sabato 30 novembre 2013

l’Unità 30.11.13
I nuovi dati dell’Istat: record tra i giovani: 41,2% senza lavoro
Disoccupati, sempre peggio
Retribuzioni in picchiata: in due anni 64 euro in meno al mese
L’allarme di Bankitalia: ritorna a crescere il divario fra Nord e Sud, aumentano i fallimenti
Gli scoraggiati, coloro che non cercano più un lavoro, sono adesso quasi due milioni
di Marco Ventimiglia


Tra i giovani il 41,2% è senza lavoro e aumenta il numero degli «scoraggiati», coloro che in piena crisi considerano impossibile trovare un’occupazione. Per Bankitalia nel Paese torna a crescere il divario tra Nord e Sud. In picchiata le retribuzioni.

MILANO Si è trattato di un venerdì pieno di numeri. Una giornata che, purtroppo, è sembrata fatta apposta per corroborare la tesi che vuole ancora ben lontana l’uscita dalla crisi. Ha iniziato nel mezzo del mattino l’Istat, diffondendo i dati aggiornati relativi all’andamento della disoccupazione, confermando la drammaticità della situazione, ed anzi aggiungendo ulteriore allarme per la situazione dei giovani. Nel pomeriggio, poi, ha proseguito Bankitalia con una serie di rilevazioni negative fra cui spicca l’ulteriore crescita del divario fra Nord e Sud del Paese. Ed in questo quadro l’ulteriore comunicazione dell’Istat, relativa al calo secco dell’inflazione, non desta certo la soddisfazione che avrebbe ottenuto in altri tempi. Il dato parla di una diminuzione congiunturale dello 0,4%, che però non annulla l’aumento su base annua, adesso pari allo 0,6% e comunque in rallentamento rispetto alla dinamica rilevata a ottobre (+0,8%). Ma il sospetto, se non la certezza, è che alla base dell’attuale tendenza deflazionistica ci sia soprattutto la continua e sostenuta diminuzione della domanda interna.
LE CIFRE DEL SUD
Cominciamo dai senza lavoro, la cui incidenza percentuale nel mese di ottobre è rimasta invariata nella rilevazione dell’Istat rispetto al mese precedente, attestandosi al 12,5%, ma in aumento di ben l’1,2% rispetto ad un anno fa. Una crescita tendenziale, anno su anno, del tasso di disoccupazione che è diffusa territorialmente, ma risulta assai più accentuata nelle regioni meridionali, nelle quali l'indicatore passa dal 15,5% del terzo trimestre 2012 all'attuale 18,5%; molto meno pronunciato il fenomeno al Nord, dove si è andati dal 6,8% di un anno prima all'attuale 7,6%. Ma a spaventare ancora di più è la situazione dei più giovani. I disoccupati tra 15 e 24 anni sono 663.000 con il relativo tasso percentuale, ovvero la quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca di lavoro, che è pari addirittura al 41,2%, in aumento dello 0,7% ad ottobre rispetto al mese precedente e, soprattutto, di 4,8 punti nel confronto tendenziale sul 2012. Ed a preoccupare fortemente è anche il numero dei cosiddetti scoraggiati, ovvero coloro che non cercano più lavoro perché ritengono impossibile trovarlo, che sono saliti a 1 milione 901 mila (su base trimestrale).
Bankitalia ha invece inserito le sue ultime rilevazioni nel rapporto dal titolo “L'economia delle regioni italiane Dinamiche recenti e aspetti strutturali”. Un documento dal quale emerge l’ulteriore ampliamento del divario fra Centro Nord e Mezzogiorno, già evidenziatosi nel 2011-12. Un dato spiegato con le caratteristiche strutturali del Mezzogiorno poiché «in quest' area la componente estera della domanda, che in questa fase congiunturale sta fornendo un contributo positivo alla crescita, ha un peso e un dinamismo minore». Pesa poi, nel Meridione, la presenza di imprese innovative e ad alta produttività inferiore al resto del Paese. Situazione difficile anche per l’accesso al credito nel Sud, «sia per la domanda di finanziamenti che per le condizioni di offerta (in particolare di quelle praticate dalle banche di minori dimensioni), su cui ha pesato la percezione di una più elevata rischiosità dei finanziamenti verso specifici settori e imprese». Una situazione che ha portato Luigi Federico Signorini, vice direttore generale della Banca d'Italia, a sottolineare come «i divari nel Pil pro capite che si osservano oggi tra il Centro Nord e il Mezzogiorno sono gli stessi di quarant'anni fa, quando si interruppe il processo di convergenza delle aree più povere verso i livelli di reddito di quelle più prospere che si era manifestato negli anni del dopoguerra».
Sempre dal rapporto di Bankitalia emerge che dal 2010 al 2012 le retribuzioni nette dei lavoratori dipendenti sono diminuite di 64 euro al mese, passando da una media di 1.328 euro a 1.264 euro. E così alla fine del biennio, se si considerano 13 mensilità, un lavoratore ha incassato in un anno 832 euro meno del 2010. Ed ancora, i fallimenti d'impresa «sono aumentati rapidamente tra il 2008 e il 2012 in tutte le aree del Paese». Via Nazionale aggiunge poi un elemento di valutazione specificando che «ovunque le imprese fallite mostravano una situazione economica e finanziaria più tesa che nel resto delle imprese già nel periodo pre-crisi».

l’Unità 30.11.13
Giovani, la nave affonda e i topi ballano
Continuiamo ad invocare più lavoro, senza un briciolo di idea nuova atta a crearlo
E intanto il Pil sale
di Nicola Cacace


MENTRE NASCITE ED OCCUPATI CONTINUANO A CALARE, IL PAESE AD INVECCHIARE ED IMPOVERIRSI, POLITICI, imprenditori e sindacalisti ballano come gli indiani che invocavano la pioggia ed i passeggeri del Titanic che festeggiavano l’arrivo. Continuano ad invocare più lavoro, senza un briciolo di idea nuova atta a crearlo. Oggi non c è lavoro per tutti perché nei Paesi industriali la produzione, il Pil, è destinato mediamente a crescere meno della produttività (spinta dall elettronica e dai nativi digitali). Allora bisogna fare alcune cose per combattere la disoccupazione, soprattutto giovanile, che altri hanno fatto ma i nostri dirigenti non chiedono: a) Formare in continuità i lavoratori per renderli adatti a trasformare le innovazioni in prodotti competitivi, b) anche a tal fine incentivare il part time volontario e gli orari ridotti, c) flessibilizzare l’età pensionabile e/o diminuirla, magari a 63 anni come ottenuto dalla Spd nel recente accordo di Grosse Coalition in Germania, d) incentivare i contratti di solidarietà che tutelano la dignità, costano la metà della Cig e non alimentano il lavoro neroconsentendo alle aziende di ridurre i licenziamenti, come fatto con il piano Herst e la Kurzarbeit in Germania, che così ha mantenuto alta l’occupazione anche dopo anni di ristagno del Pil.
Mentre i tedeschi sostituivano lo straordinario con la banca delle ore, la Francia varava la legge delle 35 ore voluta dalla socialista Martine Aubry, che Sarkozy ha dovuto ingoiare per volere di sindacati ed imprenditori, più intelligenti dei nostri, l’Olanda portava al record mondiale del 45% il lavoro part time volontario ed incentivato, noi andavamo in verso contrario. Il ministro del lavoro Sacconi varava una legge sulla defiscalizzazione degli straordinari che poneva e pone l’Italia in prima fila sul banco della stupidità anti occupazione. Siamo l’unico Paese europeo dove gli straordinari costano meno dell ora ordinaria ed i risultati si vedono; con una disoccupazione giovanile drammatica del 41,2%, aumentata nel 2013 ancora di 5 punti rispetto al 2012 ed un tasso di occupazione del 55,5%, calato ancora rispetto al 2012, i nostri lavoratori a pieno tempo lavorano il 25% più di Germania ed Austria, rispettivamente 1800 ore/anno contro 1450. Ed oggi, mentre entrambi questi Paesi hanno disoccupazione totale inferiore al 5%, noi abbiamo toccato a fine 2013 il 12,5%, nettamente peggio della media europea del 10%.
Anche confrontando l’Accord di produttività che i sindacati francesi hanno recentemente stipulato con gli industriali con l’analogo Accordo italiano di Genova si notano le distanze di cultura. Mentre niente è previsto nell’ Accordo per la formazione e per le trasformazioni organizzative, parte centrale dell’Accord sono sia il «Compte personnel de formation» (minimo 20 ore annue per sempre, dall ingresso all uscita dal mercato del lavoro), che la cogestione alla tedesca per le grandi imprese, per le imprese con più di 5mila dipendenti sono previsti delegati dei lavoratori nei consigli d’amministrazione, in pratica riconoscendo che, se si vuole il consenso dei lavoratori alle misure di riorganizzazione, è necessario che essi le conoscano e le accettino.
Siamo anni luce distanti dal bel Paese dove la maggiore industria meccanica preferisce rispondere ad un picco di domanda della Panda preferendo gli straordinari del sabato anziché chiamare a lavorare qualcuno delle migliaia di lavoratori in Cig. Il mio articolo amaro potrebbe finire qui se non mi sentissi, anch io, responsabile del disastro in cui abbiamo spinto figli e nipoti. Anche se il motto quieta non movere è quello dominante nelle teste di troppi responsabili, politici, sindacalisti ed imprenditori, le vie d’uscita ci sono, quelle seguite dai paesi nordici più Olanda, Germania, Austria e Francia, che spendono più di noi per istruzione e ricerca, hanno ore di lavoro annuo più corte, hanno modernizzato i servizi, che noi colpevolmente trascuriamo ed hanno combattuto le diseguaglianze. Più eguali e più ricchi è stato il loro motto ed il tempo di vita non è da oggi individuato dai saggi come la vera fonte di felicità. Ogni ora del nostro passato appartiene al dominio della morte. Dunque, caro Lucilio, fa tesoro di tutto il tempo che hai. Tutto o Lucilio dipende dagli altri, solo il tempo è nostro. Per me non è povero colui che si fa bastare il poco che ha e serba gelosamente tutto il tempo che possiede. Perché, ci ammoniscono i saggi, è troppo tardi per risparmiare il vino quando si è giunti alla feccia. Nel fondo del vaso resta non solo la più scarsa, ma anche la peggiore. Addio, Seneca.

Repubblica 30.11.13
Salari a picco
Un milione di under 30 senza lavoro
In Europa l’anomalia italiana il Paese che non aggancia la ripresa
Anche Spagna, Portogallo e Irlanda fanno meglio di noi
di Federico Fubini


ROMA — L’Italia sta perdendo il treno. Dopo più oltre due anni di recessione e una caduta dell’economia del nove per cento dal momento in cui Lehman Brothers fallì, qualcosa di nuovo sta accadendo alla terza economia dell’area con la moneta più forte del mondo. La zona euro, a cui questo paese appartiene orgogliosamente dal primo giorno del ‘99, dà segni di ripresa e crea posti di lavoro. L’Italia, per il momento, no.
L’infornata di annunci di fine mese sull’inflazione, la disoccupazione o le scelte delle agenzie di rating — accusate di scorrettezza solo quando dispiacciono — contiene un messaggio per chiunque presti attenzione. L’Europa, che era caduta a molte velocità diverse, si sta lentamente rimettendo in piedi in modi altrettanto difformi. Come la recessione non era stata uguale per tutti, neanche la ripresa lo è. L’Italia dal 2007 ad oggi ha vissuto un crollo del Pil secondo solo a quella della Grecia, ma per ora non mostra gli stessi segni di recupero ormai visibili ad occhio nudo in Francia, in Spagna, in Irlanda e persino in Portogallo. Non sta ripartendosolo l’Europa tedesca. E quasi solo l’Italia dà quest’impressione di paralisi.
Lo segnalava già l’andamento del Pil, che qui e in Francia ha continuato a scendere fra luglio e settembre mentre la Spagna o il Portogallo registravano segni positivi. Ora però arrivano segnali anche sugli ultimi mesi dell’anno. A novembre l’inflazione media dell’area- euro si è ripresa un po’, salendo da 0,7% di ottobre a 0,9%. Sono livelli comunque minimi, prodotti dell’erosione dei salari a causa di una disoccupazione che deprime il potere d’acquisto delle famiglie e i prezzi dei beni in offerta. Ma l’Italia fa peggio e lo fa in controtendenza: anziché riprendersi leggermente come accade nel resto della zona euro, qui i prezzi continuano a retrocedere per il terzo mese di seguito. E il ritmo della caduta accelera. Malgrado l’aumentodell’Iva in autunno, a novembre il crollo sul mese prima è stato dello 0,4% contro lo 0,3% di settembre e ottobre. In dodici mesi l’inflazione arriva appena allo 0,6%. Poiché nel frattempo i depositi bancari sono cresciuti, dunque alcune famiglierisparmiano qualcosa, ciò significa che chi può spendere ha perso ogni fiducia nel futuro, mentre un numero crescente di persone non potrebbe spendere neppure se si fidasse. È un piano inclinato che può radicare nella psicologia degli italiani la deflazione e,con essa, la paralisi dei consumi e degli investimenti in previsione di prezzi sempre più bassi domani. Sarebbe il modo più certo di distruggere altri posti di lavoro.
In parte sta accadendo. I numeri pubblicati ieri da Eurostat mostrano un andamento a forbice. Per la prima volta da due anni e mezzo scende la disoccupazione media dell’area euro, benché di poco. Non è una vera ripresa. Eppure i senza lavoro scendono in Paesi che hanno ricevuto piani di salvataggio, Portogallo o Irlanda, e in altri che da anni covano una crisi latente come la Francia. Il responso sull’Italia invece è brutale, anche aldilà del record di giovani disoccupati. Le donne che lavorano nel Mezzogiorno, informa l’Istat, sono appena due milioni. I disoccupati sono il 20% più di un anno fa e ai massimi anche in ottobre quando, secondo il governo, doveva farsi sentire una ripresa pronunciata. Poi ci sono le agenzie rating. Ieri Standard & Poor’s ha declassato l’Olanda per il debitodelle famiglie, ma ha migliorato il giudizio sulla Spagna e persino su Cipro perché crescono più — o decrescono meno — del previsto. Non ha migliorato invece sull’Italia, sulla quale resta una tendenza al declassamento a un passo dal grado “spazzatura”. La settimana prossima negli Stati Uniti, il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni sottolineerà i punti di forza del Paese: la base industriale ampia, il deficit più basso che altrove. E, certo, parte di questo vuoto d’aria al posto di una ripresa non è imputabile al governo. Non è colpa sua se le banche hanno bilanci così fragili che la stretta al credito continua da anni. Ma in Spagna il governo di Mariano Rajoy ha finanziato con quattro miliardi (il costo dell’Imu) una Borsa dei bond delle imprese per dar loro più fondi. In Francia, Germania e Gran Bretagna le leggi hanno favorito lo sviluppo di fondi di credito per surrogare le banche in crisi. In Italia si sono fatti annunci e convegni su questo, poi silenzio e immobilismo per molti mesi. Le amministrazioni pubbliche sembrano incapaci di cambiare passo, capirsi e cooperare fra loro, con esiti invalidanti. Si volevano pagare 27 miliardi di arretrati alle imprese entro l’anno, ma siamo a dicembre e ne sono arrivati poco più della metà.
Questa inerzia dice che puntare sulla ripresa europea per risolvere i nostri problemi può essere sì la strategia del governo. Ma ha la logica di un uomo con un sacco di pietre in spalla, che spera che spiovaper poter correre più forte.

l’Unità 30.11.13
Mobilitazione dei pensionati contro la manovra
di Massimo Franchi


ROMA I primi a mobilitarsi contro la manovra uscita dal Senato sono i pensionati. Che già da martedì torneranno in piazza con un presidio vicino alla Camera, chiamata a modificare il testo. Prima tre giorni di fila (dal 3 al 5 dicembre) al Pantheon, poi due giornate davanti al Parlamento: lunedì 9 e lunedì 16 dicembre. Il tutto per chiedere «una adeguata rivalutazione delle pensioni e la tutela del loro potere d’acquisto, l’alleggerimento del peso fiscale e interventi su welfare, sanità e non autosufficienza».
Ieri mattina in un gremito teatro Italia a Roma Spi Cgil, Fnp Cisl e Uilp hanno riunito i loro organismi nazionali per mettere a punto la loro protesta. «Nessuno ha contribuito al risanamento come i pensionati», ha esordito Carla Cantone, segretario generale dello Spi Cgil. «E ora per tutta risposta il governo nella manovra mette 5 miliardi di tagli ai pensionati nei prossimi tre anni. E il problema non riguarda solo i pensionati di oggi, perché se non si salva il sistema, i giovani avranno pensioni più povere, la battaglia non riguarda solo noi. La contrapposizione tra sistema retributivo e contributivo è falsa: il 95 per cento di quelli andati in pensione con retributivo hanno lavorato per 35-40 anni, pagando regolarmente i contributi: basta col dire che questi pensionati rubano il futuro ai giovani. La settimana prossima sarà decisiva per modificare la legge di stabilità, al Senato non è andata bene». E qui arriva il messaggio più che diretto al presidente del Consiglio: «A Letta dico, passa dalle prediche ai fatti. Non ti assumere la responsabilità di smantellare le pensioni: non c’è riuscita la destra, non lo faccia lui». Sulla questione della rivalutazione arriva la risposta al ministro Giovannini, che giovedì aveva fatto notare come riportarla al 100 per cento anche per quelle di 2mila euro lordi le avrebbe aumentate solo di circa 10 euro al mese: «Per i pensionati anche un euro è importante».
Battagliero anche il segretario generale della Fnp Cisl Gigi Bonfanti: «Non possiamo più stare in silenzio perché in discussione c’è il sistema pubblico di previdenza. Sul contributo sulle pensioni d’oro noi siamo d’accordo, anzi lo avremmo fatto più alto: ma è populismo pensare che la solidarietà la debbano fare solo i pensionati: anche le retribuzioni d’oro, quelle dei parlamentari, manager, direttori di banca sono uno scandalo. La rivalutazione ci è dovuta: negli anni ‘80 le pensioni erano legate ai rinnovi dei contratti nazionali, ma quando furono slegate pagammo una tassa per indicizzarle al costo della vita». Bonfanti ha chiuso con uno slogan: «Tutta la politica pensa che ai pensionati si può fare tutto? No, sui pensionati non si può più. E i proventi della Spending review, che Letta ha promesso a riduzione del cuneo fiscale, dovranno andare anche a noi, sia chiaro». La mattinata è stata chiusa dal segretario generale Uilpa Romano Bellissima: «Abbiamo assunto un solenne impegno: i pensionati non si arrenderanno fin tanto che non otterranno risposte».

Corriere 30.11.13
La carica degli stipendi dei banchieri d’Italia
In 109 sopra il milione In media percepiscono 1,6 milioni l’anno
di Rita Querzé


MILANO — Aumentano in Europa i manager delle banche con stipendi d’oro. L’incremento è a due cifre: oggi sono 3.529, l’11% in più rispetto a un anno fa. L’Italia è perfettamente allineata all’Europa. Anzi, fa di meglio. I banchieri con stipendi top sono aumentati del 14%: 96 nel 2011, sono diventati 109, 13 in più. Tornano così ad avvicinarsi ai livelli del 2010, quando erano 119.
A guardare nelle tasche dei superdirigenti del credito è uno studio dell’Eba, l’autorità bancaria europea. Che ha anche calcolato lo stipendio medio degli uomini d’oro delle banche italiane: 1,6 milioni, stabile sui livelli di due anni fa.
A ospitare il maggior numero di banchieri con buste paga record è il Regno Unito: 2.714. Nella City — capitale finanziaria d’Europa — le buste paga medie sfiorano i due milioni di euro. Tutti gli altri Paesi seguono con larghissimo distacco. Al secondo posto la Germania con 212 manager del credito con retribuzioni medie di un milione e mezzo. Poi la la Francia (177 superricchi, anche loro da 1,5 milioni ciascuno). Al quarto posto l’Italia. Quindi la Spagna che, nonostante la crisi, tratta benissimo i suoi 100 banchieri al top: ciascuno può contare su oltre due milioni di euro, più dei colleghi inglesi.
La Banca d’Italia ha più volte invitato alla morigeratezza per quando riguarda gli stipendi dei dirigenti degli istituti di credito. Il governatore Ignazio Visco è intervenuto in questa direzione anche durante la giornata mondiale del risparmio, lo scorso 30 ottobre. Dopo il recepimento di una direttiva europea del 2010, Via Nazionale potrebbe fissare limiti agli stipendi e ai bonus dei dirigenti del credito. Ma negli ultimi mesi a prendere l’iniziativa è stata direttamente l’Unione Europea: dal 2014 Bruxelles vorrebbe che i bonus dei superbanchieri non superassero la parte fissa dello stipendio. Si potrebbe salire a due volte la retribuzione base solo con l’approvazione degli azionisti. Ma l’idea di un tetto ai compensi dei banchieri non piace per nulla al governo inglese.
A casa nostra il tema delle retribuzioni dei top manager del credito è entrato anche nel confronto tra sindacati e Abi sul rinnovo del contratto. Il 5 dicembre la Fiba Cisl depositerà una legge di iniziativa popolare per porre un limite agli stipendi dei vertici: 600 mila euro massimo, tutto compreso. A oggi raccolte 114 mila firme.

Repubblica 30.11.13
Lazio, inchiesta sui due milioni spesi dagli ex consiglieri Pd

“Hotel di lusso e cestini natalizi”
di Federica Angeli e Mauro Favale


ROMA — Una fattura in cui il 3 di 3.000 euro si trasforma magicamente in un 8. Ricevute di un hotel quattro stelle di Rieti datate gennaio 2011 che avevano come giustificativo “Presentazione del libro di Reichlin”, evento avvenuto tre mesi prima (22 ottobre 2010). Scontrini da 1.200 euro per le bevande consumate in due giorni al convegno «La politica agricola del Pd». E ancora, cesti natalizi, contributi a giornali, tv locali e associazioni.
Quasi a scoppio ritardato, oltre un anno dopo la caduta della giunta Polverini e gli arresti dei capigruppo Pdl e Idv, Franco Fiorito e Vincenzo Maruccio, la procura di Rieti accende un faro sulla gestione dei contributi al gruppo del Pd alla Regione Lazio nella legislatura 2010-2012. Più di 2 milioni di euro ricevuti nel 2011 sui quali stanno indagando gli uomini del nucleo tributario della finanza di Rieti che sono tornati la scorsa estate a bussare alle porte del Consiglio regionale. L’ultima visita è della scorsa settimana: le Fiamme gialle hanno chiesto l’inventario dei beni del Pd per capire se cellulari e iPad acquistati con i soldi pubblici fossero stati tutti restituiti dai consiglieri decaduti. Nessuno di loro èstato ricandidato in Regione ma gli echi della passata legislatura non si sono ancora spenti. Ed è solo una coincidenza se nel giorno in cui anche la Corte dei conti torna indietro a quegli anni con giudizi severissimi («La Regione Lazio è stata per 10 anni un ente insolvente, chiudendo il 2012 con un buco di 4 miliardi») emerge la notizia dell’indagine di Rieti.
Mentre i magistrati contabili sollevano la questione di legittimità costituzionale di tutte le leggi che, a partire dal 1997, hanno reintrodotto il finanziamento pubblico ai partiti abolito col referendum del 1993, l’inchiesta reatina promette sviluppi «astretto giro». Per il momento, l’unico indagato è l’allora tesoriere del gruppo Pd, Mario Perilli, ma le verifiche sono su tutte le spese dei 14 ex consiglieri Pd. Falso e peculato i reati ipotizzati. Insieme a lui, nell’informativa che la Guardia di finanza a giorni consegnerà al procuratore capo Giuseppe Saieva, ci sono i nomi di altri tre ex consiglieri regionali — Enzo Foschi, attuale capo segreteria del sindaco di Roma Ignazio Marino, Esterino Montino, sindaco di Fiumicino e Giuseppe Parroncini — e di altre dieci persone tra commercianti, ristoratori e imprenditori. Gli ex consiglieri citati si difendono: «Abbiamo agito sempre in trasparenza».A parte Perilli, nessuno dei nomi che compaiono nell’informativa è, almeno per ora, iscritto nel registro degli indagati.
L’inchiesta ha preso le mosse all’inizio dell’anno, dopo la denuncia di Gianfranco Paris, avvocato reatino, candidato alle regionali del 2010 con la Lista Bonino- Pannella che, sul suo blog, aveva pubblicato una lista molto circostanziata sulle spese del gruppo Pd in Regione, e in particolare su quelle di Perilli, sindaco di Fara Sabina (Roma) prima dell’incarico in Regione. L’elenco riguardava spese sostenute nelle zone dove Perilli aveva ricevuto il maggior consenso elettorale: da Rieti a Passo Corese. Ci sono peresempio 6.000 euro liquidati all’associazione “Fara Music” nel gennaio del 2011 per l’organizzazione del convegno “Sviluppo del territorio e musei locali” o i 4.300 euro a uno studio fotografico di Passo Corese per l’organizzazione di un altro incontro del gruppo. Non mancano poi i finanziamenti a giornali ed emittenti televisive: alNuovo Paese Sera(dove per un periodo ha lavorato la figlia di Perrilli) il gruppo Pd ha versato 24mila euro. Nella lunga lista sono finite anche le immancabili cene e pranzi elettorali: dall’enoteca “Tuscia” dove sono stati spesi 8.000 euro ai 9.800 nel ristorante “La Foresta” di Rocca di Papa.

Repubblica 30.11.13
“Le leggi sull’Ilva concordate tra Vendola e Riva”
La Finanza accusa: “Regole anti-emissioni ritardate. Tavoli tecnici inoperosi per guadagnare tempo”
“Erano d’accordo per predisporre i vincoli necessari a concedere l’Aia all’acciaieria”
“I vertici aziendali si spendevano per non nuocere al presidente Vendola in sede ministeriale”
di Carlo Bonini


TARANTO — Nei 31 faldoni e nelle 50mila intercettazioni telefoniche dell’inchiesta Ilva, viene mossa un’accusa più lacerante e scivolosa di altre. È la messa in mora della “diversità politica” di Nichi Vendola, governatore della Puglia accusato di concussione per l’asserito tentativo di rimuovere dall’incarico il direttore generale dell’Arpa, Giorgio Assennato, «Il Rompicoglioni», come veniva gratificato dai Riva. È l’annichilimento della sua “narrazione” ambientalista, costruita politicamente sulla rivendicazione della paternità delle due leggi regionali sui limiti alle emissioni di diossina e benzopirene.
Nelle annotazioni della Guardia di Finanza, nella ricostruzione della Procura di Taranto, quelle due leggi regionali vengono degradate a “foglia di fico”. Utili a dissimulare l’inconfessabile. Aver negoziato e concordato con i Riva leggi che, nei fatti, avrebbero consentito all’Ilva di continuare ad avvelenare l’acqua, l’aria, il suolo di Taranto. Scrivono gli investigatori della Finanza: «Vendola ha pubblicamente dichiarato che il “modello Ilva” doveva essere esportato in tutta la Regione». «Ma quel modello — aggiungono — aveva come riferimento la legge sulla diossina, la cui gestazione è stata evidentemente frutto della concertazione tra la Regione e l’Ilva». E prova ne sarebbe che «in quella legge non venne imposto quanto era stato osteggiato dal-l’Ilva: il cosiddetto “campionamento in continuo” delle emissioni». Quella legge sulla diossina ha per altro un altro vizio esiziale. Non impone alcun termine sanzionatorio e perentorio a chi avvelena l’aria qualora le emissioni nocive superino i limiti fissati dalla legge. Le norme prevedono infatti che, “pena la chiusura degli impianti”, l’Ilva “provveda entro breve tempo”. “Breve”. Che significa? Per la Finanza e la Procura è la prova di una “melina” di cui si troverebbe tracciaanche altrove: «Per far guadagnare tempo ai Riva nella realizzazione delle strutture di monitoraggio delle emissioni e, allo stesso tempo, non far apparire inoperosa la Regione, venivano concordati con i vertici dell’Ilva degli inoperosi tavoli tecnici».
C’è di più. L’Ilva e la Regione Puglia — osservano ancora i pm — si muovono di conserva anche nella procedura istruttoria che, nell’autunno 2010, deve predisporre i “vincoli” necessari a concedere l’Aia all’acciaieria. «La condivisione degli obiettivi tra la Regione e l’Ilva in relazione al campionamento in continuo della diossina — scrive la Finanza — si riverbera anche sui lavori in corso presso la commissione del ministero dell’Ambiente per il rilascio dell’Aia all’Ilva. Fabio Riva ricorda all’avvocato Perli (i due sono indagati per associazione a delinquere, ndr) di discutere con un componente della commissione, l’avvocato Pelaggi (anche lui indagato) del “campionamento in continuo della diossina”, perché, sostiene, su tale argomento “bisogna dargli una mano a Vendola perché se no ti saluto eh!!!”. Si evidenzia, in tal modo, la perfetta unità d’intenti esistente sull’asse Vendola-Ilva, che porta i vertici Ilva a spendersi anche in sede ministeriale affinché non vengano intrapresi percorsi che possano nuocere al presidente Vendola».
Insomma, Vendola scende a patti con il Diavolo, ma nel farlo — osserva la Procura — il suo realismo finirebbe per macchiarsi di cinismo, perdendo ogni connotazione di “innocenza”. La prova sarebbe in una telefonata del governatore al rientro da un viaggio in Cina, il 6 luglio del 2010, 8 giorni dopo la richiesta di incidente probatorio per le emissioni di diossina notificata ai Riva. Vendola chiama Archinà, capo delle relazioni esterne Ilva. Dice: «Ognuno fa la sua parte e dobbiamo però sapere che, a prescindere da tutti i procedimenti, le cose, le iniziative, l’Ilva è una realtà produttiva, cui non possiamo rinunciare. Volevo dirglielo perché poteva chiamare Riva e dirgli che il presidente non si è defilato». Il messaggio arriverà. E i Riva si convinceranno di avere un solo nemico: la magistratura. Fabio si sfoga al telefono: «Chi è il gip? La Todisco? La Todisco è quanto di peggio ci poteva capitare».

l’Unità 30.11.13
L’agonia della sinistra e la vitalità dei suoi valori
di Moni Ovadia


UNA STRANA PATOLOGIA SI È IMPOSSESSATA DELLA SINISTRA IN GENERALE E DI QUELLA ITALIANA IN PARTICOLARE. I valori che sono il suo cuore pulsante, sono vivi e vegeti e come sempre splendono con forza e immutato vigore, ma il corpo che dovrebbe incarnarli si è progressivamente corrotto o indebolito fino a vegetare sull'orlo dell'estinzione.
Questa mia schematica e addolorata diagnosi, è certamente crudele, ma temo purtroppo che sia spietatamente veritiera. Il colpo di grazia al processo già da lungo in corso, lo sta dando il crollo dell'immagine del suo più «carismatico» e affascinante leader sia detto senza il minimo intendimento sarcastico Nichi Vendola. Dalla famigerata telefonata, al suo essere implicato nel affaire Ilva, anche se non con rilevanza penale, ce n'è abbastanza per essere travolto da quella terribile ondata di fango che si chiama «tanto sono tutti uguali!». Si avrà in seguito un bel da gridare che non è vero, si potrà entro certi limiti dimostrare che è così, ma il danno è fatto perché da quel fango qualunquista, un esponente della destra o anche uno del cosiddetto centro, potrà venirne fuori disinvoltamente con la faccia come il deretano mentre a uno di sinistra non è concesso e per questo motivo dovrebbe vigilare, sempre. I «mastini della reazione», per usare un'espressione del tipo in voga nel frasario del marxismo-leninismo classico, gli si avventeranno contro, i soloni del potere trasformista intramontabile, lo bacchetteranno paternalisticamente. Io in Sel avevo creduto, mi sembrava l'esito di un travaglio della cosiddetta Sinistra radicale che potesse dare concretezza e futuro alla Sinistra in quanto tale. Mi sbagliavo.
La scelta moralmente e politicamente ingiustificabile di appoggiare il perdente e indegno Filippo Penati alle regionali lombarde e, successivamente, l'avere promosso l'ambigua alleanza con il Pd di Bersani oscillante fra una scelta di centro-sinistra e l'attrazione velleitaria verso l'inconsistente e fallimentare Monti, rivelavano la mancanza di un orizzonte politico proprio. Molti pensarono che lo scopo fosse quello di tornare in parlamento solo per tornarci.
Certo la sinistra non è solo Sel, un afflato di sinistra vive anche nel Pd, lo dimostra l'impeccabile programma di Gianni Cuperlo per esempio. Ma quel programma non potrà mai trovare anche solo parziali applicazioni, in un partito non nato e quindi senza un progetto. Quanto ai partiti rimanenti, più a sinistra, sono residuali e, stanti le cose così come sono oggi, si condannano a galleggiare nell'insignificanza. La Sinistra vive solo nei suoi mirabili militanti irriducibili, in certa società civile e nella coraggiosa e, per certi versi prodigiosa, Fiom di Maurizio Landini. Da lì deve ripartire. Ma questa volta non basta una rifondazione. Questa volta è necessaria una vera e propria rinascita.

l’Unità 30.11.13
Soldi ai partiti, la Corte dei conti: incostituzionali
Il Procuratore De Dominicis si rivolge alla Consulta: «Aggirato il referendum del ’93»
di Caterina Lupi


ROMA Dubbi sulla legittimità costituzionale delle norme sul finanziamento pubblico ai partiti. A esprimerli è il procuratore regionale del Lazio della Corte dei Conti, Angelo Raffaele De Dominicis, che nell’ambito del processo per danno erariale aperto nei confronti dell’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, ha chiesto alla sezione giurisdizionale regionale della Corte dei Conti di «dichiarare rilevante e non manifestamente infondata» la questione di legittimità, inviando gli atti alla Consulta.
Per De Dominicis, le leggi varate tra il 1997 e il 2012 «in aperto contrasto con l’articolo 75 della Costituzione si manifestano non solo elusive e manipolative della volontà popolare», poiché le disposizioni abrogate con referendum nel 1993 «sono state
ripristinate con camuffamento e al gran completo nel 1997». Con la legge mille proroghe del 2006, poi, rileva il procuratore, «il finanziamento alla politica, ancorché negato dal corpo elettorale, è stato magnanimamente esteso all’intero quinquennio del mandato parlamentare, anche a prescindere dalla durata effettiva della legislatura». Le norme sul finanziamento ai partiti, secondo il procuratore regionale del Lazio, violerebbero anche gli articoli 3, 49 e 81 della Costituzione.
«Ho chiesto alla sezione del Lazio di sollevare la questione di legittimità costituzionale sul finanziamento pubblico ai partiti ha detto il procuratore nel corso di una conferenza stampa nel ‘93 ci fu un referendum popolare sul finanziamento pubblico ai partiti, e il popolo, al 93%, bocciò il finanziamento. Nel 2006 hanno introdotto una norma mostruosa con cui si stabilisce che il finanziamento, il contributo o rimborso, dura cinque anni anche se la legislatura dovesse finire prima, cosa che avvenne due anni dopo nel 2008 e quindi i signori del Parlamento ebbero il contributo per la nuova legislatura ma anche per la vecchia. Tutti i partiti raddoppiarono per tre anni il contributo, che è andato anche a anche a chi era stato bocciato dal corpo elettorale, e partiti piccolini che erano stati letteralmente cancellati hanno continuato a beneficiare di questi soldi, fino ad arrivare al caso mostruoso della Margherita». Ora, dunque, la decisione «spetta alla sezione giurisdizionale del Lazio che valuterà tutte le questioni che ho posto».
Sulla «rilevanza» della questione, De Dominicis ha ricordato che «il referendum non è una pagliacciata, è la volontà del popolo sovrano». Attualmente all’esame del Parlamento vi è un disegno di legge sul finanziamento pubblico ai partiti: «una nuova legge ha osservato il procuratore che rinnova le gesta delle vecchie leggi abrogate».

il Fatto 30.11.13
I 2,7 miliardi ai partiti “sono incostituzionali”, C’è un giudice a Roma
Il Procuratore della Corte dei Conti del Lazio ricorre alla Corte Costituzionale
“Con il ritorno dei fondi pubblici violato il referendum”
di Sara Nicoli


Il procuratore della Corte dei Conti del Lazio, Raffaele De Dominicis, solleva la questione di legittimità davanti alla Consulta contro vent’anni di leggi che hanno abusivamente ripristinato il finanziamento pubblico cancellato dagli italiani nel referendum radicale del 1993.
Ce l’hanno messa tutta e in vent’anni si sono intascati 2,7 miliardi di euro nonostante 31 milioni di italiani, nell’aprile del ‘93, avessero votato, in modo plebiscitario, per l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Un referendum, promosso dai Radicali, diventato carta straccia grazie a sottili artifici lessicali che hanno trasformato i “finanziamenti” in “rimborsi”, aggirando la volontà popolare fino a quando, con lo scandalo della Lega, ma anche con il caso Lusi e molti altri accadimenti legati al malcostume della Casta, la volontà popolare si è trasformata in incitamento alla protesta da parte di Grillo e dei suoi. Inducendo perfino il pacato Enrico Letta a minacciare, dal giugno scorso in poi, di intervenire “anche per decreto” pur di mettere fine alla faccenda.
ORA, dopo che la Camera ha approvato, non senza sforzo e disagio, una legge che dovrebbe interrompere l’erogazione a pioggia di denaro sui partiti, salvo poi scordarsela in commissione Affari costituzionali del Senato, ecco che ieri un giudice ha messo fine al balletto, sollevando una questione di legittimità davanti alla Corte costituzionale. Stiamo parlando del procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis. Che, in pratica, ha messo in mora tutte le leggi, a partire dal 1997, che hanno reintrodotto il finanziamento pubblico dei partiti, per averlo fatto “in difformità” rispetto al referendum del ‘93. La decisione è partita dopo l’indagine istruttoria aperta nei confronti di Luigi Lusi, sotto processo anche penalmente per illecite sottrazioni di denaro pubblico. Per De Dominicis, tutte le leggi che la Casta ha prodotto e votato per continuare a mettere le mani nelle tasche dei cittadini, “sono da ritenersi apertamente elusive e manipolative del risultato referendario, e quindi materialmente ripristinatorie di norme abrogate”. Per la Corte dei Conti, quindi, “tutte le disposizioni impugnate, a partire dal 1997 e, via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012, hanno ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993, facendo ricorso ad artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi”. Dalla normativa contestata, sempre secondo il magistrato contabile, deriva “la violazione del principio di parità e di eguaglianza tra i partiti e dei cittadini”.
Infatti – argomenta – i rimborsi deducibili dal meccanismo elettorale “risultano estesi”, dopo il 2006, a tutti e cinque gli anni del mandato parlamentare, in violazione “del carattere giuridico delle erogazioni pubbliche, siccome i trasferimenti erariali, a partire dal secondo anno, non solo si palesano come vera e propria spesa indebita, ma assunti in violazione del referendum dell'aprile 1993”. Insomma, i partiti hanno “preso in giro” i cittadini “attraverso la finzione del linguaggio”, come sottolineato dal professor Gaetano Azzariti, ordinario di Diritto costituzionale presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma “La Sapienza”, ma questo non ha fermato la Casta. Che ora, forte anche dell’attesa su una pronuncia della Corte, potrebbe decidere persino di non proseguire nell’approvazione del nuovo ddl in stallo in commissione Affari costituzionali del Senato, per evitare che venga dichiarato incostituzionale appena approvato. D’altra parte, dentro quel provvedimento è scritto chiaramente che l’erogazione dei fondi pubblici si sarebbe dovuta interrompere nel 2017.
Una data troppo lontana, a ben guardare, per la Corte costituzionale che solo ora, si sottolinea, può intervenire sul tema perché chiamata in causa direttamente da un giudice. E poi in quella legge sono contenute una serie di storture che non risolvono assolutamente il problema così come impostato dal giudice contabile alla Consulta. Si prevede, infatti, l’iscrizione dei partiti che possono essere inseriti nell’apposito registro e accedere così al finanziamento, mentre altri no (guarda caso, i 5 Stelle, perché non hanno lo statuto), ma a pagare è sempre lo Stato.
PER L’ANNO in corso e i prossimi tre anni l’esborso sarà sempre forte: nel 2014, 91 milioni di euro; 54 milioni e 600 mila per il 2015; 45 milioni e mezzo per il 2016 e per il 2017 circa 36 milioni 400 mila. A queste somme si aggiungono le donazioni dei cittadini che potranno dare il due per mille mentre il tetto del finanziamento da parte dei privati è stato innalzato, alla fine, fino a oltre 100 mila euro. Insomma, l’ennesimo modo per aggirare la volontà popolare. Resta da vedere che cosa farà il governo alla luce di questa assoluta novità giuridica che ieri ha visto i grillini chiedere di nuovo “la restituzione dei soldi agli italiani” e Mario Staderini, segretario dei Radicali, affermare che per “vent’anni i partiti hanno fatto un furto agli italiani”.
La cifra è comunque imponente, sicuramente scandalosa in tempi di crisi come questi, dove si fatica a comprendere il distacco della politica da un problema così evidente. Perché salta agli occhi fin troppo chiaramente che chissà quante cose avremmo potuto fare con 2,7 miliardi di euro in più a bilancio dello Stato. Spesi diversamente.

Corriere 30.11.13
Quell’obolo dato ai consiglieri mentre Roma rischia il crac
Milioni di euro che i politici possono distribuire a piacimento
di Sergio Rizzo


ROMA — Le parole che nessuno aveva mai osato dire, le ha pronunciate una recluta del Consiglio comunale di Roma. «A me personalmente è stato chiesto di indicare le destinazioni per una somma di 50 mila euro. Ritengo assolutamente inaccettabile usare le risorse pubbliche in tale modo. A questa cosa mi opporrò strenuamente: giustificarla, com’è accaduto, sostenendo che si è sempre fatto così, non fa parte delle motivazioni espresse in una campagna elettorale basata al contrario su principi di legalità e trasparenza». Autore della dichiarazione, resa durante la riunione della maggioranza che sostiene Ignazio Marino, convocata il 26 novembre per discutere del bilancio di previsione 2013 del Campidoglio, il consigliere radicale neoeletto Riccardo Magi. Inutile aggiungere che dopo una simile bordata, mentre il sindaco guadagnava rapido l’uscita provvidenzialmente chiamato ad assolvere l’impegno istituzionale della stretta di mano all’argentina Estela Barnes de Carlotto, la leader delle nonne di Plaza de Mayo cui era stata appena conferita la cittadinanza onoraria, l’imbarazzo si tagliava con il coltello.
Nonostante i propositi di sobrietà e rigore, ecco di nuovo il fantasma della cosiddetta «manovra d’aula». E la faccenda, ora, si fa particolarmente pelosa. Perché a impegnare qualche milione per soddisfare le richieste personali dei politici, mentre il Comune di Roma è alle prese con problemi finanziari enormi, le voragini delle municipalizzate e il rischio di dover aumentare ancora le tasse, ci vuole davvero un bel fegato.
Per capirci, la manovra d’aula è quel meccanismo grazie al quale i singoli consiglieri comunali possono distribuire denari ai propri collegi elettorali. Un obolo ragguardevole, che ha raggiunto l’ultima volta le dimensioni di 15 milioni. E anche se ora, complice la riduzione del numero dei consiglieri (da 60 a 48), calerà forse a una decina di milioni, resta pur sempre uno schiaffo alla città delle strade piene di buche, degli autobus che non vanno, del traffico infernale.
Ogni consigliere ha una somma stabilita a disposizione e può indicarne la destinazione a proprio piacimento. I denari prendono la forma di erogazioni ad associazioni, contributi per manifestazioni, finanziamenti a progetti. Spesso le cose più surreali. Tipo quella campagna d’informazione sugli escrementi canini a villa Borghese che su richiesta di un singolo consigliere comunale l’assessorato alla Cultura (alla Cultura!) di Roma avrebbe dovuto finanziare: per la modica cifra di 120 mila euro. O quel premio Ostia organizzato con 15 mila euro dei contribuenti (poi per fortuna revocati), dove il premiato era un certo Licio Gelli. Quando non addirittura finanziamenti per manifestazioni in teatri che quel giorno risultavano chiusi.
Si tratta della copia in scala ridotta, ma forse anche peggiore, della famosa «legge Mancia», la norma in base alla quale i singoli parlamentari distribuivano annualmente ai propri «territori» fino a 160 milioni. Modello subito replicato da alcune Regioni, fra cui la Regione Lazio: in cui la quota procapite attribuita a ogni consigliere aveva raggiunto in passato gli 800 mila euro. E anche da molte amministrazioni comunali nelle quali le manovre d’aula, nate con la motivazione di dare un po’ di biada all’opposizione per tenere a bada l’ostruzionismo, hanno finito per coinvolgere tutti indifferentemente, con un «tariffario» variabile a seconda del potere dei singoli consiglieri. Una evoluzione del finanziamento pubblico di una politica sempre più ingorda, che non di rado serve a coprire i buchi delle campagne elettorali dei singoli. Non si spiegherebbero diversamente spese allucinanti, anche superiori a 200 mila euro, per conquistare una poltrona in consiglio comunale che garantisce al massimo 1.500 euro al mese.
Questa volta, però, c’è un serio contrattempo. L’assessore al Bilancio Daniela Morgante, già piuttosto in rotta con la giunta, non ci sente da quell’orecchio. Cosciente che se si sbraga una volta, si dovrà poi sbragare sempre. E vaglielo a spiegare ai romani che anche per questo dovranno sopportare nuovi rincari dell’addizionale Irpef. Di solito funzionava così: sentite le richieste dei consiglieri, i suoi predecessori preparavano un maxiemendamento al bilancio che destinava ai vari settori somme aggiuntive per spese «inderogabili». Approvato di regola all’unanimità. I denari arrivavano poi agli assessorati accompagnati da elenchi, post-it e letterine con su scritte le cifre e i destinatari. E si pagava senza discutere.
Stavolta, invece, la sospirata manovra d’aula si farà al buio, senza emendamento della giunta. Stavolta ci dovranno mettere la faccia i consiglieri. Fra i 130 mila (centotrentamila) emendamenti che si sono riversati dal consiglio su un bilancio di previsione da approvare quando manca soltanto un mese alla fine dell’anno, ci sarà dunque anche l’emendamento «mancia». Con tutti i rischi del caso. Come sa bene il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, alle prese con un provvedimento che mira a tagliare le società regionali riducendo da 88 a 13 il numero delle poltrone, sorprendentemente sommerso da mille emendamenti del Movimento 5 Stelle.
E non è un caso che già venga data per conclusa la breve esperienza di Daniela Morgante: sono strappi che si pagano. A sinistra, come a destra. Per capire cosa succede a chi si mette di traverso basta leggere il libro che Umberto Croppi, ex assessore della giunta di Gianni Alemanno anche per la sua intransigenza di fronte a certe richieste di consiglieri influenti, ha scritto con Giuliano Compagno. L’ha intitolato Romanzo comunale...

il Fatto 30.11.13
Consulta, sul Porcellum voglia di rinvio
Martedì l’udienza: Primo punto l’ammissibilità del ricorso
Possibile lo slittamento al 2014
di Luca De Carolis


Uno spartiacque, per il governo e la politica. Comunque vada. Martedì prossimo la Corte Costituzionale dovrà esprimersi sul ricorso contro il Porcellum, o meglio contro due punti della legge elettorale 270 del 2005, quelli che prevedono liste bloccate e il premio di maggioranza. I 15 giudici potranno scegliere tra diverse opzioni: pronunciarsi subito sull’ammissibilità del ricorso, oppure rinviare tutto a una prossima udienza, concedendo ai partiti qualche settimana per cercare di fare quella nuova legge elettorale che non sono riusciti a mettere assieme in otto anni. Ma c’è anche la possibilità che la Corte entri direttamente (pure) nel merito, annullando i punti principali del testo. E per i Palazzi sarebbero davvero guai.
1. Quando e come nasce il ricorso alla Consulta?
A presentarlo nel 2009 sono l’avvocato Aldo Bozzi, nipote dell’omonimo esponente liberale, e altri 27 firmatari. Il ricorso è contro la presidenza del Consiglio e il governo, per “lesione del diritto di voto”. In particolare, i ricorrenti contestano come anticostituzionali le liste bloccate, “perché creano un Parlamento di nominati” e il premio di maggioranza, previsto sia alla Camera che al Senato, “perché è irragionevole senza una soglia minima di voti ottenuti”. Nei primi due gradi di giudizio il ricorso viene respinto come infondato. Ma nel maggio 2013 la Cassazione lo giudica “rilevante”, e inoltra tutto alla Consulta.
2. Come funziona l’udienza presso la Corte?
Il 3 dicembre, i giudici dovranno innanzitutto valutare l’ammissibilità del ricorso, sotto un profilo soggettivo (la legittimitazione ad agire in giudizio del ricorrente) e oggettivo, ovvero decidere se il tema rientri tra quelli di competenza della Corte.
3. La decisione sull’ammissibilità deve arrivare per forza in giornata?
No. La Consulta potrebbe rinviare la decisione sull’ammissibilità a una successiva udienza. Perché si arrivi a un rinvio, per prassi basta che a chiederlo sia anche un singolo giudice.
4. Se giudicano ammissibile il ricorso, cosa accade?
La Corte potrebbe entrare subito nel merito, ossia decidere se le norme del Porcellum oggetto di ricorso sono incostituzionali o meno. Ma potrebbe anche rinviare questa decisione a una successiva udienza. Ipotesi che, stando alle voci delle ultime ore, appare la più probabile: sempre che la Consulta giudichi ammissibile il ricorso.
5. In caso di rinvio, ci sono termini perentori entro cui la Corte dovrebbe riunirsi?
No, la fissazione dei tempi rientra nella discrezionalità dei giudici.
Se la Consulta annullasse le norme, verrebbe cancellata tutta la legge?
No. Il testo rimarrebbe in vigore, seppure privo delle parti “cassate” come illegittime dalla Corte. Ma è chiaro che si creerebbe un vuoto normativo enorme.
6. La Corte potrebbe far tornare in vigore la precedente legge elettorale, ossia il Mattarellum?
Assolutamente no. Il potere di varare o modificare le leggi rientra nell’esclusiva competenza del Parlamento. Perché si torni al Mattarellum serve il voto delle due Camere, come per ogni provvedimento.
7. La Consulta può accogliere o respingere il ricorso: ma esiste una terza via?
Sì. La Corte potrebbe giudicare illegittime parti del Porcellum, ma senza annullarle, valutando le conseguenze del vuoto normativo che verrebbe a crearsi più dannose delle norme da cancellare. Esiste una giurisprudenza in questo senso.
8. Il governo potrebbe emanare un decreto legge in materia elettorale?
No. Non rientra nei poteri dell’esecutivo ricorrere alla decretazione d’urgenza in materia elettorale. È invece ovviamente possibile che vari un disegno di legge, da sottoporre al Parlamento.

il Fatto 30.11.13
L’ex presidente Paolo Maddalena
Obbrobrio, ma è difficile annullarlo
di l.d.c


Il Porcellum è un obbrobrio, certamente in contrasto con la Costituzione”. Paolo Maddalena è vicepresidente emerito della Corte costituzionale, di cui è stato anche il presidente.
Professore, a suo avviso come si pronuncerà la Consulta?
A mio parere non ci sono dubbi sul fatto che il ricorso sul-l’attuale legge elettorale presenti i caratteri dell’ammissibilità e della fondatezza nel merito.
Per quali ragioni è ammissibile?
Lo è perché c’è la legittimazione ad agire del ricorrente, come ha sancito la Corte di Cassazione. E la materia rientra tra quelle su cui la Corte ha competenza a giudicare.
Quanto al merito?
Già nel 2008 in un mio testo spiegai che questa legge elettorale era illegittima. Innanzitutto, perché con le liste bloccate limita la portata del voto dei cittadini, a cui la Costituzione riconosce il diritto di eleggere un rappresentante della nazione, senza vincolo di mandato. Questo perché il cittadino è parte costitutiva del popolo. Ma è inaccettabile anche il premio di maggioranza.
Perché?
È una norma intrinsecamente irragionevole, che viola in modo chiaro l’articolo 3 (tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge, ndr) e l’articolo 48 della Carta, che dà a ogni voto lo stesso peso. Non è possibile che un partito che prende il 13 per cento ottenga il 55 per cento dei seggi. E il restante 87 per cento degli elettori?
C’è chi ritiene che la Consulta non possa cancellare parti della legge, perché sarebbe come riscriverla.
La Corte, secondo una costante giurisprudenza, evita di di-chiare la nullità del testo per non creare un vuoto legislativo che soltanto il Parlamento può riempire. Questo perché la Consulta può annullare le leggi ma non crearle, potere che spetta solo al Parlamento.
Quindi cosa potrebbe accadere?
La Consulta potrebbe dichiarare illegittima la legge, ma lasciarla comunque in vigore, per evitare un danno ancora peggiore. Sarebbe un dovere della politica vararne una nuova appena possibile, tenendo conto delle indicazioni della Corte.
Sul Foglio, Renato Brunetta (Forza Italia) ha sostenuto che l’eventuale annullamento della legge renderebbe illegittimo anche l’attuale governo.
È una conclusione priva di fondamento giuridico. Il governo è stato eletto legittimamente eletto, in base alla legge vigente, e i pronunciamenti della Consulta hanno effetto dal giorno successivo alla loro pubblicazione.

il Fatto 30.11.13
Missioni militari, un altro problema per il premier


ALTRO SCOGLIO in vista per il governo: è il decreto sul finanziamento delle missioni militari all’estero, che dovrà essere approvato alla Camera e al Senato entro il 9 dicembre. Il presidente Giorgio Napolitano ha auspicato un test per l’esecutivo Letta, un voto di fiducia dopo la scelta del nuovo segretario del Pd. Ma prima delle primarie dell’Immacolata, sarà messo a dura prova proprio con il voto sul decreto, previsto per la prossima settimana. Bisognerà capire se il dl sarà presentato ai due rami del Parlamento con il voto di fiducia. In caso contrario, non ci dovrebbero essere problemi: Forza Italia è uscita dal governo, ma è da sempre favorevole al finanziamento. In caso di fiducia, invece, la situazione si complicherebbe: Fi potrebbe far mancare i propri voti e i civatiani – in 7 al Senato – sono contrari. Possibile che, prima delle primarie, confermino il no per dare un segnale forte all’elettorato.

Corriere 30.11.13
Pd

Democristiani loro malgrado
di Ernesto Galli della Loggia

La decisione del presidente Napolitano circa la necessità di una verifica parlamentare per il governo Letta è difficilmente confutabile. Infatti con lo sfaldamento del Pdl, e l’uscita di Forza Italia dalla coalizione, l’esecutivo conserva la maggioranza, ma la sua natura politica è radicalmente mutata. Da un governo Destra-Sinistra — cioè Pd-Pdl (numericamente autosufficienti) più altri — si è trasformato in un governo di Sinistra-Centro. Nel quale è il Partito democratico, per l’appunto , a rappresentare in entrambe le Camere il nucleo forte, mentre il Centro, costituito da Scelta Civica-Udc più il Nuovo centrodestra (Ncd) di Alfano, svolge la parte di comprimario. Coincide con questo spostamento dell’asse politico del governo — e in certo senso lo ha reso possibile e insieme ne è un frutto — un secondo e più importante mutamento: la democristianizzazione del Pd. Vale a dire il progressivo ma ormai compiuto assorbimento-imitazione da parte del Partito democratico non solo della funzione sistemica, ma pure dei caratteri interni propri di quella che fu la Democrazia cristiana. Una tale democristianizzazione del Pd si è prodotta non casualmente via via che il sistema politico della cosiddetta Seconda Repubblica andava perdendo il suo parziale carattere bipolare per indirizzarsi verso una riedizione della frantumazione parlamentarista della Prima Repubblica, frutto a suo tempo della proporzionale.
Alla quale — di nuovo non a caso — anche la Seconda sembra ora ineluttabilmente condannata a tornare. Un parlamentarismo proporzionalistico che, se non vuole naufragare nel nulla, deve però necessariamente organizzarsi intorno a un partito cardine.
Che ieri era la Dc, e oggi è per l’appunto il Pd.
Il Partito democratico si candida a essere un tale partito innanzitutto a causa della neoacquisita posizione di centralità nella topografia parlamentare: dal momento che oggi esso si trova di fatto ad essere la componente principale di un governo che alla Camera deve fronteggiare allo stesso tempo una consistente opposizione di sinistra (all’incirca 130 deputati) e una poco minore opposizione di destra. Ricorda questo qualcosa a qualcuno? Non fu forse precisamente questa, per 40 anni, la situazione della Dc? La centralità «democristiana» del Pd gli viene anche dal fatto di essere oggi il solo e vero «partito delle istituzioni».
In realtà esso lo è fin dagli Anni 90, a causa del fallimento che la Destra ha fatto registrare pure su questo terreno.
Non riuscendo a distinguersi neppure in minima parte dalla figura di Berlusconi, dalla sua immagine «corsara», erratica e improvvisatrice, la Destra politica, infatti, non è mai riuscita a liberarsi di qualcosa di casuale e provvisorio, di incompatibile con la stabilità nel tempo, con il senso del passato storico, con l’affidabilità e con gli aspetti legalistico-formali che sono propri della dimensione istituzionale. Verso la quale, invece, la sinistra di origine comunista ha sempre mostrato tradizionalmente una grande attenzione.
Il risultato è che da molto tempo la gran parte dell’establishment italiano, nello Stato e nella società, si riconosce nel Pd.
Ma naturalmente essere «come la Dc», cominciare ad occupare una posizione centrale analoga alla sua nella costellazione del potere, ha un prezzo: quello di finire per occuparsi, appunto, solo del potere. E dunque trasformarsi in un ceto burocratico-politico senza idee e senza progetti, diviso in correnti ferocemente in lotta, la cui principale attività, al centro come in periferia, diviene di fatto la spartizione dei posti e delle risorse: proprio quello che oggi il Pd rischia sempre più di diventare

Corriere 30.11.20
D’Alema: il Cavaliere è ancora in campo
«Nel suo schieramento non si vede un altro leader Ricordo quando nell’89 mi chiese di lavorare per lui»
di Maria Teresa Meli


ROMA — Presidente D’Alema, è la fine di un’era. Lei si è scontrato e incontrato piu volte con Berlusconi. E adesso? «Sì io mi sono confrontato a lungo con Berlusconi con alterni risultati. Sono stato tra i protagonisti del suo rovesciamento nel ‘94, e uno degli artefici delle vittorie elettorali del ‘96 e del 2006, da cui bisogna pur riconoscere che lui ha saputo sempre risollevarsi con successo. Non credo che scompaia dalla vita politica italiana per la sua decadenza: penso che sia un giudizio politico superficiale».
Berlusconi dice che quel giorno è stato un lutto per la democrazia.
«È un’espressione priva di senso ma non è stato neppure un giorno per brindare. Io personalmente non ho brindato perché l’applicazione della legge è sempre un fatto che va vissuto con serietà e con rispetto verso le persone. Si festeggiano le vittorie elettorali non l’applicazione delle leggi, che dovrebbe essere ovvia. Del resto io avevo dichiarato già mesi fa che Berlusconi avrebbe dovuto dimettersi prima, senza arrampicarsi sugli specchi. Detto questo, non credo che la sua esclusione dal Parlamento significhi la sua esclusione dalla vita politica, anzi penso che in questo momento vi sia persino un moto emotivo di solidarietà nei suoi confronti: i sondaggi lo danno in crescita di popolarità. Certo bisognerà vedere tutto questo quanto regge».
Dunque? «Berlusconi è un leader in crisi non perché è stato escluso dal Parlamento ma perché non è più in grado di costruire attorno a sé il centrodestra, anzi è un fattore di divisione. La sua decadenza è giusta perché la legge è uguale per tutti, ma lui continuerà a giocare un ruolo politico, anche se in questo momento appare più un peso che una risorsa per il suo schieramento. Però non si vede all’orizzonte un altro leader in grado di sostituirlo. Come si dice, chiodo scaccia chiodo? In questo caso non c’è».
E Alfano? «Alfano è il leader di una forza minoritaria del centrodestra che è guardata con profonda avversione da tutti quelli che votano Berlusconi. Sembra difficile immaginarlo ora come il federatore, ma ha avuto il coraggio di dire finalmente che l’interesse del Paese è più importante di quello di Berlusconi».
È d’accordo con l’iniziativa di Napolitano? «Certo: ci vuole un passaggio in Parlamento perché il quadro politico è cambiato».
Tornando a Berlusconi. Se andasse in prigione le dispiacerebbe umanamente? «Io sono garantista e mi dispiace che le persone finiscano in carcere, spesso senza aver subito nessuna condanna. Il fatto che in Italia quasi metà delle persone in carcere non sia mai stata giudicata è una condizione indegna di un Paese civile. Comunque in galera generalmente ci vanno i poveri, non i ricchi, quindi non credo che Berlusconi ci andrà».
È vero che nell’89 Berlusconi le offrì di lavorare per le sue tv? «Lo incontrai per la prima volta più tardi, quando ero capogruppo della Camera. Mi disse che ero molto bravo a spiegare la politica anche alle persone semplici, che non parlano in politichese e che gli sarebbe piaciuto se io avessi avuto una trasmissione sulle sue reti.
Gli risposi che facevo un altro lavoro.
Lui replicò: “Ma anche Ferrara, che è europarlamentare, fa un programma”.
Del resto Berlusconi è un tipo seduttivo, cerca sempre di attrarre il suo interlocutore».
Ma come mai vi incontraste? «C’era in Parlamento un provvedimento al quale erano interessati e contro il quale noi combattevamo, ma non ricordo quale fosse. Me lo presentò Gianni Letta, che avevo conosciuto come direttore del Tempo. Fu un confronto garbato ma noi continuammo a opporci a quel provvedimento. Ricordo che Berlusconi cercava di essere molto affabile».
Lei non lo è sempre stato con lui.
«La lotta politica non è una cena di gala. Anche Berlusconi non me ne ha risparmiata una. Nel 2001 scese su Gallipoli con l’elicottero e disse agli elettori: “Cacciatelo via e mandatelo a lavo- rare”». Era l’ultimo voto con il Mattarellum e lei aveva rifiutato il paracadute della quota proporzionale.
«Appunto non mi scandalizza: la lotta è lotta».
Però con Berlusconi ha fatto la Bicamerale, cioè l’inciucio.
«Nessun inciucio, tanto è vero che Berlusconi alla fine ha votato contro e ha fatto fallire la riforma. Aggiungo come è noto a chiunque abbia soltanto sfogliato gli atti parlamentari, che sono stato il presidente del Consiglio che ha cercato con maggior determinazione di fare una legge efficace sul conflitto di interessi. E io ho fatto la norma sulla par condicio in campagna elettorale per porre un argine allo strapotere televisivo di Berlusconi. Tutto questo lui lo sa e infatti alle ultime elezioni per il Quirinale mi chiamò per dirmi: “Non potremo mai votare per te perché sei il nostro avversario più irreducibile”».
A sinistra la pensano diversamente.
«Alcuni nella sinistra hanno diffuso le calunnie sugli inciuci e sugli accordi di potere con Berlusconi. Forse perché essendo una persona non facile da affrontare vis à vis alcuni hanno pensato di pugnalarmi alla schiena usando bugie. Da questo punto di vista riconosco a Renzi il fatto che lui non ha mai cercato di colpirmi a tradimento. Mi ha affrontato a viso aperto, e questo gli fa onore». Cuperlo dice che Renzi è una versione di sinistra del berlusconismo.
«Non è un’accusa priva di fondamento, ma non è un’accusa morale, bensì politica. Renzi ha una concezione della leadership plebiscitaria non lontana da quella di Berlusconi. Ma il Pd è una cosa diversa: non credo che nasceranno i circoli “Meno male che Matteo c’è” ...».
Tornando al Cavaliere che cosa la colpì di più di lui quando lo conobbe meglio? «La sua totale inaffidabilità. Quando si conclusero i lavori della Bicamerale Berlusconi fece un discorso commovente. Disse: è stato bello esserci. Dopo un mese buttò tutto all’aria. Il problema è che ogni sua parola, ogni suo gesto, sono dominati da un calcolo d’interesse».
Che consiglio darebbe a Berlusconi adesso? «Prima di tutto di prenderla con filosofia. Pensi che l’altro giorno una signora mi ha fermato e mi ha chiamato “onorevole”. Io le ho risposto: “Veramente non sono più alla Camera”. E lei, entusiasta, mi ha urlato “Bravo!”. Questo è un segnale inquietante per le istituzioni ma vuol dire anche che si vive bene pure fuori dal Parlamento. Quello che gli consiglio per il bene del Paese è di smettere di esasperare i conflitti con il suo risentimento personale. Si ricordi di essere stato un presidente del Consiglio, non faccia prevalere i rancori e le ragioni personali».

l’Unità 30.11.13
La menzogna della prostituzione libera
di Sara Ventroni


Anche la Francia ha una falsa coscienza. La proposta di legge della socialista Maud Olivier, avanzata insieme al collega del centrodestra Guy Geoffroy, sull’inasprimento delle misure per contrastare la prostituzione (con multe fino a 1500 euro per i clienti) spacca l’opinione pubblica, senza troppe sfumature di grigio.
Per noi italiani dove la questione è arrivata a toccare perfino l’etica pubblica, con sentenze ancora in sospeso la polemica risulta logora, anche se simili sono i posizionamenti che ne conseguono: sedicenti libertari di qua, presunti moralisti di là.
Questa comune reductio non ci consola. Abbiamo piuttosto la prova che il tema scandalosamente più complesso della proposta di fatturazione della prestazione sessuale, come vorrebbe la Lega, per rientrare dell’evasione fiscale invece di fornire l’occasione per uno scarto di coscienza (come da noi si ebbe, il 13 febbraio 2011) si ingolfa in una diatriba grossolana, per non dire ipocrita. E si finisce per rimpolpare la solita spaccatura mediatica tra paladini delle libertà, secondo i quali la prostituzione (volontaria) rientrerebbe nella sfera del libero arbitrio ed è diritto dell’individuo disporre liberamente del proprio corpo, anche piazzandolo sul mercato come una merce qualunque; e i missionari delle buone intenzioni, quelli che potremmo dire, semplificando credono di risolvere la questione punendo i clienti ma sorvolando sul fatto che la prostituzione non è sempre un fenomeno coatto. O meglio: che l’aspetto coatto del fenomeno non riguarda solo la condizione di indigenza economica di chi offre il servizio (spesso sotto schiavitù) ma anche quella (più versatile e meno quantificabile) di chi lo richiede.
Non se ne esce per opposte fazioni. Il caso francese è però esemplare: nel dibattito c’è almeno un convitato di pietra e qualche menzogna di troppo. Proprio come da noi.
Al netto di un giudizio sulla bontà o meno della proposta di legge colpisce la falsificazione (non tutti, come l’indimenticabile escort Terry Schiavo, sono in buona fede) delle battaglie condotte finora dalle donne, per cui le sex workers di oggi sarebbero la compiuta incarnazione delle lotte di liberazione delle donne di ieri.
Il corpo che le donne hanno provato a liberare era quello della consapevolezza, non quello dell’alienazione. Era un corpo su cui si scrivono le memorie, non un codice a barre. Era il corpo desiderante, non il corpo dimenticante. Un corpo consapevole, non un’utility o un’applicazione. Le donne non si sono liberate dal dominio monopolistico del patriarcato per piazzare il loro corpo, a partita Iva, sul libero mercato. Non siamo all’accumulazione selvaggia del capitale.
La liberazione di cui hanno parlato, e parlano, le donne, è una liberazione reciproca. È l’idea di un corpo come identità, non certo come una proprietà. Un corpo che ha il suo differente, e il suo limite. Un corpo in relazione, insomma. Non certo un corpo reazionario, onnipotente.
E dunque il tema della libertà che sul corpo delle donne ancora suona e risuona, reclamando una replica dagli uomini è stato posto all’attenzione del mondo non certo bruciando il reggiseno, ma toccando il limite che si scopre sempre dentro la relazione.
Certo, le narrazioni biotecnologiche alimentano il mito, pret a porter, del corpo come protesi o accessorio. Implementabile. Da manomettere. Da mettere a frutto, con chirurgica libertà. Qualcosa di cui si dispone, come un dispositivo fornito in modo neutro al momento della nascita. Nessuna meraviglia, dunque, se per una parte del pensiero corrente, anche neofemminista, la prostituzione volontaria possa sembrare una rottura di catene. O peggio: un lavoro normale: siamo nell’etica, e nell’estetica, dei tools: ogni cosa trova ragione nell’essere strumento di qualcosa di sconfinato, profitto compreso.
Per altri però, anche se non per tutti, si tratta, invece, di un’espressione del capitalismo, con altri mezzi.
Per questo ci resta il sospetto che quando la piccola Mafalda proclamava con orgoglio «Io sono mia» non intendeva rivendicare il possesso dei mezzi di produzione. Non voleva mettersi in proprio. Non aspirava a sfruttarsi meglio, senza versare la percentuale. Voleva dire: la mia libertà ha dei limiti che il mercato non può capire.

Corriere 30.11.13
Abbiamo una linea sui migranti da Est?
di Fiorenza Sarzanini


Sono un milione i cittadini dell’Est europeo che negli ultimi dieci anni si sono trasferiti in Gran Bretagna.
Troppi, secondo il premier David Cameron, che ha definito questo esodo «la più grande migrazione in Europa in tempo di pace». Il prossimo 1° gennaio entrerà in vigore l’accordo che concede totale libertà di movimento a romeni e bulgari.
«Sono preoccupato», dichiara il primo ministro britannico e subito dopo chiede nuove regole, limitazioni forti che impediscano flussi massicci di persone che decidono di andare a vivere e lavorare in un nuovo Paese.
Ufficialmente Cameron non lo dice, ma la scelta di parlare alla vigilia del vertice di Vilnius non appare affatto casuale. Perché l’accordo operativo dal prossimo anno riguarda Romania e Bulgaria, ma è alla Moldavia che adesso si guarda. E il motivo sembra facilmente spiegabile, visto che proprio in Lituania il governo di Chisinau ha firmato il trattato di Associazione che prevede la cooperazione economica con l’Europa. Non è un mistero che la maggior parte dei cittadini di quello Stato abbia il passaporto romeno anche grazie alla decisione presa nel 2010 dall’allora presidente Trian Basescu di invitare i moldavi a recarsi presso l’ambasciata di Bucarest per farsi rilasciare il documento di identità.
Non ci sono dati attendibili, ma le stime della fondazione Soros parlano di almeno 220 mila moldavi che tra il 1991 e il 2011 avrebbero ottenuto la doppia cittadinanza. E il «Dossier statistico immigrazione 2013» realizzato da Idos assicura che 190 mila già vivono in Italia. Un quadro che nei prossimi mesi rischia naturalmente di modificarsi con una migrazione che forse non sarà epocale come paventa Cameron, ma certamente avrà riflessi importanti.
Le reazioni alla presa di posizione del premier britannico sono state, come era prevedibile, di totale chiusura. Almeno apparentemente. Secondo il presidente della Commissione europea, Manuel Barroso, la libertà di movimento delle persone «è uno dei principi più importanti», mentre la vicepresidente Viviane Reding sostiene che si tratta di un principio «non negoziabile, il pilastro fondamentale del mercato unico, un mercato unico di cui la Gran Bretagna si avvantaggia quando si tratta di libertà di movimento di capitali, beni e servizi. O si prende tutto o non si prende niente».
Sin qui le dichiarazioni ufficiali. Adesso il vero problema da affrontare riguarda che cosa diranno e soprattutto che cosa faranno i singoli Stati membri. Quale posizione prenderà la Francia, che in passato aveva mostrato di voler utilizzare la mano pesante nei confronti degli immigrati irregolari dall’Africa arrivando a bloccare i treni provenienti dal nostro Paese? E quale sarà la scelta della Germania, che più volte ha polemizzato con noi proprio in materia di accoglienza dei profughi?
Ed ecco il nodo da sciogliere: che cosa farà l’Italia? Il rischio, proprio come accade per chi fugge dal Nord Africa, è che una posizione non chiara o troppo indulgente del governo apra le porte a nuovi flussi migratori che non siamo in grado di controllare e tanto meno di governare. Il pericolo è una massiccia ondata di persone che arrivano in cerca di fortuna e si aggiungono alle migliaia di disperati senza le condizioni minime di vivibilità.
Nei giorni scorsi i tecnici del ministero del Lavoro hanno consegnato il parere sulle quote di migranti regolari e hanno dichiarato che «l’offerta garantita dai lavoratori stranieri già presenti in Italia è più che sufficiente» tenendo conto dei dati relativi al secondo trimestre 2013 secondo cui «oltre 500 mila lavoratori stranieri in cerca di lavoro». E hanno aggiunto: «Gli unici segnali positivi riguardano il segmento dei servizi alla persona, con una domanda in crescita anche nella fase di crisi, ma che gli attuali livelli di disoccupazione possono sostanzialmente compensare».
Quanto basta per comprendere che questa volta l’Italia deve far sentire la propria voce in maniera forte e chiara e scongiurare così il pericolo di trovarsi sola a far fronte a una nuova emergenza. Anche perché, come si è visto dopo la tragedia di Lampedusa, nella fase critica l’Europa si mostra solidale ma quando si tratta di intervenire in maniera concreta nessuno accetta di fare davvero la propria parte

l’Unità 30.11.13
CasaPound e Alba Dorata: un’alleanza in camicia nera
L’incontro ieri a Roma con il partito nazista greco
«Ascoltiamo solo una testimonianza di lotta»
In Grecia i fondatori accusati di omicidio
di Luciana Cimino


ROMA La ferita aperta con i funerali del boia delle Fosse Ardeatine, Eric Priebke non si è neanche spenta che già la Capitale, città medaglia d’oro della Resistenza, si ritrova a fare i conti con un altro appuntamento indigesto. Ieri sera il centro sociale di estrema destra, CasaPound, ha tenuto un incontro con Alba Dorata. Relatori del partito xenofobo greco Apostolos Gkletsos, ex deputato, portavoce del segretario e membro del Comitato Centrale di Alba Dorata, e Konstantinos Boviatsos, militante del movimento e responsabile di Radio Bandiera Nera Hellas. I camerati di Casapound dicono che l’obiettivo dell'incontro è «ascoltare una testimonianza di lotta». E parlano di Alba Dorata come «uno spauracchio di dimensioni europee, tutti ne parlano ma pochi si premurano di capire davvero perché Alba Dorata è oggi data dai sondaggi come il primo partito di Grecia». E poi la dietrologia: «sarà l’occasione per capire cosa c'è di vero dietro l’accusa di aver costituito un' associazione criminale che ha portato in carcere alcuni esponenti del movimento».
Due mesi fa, a seguito dell'omicidio del rapper antifascista Pavlos Fyssas, ben 36 esponenti del partito di estrema destra sono stati arrestati. Tra loro il fondatore e segretario nazionale del partito Nikólaos Michaloliákos , il portavoce nazionale Ilias Kasidiaris, il vicepresidente nazionale Christos Pappas e tre deputati. Non è la prima volta che i «fascisti del terzo millennio» (come si autodefiniscono i militanti di CasaPound) manifestano simpatia per il partito neonazista greco. In questi ultimo mesi striscioni a sostegno di Alba Dorata sono stati appesi a piazza Vittorio, allo stadio Olimpico nella curva della Lazio, di fronte al consolato greco di Firenze. Una sorta di lento avvicinamento concluso con l'incontro di ieri sera. In prossimità dell'iniziativa il deputato del Pd Emanuele Fiano ha inviato un appello al prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, per «valutare e considerare l'indesiderabilità degli ospiti greci, onde eventualmente riuscire ad impedire tale incontro».
Mentre i deputati di Sel, Ileana Piazzoni e Massimo Cervellini hanno annunciato la presentazione di una interrogazione parlamentare al ministro dell'Interno Angelino Alfano. «Dopo le recenti, drammatiche vicende verificatesi intorno alla figura di Priebke scrivono Roma non può tollerare un incontro con esponenti di Alba Dorata, indipendentemente dal profilo dell' iniziativa». «Ci aspettiamo da parte del Governo una ferma presa di posizione per rivendicare la matrice antifascista di Roma, che esilia ogni forma di propaganda di ideologie estremiste».
Due ore prima dell'inizio i neofascisti stazionavano già davanti alla porte della palazzina di via Napoleone III, vicino la stazione Termini, sede di Casapound. Appesa alle finestre una gigantesca bandiera greca. La Questura ha previsto un dispositivo di sicurezza e sorveglianza per evitare eventuali problemi di ordine pubblico o blitz di mo-
vimenti antagonisti. «Rispetto ai funerali di Priebke l'incontro di oggi è passato più sotto silenzio perchè il legame del boia delle SS con Roma era diretto, in questo caso è indiretto», spiega Vito Francesco Polcaro, presidente Anpi Roma. «Il problema ci sarà finché Casapound non verrà dichiarata fuorilegge e ci sono tutti gli elementi per farlo, ma spetta alla magistratura.
La presenza di Alba dorata andava vietata, non solo evitata, perché non è solo una potente apologia del fascismo e del nazismo ma è un gruppo criminale, quindi ben al di sopra delle leggi Scelba e Mancino».

l’Unità 30.11.13
Massimo Salvadori
«Tra noi e Mosca un matrimonio tra due illiberalità»
di Umberto De Giovannangeli


Evidentemente quello tra la Russia di Vladimir Putin e lo Stato italiano è un matrimonio tra illiberalità, per quanto il tasso di illiberalità in Russia sia molto più profondo rispetto a quello esistente in Italia, e quindi non comparabili». A sostenerlo è Massimo Salvadori, tra i più autorevoli storici italiani, professore emerito all’Università di Torino, ordinario di Storia delle dottrine politiche». Solo i cittadini italiani al momento possono adottare bambini russi, poiché l'Italia ha in primo luogo con la Russia un accordo bilaterale in merito, poi «non riconosce i matrimoni tra persone dello stesso sesso e, quindi, non c'è bisogno di modificare il trattato esistente». Ad affermarlo è Pavel Astakhov, difensore civico dei diritti del fanciullo presso il Cremlino. Professor Salvadori, quale riflessione fare su questo virgolettato?
«Qui occorre fare una premessa di ordine generale che però ha un preciso rapporto con i fatti specifici di cui andiamo parlando. La premessa è che Paesi come la Russia, ma potremmo subito estendere il discorso anche alla Cina, sono Paesi che non hanno mai conosciuto nella loro storia lo sviluppo dei principi delle libertà individuali e collettive. Basti pensare che Paesi come Russia e Cina sono passati da regimi di dispotismo tradizionale al dispotismo totalitario, e da ultimo a forme di neodispotismo che in Russia si ammanta di una superficiale cappa di democrazia, che nasconde in realtà una forma di neoautoritarismo, e in Cina di un connubio mostruoso tra dittatura politica comunista e capitalismo selvaggio. Tornando alla Russia di Putin, è evidente che la natura delle sue istituzioni e del modo in cui sostanzialmente funzionano fa sì che in essa non vi è spazio alcuno per le libertà personali. E non vi è da meravigliarsi se anche su un terreno sensibile come quello delle adozioni dei bambini, si applichino dei criteri rispondenti ai principi di un dominante conformismo etico e politico. E qui veniamo a ragionare sul perché Mosca consenta volentieri all’adozione di bambini russi da parte di famiglie italiane...».
Perché questa scelta «privilegiata»?
«Essa si determina in base ad una difesa di quel conformismo che manifesta ossequio alla avversione decisa nei confronti delle famiglie gay, avversione che è condivisa sia dallo Stato putiniano che dalla Chiesa ortodossa. Di questo “privilegio” non dovremmo menar vanto. Tutt’altro. La scelta fatta dalla Russia sulle famiglie italiane a scapito, ad esempio, di quelle inglesi o francesi che appartengono a Stati che hanno riconosciuto la legittimità delle unioni omosessuali, ha molto a che fare con il fatto che lo Stato italiano, obbedendo a sua volta a principi contrari alle frontiere più avanzate della coscienza civile, si oppone alle unioni gay, alle quali si addebita di non essere garanti di quel livello di moralità richiesto per poter utilmente e felicemente allevare bambini adottivi. Ma qui c’è da fare una distinzione sostanziale...».
Quale, professor Salvadori?
«Ho parlato non a caso di Stato italiano perché, per fortuna, in Italia esiste una parte cospicua e significativa della popolazione che condivide in materia di matrimonio e di adozioni, le posizioni che sono state sanzionate in Gran Bretagna e in Francia. Per non citare altri Paesi, non solo europei».
Per restare all’Italia e alla distinzione da lei operata, si può affermare che, almeno su questo punto, la società civile è più avanzata dello Stato?
«Direi di sì. Oggi ci troviamo di fronte al fatto che la società si è profondamente secolarizzata e che nell’ambito di questo processi si è fatta avanti con forza la rivendicazione da parte degli omosessuali di trovare un riconoscimento legale che si esprima anche nel matrimonio».
Tornando alla scelta russa...
«È augurabile che la scelta della Russia a favore dell’Italia, per i motivi che abbiamo cercato di chiarire, susciti nel nostro Paese una reazione adeguata al vulnus inferto da questa offerta, che ha le sembianze di un fiore, ma la sostanza di una cattiva erbaccia. D’altro canto, la battaglia per l’affermazione di un diritto è sempre accompagnata, quando si è giunti a un certo punto di maturazione, dalle mobilitazioni di tutti coloro che rivendicano quel nuovo diritto, mirando a cambiare lo stato delle cose». Professor Salvadori, c’è chi in Italia, ha affermato, come il vice presidente del Senato, Maurizio Gasparri, che sulle adozioni abbiamo ricevuto una lezione dal Cremlino.
«Quegli italiani che sentono la necessità di andare a lezione di morale e di diritti dal “professor” Putin, rappresentano un pericolo pubblico».
Una delle Pussy Ryot spedita in Siberia, la persecuzione degli omosessuali... Perché nel neoautoritarismo putiniano c’è questo profilo sessuofobico?
«Lo spiego in base al fatto che un Paese, come la Russia, che non è passato attraverso l’esperienza del liberalismo moderno, è portato a riproporre “valori” improntati a sentimenti e concezioni proprie di un conformismo oscurantista».

Repubblica 30-11.13
Italia Russia
Quell’identità di vedute che non deve rallegrarci
di Chiara Saraceno


L’ADOZIONE internazionale negli ultimi anni è entrata sempre più a far parte dei rapporti e degli accordi tra Stati. In particolare, i paesi di nascita dei bambini sono diventati un interlocutore non puramente formale del processodi adozione.
DETTANO requisiti e regole agli aspiranti genitori, alle associazioni cui si appoggiano, ai paesi di cui sono cittadini. D’altra parte, anche nei paesi di provenienza degli aspiranti genitori il processo di adozione è regolato in modo più o meno stringente. Perché stupirsi che anche il paese di nascita ponga condizioni sulla qualità genitoriale a difesa dei bambini che “dona”?
Il fatto è che quando si pongono criteri di qualità entrano in gioco valutazione di tipo valoriale, su ciò che è una famiglia, su chi, indipendentemente dalle qualità personali, può diventare genitore, in alcuni casi anche di che religione deve essere. La decisione di Putin di stabilire accordi di adozione solo con l’Italia, perché nel nostro paese possono adottare solo le coppie sposate e non quelle conviventi, le persone sole, le coppie omosessuali, segnala innanzitutto che i sistemi giuridici dei due paesi condividono la stessa, ristretta, definizione formale di famiglia e di accesso alla genitorialità legittima.
Una definizione che, nella maggior parte dei paesi occidentali (e in molte chiese protestanti) è viceversa diventata più plurale, più attenta alla qualità dei rapporti che non alla adesione a categorie pre-fissate. Anche se consente qualche possibilità in più di adottare a chi rientra in quei criteri, non credo che dobbiamo rallegrarci di questa identità di vedute con un paese che ha una concezione per lo meno disinvolta dei diritti civili e di libertà, inclusi i diritti dei bambini orfani o abbandonati che troppo spesso sono ancora in istituti sovraffollati e poveri di risorse. Credo, tuttavia, che non si possano considerare i paesi di nascita come privi di diritti e responsabilità verso i bambini di cui consentono l’adozione internazionale e che occorra rispettarne la cultura.
Non a caso, in paesi in cui è consentito le persone omosessuali possono sposarsi, a queste coppie l’adozione è consentita solo nella forma nazionale, per non urtare la sensibilità dei paesi che non accettano questa forma di unione e genitorialità, esercitando una forma di imperialismo culturale. Èil caso, ad esempio, dell’Olanda. Soprattutto, occorre evitare di innescare giochi di potere tra paesi, di cui i bambini, più che la posta, rischiano di diventare lo strumento, come sembra stia avvenendo nelle relazioni russo-statunitensi.

l’Unità 30.11.13
«Anche noi suore iscritte alla Cgil»
L’archivio del più grande sindacato è ora consultabile on line
Una miniera di immagini e documenti, alcuni curiosi e inediti: dalla caricatura
di Lama fatta da Del Turco fino a Di Vittorio con Puskás
di Bruno Ugolini


ROMA «CARI COMPAGNI, CHE COSA DOBBIAMO FARE CON QUESTE SUORE CHE INTENDONO CHIEDERE LA TESSERA DELLA CGIL?». LA SINGOLARE RICHIESTA È CONTENUTA IN UNA LETTERA SPEDITA IL 7 LUGLIO DEL 1948, a una settimana dall’attentato a Togliatti, dalla Camera del lavoro di Sondrio alla segreteria generale della Cgil cioè a Giuseppe Di Vittorio. L’epistola, con oggetto «iscrizione religiosi», informa che «Le rev. Suore delle Case di cura private di questa Provincia, hanno chiesto l’iscrizione alla nostra Camera confederale del lavoro...».
Tali suore, si aggiunge, «non hanno alcun trattamento economico da parte delle singole amministrazioni e di conseguenza non sono sottoposte ai doveri del personale dipendente, né godono dei diritti e benefici del personale stesso...». La Camera del lavoro conclude di voler conoscere, qualora tale richiesta d’iscrizione venisse accettata, «in quale categoria dobbiamo inquadrarle».
Il suddetto documento, insieme a molti altri che costellano la lunga vita del maggior sindacato italiano, mi è stato segnalato da Ilaria Romeo, la giovane segretaria responsabile dell’Archivio storico nazionale della Cgil. Una miniera di relazioni, comunicati, lettere, verbali consultabili da chiunque, in qualche misura, anche on line all’indirizzo www.cgil.it/Organizzazione/ArchivioStorico/ArchivioStorico.aspx.
NOVEMILA BUSTE
Sono, spiega Ilaria, circa 9.000 buste per 950 metri lineari. Un chilometro di materiali che coprono un arco cronologico dal 1944 ad oggi. Sono presenti anche fondi personali dedicati a Bitossi, Lama, Marianetti, Del Turco, Pizzinato, Trentin.
Sono così rintracciabili documentazioni importanti come il verbale della riunione del comitato direttivo del 12-13 febbraio del 1984 dedicata all’aspro scontro sulla scala mobile e a una trattativa col governo di Bettino Craxi. Con la Cgil divisa tra comunisti e socialisti. Leggiamo così che il segretario confederale Gianfranco Rastrelli, aprendo la riunione, annuncia come «...ad ogni modo noi alle 2 e mezzo ci presenteremo con queste due opinioni differenziate, di una componente e di un'altra componente, poi mi pare che anche il compagno Lettieri, per informazione, è d'accordo con noi nel senso che non ci sono le condizioni per firmare l'accordo...». Il verbale prosegue con un breve intervento di Lama e le due relazioni di Militello e Vigevani (purtroppo troncata nel testo on line).
Un archivio ricco di spunti e informazioni, strumento importante a disposizione del popolo del web. Utile per tanti giovani che poco o nulla conoscono delle vicissitudini del sindacato italiano. Tra le cose gustose, segnalate da Ilaria Romeo, le vignette presenti nel fondo dedicato a Ottaviano Del Turco. Ottaviano è un dirigente socialista conosciuto anche per la sua passione per l’arte, purtroppo incappato in vicende giudiziarie dalle quali si spera possa uscire dopo un primo severo livello di giudizio. Tra le vignette scoperte nell’archivio una è dedicata a Luciano Lama proprio nei giorni affannati della disputa sulla scala mobile. A dimostrazione che l’aspra polemica non faceva sparire i rapporti di amicizia. Il disegno porta il titolo «LAMAnia» e mostra Luciano con l’immancabile pipa che nel fumo disegna una scritta: «pregasi restituire quattro punti». Era un ciclo di immagini: LAMAlinconia, LAMArcord, LAMAledizione, LAMAschera, LAMAgia, LAMAssima, LAMAretta, LAMAtematica.
Altri materiali si soffermano sul «volto umano» della Cgil quando fin dal suo primo congresso, nel 1947, organizzava, a latere, un torneo di calcio. Ed ecco le foto di Di Vittorio che premia i finalisti oppure che stringe la mano a Ferenc Puskás, bomber della squadra nazionale di calcio dell’Ungheria ed al mediano della squadra Jozsef. La Cgil, in fondo nasceva così accompagnando l’impegno per la ricostruzione, il suo «piano del lavoro», a iniziative di svago popolare. Erano i tempi di una crescente solidarietà di massa, molto prima del dilagare dell’egoismo possessivo.

il Fatto 30.11.13
Quei festini dal prof. tra droga, alcol e sesso
Alessandro Serretti, luminare di psichiatria a Bologna
È indagato per aver fornito agli studenti anche Mdma
di David Marceddu e Giulia Zaccariello


Un cerchio magico di allievi specializzandi che si riuniva non solo per discutere delle ultime ricerche scientifiche, ma anche per festini a base di alcol e droga, persino cocaina e mdma. Le voci giravano da molti mesi all’Ottonello di Bologna, uno dei centri di eccellenza dell’università più antica del mondo, sede della scuola di specializzazione in psichiatria. Tra i suoi corridoi ci sono 32 giovani medici, le migliori promesse del settore. E un professore di fama internazionale, Alessandro Serretti, che, secondo la denuncia di alcuni suoi studenti, avrebbe creato un gruppo di favoriti, a cui erano riservate scorciatoie per ottenere pubblicazioni e per avere i turni migliori in corsia. Inoltre, nel gruppetto degli “eletti”, c’erano anche delle ragazze con cui il professore avrebbe avuto delle relazioni sessuali, che alcuni sospettano non fossero disinteressate. Tutte accuse da dimostrare, sorrette tuttavia da denunce messe nero su bianco da molti allievi.
GIÀ ALL’INIZIO dell’estate, le voci insistenti si sono trasformate in un’inchiesta della procura, di cui è titolare il pm Rossella Poggioli, che, dopo la denuncia di due studentesse, segnalata dalla direttrice della scuola stessa, ha iscritto Serretti nel registro degli indagati. L’ipotesi di reato è utilizzo e l'induzione all’uso di droga. Sul resto delle accuse, come i presunti favoritismi in cambio di sesso, non ci sono riscontri penalmente rilevanti. Ma i mormorii contro il luminare della psichiatria – 47 anni, marchigiano di Senigallia e laureato alla Cattolica di Roma, un passato al San Raffaele di Milano, oltre 340 pubblicazioni scientifiche all’attivo – non si sono fermati allo sfogo di due “escluse”. Oltre alla prima denuncia, a ottobre è arrivato infatti alla magistratura un esposto firmato da 25 specializzandi (sui 32 totali), girato ai magistrati direttamente dal rettore Ivano Dionigi. Un atto dovuto, quello del capo dell’Alma Mater: “Tutti i pubblici ufficiali, medici compresi, in presenza di fatti che potrebbero essere penalmente rilevanti hanno l’obbligo di informare immediatamente la procura, per non rispondere del reato di omissione di atti di ufficio”, ha spiegato sin dal primo momento il procuratore aggiunto Valter Giovannini. Nonostante l’indagine, per ora Serretti rimane al suo posto di lavoro: “Se gli addebiti ipotizzati in capo al docente dovessero essere accertati dalla magistratura – ha detto il rettore – la cosa sarebbe gravissima e inaccettabile e l’università ne trarrà le debite conseguenze”. I carabinieri intanto hanno iniziato a sentire tutti i 25 denuncianti. La procura si muove con cautela, decisa a tutelare prima di tutto gli allievi della scuola di specializzazione, dove il clima è tutt’altro che sereno. Contattato telefonicamente e via email dal Fatto per una replica, il professore Serretti per ora non ha risposto.
L’ESPOSTO dei 25 allievi contiene accuse pesantissime nei suoi confronti: “Durante una festa a casa sua, incitava gli specializzandi a bere molto alcol e criticava chi non beveva abbastanza”, si legge nel documento, pubblicato in parte sulle pagine del Corriere di Bologna. “Era inoltre solito palpeggiare specializzande o studentesse, alcune delle quali subivano perché troppo ubriache. È stato inoltre visto in presenza di studenti in possesso di droghe che consumava lui stesso o offriva insistentemente”

l’Unità 30.11.13
Spd e Grosse Koalition: i tormenti della base
Gli iscritti avranno tempo fino al 12 dicembre per votare il referendum
I leader socialdemocratici nelle sezioni di partito per convincere gli scettici
Il «no» di Rudolf, operaio: «Combattiamo Merkel Perché dovremmo sostenerla al governo?»
di Gherardo Ugolini


Lo storico giornale della socialdemocrazia tedesca Vorwärts! («L’Avanti!») ha stampato oltre 500mila copie di un’edizione speciale in cui si pubblica il testo integrale del «contratto di coalizione», le 185 pagine sottoscritte da Merkel, Gabriel e Seehofer che scandiranno nella prossima legislatura l’agenda della nuova Große Koalition. Sarà spedito a casa a tutti i 473mila iscritti della Spd affinché lo possano leggere con calma, valutarlo e discuterlo punto per punto nelle sezioni. Insieme alla copia i tesserati del partito riceveranno nei prossimi giorni anche una scheda per decidere se dire «Ja» oppure «Nein» all’esecutivo di larghe intese: avranno tempo fino al 12 dicembre per votare e spedire alla sede centrale di Berlino.
Dopo lo spoglio delle schede il giorno 15 verrà comunicato il risultato definitivo. Perché il voto sia ritenuto valido dovrà partecipare almeno il 20% degli aventi diritto. Se l’esito della consultazione sarà positivo, il prossimo 17 settembre Angela Merkel potrà presentarsi al Bundestag per il voto di fiducia e dare il via nuovo governo, la terza edizione di Große Koalition nel Dopoguerra, la seconda sotto la sua guida.
Un referendum tra i tesserati per approvare un accordo di governo è una novità assoluta della politica tedesca e forse europea, un esperimento di democrazia diretta fortemente innovativo per un partito come l’Spd che è solito utilizzare procedure decisionali tradizionali, tanto è vero che l’ipotesi delle primarie per la scelta dei candidati, pur ventilata in passato, non ha mai fatto presa da queste parti.
VIAGGIO TRA I MILITANTI
Basta mettere il naso nel Willy-Brandt-Haus, la centrale dei socialdemocratici, dislocata nel centro di Kreuzberg, quartiere multietnico della capitale tedesca, per rendersi conto della fibrillazione di queste ore. La macchina organizzativa del partito si è messa in moto a pieno regime. Nell’atrio in cui campeggia la statua di Willy Brand, vera icona della socialdemocrazia tedesca, c’è un via vai di funzionari che vengono dalle sezioni per prendere materiale informativo. Sui tavolini e negli scaffali sono disponibili opuscoli che spiegano nel dettaglio quanto di buono (cioè di socialdemocratico) ci sia nell’accordo programmatico e perché valga la pena tentare un’altra volta l’avventura della Grande Coalizione. La linea ufficiale è quella dettata in un’intervista televisiva dal presidente Gabriel: «Nell’accordo ci sono tante cose buone che miglioreranno le condizioni di vita dei cittadini. Perché i socialdemocratici dovrebbero essere contrari? Non ho dubbi che la base del partito accetterà la coalizione».
In realtà l’esito del referendum non è affatto scontato. E non a caso tutti i leader del partito hanno in programma nei prossimi giorni un tour de force di incontri con sezioni e federazioni di ogni parte della Germania per convincere una base molto scettica se non proprio riottosa. Non ci sono sondaggi attendibili, ma sono soprattutto i ragazzi della federazione giovanile, gli Jusos, a sparare a zero contro la prospettiva di finire schiacciati nell’abbraccio mortale del partito con la Merkel. Su Twitter e Facebook rimbalzano commenti negativi: chi accusa i leader di essersi venduti per un tozzo di pane, chi parla di «regime a partito unico». I militanti che passano per la sede berlinese dell’Spd formulano per la verità ragionamenti più pacati. «Non capisco perché respingere un accordo che recepisce i nostri punti programmatici come il salario minimo e la doppia cittadinanza per gli stranieri. E poi se rinunciamo, alle prossime elezioni prenderemmo ancora meno voti», ci dice Thomas, insegnante di mezza età, iscritto all’Spd fin da ragazzo. È un approccio condiviso da Helga, combattiva pensionata, per la quale «la pancia dice no, ma la ragione è per il sì». Forse la centrale berlinese non è rappresentativa degli umori del partito, ma quasi tutti dicono che voteranno «sì», pur tra molti dubbi e recriminazioni. L’unico «no» viene da Rudolf, operaio di 45 anni: «Abbiamo combattuto la Merkel in campagna elettorale e ora dovremmo sostenerla al governo? I nostri dirigenti avrebbero dovuto trattare con Verdi e Linke anziché portare il partito in questo vicolo cieco!».

Corriere 30.11.13
La «Merkel rossa» e il referendum sulla Grande Coalizione
di Paolo Lepri


Il referendum tra i 474.000 iscritti alla Spd sta per partire. La posta in gioco è molto alta. Si tratta di far nascere il nuovo governo o di ucciderlo prima ancora che venga alla luce. «Non sperate, votando no, che poi arrivi io» è stato il senso delle parole con cui la governatrice della Nord Renania-Vestfalia, Hannelore Kraft (vista da molti come la vera anti-Merkel di un futuro a breve o medio termine), si è schierata con il presidente del partito Sigmar Gabriel, l’uomo che ha voluto fortemente l’accordo per la grande coalizione e ha deciso di consultare la base. «Non mi candiderò mai, mai, come sfidante cancelliere, resto nel nostro Land, di questo potete fidarvi» ha detto ieri la seconda donna più potente della Germania, parlando a una riunione del gruppo parlamentare ma rivolgendosi indirettamente a tutto il mondo socialdemocratico. È probabile che Gabriel abbia accolto con un grande sospiro di sollievo questa promessa, giunta da una leader politica che non aveva in un primo tempo nascosto le sue perplessità sulla strategia delle larghe intese. Per i socialdemocratici saranno comunque giorni impegnativi. La decisione di affidarsi al responso non scontato degli iscritti, che verrà annunciato tra due settimane, è stato un rischio calcolato. I socialdemocratici hanno bisogno di un mandato ampio per la scelta in un certo senso obbligata della grande coalizione. La scommessa è quella di riuscire a spostare a sinistra un’alleanza che è quasi indispensabile anche per lo schieramento merkeliano, uscito dal voto senza una maggioranza assoluta e senza poter più contare sullo junior partner , il Partito liberale del ministro degli Esteri Guido Westerwelle. La Spd sa di correre il rischio di venire annacquata dal matrimonio con cristiano-democratici e cristiano-sociali e di poterne pagare il prezzo in termini di consenso (come avvenne nel 2009 dopo la prima grande coalizione a cui ha partecipato) ma non dispone attualmente delle forze per rigenerarsi e superare la sua crisi di vecchiaia, restando all’opposizione. Il suo futuro si basa tutto sulla capacità di indirizzare una serie di scelte del futuro governo. Sarà un’impresa non facile. E non bisognerà dimenticare l’Europa, nella dialettica quotidiana, magari in cambio dei successi ottenuti nel campo delle politiche sociali. In ogni caso, il referendum potrà essere anche uno strumento per dare una scossa a un partito non in buona salute, come è apparso chiaro anche al recente congresso di Lipsia e rivitalizzare più in generale una democrazia, come quella tedesca, che ripropone spesso dinamiche un po’ usurate. La crisi della politica tradizionale non è un fenomeno da sottovalutare, in nessun luogo, e soprattutto in un’epoca di risorgente pressione delle forze antisistema. Le critiche di chi storce il naso, sostenendo che il destino di un Paese sarebbe affidato a poche centinaia di migliaia di persone, sono facilmente rovesciabili. Vogliamo far decidere sempre tutto ai vertici dei partiti? Il vento delle primarie soffia finalmente anche in Germania.

il Fatto 30.11.13
Palestina, l’olivo della discordia
Coltivazione a rischio per l’espasione dei coloni
In pi l’olio non supera gli standard
di Alessio Schiesari


Da simbolo di pace ad albero della discordia. L’olivo è al centro di un caso diplomatico che coinvolge Palestina, Unione Europea e Israele. L’Autorità nazionale palestinese ha deciso di sospendere la propria candidatura al Consiglio Oleicolo Internazionale, un’organizzazione sotto simbolo Onu che assiste e promuove la produzione di olio e olive da tavola nei Paesi in via di sviluppo. La decisione è arrivata perché i governi di Germania e Regno Unito si sono opposti alla candidatura palestinese. Gli Stati europei partecipano al Consiglio oleicolo collettivamente ed è sufficiente un solo veto perché l’Ue si opponga a una nuova adesione. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, Germania e Regno Unito sono contrarie alla candidatura palestinese perché, nel memorandum che ha portato all’apertura dei colloqui di pace, Abu Mazen si è impegnato a non aderire a nessuna organizzazione internazionale senza l’assenso israeliano. Il Consiglio oleicolo è un organo meramente tecnico che potrebbe risolvere molti problemi al-l’economia della West Bank. L’olivo e i suoi derivati sono il secondo prodotto più esportato dai Territori palestinesi, ma la coltivazione è messa a repentaglio dal-l’espansione degli insediamenti israeliani. Secondo l’Onu, dall’inizio del-l’anno i coloni hanno distrutto 10 mila olivi e, in base alle stime dell’organizzazione internazionale Oxfam, dal ’67 ad oggi sarebbero addirittura 800 mila gli alberi sradicati o bruciati per mano israeliana. Molte Ong hanno puntato sul-l’export di olio per dare ossigeno all’economia dei territori occupati. Oxfam ha dedicato un programma a quest’attività, che nel periodo della raccolta dà lavoro a migliaia di donne e giovani. Le esportazioni sono frenate dai limiti tecnici: raramente l’olio palestinese ottiene la denominazione extra vergine a causa dei valori di acidità, che superano gli standard internazionali. I contadini sono costretti a vendere le olive alle fattorie israeliane, spesso di proprietà degli stessi coloni, per produrre olio che viene venduto come “Made in Israel”. Le attività del Consiglio puntano proprio a questo: migliorare la produzione, rendendo extra vergine un olio normale, e ad aprire canali di vendita nei Paesi più sviluppati. L’Eeas (European External Action Servi-ce) ha confermato che “erano in corso negoziati interni sulla candidatura della Palestina”, ma la decisione dell’Anp ha anticipato il responso da parte dell’Europa.

Corriere 30.11.13
In Cina fiorisce il mercato nero (delle ricerche scientifiche)
di Anna Meldolesi


la Ricerca a Pechino un Boom (poco Etico) da Gran Bazar Vuoi firmare uno studio di oncologia o di nanotecnologie ma non hai il tempo di fare gli esperimenti? In Cina puoi, basta pagare. Nella seconda superpotenza mondiale della ricerca è fiorito un inquietante mercato nero delle pubblicazioni scientifiche, a cui Science ha dedicato un’inchiesta di 5 mesi. La scienza cinese è cresciuta in modo impressionante grazie al ferreo sostegno di Pechino e all’abnegazione di una moltitudine di ricercatori di talento. Troppo in fretta, però, perché l’etica potesse tenere il passo. Nell’ultimo decennio il numero degli studi made in China pubblicati ogni anno sulle riviste internazionali è quintuplicato, passando da 40.000 a quasi 200.000. Ma almeno una parte di questo boom è avvenuto con modalità da suk più che da laboratorio. Da una parte ci sono i ricercatori che vogliono fare carriera, e per riuscirci in un ambiente competitivo devono pubblicare un certo numero di studi nell’arco di 5 anni. Dall’altra ci sono ghostwriter e gruppi di ricerca disposti a cedere i propri dati sperimentali. In mezzo i broker, che attraverso blog e chat offrono un campionario di lavori belli e pronti a cui mancano solo le firme degli autori. Il prezzo per diventare firmatari può arrivare a 26.000 dollari, una cifra superiore ai guadagni annuali di un professore associato, in parte recuperabili grazie ai premi conferiti dalle autorità agli scienziati che pubblicano su riviste prestigiose. Un reporter di Science ha finto di essere uno scienziato interessato a comprare una ricerca in via di pubblicazione sull’International Journal of Biochemistry & Cell Biology, una testata del gigante dell’editoria scientifica Elsevier. Dopo qualche settimana l’articolo è uscito realmente con la lista degli autori rimaneggiata. Il caso vuole che lo stesso numero di Science che denuncia il traffico di manoscritti celebri anche la missione aerospaziale che nei prossimi giorni porterà un rover cinese sulla Luna. Le due notizie insieme offrono la fotografia più veritiera. La scienza cinese è come certi campioni di atletica: forti, fortissimi, ma troppo spesso dopati.

Corriere 30.11.13
La bandiera cinese piantata sull’Ecuador «A noi il petrolio»
Il gigante asiatico compra tutto il greggio
di G. Sant.


PECHINO — Sono stati giorni tesi quelli trascorsi a Pechino da Marco Calvopiña, direttore generale di PetroEcuador, la compagnia petrolifera di Stato di Quito. Il signor Calvopiña stava concludendo un accordo per cedere alla Cina praticamente tutta la produzione di greggio del suo Paese: 500 mila barili al giorno su 520 mila pompati. Di fronte alla durezza dei negoziatori cinesi il manager, secondo la ricostruzione dell’agenzia Reuters , è stato sul punto di abbandonare la trattativa, ma alla fine ha firmato. Non poteva fare diversamente. Era l’unica via d’uscita per il governo andino, che dopo il default del debito da oltre 3 miliardi di dollari del 2008 non riesce a trovare linee di credito internazionale. Solo Pechino è stata disposta a finanziare l’Ecuador: ha cominciato con un miliardo nel 2009 ed è arrivata quest’anno al 61 per cento del fabbisogno finanziario del governo del presidente Rafael Correa, una cifra che si aggira sui 6,2 miliardi di dollari.
In cambio, l’Ecuador, membro dell’Opec (l’Organizzazione dei Paesi produttori), si è impegnato a vendere oltre il 90 per cento del suo greggio a PetroChina, il gigante statale di Pechino.
La Cina quest’anno consumerà circa 500 milioni di tonnellate di petrolio, mentre ne produce 210 circa. Secondo le proiezioni, l’import petrolifero cinese nel 2013 arriverà a 289 milioni di tonnellate, con un aumento del 7,3% sul 2012. E secondo l’Agenzia internazionale per l’energia, tra meno di dieci anni la Cina sorpasserà gli Stati Uniti come primo importatore di petrolio. Ci si aspetterebbe dunque che anche i 500 mila barili al giorno ottenuti dall’Ecuador finissero in Cina, per alimentare la grande sete della seconda economia del mondo. Invece no. PetroChina rivende quel petrolio sul mercato internazionale. Mezzo milione circa di barili al giorno, fanno in un anno circa 13 miliardi di dollari. E chi è il primo acquirente? Gli Stati Uniti d’America.
Una strana triangolazione. Anche da un punto di vista di politica internazionale: il presidente Rafael Correa, giovane socialista critico del potere una volta esercitato in Ecuador dalle società petrolifere occidentali, ora celebra come un trionfo il patto in base al quale ha ceduto il controllo del settore alla Cina, osservano gli analisti di Reuters . D’altra parte, in assenza di altri grandi finanziatori internazionali, dopo il default, l’Ecuador senza l’intervento cinese sarebbe morto per asfissia.
Secondo le stime, il consumo di petrolio in Cina salirà a 580-590 milioni di tonnellate entro il 2015 e 690-700 milioni di tonnellate entro il 2020. Per rastrellare la produzione mondiale, gli inviati di Pechino sono impegnati in un grande gioco del domino. La Cina ha già finanziato con 43 miliardi di dollari le attività di estrazione e ricerca del Venezuela, un altro Paese in cattivi rapporti con Washington; ne ha dati 55 alla Russia; 10 al Brasile; 13 miliardi all’Angola.
E siccome le vie del petrolio sono infinite, a febbraio la cinese Cnooc ha acquistato per 11,5 miliardi la canadese Nexen che ha giacimenti dal Nord America al Golfo del Messico, zone strategiche per gli Stati Uniti. Anche in Iraq, dove gli americani hanno versato sangue per abbattere Saddam Hussein, è arrivata la Cnpc come partner di Bp nello sfruttamento del gigantesco campo petrolifero di Rumaila. Cnpc sta per China National Petroleum Corporation. Ieri è stato annunciato l’accordo tra PetroChina e Exxon per il passaggio alla compagnia cinese del 25% dei giacimenti iracheni Qurna 1. La prova che gli Stati Uniti hanno vinto la guerra, ma la Cina sta comprandosi la pace.

Corriere 30.11.13
I  caccia d’Oriente mettono alla prova le intenzioni Usa
di G. Sant.


Ogni giorno un gradino in più nella pericolosa scalata della tensione nei cieli del Pacifico: ieri il comando cinese ha lanciato i suoi caccia intercettori per controllare aerei americani e giapponesi che volavano attraverso la «zona di difesa e identificazione» costituita da Pechino sabato 23 novembre. Giovedì gli apparecchi cinesi si erano limitati a pattugliare l’area che si estende su una zona del Mar cinese orientale, tra la Corea del Sud e Taiwan e comprende le isole Diaoyu/Senkaku, amministrate dal Giappone ma rivendicate da Pechino. I caccia sono stati fatti decollare d’urgenza per identificare due jet da ricognizione americani e dieci apparecchi giapponesi tra cui un F-15. In questa partita Pechino ha introdotto unilateralmente regole che impongono a qualsiasi aereo che attraversi la nuova «zona difensiva» di comunicare i piani di volo e mantenersi in contatto radio costante con il controllo cinese. I primi a ignorare l’ordine sono stati gli americani, che hanno fatto volare due B-52 nello spazio di identificazione senza chiedere alcun permesso. Poi si sono accodati giapponesi e sudcoreani. La stampa cinese ha chiesto di «reagire senza esitazioni alle violazioni». E siccome i giornali sono controllati dal governo, è presumibile che le redazioni abbiano seguito una «velina». «L’obiettivo delle regole d’identificazione è il Giappone», ha titolato il Global Times . Tokyo ha risposto rifiutando qualunque negoziato. Ma il sospetto è che in realtà la Cina voglia discutere con gli Stati Uniti, alleati del Giappone, per vedere fino a che punto la Casa Bianca è disposta a spingersi per difendere le isole che Tokyo chiama Senkaku e la Cina Diaoyu. Lunedì arriverà a Tokyo il vicepresidente americano Joe Biden, atteso poi a Pechino e a Seul. È possibile che nel frattempo, in questa escalation militare, un errore di calcolo possa portare a uno scontro? «I B-52 Usa non erano armati, non erano scortati da altri aerei, quindi erano volutamente vulnerabili», spiega al Corriere il professor Diao Daming direttore dell’Institute of American Studies dell’Accademia delle scienze, think tank del governo cinese. E prosegue la sua analisi: «È stato un modo per dire ai cinesi che la zona di difesa aerea per gli americani non vale. Ma anche per segnalare a Pechino che se ci fosse un problema grave Washington rispetterebbe il trattato di sicurezza che la lega a Tokyo. Al tempo stesso, è chiaro dal fatto che i B-52 si sono presentati disarmati, che gli Stati Uniti faranno di tutto per evitare che si arrivi a quel problema grave».

Repubblica 30.11.13
I jet di Pechino all’inseguimento scontro aperto con Usa e Giappone
Isole contese, Biden in Asia. Washington avverte: “Noi sosteniamo Tokyo”
di Federico Rampini


NEW YORK — È un crescendo di tensione militare nei cieli sopra il Mare della Cina orientale. Ieri i jet militari cinesi si sono alzati in volo per sorvegliare il passaggio di apparecchi americani e giapponesi. Alla vigilia di una cruciale missione del vicepresidente Joe Biden in Estremo Oriente, l’allarme aumenta. Un “incidente” potrebbe sfuggire al controllo delle superpotenze, fino a precipitare in una crisi vera e propria. A Washington, fonti della Casa Bianca e del Pentagono concordano su un punto: «Il presidente cinese Xi Jinping ha fatto un errore di valutazione sulle intenzioni americane». Un errore che può ricacciare indietro di molti anni i rapporti Usa-Cina, ma anche provocare un riarmo del Giappone e di altri paesi che si sentano minacciati dall’espansionismo cinese.
Pechino aveva iniziato l’escalation, “annettendo” unilateralmente al proprio spazio aereo sovrano i cieli sopra le isole Senkaku (nome nipponico in uso dall’Ottocento, quando le isole finirono sotto la giurisdizione di Tokyo) o Diaoyu, il termine usato dai cinesi. Un gesto respinto dal governo di Shinzo Abe a Tokyo, e dal suo alleato americano. Una prima missione di due bombardieri americani B-52, martedì scorso, era stato un gesto esplicito di Washington per sottolineare da che parte sta. In quell’occasione i cinesi erano stati a guardare. Nelle ultime ore invece i cieli sopra quelle isole semi-deserte (ma circondate da ricchi giacimenti offshore di energia) sono diventati il teatro di una pericolosa “confrontation”.
Usa e Giappone continuano le proprie missioni a decine. Da parte nipponica anche le compagnie aeree civili proseguono i voli passeggeri senza chiedere permessi a Pechino. Ma la Cina non si limita più a guardare, i suoi jet militari decollano con missioni di vigilanza. Fino a ieri non è si trattato di “intercettazioni” ostili, ma un incidente può accadere. E proprio domani il vicepresidente Biden inizia una lunga missione in quell’area. Lunedì ha i primi incontri ufficiali a Tokyo, seguiti dalla visita di Stato a Pechino, infine a Seul. Sette giorni, una durata insolita. Poiché nell’ordine delle tappe la precedenza tocca a Tokyo, il primo messaggio è evidente: l’alleanza di ferro tra Stati Uniti e Giappone sarà rispettata fino in fondo, Obama «intende onorare il trattato bilaterale in tutti i suoi aspetti».
Fonti della Casa Bianca aggiungono una sensazione: Xi Jinping ha creduto di poter approfittare di un momento di debolezza di Obama (ai minimi nei sondaggi sulla sua popolarità in patria) per lanciare un affondo che metta alla prova il ruolo dell’America nel Pacifico. Un errore, ribadiscono gli uomini di Obama. Semmai è proprio questo il momento in cui la leadership Usa vorrà mostrare i suoi muscoli. Nei “briefing” che la Casa Bianca organizza per la stampa, i punti-chiave della missione Biden s’intrecciano con l’analisi della posta in gioco. Anzitutto l’intenzione americana è di continuare a presidiare la zona contesa ignorando qualsiasi diktat cinese e appoggiando la sovranità territoriale del Giappone sulle isole e sullo spazio aereo circostante. Casa Bianca e Pentagono sottolineano la forte intesa con Tokyo e Seul, e il livello di coordinamento anche operativo tra le operazioni della U. S. Air Force con l’aviazione e la marina militare del Giappone.
Le analisi di fonte Usa (in questo caso anche dei think tank indipendenti, non solo le fonti dell’Amministrazione Obama) indicano un errore di calcolo da parcinesi,te della Cina che avrebbe sottovalutato la determinazione degli Stati Uniti ad appoggiare l’alleato giapponese; vista da Washington è la Cina ad essersi messa «in un angolo»: se abbozza, il governo di Pechino perde la faccia nei confronti della sua opinione pubblica nazionalista, se va avanti sulla linea delle minacce si caccia in un sentiero di escalation che non sa dove possa condurre. Una crisi così grave nel Pacifico non si verifica dai tempi dell’aereo spia Usa abbattuto dai col pilota tenuto prigioniero nell’aprile 2001 (era l’inizio della prima Amministrazione di George W. Bush).
La tempistica di questa crisi, esplosa poco dopo l’accordo provvisorio con l’Iran sul nucleare, in un certo senso «obbliga» Barack Obama a essere intransigente verso la Cina, visto che il presidente è già sotto accusa da parte dei falchi americani di politica estera, per la sua presunta “arrendevolezza” in Medio Oriente. Per la Casa Bianca la credibilità degli Stati Uniti non interessa solo Giappone e Corea del Sud ma anche India, Indonesia, Filippine e Vietnam, tutti paesi in vario modo preoccupati dall’espansionismo cinese e che hanno bisogno di essere rassicurati sulla tenuta della leadership americana «come elemento di stabilità e sicurezza in tutta l’Asia».
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Un J-10 cinese. A destra, un B-52 statunitense Pechino ha fatto levare in volo i suoi jet sulle isole contese

Corriere 30.11.13
La prima asta di Sotheby’s in Cina, da 212 milioni

di Giu. Fer.

Sotheby’s porta Rembrandt e Picasso a Pechino. Domani la casa d’aste newyorchese terrà la sua prima asta in Cina, a Pechino. Tra le opere in vendita Picasso, Rembrandt e i lavori di un nutrito gruppo di artisti cinesi, incluso il celebre Zao Wou-Ki, per un valore complessivo stimato in 212 milioni di dollari, circa 156 milioni di euro. E’ un altro segno dei tempi (e delle potenze economiche) che cambiano. Il debutto sul mercato cinese dell’arte da parte della casa basata a New York segnala infatti che la concorrenza con l’arcirivale Christie’s si è spostata su uno dei mercati dell’arte più dinamici del mondo in questo momento, nonostante il giro di vite del governo per combattere la corruzione e il tentativo di frenare le spese di lusso. L’asta, che si svolge durante la «Settimana dell’arte di Pechino», sarà gestita da Sotheby’s Pechino, la joint-venture cinese di cui Sotheby’s controlla l’80%. Se il pezzo più famoso offerto è il «Ritratto di un uomo con le mani sui fianchi» di Rembrandt, valutato 50 milioni di dollari, la parte del leone la fanno i 144 lotti composti da artisti cinesi, a dimostrazione di un rinato interesse per l’arte di casa da parte dei nuovi ricchi collezionisti cinesi, che stanno facendo esplodere i prezzi. «Abstraction», il dipinto dell’artista franco-cinese Zao Wou-Ki, messo in vendita dall’Art Institute di Chicago, ad esempio, viene valutato circa 7,4 milioni di dollari, ma molti sono pronti a scommettere che quel valore sarà facilmente superato.

Corriere 30.11.13
Vendetta contro i droni
Il Pakistan smaschera il superagente della Cia
La mossa di Imran Khan dopo un attacco Usa
di Guido Olimpo


WASHINGTON — La risposta americana è arrivata sulle ali di un drone. Un’incursione nel Waziristan del Nord (Pakistan), tre i presunti militanti uccisi. Non poteva essere più simbolica. Un’azione preceduta dal colpo di Imran Khan, l’ex star del cricket e oggi leader del Tehreek-e-Insaf, partito d’opposizione pachistano.
Con una dichiarazione in tv l’esponente politico ha spiattellato l’identità del capo stazione Cia a Islamabad. Vendetta annunciata per protestare proprio contro i raid dei velivoli senza pilota gestiti dall’intelligence americana. Gesti pubblici e manovre dietro le quinte. Diplomazia e spy story, con agenti pachistani che «filano» quelli statunitensi che a loro volta danno la caccia a terroristi e agli amici di quest’ultimi. Atmosfere da Casablanca dove il doppio gioco — ma a volte anche il triplo — è consuetudine. Un mondo di tenebra senza regole. Sarebbe strano se ci fossero.
Khan, che ha investito con successo sulla lotta ai droni, si è mosso dopo una serie di attacchi micidiali degli aerei Usa pilotati a distanza. Sotto i razzi sono cadute figure importanti, compreso il capo dei talebani pachistani, Hakimullah Mehsud. Altre operazioni hanno decapitato il temuto network Haqqani, la rete responsabile di molte stragi a Kabul e non troppo lontana dai servizi di Islamabad, l’Isi. Bastonate che hanno fatto male agli estremisti, diventate un pretesto nelle mani di Khan. Così è partita l’escalation: proteste, poi i controlli sui convogli che portano i rifornimenti Nato in Afghanistan, infine la mossa ad effetto. Il nome del numero uno della Cia nel Paese. In una lettera scritta per mettere alle corde l’esecutivo, il portavoce del partito ha chiesto al governo di impedire la partenza dell’agente e quindi di trascinarlo in un’aula di tribunale. Quindi ha mosso accuse altrettanto severe nei confronti di John Brennan, l’attuale direttore Cia e ascoltato consigliere del presidente Obama. In questo «clima», il capo stazione è sparito. Si è nascosto oppure è stato portato via da un team della sicurezza Usa. Da quelle parti c’è da poco scherzare.
Sotto pressione, gli americani hanno lanciato il sospetto: sono stati i servizi pachistani a imbeccare Khan? Molto probabile, visto che quella carica non è pubblica. Dagli Usa sono rimbalzate indiscrezioni sull’identità del funzionario, con un passato — sembra — in Spagna e Brasile. A lungo residente in una cittadina della cosidetta fascia di sicurezza, quei sobborghi di Washington dove abitano le famiglie di tanti «James Bond». Nella capitale la sorpresa è stata però relativa. Agli sgarbi dei pachistani sono abituati. Anche nel 2010 il nome dell’allora capo stazione Cia è stato fatto uscire sui media. Un anno dopo, il contrattista dell’intelligence Raymond Davis si è messo nei guai dopo aver ucciso due uomini a Lahore che lo stavano seguendo. Erano civili qualsiasi scambiati per aggressori? O si trattava di operativi dell’Isi impegnati in una sorveglianza ravvicinata nei confronti di uno 007 che aveva varcato una «linea rossa»? Quei casi sono roba del passato, però è rimasta la diffidenza alimentata, periodicamente, dalle denunce di collusione tra apparati del Pakistan e i militanti islamisti. Da anni Islamabad copre gli ambienti integralisti dando ospitalità e chiudendo gli occhi. Se Osama se ne stava a Abbottabad non è solo perché c’era l’aria buona.
Sui contrasti antichi sono cresciuti quelli recenti. Il Pakistan ha incriminato nuovamente — per un presunto intervento chirurgico andato male — il medico che ha aiutato la Cia a scovare Bin Laden, è riesploso il confronto sul futuro dell’Afghanistan e i negoziati di pace, infine ha ripreso vigore la protesta contro i droni unendo, tatticamente, gli afghani ai pachistani. Per Khan, come per molti altri, i bombardamenti devono finire in quanto alimentano l’odio, sono controproducenti, causano vittime tra i civili. Per Washington sono invece l’unica arma con la quale possono tenere sotto pressione terroristi altrimenti intoccabili. Ogni volta che il Pakistan ha provato a intervenire nei santuari dell’estremismo è stato punito da una striscia di attentati.

Corriere 30.11.13
La sorte degli Armeni, genocidio o pulizia etnica?
risponde Sergio Romano


A SORTE DEGLI ARMENI GENOCIDIO O PULIZIA ETNICA Ho letto con interesse la sua risposta sulla questione del «genocidio» degli armeni nel 15-16. È vero che il Foreign Office incaricò Lord Bryce e il ventiseienne Arnold J. Toynbee di formulare in termini duri il famoso Bryce Report che fece il giro del mondo e poi il Blue Book. Lo stesso Toynbee poi ammise qualche esagerazione. Ma lo stesso Toynbee senza circonlocuzioni nelle sue memorie parlò poi di genocidio (Acquaintances Oxf. Press ‘67 p. 242). La testimonianza oculare del nostro console a Trebisonda G. Gorrini, per nulla dire di quella di Henry Morgenthau da Trebisonda qualche tempo dopo e da molte altre testimonianze, risulta che il metodo sistematico e «geografico» di quel massacro inesorabile mirava alla scomparsa del popolo armeno dalla faccia della terra e non solo degli armeni «traditori» transcaucasici che avevano collaborato con la Russia. Poiché questa tragedia è ancora oggetto di un’incessante disputa europea mi interesserebbe una sua ulteriore precisazione in merito.
Marco A. Patriarca

Caro Patriarca,
La parola «genocidio» è relativamente recente. Secondo Yves Ternon, autore di un libro intitolato Lo Stato criminale. I genocidi del XX secolo (Corbaccio 1997), appare per la prima volta nel 1944 in un libro di Raphael Lemkin, docente di diritto internazionale all’Università di Yale, sull’Europa occupata dalle potenze dell’Asse dopo la disfatta della Francia. «Per genocidio, scrisse Lemkin, intendiamo la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico (…). In senso generale, genocidio non significa necessariamente la distruzione immediata di una nazione, se non quando esso è realizzato mediante lo sterminio di tutti i suoi membri. Esso intende piuttosto designare un piano coordinato di differenti azioni miranti a distruggere i fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali, per annientare questi gruppi stessi».
Col passare del tempo la parola ha subito una sorta d’inflazione retorica e designa ormai quasi tutti i grandi massacri degli ultimi decenni. Ma una distinzione è necessaria. È certamente genocidio quello deciso dal regime nazista contro gli ebrei durante la conferenza di Wannsee nel 1942. Non è genocidio, invece, il grande massacro di Srebrenica, nel 1999, in cui circa 8.000 bosniaci musulmani vennero passati per le armi dalle truppe del generale Mladic. Come definire quindi il trattamento inflitto agli armeni nel 1915?
Sappiamo che Bernard Lewis, storico dell’Impero Ottomano, non crede all’esistenza di una strategia genocida dello Stato turco e preferisce parlare di massacri. Altri invece sono convinti che l’annientamento della comunità armena fosse un obiettivo consapevolmente perseguito. Per quanto mi riguarda credo che questa affermazione sia certamente vera per Ittihad, il partito Unione e Progresso dei Giovani Turchi. I suoi maggiori esponenti (Enver Pascià, Mehmed Taalat) erano ferocemente nazionalisti e consideravano la comunità armena doppiamente pericolosa: perché sarebbe stata, nell’eventualità di una guerra, la quinta colonna dell’Impero russo in Turchia, e perché era all’origine di tutte le «ingerenze» umanitarie delle potenze europee negli anni precedenti. Non basta. Ittihad creò una organizzazione speciale che ebbe per molto tempo una funzione simile a quella degli einsatzgruppen tedeschi, formati dopo l’invasione dell’Urss per la eliminazione degli ebrei in Ucraina, in Bielorussia e nelle repubbliche del Baltico. Ma nei processi celebrati a Costantinopoli dopo la guerra la «pistola fumante» (un documento ufficiale sull’annientamento dell’intera comunità armena) non fu mai trovata.
Sappiamo invece che anche dopo la fine del conflitto la presenza di una importante comunità armena fu considerata incompatibile con la concezione dello Stato turco di Kemal Atatürk. La nuova classe era pronta ad abbandonare le province arabe dell’Impero, ma non intendeva rinunciare all’Anatolia, patria dei turchi. Fu questa la ragione per cui la popolazione greca e armena di Smirne, alla fine del conflitto fra Grecia e Turchia, dovette abbandonare la città. Ma tutto questo rientra nella categoria della «pulizia etnica», piuttosto che in quella di «genocidio».

l’Unità 30.11.13
Eric Hobsbawm, spirito libero
Fondazione Gramsci, un convegno per ricordare lo storico comunista
di Jolanda Bufalini


Villari, Sassoon, Pons e Mazover fanno il punto sul pensiero dell’intellettuale Presente anche Napolitano «La sua analisi sul capitalismo si ramifica in un mondo sempre più interdipendente i cui tratti distintivi sono l’ansietà
e l’insicurezza»
Fece in tempo a vedere l’inizio della crisi e l’imbarazzo di chi aveva fallito nel prevedere la recessione e il credit crunch

ROMA ALEGGIA LO SPIRITO IRONICO DI ERIC HOBSBAWM NEL CONVEGNO IN SUO RICORDO, A UN ANNO DALLA SCOMPARSA, ORGANIZZATO DALLA FONDAZIONE GRAMSCI NEL SALONE DELLA REGINA ALLA CAMERA, per quanto Rosario Villari, che ha introdotto la discussione, avrebbe preferito un luogo meno paludato e più informale. Nel pubblico c’è, ascoltatore attento, Giorgio Napolitano che assiste ai lavori della mattina.
L’ironia anticonformista di questo intellettuale britannico, cosmolipolita di origini ebree che divenne comunista negli anni della Grande depressione, a Berlino, mentre la Repubblica di Weimar finiva nella catastrofe, e rimasto comunista fino alla fine, trova un posto significativo nei contributi dei tre relatori della mattina. Donald Sassoon prende spunto da una cronaca del Financial Times su una conferenza organizzata dal Tesoro britannico, ospiti accademici ed economisti, grandi finanzieri come George Soros e Paul Volcker, che fu a capo del Us Federal Reserve dal 1979 al 1987: «Eric avrebbe amato essere lì a dire la sua sulla natura immutabile del pensiero economico di fronte al cambiare delle circostanze economiche». Si sarebbe divertito ad ascoltare, nei santuari del capitalismo mondiale, le lamentele su «gli studenti che ormai possono ottenere una laurea in economia senza conoscere le teorie di Keynes, Marx o Minsky, senza avere mai sentito parlare della Grande Depressione». Hobsbawm fece in tempo, nel 2007-2008, a vedere l’inizio della crisi e l’imbarazzo dei «troppi economisti che avevano fallito nel prevedere la paralisi del credito e la recessione. Non era tanto spiega Sassoon il «ritorno a Marx» a fargli piacere, il suo marxismo essendo fortemente antidogmatico, quanto «vedere la sua bestia nera, il capitalismo non regolato, in difficoltà». Mark Mazover racconta l’attrazione che si creò fra l’allora giovane storico britannico, che insegnava non nella prestigiosa Cambridge ma al Birckback College, cioè in una scuola fabiana, una scuola operaia, con Fernand Braudel, successore di Lucien Febvre alla grande scuola parigina delle Annales. I due storici, il primo già affermato, e il giovane alto, dinoccolato docente di un college proletario, sembra si siano conosciuti nel 1954. Il sodalizio che ne nacque, descritto da Mazover, fa rivivire il tempo di una ricerca animata da uno spirito rivoluzionario, divertito, di assoluta libertà che portò Hobsbawm a una battaglia contro l’accademia provinciale del suo paese, abbarbicata alla storia economica, impegnata a tenere fuori dalla porta (e dalle cattedre) gli studi sociali. Nel milieu di Braudel, Heller, Thompson, Hobsbawm, invece, si apre alla storia sociale delle arti, si crea una rete di giovani storici, Braudel apre l’accademia francese ai rifugiati dell’Europa dell’Est. Quando finalmente Hobsbawm ha la possibilità di approdare a Cambridge, l’autore de I banditi e de I ribelli viene presentato da una lettera del maestro francese come «il più grande storico».
Questo sguardo ricco, attento a come vivono concretamente le persone, al loro «tenore di vita» è qualcosa che alimenta il pensiero antiscolastico di Eric Hobsbawm, ed è il tema che ha affrontato, nel suo intervento, da Donald Sassoon: «Sarebbe futile esercizio teologico chiedersi se il suo approccio fosse marxista». Era, certamente, materialista, «non nel senso che le idee non siano importanti ma in polemica con le vecchie teorie (quelle di Max Weber) che attribuiscono il trionfo del capitalismo allo spirito individualista dell’imprenditore». Affina continuamente la sua ricerca e, certamente, una delle costanti è, per esempio, nella Età del capitalismo la «multicausalità». L’innovazione tecnologica come elemento propulsore piuttosto che la lotta di classe, tratto certamente non ortodosso del suo pensiero: «ferrovie, vapore e telegrafo furono i fattori che potenziarono il capitalismo e permisero il boom delle esportazioni» e produssero la prima globalizzazione. L’abolizione delle corporazioni, la nascita delle libere imprese private, sono per lui «fattori pratici piuttosto che credo ideologico nel liberismo». E nella molteplicità delle cause c’è anche «la fortuna» come il fatto che Gran Bretagna e Belgio avessero nel loro territorio tanto carbone. Ma c’è un tratto sottolineato da Sassoon particolarmente interessante e attuale: «Il capitalismo di Hobsbawm si ramifica in un mondo sempre più interdipendente e unificato i cui tratti distintivi sono l’ansietà e l’insicurezza». Una ansietà che era parte del sistema: dal 1860 i salari operai cominciarono a crescere ma «un incidente poteva gettare un lavoratore nella povertà più abietta». Ansietà delle classi medie «che avevano paura di ogni cosa, la sedizione degli operai, l’incertezza economica, l’improvviso cambiamento di status, il colera, gli ebrei, gli irlandesi, e soprattutto lo spettro della povertà».
L’excursus di Sassoon attraversa un altro aspetto cruciale, quello sul colonialismo, per arrivare all’«età d’oro», il trentennio che inizia nel 1945, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, e con gli accordi di Bretton Woods vede finalmente l’intervento regolatore dello Stato, il controllo dirigista: «Hobsbawm non racconta un capitalismo teorizzato ma quello esistente, in cui incide il fattore umano».
L’ironia di Hobsbawm, nell’intervento di Silvio Pons, a cui è affidata la riflessione sulle ultime opere dello storico, il Secolo breve, L’Età degli estremi, le memorie autobiografiche, diventa ironia della storia. «La rivoluzione russa ha conseguenze pratiche globali molto più importanti di quelle della rivoluzione francese, paragonabili solo alla conquista dell’Islam». E l’ironia è che fu proprio la rivoluzione del 1917 a «salvare il capitalismo» non solo grazie alla sconfitta, in cui fu decisivo Stalin, di Hitler, ma anche a causa della doppia arma della minaccia di sistema e della pianificazione. Spiega Pons che Hobsbawm non chiude gli occhi di fronte alla brutalità della economia di comando ma, sostanzialmente, non crede alla possibilità di alternative alla modernizzazione forzata imposta da Stalin. Ma «il volto non umano del comunismo costrinse l’antagonista ad assumere un volto umano» e qui è stata la sua attrattiva rispetto alle varianti socialdemocratiche. Pons intreccia la ricerca storica con le memorie, nella ricerca del perché «tanti sono stati comunisti» e chiude con una citazione: «Il sogno della rivoluzione d’ottobre è ancora da qualche parte dentro di me, come il testo cancellato che aspetta di essere riscoperto in un hard disk. Io l’ho abbandonato, respinto, ma non dimenticato. Mi accorgo che, in questi giorni, la mia memoria guarda all’Urss con una indulgenza e una tenerezza che non sento per la Cina comunista, perché io appartengo alla generazione per la quale la rivoluzione d’ottobre ha rappresentato la speranza del mondo».

Il Venerdì di Repubblica 29.11.13
Le notti brave del dottor Arthur Schnitzler
di Marco Cicala

qui segnalazione di Barbara Calvetta


Corriere 30.11.13
Liberare la bellezza dallo Stato
di Marco Romano


Non funziona la tutela accentrata del patrimonio culturale Tutto comincia molto tempo fa, quando nel Cinquecento gli architetti del Rinascimento mostrarono come il loro nuovo stile, fondato sulla proporzione delle facciate e su una decorazione dopotutto modesta, potesse venire esteso a tutte le case della città, anche alle meno doviziose. Se quella era una bellezza perfetta, il principe o il sovrano o lo stesso municipio avrebbero fatto bene a estenderne le semplici regole a tutte le case, affidandone il controllo al capo dell’ufficio tecnico o, in seguito, alle commissioni edilizie — che pure, oggi, scomparso il canone architettonico condiviso e aperto il campo alle più varie sperimentazioni, non hanno più un metro di giudizio certo e condiviso.
Quando nacquero le nazioni, agli inizi dell’Ottocento, alla ricerca di una indistinta identità nazionale tentarono di stabilire, invocando le proprie antiche radici, quale fosse il loro specifico stile architettonico, gli inglesi costruendo il palazzo del Parlamento in quello gotico e i francesi a Chambéry il nuovo palazzo municipale in quello di Versailles.
Comincia ad essere lo Stato a voler stabilire le regole estetiche alle città, per esempio imponendo a tutte con una legge urbanistica come dovrebbero pianificare il loro territorio — in Italia nel 1942 — e, così, cancellando quella loro fantasiosa autonomia che ci aveva dato le città la cui bellezza ammiriamo tuttora, ha aperto la strada alle squallide periferie europee degli ultimi cinquant’anni.
Ecco tuttavia che, se la cultura — non solo quella architettonica — è il tassello fondamentale dell’identità nazionale, va facendosi strada che compito dello Stato sia quello di intervenire anche nelle faccende estetiche, per esempio decretando nei programmi scolastici quale sia la letteratura nazionale che tutti debbono conoscere.
La cultura è campo di intervento dello Stato, il Kulturstaat domina le politiche nei Paesi di lingua tedesca, le istituzioni culturali vanno generosamente sovvenzionate e, ricordando quanto successo del decennio di Hitler, evitando di selezionare le tendenze dell’arte. Solo che questa politica non può che privilegiare quanto viene considerato alta cultura — teatri o musei — in base al principio di educare il popolo estendendone l’offerta, senza mettere al centro della politica culturale i desideri dei singoli cittadini, magari intrisi di una cultura popolare che per il Kulturstaat sarebbe proprio quella da ignorare, da correggere, da sradicare.
Per Dieter Haselbach, Armin Klein, Pius Knüsel, Stephan Opitz, che hanno denunciato questa tendenza in un libro, Kulturinfarkt (Marsilio, 2013), è proprio questa la deriva da rovesciare.
In Italia e in Francia l’identità nazionale è stata poi costruita avocando al dominio della nazione il suo intero patrimonio monumentale, sicché quanto le città avevano realizzato con la loro volontà estetica e con la loro determinazione e con le loro risorse nel corso dei secoli è stato letteralmente espropriato e la sua gestione affidata a una struttura ministeriale centralizzata, anche qui arbitra di quanto un intervento materiale sia legittimo o meno: e di questo continuano a dibattere quanti ritengono che la cultura sia una faccenda di esperti cui spetta spiegarla al popolo, un popolo irriverente che delle antiche cattedrali farebbe scempio.
Le voci critiche, che mettono in dubbio il principio che debba essere lo Stato a prendersi cura del patrimonio cosiddetto nazionale, sono in Francia, un Paese dove questa stessa nozione è nata nell’Ottocento, vivacissime, ed è di qualche anno fa un davvero cospicuo convegno su questo tema, Le patrimoine culturel et la décentralisation (atti editi a cura di Patrick Le Louarne, Presses universitarie de Rennes, 2011), che ha preso di petto la questione, aprendo un dibattito cui hanno partecipato gli stessi funzionari ministeriali, e non necessariamente per difendere le loro prerogative.
Qui in Italia la voce più recente e determinata è forse quella di Luca Nannipieri (Libertà di cultura, Rubbettino), che sottolinea anch’egli come il patrimonio sia una risorsa culturale non tanto quando una élite di esperti e di funzionari elenca e a suo modo tutela i beni, ma quando quegli stessi cittadini che li hanno a suo tempo realizzati, e che ne sono i legittimi eredi, ne rientrano nel pieno possesso, li fanno propri, riconvertendoli a nuove destinazioni che la loro comunità ritiene consone a dare loro una vita rinnovata: saranno loro stessi a decidere quale debba esserne il destino, perché i manufatti imbalsamati, che i sostenitori di una cultura alta vorrebbero vedere ammirati e condivisi dal popolo, appartengono prima di tutto proprio a questo popolo, e questo popolo è — in una società che vorrebbe essere democratica — il soggetto della cultura, tale soltanto in quanto condivisa dalle comunità di cittadini fieri e consapevoli del loro passato, ma proprio per questo gli unici legittimati a seguirne il destino.

Corriere 30.11.13
Berlino celebra Loach: Orso alla carriera

Orso d’Oro alla carriera per Ken Loach. Il regista inglese verrà premiato al festival di Berlino 2014: in cartellone anche una rassegna di 10 suoi film. La cerimonia di premiazione sarà accompagnata dalla proiezione di Piovono pietre (1993). «Nel corso di una carriera di quasi 50 anni — ha detto il direttore della Berlinale Dieter Kosslick —, Loach ha mostrato uno straordinario grado di continuità, pur rimanendo innovativo in tutti i tempi» .

Repubblica 30.11.13
I nostri licei sono invidiati nel mondo. Vanno migliorati non aboliti
Rimandati in latino
Salviamo la bellezza della cultura classica
di Maurizio Bettini


Il liceo classico è in crisi. Negli ultimi mesi e settimane si è parlato molto di questo tema, anche sui quotidiani, e per la verità, visto il modo in cui trattiamo in Italia la cultura umanistica, dovremmo stupirci del contrario. Pompei si sgretola, i laureati in discipline umanistiche lavorano nei call center e i dottori di ricerca, se va bene, emigrano: perché mai un giovane dovrebbe iscriversi al liceo classico? Nella percezione comune, peraltro largamente alimentata da governanti e gestori di media televisivi, l’immagine di ciò che chiamavamo “cultura” si è trasformata in una sorta di hobby senza oneri per lo Stato, capace di suscitare interesse solo se i “beni culturali” si comportano da veri “beni”, ossia producono ricchezza: e pazienza per l’aggettivo “culturali”. Ciò detto, penso che allontanare per un momento lo sguardo, per riflettere sul problema della presenza della cultura classica nelle scuole italiane – “latino”, “greco” o “latino e greco” che sia – , potrebbe risultare più utile che non fare semplicemente della polemica.
Cominciamo dunque col constatare che la scuola superiore italiana appare ancora caratterizzata da una notevole presenza del latino nell’insegnamento liceale, soprattutto se si analizza questo dato tenendo a mente la frequente obbligatorietà di questa disciplina nei licei. E questo anche a dispetto della continua erosione di ore che l’insegnamento delle materie classiche ha subito, e continua a subire, ad opera delle sempre nuove indicazioni ministeriali.
Ritengo importante che le civiltà classiche continuino a far parte della nostra enciclopedia culturale; sono però altrettanto convinto che questo legame di memoria debba ormai passare attraverso un paradigma differente, più vicino alle esigenze culturali della società contemporanea. Il fatto è che lo studio delle materie classiche, e del latino in particolare, si fonda su un’idea di cultura piuttosto parziale: “cultura” nel senso di apprendimento di una lingua nobile – né io intendo certo mettere in dubbio questa caratteristica – , della sua poderosa grammatica e della relativa storia letteraria. Altri aspetti della civiltà classica non vengono sostanzialmente presi in considerazione: eppure sarebbero proprio quelli che compongono il paradigma della “cultura” nel senso che l’antropologia ha dato a questa parola; ma soprattutto nel senso che oggi si dà a questa espressione, quando parliamo di “incontro fra culture”, di “conflitto fra culture” o dei “mutamenti culturali” a cui la nostra società va quotidianamente incontro.
Questo mi pare il punto centrale della questione. Lo studio del latino o del greco nella sola prospettiva di apprenderne la lingua non mi pare più attuale; allo stesso modo, penso anche che uno studio puntiglioso della storia letteraria di Roma antica – le tragedie perdute di Ennio, la data di composizione delle orazioni di Cicerone, le bucoliche di Nemesiano – suoni decisamente fuori tono nella scuola di oggi. Quello che occorrerebbe far conoscere ai giovani è piuttosto la cultura antica nel suo complesso, non solo nelle sue forme tradizionalmente codificate.
Parlare del significato che la divinazione aveva per i Romani,della loro organizzazione familiare, del modo in cui essi concepivano la religione, il sogno, i modi del «raccontare», suscita negli studenti un immediato interesse. La ragione di ciò è molto semplice. Vista sotto questa forma, la cultura romana si presenta inaspettatamente altra, diversa dalla nostra, uno spazio privilegiato in cui sperimentare che si può vivere anche in tanti altri modi, i quali non sono necessariamente identici ai nostri.
I Romani avevano nomi e comportamenti differenti per ciascuno dei vari “zii” e “zie” che componevano la famiglia, attribuivano un enorme significato ai processi divinatori – prima di attaccare battaglia, ogni generale leggeva scrupolosamente le viscere della vittima sacrificale o osservava come beccavano i polli – , adoravano piccole divinità che stavano nel focolare, nutrendole con una patella, e tenevano in casa donnole e serpenti domestici. Ce n’è già abbastanza per incuriosire qualsiasi studente, e spingerlo a chiedersi perché mai i Romani si comportassero in questo modo. Lo stesso si può dire dei momenti in cui si mettono i ragazzi di fronte all’origine o al significato di certe parole, possibilmente ancora vive nella nostra lingua – operazione peraltro non difficile, visto che l’italiano ne ha talmente tante, di queste parole, da poter essere considerato a buon diritto un semplice “dialetto” del latino, ovvero un latino parlato male. Se si spiega agli studenti, per esempio, che il termine monstrum “mostro” deriva da monere «far ricordare», questa semplice esperienza linguistica li metterà di fronte al fatto che, per i Romani, la “mostruosità” era una categoria religiosa: un vitello con due teste o una pioggia di meteoriti erano per loro non un disguido della genetica o un fenomeno astronomico, ma altrettanti messaggi che giungevano loro da parte degli dei, per ammonirli del fatto che la pax con i signori del mondo si era incrinata. Sperimentare l’alterità dei Romani può indurre i giovani anche a pensare che modi di vita diversi, anche quando ci vengono da società lontane nel tempo o nello spazio, non sono necessariamente inferiori ai nostri, modelli culturali sorpassati o semplicemente barbari; al contrario, ci si può accorgere che in queste differenti configurazioni culturali esistono elementi di civiltà estremamente interessanti, su cui vale la pena di riflettere soprattutto per comprendere meglio “noi”, oltre che “loro”. E questa costituisce, assieme alla tolleranza, un’acquisizione formativa di estrema importanza.
Il liceo classico è ancora, a mio giudizio, un’ottima scuola, che vediamo invidiata dai nostri concittadini europei ogni volta che capita di parlarne. Perché dunque distruggere, o snaturare – piuttosto che cercare di potenziarla in ogni modo –, una delle non molte istituzioni italiane che hanno credito anche fuori dal nostro Paese?
In ogni caso, se mi fosse permesso concludere queste riflessioni con una piccola punta polemica, vorrei affermare quanto segue. Qualora un ministro della Pubblica istruzione decidesse, a un certo punto, di ridurre ulteriormente il peso orario dell’insegnamento del “latino” e delle materie classiche in generale – ovvero nell’ipotesi deprecabile di una sua abolizione – ci piacerebbe perlomeno avere la possibilità di dire la nostra sulle materie con cui lo si vorrebbe sostituire. Perché se la scelta dovesse cadere su ore di socializzazione, educazione a esprimere se stessi, lettura del codice della strada (per prendere la patente di guida), riscoperta delle radici identitarie attraverso i dialetti, apprendimento di una seconda lingua straniera – da sommare all’ignoranza della prima – realizzato attraverso l’opera di un insegnante che a sua volta non la sa, e altre trovate del genere, il danno che la cultura italiana riceverebbe da simili decisioni risulterebbe davvero irreparabile.
Il testo di Maurizio Bettini anticipato qui in parte appare integralmente nel prossimo numero della rivista “il Mulino”

Repubblica 30.11.13
Quando c’erano i matti
La lotta di classe secondo Basaglia
Così il pensiero del grande psichiatra fu fortemente influenzato dalla filosofia marxista
di Pier Aldo Rovatti


Come si fa un corso su Basaglia? Noi leggiamo delle parole, ma Basaglia è tutto rivolto alle pratiche. C’è o non c’è un pensiero di Basaglia? Io credo che ci sia, ma non è un pensiero facile da disegnare. Possiamo dire che abbia un’intonazione prevalentemente fenomenologica, ma dopo aver usato questa espressione non siamo giunti da nessuna parte, perché far rientrare Basaglia all’interno di una corrente filosofica significa dissanguare, rendere astratta un’esperienza, che è solo in parte un’esperienza di pensiero. Ci sono anche altri autori che entrano a far parte del pensiero di Basaglia, ci sono Foucault, Goffman… andremo alla ricerca di un’identificazione che ancora manca. Ma chi è Basaglia? Un apolide? Qualcuno che non può essere inserito né nella storia della psichiatria né in quella del pensiero?
C’è anche una parte del pensiero di Basaglia fortemente influenzata dal marxismo, da cui preleva alcune nozioni, come quella di una lotta di classe tra chi ha il potere e chi lo subisce, in questo caso gli internati, caratterizzati dalla parola “miseria”. Quando Basaglia entra nella bolgia infernale del manicomio di Gorizia, quello che vede è la miseria. C’èun accoppiamento nella testa di Basaglia tra psichiatria e miseria, tra quella psichiatria che bisogna esercitare e la miseria di fronte alla quale ci si trova quando si esercita la psichiatria dentro l’istituzione totale del manicomio. Anche le storie triestine sono storie di povertà, miseria ed esclusione. La parola esclusione spicca in tutta la riflessione di Basaglia: gli esclusi, gli interdetti, gli emarginati. Perciò il suo discorso è attuale, perché riguarda quel gioco tra inclusione ed esclusione che comanda la nostra società, dove l’esclusione non è solo quella sotto i nostri occhi, l’esclusione degli altri, sottoprivilegiati o senza privilegi, ma ha a che fare anche con la vita comune, l’esperienza del sentirsi esclusi può avvenire anche in situazioni di non-miseria e anche quando non siamo oggetto di un effettivo rifiuto sociale (rifiuto che molto spesso passa attraverso un’apparente accoglienza).
Ho l’impressione che Basaglia –nomen che comprende l’esperienza, il pensiero, gli effetti che produce – non sia stato confinato, ma lentamente e gradualmente assimilato dalla psichiatria ufficiale. Nei luoghi deputati di questa psichiatria gli sono state aperte le porte: nessuno oggi si azzarda a fare un’esplicita difesa dell’istituzione psichiatrica intesa come istituzione di contenimento. La distruzione del manicomio è accolta da tutti, ma credo che spesso si dica una cosa e se ne faccia un’altra. Basaglia, nell’esperienza psichiatrica italiana, è in realtà un cane morto. Si va avanti diritti nella convinzione che la medicalizzazione della cosiddetta follia sia la linea da seguire, con tutta la fiducia accordata alla scoperta scientifica e al continente delle neuroscienze, il cui obiettivo è di costruire la catalogazione delle malattie mentali.
Ho conosciuto direttamente persone che hanno avuto esperienze con le strutture della cura psichiatrica e quasi mai ne ho ricavato una bella immagine. La velocità con cui a una situazione viene collegata un’etichetta è molto rapida, perfino là dove ci dovrebbe essere maggior cautela, vista la storia passata. Lo stigma della malattia mentale non è davvero scomparso. Una volta c’era anche uno stigma legato alla psicoanalisi, le persone che erano in analisi non amavano dirlo, ma questo era un piccolo stigma, invece, ancora oggi, se affermi di essere psichiatrizzato, la tua identità si sgretola agli occhi degli altri e anche ai tuoi stessi occhi. È un territorio estremamente delicato, è molto facile che certe parole (psicosi, schizofrenia, disturbo bipolare, ecc.) vengano usate, e una volta usate rimangano appiccicate addosso alla persona.
Quanta civiltà c’è in un operare che non vuole applicare etichette? In una pagina delle sue Conferenze brasiliane Basaglia afferma che non è una questione di diagnosi, ma di saper descrivere la crisi di vita che si ha di fronte. Non arrivereia dire che la filosofia può sostituire gli psicofarmaci, fa un po’ ridere. Fa però meno ridere se alla filosofia diamo un ruolo. Cosa se ne fa Basaglia della filosofia? La filosofia stessa diventa per lui qualcos’altro. Prima di dare un’etichetta, di fare una diagnosi, forse c’è da fare un’operazione – e qui può entrare in gioco la fenomenologia – di sospensione del giudizio. Basaglia si identifica con questa difficile lotta, difficile perché i numeri sono grandi: cinquecento, mille persone ricoverate in manicomio. È molto complicato lavorare singolarmente conquesti numeri, perché le istituzioni hanno già livellato. Basaglia sospende il giudizio e ipotizza un lavoro inimmaginabile quanto a impegno, strutture, personale, formazione, che entri nelle storie singole, storie che possono anche non essere cupe. La storia del San Giovanni liberato è anche una storia di feste (“Marco Cavallo” e tante altre situazioni), Basaglia libera anche una voglia di allegria.
Prima ancora di ogni terapia bisogna analizzare la crisi di vita. Come si fa? Come utilizza Basaglia la sua formazione psichiatrica? La psichiatria non va rifiutata, va messa in una situazione di sospensione rispetto all’attenzione alle crisi di vita. Con questo Basaglia apre il campo a tutta una serie di implicazioni e magari anche a una ripresa di interesse nei confronti della psicoanalisi. Imparare a sospendere il giudizio, a rallentare la velocità con cui si stigmatizza, ecco il punto. Se esiste il manicomio, l’etichetta coincide con l’entrata in manicomio; se entri lo stigma è immediato. Ma anche quando abbiamo distrutto il manicomio permane il problema della velocità del-l’etichetta, nell’individuo e nella società, in ognuno di noi (sesso, età, provenienza, colore della pelle, cultura).
IL LIBRO: Restituire la soggettività di Pier Aldo Rovatti (Alpha & Beta pagg. 271, euro 15) di cui anticipiamo qui un capitolo