domenica 1 dicembre 2013

l’Unità 1.12.13
La scuola in piazza: «Così non va»
di Adriana Comaschi


Sindacati, docenti e studenti: «Nella legge di Stabilità fondi insufficienti.
E basta ai blocchi di scatti e contratto». Puglisi (Pd): «Migliorare alla Camera»
La nuova spina nel fianco della legge di Stabilità provano a metterla insegnanti, sindacati, studenti, radunati ieri mattina sotto Montecitorio e poi “in conclave” per studiare le prossime mosse da opporre al governo, sciopero incluso. Il messaggio è univoco, per tutte le sigle scese in piazza (Flc Cgil, Cisl Scuola, Uil Scuola, Gilda Unams, Snals Confsal) con duemila manifestanti: la fiducia nell’esecutivo non può aggrapparsi alla «buona volontà», riconosciuta al ministro Maria Chiara Carrozza. Il mondo della scuola vuole cifre, investimenti, correzioni di rotta, la piattaforma sindacale elaborata punta su sblocco degli scatti di anzianità e delle retribuzioni (ferme al 2007), piano di investimenti pluriennale, risoluzione del problema del precariato. C’è fame di risorse economiche insomma, per dare respiro e dignità a risorse umane penalizzate ormai da troppo tempo.
LE CIFRE CONTESTATE
Il punto forse sta tutto qui. Cinque anni di mannaia sui conti della scuola non si cancellano, agli occhi degli interlocutori, con l’assicurazione che non ci saranno altri tagli. Un impegno che l’esecutivo giudica mantenuto anche nella legge di Stabilità. Mentre sindacati, insegnanti e studenti danno un’altra lettura. «Nella Legge di Stabilità non c’è un euro in più per la scuola, rispetto a quanto già previsto dal decreto Carrozza convertito in legge accusa ad esempio Mimmo Pantaleo, segretario della Flc Cgil I 450 milioni dell’ex decreto 104 dovevano rappresentare un primo passo, perché quelle risorse (distribuite su tre anni, per la stabilizzazione di 27 mila precari del sostegno e un piano di immissioni in ruolo per 42 mila docenti e 16 mila Ata) sono per noi assolutamente insufficienti. La Legge di stabilità avrebbe dovuto andare oltre, non lo fa».
Anche la senatrice Pd Francesca Puglisi invoca, per il passaggio alla Camera della legge di Stabilità, «una scelta politica più netta e decisa. Come settima commissione abbiamo lavorato a una serie di emendamenti che purtroppo non sono passati», ricorda. «La volontà politica non manca ma la coperta è corta, cortissima, se la tiri da una parte ti scopri dall’altra» premette Puglisi, che riconosce al premier di aver mantenuto la promessa sullo stop ai tagli su istruzione e università, così come l’impegno su alcuni punti specifici nella Legge di Stabilità. «Viene incrementato il Fondo per il finanziamento ordinario (Ffo) delle università di 150 milioni per il 2014, vengono destinati 80 milioni a favore dei policlinici universitari», quanto alla scuola precisa Puglisi «ci sono alcuni milioni sul 2015 e 45 milioni sul 2016 sullo sviluppo delle Aree interne, che serviranno a riequilibrare i servizi scolastici di base» resi omogenei dai dimensionamenti.
Detto questo, la senatrice Pd spera appunto si possano aggiungere «almeno altri 54 milioni ai 100 già previsti per il diritto allo studio, per offrire lo stesso numero di borse di studio ai capaci e meritevoli privi di mezzi» (il precedente governo aveva lasciato per il 2014 solo 13 milioni). Negli emendamenti accantonati («ma io spero nella Camera») c’era poi la richiesta di 100 milioni per la ricerca di base, e di «un giusto riconoscimento economico, invece di blocchi stipendiali mortificanti» per docenti e Ata della scuola.
Blocchi che i sindacati leggono come un taglio, «il mancato contratto per noi non può che essere considerato tale avverte ancora Pantaleo -: ricordiamo che il mancato contratto si è tradotto, dal 2009 a oggi, in una svalutazione del 10% del salario dei docenti. E che il blocco degli scatti di anzianità per il settore vale 350 milioni l’anno». La Flc Cgil contesta poi anche le altre voci “promosse” dal governo: «Per il diritto allo studio servirebbero tre volte le risorse date, e cioè 300 milioni, per la formazione dei docenti ci sono solo alcuni milioni a fronte di un fabbisogno nell’ordine delle centinaia». Di «doppia penalizzazione» dei lavoratori della scuola parla anche Massimo Di Menna, segretario Uil, «governo e Parlamento modifichino la Legge di Stabilità». E non si venga a invocare davanti a loro le difficili condizioni del Paese, aggiunge Francesco Scrima di Cisl Scuola, «le risorse si possono trovare tagliando sprechi, consulenze e con un nuovo assetto istituzionale. Al governo chiediamo di essere coerente rispetto al valore che dice di attribuire alla scuola». «Siamo stanchi delle briciole riassume Gianluca Scuccimarra, coordinatore dell'Unione degli Universitari che insieme alla Rete degli studenti Medi ha manifestato ieri mattina Chiediamo da tempo un'inversione di marcia, l’austerity della conoscenza non ha funzionato, occorrono più risorse. Ora».

l’Unità 1.12.13
Istruzione: l’Italia in ritardo resta ancora divisa in due
di Giorgio Mele


NEI GIORNI SCORSI È STATO PRESENTATO A ROMA UN RAPPORTO sul sistema educativo promosso da quattro associazioni scolastiche di diverso orientamento: il Cidi (insegnanti democratici), l’Aimc (maestri cattolici), Lega Ambiente scuola e formazione, Proteo Fare Sapere. La ricerca, coordinata da Emanuele Barbieri, è stata condotta sulla base dei dati del 2009 che sono i più completi. Ciò che colpisce è il giudizio perentorio che viene espresso in premessa e cioè il fatto che dopo 150 anni di unità d’Italia, rispetto ai tassi di successo scolastico, nonostante lo sviluppo culturale del Paese si registrano disuguaglianze che ricordano i «dati relativi ai tassi di analfabetismo della popolazione adulta nel 1861». L’allarme riguarda due elementi decisivi: il primo è relativo al fatto che la scuola sembra aver esaurito la sua funzione positiva di promozione sociale, di garanzia delle pari opportunità di successo formativo che ha avuto in altri momenti della nostra storia e, dall’altro che tutti i dati riconfermano un distacco ampio e strutturale tra il centro-nord e la quasi totalità del Sud, come era appunto nel 1861.
A conferma della distanza tra le «due Italie» basta leggere i dati relativi alla carenza dei servizi per la prima infanzia come gli asili nido in Emilia c’è una copertura di questo servizio del 29%, in Campania del 2,7-, l’ assenza quasi completa del tempo pieno, i tassi di abbandono scolastico che in Sicilia raggiungono il 26, 5 % tra i ragazzi tra i 18 e i 24 anni. Oppure i dati dei cosiddetti Neet (ragazzi che non studiano né lavorano) con una percentuale in Campania del 32,9, rispetto al 9% del Trentino Alto Adige. Dal rapporto emerge anche un indice preoccupante di sperequazione territoriale. La caratteristica della nostra penisola è tale che in essa convivono zone metropolitane densamente popolate e zone montane che lo sono meno. E i processi di ridimensionamento delle unità scolastiche, compiute negli anni scorsi su parametri numerici uniformi e dettati solo dalle compatibilità finanziarie, hanno generato «disfunzioni nella qualità dell’offerta del servizio» con «classi sovraffollate nelle aree urbane, pluriclassi, e soppressione di plessi nei piccoli montani». Ora, se si considera che stiamo parlando di 9 milioni di persone, si comprende che le politiche dei tagli hanno causato la compressione del diritto all’istruzione come stabilisce la nostra Costituzione. D’altra parte la spesa per la scuola in Italia rimane abbastanza bassa: il 4.8% del Pil, che ci colloca al ventiduesimo posto tra i Paesi europei, prima della Grecia e anche della Germania, ma molto lontano da tutti gli altri. Un quadro complessivamente preoccupante, quindi, tenendo conto che andrebbero verficate con più attenzione le conseguenze del «taglio colossale» operato dalla coppia Tremonti-Gelmini, che finora nessuno ha messo in discussione, neanche la legge di stabilità appena varata. È probabile perciò che tutti gli indicatori siano peggiorati rispetto al 2009 e che il lavoro per ridare senso alla scuola italiana sia ancora più difficile.

l’Unità 1.12.13
«Poca innovazione e tanto precariato»
di Luciana Cimino


L’insegnante: «Non c’è soltanto la questione del contratto: la riforma Gelmini e la legge Brunetta vanno a regime, si lavora peggio e senza garanzie»
Massimo è un insegnante precario di lettere in un liceo di Roma. Da neanche due giorni ha concluso il suo percorso al concorsone con l'ultima prova, quella di greco. «Se devo parlare da un punto di vista privato dico che a me è andata molto bene ma devo fare una considerazione generale: dopo averlo sostenuto confermo tutte le critiche sollevate, è un sistema inadeguato e arbitrario». Se tutto va bene lui a settembre 2014 otterrà la cattedra, ma ieri è sceso in piazza con i sindacati della scuola perché «le riforme Gelmini stanno andando a regime, si lavora di più e peggio e si sta creando una sacca di precariato sempre più grande». Con altri docenti precari hanno creato uno spezzone a parte. «La nostra presenza al presidio dei comparti della scuola dei sindacati è critica e costruttiva». «Non abbiamo condiviso la scelta di chiudersi al teatro Quirino e riteniamo che non bisogna derogare su alcuni punti fondamentali, la questione non è solo il rinnovo del contratto».
I precari della scuola hanno creato una coreografia con enormi matitoni rossi, «non vogliamo un’innovazione al ribasso, ci sembra che anche questo governo sia sulla scia di quelli precedenti». Il fatto è, spiega, «che continua il tentativo di lasciare inalterato il contratto per la parte salariale e rivederlo in solo in quella normativa, a questo si aggiunge che anche la legislazione è intervenuta pesantemente sulla docenza, pensiamo agli effetti della legge Brunetta sul pubblico impiego. Da ultimo anche la circolare sui Bes. Tutti provvedimenti che vanno nella stessa direzione: aumentare il lavoro, renderlo più difficoltoso, a salario inalterato». A Massimo e i suoi colleghi precari non piace neanche la sperimentazione, avviata in alcuni istituti, del liceo di 4 anni, temono che si perdano ulteriori posti di lavoro per gli insegnanti «e contestiamo anche il metodo con cui è stata avviata».
Sono soddisfatti però per la ritrovata unità sindacale, dai tempi della Gelmini ministro non si vedeva un presidio di tutte le sigle della scuola (Cgil, Uil, Cisl, Snals-Confsal, Gilda). «La questione macroscopica che unisce è il blocco del contratto dal 2007, ma non bisogna pensare che i tagli dei governi Berlusconi e Monti siano un “una tantum”. Ora stanno manifestando tutti i loro effetti: bisogna chiedere il ritiro dei tagli e della riforma Gelmini».

l’Unità 1.12.13
«Più investimenti, non misure palliative»
di Lu. Ci.


Lo studente: «Università e scuola sono allo sfascio e se non si punta sulla formazione
sarà difficile ripartire dopo questa crisi»
Era importante essere a fianco dei lavoratori della conoscenza». Daniele studia Scienze Politiche all'Università di Macerata. È andato al presidio dei sindacati con i colleghi della Rete degli Studenti e dell'Udu (Unione degli Universitari). «Molto spesso si cerca di far passare concetto che le nostre battaglie siano divise, invece la battaglia per difendere il valore dell'istruzione pubblica è unica, compete sia agli studenti che ai lavoratori». Dopo la manifestazione degli studenti del 15 novembre scorso sono scesi di nuovo in piazza perché «in questa legge di Stabilità non c'è un vero cambio di marcia, gli investimenti per il mondo della scuola restano scarsi e circoscritti a palliativi come il decreto “La Scuola riparte” che non è strutturale». Soprattutto adesso, dice Daniele, «c'è bisogno di una grande lotta per la riaffermazione della centralità dell'istruzione, l'unico settore dal quale si può ripartire dopo una crisi così grave e profonda».
Accanto a lui gli studenti venuti con un pullman da Napoli. «L'unità sindacale è una buona cosa – dice – c'è bisogno delle forze di tutti. Alla fine è stata una giornata positiva, speriamo che le nostre rivendicazioni abbiano al più presto risposte concrete». Il rapporto con la titolare del Miur per adesso è discreto. «Bisogna dare atto alla ministra Carrozza che, dal punto di vista dialettico, con le associazioni degli studenti ha cambiato modo di lavorare». «Certo è aggiunge che vorremo essere coinvolti in maniera permanente nei processi decisionali e che non si sminuisca il ruolo della rappresentanza studentesca, come hanno fatto i ministri prima di lei. Gli studenti devono poter incidere». Scuola e università sono ormai allo sfascio, dice Daniele, dunque «occorre una riforma strutturale e penso che anche la ministra Carrozza ne sia consapevole. Ma va messa in campo subito perché ogni anno che passa la situazione peggiora».
Da dove partire? «Da un investimento economico molto forte da parte del governo ma mi sembra che l'esecutivo Letta non abbia né la forza né che senta la priorità. Il decreto sull'istruzione è stato un piccolo passo, la strada è lunghissima».

l’Unità 1.12.13
Se la scuola non guarda lontano
di Benedetto Vertecchi


Il confronto sulle scelte di politica scolastica è sempre più su questioni di funzionamento quotidiano
Non è un caso che oramai le riforme dell’istruzione vengono inserite nelle leggi omnibus

Il confronto sulle scelte di politica scolastica si sta ormai trascinando su questioni di funzionamento quotidiano. Ognuna di esse ha certamente una sua rilevanza, se non altro perché coinvolge le condizioni di lavoro di un gran numero di insegnanti e quelle di studio di milioni di bambini e ragazzi, ma è spesso marginale rispetto agli intenti da perseguire attraverso il sistema di istruzione. Il limite di tale confronto è che ci si sofferma su questioni contingenti senza chiedersi cosa accadrà tra cinque, dieci, venti o più anni (Piaget se lo chiedeva già più di mezzo secolo fa).
Men che meno ci si chiede in che modo la scuola possa concorrere attraverso l’attività educativa a indirizzare lo sviluppo della cultura e della società in questa o quella direzione.
Gli interventi che rispondono a logiche di breve periodo possono, nei casi migliori, rimediare al disagio che si manifesta in questo o quell’aspetto del funzionamento del sistema educativo, ma non modificano la direzione del suo sviluppo. Non è un caso che, ormai da troppo tempo, i provvedimenti che riguardano la scuola non sono il risultato di un confronto che coinvolga le forze politiche e quelle sociali interessate al miglioramento dell’istruzione, ma sono inseriti, come nel caso della legge di stabilità appena varata, in una sorta di omnibus legislativo. Non si possono determinare alla spicciolata nuovi traguardi per l’educazione, i cui effetti non si limitino a qualche aggiustamento nei conti, ma possano riscontrarsi quando i bambini e i ragazzi che ora frequentano le scuole avranno finito il loro percorso sequenziale di studio. La contraddizione che non si fa niente per risolvere è quella che oppone la rapidità dei cambiamenti che si verificano nella vita sociale e nella conoscenza con la necessità di estendere nel tempo la progettualità educativa. Non sappiamo che cosa faranno nella vita (in una vita, oltre a tutto, che già oggi è molto più lunga di quella delle generazioni precedenti) gli allievi che in questi anni fruiscono di educazione scolastica. Quel che è certo, è che gran parte di loro sarà impegnata in attività che ancora non esistono e che ciò suppone una grande capacità di comprensione e una grande flessibilità di comportamento. È il contrario di ciò che si ricava da interventi la cui validità il più delle volte si esaurisce prima che gli allievi abbiano terminato gli studi nei quali sono al momento impegnati.
Le scarse indicazioni a carattere prospettico che si ricavano dal dibattito politico e dagli interventi dell’opinione pubblica indicano una sostanziale insensibilità nei confronti della tradizione culturale italiana ed europea, che si aggiunge ad atteggiamenti subalterni nei confronti di scelte culturali che rispondono a interessi di mercato, senza tener conto di fenomeni evolutivi che non è difficile ipotizzare si manifestino nel medio e nel lungo periodo. Quando si enfatizza l’importanza dell’apprendimento dell’inglese e dell’informatica si accetta una linea di modernizzazione schiacciata sul momento. Non ci si chiede, per esempio, quale potrà essere nei prossimi anni il quadro della comunicazione linguistica nel mondo (eppure, nel Paese che più ha determinato la diffusione della cultura anglofona, gli Stati Uniti, sono stati pubblicati studi dai quali risulta che nell’arco di alcuni decenni la lingua più diffusa nel Paese sarà lo spagnolo, che peraltro già oggi è la lingua maggioritaria in città importanti, come Miami). Né ci s’interroga sulle conseguenze che potranno derivare da un uso fondamentalmente consumistico di apparecchiature digitali. Eppure, basterebbe osservare le abitudini e il comportamento di bambini e ragazzi per trovarsi di fronte a problemi che, quanto meno, richiederebbero una riflessione approfondita.
Nelle scuole la mancanza di scelte e la subalternità al mercato (peraltro incoraggiate dalle politiche dei governi che dall’inizio del secolo si sono succeduti alla guida del Paese) hanno portato a una progressiva riduzione della capacità di bambini e ragazzi di operare con le cose, trasformandole secondo un progetto tramite azioni coordinate e coerenti. Sono state rapidamente abbandonate attività la cui presenza qualificava l’attività didattica, per il fatto che costituiva la congiunzione necessaria tra l’acquisizione di conoscenze slegate e la loro composizione in un quadro funzionale. Si trattava delle attività di laboratorio, nelle quali era possibile superare la scissione tra il pensare e il fare, tra la mente e le mani. Non solo: l’apprendimento cessava di essere qualcosa di apprezzato solo nell’ambito di ritualità scolastiche, per segnare in profondità il profilo degli allievi. Quel che si sarebbe potuto lamentare, semmai, era l’insufficienza delle dotazioni delle scuole, al fine di porvi rimedio. È accaduto, invece, il contrario: anche le scuole che disponevano di gabinetti e laboratori per le dimostrazioni scientifiche e per l’osservazione naturalistica, e che avevano nel tempo raccolto collezioni importanti di campioni minerali e biologici, hanno lasciato disperdere tale patrimonio, destinando le risorse a disposizione all’acquisto di materiale digitale. Non starò qui a ricordare altre scelte ugualmente distruttive: quante sono oggi le scuole che dispongono di un teatro, di una sala da musica, di una biblioteca? Eppure, basterebbe considerare che tutte le dotazioni citate potevano essere utilizzate per molte generazioni di studenti, mentre le apparecchiature digitali sono soggette a un rapido superamento, per capire quanto i condizionamenti che, con la complicità dei governi, hanno finito con l’affermarsi comportino lo spreco delle limitate risorse disponibili per sostenere il lavoro didattico.
La questione non è tuttavia solo di qualità dell’impegno delle risorse finanziarie. Se si potesse dimostrare che tramite le nuove dotazioni è possibile migliorare la qualità dell’educazione scolastica, se ne dovrebbe sollecitare la disponibilità indipendentemente dal costo. Il fatto è che i dati disponibili vanno in altra direzione. Da qualche tempo nella stampa internazionale, sia quella specializzata, sia quella d’informazione, si legge di progetti centrati su strumentazioni tecnologiche che sono stati interrotti per gli effetti negativi che stavano producendo o, addirittura, si apprende che in alcune università americane nei luoghi di studio sono state eliminate le connessioni alla rete. A mio giudizio erano eccessivi gli entusiasmi precedenti come lo sono gli atteggiamenti negativi che ora si stanno diffondendo. La questione vera è che cosa sia preferibile per l’educazione dei nostri bambini e dei nostri ragazzi. Un fatto è certo: nei laboratori che abbiamo evocato si acquisiva autonomia e si stabilivano rapporti positivi con la natura, mentre la realtà simulata nella quale oggi gli allievi sono immersi, se considerata come un’alternativa, produce l’effetto contrario. La conclusione mi sembra scontata.

Repubblica 1.12.13
L’inchiesta
Le carte dell’indagine della procura di Rieti. E spuntano anche gli eventi fantasma
Dalla sagra del carciofo ai vini da regalare così il Pd del Lazio spendeva i suoi fondi
di Federica Angeli


ROMA — Finanziamenti per «la sagra del carciofo» a Fara Sabina, cento volumi della “Madonna delle Grazie” come cadeau natalizio, consulenze e fatture per eventi fantasma. L’operazione trasparenza si è rivelata, alla fine, un boomerang per il Partito democratico della Regione Lazio. Perché c’è stato chi, sulla pubblicazione online del 2011 fatta all’indomani degli scandali Fiorito-Maruccio, di come sono stati spesi i 2 milioni e 18mila euro a disposizione dell’allora gruppo consiliare, ha buttato un occhio. Tirando fuori “voci” e “consulenze” non semprefatte a rigor di legge. Così i nomi dei 14 consiglieri del gruppo Pd della legislatura 2010-2012 — dall’ex capogruppo Esterino Montino all’attuale capo della segreteria del sindaco di Roma Paolo Foschi — sono finiti tutti in un’informativa del nucleo tributario della finanza di Rieti che domani depositerà il faldone in procura.
Al momento per falso e peculato è indagato l’ex tesoriere del Pd alla Pisana Mario Perilli: sul suo conto corrente, è stato accertato, sono passati molti soldi del gruppo. Ma è quasi certo che, «in virtùdel materiale raccolto e analizzato in questi mesi — spiegano gli inquirenti — altri consiglieri riceveranno a breve avvisi di garanzia». Prove importanti, secondo gli investigatori, della gestione non proprio accorta dei fondi, si nascondono in consulenze, regalie e convegni fantasma.
Prima zona d’ombra è sulla Promogest 3000, la società di consulenza fiscale, a cui sono state liquidate 15 fatture per un ammontare di 18mila euro, ingaggiata dai democratici proprio per «assicurare il regolare adempimento delle pratiche e delle formalità non inerenti la gestione vera e propria del consiglio». In pratica il gruppo regionale ha speso 1.200 euro al mese per avere una ditta esterna che, oltre al tesoriere Perilli, vigilasse sulla bontà delle spese. A quanto risulta neanche una voltala Promogest 3000 ha mosso obiezioni sulla regolarità della contabilità del partito democratico. Neanche per due consulenze legali (finite, anche queste, nelle carte delle fiamme gialle) affidate una a Maurizio Mansutti (5.350) e l’altra a Omar Sarubbo (7.500), entrambi avvocati e consiglieri del Pd di Latina, per mettere a punto «strategie di comunicazione per la provincia di Latina». In realtà quei soldi sarebbero stati spesi per pagare le spese legali di alcuni ricorsi al tar presentati dal candidato sindaco a Latina contro il suo avversario politico, hanno spiegato gli ex Pd della Regione Lazio.
Nel capitolo “spese natalizie” spiccano invece due voci interessanti per gli inquirenti. La spesa di 4.500 euro all’enoteca della Tuscia per (si presume) bottiglie di vino spedite ad elettori e giornalisti del reatino con tanti auguri di buone feste, e quella davvero bizzarra dell’acquisto di «numero 100 volumi “La chiesa della Madonna delle Grazie”», per cui sono stati prelevati dai fondi 2.420 euro consegnati alla tipografia e stamperia Art Graf di Civita Castellana. Un libro che, almeno dal titolo, sembra davvero aver poco a che fare con l’attività politica del gruppo consiliare.
Quanto al paragrafo “fatture opache” in ristoranti e agriturismi per convegni — da “La politica agricola del Pd” che pare non sia stato altro che un finanziamento per la sagra del carciofo a “Iniziative apartitiche per il sì al referendum del 12 e 13 giugno” che essendo apartitico non si capisce per quale motivo dovesse essere spesato dal gruppo — si tratta di fatture per oltre duecentomila euro, molte delle quali pare siano cene o pranzi fantasma. Ovvero mai esistiti, o almeno non per congressi. Al “Pinzimonio” di Fiumicino, ad esempio, il rendiconto parla di una spesa di circa 8.000 euro, ma il titolare del ristorante (un locale con dieci tavolini in tutto) non ricorda di «massicce presenze del gruppo Pd» per dibattiti e incontri.

Repubblica 1.12.13
L’inchiesta
Convegni, hotel e aragoste e il modello emiliano naufraga tra gli scontrini
Coinvolti sinistra, destra egrillini. Anche il wc in nota spese
di Michele Smargiassi


BOLOGNA MAI più un caso Delbono!». Tre anni fa il neosindaco di Bologna fu travolto dall’inchiesta sulle spese per viaggi in dolce compagnia, e la strada della politica bolognese si lastricò di ottime intenzioni.
TUTTI, compresi i consiglieri ora sotto i raggi X delle Fiamme Gialle, udirono l’allarme. Ma chissà, forse fu la generosità degli elettori che non punirono il Pd per il “Cinzia-gate” del suo capofila, e anzi ne rivotarono subito un altro, Virginio Merola. Il postino comunque suonò una seconda volta, l’anno scorso, quando si scoprì che i gruppi consiliari regionali, quasi tutti, compresi i grillini, si compravano le interviste tivù coi soldi della collettività. Ma niente, ora ci risiamo. C’è da chiedersi quale paratia mentale abbia impedito, per dire, a due navigati Pd come Roberto Montanari, ex segretario regionale Ds, e Marco Monari, capogruppo, di rendersi conto che per i 900 euro di autoblu con autista su 140 chilometri (da Capodichino al bell’albergo amalfitano e ritorno) un precario ci deve sfangare un mese.
«Nulla di illegale!», la difesa corale è ovvia quanto debole. Spese di missione giustificate? Si vedrà. Ma dall’hotel veneziano pagato per due notti (perché in contanti?) euro 1.100, fino ai 50 centesimi per la pipì in stazione, quel che suggerisce l’»inchiesta non ordinaria» della Procura nel pozzo dorato dei budget di via Aldo Moro (35 mila scontrini al setaccio), prima ancora che ipotesi di peculato è una colossale perdita dei criteri di sobrietà, congruità e saggia gestione del denaro pubblico che dovrebbero appartenere a ogni serio amministratore.
Le notizie sulle “spese pazze”, se non del carnevalesco come a Roma («Qui nonci sono Batman!»), hanno del grottesco e dello smisurato. Golosità: ecco cene per 30-43 mila euro a testain19 mesi, con conti di ristoranti gourmet da 300 fino a 680 euro per due coperti, mentre la Regione dimezza i buoni pasto ai suoi dipendenti (da 14 a 7 euro). Galanterie a costo zero: se il Pdl passa da Tiffany, per Natale il Pd dona proletari ma erariali panettoni, Sel invece fa regali intelligenti, buoni-libro per 2.200 euro (Gian Guido Naldi: «I revisori ci dissero che era regolare!», be’, almeno un biglietto: i contribuenti augurano buona lettura). L’Idv spende 600 euro in fiori (Liana Barbati: «Le mimose sono un atto politico!», anche i mazzi di rose alle collaboratrici neomamme?). I Cinquestelle comprano un divano (Andrea Defranceschi: «Non sapevamo dove far sedere la gente!», ma era un divano letto: non sapevano dove farla dormire?). Nello spensierato attingere alle tasche di Pantalone, ogni partito ha le sue specialità. L’Udcama fare bella figura con le Onlus versando generosi contributi (Silvia Noè: «Cosa c’è di disdicevole nella beneficenza?», nulla, san Martino donò ai poveri il mantello di un altro, no?). La Lega spande centomila euro in volantini, poster, passaggi tivù e radio, insomma in propaganda. Ma i budget per la vita dei gruppi consiliari possono essere usati per attività di partito? «Ad Amalfi andai per lavoro», protesta Montanari, ma era un convegno di Area-Dem, la Regione cosa c’entra con le correnti Pd?
È un corale, spesso non eclatante ma ubiquo “così fan tutti”, l’andazzo delle note spese emiliane. «Uno spappolamento di sistema, più che di etica personale», commenta Massimo Cacciari che a Bologna ha una cattedra, «sono convinto che molti non si siano neppure resi conto di essere andati oltre». Accade in una Regione politicamente immobile, consociativa e senza vera opposizione da decenni. L’impressione è che nel decalogo del consigliere sia saltata ogni distinzione fra spese istituzionali, finanziamento ai partiti, belle figure “a gratis” e sontuoso apporto al benessere personale con missioni stile “convegno più aragosta”. Uno stile di vita politico fatto di begli alberghi, ristoranti atutte stelle e auto in attesa, un benefit insindacabile e autocertificato, percepito come dovuto e adeguato al rango, anche in uno scenario di crisi. E autorizzato (salvo furbizie): perché di parametri sul modo di spendere ibudget dei gruppi, non c’era fino a pochi mesi fa alcuna traccia in quei regolamenti auto-controllati.
Il sonno della Regione genera mostri. Ma il risveglio è doloroso. «Clima pessimo », i politici girano a testa bassa, aspettando la botta. Isolare mele marce non basta, scricchiola la credibilità del sistema, «stavolta gli elettori non distingueranno fra l’errore e l’errante», ammonisce il politologo Carlo Galli. La Cgil lo dice dai palchi dello sciopero generale che «qui c’è il mondo reale», grida Danilo Gruppi, «e i lavoratori non sopportano più una politica che ostenta cene e hotel di lusso». La “base sociale” del sistema emiliano fa la faccia schifata: «Sconcerto è un eufemismo» non si trattiene il numero uno della Cna Massimo Ferrante.
Chi non la paga psicosomaticamente come Monari, dimissionario da capogruppo e chiuso in casa da settimane, gira a occhi bassi. Assediato dai cronisti, Luca Bartolini del Pdl alza due dita, «dovrei andare in bagno», e chi lo rivede più. Un consigliere di Sel sbarella: «Siamo già tutti colpevoli, come gli ebrei», poi fa mea culpa. Le mozioni Pd sembrano aver stretto un patto per non usare la vicenda come arma congressuale, ma non hanno il controllo, renziani sparsi fanno balenare l’ipotesi tabula rasa, dimissioni generali, anche il sindaco Merola si sgancia: «C’è un tema etico». Domani, la riunione «urgente» della direzione del Pd non sarà una passeggiata.
E qui, la cosa sale di grado. Perché aipiani alti delle torri di Tange siede da ormai quindici anni un grande kingmaker del Pd, il governatore Vasco Errani, bersaniano tuttora intoccabile, che è appena uscito immacolato dall’indagine sui fondi regionali a un’azienda del fratello, e non intende finire tritato dalle dismisure dei peones. Hanno provato a frugare anche tra le sue ricevute, reazione durissima: «Non finiremo nel frullatore». Epifani si fa vivo per difenderlo. Ma è proprio «l’onore dell’Emilia Romagna» come istituzione mai colpita dagli scandali che ora rischia di scivolare sulle fatture di un ceto politico abituato ai privilegi a piedilista. Anche se i processi non dovessero mai arrivare. Anzi. Un ex assessore comunista d’un altro secolo, Guido Tampieri, ha preso la penna per invocare le scuse e ricordare un semplice principio: «Le responsabilità penali sono individuali, quelle politiche quasi mai».

l’Unità 1.12.13
Sfida Sky, ascolti giù: è allarme gazebo
Share crollato rispetto alle primarie del 2012. Bene solo Twitter
Civati: bisogna costruire il Pd degli elettori
Primarie, ascolti dimezzati in tv. Allarme affluenza
Il confronto a tre crollato al 2,7% di share rispetto al 6,17% della sfida a cinque del novembre 2012. Boom solo su Twitter
Il Pd teme per la partecipazione ai gazebo di domenica prossima
di Giuseppe Vittori


Almeno in televisione, la risposta del pubblico non è stata incoraggiante. Rispetto al confronto dell’anno scorso, il dibattito di venerdì sera tra Matteo Renzi, Gianni Cuperlo e Pippo Civati ha registrato un crollo degli ascolti, più che dimezzati, calati al 2,67 per cento di share, rispetto al 6,17% della sfida a cinque per le primarie del novembre 2012.
I dati sull’audience diffusi da Sky Tg24, ovviamente, alimentano le preoccupazioni sul rischio di un calo proporzionale nell’affluenza ai gazebo domenica prossima. Ottimista Renzi, che prevede una partecipazione alle primarie di «due milioni di persone».
Ma certo non è di grande consolazione sapere che in compenso, come spiega la stessa nota di Sky, l’evento è stato un successo su Twitter, con oltre 87mila «cinguettii». Va detto però che il confronto del 2012 era tra leader che si sfidavano per la candidatura alla guida del governo, qui si trattava pur sempre di un congresso di partito. Una sfida resa comunque meno interessante e appassionante dal fatto che, al momento, nessuno vede elezioni all’orizzonte.
Gli spettatori unici del confronto, informa ancora la nota, sono stati 2.537 mila, tra Sky Tg24 Hd e Cielo, con un’audience media di 758 mila spettatori (483 mila spettatori medi su Cielo e 275 mila su Sky Tg24). Lo share è stato del 2,7%, di cui 1,7% su Cielo e 1% su Sky Tg24 Hd.
Il 12 novembre del 2012, la sfida tra Pier Luigi Bersani, Matteo Renzi, Nichi Vendola, Laura Puppato e Bruno Tabacci fu vista sempre su Sky Tg24 e Cielo da 4.569.755 spettatori unici e 1.885.816 spettatori medi, con uno share del 6,22%. E Sky Tg24 fece record di ascolto nella fascia 20.30-22.30, con oltre 700 mila spettatori medi.
La serata di ieri ha però «ottenuto numeri da puntata di X Factor» su Twitter: oltre 87mila tweet, informa la tv satellitare, dei quali oltre 54mila con l’hashtag ufficiale #ilConfrontoPd. Tra i trending topic si sono alternati per tutta la serata e anche nel corso della notte hashtag legati al programma con i nomi dei candidati ma anche con varie ironie.
Le reazioni dei tre sono state comunque positive. Matteo Renzi ha scritto le sue impressioni sulla Enews, ovvero che il Pd «ha mille limiti, mille difetti. Però coinvolge i cittadini. E ci mette la faccia come nel confronto Sky di ieri (una discussione civile, no? A me è piaciuta e trovo che Gianni e Pippo siano stati molto bravi. Mi piacerebbe che la facessero anche gli altri)».
Gianni Cuperlo su Facebook si è detto «soddisfatto»: «Credo che chi ha assistito al confronto abbia visto tre facce diverse e ascoltato tre idee diverse che costituiscono, però, una nuova complessiva immagine del Pd e della sua classe dirigente». La «notizia più importante per chi crede nel nostro partito», secondo il candidato alla segreteria che ammette: «Per me non è stato facile. Ma ho cercato di insistere sul merito delle questioni e delle proposte».
A caldo Pippo Civati ha prima scherzato («datemi un attimo di pausa dopo una tonnellata di adrenalina»), poi ha commentato così: «Noi eravamo convinti di fare una bella campagna e continueremo. Non so come dirvelo: io non insidio Renzi, io vinco».

il Fatto 1.12.13
Te le do io le primarie
Il grande flop in tv dei tre caballeros Pd
Venerdì solo 758mila spettatori per il confronto su Sky
Un milione in meno rispetto a quello del centrosinistra del 2012
Allarme-affluenza per l’8 dicembre
di Stefano Feltri


TELEPRIMARIE SKY A PICCO ALLARME GAZEBO: SE VOTASSE SOLO UN MILIONE?
758 MILA SPETTATORI MEDI CONTRO 1,8 MILIONI PER IL CONFRONTO DEL 2012. SOLTANTO PIPPO CIVATI, VINCITORE MORALE DEL DIBATTITO, PROVA AD ATTIRARE ELETTORI DELUSI DA CINQUE STELLE E SEL

Qualcuno sa già cosa votare e non ha bisogno di guardarli in tv, qualcuno non ha Sky e non si ricordava il canale Cielo sul digitale, qualcuno si accontenta di giornali e siti web. Quindi non è ancora detto che le primarie per la segreteria del Pd di domenica prossima saranno un fallimento. Ma se andassero a votare tutti gli spettatori che anche solo per un istante, venerdì sera, sono passati dal confronto tra Matteo Renzi, Gianni Cuperlo e Pippo Civati nell'arena di X Factor, il segretario democratico sarebbe deciso da 2,5 milioni di persone. Non male. Ma se invece si guarda l'ascolto medio, 758 mila persone, beh, sarebbe un disastro. Soprattutto se confrontiamo il dato di venerdì con quello del 12 novembre 2012: sfida tra Pier Luigi Bersani, Matteo Renzi, Nichi Vendola, Laura Puppato e Bruno Tabacci per la candidatura a premier del centrosinistra: 4,6 milioni di spettatori unici e 1,8 di spettatori medi. Facendo una grezza proporzione, se nel 2012 1,8 milioni di spettatori di media sono diventati 3,2 milioni di votanti al primo turno delle primarie, nel 2013 ci possiamo aspettare una partecipazione di 1 milione e 350 mila persone, sotto la soglia indicata da Renzi e Cuperlo come auspicabile, cioè 2 milioni. Ma chissà, forse ormai Twitter conta più dello share, e #ilconfrontoPd è stato uno dei trending topic della serata. Di primarie, insomma, se ne parla.
Il giorno dopo il confronto sono due i temi che si sono imposti, tra loro legati: il rischio flop e il successo di Pippo Civati. Non c’è un modo scientifico per misurare chi vince in un confronto tv, ma tutte le approssimazioni disponibili dimostrano che il 38enne di Monza, un tempo sodale di Renzi, se l'è cavata bene. Ieri pomeriggio i lettori del sito del Corriere della Sera lo indicavano come il vincitore con il 46,3 per cento dei clic, seguito da Renzi con il 38,7 e in coda Cuperlo con il 15 per cento. Su LaStampa.it   Civati conduce con il 37,9 per cento in un istant poll tra 700 lettori, seguito da Renzi con il 36,8, terzo Cuperlo con il 18,4. Il momentum, come si dice nelle campagne americane, di Civati e il tema partecipazione sono intrecciati perché l'ex consigliere regionale lombardo è l'unico dei tre che sta cercando di allargare la platea dei partecipanti, non potendo puntare alla vittoria. Ha voluto offrire un riferimento a quei 3,4 milioni di elettori che tra le politiche del 2008 e quelle del 2013 hanno abbandonato il Pd, parla in particolare quella parte che ha votato Movimento Cinque Stelle. In un confronto povero di posizioni nette e impegni concreti, Civati ha toccato tutti i temi cari all'elettorato grillino: legge sul conflitto di interessi, reddito minimo di cittadinanza, taglio dei costi della politica, una spruzzata di euroscetticismo (scorporare le spese per ricerca e istruzione dal patto di stabilità e quindi dal tetto al tre per cento al rapporto deficit-Pil, buona idea ma politicamente impossibile). Ma Civati ha parlato anche all'elettorato di Sinistra ecologia e libertà, privo di riferimenti per le scelte ondivaghe del partito (un po' all'opposizione un po' dialogante con Enrico Letta) e per la caduta di credibilità del leader, Nichi Vendola, ormai citato dai giornali solo per i suoi rapporti con la famiglia Riva, quella dell'Ilva di Taranto. Ai vendoliani delusi Ci-vati ha promesso di andare subito al voto e di allearsi insieme, Pd e Sel, ha parlato di beni pubblici, di matrimonio gay, di imposta patrimoniale dopo una riforma del catasto.
GLI ALTRI DUE INVECE volevano consolidare la propria base: Cuperlo parlava solo alla sinistra post comunista (nel suo pantheon c'è Enrico Berlinguer, le privatizzazioni sono sempre sbagliate), anche nell'eloquio era tradizionalmente di sinistra: “La crisi è un problema di domanda e non di offerta”. Lo scopo di Renzi era non attirare polemiche: ha attaccato Letta solo in modo laterale – contestando la scelta di affidare la revisione della spesa al commissario Carlo Cottarelli – e si è concesso qualche frecciata ai dalemiani che fecero la “vergognosa privatizzazione di Telecom”.
L'ultimo sondaggio sulle primarie, realizzato dal quotidiano Europa, dava a Renzi una percentuale di consensi del 70 per cento. Il sindaco di Firenze cerca di amministrare il vantaggio, senza attaccare gli oppositori. Anche se questo potrebbe andare a scapito della partecipazione, come dimostrano i risultati di ascolto del confronto su Sky.

La Stampa 1.12.13
Nel Pd ora scatta l’allarme “Si rischia la fuga dai gazebo”
Spettatori dimezzati su Sky, calo dei voti tra gli iscritti. Renzi: obiettivo 1,5 milioni
2,5 milioni: Il pubblico del confronto su Sky (share 2,7%) Lo scorso anno erano 4,5 milioni (6,22%)
300mila: gli iscritti che hanno votato alla prima fase delle primarie. Nel 2009 467 mila
di Francesca Schianchi


Nei comitati elettorali resta una certa preoccupazione. E infatti l’asticella rimane prudentemente più bassa degli scorsi appuntamenti: «Se andasse a votare un milione e mezzo di persone alle primarie sarebbe un risultato superiore a tutti gli altri partiti», diceva ieri Matteo Renzi a proposito dell’affluenza ai gazebo delle primarie dell’8 dicembre.
Già, perché qualche segnale di disaffezione c’è, e raggiungere i tre milioni di elettori delle primarie 2012 – ma anche del congresso del 2009 – non appare per niente scontato. Nella prima fase del congresso è calato il voto tra gli iscritti rispetto al 2009: da 467 mila tesserati votanti, stavolta si è passati a quasi 300 mila. Con cali vistosi anche in regioni rosse come l’Emilia, dove dai quasi 50 mila del 2009, gli iscritti votanti quest’anno sono stati meno di 30 mila. E un’altra piccola spia sono gli ascolti del confronto tra i tre candidati andato in onda venerdì sera su Sky, più bassi rispetto a un anno fa: 2.537.000 ieri l’altro, con un’audience media di 758 mila spettatori e share del 2,7%, contro i 4.569.755 spettatori del 2012, pari a uno share del 6,22%.
«Che l’affluenza ai gazebo sarà più bassa del 2012 è una quasi certezza: allora erano primarie di coalizione, con più partiti impegnati, è fisiologico ci sia un calo», mette le mani avanti Patrizio Mecacci, responsabile del comitato per Cuperlo. E il calo nel voto degli iscritti? «Beh, a forza di togliere loro potere e delegare tutto a primarie aperte, in tanti cominciano a pensare che non abbia più senso iscriversi», valuta con una punta di polemica. Per non parlare del peso che possono avere avuto nel togliere entusiasmo all’elettorato incidenti come quello dei 101 su Prodi o, più recentemente, le sanguinose polemiche sulle tessere.
La soglia psicologica sotto cui sarebbe meglio non andare è due milioni di elettori: il numero che sia l’ex segretario della Fgci che il sindaco hanno indicato nel confronto tv. «Io mi aspetto tanta gente come le altre volte», più ottimista Pippo Civati: «Faremo il porta a porta», promette, «ci saranno gli “spingitori” di primarie», scherza. Più tradizionalmente, tutti i candidati in questa ultima settimana gireranno come trottole per convincere più elettori possibile. Civati era in Lombardia ieri e sarà a Bologna oggi; Cuperlo ha già fissato tappe nelle grandi città, così come Renzi, che oggi viaggia tra Pesaro, Venezia e Udine, poi sarà a Roma, Bologna, Torino e Milano. «Coinvolgi dieci persone», invita il sindaco a scaricare dalla propria rubrica telefonica dieci nomi «che magari non vanno a votare perché non sanno che sono primarie aperte», e bisogna portare alle urne.
Basterà? «Dieci giorni prima di qualunque primaria che abbiamo fatto, si profetizza il flop. Poi arrivano milioni di persone: sarà così anche questa volta», è positivo il «turco» Matteo Orfini, sostenitore di Cuperlo. Possibilista anche l’ex ministro Paolo Gentiloni, che sostiene Renzi: «Rispetto al duello Bersani-Renzi c’è meno incertezza e tensione sulla competizione tra candidati». Ma, sottolinea, può scattare un altro meccanismo che trascini molta gente ai gazebo: «Una spinta a dare un’investitura forte di cambiamento a Renzi, a prescindere dal risultato scontato».

Repubblica 1.12.13
Crollato lo share più che dimezzati gli spettatori


ROMA — Crollano gli ascolti tv, rispetto all’anno scorso, per il confronto fra i candidati alla segretaria del Pd. La trasmissione ha ottenuto un'audience media di 758.000 spettatori (483.000 spettatori medi su Cielo e 275.000 su Sky Tg24), con uno share medio del 2,7%, di cui 1,7% su Cielo e 1% suSky Tg24. Il dibattito andato in onda il 12 novembre del 2012, fra Bersani, Renzi, Vendola, Tabacci e Puppato ottenne 1.842.000 telespettatori (683.000 su SkyTg24 e 1.159.000 su Cielo) e il 6,07% di share (2.25% su SkyTg24 e 3,92% su Cielo). L’emittente però parla di cifre buone. infatti Cielo ha raccolto quasi il 40 per cento di ascolto in più rispetto alla media delle audience registrate negli stessi orari nei tre venerdì precedenti. Per Sky Tg24 la crescita rispetto allo stesso periodo è stata di otto volte. E lo share medio è superiore di quasi il 3 per cento a quello di altre trasmissioni politiche in onda in prima serata sulle tv generaliste.

Repubblica 1.12.13
Il retroscena
I candidati e la paura delle primarie flop “Sotto i due milioni sarà un insuccesso”
Il partito in allarme: siamo lontani dal dato del 2012
di Giovanna Casadio


ROMA — Andrea Ranieri, civatiano, è andato a volantinare a Monteverde vecchio, quartiere bene di Roma, dove si presenterà capolista per Pippo. Volantini rifiutati o commenti: “Questa volta non mi interessa...”. Dai piccoli esempi ai sondaggi, il flop delle primarie del Pd è più di un rischio: è una previsione. I renziani sono in fibrillazione: «Cosa sta facendo il partito? Quando pensa di fare partire la campagna di mobilitazione per l’8 dicembre?». Ettore Rosato, che ha seguito tutta la partita dei listini (cioè dei candidati per l’Assemblea nazionale al seguito dei tre sfidanti), per conto di Areadem, la corrente di Franceschini, che appoggia Renzi, dice che sarà «molto dura questa volta ». Perciò, aggiunge, il partito deve mobilitarsi, «dia un’accelerata sulla campagna di mobilitazione e nessun candidato alla segreteria pensi di vincere - o di perdere meglio - grazie alla scarsa mobilitazione».
Messaggio per Cuperlo. L’ora dei veleni è puntualmente scoccata. I dati di ascolto del confronto a tre - Matteo Renzi, Gianni Cuperlo, Pippo Civati - in tv su Sky di venerdì, non sono confortanti: il 2,7% di share è pochino in assoluto ed è, tra l’altro, la metà di un anno fa (6%), stessa tv, stessa arena di X Factor, anche se la sfida era a cinque (Bersani, Renzi, Vendola, Puppato, Tabacci) e per la premiership. Negli otto giorni che mancano alle primarie dell’Immacolata, nel Pd ci si gioca il tutto per tutto. Se i votanti
ai gazebo fossero meno di due milioni sarebbe un insuccesso: Renzi lo confida. Cuperlo è accusato dai renziani di puntare a un voto «controllato» e perciò di avere infarcito i listini nei diversi collegi dei capibastone del partito. L’apparato c’è tutto, da D’Alema capolista a Foggia a Stefano Fassina a Roma, a Franco Marini, Matteo Orfini si è messo nel listino di Salerno in funzione anti De Luca, sindaco passato con Renzi. I cuperliani si scatenano segnalando le loro novità (Gad Lerner a Milano) e indicando le acrobazie in Lombardia dove nei listini di Renzi accanto ai candidati viene segnalata la corrente di appartenenza.
Sospetti, oltre ai veleni. I civatiani sono in allerta dopo avere appreso che il Pd di Napoli ha prenotato per le primarie di domenica prossima 280 mila schede: «Sono potenziali “pacchetti”, come per le tessere?». Renzi si è battuto, e l’ha spuntata, per avere lo stesso numero di seggi delle primarie del 2012, ovvero 8.500. Gianni Principe, nella commissione per il congresso per conto di Civati, ammette che gira l’impressione non si stia cercando di incrementare la partecipazione. Chi usa meno fairplay, accusa esplicitamente Cuperlo e lo stato maggiore del partito ancora in mano ai bersaniani di avere una convenienza a «recintare» il popolo delle primarie: se la gara è tutta interna al partito, il rivale di Renzi risale nei consensi. «I listini di Cuperlo sono pieni di gente della Cgil, così c’è una mobilitazione di un certo tipo e lui se ne avvantaggia», sempre fonte renziana. Sdegnata reazione cuperliana. Lo staff di Gianni segnala il sondaggio, non commissionato, che Michele Di Salvo ha fatto per Cross Media. S’intitola “Istant evalutation” e fotografa quanto hanno vinto ai punti nelle singole domande i tre sfidanti nel confronto tv. Cuperlo è stabilmente secondo sia rispetto a Civati che a Renzi, è risultato più credibile. Civati è stato brillante, ha surclassato gli altri su disoccupazione giovanile, Berlusconi e spending review; Renzi alla domanda sui metodi per non vincere (il tafazzismo della sinistra) è andato benissimo. Tuttavia, sempre secondo i sondaggi, la disaffezione per la politica è tale e tanta da non lasciare speranza. Civati è il più ottimista: «Le energie ci sono - incoraggia - basta non remare contro e ci sarà una buona partecipazione». Il Pd ha stampato circa 4 milioni di schede, sperando negli oltre tre milioni di votanti di un anno fa.

il Fatto 1.12.13
Renzi prepara la sua “marcia su Roma”
Nuova sede, nuova segreteria tutta di quarantenni
E pressing continuo su Colle e governo
di Wanda Marra


Meno 8 a un partito che sa vincere”. Così Matteo Renzi su Facebook si prepara al rush finale, in vista delle primarie dell’Immacolata. “Stavolta è proprio la volta buona”, sottolinea anche nella E- News. Saranno giorni complicati per il fu Rottamatore, segretario in pectore praticamente da quando si è candidato il primo settembre a Genova. Girerà a tappeto l’Italia e - ovviamente - occuperà gli studi tv. Ma senza la carica aggressiva e di rottura che l’hanno portato a scalare i vertici del Pd, contro tutto e contro tutti. Si è visto anche nel duello Sky di venerdì sera: ecumenico, persino buonista, responsabile e affidabile, ha volutamente mantenuto il freno tirato e ha evitato di sparare sul governo. Per ora.
GLI OCCHI di tutti sono puntati sul “dopo”. Cosa succederà “dopo” l’8 dicembre, quando verosimilmente il sindaco di Firenze vincerà le primarie? Al Nazareno sono mesi che temono l’entrata trionfale di Matteo, pronto a travolgere equilibri acquisiti da anni. Ma avranno un’intera settimana per finire di abituarsi all’idea. Il segretario entra in carica ufficialmente con l’Assemblea eletta dalle stesse primarie che si riunisce per la prima volta il 15 dicembre a Milano. Se il vincitore prende più del 50% deve solo proclamarlo, in caso contrario vota e elegge. Potrebbe quindi persino avere la parola definitiva. E comunque vada nella prima seduta elegge presidente e tesoriere. Non è escluso che voti subito anche la direzione - il vero organo decisionale. Non per niente nella costruzione delle liste, Renzi ha lavorato in prima persona per assicurarsi il 51% di renziani doc, ai danni degli uomini di Franceschini e Letta. Mentre la segreteria che sarà del tutto rinnovata rispetto a quella di Epifani è su nomina del segretario. E dunque, il 16 mattina Matteo si insedia a San-t’Andrea delle Fratte? In realtà non è per niente detto, visto che tutti sanno che quella sede non gli piace. Troppo grande poi, per un partito che deve snellirsi (tremano i funzionari). Molti pensano che andrà all’Ostiense, dalle parti di Eataly, complice l’amico Farinetti. Ovunque sia, ci starà poco: non più di due, tre giorni alla settimana. Segretario o no, almeno fino a maggio è il Sindaco di Firenze, e tra l’altro ha sempre detto di volersi ricandidare. La vita di partito finora l’ha evitata come la peste. Dunque non stazionerà nella Capitale. Domenica aspetterà il risultato delle primarie a Firenze. A Roma magari ci arriverà il 9 per incontrare Enrico Letta.
La segreteria dovrà dunque essere così forte da permettergli di stare lontano. “Matteo è uno che le cose le decide all’ultimo momento”, racconta chi lo conosce bene. Ma i criteri sono già chiari: sarà una snella (una decina di persone o poco più), non a prevalenza fiorentina, con il 50% di donne, rappresentanza di tutta Italia e età media quarant’anni. I nomi in pole position sono Stefano Bonaccini, il coordinatore delle primarie, segretario dell’Emilia Romagna e Luca Lotti, oggi responsabile Enti Locali. Si parla poi di Lorenzo Guerini, ex sindaco di Lodi, che per Renzi ha gestito tutta la partita del congresso. E poi il deputato Dario Parrini, che ha steso il documento congressuale insieme a Enrico Morando. E Michele Emiliano, in rappresentanza del sud. Tra i parlamentari “fidati” Renzi potrebbe puntare su David Ermini, avvocato, punta di diamante in Commissione Giustizia e Matteo Richetti, uno dei suoi più antichi collaboratori. Tra le donne, si parla di Deborah Serracchiani. Candidate anche Maria Elena Boschi e Simona Bonafè, anche se è difficile che le inserisca entrambe. Per la direzione molto dipenderà dalle percentuali finali che prenderanno i tre: lì sono rappresentate anche le minoranze.
A QUEL punto, ecco che Matteo alzerà l’asticella rispetto al governo. Ieri nella E-news l’ha ribadito: “Il governo delle Larghe Intese non c'è più. Ora c'è una maggioranza di emergenza”. Poi precisa: “Chi mi vota, non vota solo per me. Vota per un pacchetto di proposte specifiche”. Una sorta di programma: “Rottamare le indennità di Senato e Province”, “riforma del lavoro”, “disboscamento” delle regole del gioco “sul fisco, sulla burocrazia, sulla giustizia, sull'energia”. E poi, c’è la questione legge elettorale: Renzi non presenterà la sua proposta la settimana prossima, ma a primarie fatte. E a quel punto detterà le condizioni del “suo” Pd a Letta. Non sarà il suo primo atto da segretario far cadere il premier, e dunque c’è da pensare che alla verifica voluta da Napolitano i renziani voteranno sì. Ma poi comincerà il pressing sul Colle per convincerlo che un altro governo è possibile. Dopo il voto.

Corriere 1.12.13
Dalla tv alle piazze, rush finale per i dem
Renzi: ognuno porti altri dieci a votare
E incalza Letta: larghe intese finite, il governo d’emergenza faccia le cose
di R. R.


ROMA — Dopo il confronto televisivo di venerdì sera, ieri è proseguita la «campagna elettorale» dei tre candidati alla segreteria del Pd. Matteo Renzi nella sua Enews ha sentenziato che «il governo delle larghe intese non c’è più. Ora c’è un governo di emergenza, diverso dalle larghe intese e che ha i numeri per fare le cose che da anni si dicono e non si fanno». E ha aggiunto di essere l’uomo che può garantire le riforme: «Però io da solo non ce la faccio. Non ci sono supereroi da queste parti: ci sono persone che credono che insieme si possa cambiare il mondo. Una leadership forte è fondamentale. Ma il vero leader è chi sa fare insieme agli altri». Nella newsletter il sindaco di Firenze lancia anche l’iniziativa «porta a votare dieci persone», chiedendo ai suoi simpatizzanti di «scaricare» le rubriche di telefonino e email, e annuncia una mobilitazione per la vigilia del voto, sabato 7 dicembre: «Mille tavolini in mille piazze d’Italia per raccontare cosa sono le primarie... anche come si vota, le indicazioni logistiche». Un modo per incrementare l’affluenza, che secondo Renzi sarà comunque alta: «Due milioni di persone», anche se già «un milione e mezzo sarebbe un successo». A Palermo per un’iniziativa elettorale, Renzi torna a mettere in guardia contro il rischio di «sottovalutare» Berlusconi: «È come i gatti, ha sette vite. Non ha saputo governare, ma è bravissimo a fare opposizione e a fare la campagna elettorale». Contemporaneamente, però, ha teso una mano a «chi in passato ha votato Berlusconi ed è ora deluso»: «Siccome sono italiani come noi, gli dobbiamo dire di provare a fare qualcosa insieme». E, sul modello di partito, ha dichiarato che «la prima cosa che faremo è una gigantesca campagna nelle scuole».
Gianni Cuperlo, a Bergamo, ha sottolineato la necessità di superare il clima di austerity se si vuole fare sviluppo: «Se sarò segretario, chiederò che il governo vada in Europa a spiegare, battendo i pugni, che la strategia di questi anni è fallita: l’idea che si parte dal rigore per poi creare crescita e lavoro è sbagliata. Servono politiche espansive». Cuperlo quindi ha chiesto al governo di «cambiare passo, perché ora non ci sono più alibi»: «Deve mettere al centro il dramma del Paese che attraversa la crisi più drammatica della sua intera storia. Servono azioni mirate, va messo al primo posto il lavoro per creare domanda, occupazione, reddito e consumi». Infine, Cuperlo ha attaccato il rivale Renzi sia in quanto portatore di «una sostanziale continuità con le ricette degli ultimi anni», sia criticando la sua annunciata intenzione di non voler in ogni caso lasciare la poltrona di primo cittadino fiorentino: «Se ti candidi per cambiare tutto nella sinistra italiana, non puoi fare un secondo lavoro».
E contro Renzi si è espresso anche Pippo Civati, a Brescia: «È passato da voler rottamare i vecchi dirigenti a candidarli. Una scelta inspiegabile». Civati ha anche parlato della sua idea di Pd: «Dobbiamo tornare a rappresentare le periferie, basta essere ancorati ai palazzi romani. Il mio sarà un partito che non dovrà dubitare di abbassare le tasse sul lavoro, piuttosto che quelle sul patrimonio».

il Fatto 1.12.13
Il favorito come il Papa: “Convention a Lampedusa”
Renzi ieri al comizio di Palermo

di g.l.b.

“Al Qaida? Il suo quartier generale è Bengasi’’, rivela a sorpresa a Palermo Matteo Renzi, che il giorno dopo il confronto tv con Cuperlo e Civati si gioca in Sicilia le ultime carte in vista delle primarie dell’8 dicembre. Nel cinema Rouge et Noir, pieno ma non straboccante di gente, Renzi parla da segretario del Pd e da presidente del Consiglio, puntando su Mediterraneo e immigrazione, ed esordendo con un riferimento ‘’a effetto’’: “Scusate il ritardo – sono le prime parole pronunciate sul palco, dopo avere dribblato i giornalisti entrando da una porta secondaria - ma il 30 novembre per Firenze è un giorno importante: il Granduca abolì la pena di morte’’. Promette l’abolizione del Cnel (‘’sono cento consiglieri, guadagnano oltre 2000 euro al mese e nel 2013 non hanno prodotto alcun parere’’) e parla di ‘’accoglienza’’, annunciando una convention a Lampedusa con Crocetta, arrivato alla fine all’intervento, e lo stato maggiore del Pd siciliano, Giuseppe Lupo, Fabrizio Ferrandelli e Davide Faraone schierati sotto il palco, quest’ultimo chiamato in fretta a tamponare gli effetti dell’ingresso in sala di Giuseppe Arnone, dissidente di Agrigento su cui pende la richiesta di due anni del pubblico ministero Andrea Maggioni che lo accusa di tentata estorsione per ottenere un posto in lista alle scorse regionali. Armato di uno striscione di denuncia contro il Pd di Agrigento, che non accoglie la richiesta di iscrizione sua e di Graziella Ancona, Arnone ha tentato di sventolarlo davanti a Renzi ma per il Pd l’imbarazzo si è sciolto in un equivoco: Renzi lo ha invitato a metterlo via scambiandolo per una protesta operaia, analoga a quella dei 164 operai dell’Ansaldo Breda di Palermo che rischiano di perdere il posto di lavoro dopo che l’azienda ha rinunciato a partecipare ad una commessa per la ristrutturazione di 300 carrelli ferroviari: il sindaco di Firenze li ha incontrati alla fine del suo intervento.

Corriere 1.12.13
La legge elettorale ha le ore contate. Spunta il «Matteum»
Da Renzi un Mattarellum a doppio turno
di Tommaso Labate


ROMA — «Devono capire tutti che sulla legge elettorale questa è la volta buona. Vedrete…». Mancano ventiquattro ore al momento in cui il Senato di esprimerà sull’ordine del giorno Calderoli per il ritorno al Mattarellum. E quarantotto alla sentenza della Consulta sul Porcellum. Il mantra che Matteo Renzi ripete ai suoi, stavolta, non è propaganda per guadagnare qualche punto in più alle primarie. Né tantomeno un preavviso di sfratto all’esecutivo, dove tutti — a cominciare dal vicepremier Angelino Alfano — guardano con terrore alle mosse che il sindaco di Firenze ha intenzione di compiere sulla madre di tutte le riforme. Anche perché, stavolta, la «carta segreta» c’è davvero. Ed è nascosta in un blocchetto di appunti che il sindaco di Firenze ha condiviso col politologo Roberto D’Alimonte, che è colui che ci ha lavorato, e con un ristrettissimo numero di collaboratori.
Dal «Porcellum» al «Matteum», e cioè alla nuova legge elettorale che Renzi ha intenzione di far presentare alla Camera nei prossimi giorni, il passo sarà lunghissimo. Aveva due carte su cui puntare, il sindaco di Firenze. Una era il ritorno a un Mattarellum corretto, l’altra era un maggioritario a doppio turno. Il colpo di teatro è che alla fine ha optato per tutti e due.
Funzionerà così, la riforma che ha in testa Renzi e che rimanda a una legge elettorale in due turni. Alla prima tornata, che servirà ad eleggere il 75 per cento dei deputati e dei senatori, si voterà come nella parte maggioritaria del vecchio Mattarellum. Le coalizioni presenteranno i propri candidati nei collegi — gli stessi delle elezioni del 1994, del 1996 e del 2001 — e il primo chi prende più voti si assicura lo scranno a Montecitorio o Palazzo Madama. Il restante 25 per cento dei seggi, e cioè il premio di maggioranza che garantirebbe la governabilità, verrebbe assegnato due domeniche dopo. Come? Con una sfida nazionale tra le prime due coalizioni che avranno ottenuto più voti.
La bozza non è ancora definitiva. E ci sono punti su cui è in corso un approfondimento, soprattutto su quel Senato che per la Costituzione dev’essere eletto su base regionale. Ma il nucleo centrale del «Matteum» è tutto in quei foglietti che hanno già compiuto, via posta elettronica, diversi «viaggi» tra Roma e Firenze. Foglietti che possono salvare il bipolarismo e raggiungere i due obiettivi che Renzi ha citato anche durante il confronto su Sky: «Sì alla governabilità», «no all’inciucio».
Con questa carta in tasca, per il sindaco di Firenze conta poco che la Consulta dichiari o meno ammissibile il ricorso contro il Porcellum. E non solo perché, come sussurra Roberto Giachetti, «qualunque sia la decisione della Corte Costituzionale è chiaro che poi la palla tornerà in Parlamento». Quanto perché, col «Matteum» confezionato da D’Alimonte, i renziani sono convinti di riuscire, in un colpo solo, a stanare eventuali «meline» dei governisti e a preservare la vita del governo di Enrico Letta. Come? Semplice. «Se Letta e Alfano dicono entrambi la verità», confida uno dei pochissimi che ha avuto accesso alla bozza renziana, «questa legge dovrebbero votarla entrambi, e quindi non ci sarebbero contraccolpi per il governo». Il primo perché il Mattarellum a doppio turno è la migliore sintesi delle proposte del Pd, «che è il suo partito». Il secondo perché, «se è vero che rimane nell’ambito del centrodestra berlusconiano, può trattare i collegi col Cavaliere nel momento in cui definisce l’accordo elettorale». D’altronde, se quest’accordo era fruttifero per partiti molto più piccoli con Berlusconi (’94), Occhetto (’94) e Prodi (’96) all’epoca del Mattarellum, «non si vede perché non possa diventare un’occasione buona anche per una forza come il Nuovo centrodestra». Le uniche cose che la riforma renziana terrebbe fuori dalla porta sono il ritorno al proporzionale puro e, con esso, il rischio di ritrovarsi una nuova legislatura all’insegna delle larghe intese. Ed è per questo, per capire come sarà recepita a Palazzo Chigi, che adesso Renzi preme sull’acceleratore e freme dalla voglia di lanciare sul tavolo «la carta segreta». Come a dire, «io mi sto comportando lealmente col governo. Vediamo se il governo farà lo stesso con me».

l’Unità 1.12.13
Al Congresso del Psi
Martelli: «Meglio Renzi che Cuperlo»


Claudio Martelli prende la parola al congresso del Psi, che si sta svolgendo in questi giorni a Venezia, e si schiera a favore di Matteo Renzi nella battaglia per le primarie Partito democratico. «Cuperlo, per quanto forbito, parla un linguaggio da “corazzata Potemkin”», afferma l’ex ministro socialista, alludendo al capolavoro di Eisenstein, o forse direttamente allo sberleffo che gli aveva riservato Paolo Villaggio in una celebre scena di «Fantozzi». Secondo Martelli il deputato triestino candidato alla guida del Pd «rappresenta chi non vuole un disancoramento dalla tradizione comunista, che Renzi ha sfidato e vinto. Scusate se è poco». E ancora: «Non mi dispiace la carica adrenalica di Renzi. Bisogna vedere se vuole essere Gerhard Schroeder, Tony Blair o avvicinarsi al programma di Bettino Craxi degli anni Ottanta». Infine, l’interrogativo o forse l’auspicio più impegnativo di tutti: «Renzi vuole porre fine alla diaspora socialista?».
A margine dello stesso congresso Nichi Vendola aveva invece dichiarato di aver visto il confronto tra gli sfidanti del Pd e di aver giudicato Pippo Civati il più efficace. «Perché è quello che capisce quanto sia paradossale per un partito di sinistra vivere l’esperienza, ieri delle larghe oggi delle strette intese, e da questo punto di vista Civati ha anche la freschezza di alludere a una sinistra che è capace di intrecciare il terreno dei diritti civili con il terreno dei diritti sociali».

l’Unità 1.12.13
«Incompatibile». Dall’Antitrust nuova tegola su De Luca
Non può essere viceministro e sindaco
Guai a catena: dal Crescent al caso del pastificio Amato
di Raffaele Nespoli


SALERNO Non bastassero gli avvisi di garanzia e i sigilli al Crescent, le accuse per corruzione insieme al figlio Piero nell’ambito del crac Amato e le intimidazioni; ieri Vincenzo De Luca ha dovuto incassare anche la decisione dell’Antitrust che ha sancito l’incompatibilità tra la carica di sindaco di Salerno e quella di sottosegretario alle Infrastrutture e ai trasporti.
Per l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, il giuramento prestato da De Luca il 3 maggio scorso come sottosegretario determina incompatibilità perché «i titolari di cariche governative non posso ricoprire la carica di sindaco in un comune con più di 5.000 abitanti». E così, il Garante ha di fatto respinto anche la richiesta di proroga del termine di conclusione del procedimento presentata dallo stesso De Luca tre giorni fa «perché tardiva», escludendo la possibilità da parte del primo cittadino di produrre documentazione integrativa.
Il provvedimento del presidente Giovanni Pitruzzella è stato pubblicato ieri sul sito dell’Authority, e contestualmente è stato inviato ai presidenti di Camera e Senato prima di essere notificato al diretto interessato e al consiglio comunale di Salerno. Ma la partita non è ancora chiusa, entro 60 giorni dalla notifica, infatti, De Luca potrà ricorrere al Tar del Lazio. O al massimo entro 120 giorni, potrà presentare un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
Qualunque sia la strada che intenderà percorrere, la decisione dell’Antitrust ha di fatto chiuso una sorta di «novembre nero» per De Luca. Ultimo colpo, in ordine di tempo, il coinvolgimento nell’inchiesta sul crac del pastificio Amato. La notizia era stata riportata dal quotidiano il Fatto e nell’occasione il sindaco si era limitato ad un secco «no comment». Tutto parte da alcune rivelazioni di Giuseppe Amato junior, che avrebbe raccontato ai magistrati di aver pagato le spese relative al comizio di De Luca a piazza Plebiscito nel 2010, in occasione delle regionali. A spingerlo a fare questo passo sarebbe stato, secondo Amato e sulla base delle ricostruzioni dei magistrati, Mario Del Mese (nipote dell’ex deputato Udeur Paolo, vicino a Piero De Luca).
Va detto che, in una nota, l’avvocato di Mario Del Mese definisce il suo assistito «estraneo» alle ipotesi di accusa, aggiungendo inoltre che «nessun tipo di rapporto è intercorso fra Del Mese e i signori De Luca, tale da giustificare fantasiose ricostruzioni scandalistiche». Ma il capo d’accusa più pesante nei confronti del sindaco e di suo figlio sarebbe un altro. Secondo quanto riportato dal Fatto quotidiano, Amato junior avrebbe detto ai magistrati: «Mario Del Mese mi raccontava di viaggi in Lussemburgo per raggiungere Piero De Luca al quale portava soldi da versare sul conto in Lussemburgo, proventi della Ifil».
Per De Luca un terremoto arrivato a brevissima distanza dal caso Crescent, visto che non più tardi di dieci giorni fa i carabinieri del comando provinciale di Salerno hanno sequestrato l’imponente edificio in costruzione dal 2008, notificando al sindaco un avviso di garanzia per abuso d’ufficio e falso in atto pubblico. I termini della questione? Stando alla tesi dei magistrati Rocco Alfano e Guglielmo Valenti «gli amministratori e i funzionari pubblici» avrebbero «consapevolmente e volontariamente» violato le procedure amministrative «sia per accelerare i tempi di realizzazione dell’opera, sia per contenere i costi per i privati appaltatori». Ed è proprio sulla base di queste accuse che il gip Donatella Mancini ha disposto il sequestro del Crescent, facendo partire gli avvisi di garanzia.
Non bastasse tutto questo, in settimana De Luca ha dovuto fare i conti anche con il macabro episodio su cui ora indaga la Digos: la testa di maiale mozzata che è stata lasciata martedì scorso nell’androne del palazzo dove il sindaco e viceministro abita. Facile immaginare che De Luca speri ora in un dicembre meno problematico.

La Stampa 1.12.13
Civati: “Sono io l’alternativa a Matteo. Cuperlo è il passato”
intervista di Marco Bresolin


È andata bene perché non aveva nulla da perdere, certo. Ma se invece avesse molto da vincere?
Pippo Civati è uscito «vincitore» dal confronto tv con gli altri candidati. Purtroppo per lui l’8 dicembre il segretario del Pd non verrà scelto con il televoto, ma la performance televisiva potrebbe segnare un importante spartiacque per la sua candidatura.
All’indomani del confronto, Civati ha girato mezza Lombardia sotto la neve, «come se nulla fosse». E sotto sotto, anche lui si è piaciuto davanti alle telecamere. «In studio ero teso, mi tremavano le gambe racconta durante il viaggio tra Bergamo e Brescia -, stavo per tirare un rigore al novantesimo di una finale di Champions». Il tutto per tutto.
«Purtroppo fino a quel momento non avevo avuto la stessa visibilità degli altri due e questo mi ha molto penalizzato. Ma finalmente ho avuto l’occasione di giocarmela alla pari». E quel rigore è finito in porta. «Ma le cose che ho detto davanti alle telecamere sono esattamente le stesse che racconto girando l’Italia». Facendo l’autostop come ha raccontato l’altra sera in tv? «Era una battuta, ma mi sposto sempre grazie ai passaggi che mi offrono. E spesso dormo nelle case in cui mi ospitano: la mia campagna è così, tra la gente. E molte battute che hanno funzionato a Sky (molto efficace quella sull’impresa brianzola “Berlusconi & figli”, ndr) le ho raccolte da questi incontri. Il successo non è solo mio».
Punta alla redistribuzione dei redditi («nel sistema fiscale serve più pro-gres-si-vi-tà») e dei meriti, Civati. «Mica come Renzi che eccede in leadership e che tiene tutta per sé la sua grande visibilità. E nemmeno come Cuperlo, che arriva addirittura a negare la leadership».
La terza via, insomma. Anche come proposta politica. «Le mie idee sono alternative a quelle di Renzi». Con cui, però, condivide l’esigenza di cambiamento. «La questione è semplice: io propongo un rinnovamento della sinistra. Renzi propone un rinnovamento, ma senza sinistra». E Cuperlo? «Cuperlo propone sì ricette di sinistra, ma senza il rinnovamento. Ha un atteggiamento rivolto al passato, alla conservazione. E invece dovremmo fare come Papa Francesco».
Siamo alla seconda citazione di Bergoglio nel giro di 24 ore: non saranno troppe per uno che «la laicità dello Stato è la mia unica certezza»? «Ma il Pd deve imparare molto dalla Chiesa. Prima di tutto perché anche in Vaticano è partito il ricambio, mentre da noi ancora no. E poi perché il Papa ha capito che il suo messaggio deve arrivare direttamente alla gente. Oh, lui ti chiama a casa. E allora noi dobbiamo andare a bussare sul territorio». Per portare il popolo democratico ai gazebo. A proposito, ma davvero si aspetta tre milioni di elettori? «Dipende solo da noi. Io l’ho già detto: mobiliteremo gli spingitori delle primarie. Andranno casa per casa. Ci guadagnerà tutto il Pd». E forse Civati un po’ di più.

Repubblica 1.12.13
Il day after del Pd, Civati attacca “Da Renzi addio alla rottamazione”
E Cuperlo incassa l’appoggio di Bersani
di Umberto Rosso


ROMA — Cuperlo lo attacca: è «una mancanza di rispetto nei confronti dei cittadini» fare il sindaco e voler fare anche il segretario del Pd. Evidente la bordata a Renzi. E torna all’offensiva anche Civati: «È passato dalla rottamazione dei dirigenti del passato alla loro candidatura». Anche qui l’affondo è destinato al primo cittadino di Firenze, accusato di aver inserito nelle liste per l’assemblea nazionale del Pd certi nomi della nomenklatura del partito. Nel day after del confronto tv, gli outsider incalzano Matteo Renzi, nel tentativo di spostare quei consensi che, al momento, lo danno in testa nelle primarie dell’8 dicembre. Il sindaco però non polemizza e vola “alto”, quasi dettando le sue condizioni al governo: «Le larghe intese non esistono più, è una maggioranza di emergenza. Ma i numeri ci sono, e ora deve correre, fare le cose. E non sottovalutiamo Berlusconi... ». Parlando a Palermo, dove alla convention va ad accoglierlo anche il presidente della Regione Crocetta, fa la sua previsione sulla partecipazione alle primarie, «andranno a votare due milioni di persone, ma fossero anche un milione e mezzo sarebbe già un grande successo».
Proprio il nodo del governo resta al centro del confronto che si fa acceso mentre mancano ormai sette giorno al voto, e la competizione entra nel rush finale. Per Gianni Cuperlo, che incassa via twitter l’endorsement di Pierluigi Bersani, e se ne va a parlare Monza nella “tana” del rivale Civati, l’esecutivo «non è di centrosinistra, ed è arrivato il momento che cambi passo senza più alibi». Servono azioni mirate e mettere al primo posto il lavoro, per creare domanda occupazione reddito e consumi. Un esecutivo che non è targato centrosinistra, ribadisce il candidato alla segreteria pd, «anche se ora Berlusconi e la destra più radicale sono all’opposizione e viene meno quell’elemento ricattatorio tipico dei Brunetta e dei Gasparri, ma ora faccia ciò che serve». E aggiunge, anche in qui in polemica con Renzi: «Io non lo ricatto, e mi auguro che nessuno nel Pd voglia fare questo gioco. Ma ora serve agire con coraggio». Pippo Civati, in un incontropubblico a Brescia, lo chiede in primo luogo a Renzi, accusato di aver lasciato nel cassetto i suoi progetti di rinnovamento radicale del Pd: «Passare dal voler rottamare i vecchi dirigenti al candidarli, è una scelta inspiegabile ». Alla quale oppone il suo piano per il partito, «dobbiamo tornare a rappresentare le periferie, basta essere ancorati ai palazzi romani: il mio sarà un partito che non dovrà dubitare di abbassare le tasse sul lavoro piuttosto che quelle sul patrimonio ». Ma Renzi è ottimista sulrisultato delle primarie, e sulla partecipazione al voto. «Non sono così pessimista perché l’8 dicembre c’è la possibilità di cambiare », spiega. «Chi sta a casa si tiene quelli che ci sono, poi non si può più lamentare se rimangono sempre i soliti». Le critiche per aver lanciato la parola d’ordine della rottamazione? «Parlavo di un radicale ricambio, ma per farlo c’è bisogno che gli italiani vadano a votare. E sono sicuro che due milioni voteranno ».

il Fatto 1.12.13
Dagli sbarchi a Vendola quante notizie sparite
di Paolo Ojetti


Diciassette settembre, lo sbarco dei 1000, tutti in salvo. Il 30 settembre ne morirono 13, annegati davanti allo specchio d’acqua di Ragusa. Il 3 ottobre, la strage: 363 morti, gli scampati chiusi nei campi di raccolta, più di cento bare senza nome. 12 ottobre, almeno 50 annegati. Due giorni dopo, altro sbarco sul litorale di Augusta: erano 300, tutti salvi. Due settimane più tardi, sempre ad Augusta, salvati in 170. Il 4 novembre, festa della fine della Grande Guerra, sbarcò praticamente un altro, piccolo paese: 700. Dall’inizio dell’anno, si sono aggrappati alle nostre coste più di 40.000 disperati, siriani, somali, egiziani, nigeriani. Qualche pausa per il mare agitato e il record del 2011 – il totale arrivò a 62.000 anime, più di tutti gli abitanti di Venezia centro – resta e resterà imbattuto. Sono numeri che la dicono lunga sul fallimento della legge Bossi-Fini, legge in contrasto con quel principio antico e venerato del diritto di asilo, che veniva rispettato persino negli anni bui dell’alto medioevo.
Che fine hanno fatto i sopravvissuti? Cosa ne sarà di loro? Quanti saranno ributtati in quegli abissi dai quali erano emersi a rischio della stessa vita? E quanti altri sono stati soccorsi dal silenzioso e incessante lavoro dei marinai impiegati nelle operazioni “Mare Nostrum”?
NON SI SA e non si saprà mai più, a meno che in qualche angolo televisivo del servizio pubblico verrà prima o poi trovato uno spazio. Nei telegiornali, queste notizie sgradite e che (è un dato di fatto) non fanno audience e spettacolo, sono sparite, ficcate in uno sgabuzzino dove, alla rinfusa, riposa anche la Cancellieri Story, l’Ilva di Vendola, la Salerno del bivalente De Luca. Sarebbero rimasti lì anche i due marò, se un funzionario indiano non avesse ripescato da un giorno all’altro la possibilità della pena di morte per Girone e Latorre. Quella dell’oblio, della dimenticanza, della cancellazione di una notizia è un astuto sistema usato dai media: quando non se ne parla più, è come non ci fosse mai stata. Un po’ come accade durante le guerre: solo il primo colpo di cannone vale qualcosa, gli altri sono bum di ripetizione. Ma accade anche il contrario. Oggi alle 12,30 il Milan gioca contro il Catania, temperatura ideale, terreno in buone condizioni. Partita liscia? Partita ostica? No, la notizia sarà un’altra e finirà nell’occhio delle telecamere: dov’è Galliani? Che faccia fa? E c’è Barbara? Si sono salutati? No? Ma Pato da che parte sta?

il Fatto 1.12.13
Italia, il circo a tre piste fondato sulle non-notizie
di Furio Colombo



Per chi fosse di passaggio in Italia, un modo di sapere subito come stanno le cose è
ascoltare una delle tante rassegne stampa radio e tv del mattino. Ma qual è la notizia che conta? Quando dico “notizia” non intendo un evento da valutare e da commentare. In questo strano intervallo della storia italiana non succede quasi niente. E se accade, come la scomparsa di Berlusconi dai ruoli del Senato, il fatto è talmente in ritardo rispetto al momento in cui avrebbe dovuto accadere, che è già stato valutato, commentato, discusso, provocato e completamente assorbito. In un istante evapora. Persino il New York Times ha mostrato un certo imbarazzo nel commento su Berlusconi: parlare di Italia, di politica, di partiti, di rapporti nazionali – internazionali, o di una strana vita capo-clan cosparsa di stranezze, colpi di testa, dichiarazioni insensate (“Ho sconfitto il comunismo”) e reati. La maggior parte dei giornali del mondo hanno optato per la fedina penale del personaggio. La maggior parte delle fonti italiane si sono dedicate alle “spaccature”, al vuoto lasciato, soprattutto nelle casse di qualche partito e nella vita di qualche “alleato”, dal grande escluso e dalla simmetrica difficoltà della sinistra, intesa come Pd, che, quando si tratta di lotta interna, riesce sempre a competere con i dirimpettai berlusconiani ed ex berlusconiani.
LA MATASSA di non notizie affluisce ai punti che dovrebbero essere di distribuzione, razionalizzazione e interpretazione dei fatti, e lì rimane, nel senso che più o meno ogni cosa viene enunciata, e un’altra cosa si sovrappone e non importa che sia simile o opposta. Comunque non seguirà né la meraviglia, un prodotto esaurito da tempo, né la spiegazione. Esempio: qualcuno ha capito quando e perché è stato deciso che la caduta di Berlusconi avrebbe provocato sui due piedi una crisi parlamentare, con voto di fiducia (a distanza di cinque giorni da un altro voto di fiducia sempre sullo stesso governo e per le stesse ragioni) annunciata come ovvia ma negata in quanto “il governo è più forte” e “la maggioranza è coesa”?
Propongono un criterio di lettura della oscura realtà politica italiana o almeno di quel poco di fatti e parole che trapelano, nel senso che non sono tutti (i fatti e le parole, che si chiamano “dichiarazioni”) dello stesso tipo, benché sembrino impastate in un solo materiale opaco e sembrino sempre annunciare qualcosa che non accade. Propongono che di fronte a noi, cittadini di un Paese dotato di una politica allo stesso tempo noiosa, ripetitiva e spettacolare, sia in piena attività in un circo a tre piste. Gli spettacoli hanno, più o meno, la stessa durata, la stessa scaletta (i tafferugli nelle camere, la crisi dei partiti, il susseguirsi delle dichiarazioni di guerra o di annuncio). Contano i “social network”, da facebook ai twitter, che, se non altro, consentono di dire un numero molto alto di cose insensate e poi di smentirle subito.
Ma per che cosa, su che cosa, e mentre sta accadendo che cosa? Lo abbiamo già detto varie volte e siamo costretti a ripeterlo: in Italia non sta succedendo nulla. Si tratta di un singolare aspetto della crisi che tormenta il mondo, ma in nessun’altra democrazia hanno deciso di fermare tutto, in modo da impedire elezioni, opposizioni, e decisioni. E allora si animano le tre piste del circo che chiedono la nostra attenzione.
Prima pista, il governo. C’è ancora qualcuno che si immagina che sia il luogo del potere. Non lo è. Avrete notato che non decide nulla, salvo togliere ogni volta qualcosa a qualcuno scegliendo accuratamente dalla classe media in giù, e facendo in modo che i poveri provvedano ai più poveri e i più poveri ai disperati, escludendo del tutto i disabili, che sono stati posti, da criteri mai discussi, alla fine di una curiosa scala di spinte in basso che garantisce l’impossibilità certa di qualunque ripresa.
Il governo continua a sfilare con un suo orgoglio che però è incomunicabile. La separazione fra governo e Paese è perfetta. Sulla seconda pista la performance spetta ai partiti. Con una vecchia battuta si potrebbe dire dire che bisogna agitarli prima dell’uso. I berlusconiani hanno bisogno dei loro traditori, i “traditori” precisano che restano berlusconiani (benché nessuno li voglia) e frammenti vari (che sfilano anch’essi in testa o in coda, si dichiarano amici degli uni e degli altri e strappano il loro minuto di Tg.
I PARTECIPANTI al Pd, non si sa mai per tempo se iscritti o non iscritti, hanno il loro momento spettacolare con le primarie del Segretario che forse è il candidato primo ministro e forse no. Dibattono intensamente insieme e appaiono molto civili. Ma sono anche coscienti che lo spettacolo in corso sulle altre due piste, governo ben visibile e immobile, e maggioranza che si esibisce come minoranza che fa valere le pretese di un’altra (eventuale) maggioranza, hanno un punto di raccordo quando, insieme (più o meno intonati) annunciano e anzi reclamano le riforme, “a cominciare dalla riforma elettorale” (questa è sempre la frase di apertura e chiusura dei finti dibattiti). Infatti, improvvisamente, il capo gruppo Pd alla Camera, Speranza (unica cosa incoraggiante il nome), si rende conto che si deve pur creare un raccordo fra governo e partito di larghe intese, minori intese e nessuna intesa.
Prende tutti di sorpresa (ma non Violante che ci aveva pensato un minuto prima) invocando e anzi annunciando una bella riforma della giustizia che abbassi le arie ai giudici, dopo tutto il disordine che hanno creato con la loro mania di indagare. Prima di decidere se sia o no un grande spettacolo, occorre rendersi conto che non c’è pubblico. Niente di tutto quello che accade, e che abbiamo cercato di descrivere con ordine, ha a che fare con l’Italia, una Repubblica fondata sui senza lavoro.

il Fatto 1.12.13
Le macerie sotto il Colle
di Paolo Flores d’Arcais


A cosa è servita la catafratta pervicacia di Giorgio Napolitano nell’imporre all’Italia in macerie le larghe intese? A nulla. Ad avere un governicchio che al Senato si regge sullo sputo di qualche voto, un monocolore Pd più pochi spiccioli diversamente berlusconiani, sulla cui qualità stendere un pietoso velo (Fabrizio “P2” Cicchitto, l’indagato per mafia Schifani, la setta Cl con Formigoni in testa …), monocolore al quale il prossimo segretario del Pd riserva ogni giorno il suo disgusto, mentre ingiustizia e diseguaglianza vanno al diapason, l’efficienza sotto i tombini, corruzione e familismo amorale banchettano più suntuosamente di Trimalcione.
Pur di arrivare a questo esaltante risultato Napolitano ha ignorato il verdetto elettorale, che chiedeva a squarciagola la fine del berlusconismo mettendo per sovrammercato all’ordine del giorno la rottamazione della Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza. Pur di precipitare l’Italia in questa morta gora Napolitano ha spacciato la leggenda di un Berlusconi partner del gioco democratico, quando anche i sassi sanno (e Fedele Confalonieri dixit, già un ventennio fa) che la sua “discesa” in politica era un modo per aggirare la galera e conservarsi l’indebito bottino massmediatico monopolistico accumulato grazie alle mene contra legem del suo sodale Craxi.
Berlusconi non poteva essere il Chirac italiano, poiché è sempre stato il Le Pen di Arcore o l’aspirante Putin della Brianza, un odiatore strutturale della democrazia liberale con la sua “balance of power” e soprattutto l’autonomia del potere giudiziario, tanto più nella versione italiana con la sua Costituzione “giustizia e libertà”.
Il governicchio Lettalfano, di cui Napolitano è l’onnipotente Lord protettore, non farà altro, perciò, che ammassare altre macerie, materiali e morali, su quelle cui vent’anni di Berlusconi e di dalemiano inciucio hanno ridotto l’Italia. Mentre l’unica via per rinascere consiste in una monumentale redistribuzione delle ricchezze, che per il rilancio dell’economia applichi la ricetta del nuovo sindaco di New York, togliere ai ricchi per dare ai poveri, coniugata con un’autentica rivoluzione della legalità, che restituisca ai cittadini un barlume di speranza nella eguale dignità di ciascuno e nella liberazione dai Mackie Messer grandi e piccoli che a legioni spolpano e avviliscono il paese.
Continueranno invece ad applicare la ricetta del sindaco di Londra, che predica “avidità e diseguaglianza” esaltando Gordon Gekko.

Repubblica 1.12.13
Ce accadrà di tutti noi senza il Caimano
di Eugenio Scalfari


QUELLA domanda se la fanno in molti e molte e discordanti sono le risposte secondo l'appartenenza politica e il ruolo che ciascuno degli interlocutori ha avuto in passato e conta di avere nel prossimo futuro.
Alcuni mettono in dubbio che il caimano sia veramente uscito di scena e pensano che, anche se già decaduto dal Parlamento, rimane ancora in campo, conserva una piena leadership sui suoi seguaci e la manterrà per molto tempo ancora. Del resto anche Grillo è fuori dal Parlamento, anche Vendola, anche Renzi, eppure contano, eccome. È vero che Berlusconi è condannato per frode fiscale e gli altri no, ma questa differenza incide poco finché potrà mantenere il consenso di molti italiani come i sondaggi di opinione registrano.
Chi ha dedicato la propria passione politica al suo sostegno pensa addirittura che sarà ancora più forte di prima, più rispondente alla sua vocazione di lotta, e ne gode. Il tanto peggio tanto meglio risveglia la sua energia e quella dei
berluscones, manderà all'inferno chi l'ha tradito e sconfiggerà le sinistre di ogni risma che ancora infettano la cara Italia e perciò: Forza Italia, la vittoria è a portata di mano e questa volta con l'esperienza del passato sarà definitiva.
Chi invece è dalla parte opposta ha una diversa valutazione dei fatti e delle loro conseguenze. Alcuni pensano, come i loro avversari, che la “caduta” sia più apparente che reale e temono che le previsioni di Forza Italia non siano purtroppo prive di fondamento. Altri invece estendono l’anatema contro il caimano a quanti da sinistra l'hanno coperto collaborando col diavolo e quindi dannandosi con lui.
Per costoro la prossima battaglia dovrà dunque esser diretta mettendo definitivamente fuori gioco le finte sinistre corresponsabili della decadenza del Paese. Ma molti infine sono convinti che una bruttissima pagina di storia sia stata finalmente chiusa e si apra il campo al riformismo democratico.
Questi sono i variegati scenari che dividono l’opinione pubblica,le forze politiche (e antipolitiche), i media, la business community e le parti sociali.**** Quanto a noi, il dissenso nei confronti di Berlusconi e del berlusconismo è stato uno degli “asset” del nostro giornale molto prima del suo ingresso in politica nel 1994. Cominciò fin dall’87, quando apparve chiaro il connubio di affari tra lui, i dorotei della Dc e soprattutto i socialisti di Craxi. Nell’89 diventò uno scontro diretto con quella che allora fu denominata la guerra di Segrate, la conquista della Mondadori da parte della Fininvest e quello che ne derivò. La nascita di Forza Italia portò al culmine quella guerra che non fu più soltanto un contrasto aziendale ma un fenomeno devastante della vita pubblica italiana. È durata vent’anni, ora Berlusconi è fuori gioco ma il berlusconismo no, è ancora in forze nel Paese.
Non è un fatto occasionale, non è un fenomeno eccezionale mai visto prima, purtroppo è ricorrente nel nostro passato, recente ma anche più antico.
Ricordo a chi l’avesse dimenticato la polemica non solo politica ma culturale che si ebbe nel 1945 tra Benedetto Croce e Ferruccio Parri sul fascismo. Croce sosteneva che la dittatura di Mussolini era stato un deplorevole incidente di percorso della nostra storia, che aveva certamente avuto conseguenze terribili ma non si era mai verificato prima, sicché una volta terminato dopo una guerra perduta e un paese pieno di rovine, il corso della nostra storia sarebbe ripreso e la libertà avrebbe di nuovo avuto la sua pienezza.
Personalmente credo che Parri avesse ragione e Croce sbagliasse. Demagogia, qualunquismo, assenza di senso dello Stato sono altrettanti elementi che restano nascosti per lungo tempo ma non scompaiono dall’animo di molti e di tanto in tanto emergono in superficie. Un fiume carsico che crea situazioni diverse tra loro ma legate da profonde analogie che hanno reso tardiva la nostra unità nazionale e fragile la nostra democrazia.
Berlusconi è caduto, il caimano tra un paio di mesi non ci sarà più e tanto varrebbe disinteressarsene, lasciando agli storici l’analisi e la collocazione; ma il berlusconismo non è finito e il problema affliggerà ancora per qualche tempo la nostra società, alimentato dagli altri populismi di diversa specie ma di analoga natura. Perciò la vigilanza è un dovere civico per tutte le persone e per le forze politiche consapevoli.
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Il governo Letta si presenterà in Parlamento dopo l’8 dicembre per ottenere la fiducia poiché la nascita, anzi la rinascita di Forza Italia da un lato e del nuovo centrodestra dall’altro hanno modificato la maggioranza parlamentare e quindi la natura stessa del governo.
È a mio avviso auspicabile che non vi siano rimpasti se i ministri di provenienza del Pdl confermeranno la loro scelta “alfaniana”. Il governo ha problemi ben più importanti da affrontare e Letta li ha da tempo individuati: accentuare, nell’ambito delle risorse esistenti, l’obiettivo della crescita economica e la ricerca delle coperture necessarie; le riforme istituzionali e costituzionali da effettuare; la produttività e la competitività da accrescere; la legge elettorale da modificare; l’evasione fiscale da perseguire.
Ma soprattutto la politica europea e la struttura stessa dell’Europa da avviare verso un vero e proprio Stato federale.
Quest’ultimo obiettivo è della massima importanza e noi ne siamo uno dei primi attori. Letta ha già iniziato il confronto con le autorità europee e con gli Stati membri dell’Unione, una politica che toccherà il culmine col semestre di presidenza italiana.
C’è chi sostiene che l’importanza di quella presidenza sia retoricamente sopravvalutata, ma non è così, non solo perché l’Italia è tra i fondatori della Ue ma per un’altra e ben più consistente ragione. L’ho già scritto domenica scorsa ma penso sia utile ripeterlo ricordandolo alla memoria corta di molti concittadini: abbiamo il debito pubblico più pesante d’Europa se non addirittura del mondo.
È la nostra debolezza, ma paradossalmente la nostra forza.
I default della Grecia o del Portogallo o perfino della Spagna, semmai dovessero verificarsi (ovviamente speriamo e pensiamo che non avverranno), sarebbero certamente sgradevoli ma sopportabili dall’Europa. Un default dell’Italia invece no, sconquasserebbe l’Europa intera con conseguenze negative non trascurabili perfino in Usa; il sistema bancario europeo (e non soltanto) ne sarebbe devastato.
Una catastrofe che non avverrà, ma è questa spada di Brenno che Letta può gettare sul tavolo della discussione con gli altri membri dell’Unione a cominciare dalla Germania. Fin da subito, ma il culmine di questo confronto ci sarà durante la nostra presidenza europea poiché i governi dei Paesi membri se lo troveranno di fronte istituzionalmente, visto che fissare l’ordine dei lavori spetta al presidente di turno.
Letta non sarà senza alleati. La Francia e la Spagna sono fin d’ora impegnate su questo terreno e perfino l’Olanda.
La Bce mira anch’essa a quell’obiettivo del quale l’unione bancaria rappresenta uno dei capitoli principali.
La Merkel tentenna, ma dopo la nascita della coalizione con l’Spd la situazione è cambiata. I socialdemocratici hanno lasciato nelle mani della Cancelliera la politica europea, ma hanno ottenuto l’aumento del salario minimo garantito, una politica di incentivi ai consumi e di forme nuove di sostegno sociale. Queste misure dovrebbero far aumentare la domanda interna e sono appunto gli obiettivi che la Bce persegue per migliorare l’equilibrio degli interessi bancari tra i paesi europei.
Le imminenti elezioni europee non avranno molto peso sull’evoluzione eventuale ed auspicabile della struttura istituzionale dell’Europa, ma possono avere ripercussioni negative sulla politica interna di alcuni Stati nazionali e soprattutto nel nostro e in quello francese dove il Front National per i francesi e i Cinque Stelle e Forza Italia potrebbero registrare i consensi dell’antipolitica. Ecco un altro appuntamento che impone a Letta di accelerare il passo e al Pd di dargli il necessario consenso per renderlo concretamente efficace.
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Per chiudere questa rassegna di questioni attuali, ne segnalo ancora un paio.
Si parla con insistenza di un’imminente sentenza della Corte Costituzionale sulla vigente legge elettorale.
Accoglierà il ricorso della Cassazione che chiede lumi sulla costituzionalità del Porcellum oppure si dichiarerà incompetente trattandosi di un tema esclusivamente parlamentare? I giuristi sono discordi. Alcuni ritengono che la Corte si dichiarerà incompetente. Per quel che vale, concordo con questa tesi. La Corte non può stabilire quale debba essere lo strumento corretto con il quale si registra la volontà del popolosovrano poiché manca un appiglio scritto nella Costituzione. Tanto meno può ledere le prerogative del Parlamento. Spetta ai cittadini eletti (sia pure sulla base di una legge abnorme) correggerla, cambiarla, farne una nuova, non alla Corte. Con Forza Italia nel governo ogni correzione sarebbe stata ed è stata respinta, ma una rappresentanza parlamentare diversa come l’attuale può riuscire in questa impresa. Il governo da parte sua può facilitare l’accordo presentando per l’approvazione parlamentare un suo disegno di legge.
Il secondo tema è stato sollevato dalla Corte dei conti, che chiede anch’essa l’intervento della Consulta. Riguarda le varie leggi che, dopo il referendum negativo sul finanziamento pubblico dei partiti, lo reintrodussero camuffandolo come rimborso ai gruppi parlamentari delle loro spese elettorali.
Il governo Letta ha già cancellato questo stato di cose abolendo con due anni di transizione l’erogazione di denaro pubblico e affidando il finanziamento dei partiti al sostegno privato, ma la Corte dei conti mette in causa il passato e si rivolge alla Consulta.
Sembra assai dubitabile che la Consulta risponda positivamente a questa chiamata in causa. Se alcuni gruppi parlamentari, o anche consigli regionali, hanno usato quei fondi perscopi privati e dunque illegittimi (ed è purtroppo ampiamente avvenuto) si tratta di reati di competenza della magistratura ordinaria. Ma la Consulta non sembra possa cassare leggi votate dal Parlamento ancorché sostanzialmente violino il risultato referendario il quale a sua volta abolì il finanziamento ai partiti ma non lo sostituì con un nuovo sistema. I referendum in Italia non hanno poteri positivi ma soltanto di abolizione. Dopodiché resta un vuoto che spetta al Parlamento colmare anche se spesso lo colma poco e male.
In conclusione c’è molta strada da fare. Speriamo che gli italiani brava gente — come un tempo si diceva con autoironia spesso giustificata — dimostrino ora d’esser brava gente sul serio e ogni volta che spetti a loro di decidere lo facciano facendo funzionare la testa e non la pancia.
Berlusconismo e grillismo in questa vocazione della pancia si somigliano moltissimo. Noi privilegiamo la testa e speriamo di essere ascoltati.

Corriere 1.12.13
Ricchezza da tassare
A sinistra l’eterna tentazione della patrimoniale
Da Botteghe Oscure ad Amato, fino al Pd di oggi
di Enrico Marro


ROMA — Cambiano le generazioni, ma la sinistra continua a credere nella patrimoniale. L’idea di un prelievo sulle ricchezze immobiliari e finanziarie seduce, non senza qualche imbarazzo, anche gli aspiranti nuovi leader del Pd. Lo si è visto l’altra sera su Sky nel duello televisivo tra Matteo Renzi, Gianni Cuperlo e Giuseppe Civati, in gara nelle elezioni primarie dalle quali, domenica prossima, uscirà il nuovo segretario del Pd. Il più deciso di tutti è stato Cuperlo: «Sì, è giusto» introdurre una patrimoniale, ha risposto alla domanda del moderatore. «La crisi — ha aggiunto — non è stata uguale per tutti» e una patrimoniale «non servirebbe per colpire la ricchezza ma per redistribuire una quota di ricchezza». Più cauto Renzi, il favorito: sì alla patrimoniale «ma solo dopo che la politica dà il buon esempio e inizia a tagliare lei. E dopo che il Fisco sarà chiaro, perché ora sembra la settimana enigmistica». Che, messa così, sarebbe un intervento subordinato al superamento di ostacoli così alti (i tagli alla politica) che è quasi come dire non si farà mai. Più a sinistra di tutti Civati, che giudica «una follia» aver cancellato per quest’anno la patrimoniale sulla prima casa, cioè l’Imu, ma poi, sul futuro, frena: si dice d’accordo con Renzi sul fatto che si può fare solo dopo i tagli alla politica e poi aggiunge che, per farla davvero, è necessario «prima costruire l’anagrafe dei patrimoni e riformare il catasto». E comunque conclude, il prelievo deve essere «progressivo».
Anche se il cauto Renzi vincerà, non potrà ignorare il fascino che sul Pd e sulla sinistra in genere, fin dal vecchio Pci, la patrimoniale ha sempre esercitato. Perfino in personaggi insospettabili. Giuliano Amato, per esempio. Socialista, cultore del mercato e fine costituzionalista che, nel ‘92, non esitò a prelevare nottetempo il 6 per mille dai conti correnti, una patrimoniale per salvare il Paese dalla bancarotta, che gli italiani non hanno più dimenticato. Lo stesso Amato che, tre anni fa, in un’intervista ad Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera , suggerì una tassa di 30 mila euro in due anni a carico del terzo degli italiani più ricco per abbattere il debito pubblico sotto l’80% del Prodotto interno lordo. Una misura draconiana che appena un anno dopo, nel 2011, fu rilanciata in forma diversa da Pellegrino Capaldo, influente economista e banchiere, ma di radici democristiane, che sempre sul Corriere , in un’intervista ad Antonio Macaluso, propose un’imposta straordinaria sulle plusvalenze immobiliari tra il 5 e il 20% che avrebbe dimezzato il debito pubblico. Idea che però lo stesso Capaldo ha recentemente abbandonato, perché «allora poteva essere utile», ma oggi, con la crisi che ha messo in ginocchio il ceto medio, «accentuerebbe le già forti divisioni sociali».
La patrimoniale ha sempre affascinato anche la Cgil, che Renzi non ama, ma che nel Pd ancora conta molto. Di nuovo qualche settimana fa la leader sindacale Susanna Camusso è tornata alla carica: «Senza parlare di patrimoniale, che suscita drammi solo ad evocarla, noi pensiamo che le rendite finanziarie non possano più essere tassate al 20% mentre nel resto d’Europa il prelievo parde dal 25% in su. Sui Bot poi si paga ancora il 12,5% mentre nel resto del mondo siamo al 20%». La stessa Camusso ha quindi ricordato che mentre «la politica non si è mai spesa» per la patrimoniale lo hanno invece fatto «varie personalità» e ha citato, oltre allo stesso Amato, il presidente del gruppo l’Espresso , Carlo De Benedetti, che già lo scorso maggio, quando Enrico Letta divenne presidente del Consiglio, gli suggerì di «applicare una patrimoniale a partire da un certo livello di reddito in su» per reperire risorse da destinare alla riduzione delle tasse sul lavoro. «Una riforma in senso liberale — ha poi scritto sul Sole 24 ore , il quotidiano della Confindustria — non certo veterocomunista. Perché favorire fiscalmente chi produce e lavora, penalizzando chi accumula, come ci ha insegnato Luigi Einaudi, è l’essenza del liberalismo».
Una soluzione meno traumatica ma molto efficace potrebbe essere quella della «dichiarazione patrimoniale», rilanciata da Yoram Gutgeld, economista vicino allo stesso Renzi. Rilanciata perché già proposta due anni fa dai bocconiani Angelo Provasoli e Guido Tabellini sul Sole 24 ore : «La dichiarazione annuale dovrebbe fornire non solo i dati dei redditi conseguiti ma anche quelli della consistenza del patrimonio». Un passo verso la trasparenza che, anche senza nuove tasse, «consentirebbe di identificare le situazioni irregolari e quantitativamente rilevanti».
Una tassa dunque, la patrimoniale, rivendicata dalla sinistra ma che intriga anche chi vuole atteggiarsi alla Warren Buffet, il miliardario americano convinto che i ricchi debbano pagare di più. E l’Italia, dicono i dati della Banca d’Italia, è uno dei Paesi più ricchi del mondo, con una ricchezza accumulata di 8.619 miliardi di euro (5 miliardi in immobili e il resto in attività finanziarie), pari a 5 volte e mezzo il Pil: 350 mila euro in media a famiglia, 140 mila euro a testa. Con 600 mila famiglie (il 3% del totale) che, secondo il rapporto Aipb-Prometeia, hanno una ricchezza per la sola parte finanziaria superiore a 500 mila euro, per un totale di 897 miliardi di euro, metà del Pil.

Patrimoniale
‘‘La patrimoniale è un’imposta che colpisce il patrimonio, sia mobile che immobile di persone fisiche  (i privati) e di persone giuridiche (società, associazioni, enti, ditte, cooperative e così via). È reale quando colpisce una singola componente della ricchezza di un soggetto (ad esempio le case di cui è proprietario, come fa l’Ici); è soggettiva quando colpisce la ricchezza complessiva di un soggetto,  il suo patrimonio mobiliare e immobiliare; è ordinaria quando viene pagata con cadenza annuale e straordinaria quando è un prelievo occasionale deciso in condizioni di emergenza. In Italia non esiste la soggettiva sul patrimonio ma ci sono imposte reali sulle singole proprietà: l’Ici introdotta nel ‘93 come straordinaria per divenire poi ordinaria e, dal 2013, destinata a essere sostituita dall’Imu; l’imposta di successione e l’imposta di registro sul trasferimento di immobili.

il Fatto 1.12.13
Roma, niente bilancio: rischio commissariamento


NULLA di fatto sul bilancio del Comune di Roma, e ora il Campidoglio rischia il commissariamento. Ieri era l’ultimo giorno utile per approvarlo nel termine di legge, ma in aula è mancato il numero legale. E allora, seduta rinviata a lunedì. Di fatto, da oggi il Campidoglio potrebbe essere commissariato. Ma, con ogni probabilità, il prefetto Pecoraro concederà una proroga di almeno 15 giorni. L’opposizione ha comunque celebrato l’ennesimo rinvio con tanto di cori : “Tutti a casa”, e “Co m - missario, commissario”. Dalla maggioranza di centrosinistra rispondono con una nota congiunta dei capigruppo: “Di fronte a una manovra dall'intento dichiaratamente ostruzionistico da parte delle opposizioni, che ne mette a rischio l'approvazione, la maggioranza, con determinazione e compattezza porterà entro pochi giorni all'approvazione il bilancio 2013”. Ma ora la partita si fa delicatissima. La giunta Marino ha solo pochi giorni per non sprofondare.   

Corriere 1.12.13
Le truffe dei cittadini che fingono di essere indigenti per non pagare asili e mense
Denunciati 5 mila dipendenti pubblici
Ecco chi sono i nuovi falsi poveri
La Guardia di Finanza: la corruzione costa all’Italia tre miliardi di euro
di Fiorenza Sarzanini

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Corriere 1.12.13
Quell’universitaria in Ferrari
Figlia di 13 inutili anni di scuola
Cresce il malcostume degli studenti che certificano il falso
di Aldo Grasso

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Corriere 1.12.13
Il lamento sconsolato del notaio: «Il viagra ha rivoluzionato i testamenti»
La pillola del sesso comporta nuovi legami in età avanzata
«Sempre più spesso il ricco zio vuole sposare la badante»
di Andrea Nicastro

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Corriere 1.12.13
Supertalenti, tra i bambini sono 2 su 100
di A. D. M.


MILANO — «Anche l’intelligenza è un talento, al pari delle abilità sportive, musicali, artistiche. È meno evidente ma deve essere coltivata e riconosciuta come tale». È cominciato così il primo convegno nazionale dell’Aistap, l’associazione italiana per lo sviluppo del talento e della plusdotazione, svoltosi ieri nella sala Buzzati del Corriere . Un parterre di esperti italiani e internazionali che ha offerto spunti su come costruire percorsi scolastici adatti ai bambini con alte potenzialità cognitive. A introdurre i lavori è stata Natalia Buzzi, presidente di Mensa Italia. «Noi del Mensa siamo ex bambini dotati e sappiamo quanto è importante fare un percorso educativo mirato». Una possibilità che al momento la scuola italiana non offre. Eppure i bambini plusdotati esistono anche qui: sono il 2% della popolazione scolastica. Ma spesso non vengono riconosciuti: o perché tra i banchi si annoiano, perciò vanno male a scuola, o perché si comportano come bravi studenti normali senza però sfruttare appieno le proprie potenzialità. «Gli insegnanti devono vedere questi bambini come un’opportunità anche per loro stessi», dicono Anna Maria Roncoroni e Daniela Miazza, presidente e vicepresidente Aistap.

Repubblica 1.12.13
Il centrodestra e l’Europa, tra stabilità e populismo
di Marc Lazar


COL venir meno dell’immunità di Silvio Berlusconi e la scissione del Popolo della Libertà, si annuncia una vasta ricomposizione politica, specialmente per il centrodestra, chiamato a risolvere importanti dilemmi strategici.
In effetti, Forza Italia è tentata da una radicalizzazione estrema di segno populista — peraltro insita nel suo Dna — per diventare un partito di opposizione e di lotta. E ha preso dunque a fustigare il governo, a criticare il Presidente della Repubblica, a denunciare il sistema politico nel suo insieme, stigmatizzando i poteri forti e attaccando l’Europa, oltre a vilipendere la magistratura e ad agitare lo spettro del comunismo facendo appello al popolo. In tal modo tenta di ricomporre una sua identità, di chiamare a raccolta i fedelissimi per difendere il Cavaliere “fino alla morte” e di riconquistare gli elettori del centrodestra che nel febbraio scorso hanno votato per il Movimento 5 Stelle. Ma una strategia del genere non è priva di rischi: da un lato quello dell’impotenza politica a lungo termine, dall’altro l’apertura di uno spazio al centro.
È in questo spazio che si introduce il Nuovo Centro Destra. La sua ambizione: raccogliere la massa dei moderati, che come ha dimostrato lo storico Giovanni Orsina nel suo suggestivo libro (Il berlusconismo nella storia d’Italia)ha costituito un’altra componente del seguito di Berlusconi, peraltro con radici assai lontane nella storia di questo Paese. Di conseguenza, gli amici di Alfano si sforzano di dotarsi di una cultura politica e di elaborare un programma attraente, con l’intenzione di voltare pagina nella storia del centrodestra, creando una formazione non dissimile da quelle esistenti in altri Paesi europei. Ma i loro margini di manovra sono stretti. Nei confronti del suo elettorato di riferimento, l’Ncd non può non esprimere un minimo di solidarietà con Silvio Berlusconi, pur distinguendosi da lui e soprattutto dai suoi “falchi”, senza però escludere la possibilità di un accordo elettorale in caso di future elezioni, in funzione delle modalità di voto che saranno in vigore. Si tratta di vedere quale di queste due formazioni — senza parlare della Lega Nord e dei vari discendenti di Alleanza Nazionale — riuscirà a captare l’eredità del berlusconismo.
Si tratta evidentemente di una situazione tutta italiana, data l’innegabile specificità del fenomeno Silvio Berlusconi. Eppure questo smembramento della destra, divisa tra radicalismo e moderazione, si ritrova in maniera molto simile, benché non identica, anche in altri Paesi — come ad esempio in Francia. Nel 2002 Jacques Chirac aveva fatto confluire i tre grandi filoni storici della destra francese — autoritaria, moderata e tradizionalista — in un solo partito, l’Ump. L’operazione aveva funzionato, e Nicolas Sarkozy, dal 2004 alla testa del partito, nel 2007 conquistò il potere. Ma la sua campagna per le presidenziali del 2012, con una forte connotazione di destra, soprattutto sui temi dell’immigrazione, della difesa dell’identità francese e della denuncia dei “corpi intermedi” (con l’obiettivo di togliere voti alla candidata dell’estrema destra Marine Le Pen), e quindi la sua sconfitta ad opera di François Hollande e il suo ritiro dalla politica (sia esso temporaneo o definitivo) hanno allontanato la componente centrista dell’elettorato dell’Ump. Ora è in atto un tentativo di ricostituire un’alleanza con gli schieramenti amici che avevano mantenuto una loro autonomia. L’Alternativa — questo il nome della coalizione tra l’Unione dei Democratici Indipendenti (Udi) di Jean-Louis Borloo e il Movimento Democratico (MoDem) di François Bayrou — rifiuta qualunque anche minima concessione politica e ideologica al Fronte nazionale, attualmente in piena avanzata. Se l’Alternativa si colloca deliberatamente al centrodestra, l’Ump tentenna tra uno slittamento a destra (anche se meno netto di quello di Forza Italia) e il ritorno a una posizione di centro.
Da decenni si parla, con ragione, della crisi della sinistra europea, priva di un progetto, di un’identità, di una strategia e talora anche di un leader. Ora però anche la destra mostra chiari segni di fragilità; e non è neppure in sintonia con le attese degli europei, che soffrono per la recessione economica (anche se si intravedono lievi segnali di ripresa) provocata dalle politiche di austerità, dalla disoccupazione e dalle crescenti disuguaglianze. Se da un lato gli europei sono sempre più consapevoli di appartenere a un’unica compagine, dall’altro fanno sempre più fatica a comprendere le prospettive concrete che l’Europa è in grado di offrire, e lamentano la sua scarsa trasparenza democratica; e c’è chi è tentato da un ripiegamento nazionalista, ma anche regionalista o localista. Il senso del declino ha ormai contagiato molti cittadini europei, mediamente sempre più anziani e quindi riluttanti al rischio, e a volte anche spaventati dalla globalizzazione.
Dopo la sinistra, ora è la destra ad essere destabilizzata da queste trasformazioni. E non sa se cedere ai richiami delle sirene provenienti sia dai movimenti populisti che dal suo interno, o respingerli invece con decisione. A questo riguardo, le elezioni europee del maggio 2014 costituiranno una prova temibile sia per la sinistra che per la destra. Che quindi deve compiere urgentemente le sue scelte, e soprattutto esplicitare chiaramente agli elettori il proprio disegno: nell’interesse non solo della destra, ma anche, più generalmente, delle nostre democrazie europee.
Traduzione di Elisabetta Horvat

Corriere 1.12.13
l’Europa degli Stati alla Fine il Modello? il Cern di Ginevra
di Giulio Giorello


«Una corda a tre fili nessuno può romperla. L’acqua, se è trattenuta da un muro, non può disperdersi. Nella casa di canne il fuoco non può essere spento. Se tu aiuti me, io aiuto te. Chi può prevalere su di noi?». È antica saggezza assiro-babilonese. Per la nostra Milano — che Carlo Maria Martini amava paragonare appunto ai grandi nuclei urbani della Mesopotamia — si discute di un possibile passaggio a una vera e propria «città metropolitana». I comuni della vasta area circostante dovrebbero cedere porzioni della loro sovranità a vantaggio di una rete di strutture che dovrebbero consentire vantaggi nei servizi, maggiore integrazione economica, difesa del patrimonio naturale e artistico, valorizzazione delle potenzialità culturali e — soprattutto — l’abbattimento delle forme di discriminazione che colpiscono cittadine e cittadini nella loro quotidianità. Si tratta di un obiettivo ambizioso e difficile, non fosse altro per le resistenze delle varie burocrazie e per la vischiosità di un miope localismo. Ma per dirla con Spinoza le cose eccellenti sono tanto ardue quanto rare, e proprio per questo è opportuno tendere la mente verso di loro. Non dimenticando, nel caso in questione, che le libere unioni di realtà cittadine sono state, in passato, elementi di cambiamento e di maggiore consapevolezza civile.
Non è stato un fenomeno solo italiano ma europeo, dal Mediterraneo al Baltico. Tutto questo potrebbe allora rappresentare un modello per la costruzione di una nuova Europa che, invece di piangere sui guai della moneta unica, sapesse presentarsi come una struttura al tempo efficace, snella e rispettosa delle differenze tra gli individui e di quelle tra le libere associazioni. Sono nato nel 1945; i miei genitori hanno fatto in tempo a farmi respirare qualcosa del «vento del nord», che significava resistenza e rinnovamento; mia madre era siciliana, mio padre ligure. Nonostante tutto, mi sento orgoglioso di essere italiano; eppure, ritengo che qualsiasi Stato europeo dovrebbe anch’esso giungere a un cedimento di sovranità in favore di questa realtà, l’Europa, di cui possiamo dire che è «già, e non ancora». Ha ragione Daniel Cohn-Bendit quando dice che gli Stati-nazione risultano inadeguati nell’affrontare problemi come l’esigenza ambientale o lo smantellamento dei vari «muri» che spesso idealmente e talvolta anche fisicamente separano le varie comunità facendone delle province chiuse.
Non si tratta tanto di enfatizzare le radici cristiane — certamente importantissime, ma che dire dell’eredità pagana, cioè ellenistico-romana, o dell’influsso dell’Ebraismo e dello stesso Islam? — quanto di cogliere quel gusto della diversità nell’unità che accomunava, alle soglie della modernità, pensatori assai differenti come Machiavelli e Lutero, Giovanni Calvino e Giordano Bruno, Giovanni Keplero e Galileo Galilei. Per dirla con una battuta, l’Europa che vorrei non è quella che in qualche sede istituzionale stabilisce la forma ottimale delle patatine fritte da imporre ai Paesi membri, ma quella del Cern di Ginevra che ha saputo ben coniugare fisica teorica e sperimentale. Non l’Europa chiusa in se stessa, magari vittima dell’egemonia di un qualche Stato-nazione, ma una struttura dinamica capace di protendersi verso l’Atlantico e al tempo stesso di guardare all’una e all’altra riva del Mediterraneo.
Nel Manifesto di Ventotene (di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, 1941-1942) si osservava che una nuova linea di demarcazione tra progresso e reazione si sarebbe formata tra «coloro che concepiscono, come campo centrale della lotta… la conquista e le forme del potere politico nazionale» e «quelli che vedranno come compito la creazione di un solido Stato internazionale». Anche se qualche scelta terminologica può sembrarci datata, queste parole ci appaiono oggi perfino più pregnanti di quando furono scritte. Allora l’avversario era il totalitarismo; oggi è una paura del nuovo e del diverso, sempre più contagiosa, che agghiaccia la nostra intelligenza. Ma ancora noi vogliamo che soffi impetuoso il vento del disgelo.

Repubblica 1.12.13
Il muro d’Europa
Cercando un buco nella rete
Un muro di dodici chilometri lungo il fiume Evros separa Grecia e Turchia là dove l’Europa sembra ormai vicina
Anche qui migliaia di migranti sfidano la sorte sperando
di Attilio Bolzoni e Fabio Tonacci


NEA VISSA Il fiume, l’Evros, non si vede mai. Ma è lì, dietro gli alberi. L’acqua melmosa trascina cadaveri dalle pianure della Tracia fino all’Egeo. Sembra vicino questo confine fra noi e loro, sembra solo a un passo quest’altra Lampedusa metà greca e metà turca che invece di stare in mezzo al mare sta in mezzo alla terra. Ma ci sono orti, piantine di aglio e di tabacco, sentieri, zolle rivoltate, poderi arati, trattori, fienili. E campi minati. Ogni tanto salta in aria un cane o una capra, ogni tanto una donna o un bambino. Ogni tanto.
Dove il fiume fa una piccola piega e si ritira lasciando posto all’argilla, un reticolato di ottocento tonnellate d’acciaio è diventato la vera frontiera fra l’Europa e l’Asia. È il muro dell’Evros, dodici chilometri di metallo luccicante, pali, chiodi, cemento, lame e filo spinato per sbarrare il cammino alle carovane provenienti dall’Oriente. È alto quasi quattro metri ed è costato quasi quattro milioni di euro.
L’hanno finito di costruire un anno fa, a dicembre. Da una parte ci sono sonnacchiosi paesi greci, dall’altra i minareti delle moschee di Edirne. Da qui prima passavano a decine di migliaia, ora non passa più nessuno. Sopra la sua ferraglia volano solo poiane, falchi e sparvieri. I migranti adesso guadano il fiume più giù, verso Didimoticho. O più a nord, fra i boschi di Ormenio. L’attraversano a nuoto o su malandate chiatte, a volte affogano fra i vortici, a volte muoiono di freddo. Sono afgani, pachistani, sono armeni, curdi, iracheni, siriani, somali, egiziani. C’è perfino qualche tunisino e marocchino, che per non prendere il largo sui barconi nel Mediterraneo fa un lungo giro d’Africa. Vagano eternamente alla ricerca di un varco, non si fermano mai. Appena lo trovano, s’infilano. Ce n’è sempre uno sui centosessantasei chilometri che segnano il limite fra il territorio turco e quello greco. C’è sempre una breccia fra gli argini e la selva.
Dopo quello sull’Evros qualcuno ad Atene vorrebbe alzare un altro muro, ancora più imponente e ancora più alto. Sul bordo bulgaro che è a dieci minuti di auto dall’altro confine, c’è già uno steccato fra la città di Svilengrad e le pinete di Elhovo. Nel 2015 questa “barriera tecnica” — così la definiscono in gergo burocratico a Sofia — raggiungerà i trentasei chilometri. È un Continente intero che si sta chiudendo, che sta blindando ogni sua porta all’altro mondo. Le paure e gli egoismi che s’inseguono in quest’Europa balcanica forse, un giorno, prenderanno la forma di un unico grande muro.
Il nostro viaggio per arrivare al fiume Evros è iniziato a Nea Vissa, l’ultimo villaggio greco che sfiora la Turchia. Poi siamo scesi a Orestiada e a Kastanies, abbiamo visitato il “centro di ammissione” di Filakio, incontrato il capo della polizia della Grecia orientale a Komotini, ci siamo arrampicati sulle montagne di Sidero dove fra le sterpaglie sono sepolti quelli che l’Evros si è portato via nelle gelide notti d’inverno. Come gli altri sprofondati nel Canale di Sicilia. Lo stesso destino.
Dov’è il fiume? Dov’è la frontiera? Eccola Nea Vissa, la nuova Vissa, fondata nel 1922 dopo che i turchi sull’altro fronte avevano cacciato i greci da quell’antica, una strada, una piazza, una taberna che serve cacciagione, il cartello del check point. Fino all’estate dell’anno scorso, dalle 3 alle 6 del mattino Nea Vissa era affollata da centinaia di profughi, si aggiravano nelle campagne, cercavano riparo nei casolari, si nascondevano alle ronde dei poliziotti. Il muro l’ha svuotata. Oggi Nea Vissa sembra un paese fantasma. Due bambini giocano davanti alla chiesa ortodossa, cortili deserti, quattro famiglie raccolte in un salone per festeggiare un battesimo. Sono tutti confusi dall’improvviso silenzio che ha avvolto le loro contrade. «Noi greci, fra qualche anno, potremo fare la stessa fine dei migranti e cercare di entrare come loro clandestinamente in altre nazioni», racconta Nichos Ntofis, il proprietario del bar Utopia. E il sindaco del vicino villaggio di Kastanies, Maria Liacha: «Quella del muro è stata la scelta migliore, forse però potevamo fare qualcosa di più per tenerli a casa». La cinta sull’Evros ha “salvato” due piccoli comuni e i suoi 2800 abitanti, ma non ha dato sollievo a una Grecia che resta un colabrodo nel suo fianco est. Chi s’avventura da Kabul o da Islamabad e percorre migliaia di chilometri in due e anche tre anni — a piedi, sui cassoni dei camion, su mezzi di fortuna — non si fa fermare da questo muro e da questo fiume.
Ma dov’è, dov’è l’Evros che s’ingoia esuli e profughi con tutti i loro sogni? E dov’è il muro della vergogna? È a seicento metri, a quattrocento, a duecento metri, è appena dietro la curva, è qui. Ma qui non c’è il muro e non c’è il fiume, qui c’è solo l’area proibita, una zona militarizzata per cinquecento metri. Ci sono teschi gialli che indicano morte e segnali rossi con la scritta mines, mine. Sono dappertutto, a destra e a sinistra di una baracca dove bivaccano soldati che imbracciano mitraglie. Dicono che le hanno piazzate «per i tank turchi». Le hanno nascoste fra questi campi nel ’74, al tempo della crisi fra Atene e Ankara per l’isola di Cipro. E le hanno lasciate lì, da quasi quarant’anni. L’alibi sono i carri armati di Ankara, ma su quelle mine perdono le gambe o la vita i disperati che dall’Oriente arrivano sino al fiume. Dal 1990 al 2008 almeno novantadue i morti, dati più recenti le autorità greche non ne danno. «Capita di sentire che qualcuno finisca a pezzi in quella striscia che c’è fra il fiume e Nea Vissa, i numeri veri però li tengono sempre segreti», dice Valantis Pantsidis, l’avvocato di Orestiada che difende chi ce la fa a superare il confine. Dieci anni fa la Grecia aveva promesso di sminare la zona entro il 2009, in quest’autunno del 2013 le mine sono ancora a meno di mezzo chilometro dalla strada provinciale che va verso Kastanies. Tutt’intorno ci sono gipponi della polizia che sorvegliano, i militari di Frontex — l’Agenzia europea “per la cooperazione internazionale alle frontiere esterne dell’Ue” — elicotteri, sentinelle con visori notturni, telecamere a raggi infrarossi. La tecnologia più sofisticata al servizio del “respingimento”, c’è solo voglia di cacciarli via i Lathrometanastis, migranti di contrabbando come li chiamano con fastidio certi greci.
Chi entra, finisce nei “centri di ammissione”. In realtà sono centri di detenzione, prigioni. Ce ne sono quattro davanti all’Evros, quelli di Feres e di Soufli, quello di Tychero e quello di Filakio, il più grande e il più nuovo. È alle porte del capoluogo di provincia Orestiada, una costruzione governativa in mezzo al niente. Torrette e tanta polizia. In un giorno qualunque sono rinchiusi là dentro in 240. Molti gli uomini, qualche donna, qualche bambino. Quasi tutti afgani e pachistani. I ragazzi giocano a pallone su un quadrato di calcestruzzo, magliette della Juve e del Barcellona. Alcuni si lamentano, gridano («Ci vogliono uccidere», «Ci trattano come bestie»), hanno bisogno di un dottore che viene — quando viene — una volta la settimana, mangiano male. Vestono sempre come d’estate, a gennaio la temperatura scenderà anche sotto i 15 gradi. Ogni mattina a Filakio si ripete la scena dei nuovi arrivi, gli autobus dei militari scaricano altri
lathrometanastis
che poi andranno a occupare camerate e dormitori. Ci stanno otto, dieci, diciotto mesi nel bunker lontano da tutto e da tutti. Alcuni di loro saranno espulsi, altri avranno lawhite card, un permesso di soggiorno temporaneo — trenta giorni — che consentirà loro di andare magari fino a Patrasso e poi nascondersi sulle navi per approdare in Italia.
Fuori dalla caserma di Filakio c’è un chiosco, vendono biglietti di sola andata per Atene. In corriera, 70 euro. Chi ha qualche soldo li compra. Chi non ce l’ha ad Atene o a Salonicco, a Kavala o a Larissa ci va a piedi. Camminano in fila indiana, lasciando sulle strade i segni del loro passaggio. Scarpe sfondate, bambole, bottiglie, salvagenti, buste di latte, calze bucate, lacci, limoni marci. Gli avanzi dei sopravvissuti del fiume.
È l’invasione della Grecia nonostante il muro sull’Evros con i suoi trecentosettanta chilometri di filo spinato, è la tragedia della Grecia che con la sua spaventosa crisi economica sopporta sempre meno gli altri, le masse erranti che vengono da lontano. Pugno duro, reparti polizieschi in assetto di guerra, poca compassione. Nel 2010 di migranti ne sono stati arrestati trentaseimila a Orestiada (ventiseimila catturati dove oggi ci sono i dodici chilometri e mezzo di muro) e undicimila ad Alexandroupoli; nel 2011 a Orestiada trentamila e altrettanti ad Alexandroupoli, l’anno scorso venticinquemila e diecimila. In questi primi nove mesi del 2013 a Orestiada i fermi sono scesi a tremilaventi e tremilasettanta ad Alexandroupoli. È l’effetto muro. «Abbiamo risolto il nostro problema al cento per cento», taglia corto un soddisfatto Georgios Salamangas, capo del dipartimento di polizia della Macedonia orientale e un passato sul campo a inseguire clandestini al confine greco-turco. È il gioco degli specchi. Da qui non si scavalca più, se sbarcano sulle isole del Dodecanneso o trenta chilometri più a nord di Nea Vissa è come se la calata dei migranti avvenisse in un’altra Grecia. C’è sempre la mafia turca a traghettarli. Sempre e ovunque.
Dopo avere lasciato il check point e sfiorato campi minati — vietato fotografare i cartelle rossi, vietato filmare il muro — siamo scesi verso Soufli e per la prima volta, sulla statale fra Mandra e Lavara, abbiamo visto l’Evros. Il fiume appare d’incanto per una cinquantina di metri solo in questo tratto. L’acqua è profonda, con le sue correnti e i suoi risucchi impedisce ogni attraversamento. Chi lo fa, quasi sempre muore. I cadaveri che galleggiano vengono ripescati venti o trenta chilometri più a sud e trasferiti all’istituto di medicina legale di Atene, ispezionati, catalogati per razza e per religione. Poi, i “presunti musulmani” tornano indietro avvolti in lenzuola. Vengono issati sui camion e abbandonati in una campagna recintata, come una discarica. A Sidero, fra le montagne.
È un paese di mezzo migliaio di abitanti. Tutti turchi. I cadaveri sepolti a Sidero erano quarantanove nel 2011, oggi sono due o trecento. Nessuno lo sa quanti esattamente, neanche l’imam Emin Sharif. Le tombe sono mucchi di creta, quelli interrati da più tempo riposano in collinette coperte da erbacce, quelli morti di recente sono sotto il fango che si è formato con le ultime piogge. Non c’è un nome, un numero, un fiore. Un paio di volte la settimana, un camion arranca sui tornanti che salgono verso Sidero e poi rovescia le carcasse. Altri morti dell’Evros. Altri cadaveri che nessuno mai potrà riconoscere. Come quelli in fondo almare di Lampedusa.

Il muro sul fiume Evros è il videoreportage di Attilio Bolzoni e Fabio Tonacci, girato sul confine tra Grecia e Turchia, che troverete suwww.repubblica.it e che andrà in onda oggi alle 13.50 su RNews (in tv sulaEffe, canale 50 del digitale terrestre)

Repubblica 1.12.13
La terra spezzata
di Marek Halter


Quanta poca fantasia ha dimostrato l’Uomo, nel corso dei millenni, per difendersi. Già dai tempi delle prime grandi città sumeriche cominciò a erigere muri per proteggersi dalle bande di nomadi e saccheggiatori. Ma soprattutto per dividersi da chi non era come lui, da chi viveva in modo diverso. Appena è uscito dalla dimensione famigliare, e si è organizzato in società più ampie, ha cominciato a temere l’Altro. E ciò accade ancora oggi. Solo pochi giorni fa la Gran Bretagna ha chiesto all’Europa di alzare un muro contro “i bulgari”, gli afgani, gli africani.
Anche nella mia esperienza, il muro è anzitutto quello della separazione: il muro del ghetto. Quello che i nazisti costruirono attorno al quartiere ebraico dove vivevo con la mia famiglia a Varsavia. Lo fecero per segregare dalla società “giusta e pulita” chi, a loro avviso, era portatore della peste. Ma detto questo, anche i muri cadono. E quando non cadono, possono essere aggirati.
Ese non riusciamo a distruggerli possiamo conferirgli dignità, facendoli addirittura portatori di un messaggio di libertà. È quanto accadde con il Muro di Berlino, prima del 1989, quando decine di pittori e di artisti lo resero un gigantesco tazebao. Quel muro era stato “liberato”, ed era diventato una sorta di portavoce delle proteste. C’era gente che veniva dal mondo intero per ammirarlo: non in quanto calce e pietra dietro cui viveva una popolazione reclusa, ma in quanto grido di dissenso al quale ognuno poteva aggiungere un proprio segno, firmando quella petizione universale contro la schiavitù. Lo stesso avviene oggi con il Muro che separa israeliani e palestinesi, tutto dipinto e colorato da chi manifesta il proprio disaccordo, facendolo diventare un muro parlante. Sono certo che siano parlanti anche i muri che tagliano gli Stati Uniti dal Messico e Gibilterra dall’Africa.
Esistono anche muri che hanno la valenza di un ponte. Il Muro del pianto, per esempio, che cingeva il lato occidentale del T

l’Unità 1.12.13
Senkaku, sfida Usa nei cieli ma non per i voli di linea
La Cina ha esteso il proprio spazio aereo sulle isole contese
Si rischia l’escalation
Rischio incidenti, Washington cede: sul sorvolo le compagnie di volo rispettino le richieste cinesi
di Gabriel Bertinetto


Nei cieli del Pacifico è scoppiata la guerra, una tesissima guerra dei nervi. Combattuta a suon di proclami, avvertimenti e minacce. Visivamente rappresentata nella scia che lasciano dietro di sé gli aerei militari, quando si levano in volo per affermare o negare a sé o agli altri il diritto di transito sopra otto isolotti che Pechino chiama Diaoyu, Tokyo Senkaku, ed entrambe rivendicano come propri. L’ultimo atto della sfida multipla che da qualche giorno vede coinvolti governi e forze armate di almeno quattro Paesi (Usa e Sud Corea oltre a Cina e Giappone), fortunatamente è un gesto distensivo: Washington invita le compagnie di trasporto aereo ad accettare le regole imposte da Pechino sugli spazi sovrastanti una sezione del Mare della Cina meridionale che comprende l’arci-
pelago conteso.
Ciò solo allo scopo di preservare la sicurezza dei voli civili, mettono subito le mani avanti al Dipartimento di Stato, senza che equivalga ad alcun riconoscimento di legittimità verso le decisioni unilaterali annunciate dalla Repubblica popolare. Per quanto riguarda l’aviazione militare tutto prosegue come prima. I piloti a stelle e strisce ignoreranno qualunque richiesta cinese di conoscerne i piani di volo o di fornire informazioni nel momento in cui penetrassero in quella che Pechino ha battezzato Zona di Difesa e Identificazione Aerea (Adiz). L’Adiz è uno spazio piuttosto vasto, compreso fra Taiwan e Giappone, dove da meno di una settimana vige l’obbligo imposto dai cinesi di identificarsi e rispondere a ogni richiesta di comunicazioni. Un eventuale rifiuto espone al rischio di non meglio precisate «misure difensive». Il messaggio è chiaro: questa è casa nostra e si fa come vogliamo noi. Tokyo ha risposto violando con i suoi velivoli da combattimento almeno dieci volte il presunto divieto. La stessa cosa ha fatto Washington proseguendo imperterrita l’attraversamento di quei cieli con i B-52. Anche in questo caso il significato simbolico era evidente: non è affatto casa vostra, continuiamo a comportarci come sempre. Come contromossa Pechino ha fatto decollare i propri caccia per un simbolico tallonamento aereo degli intrusi. Apparentemente sono in ballo solo sette chilometri quadri di inospitali rocce distribuite in otto isolette disabitate (le Senkaku-Diaoyu), e di uno scoglio chiamato dai coreani Ieodo, che oltre ad essere piccolo è pure sommerso. Ma il cuore della retorica nazionalista batte anche sott’acqua, e quel pietrone su cui non splende mai il sole è immensamente caro a Pechino non meno che a Seul. È ovvio che il furore nazionalista che accompagna simili diatribe abbia motivazioni più sostanziose che non il desiderio di piantare bandierine al suolo. Non a caso, dicono i giapponesi, Pechino ha scoperto di essere interessata alle Diaoyu, solo negli anni settanta quando si cominciò a sospettare che i fondali vicini fossero ricchi di giacimenti petroliferi.
PESO POLITICO
Più in generale le rivendicazioni di sovranità si accompagnano, da parte cinese soprattutto, alla volontà di estendere il proprio peso politico-strategico nel Pacifico, in una fase in cui un’uguale e contrapposta tendenza caratterizza la politica estera americana. È sintomatico il giudizio espresso dal capo del Pentagono Chuck Hagel il giorno stesso in cui la Cina proclamò il varo della Adiz: «Siamo di fronte a un tentativo destabilizzante di alterare lo status quo nella regione».
Secondo June Teufel Dreyer, esperta di sicurezza che insegna all’università di Miami, «il governo cinese può avere mal calcolato la veemenza della risposta internazionale al suo gesto arbitrario, ma non farà marcia indietro». La studiosa non crede sia alto nell’immediato il rischio di uno scontro diretto. «I cinesi si limiteranno a scortare i velivoli invasori, ma non li colpiranno». Sulla sostanza dei loro progetti però non cederanno. «Aspetteranno, e quando le circostanze saranno più favorevoli, cercheranno di imporre la propria scelta in maniera più rigida in futuro. Da decenni questo è il loro stile operativo». Gli Usa rischiano di essere coinvolti pesantemente in un eventuale aggravamento della tensione fra Cina e Giappone anche perché il trattato di alleanza difensiva stipulato con Tokyo nel 1960 li impegna ad intervenire in suo aiuto in caso di aggressione. Avrà dunque molte questioni da discutere con i suoi interlocutori il vice di Obama, Joe Biden, che a partire da domani visiterà le capitali dei tre Paesi asiatici maggiormente coinvolti nella crisi: Tokyo, Seul e Pechino.

Corriere 1.12.13
Il dramma delle giovani curde in Siria
«Noi, prede dei miliziani di Al Qaeda»
I racconti nei campi profughi: 6.000 violentate dall’inizio della guerra
Uomini armati salgono sui pullman, si fanno consegnare la lista dei passeggeri e cercano i nomi non arabi
Le ragazze obbligate a scendere
di Lorenzo Cremonesi


DAL NOSTRO INVIATO DARASHAKRAN (Kurdistan iracheno) — I miliziani delle brigate islamiche in Siria hanno un sistema tutto loro per scegliere le donne curde. In genere avviene ai posti di blocco. Salgono sui bus civili con i mitra puntati, si fanno consegnare la lista dei passeggeri dal conduttore e cercano i nomi non arabi. Individuate le più giovani e carine le obbligano a scendere, le fanno genuflettere e poggiando il palmo della mano sulla loro testa le dichiarano «halal», che nella tradizione indica la carne macellata secondo la legge coranica, così vengono «islamizzate», purificate, pronte per congiungersi carnalmente con i cavalieri della guerra santa. Violenza di uno solo, o di gruppo: le ragazze sono considerate «spose temporanee». Possono essere trattenute per poche ore, oppure settimane. Alcune tornano a casa, altre alla fine vengono uccise. Altre ancora sono assassinate dai fratelli o cugini per cancellare «l’onta». Invece i militanti della «Shabiha», la milizia paramilitare agli ordini di Bashar Assad, pare siano più selettivi. Si concentrano unicamente contro i parenti noti degli attivisti della rivolta, meglio se donne. I loro criteri sono politici, non religiosi.
Le testimonianze non sono difficili da raccogliere tra le giovani donne ammassate nei campi di tende e baracche costruiti dall’Unicef nel Kurdistan iracheno. Le storie più drammatiche vengono narrate dagli oltre 60.000 curdi arrivati qui da metà agosto per accrescere un popolo di 200.000 rifugiati. «Mia cugina era studentessa universitaria di letteratura inglese. Quasi ogni giorno prendeva il bus dalla nostra cittadina curda di Derek per raggiungere la facoltà a Latakia. Ma i miliziani l’hanno rapita mentre viaggiava quattro mesi fa. Da allora non sappiamo più nulla di lei», racconta Juai Iskander, vent’anni, arrivata assieme ad altri 6.000 profughi al campo di Darashakran, una quarantina di chilometri a nord di Erbil. «La sua sparizione ha indotto mio padre a partire con me e le mie sorelle. Era diventato prioritario salvare la nostra integrità», aggiunge. La storia di Azar Marriwalika, 18 anni, è ancora più drammatica. Studentessa all’università di Homs, anche lei viaggiava periodicamente dalla sua abitazione a Qamishli, oggi centro politico del nuovo movimento di autonomia curdo. «Per me il terrore è cominciato a inizio estate, quando i guerriglieri di Jabat al Nusrah (la formazione islamica siriana vicina ai movimenti qaedisti, ndr ) hanno rapito sei delle mie migliori amiche. Viaggiavano sullo stesso bus che prendo anch’io. Chi era a bordo ha poi raccontato che l’azione è stata molto rapida. Le hanno indicate con le canne dei fucili e hanno detto: queste sono per noi. Pochi secondi e l’autobus è ripartito, i passeggeri temevano che avrebbero sparato ai finestrini se ci fossero state proteste», dice. Pochi giorni dopo sparisce un’altra amica di Qamishli, Nasreen Achmad, 17 anni, studentessa al primo anno di letteratura francese a Homs. Infine è toccato alla sua compagna dai tempi della prima elementare: Berivan, vent’anni, vicina di casa. «I rapitori dopo qualche tempo hanno fatto recapitare il video della violenza carnale a casa dei genitori. Era in un semplice telefonino abbandonato di notte di fronte alla porta. Si vede Berivan completamente nuda e due uomini con i pantaloni abbassati che la prendono a turno. Lei piange, loro ridono. Un terzo filma, come se fosse un porno».
Quante sono state violentate e quante tra loro sono sparite? Un recente rapporto dell’organizzazione umanitaria non governativa Euro Mediterranean Human Rights Network (Emhrn)ha indicato un numero: sarebbero 6.000 le donne che hanno subito violenze sessuali dall’inizio delle rivolte nel marzo 2011, senza specificare quante curde. Ma il dato è impossibile da verificare. Una cosa è certa. In Siria, come avviene da tempo immemorabile in tutte le zone di guerra e fortemente destabilizzate, il discorso delle violenze sessuali impera. Difficile distinguere tra le ossessioni ancestrali dettate dai tabù collettivi e la realtà. In Libia nel 2011 tutti ne parlavano, ma i numeri reali furono probabilmente molto più bassi di quelli paventati. Anche tra i palestinesi circolano di continuo narrazioni terrificanti sulle violenze alle donne durante le perquisizioni notturne dei militari israeliani. Pure, le conferme si contano sul palmo di una mano.
Sta crescendo invece il problema in Egitto: con l’incancrenirsi della violenza e del caos sociale, aumenta in modo sproporzionatamente alto il numero degli stupri. In Siria siamo ancora lontani dalla violenza sessuale pianificata su larga scala, come avvenne contro le donne tedesche al tempo dell’arrivo dell’Armata Rossa nel 1945. Eppure, nei confronti delle curde l’elemento ideologico-religioso non è da sottovalutare. «Per gli estremisti islamici siriani e soprattutto per i volontari di Al Qaeda arrivati dall’estero noi curdi siamo dei sub-umani. Non siamo musulmani, dunque secondo la loro folle ideologia possiamo essere uccisi o stuprati senza problema. Per loro non è peccato. Siamo Kafiri, miscredenti», sostiene Khundaf Ibrahim, 25 anni, ex professoressa di inglese, fuggita dal villaggio siriano di Derek e arrivata il 17 agosto al campo rifugiati di Kawrgosk una trentina di chilometri da Erbil, abitato al momento da 15.000 persone. A detta di Ipek Ezidxelo, 30 anni, attivista del Partito di Unione Democratica (Pyd), il più importante movimento armato nelle regioni curde siriane, gli estremisti qaedisti, specie gli afghani, ceceni e libici, farebbero a gara per catturare vive le combattenti curde.
Racconta durante il nostro incontro all’ufficio Pyd a Sulaymaniyya: «Quei criminali uccidono subito i nostri compagni uomini. Ma alle donne sparano alle gambe. Le vogliono vive, per violentarle meglio, e ferite, così non possono lottare. Abbiamo trovato pillole di viagra nelle tasche dei loro combattenti. E una lettera firmata direttamente dal loro imam, in cui si promette che comunque andranno direttamente in paradiso».

Corriere 1.12.13
Giro di vite dei militari in Egitto
L’ombra della dittatura sulle Riforme
di Antonio Ferrari


Una nuova dittatura in Egitto? Possibile ma anche difficile, perché nel primo Paese arabo i poteri forti sono almeno tre: le Forze armate, che controllano il Paese, pronte a usare il pugno di ferro; i Fratelli musulmani, che hanno controllato il Paese per un anno con risultati inquietanti; i liberali e i laici, che non vogliono sottostare ai diktat islamici e neppure a quelli dei militari.
Sappiamo che il presidente Mubarak è stato detronizzato dai liberali con il silenzioso sostegno dell’avida Fratellanza pigliatutto. Almeno fino al momento in cui, sconvolto dal disastro dell’inadeguato presidente Morsi, il popolo (soprattutto liberali e laici) ha sostenuto il «golpe popolare», scaricando i fondamentalisti.
Ora, le nuove norme sulle proteste di piazza sono ritenute indigeste dai liberali, al punto che si sta incrinando il tacito patto con le Forze armate. Ci sono state manifestazioni, arresti ed episodi di violenza che non fanno presagire nulla di buono. Siamo ormai alla vigilia del varo delle riforme costituzionali, che la Commissione di saggi sta modificando, anzi entro oggi dovrebbe aver modificato e votato. Sono in tanti però a ritenere che la nuova Carta rafforzerebbe il potere dei militari, attribuendo ai generali nomina e destituzione del ministro della Difesa.
Di certo il clima è pesante, quasi avvelenato. Il leader dell’équipe per la riforma della Costituzione, Amr Moussa, ex ministro degli Esteri ed ex Segretario generale della Lega araba, ha detto di sperare che ciascuno ne sostenga le modifiche, in quanto «stiamo tutti vivendo una transizione tra incertezze, turbolenze e stabilità, e dobbiamo fare in modo che dalla stagnazione economica si riprenda a viaggiare verso lo sviluppo». Buoni propositi, senza dubbio. Tutti ora guardano alle elezioni del 2014, chiedendosi se si faranno davvero e che cosa produrranno. Il rischio, se non si trova un accordo condiviso, è uno scenario drammatico, che richiama alla memoria l’incubo della guerra algerina .

La Stampa 1.12.13
Straziami ma di paradiso saziami
Tra il Medioevo e i Lumi torture e pene capitali servivano a punire i colpevoli, ma anche a salvare le loro anime: un saggio di Adriano Prosperi
di Alessandro Barbero

qui

Corriere La Lettura 1.12.13
I misteri del male nelle cellule cerebrali
Spiegare la violenza esaminando il cervello
Una pista promettente ma piena di rischi
di Chiara Lalli


Nei primi mesi di quest’anno è stata attribuita a un neurobiologo tedesco, Gerhard Roth, la scoperta della sede del male: una regione oscura nel «lobo centrale» del cervello di stupratori, assassini e altri criminali. La notizia ha avuto una certa diffusione e suscitato qualche apprensione nel mondo scientifico finché Roth, tramite un comunicato dell’Università di Brema, ha dovuto precisare di non aver mai identificato il lobo centrale come luogo in cui il male si forma e si nasconde. «Un simile lobo non esiste», si legge nella nota successiva (la suddivisione classica del cervello è nei lobi frontale, parietale, temporale e occipitale) e la notizia della «macchia cerebrale» è risultata un fraintendimento. Tuttavia a questo punto si è accesa una nuova attenzione sulle ricerche che riguardano le relazioni tra cervello e comportamenti umani.
Roth e il suo gruppo di ricerca studiano proprio la possibile connessione tra il comportamento e lo sviluppo del cervello. L’attenzione è rivolta soprattutto a capire se e in che modo traumi precoci possano costituire un fattore determinante nella condotta violenta. Tipologie diverse di comportamento potrebbero essere correlate a disturbi funzionali di alcuni centri del sistema limbico, tra cui la corteccia orbitofrontale. Esistono molte altre ricerche che suggeriscono che il cervello criminale sia diverso da quello non criminale, ma c’è un margine interpretativo nebbioso. A parte gli errori più grossolani, bisogna fare attenzione a non confondere correlazioni e nessi causali, predisposizioni e destini ineluttabili. Soprattutto quando ci si muove su terreni in continua evoluzione e che richiedono una semplificazione destinata ai non esperti. Ma anche agli esperti può accadere di confondersi. O di doversi misurare con situazioni sorprendenti quanto imbarazzanti.
Siamo nel 2005 quando il neuroscienziato James Fallon studia le scansioni cerebrali di alcuni psicopatici. Non è solo il loro passato violento a renderli così diversi da chi non s’è mai spinto più in là di una risposta sgarbata o di un’aggressività contenuta, addomesticata con l’età adulta. Quell’abisso, simile a quello tra chi ha ucciso e chi no, che Georges Simenon racconta in Lettera al mio giudice , emerge anche dal confronto dei cervelli.
Da molti anni Fallon cerca le radici del male, cioè una spiegazione neuroscientifica al comportamento feroce e criminale. Ha notato che nei soggetti con comportamenti molto aggressivi ricorre una caratteristica comune: una scarsa funzionalità in un’area dei lobi frontali e temporali. Niente di strano, perché la riduzione di attività cerebrale in queste zone suggerisce un difetto di ragionamento morale e una scarsa capacità di contenere gli impulsi. Contemporaneamente Fallon indaga l’Alzheimer e le sue correlazioni genetiche. Ha sottoposto alcuni pazienti a esami genetici e a scansioni cerebrali. Come gruppo di controllo usa i suoi familiari e il suo stesso cervello, le cui immagini sistema sotto a quelle degli individui affetti dalla patologia.
In fondo alla pila di lastre ne vede una con le caratteristiche da psicopatico (abnormal ). Fallon pensa che sia finita lì tra l’Alzheimer per sbaglio. Controlla. Nessuno sbaglio dovuto al disordine, quella scansione non arriva dal gruppo degli psicopatici. L’identità dell’uomo della scansione è talmente sconvolgente che Fallon pensa che si sia rotta la macchina. Il tecnico di laboratorio controlla lo scanner. Nessun errore, nessuna confusione: è lui, James Fallon. Uno psicopatico, con quell’area cerebrale troppo angusta per contenere empatia e emozioni, gli ingredienti del comportarsi bene. Eppure lui è una brava persona. A parte qualche fissazione e qualche narcisistica manifestazione di promesse non mantenute, nessuno avrebbe sospettato che nel suo cervello si annidasse il male. O la sua correlazione neurologica.
Fallon non si nasconde e non omette la sua scoperta. Il suo cervello è paurosamente simile a quello di un serial killer — non solo, scopre di avere il gene correlato al comportamento violento. Come può un uomo «buono» avere un cervello tanto «cattivo»? Fallon racconta la sua storia in un libro uscito a fine ottobre The Psychopath Inside («Lo psicopatico dentro», Penguin), riformulando in chiave neuroscientifica le domande sul male che ci poniamo da secoli. Prima di quella scansione, Fallon attribuiva alla genetica l’80 per cento del destino personale. Dopo, se l’è dovuta vedere con un’eccezione formidabile, e con la conseguente necessità di ripercorrere concetti come male, psicopatia, responsabilità. Il caso Fallon potrebbe essere considerato come un ennesimo sintomo della complessità del comportamento umano, della difficoltà di indicare le condizioni neurologiche sufficienti e necessarie della violenza. Non basta un cervello da cattivo a renderci cattivi insomma, perché il nostro comportamento non è un mero riflesso condizionato neurologico. Ogni scoperta neuroscientifica ci consegna un tassello per capire meglio il funzionamento del cervello, a patto di non trasformarlo in una caricatura, in una versione poco più presentabile della lettura della mano o di una ben lucidata sfera di cristallo.


Corriere La Lettura 1.12.13
Ma senza i cattivi non c’è storia
È il «Giuda necessario» a creare la parola
mentre il bene non è dimostrabile
di Donato Carrisi


Mancano tre minuti alla mezzanotte del 25 maggio 1984. Al detenuto Peter LaFontaine viene concessa la possibilità di rendere un’ultima dichiarazione prima che sia eseguita la sua condanna a morte per mezzo di iniezione letale. Davanti ai parenti delle vittime e al procuratore che ha ottenuto per lui la pena capitale, l’uomo pronuncia un’unica frase: «Non so chi credete di uccidere, ma non sono io».
Nel 1980, LaFontaine ha massacrato con ferocia inaudita due anziani coniugi nel corso di una rapina nella loro abitazione. Le prove contro di lui sono schiaccianti e la sua fedina è un crescendo di precedenti per violenza. Durante il processo, LaFontaine arriva a minacciare giudice, giuria e perfino il suo avvocato. Il tribunale impiega meno di una settimana per emettere una sentenza di condanna a morte, un record.
LaFontaine viene tradotto nel braccio della morte. E qui gli viene diagnosticato un tumore celebrale. Negli Usa il condannato alla pena capitale deve giungere al patibolo nelle condizioni di salute ottimali, poiché la legge richiede la consapevolezza del valore della punizione che sta per subire, in ossequio a una sorta di estremo — e paradossale — scopo educativo.
LaFontaine viene sottoposto a un delicato intervento chirurgico che gli salva la vita, ma la rimozione della massa tumorale produce un’amnesia. L’uomo non ricorda più nulla del passato, a cominciare dal crimine brutale per cui è stato condannato. Anzi, sostiene di non essere in grado di commettere simili atrocità. Oltre alla memoria, sembra sparita anche la sua indole violenta. Adesso è un uomo mite, dedito alla preghiera e alla lettura della Bibbia. Potrebbe sembrare una recita magistralmente architettata, ma neurologi e psichiatri si convincono che sia tutto reale e anche la macchina della verità gli dà ragione, per ben due volte. Peter LaFontaine sostiene, perciò, di essere innocente per un crimine commesso da un altro sé in passato. Il suo caso genera una domanda. Dove risiede la colpa? Nel corpo che ha compiuto le atrocità o nella coscienza delle stesse? Ed è possibile che l’operazione al cervello abbia rimosso, insieme al tumore e alla memoria, la parte malvagia dell’individuo?
Oggi le neuroscienze cercano di individuare «l’area del male» all’interno del cervello. Ammettono, cioè, l’esistenza di una sorta di predisposizione fisiologica e genetica ai comportamenti più aberranti. Perciò, forse un giorno basterà una mappa del Dna per stabilire se un individuo è buono o cattivo. O magari porteremo i nostri figli da un chirurgo per far rimuovere la parte cattiva del cervello come oggi li portiamo dal dentista per l’estrazione di un dente cariato.
Eppure la Natura sembrerebbe smentire l’origine biologica del male. L’immagine di una leonessa che aggredisce dei cuccioli di zebra ci induce a provare pietà per il più debole. Ma se con quella stessa carne la leonessa nutre i propri cuccioli, allora la valutazione muta radicalmente. Nel mondo animale il giudizio morale è sospeso, perché non esistono leoni vegetariani. E nel mondo umano? Secondo alcuni antropologi, l’unica distinzione possibile fra bene e male deriva dal fatto che solo quest’ultimo può essere dimostrato empiricamente, perché lascia riscontri evidenti dietro di sé — la scena di un crimine, per esempio. Il bene, invece, non si può provare. Infatti, come si fa a dimostrare che l’elemosina concessa al mendicante non è solo un modo per appagare il nostro bisogno di sentirci migliori degli altri, anche solo agli occhi di noi stessi? E che il sentimento che ci spinge è autentica filantropia e non superbia?
La contraddizione è più evidente nel momento in cui l’uomo si racconta. Perciò è alla letteratura che spetta l’ultima parola. E dal punto di vista letterario, il male è assolutamente indispensabile. Ogni scrittore conosce la lezione: il bene trionfa, ma è il cattivo che fa la storia. Il «Giuda necessario», che genera il conflitto e quindi l’urgenza della parola, del racconto.
Allora che sia il bene l’artificio, l’invenzione letteraria?
Dovremmo risalire al momento esatto dell’evoluzione umana in cui è stato stabilito per la prima volta che una cosa era giusta o sbagliata. Sappiamo che la preistoria cessa nel momento in cui nasce la scrittura, ma l’invenzione è strettamente legata all’esistenza di qualcosa da documentare. La funzione del male in questo processo è basilare.
Senza il male, l’umanità non avrebbe una Storia. Oppure questa si limiterebbe ancora a un piatto resoconto della realtà che ci circonda e non avremmo superato nell’evoluzione l’ominide che ritraeva la sua quotidianità sulle pareti di una caverna.
Il che equivarrebbe a dire che ci siamo evoluti grazie al male?
Man mano che avanza il nostro progresso, stabiliamo nuovi canoni per ripartire le cose giuste da quelle sbagliate. Tutto questo si riflette, inevitabilmente, nella letteratura di un’epoca. Rimanendo in America, un romanzo come A sangue freddo di Capote, per esempio, non sarebbe stato possibile prima del 1966. Nonostante le polemiche che suscitò quello sguardo opportunistico e voyeuristico sul male, che trasforma la cronaca in verità e non viceversa, in fondo è il prodotto di una società nata dal filmato dell’omicidio in diretta di Jfk. Le immagini di una testa che esplode colpita da un proiettile non vengono censurate, ma sono mandate e rimandate in onda in ossequio a un principio assoluto di libertà. Oggi l’America ha il suo primo presidente di colore, eppure evita di diffondere le foto del cadavere di Bin Laden per non turbare le coscienze. Perché, come muta la sensibilità riguardo al male, cambia anche il lessico. Alcune barriere semantiche vengono abbattute, altre erette.
L’attenzione che oggi in Italia rivolgiamo, per esempio, al femminicidio lo fa apparire come un crimine moderno. Abbiamo già dimenticato quando gli attribuivamo la definizione, quasi romantica, di «delitto passionale». Ma, senza accorgercene, stiamo ripetendo lo stesso errore. La parola femminicidio scalfisce appena la superficie del problema. Sembra più il frutto di una scelta ideologica. È più adatta a definire una statistica piuttosto che un comportamento spregevole e vigliacco. Toglie identità alle vittime che diventano «femmine uccise», appunto. Una categoria, una specie. Ma, soprattutto, è una parola che lascia impunito il colpevole. Avete notato che si discute di femminicidio, ma non si parla mai del «femminicida»? Quando invece, come deterrente, servirebbe una definizione marchiante, come pedofilo.
Escludendo i casi in cui ha un’origine patologica, il male ha radici culturali. L’unica arma per combatterlo è la parola. Perfino il togliere la vita a un altro essere umano, che è considerato universalmente il peggiore degli atti possibili, riceve una diversa considerazione se lo definiamo «eutanasia». Invece siamo ottenebrati dall’ansia di codificare il male o di attribuirgli un’origine biologica. Per assolverci.
Ma il male è solo un elemento della nostra natura sociale. Per smentire le neuroscienze, ma anche coloro che si illudono di imbrigliarlo nella morale, basterebbe una semplice riflessione. Se rimanesse un solo uomo sulla faccia della terra, potrebbe ancora provare rabbia, odio, rancore. Ma non sarebbe né buono né cattivo.

Corriere La Lettura 1.12.13
Le lapidazioni afghane
Pietre e pubblico contro il peccato
di Marco Ventura


Nei primi mesi di quest’anno è stata attribuita a un neurobiologo tedesco, Gerhard Roth, la scoperta della sede del male: una regione oscura nel «lobo centrale» del cervello di stupratori, assassini e altri criminali. La notizia ha avuto una certa diffusione e suscitato qualche apprensione nel mondo scientifico finché Roth, tramite un comunicato dell’Università di Brema, ha dovuto precisare di non aver mai identificato il lobo centrale come luogo in cui il male si forma e si nasconde. «Un simile lobo non esiste», si legge nella nota successiva (la suddivisione classica del cervello è nei lobi frontale, parietale, temporale e occipitale) e la notizia della «macchia cerebrale» è risultata un fraintendimento. Tuttavia a questo punto si è accesa una nuova attenzione sulle ricerche che riguardano le relazioni tra cervello e comportamenti umani.
Roth e il suo gruppo di ricerca studiano proprio la possibile connessione tra il comportamento e lo sviluppo del cervello. L’attenzione è rivolta soprattutto a capire se e in che modo traumi precoci possano costituire un fattore determinante nella condotta violenta. Tipologie diverse di comportamento potrebbero essere correlate a disturbi funzionali di alcuni centri del sistema limbico, tra cui la corteccia orbitofrontale. Esistono molte altre ricerche che suggeriscono che il cervello criminale sia diverso da quello non criminale, ma c’è un margine interpretativo nebbioso. A parte gli errori più grossolani, bisogna fare attenzione a non confondere correlazioni e nessi causali, predisposizioni e destini ineluttabili. Soprattutto quando ci si muove su terreni in continua evoluzione e che richiedono una semplificazione destinata ai non esperti. Ma anche agli esperti può accadere di confondersi. O di doversi misurare con situazioni sorprendenti quanto imbarazzanti.
Siamo nel 2005 quando il neuroscienziato James Fallon studia le scansioni cerebrali di alcuni psicopatici. Non è solo il loro passato violento a renderli così diversi da chi non s’è mai spinto più in là di una risposta sgarbata o di un’aggressività contenuta, addomesticata con l’età adulta. Quell’abisso, simile a quello tra chi ha ucciso e chi no, che Georges Simenon racconta in Lettera al mio giudice , emerge anche dal confronto dei cervelli.
Da molti anni Fallon cerca le radici del male, cioè una spiegazione neuroscientifica al comportamento feroce e criminale. Ha notato che nei soggetti con comportamenti molto aggressivi ricorre una caratteristica comune: una scarsa funzionalità in un’area dei lobi frontali e temporali. Niente di strano, perché la riduzione di attività cerebrale in queste zone suggerisce un difetto di ragionamento morale e una scarsa capacità di contenere gli impulsi. Contemporaneamente Fallon indaga l’Alzheimer e le sue correlazioni genetiche. Ha sottoposto alcuni pazienti a esami genetici e a scansioni cerebrali. Come gruppo di controllo usa i suoi familiari e il suo stesso cervello, le cui immagini sistema sotto a quelle degli individui affetti dalla patologia.
In fondo alla pila di lastre ne vede una con le caratteristiche da psicopatico (abnormal ). Fallon pensa che sia finita lì tra l’Alzheimer per sbaglio. Controlla. Nessuno sbaglio dovuto al disordine, quella scansione non arriva dal gruppo degli psicopatici. L’identità dell’uomo della scansione è talmente sconvolgente che Fallon pensa che si sia rotta la macchina. Il tecnico di laboratorio controlla lo scanner. Nessun errore, nessuna confusione: è lui, James Fallon. Uno psicopatico, con quell’area cerebrale troppo angusta per contenere empatia e emozioni, gli ingredienti del comportarsi bene. Eppure lui è una brava persona. A parte qualche fissazione e qualche narcisistica manifestazione di promesse non mantenute, nessuno avrebbe sospettato che nel suo cervello si annidasse il male. O la sua correlazione neurologica.
Fallon non si nasconde e non omette la sua scoperta. Il suo cervello è paurosamente simile a quello di un serial killer — non solo, scopre di avere il gene correlato al comportamento violento. Come può un uomo «buono» avere un cervello tanto «cattivo»? Fallon racconta la sua storia in un libro uscito a fine ottobre The Psychopath Inside («Lo psicopatico dentro», Penguin), riformulando in chiave neuroscientifica le domande sul male che ci poniamo da secoli. Prima di quella scansione, Fallon attribuiva alla genetica l’80 per cento del destino personale. Dopo, se l’è dovuta vedere con un’eccezione formidabile, e con la conseguente necessità di ripercorrere concetti come male, psicopatia, responsabilità. Il caso Fallon potrebbe essere considerato come un ennesimo sintomo della complessità del comportamento umano, della difficoltà di indicare le condizioni neurologiche sufficienti e necessarie della violenza. Non basta un cervello da cattivo a renderci cattivi insomma, perché il nostro comportamento non è un mero riflesso condizionato neurologico. Ogni scoperta neuroscientifica ci consegna un tassello per capire meglio il funzionamento del cervello, a patto di non trasformarlo in una caricatura, in una versione poco più presentabile della lettura della mano o di una ben lucidata sfera di cristallo.

Corriere La Lettura 1.12.13
I nostri figli sdraiati, i padri capovolti
Michele Serra, nell’ultimo libro fa il relkativista sui valori etici e l’imperialista estetico
Così aliena il ruolo di genitore e si disinteressa dei gusti culturali dei giovanissimi
di Antonio Polito


E se l’«universo sconosciuto» di cui ha scritto Barbara Stefanelli sul «Corriere della Sera» fossimo noi? Noi padri, intendo, e non i nostri figli adolescenti che tanto incomprensibili ci appaiono? E se, come in un racconto di fantascienza, gli umani si rivelassero i veri alieni? Devo confessare che il dubbio mi è venuto leggendo Gli sdraiati , l’ultimo libro di Michele Serra (edito da Feltrinelli). Molto bello, e molto popolare a giudicare dalle classifiche dei più venduti. E proprio per questo meritevole di una buona polemica, perché lì dentro c’è un bel po’ di senso comune della nostra generazione, di noi figli ribelli del baby boom, diventati genitori obbedienti di figli perlopiù unici, e solitamente viziati.
Il fatto è che leggendo Serra, la lunga lettera di un padre a un figlio incomunicante, ho parteggiato per il figlio. E questo è grave, per un genitore. Insomma, l’ossessione del protagonista per la cura delle portulache sulla terrazza della seconda casa al mare, per il rito annuale della vendemmia del Nebbiolo nella seconda casa di un’amica nelle Langhe, e per la scalata di un fantastico quanto simbolico Colle della Nasca (presso il quale par di potere ipotizzare una terza casa), tutte magnifiche attività borghesemente colte, o coltamente borghesi, che il padre vorrebbe imporre al figlio come prova di maturità, e di amore del bello, e di pregnanza dell’esperienza umana, paiono noiose e stravaganti a me, figurarsi al figlio. Il quale, non a torto, se ne resta sdraiato e iperconnesso sul divano della prima casa, emulando i coetanei che su Twitter si sono battezzati indivanados per distinguere la loro pigra rivolta da quella più attiva degli indignados (e che temo che Serra si sia perso perché, come da lui dichiarato, ha rifiutato la frequentazione di Twitter, giudicato troppo banale con i suoi 140 caratteri).
Ma Serra e io siamo coetanei (anche se lui ricorda il suo Sessantotto di quattordicenne mentre io, allora dodicenne, no) siamo cresciuti vicini, abbiamo lavorato nello stesso giornale («l’Unità») e sospetto che abbiamo votato a lungo lo stesso partito. E allora, mi domando, che cosa è successo perché io sia finito dalla parte del figlio invece che del padre-narratore? Io penso si tratti di questo: quel padre dichiara di essere un «relativista etico», riluttante dunque a trasmettere valori, a cercare verità, a parlare del bene e del male; ma, forse per compensare, si comporta come un assolutista estetico, comicamente ostinato nel tentativo di trasmettere un’idea di buon gusto, uno stile di vita, una concezione del bello. Da parte mia sono invece giunto alla conclusione che sia meglio fare l’opposto, e che il fallimento genitoriale della nostra generazione (e se è per questo anche della sinistra dal cui alveo veniamo) nasca proprio dall’aver tentato di sostituire l’etica mancante con un’estetica intollerante. Penso che noi padri dovremmo ricominciare a essere «etici», lasciando in compenso in pace i nostri figli sull’estetica.
Mi stupisce per esempio che nel padre di Serra, così inorridito dalla generazione wireless , dagli iPad, gli iPod e gli iPhone, non ci sia mai curiosità su che cosa il figlio ascolta, legge, condivide; che il rifiuto del mezzo (online) conviva con una sostanziale indifferenza al messaggio. Questo ragazzo «sdraiato» studia? Legge, seppure su un ebook? Che musica ascolta, satanica o angelica? Crede in Dio o in qualche forma di trascendenza? Ama? Non si viene a sapere niente di tutto questo dal libro, probabilmente perché il padre narratore non lo sa, e forse non lo sa perché non gli interessa. Ciò che sommamente lo smuove è piuttosto come il figlio accartocci l’amato kilim, o dove e in che condizioni sparga i suoi calzini. Niente che non possa risolvere una brava colf, che sicuramente non mancherà con tutte quelle case in giro per mari e monti.
Ma anche tutta la confusione, e perfino l’odore che l’adolescente promana (del resto è perfino etimologico che un adolescente abbia odore), par di capire che sarebbero tollerati se solo il ragazzo una volta all’anno vendemmiasse il Nebbiolo, o una volta nella vita ascendesse il Colle della Nasca, cedendo così al gioco di potere del genitore. Perché, e questo è per me il punto chiave del libro, tutte queste cose non sono concepite dal padre come gusti personali, e pertanto discutibili: «Come farti capire — scrive disperato — che non è la mia vita, ma è la vita degli uomini quella della quale io sono un così impacciato testimone?».
Dunque l’esperienza del padre interpreta niente di meno che «la vita degli uomini». Il ragazzo che la rifiuta quindi nega la condizione umana. Come potrebbero non sentirsi degli estranei i nostri figli, di fronte a tanta siderale distanza, a questa dicotomia umano/non umano? Invece di cercare succedanei estetici all’autorità etica cui abbiamo rinunciato, dovremmo piuttosto parlare con loro della verità. Non per convincerli della nostra, o ancor meno per piegarli alla nostra (il Sessantotto è stato davvero utile da questo punto di vista, anche se in Italia è durato troppo, dieci anni, ed è finito nel sangue di Aldo Moro).
L’educazione non si impartisce, è la libertà di una persona che incontra la libertà di un’altra. Ma se noi non abbiamo niente da dire sulla verità, di che cosa pretendiamo di parlare con i nostri figli? Come potranno cercare la loro verità, magari diversa, forse opposta, se noi ne abbiamo paura? Perché ci dovrebbero ascoltare mentre ci crogioliamo nei nostri riti di borghesi arrivati e progressisti, che non hanno più niente di cui stupirsi e più nessuna novità cui aprirsi e ai quali la verità non interessa più, perché il nostro pensiero si è fatto debole, debolissimo, quasi inesistente? Forse abbiamo paura della libertà dei nostri figli; temiamo che la usino male, ma non abbiamo niente da proporre in cambio. Forse, da «adulti politicizzati», qualche volta li odiamo persino; perché, come ha scritto Gustavo Pietropolli Charmet, rimproveriamo loro «di non avere nessuna intenzione di intristirsi per le stolide e appassite ragioni» per le quali abbiamo inutilmente sofferto noi. Forse gli alieni siamo noi.

Corriere La Lettura 1.12.13
La matematica non è un gioco (ma quasi):
7.800 voci per imparare ad amarla
La prima Garzantina su aritmetica, geometria, logica e oltre
Undici anni di lavoro per riconciliarci con una «lingua» che parla una infinità di dialetti
di Armando Torno


La matematica ama la carta. Non si scandalizzino i benpensanti del digitale per questa affermazione, ma l’universo di segni, numeri, concetti, spazi, realtà e idee che in genere chiamiamo matematica bisticcia facilmente con i sistemi di scrittura dei computer, soprattutto quando tendono a modificare. Per esprimere un concetto elementare su due insiemi come questo: A è contenuto in B, si usa una C schiacciata e non tutti i programmi sono preparati a rispettarlo. Oppure provate a scrivere «ogni» come fanno algebristi o logici: è una A rovesciata e se non disponete del software adatto chissà cosa risulterà sullo schermo. E il simbolo degli integrali? Bisogna averlo. È una S settecentesca allungata (indicava e indica una somma) ed è più facile ottenerla da un tipografo che da un esperto di informatica.
Per questo salutiamo con gioia un’enciclopedia cartacea coordinata da Mauro Palma e Walter Maraschini — diciotto collaboratori, piano di lavoro che risale a undici anni fa, di cui gli ultimi cinque intensissimi — ovvero la Garzantina dedicata alla matematica (uscirà giovedì prossimo, 5 dicembre). A una disciplina libera come il vento dinanzi alle scritture, sfuggente o, come usa dire, difficile da lemmatizzare. La matematica parla infiniti dialetti: l’esperto di geometria definisce la medesima cosa in termini diversi da un analista e un logico arriccia sovente il naso quando dialoga con un meccanico razionale; un topologo può accapigliarsi con un esperto di teoria dei giochi, perché non guardano con i medesimi occhi la stessa cosa. C’è inoltre una grande area, che è la matematica del discreto (la figlia e la genitrice al tempo stesso, come in una tragedia greca, dei computer) che in qualche modo rilegge trasversalmente i concetti riformulandoli. L’organizzazione di codesto universo è impresa tra le più ardue.
La G arzantina di matematica colma una lacuna: un’enciclopedia italiana con tali caratteristiche non c’era; certo, qualcosa fu tradotto, ma non di tale portata. Di più: ci confidava Mauro Palma che desidera essere un tentativo «per riconciliare il nostro amore infantile con questa disciplina e i concetti che la caratterizzano». Parole che si spiegano ricordando semplicemente che alle elementari è una materia in genere amata e con essa si gioca, alle scuole medie — tranne le eccezioni e qualche «secchione» — si comincia a guardarla con diffidenza, al liceo gli esercizi sono peggio degli amori mal riusciti e avvertiamo che essa non interagisce più con la vita. «Riconciliare», tra l’altro, è un verbo che piaceva molto all’algebrista e didatta Lucio Lombardo Radice, del quale Palma e Maraschini furono allievi.
Inoltre, i coordinatori hanno cercato di non rendere gioco quello che di solito è disciplina: la matematica non è stata ideata per divertirsi o per stupire, ma per pensare come in filosofia; e anche la teoria dei giochi non c’entra con quelli di società, con i casinò o con le sale piene di slot machine care ai governi italiani. Questa Garzantina cerca di presentare tale materia come prodotto culturale. Vi trovate, tra le numerosissime, notizie riguardanti Girolamo Cardano matematico: anche se «rubò» la soluzione delle equazioni cubiche scrisse il De ludo aleae (1560), il libro sul gioco dei dadi, tra i primi testi che analizzarono in modo sistematico la teoria della probabilità. Oppure ecco informazioni su Hans Moravec (nato nel 1948), uno dei padri della robotica: ha preconizzato, nel 2050, il superamento da parte delle macchine delle abilità cognitive umane.
Ovviamente non troverete in questa Garzantina la totalità della matematica, ché le 7.800 voci (pur con quattro appendici dedicate a storia, giochi, tavole e premi) sono necessariamente una selezione. Possiamo notare che c’è attenzione per la logica e che nell’essenzialità ci sono ricchissime indicazioni. Un esempio: delle opere sulle coniche di Apollonio di Perge, morto intorno al 180 a.C., si ricorda che ci restano quattro libri in greco e tre solo in traduzioni arabe. Non c’è una bibliografia, ma chi lo desiderasse può ritrovare la recente pubblicazione di questi scritti nell’edizione critica uscita in Germania da Walter de Gruyter, a cura di Roshdi Rashed (professore onorario a Tokyo ed emerito all’Università di Mansoura, attivo a Parigi). Oppure il non specialista può capire cosa sia una funzione meromorfa, come sia possibile rappresentarla quale quoziente di due funzioni trascendenti intere. In questa pagina si danno tre estratti: voci dedicate al mondo antico (Pitagora), a quello contemporaneo (Gödel) e a un argomento trasversale (infinito).
Oggi non si può ignorare il ruolo della matematica, soprattutto perché numeri e grafici sono presenti nella nostra vita più che in ogni epoca precedente. L’informatizzazione fa continuamente inciampare in essa. E non si preoccupino coloro che si chiedono a cosa serve: si può rispondere «a nulla». Perché la matematica non è una serva.

Corriere La Lettura 1.12.13
Rosenzweig studioso interattivo


Il valore supremo della parola è il fondamento sul quale Franz Rosenzweig costruì la sua vita e la sua opera di filosofo e teologo. Ma anche di maestro, visto che negli anni Venti del secolo scorso inventò il metodo di insegnamento che oggi chiamiamo «interattivo». Nato in Germania nel 1886 da una famiglia israelitica assimilata, e dopo una tentazione tutta intellettuale di convertirsi al cristianesimo, Rosenzweig tornò alle sue radici e tradizioni modulate su un ebraismo liberale: da osservante, ma non da ortodosso. Oltre che uno dei pilastri del pensiero giudaico del Novecento (Emmanuel Lévinas ha dichiarato un debito intellettuale nei suoi confronti), il sostenitore della «porta della parola, che non può chiudersi completamente» è ritenuto uno dei modelli teorici del dialogo tra ebrei e cristiani. Anche se lavorò sempre per riportare la Bibbia ebraica al suo ruolo di «libro più importante», sottraendola a quell’idea di «Vecchio» Testamento che il cristianesimo considera superato dal «Nuovo». Lo dimostrano gli scritti raccolti in La Bibbia ebraica (Quodlibet), che comprende anche i testi della sua collaborazione con Martin Buber a una nuova traduzione di Torah , Profeti e Agiografi in un tedesco fedele all’interpretazione giudaica. Un libro appena uscito e davvero speciale, visto che, oltre al Rosenzweig filosofo, ci regala l’immagine del Rosenzweig uomo. E si tratta di materiale prezioso. Perché, se la sua produzione filosofica è disponibile in italiano presso Giuntina o da Vita e Pensiero (con il suo capolavoro Stella della redenzione ), purtroppo non risultano tradotte le oltre mille splendide lettere che scambiò con l’adorata amante e amica Margrit Rosenstock, la sua Gritli. Qui, invece, possiamo per esempio conoscere l’entusiasmo quasi infantile con il quale, già gravemente provato e immobilizzato dalla malattia che lo farà morire a 43 anni, recensisce il primo volume del grandioso progetto di un’Encyclopaedia Judaica « in buon tedesco leggibile, e stampato pure in corpo grande e ben visibile»: «Abbiamo davanti a noi un volume sfarzoso, di quasi quaranta quinterni, in lino rosso e pelle marrone, taglio in oro, con un nobile frontespizio…». Era il 1928; sei anni e dieci volumi dopo, il nazismo portò morte anche su questa preziosa opera.

Corriere La Lettura 1.12.13
L’apocalisse dei Sumeri
Oltre Nassiriya, la missione archeologica
Eruzioni vulcaniche, siccità, desertificazione, sale
Una civiltà svanì, gli italiani la stanno salvando
di Lorenzo Cremonesi


Le sepolture sono sugli strati più alti dell’argilla che copre i resti della città. Uno scheletro di maschio adulto in posizione fetale con un bicchiere di ceramica ancora stretto nel pugno destro. Un infante riposto in una culla di giunchi. Un sarcofago spezzato, probabilmente da tombaroli, già in epoca molto antica. Segno che non vi fu un epilogo violento. Non ci furono assedi epici, non battaglie finali all’ultimo sangue. Non si vedono resti di incendi, le case non furono distrutte, non ci fu massacro di massa come a Ebla o a Troia. Semplicemente gli abitanti se ne andarono via in modo progressivo e forse nell’arco di pochi decenni. Restarono solo i cimiteri, le anfore funerarie piene di granaglie a garantire l’estremo viaggio dei defunti. E gli ultimi vivi, che fu di loro? Cosa li spinse a partire?
Difficile capire come decade una civiltà antica, ancora di più comprenderne le cause. Di recente due noti archeologi americani, Harvey Weiss e Raymond Bradley, hanno notato in un saggio intitolato What Drives Societal Collapse? («Che cosa provoca il collasso delle civiltà?») che la fine può essere relativamente veloce anche per civiltà durate parecchi secoli. E le cause scatenanti andrebbero ricercate nei cambiamenti climatici. Fu forse così per i cacciatori nomadi nell’Asia sud-occidentale, spinti a diventare sedentari verso la fine dell’ultima glaciazione importante, 11 mila anni fa? Così per i popoli nelle valli dell’Indo, 8 mila anni dopo? Per i «granai» della Roma imperiale nel Nord Africa sempre più arido nei primi secoli dell’era cristiana?
Uno studioso italiano sostiene con loro che anche la civiltà sumera potrebbe essere decaduta per motivi ambientali. I muri a secco di Abu Tbeirah, nell’area di Nassiriya, quando vengono portati all’aria aperta, tendono a disfarsi rapidamente. Pioggia, vento e sole erodono facilmente le strutture non fatte di pietra, antiche in certi casi ben più di 4500 anni. Ma le ceramiche restano, così i perimetri delle abitazioni, i pavimenti, le ossa, le strutture dei sistemi di drenaggio dell’acqua, i vasi e i cocci.
Franco D’Agostino, docente di Assirologia all’Università la Sapienza di Roma, guarda la decina di operai iracheni che scavano tra il fango, che ha invaso la pianura piatta e monotona tutt’attorno al sito dove dirige gli scavi. Grandi pozzanghere circondate da cespugli bassi: ci vorrà tempo prima che il sole asciughi i resti delle piogge recenti. Da aprile a settembre qui i 50 gradi sono la regola, il deserto impera, ma da novembre a marzo possono scoppiare all’improvviso acquazzoni furiosi. «È la natura allo stato estremo che si manifesta periodicamente su uomini e cose della Mesopotamia. Oggi, come ai tempi dei Sumeri», dice a «la Lettura». E non sono parole dettate solo dalle circostanze immediate. Il recente uragano nelle Filippine, i dibattiti sull’effetto serra e l’innalzamento dei mari, oltre a quelli sulle responsabilità dell’uomo nei cambiamenti della natura, ovviamente fanno da sottofondo.
Non è strano che storici e studiosi delle civiltà antiche vadano sempre più cercando un nesso con i mutamenti ambientali. Ma nel suo caso è da quando iniziò a occuparsi della storia dei Sumeri, una trentina d’anni or sono, che ha ben presente questa tematica. Qui fu collocato il Diluvio Universale e vennero per la prima volta raccontate nella grafia cuneiforme le conseguenze drammatiche delle grandi siccità. «Non voglio sembrare un determinista a tutti i costi. Ma ritengo che proprio i cambiamenti climatici siano stati una delle cause della decadenza e poi dell’estinzione della cultura sumerica alla fine del terzo millennio avanti Cristo», sostiene D’Agostino. Le prove più importanti? «Ne ho almeno tre», risponde. «Sappiamo che attorno al 2400 a.C. l’eruzione violenta di un vulcano sull’altopiano anatolico spinse diverse popolazioni esterne alla Mesopotamia a emigrare verso i campi irrigati della Mezzaluna Fertile. Abbiamo trovato cospicue tracce di cenere negli strati del terreno risalenti a quel periodo in un’area molto vasta. Arrivarono allora gruppi diversi, gli Amorrei e i Gutei tra loro, che spinsero al collasso la civiltà accadica, la quale a sua volta aveva invaso i Sumeri. Per di più venne scavata una fitta rete di canali nel Nord della Mesopotamia, a settentrione dell’odierna Bagdad, che contribuì all’impoverimento dei canali costruiti più a sud dai Sumeri e probabilmente accelerò il processo di salinizzazione dei terreni, causando la crisi dell’agricoltura nel meridione. In meno di un secolo la produzione agricola dei Sumeri scese di due terzi. Infine va annoverata tra le cause la gravissima siccità, durata forse duecento anni».
Il risultato fu catastrofico. In pochi decenni venne meno quello che era stato uno dei fattori vincenti del trionfo dei Sumeri: la capacità cioè di creare un’organizzazione sociale finalizzata ad avere a disposizione larghe masse di popolazione in grado di non dover lavorare per il proprio sostentamento, bensì dedicarsi alle grandi opere pubbliche quali i canali. A ciò si aggiunse un altro grave fenomeno di lunga durata: il ritiro progressivo del mare. In quello stesso periodo si insabbiano i due porti di Ur, rallentando i commerci via nave con le Indie e l’Africa. Carenza d’acqua, avvelenamento dei campi, crisi commerciale per l’allontanamento del mare, sovrappopolazione, interramento dei canali, temperature medie in salita, fame: basta e avanza per descrivere il disastro ecologico in una società interamente fondata sull’agricoltura. Probabilmente non è un caso che già nell’epopea di Gilgamesh la siccità venisse descritta come la vendetta del «Toro Celeste». Un evento terribile, divino e inarrestabile. Una piaga destinata a ridurre brutalmente il numero degli abitanti della Terra.
D’Agostino, prima che archeologo, è filologo specializzato in sumerologia (suo Gilgamesh alla conquista dell’immortalità , pubblicato nel 1997). «Nel ciclo epico sumerico — aggiunge — la siccità è raccontata quale strumento della vendetta della dea Inanna ai danni di Gilgamesh e la sua città, Uruk. Circa mille anni dopo il celebre poema assiro-babilonese Atram-Hasis (in italiano Colui che è straordinaria mente saggio ) canta invece il Diluvio Universale descritto come punizione degli dei contro gli uomini diventati troppo numerosi, tali da disturbare il sonno del capo del pantheon, Enlil».
Le catastrofi naturali sono narrate dunque come immanenti alla realtà degli uomini, tanto minacciose che persino nella culla della civiltà, tra il Tigri e l’Eufrate, assurgono a un ruolo fondamentale nella mitologia. I due fiumi tra l’altro appaiono causa di costante preoccupazione. I loro flussi sono molto meno regolari di quelli del Nilo. Le piene, che in Egitto portano limo e ricchezza, in Mesopotamia fanno paura. Le fonti del Tigri e dell’Eufrate, sulle montagne nevose della Turchia, si rivelano molto più imprevedibili che non quelle del Nilo, moderate dai grandi laghi dell’Africa centrale. Si spiegherebbero così anche le cause del progressivo spopolamento di Abu Tbeirah (letteralmente in arabo «quelli della piccola ascia»), il sito archeologico sette chilometri a sud di Nassiriya e a sedici dall’antica Ur dei Caldei. Da tre anni vi lavorano una decina di archeologi dell’università romana sotto la direzione di D’Agostino, grazie anche ai finanziamenti del ministero degli Esteri italiano e a donazioni private. Questi sono in coordinamento con le autorità irachene, che vorrebbero fare di Ur e dei siti limitrofi un grande parco archeologico aperto ai turisti di tutto il mondo.
«Il governo di Bagdad ha già destinato 600 milioni di dollari. Contiamo molto sul contributo dei ricercatori italiani», sostiene il nuovo governatore di Nassiriya, il quarantaseienne Yahia al Nasri. Lo scavo è ampio 46 ettari. Una zona relativamente grande e ben identificabile grazie alle immagini riprese dal cielo. È attraversata da un gasdotto della compagnia nazionale irachena, la cui costruzione ha causato gravi devastazioni ai reperti. Però non ha intaccato il letto dell’antico canale artificiale scavato nel terzo millennio avanti Cristo, che presumibilmente collegava questa città a Ur, partendo dall’Eufrate e gettandosi nel Tigri. Non ci sono ancora prove archeologiche, ma, se così fosse, sarebbe lungo almeno una cinquantina di chilometri. «Il canale funzionò per quasi cinque secoli. Poi, verso il 2200, si insabbiò. E la sua fine portò alla morte della città. Divenne impossibile coltivare, viaggiare, vivere», dicono i ricercatori italiani.
La vicina Ur era molto più importante e infatti venne abitata a lungo, sino a essere occupata dagli Assiro-Babilonesi. Ma allora i Sumeri erano già estinti. Più tardi vi furono alcuni tentativi di rinascita, tutti falliti nell’arco di pochi anni. «La mia ipotesi è che qui fosse situata la mitica Eneghi, citata in alcuni testi classici sumerici del terzo millennio, dove si racconta del viaggio del dio Nannar, originario di Ur, in visita al capo del pantheon, suo padre. Se così fosse, potremmo ritrovare anche il tempio dedicato a Ninazu, la divinità dell’oltretomba nella fase più arcaica della cultura sumerica», sostiene il capo missione dopo gli ultimi tre mesi di attività sul campo. Tra gli obiettivi principali della sua ricerca resta quello di individuare testi scritti che possano narrare gli ultimi anni della città. Gli scavi riprenderanno il prossimo settembre.

Corriere La Lettura 1.12.13
Il puzzle romano di Gorga: 15 mila pezzi di arte antica
di Lauretta Colonnelli


I visitatori della mostra su Evan Gorga, aperta fino al 12 gennaio al primo piano di Palazzo Altemps a Roma, non immaginano quello che succede nel salone sottostante, detto il Cortile del Gioiello. Cinque archeologhe e altrettante restauratrici sono alle prese da oltre due anni con un lavoro matto e disperatissimo. Sotto la luce opaca di un grande lucernario tentano di ordinare e ricomporre quindicimila frammenti di intonaco e stucco provenienti dalla collezione dello stesso Gorga.
Alessandra Capodiferro, direttrice di Palazzo Altemps, apre le porte di questo laboratorio segreto, rivelando una visione apocalittica. Una distesa di tavoli occupa l’immenso salone e i tavoli traboccano di pezzi polverosi che sembrano residui di una terribile deflagrazione. Ma osservando da vicino si vede rifulgere in alcuni intonaci il fondo rosso cinabro, intatto come se fosse stato appena steso dal pittore. In altri affiorano brandelli di antiche decorazioni: una rigogliosa ghirlanda di edera accostata a un panneggio bianco e viola, un tralcio accanto a una fascia ornamentale policroma, il torso nudo di una figura dai fianchi arrotondati, un braccio, un polpaccio, un fiore a cinque petali con sfumature gialle, penne di pavone e intrecci di foglie, una testa di leone, grappoli d’uva, pilastrini decorati con motivi geometrici, nature morte, amorini.
Le studiose si sono accorte che alcuni di questi frammenti appartenevano a pezzi più grandi, li hanno ricomposti e hanno scoperto che provengono dalla Domus Aurea e dalla Domus Transitoria sul Palatino. «Li abbiamo individuati — racconta Capodiferro a “la Lettura” — perché si vanno a inserire perfettamente nelle lacune delle decorazioni di queste Domus». Spiega che in questi pezzi sono comunque documentate tutte le fasi stilistiche della pittura parietale romana, a partire dal cosiddetto primo stile di età medio e tardo-repubblicana, fino al quarto stile e alla pittura post-pompeiana. Ed è la prima volta che i frammenti sono studiati a fondo. Finora avevano vagato, nascosti in cinquanta casse, da un deposito all’altro. Nel gennaio del 1987 furono affidati a Mariarosaria Barbera, oggi soprintendente archeologica di Roma. «La mia prima reazione — ricorda Barbera — fu di sgomento. Le poche carte di cui disponevo restituivano l’immagine della più disparata congerie di oggetti che si potesse immaginare, dai vasi micenei ai bronzetti nuragici, al vasellame fittile e metallico a partire dall’età del Ferro fino alla tarda antichità, a enormi quantità di terrecotte, stucchi, affreschi e vetri romani, compreso un certo numero di falsi e pastiche. Per di più, gli oggetti assegnati alla soprintendenza raggiungevano un numero spropositato, parecchie decine di migliaia. E non si aveva idea da quali scavi provenissero».
Barbera cominciò a classificarli per tipologie. Ritrovò alcune scene intatte, come quella del naufragio di Ulisse, e capì che proveniva dalla Domus di via Graziosa, sull’Esquilino. Dedicò alla collezione Gorga dodici anni della sua vita, selezionando i materiali inediti, ma soprattutto cercando di rintracciare notizie sul bizzarro collezionista, del quale non si trovava traccia nelle pubblicazioni sulle raccolte archeologiche romane. Al dodicesimo anno trasferì i pezzi più importanti al museo di Palazzo Massimo e ripose i frammenti più minuti nelle cantine di Palazzo Altemps.
I suoi studi, pubblicati in un volume da Electa, fecero però riscoprire il personaggio Gorga, messo a fuoco grazie anche all’archivio ritrovato a casa di una sua pronipote. La storia di Gennaro Evangelista Gorga ha inizio proprio qui, nel cortile del Gioiello di Palazzo Altemps, luogo dall’ottima acustica, che un secolo e mezzo fa ospitava l’oratorio dove il piccolo Evan studiava pianoforte e cantava con bella voce. Era nato il 16 febbraio 1865 a Broccostella, in Ciociaria, da nobile famiglia. Nel 1896 interpretò al Regio di Torino il ruolo di Rodolfo nella prima rappresentazione della Bohème di Puccini diretta da Toscanini. Nelle fotografie dell’epoca appare esile e romantico, il viso dai lineamenti perfetti, capelli neri e baffetti all’insù. Ebbe un successo favoloso, ma la carriera da tenore si chiuse di colpo tre anni dopo. Forse per un calo di voce, forse per l’opposizione della moglie ricchissima, che riteneva disdicevole per un nobiluomo il mestiere di cantante. Gorga diventò allora collezionista. Dapprima raccolse strumenti musicali, dai pianoforti ai tamburi, dai violini ai campanacci. Poi, in un crescendo bulimico e devastante, ogni sorta di oggetti, di ogni epoca e di ogni parte del mondo. Sognando un museo enciclopedico personale, non mirava alla qualità ma alla quantità. Acquistava dagli antiquari e dai trafficanti clandestini, seguiva le carriole degli operai che scavavano ai Fori. Accumulò il suo tesoro in dieci grandi appartamenti presi in affitto in via Cola di Rienzo. Nel 1929, a causa degli ingenti debiti contratti, si vide sequestrare tutto, circa 150 mila oggetti.
Ci sarebbero voluti vent’anni per inventariarli. Alla fine si compilarono cinque cataloghi, pubblicati dal Poligrafico dello Stato: per le raccolte archeologiche e artistiche, per gli strumenti musicali, per la sezione etnografica, per gli strumenti dell’arte sanitaria e della scienza, per i libri. E cominciò la dispersione. A parte i 2.500 strumenti musicali con i quali fu fondato nel 1974 il museo omonimo a Roma, gli altri oggetti presero la strada dei musei di tutto il mondo: da Faenza alle Filippine, da Padova al Giappone, da Milano agli Stati Uniti, da Genova al Brasile, da Pisa alla Corea del Sud, da Brindisi al Pakistan, da Reggio Calabria a Ceylon, da Bergamo alla Thailandia. Gorga morì nel 1957. Nell’ultima foto, di tre anni prima, appare imbolsito, intabarrato in una vestaglia un po’ lisa, intento a decifrare quello che sembra un lungo elenco di reperti. Nei suoi archivi fu ritrovato l’albero genealogico della famiglia, che vantava una stirpe romana. All’origine ci sarebbe stato un certo Gurge, della gens Fabia, così soprannominato per la sua ingordigia.

Corriere La Lettura 1.12.13
Le !Balle! della scienza
Così Fermi rimproverò Pontecorvo. I quaderni dei ragazzi di via Panisperna
di Mariia Antonietta Calabrò


Grafie minute, annotazioni, cancellature, e numeri, ancora numeri: in colonna, liberi e raggruppati, separati da linee. La reazione a catena oggi è un topos del linguaggio comune. Non si dice, forse, che anche in politica, economia o addirittura nei rapporti sociali, si è innescata una reazione a catena? Il linguaggio è traslato dalla fisica dove definisce il processo in base al quale sono stati possibili sia l’energia nucleare che la bomba atomica. Una scoperta che ha cambiato la storia del mondo.
I « ragazzi» di via Panisperna (Edoardo Amaldi, Franco Rasetti, Emilio Segrè, Ettore Majorana, ai quali nel 1934 si aggiunsero Bruno Pontecorvo e il chimico Oscar D’Agostino) guidati da Enrico Fermi fecero una scoperta fondamentale per ottenere una reazione a catena, cioè il metodo per rallentare i neutroni, attraverso la paraffina. Come si è giunti alla scoperta è testimoniato dalle annotazioni in un piccolo quaderno compilato a mano, noto finora solo a una ristretta cerchia di specialisti di storia della scienza. Eccolo qui, per studenti universitari e non, e per la più ampia comunità scientifica, in Italia e all’estero, che naturalmente «sa» tutto di questo, ma che probabilmente non ha mai «visto» la dimostrazione e le misure originali. Si tratta del cosiddetto «Quaderno di Amaldi», nel senso che era di proprietà di Edoardo Amaldi, tanto che nella prima pagina era annotato anche il suo indirizzo di casa, ma che di fatto era il quaderno di lavoro di tutti i «ragazzi». Fino a raggiungere la prova: il rallentamento di neutroni tramite la paraffina. Con tanto di data annotata in cima alla pagina: «20 ottobre 34»; e due colonne per far vedere l’effetto subito dai neutroni con la paraffina e senza.
«Per me, vederlo è stato come salire sul Sinai, la sensazione è stata di sacralità e di curiosità insieme, perché hai davanti qualcosa che costituisce i fondamenti di ciò che oggi conosciamo, quasi le Tavole della legge, e insieme sei spinto a capire le difficoltà che hanno incontrato. E che ogni passo è stato fatto di sforzi enormi. È come avere davanti l’immagine di una scalata, sei impressionato da come sono arrivati in vetta». Descrive così le sue emozioni davanti a queste carte, Franco Cervelli, dirigente di ricerca dell’Istituto nazionale di Fisica nucleare e docente di Macchine acceleratrici all’Università di Pisa, che lavora con il Nobel Samuel C. C. Ting e ha costruito la macchina per la ricerca della materia oscura installata sulla stazione spaziale internazionale.
Dopo la scoperta del 20 ottobre 1934, Fermi volle vedere, in modo sistematico, l’effetto dei neutroni lenti su tutti gli elementi della tavola di Mendeleev. Queste misurazioni condotte dai «ragazzi» sono raccolte in un secondo quadernetto, verde, che lui stesso volle chiamare Thesaurus Elementorum Radioactivorum , per indicare dal suo stesso nome che conteneva informazioni preziosissime.
Quello che è più straordinario è che nel procedere alle misurazioni talvolta venivano compiuti degli errori, com’è testimoniato dagli appunti. Anzi, è proprio la segnalazione di un errore, la più clamorosa annotazione a mano del Thesaurus . E non c’è scritto semplicemente «errore», o «sbagliato», ma in modo politicamente molto scorretto, un ben più sonoro e a tutto tondo: «!Balle!» con tanto di due punti esclamativi, prima e dopo la parola.
L’eccezionalità della nota rimanda a quella della situazione in cui fu fatta. Ed è costituita da queste circostanze: i calcoli, sbagliati, per le misure sul nichel erano di Pontecorvo. E la solenne bocciatura di quelle misurazioni, di pugno, di Enrico Fermi.
«!Balle!» scritto per ben due volte.
Pagine ingiallite e fogli millimetrati che fanno parte del Registro B1 del Fondo Enrico Fermi conservato presso la Domus Galileana di Pisa che ne ha autorizzato la pubblicazione su «la Lettura». Le carte stanno in cassaforte su due ripiani dedicati. Una parte dei quaderni è riposta dentro alcune buste; la corrispondenza, i dattiloscritti e la miscellanea sono inseriti in cartelle a loro volta conservate in una scatola; alcuni report e parte dei quaderni sono sciolti. Tutto il materiale è stato ordinato e inventariato nel 2000 dalla professoressa Nadia Robotti, ordinario di Storia della fisica all’Università di Genova. Copia di questo inventario è conservata in cassaforte unitamente al fondo. Tutte le carte sono disponibili su microfilm. La corrispondenza e parte dei quaderni, inoltre, sono stati scansionati e sono disponibili su formato elettronico.
Il Fondo Fermi è arrivato alla Domus per donazione (avvenuta a partire dal 1957, come attesta la corrispondenza conservata) per il tramite di Edoardo Amaldi, insieme agli strumenti di fisica utilizzati da Fermi nei laboratori di Roma. Gli strumenti furono riconsegnati a Edoardo Amaldi nel 1983, tranne le sorgenti radioattive che sono tuttora presso la Domus Galileana. Per incuria e in modo del tutto casuale, le «sorgenti» utilizzate dallo scienziato a Roma, in via Panisperna, negli anni 1934-37 infatti non vennero rispedite nella Capitale perché gli addetti al trasporto, ritenendole pericolose per la salute, le abbandonarono in un armadio, da cui sono state «recuperate» nel 2000.
Sulle carte si tramanda anche una leggenda che allude a un presunto giallo storico legato agli anni della guerra, all’avanzare del fronte alleato, allo status di Roma Città aperta. Al fatto che qualcuno avrebbe voluto mettere in salvo le carte perché non cadessero in mani naziste. O forse, all’opposto, in mani alleate. Una leggenda che, in quest’ultimo caso, avrebbe avuto a che fare con la scelta di campo attuata da Pontecorvo in seguito, un anno dopo la data in cui venne scattata la foto che in questa pagina lo ritrae con Enrico Fermi all’Olivetti, e cioè quando, nel 1950, volontariamente si trasferì in Unione Sovietica, in piena guerra fredda. Una traccia della leggenda di un arrivo materiale delle carte durante la guerra si riscontra addirittura nel sito ufficiale della Domus, lì dove è scritto: «Non sempre è possibile ricostruire la storia archivistica di questi fondi e documentare con precisione l’acquisizione dei materiali, perché avvenuta in periodo bellico (1942-44) e quindi con oggettive difficoltà materiali e in maniera non continuativa e omogenea».
Sta di fatto che quelle carte adesso sono a Pisa, nella cui università ha studiato Fermi, dopo aver dato i natali a Galileo Galilei, nel 1564, e a Pontecorvo (sul litorale, a Marina di Pisa) nel 1913.
Per celebrare i 450 anni della nascita dell’iniziatore della scienza moderna, Galileo appunto, a Palazzo Blu, a partire da marzo e fino a giugno del prossimo anno, sarà aperta al pubblico una grande mostra (curata dal professor Cervelli e da Vincenzo Napolano) dal titolo suggestivo, che riprende l’annotazione sarcastica di Fermi (!Balle!): «Balle di scienza». Sottotitolo: «Storie di errori prima e dopo Galileo», di «meriti e cantonate». «Visto che anche i più brillanti cervelli — persino Einstein, si leggerà sui pannelli — possono sbagliare». Parola d’ordine: «Si impara dai propri errori». In mostra ci sarà anche parte del materiale che pubblichiamo in queste pagine, che gli studiosi hanno riaperto e riletto proprio per questa occasione.
Così la scienza torna ad essere non un’apodittica verità, ma il frutto d’eccellenza di un’attività umana. «La storia della scienza, se fosse considerata qualcosa di più che un deposito di aneddoti o una cronologia, potrebbe produrre una trasformazione decisiva dell’immagine della scienza da cui siamo dominati», cioè di una scienza meccanicista e riduzionista, scriveva, ormai cinquant’anni fa, Thomas S. Kuhn, epistemologo e filosofo che ha insegnato a Princeton e al Mit di Boston nel suo fondamentale La struttura delle rivoluzioni scientifiche . Quanto Kuhn aveva auspicato non è ancora universalmente accettato, forse neppure nella comunità scientifica, sicuramente non nella vasta opinione pubblica. Quello di Kuhn era un testo non baconiano che tuttavia teneva fede al detto di Francesco Bacone: «La verità emerge piuttosto dall’errore che dalla confusione». Parafrasando Fermi, la verità emerge proprio dalle !Balle!.

Corriere La Lettura 1.12.13
Raggirati da un tavolo di legno


I professori della Facoltà di scienze li chiamavano «i ragazzi di Corbino» perché era stato Orso Mario Corbino a chiamare nel 1926 il ventiseienne Enrico Fermi, per coprire la nuova cattedra romana di Fisica teorica, insieme al coetaneo Franco Rasetti, nominato assistente. Corbino aveva poi invitato i migliori studenti d’ingegneria a passare a fisica anticipando nuovi importanti sviluppi. Emilio Segrè e Edoardo Amaldi avevano aderito e si erano da poco laureati quando Bruno Pontecorvo giunse da Pisa. Penso che nessuno sappia quando e come sia nato l’appellativo «i ragazzi di via Panisperna». All’inizio del 1934 Fermi scoperse che i neutroni producono molti nuovi isotopi radioattivi perché penetrano facilmente nei nuclei atomici non essendo respinti, perché privi di carica elettrica, dalla carica positiva dei nuclei stessi. Per l’estate il gruppo romano aveva scoperto più di venti nuovi isotopi radioattivi e aveva pubblicato molti lavori. Come mio padre mi ha raccontato più volte, dopo una serie di lezioni in Sud America Fermi era in nave diretto a Londra per partecipare a un importante congresso quando con Emilio osservarono, irradiando un cilindretto di alluminio, un nuovo radioisotopo. Avendo avuto comunicazione telegrafica della scoperta, Enrico ne parlò in una delle sessioni del congresso. Qualche giorno dopo Edoardo cercò di ripetere le misure, mentre Emilio era a letto con un grosso raffreddore, ma non osservò più la stessa radioattività. Dovettero quindi subire le aspre prese in giro di Franco quando decisero di inviare un altro telegramma a Fermi, che ne fu molto seccato. Qualche giorno dopo Edoardo e Bruno, che all’epoca avevano 26 e 21 anni, si misero a fare misure sistematiche, ma non riuscivano a ottenere risultati riproducibili: uno stesso materiale irradiato dalla stessa sorgente un giorno si attivava molto, il giorno dopo pochissimo; le critiche e le prese in giro degli altri «ragazzi» li fecero soffrire per qualche settimana. Il mistero fu svelato il 20 ottobre: i neutroni — che, emessi dalla sorgente, urtano nuclei d’idrogeno — sono rallentati e producono più efficacemente isotopi radioattivi. Le differenze di attivazione osservate in settembre erano dovute al fatto che una volta l’esperimento era fatto su un tavolo di legno, che contiene idrogeno, e un’altra su un tavolo di marmo, che non ne contiene…

Corriere La Lettura 1.12.13
Come abbozzi prima di Guernica
di Paolo Giordano


Il ritrovamento di un notebook di Enrico Fermi è paragonabile alla scoperta in una soffitta di un quaderno di Rimbaud o di una cartellina contenente gli schizzi preparatori al Guernica di Picasso. Le pagine del fisico, ognuna dedicata allo studio di un elemento della tavola periodica, confermano da una parte la pazienza, il rigore e la meticolosità che precedono una scoperta scientifica, ma al contempo aprono uno spiraglio sul coinvolgimento passionale e selvaggio del ricercatore che si avventura in una zona di penombra, perciò non ha tempo di rispettare i margini né di cancellare gli errori, se non con un tratto spazientito di penna. Egli è così rapito (emotivamente rapito) che, di fronte all’evidenza di un campione di nichel impuro, scrive a caratteri enormi la parola «!Balle!», con tanto di punti esclamativi enfatici all’inizio e alla fine, in un’imitazione bizzarra dell’ortografia spagnola. Il Thesaurus Elementorum Radioactivorum , a dispetto del titolo pomposo, appartiene a un tempo in cui era ancora permesso a un gruppo di ragazzi volenterosi incontrare la nuova fisica in una stanza. Oggi, per dare la caccia a una sola particella, sono necessari lo sforzo congiunto di migliaia di menti, frazioni del prodotto interno lordo di svariati Paesi e macchine mostruose; i dati viaggiano su fibre ottiche e vengono immagazzinati in torri di memoria al silicio. I notebook compilati a mano sono manufatti di antiquariato, feticci per romantici e vengono al più utilizzati in certi corsi all’università. È forse anche quest’aria rétro a conferire fascino alle pagine ingiallite sotto la grafia di Fermi. Ma non solo. È soprattutto la consapevolezza odierna del potenziale luminoso e insieme pericolosissimo dischiuso dai dati del Thesaurus : il rallentamento dei neutroni esplorato da Fermi & Co. rese possibile la manipolazione della radioattività nucleare, che da fenomeno osservabile divenne grazie a loro un campo di applicazione infinitamente esteso e, come sappiamo, oltremodo insidioso. Tutt’altro che «balle», insomma.

Repubblica 1.12.13
James Joyce. L’inedito Finn’s Hotel
Tutta la gioia di giocare con le parole
di Nadia Fusini


Joyce non scherzava quando con fare sprezzante intimò: «Cosa chiedo ai miei lettori? Che passino la vita a leggermi». Noi suoi devoti lettori l’abbiamo fatto, e orarejoyce, rejoyce,alleluja, alleluja, ci arriva più Joyce, ancora Joyce... In più, il nostro preferito ci viene servito in un libro illustrato da Casey Sorrow, artista americano, con introduzione di Danis Rose, distinto studioso del vate dublinese, postfazione di Seamus Deane, poeta, scrittore e accademico d’Irlanda, e nella traduzione di un joyciano doc come Ottavio Fatica — un libro di cui non potremmo arrivare all’acquisto, fossimo in Inghilterra, dove il costo è stellare: 2.500 euro per l’edizione di lusso, 350 per quella numerata... Qui invece, con 13 euro il libro è nostro, grazie alla casa editrice Gallucci.
Con assoluta fiducia ci abbandoniamo alla garanzia di fedeltà e fantasia che ci dà il nome di Ottavio Fatica, il suo modo di giocare con l’italiano, proprio come Joyce fa con l’inglese. Non c’è altro verso di leggere e tradurre Joyce, se non assecondando il genio della lingua. Perché se Joyce ha del genio, esso è di natura linguistica. Per ricchezza e originalità è incomparabile la destrezza con cui tratta le parole e traffica con la loro intrinseca doppiezza e ambiguità. Lacan, che lo comprende come pochi, fa coincidere il suo genio e il suo disturbo nello stesso termine, cioè sintomo che scriveSinthome, e calca la voce perché vi si senta un’eco di Saint Thomas (d’Aquin) — il santo di Joyce; il quale apprezza come pochi altri l’opera tomista sul versante filosofico. E inventa, o crea un personaggio santhòmo, e cioè Leopold Bloom, che della santità svela l’aspetto ordinario, e ci fa scoprire come siano vicini, in fondo, la terra e il paradiso, e come si sfiorino il sublime e l’osceno. Della filosofia tomista Joyce fa suo l’assioma degli universali, secondo cuiUnum, verum et bonum convertuntur cum ente,che significa per lui che la bellezza è qui, nello splendore di una lettera (letter)che è anche litter(scarto, rifiuto). E si fa l’idea che la civiltà trionfi nella creazione della fogna.
Le cose potrebbero essere andate così. Nel 1923, Joyce, appena finito il suo enciclopedico
Ulisse,non è ancora pronto per Finnegans, si mette a scrivere a mo’ di divertissement alcuni racconti, che isolano momenti epifanici della storia e della mitologia irlandese. Sono prose-bonsai che ordina intorno al titoloFinn’s Hotel, che è poi lì dove lavora la sua Nora, quando l’incontra. Questi epiclets,o epicleti, ovvero rivelazioni nello stile tranche de vie, o se volete, episodi in stile epico, piccole epiche, epichette, li scrive in brutta, li trascrive in bella, li batte a macchina e poi li mette via tutti, tranne uno, in cui appare l’inizio di qualcosa che in effetti sarà la «veglia funebre», o il «risveglio» di Finnegan. In altre parole, inFinn’s HotelJoyce cova l’uovo da cui schiuderà l’opera futura. Così fosse, è chiara l’importanza di queste storie tutte.
Non tutti gli accademici concordano, però. Alcuni studiosi si domandano se questi racconti siano o meno intesi come una raccolta e si angustiano di fronte alla questione capitale se il Finnegans sia un’espansione di queste specie di Ur-stories, o un parto del tutto autonomo. Rimane il fatto che nel 1938, mentre sta lottando per il finale del Finnegans, ritorna a questi pezzi e a mo’ di conte Ugolino si nutre dei suoi pargoli. E già questo per noi lettori superficiali è emozionante: assistere al pasto e all’impasto dello scrittore-cannibale, al suo modo di lavorare. Questi dieci «pezzi facili» — più facili del Finnegans e dell’Ulisse— come che sia rimangono una lettura godibilissima, che testimonia come la vera festa dell’incontro con Joyce non sia in quello che ci racconta, ma sempre e comunque nel banchetto linguistico che imbandisce. È nel modo in cui manipola la lingua la jouissance specialissima di cui si gioisce con Joyce.
La grande intuizione joyciana è questa: l’uomo, non più eroico, è un buffone. Come si evince chiaramente dalla pìstola, ovvero epistola — leggetela qui accanto — che Anna Livia Plurabelle, vedova Earwicker, scrive a una qualche Magistà per scagionare il marito, il quale sembra che nel parco abbia compiuto atti osceni. Sono tutte bugie, infamie, protesta ALP: suo marito è un uomo d’oro, il nome suo è onorato, mente chi lo accusa, quel codardo di McGrath... Eva difende il suo Adamo: lo sposo suo devoto è semplicemente umano, troppo umano, e chi non ha colpe, ovvero desideri sessuali osceni, scagli la prima pietra.

Repubblica 1.12.13
L’innocenza dei bambini di Soutine abbandonata dagli adulti e dalla Storia
di Melania Mazzucco


Lungo la strada ripida che, come un fiume, taglia verticalmente i campi e spacca l’immagine, due bambini avanzano. Il maschietto, con la camicia scura e i calzoncini corti, indossa la divisa della scuola. La bambina bionda con la veste azzurra, più piccola, il volto ridotto a una maschera indecifrabile dal brutale impasto del colore, regge un cestino – col pranzo, forse. Lui la tiene per mano – premuroso, come un fratello maggiore. Alle loro spalle una foresta, filari di pioppi, macchie che devono essere le case del villaggio, la chiesa. E la striscia azzurra del cielo, curvo sulla linea dell’orizzonte. Sulla sinistra, il campo rosso ruggine, nudo e inospitale, sembra arato da poco. È autunno. Nuvole bianche si addensano. E neanche un adulto che possa prendersi cura di loro.
Nel 1942, in un paesino dell’Indre e Loira, a 48 anni Chaïm Soutine torna a dipingere bambini. Con tenerezza inedita e la sensibilità di sempre. È un pittore famoso: negli anni Trenta è stato il più apprezzato esponente della Scuola di Parigi. I collezionisti si contendevano i suoi quadri. Ma gli abitanti di Champigny sur Veude, e i bambini che posano per lui, non devono saperlo. Soutine, straniero ed ebreo, si è procurato documenti falsi e vive nascosto sotto un altro nome. È tornato al punto di partenza, come quando nel 1913 sbarcò a Parigi senza un soldo in tasca, senza conoscere il francese e con l’indirizzo dell’amico pittore Krémègne a Montparnasse come unica bussola: è di nuovo senza nome, senza casa, senza patria.
Con coerenza, variando senza ripetersi, Soutine ha dipinto soltanto paesaggi, nature morte e ritratti. Fra questi, i più toccanti sono di adolescenti e bambini. Incontrati nei retrobottega, nelle cucine o negli ascensori dei grandi alberghi in cui alloggiava dal 1925, quando il successo gli portò denaro e benessere. Pasticcieri, cuochi, fattorini, stallieri, camerieri: tutti con l’uniforme o la livrea, come fossero in maschera. Ma ritraendoli, Soutine restituisce loro l’identità, l’unicità, la personalità. Il
Valletto di Chez Maxim’s con la sgargiante divisa rossa, iChierichetti impacciati prima della messa. Ha dipinto anche bambine – che artigliano la bambola, frapponendola fra sé e gli adulti, come per difendersi. O si agitano sulla sedia, nell’abituccio della festa, col colletto rosso. Ragazzini tristi, macilenti, ossuti, e però colmi di una grazia scontrosa. Che era la sua.
Anche Soutine non ebbe mai un’infanzia: lasciò adolescente il suo
shtetlper studiare a Minsk, e poi a Vilna, e infine immigrò in Francia col sogno di diventare pittore e dimenticare i pogrom zaristi, la miseria di una famiglia troppo numerosa e la proibizione di rappresentare la figura umana che la Bibbia impone agli ebrei. Né ebbe figli attraverso i quali avrebbe potuto ritrovarla. Ma forse proprio per questo rimase sempre un ragazzo. Candido e feroce, dai primi anni parigini – quando abitava alla Cité Falguière, fetido falansterio d’affitto alla periferia di Parigi dove si accalcavano gli artisti stranieri e dove, come diceva Chagall, «o si diventa famosi o si muore» – sino alla fine, esibì l’intransigente spavalderia degli adolescenti: non patteggiava con la realtà. Studiava i capolavori dei maestri al Louvre (Rembrandt, Chardin, Courbet) e si abbandonava all’urgenza di dipingere, senza disegno, senza forma, con immediatezza, quasi con violenza, come trascrivesse coi colori la propria interiorità. Di tutto il resto – regole della società, mode artistiche, strategie – non si curò mai. Agli eterni fanciulli non è dato crescere né invecchiare.
Nel quadro i due bambini sono immersi nella natura – quasi perduti in essa. Per Soutine, si trattava di un ritorno al paesaggio. Negli anni duris-simi (1919-22) che aveva vissuto, solo, a Céret, sui Pirenei, dove lo aveva spedito il suo mercante d’arte, aveva creato una serie di quadri allucinati, con case strapazzate dal vento. Lo ossessionavano i villaggi – e le strade. Che salgono, o scendono, bruscamente, senza condurre in nessun luogo. In quei paesaggi caotici non comparivano mai esseri umani. Perché questi potessero abitare il mondo, Soutine era dovuto passare dagli animali. Morti. Aveva ritratto aringhe stoppose, mante antropomorfe, polli spennati e strozzati, appesi per il becco o per le zampe a un uncino sul muro o deposti ritualmente nei piatti; buoi squartati e crocifissi, conigli scuoiati, tacchini, anatre, galline, fagiani. Da povero, li affittava e li restituiva senza neanche mangiarli. Da ricco, li sceglieva nei mattatoi o nelle fattorie. Ma solo quando lasciò Parigi ripudiò la disperata bellezza della morte e cominciò a ritrarli vivi. I quadri dei suoi ultimi anni sono pieni di vita.
In essi non vi è traccia della paura e della guerra. Né del dolore – l’ulcera che lo tormentava dalla giovinezza e ora, degenerata in cancro, lo stava uccidendo. L’agitazione febbrile che aveva terremotato i suoi quadri era placata: braccato e nascosto, dipingeva paesaggi e bambini – soli davanti a una staccionata, o fra le brac-cia della madre, sulla strada mentre tornano da scuola. A questo soggetto dedicò vari quadri. Due bambini sulla strada è l’ultimo. Soutine lo dipinse nel 1942: non gli restava neanche un anno da vivere. L’Europa era occupata quasi interamente dalle armate naziste o loro alleate, vittoriose anche in Africa e in Russia. Non si intravedeva via d’uscita. Per molti artisti, la guerra è privazione di voce. Mutilazione, senso di inutilità, sgomento, silenzio. Altri riescono ad astrarsi dal mondo, trovano nei colori la salvezza. Soutine si rifugia nei bambini. Il piccolo formato del quadro esige concentrazione e chiarezza. La tavolozza non ha lo splendore cromatico di un tempo, e l’ammirato cinabro incandescente, il rosso sangue di Soutine, è spento, quasi bruciato. Il verde polveroso, il giallo acido. Ma è sempre il colore a definire la forma, grumi di materia spessa, una crosta quasi carnosa. Alla fine, resta solo la terra spoglia, un paesaggio di alberi e vento, la solitudine della campagna: i due bambini e il mondo esterno che li minaccia. Tenendosi per mano, scendono giù per la strada che esce dal villaggio. Non si voltano indietro. Con malinconia e fiducia si lasciano alle spalle l’orizzonte – il futuro, forse. E vengono verso di noi. La loro innocenza ci accusa.
L’OPERA Due bambini sulla strada (1942), 46 x 65 cm Musée d’art et histoire, Ginevra