepolti in tombe singole) e quindi dai padroni. I risultati delle analisi sono stati eloquenti anche se non esattamente nel senso che i ricercatori si attendevano.
Si è visto che l’alimentazione degli uomini liberi si basava su una dieta mista di origine marina (merluzzo, verosimilmente) e terrestre (poca carne e cereali). Nettamente diversa era l’alimentazione dei più ricchi che consumavano prevalentemente carne. Quanto agli schiavi, le analisi isotopiche hanno mostrato che la loro dieta non differiva, qualitativamente, da quella degli uomini liberi. Il cimitero di Flakstad, con qualche sorpresa, ci restituisce così lo spaccato di una società povera in cui uno schiavo ed un uomo libero di bassa condizione conducono esistenze forse non tanto diverse e in cui lo status di nobile si manifesta non tanto attraverso il possesso di oggetti di valore, armi, armature, monili, vesti, ma col differenziarsi dagli altri strati della popolazione attraverso una dieta particolare: il nobile viene alimentato per essere tale fin dalla più tenera infanzia. Crescendo imparerà a riconoscere la distanza che lo separa dagli uomini comuni e dagli schiavi; imparerà, tra le altre cose, come, da grande, si dovrà comportare con questi ultimi al momento della morte di un altro nobile.

Corriere 29.11.13
Il viaggio in 3D nei Musei Vaticani, così l’arte incontra la tv
di Emilia Costantini

ROMA — «Si parla sempre male della televisione, però grazie a essa si posso a volte realizzare cose importanti: per esempio far “toccare” ai telespettatori le opere d’arte». Così il professore Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, accoglie la «contaminazione» tra i sommi capolavori del patrimonio artistico e il piccolo schermo. Proprio lui condurrà per mano il pubblico alla scoperta dei celebri musei nel documentario prodotto da Sky 3D con Sky Arte, che andrà in onda domani sui canali 150 e 110 alle 21.10. 
«Si può “toccare” l’arte in 3D — continua Paolucci — con un livello di approssimazione entusiasmante: per questo ho accolto con grande interesse questa iniziativa, proprio per avvicinare un pubblico sempre più vasto come quello televisivo alla conoscenza dei Musei Vaticani, stimolandone la curiosità nei confronti anche di altri musei». Un viaggio attraverso 500 anni di storia e di cultura, il racconto di un’avventura che ha cambiato tutti, appassionati d’arte e non, credenti o meno: la storia cioè di uno dei musei più ammirati nel mondo che in tal modo si apre a un’ampia platea grazie all’uso di una tecnologia sofisticata. 
Sottolinea l’amministratore delegato Sky Andrea Zappia: «È una megaproduzione che ci ha impegnato per quattro mesi, con una troupe di 40 professionisti, e tremila chilometri percorsi nelle Stanze pontificie, effettuando riprese suggestive di notte con l’utilizzo della tecnologia cinematografica di ultima generazione». 
Tra la Cappella Sistina e le Stanze di Raffaello, tra Caravaggio e il Torso marmoreo del Belvedere, passando per Leonardo da Vinci e Giotto fino ai più moderni Van Gogh, Chagall e Dalì: «I Musei Vaticani che ebbero inizio con il ritrovamento del Laocoonte — spiega ancora Paolucci — sono sempre citati al plurale perché i Papi li hanno voluti per contenere e preservare tutto ciò che è uscito dalla mano dell’uomo: una sorta di dichiarazione d’amore per l’umanità e al tempo stesso un’imponente raccolta di tutta l’umana artisticità. La cosa affascinante — aggiunge — è che bisogna percorrerli lentamente lasciandosi trasportare, più che dalle guide e dai libri, semplicemente dai propri passi: si avrà così l’impressione di entrare in quella cosa meravigliosa e affascinante che sono storia e destino dell’uomo». 

Corriere 29.11.13
Successo in sala
E i cinema rilanciano «Pompei»

In due giorni di programmazione (il 25 e 26 novembre) in oltre 100 sale ha ottenuto la media copia più alta d’Italia, battendo campioni d’incasso come Zalone, Thor e Fuga di cervelli . Un successo che ha spinto la casa di distribuzione (microcinema.it) e gli esercenti a riproporre nei cinema Pompei, il documentario re gistrato al British Museum di Londra su vita e morte di Ercolano e Pompei, i due centri cancellati dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. A Roma il film sarà di nuovo nei cinema da oggi a tenitura, mentre a Milano è in programmazione sabato 30 novembre e domenica 1 dicembre.

Repubblica 29.11.13
Un saggio di Maurizio Ferraris sul rapporto tra filosofia e conoscenza
Il principio di realtà
La forza dei fatti e le opinioni sbagliate
di Paolo Legrenzi

Immaginate di guardare un tavolo di fronte a voi e di chiudere gli occhi. Nessun pensa che il tavolo scompaia perché non lo vedete.
Immaginate che sul tavolo sia posato un grande vassoio. Il tavolo non scompare sotto il vassoio che lo nasconde.
Le cose sono reali, stanno nel mondo, indipendentemente da noi. Questo è il realismo ingenuo. Se ci fermassimo qui, basterebbero i fisici per descrivere il mondo, e la psicologia della percezione non esisterebbe. Immaginiamo però che un vecchio albero caschi nella foresta. Se nessuno è presente, la caduta dell’albero ha prodotto un suono oppure ha soltanto messo in moto delle onde nell’aria? Voi forse direte che ha provocato un suono, ma che nessuno l’ha sentito. E tuttavia, per parlare di un suono, ci vuole la presenza di una persona. Così come l’apparato visivo di alcuni tipi di rane non permette di vedere gli oggetti fermi, ma solo quelli in movimento, è il nostro apparato acustico che ci fa sentire il suono. Il suono quindi non dipende solo dalla caduta dell’albero. Niente apparato acustico umano, niente suono. Ecco che io, come psicologo, una volta introdotta la distinzione tra qualcosa che c’è, l’onda sonora, e ciò che noi percepiamo, il suono, ho qualcosa di cui occuparmi.
Andiamo ora indietro di 460 milioni di anni e immaginiamo un ostrascodermo, il più antico vertebrato, un pesce che viveva in fondo al mare, protetto da uno scudo osseo. Gli ostracodermi si sono estinti prima che gli esseri umani potessero vederli e descriverli. Se li conosciamo, è solo perché hanno lasciato tracce fossili. E dunque qualcosa di mai visto può essere stato reale.
Rileggiamo infine questo passo diLolita di Vladimir Nabokov: «... e dopo non molto guidavo nella pioggerellina del giorno morente, coi tergicristalli in piena azione ma incapaci di tener testa alle mie lacrime». In questa fantasia gli effetti del nostro stato d’animo, le lacrime, si confondono con quello che succede nel mondo esterno (e la confusione può essere consapevole: c'è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo, dice Fabrizio De André). Siamo passati dall’esempio del tavolo, che esiste anche senza di noi, a qualcosa che c’è grazie a noi (il suono) e, infine, ai tentativi di piegare la descrizione del mondo secondo i dettami dei nostri stati d’animo.
Questo percorso è esplorato nel saggio di Maurizio Ferraris Realismo positivo, Rosenberg&Sellier, pagg. 122, euro 10) analizzando sei parole-chiave: le prime tre sono oggetti, invito e resistenza. Quando vediamo che la luna si muove nel cielo e va incontro a nubi apparentemente più grandi di lei, noi sappiamo che la luna è stabile nella volta celeste, ma la vediamo in movimento, pur non dubitando del fatto che sono solo le nuvole a spostarsi. L’oggetto luna resiste alle certezze astronomiche. E parimenti la pioggia per solito resta pioggia, e rifiuta di mescolarsi con le nostre lacrime (capita solo nei romanzi e nelle canzoni).
Gli oggetti, oltre a resistere ai nostri tentativi di trasformarli in forza di ciò che crediamo sapere, ci fanno anche degli inviti. La seduta di una sedia non si limita a reggere il nostro peso: la sua forma ci mostra la sua funzione e ci invita a sederci. Questo è l’aspetto positivo della realtà, il suo aiuto nel realizzare i nostri scopi e le nostre azioni. Di qui il titolo del saggio: realismo positivo, l’accettazione cioè di un mondo che c’era prima di noi ed esisterà dopo di noi. Il realismo positivo è il presupposto filosofico di una visione naturalista dell’esistenza.
Il mondo esterno ci vincola anche in quel che noi possiamo immaginare. Consideriamo, per esempio, il film Mary Poppins: lei vola con l’ombrello, ma l’ombrello deve essere aperto. Cammina su una scala di fumo, ma questa deve avere i gradini. Alcune cose insomma, si possono cambiare, altre sono immodificabili: la finzione, quinta parola chiave, è anch’essa vincolata e guidata da alcune caratteristiche del mondo reale. Se fate scomparire i gradini, scompare anche la scala, ma una scala può essere fatta di fumo, e una persona può volare grazie a un ombrello aperto (succede anche a Peter Sellers nel fantastico filmOltre il giardino).
Come ha osservato Robert Musil, nel quarto paragrafo de L’Uomo senza qualità:
«È la realtà che suscita la possibilità, e nulla di errato come il negarlo… finché viene qualcuno per il quale una cosa reale non vale di più che una immaginaria ». Musil vuol dirci che la realtà vincola le possibilità (ultima parola-chiave), e predetermina tutti gli stati del mondo, reali o fantastici che siano. Ferraris pone le premesse per una filosofia che rispetta sia le scienze sia le nostre esperienze. A mio avviso, però, il saggio dice qualcosa di più, mostrandoci come il disprezzo dei fatti e la fiducia eccessiva nelle nostre opinioni (per noi spesso certezze), derivino dal concepire il mondo come modificabile e trasformabile a nostro piacimento. Questo eccesso di fiducia crea il “marketing delle scemenze”, secondo la felice espressione di Filippo Ceccarelli (Repubblica, 7-11-2013), ma purtroppo genera anche sciocchezze vere e proprie, se non violenze.
E veniamo infine ai critici di Ferraris. La discussione più articolata la dobbiamo a Franca D’Agostini (Realismo? Una questione non controversa, Bollati Boringhieri, 2013). D’Agostini sostiene che l’anti-realismo, almeno nei modi caricaturali di Ferraris, non esiste nella filosofia dei “professionisti”. Pur apprezzando il tentativo di divulgare nozioni classiche della filosofia, come realtà e verità, D’Agostini teme che questi concetti finiscano per essere banalizzati e confusi, ottenendo effetti controproducenti. A Ferraris è stato inoltre rimproverato di tracciare una contrapposizione grossolana tra fatti e interpretazioni. E, in effetti, tale dicotomia si scioglie in mille questioni di dettaglio, almeno nell’ambito delle scienze cognitive. Filosofi noti, come Carlo Sini, hanno fin da subito disprezzato ilManifesto del nuovo realismo di Ferraris (Laterza 2012), inteso come una delle nuove forme di spettacolarizzazione superficiale, forse adatta ai vari festival di filosofia oggi in voga. Non sono un addetto ai lavori, ma suppongo che tale obiezione non sia superabile, se non accordandosi su quale sia il senso di questa disciplina nel mondo contemporaneo. Noto però che, fuori d’Italia, i saggi di Ferraris, tradotti in inglese, lo fanno apprezzare come un innovatore rispetto alla filosofia del continente (europeo), che ha sempre considerato la contrapposizione tra realismo e antirealismo un falso problema.

IL LIBRO Realismo positivo di Maurizio Ferraris (Rosenberg &Sellier pagg. 112 euro 10)