lunedì 2 dicembre 2013

l’Unità 2.12.13
La strage dei nuovi schiavi
Tragedia a Prato: brucia il capannone, muoiono 7 operai cinesi
Dormivano in fabbrica, lavoravano in condizioni drammatiche
La Cgil: un’immensa illegalità
Intervista a Rossi:
«Abbiamo permesso che crescesse quest’area extranazionale controllata dal racket.
E il sindaco Cenni semina soltanto paura»
«Una zona franca senza diritti nel cuore della Toscana»
intervista di Federica Fantozzi


«Facciamo subito un tavolo di lavoro con il governo nazionale che affronti con tutti i poteri dello Stato quella che è ormai una realtà extranazionale ed extralegale nel cuore dell’Italia. Una zona franca dove non ci sono diritti e regna il dominio del racket. Qui siamo ormai al di fuori dello Stato».
Enrico Rossi, governatore della Toscana, è in autostrada sulla via del ritorno da Prato: «È un dramma enorme, in quella fabbrica c’era un bambino che ha rischiato la vita. Dove eravamo tutti noi?».
Governatore, è strage in una fabbrica-dormitorio gestita da cinesi nel settore tessile. Oltre il dramma, esiste un problema Prato?
«Non c’è dubbio che esista, da anni, un problema più generale. Una zona franca di diritti civili e umani, sotto la soglia di tollerabilità. È l’area più ampia di lavoro nero e sommerso che esista nel Nord e Centro Italia, forse in Italia, forse in Europa. Si parla di 30mila, forse 40mila persone che lavorano a ritmi fuori controllo, giorno e notte, dormendo nei capannoni». Dove erano, dove sono, le istituzioni, compresa la Regione?
«C’è stata disattenzione da parte di tutti. Anche dalla sinistra, che su questi temi ha perso il Comune. Abbiamo capito troppo tardi, accumulato troppi ritardi. Lì dentro c’era un bambino, salvo per miracolo. Una donna ha riconosciuto in ospedale la catenina del marito. È un dramma enorme nel cuore della Toscana. Dove eravamo tutti? Questo dobbiamo chiedercelo. È una disgrazia che pesa sulle nostre coscienze».
Ebbene, quali errori sono stati commessi nella gestione di questo fenomeno? Come si è arrivati alle dimensioni colossali che lei racconta?
«Le indagini della Direzione Antimafia e delle Procure mostrano il dominio del racket della criminalità cinese. Taglieggiano la loro comunità. Emerge poco perché questo “distretto cinese delle confezioni” costruisce il pret-à-porter che viene venduto in tutti i negozi europei: un settore a sé che non fa concorrenza sleale alla moda italiana. Ma impostare la questione solo sul piano repressivo non funziona. I controlli non risolvono perché il problema rinasce cento metri più in là».
D’accordo, ma è possibile che esista una simile zona franca sotto gli occhi di tutti? Il sindaco di Prato Cenni (eletto con il Pdl) è un imprenditore dell’abbigliamento, conosce queste dinamiche. Che responsabilità ha il Comune? «L’unica colpa che si può dargli è di aver rincorso la repressione come unica soluzione. Il Comune ha giocato su una certa xenofobia e sulla “paura del cinese”».
Non è una colpa leggera.
«No. Ma questo aspetto chiama in causa anche le politiche del centrodestra sull’immigrazione. E l’ex ministro dell’Interno Roberto Maroni che non ci invitò come Regione al tavolo su Prato, almeno nella fase iniziale. Fu una disattenzione che pesò».
Quale contributo può dare a questo punto la Regione Toscana?
«Bisogna favorire con gradualità l’emersione di migliaia di lavoratori in condizioni subumane e privi di diritti. È un compito che impegna tutti, a partire dallo Stato. O diventa una questione nazionale da affrontare sotto diversi aspetti o il problema si incancrenirà. È un allarme che abbiamo già lanciato tante volte».
E in concreto, come si incentiva l’emersione del sommerso?
«Da un lato la leva repressiva serve, dall’altro occorrono incentivi per supportare l’integrazione. Lo Stato è l’unico a poter combattere la mafia cinese, ma anche a poter trattare con Pechino per imporre regole condivise. Noi siamo intervenuti sul piano sociale scuola e sanità ma sul fronte della legalità siamo impotenti».
Se il governo vi chiama, cosa andrete a dire a Roma?
Abbiamo un “progetto Prato” molto articolato e siamo pronti a esporlo. Ma Palazzo Chigi deve sostenerci con iniziative legislative. L’ultimo aspetto è quello della riqualificazione urbanistica. La gente non deve più dormire in loculi interni alle fabbriche, ma in abitazioni quanto più vicine a luoghi a norma. Per rendere il tessuto cittadino più permeabile e trasparente».

Corriere 2.12.13
«Colpisce il silenzio dei sindacati»
di Enrico Marro


ROMA — «Mi colpisce e mi sorprende che il sindacato nazionale non abbia ancora preso posizione su una tragedia come quella di Prato, dove finora sono morti sette lavoratori». Valeria Fedeli (Pd), vicepresidente del Senato, per molti anni alla guida dei tessili della Cgil e del sindacato europeo di categoria spera che Cgil, Cisl e Uil battano presto un colpo, «perché non è vero che il sindacato non ha fatto nulla per i lavoratori cinesi».
A vedere quello che è successo non si direbbe.
«Qualche anno fa, come tessili della Cgil promuovemmo un confronto a Prato che si concluse con un’intesa che doveva vedere la collaborazione tra istituzioni locali, forze dell’ordine, sindacati e associazioni imprenditoriali per contrastare i capannoni illegali e favorire l’emersione».
Evidentemente non ha funzionato.
«Quello che è successo testimonia che si è abbassata la guardia sul fronte dei controlli. Se si fa un monitoraggio serio, a partire per esempio dai consumi elettrici, si scoprono facilmente le attività clandestine, le fabbriche lager con i lavoratori schiavi che dormono nei capannoni».
Forse anche il sindacato ha abbassato la guardia.
«È difficile entrare in queste realtà perché sono illegali, è come non esistessero e ci troviamo davanti, in questi casi, a una comunità chiusa. Ma bisogna insistere».
Come?
«Partendo da un monitoraggio costante del territorio per chiudere le fabbriche illegali e occuparsi dei lavoratori e delle loro famiglie. E c’è bisogno di un accordo anche con la comunità cinese, coinvolgendo gli imprenditori corretti che ci sono».

Corriere 2.12.13
La realtà delle nuove tute blu e quell’anomalia ignorata
di Dario Di Vico


Speriamo che questa volta la città di Prato decida, come sembra, il lutto cittadino perché i sette operai cinesi che ieri hanno perso la vita nel rogo di una delle tante fabbriche-dormitorio del distretto vanno onorati e ricordati come vittime del lavoro in Italia. Come fossero delle nostre tute blu.
Sappiamo benissimo quale realtà e quali contraddizioni ci squaderna davanti agli occhi la tragedia di Prato, quello che sembra un remake delle fabbriche inglesi dell’Ottocento descritto nelle pagine di Dickens ed Engels è invece il tratto più amaro della modernità, della globalizzazione che ha portato a lavorare a Prato ragazzi che non sanno nemmeno in quale punto del pianeta siano capitati. Accanto però alle onoranze civili il modo più giusto per non rendere vano il loro sacrificio è tentare di riflettere sui rapporti che legano la nostra economia a quella cinese e che finiscono per unire, in più d’un punto, il destino delle due comunità.
Per il delicato momento che vive il nostro Paese avremmo bisogno di robusti investimenti stranieri e di questa necessità sono convinte non solo le autorità centrali di Roma ma gli attori sociali e persino i protagonisti della vita di tutti i giorni. Gli operai della Fac di Savona si rivolgono al sito www.vendereaicinesi.it per cercare un compratore della loro fabbrica di ceramiche ormai fallita, alla Acc di Belluno si contano i giorni in attesa di un accordo che veda arrivare gli asiatici e salvare così un migliaio di posti di lavoro dell’indotto dell’elettrodomestico nel territorio a cavallo tra Veneto e Friuli Venezia Giulia. Persino nel calcio i tifosi aspettano che un tycoon cinese entri del capitale della loro amatissima squadra di calcio, la Roma, sostituendo l’Unicredit, una delle due grandi banche italiane. Per l’Alitalia idem: in tanti hanno sperato invano in un interessamento dell’Air China quantomeno per mettere i cinesi in competizione con i nostri cugini dell’Air France e strappare migliori condizioni nella distribuzione dei compiti e delle rotte. Non è finita: stiamo organizzando l’Expo 2015 e contiamo da qui a quella data di intercettare quote crescenti di turisti cinesi che visitino il nostro Paese e possibilmente si innamorino dei nostri prodotti e del nostro lifestyle. Per farla breve, dopo cinque anni di crisi abbiamo ormai maturato l’idea che per uscire dalla recessione ci servono nuovi schemi e nuovi interlocutori e spesso speriamo di trovarli nei nipotini di Deng.
Purtroppo però mentre nel favorire l’afflusso di capitali cinesi in Italia facciamo passi in avanti tutto sommato modesti, e temiamo che gli asiatici trovino più attrattivi i nostri partner europei, tragedie come quella di Prato ci ricordano brutalmente che i cinesi nell’economia italiana ci sono già e che la convivenza va tutt’altro che bene. La storia della Chinatown in riva al Bisenzio è rimasta per troppo tempo sotto traccia, sono stati compiuti errori macroscopici dalle amministrazioni locali e dalle autorità nazionali quando si sono chiusi tutte e due gli occhi mentre nasceva un distretto parallelo del tessile-abbigliamento, un agglomerato industriale che ha via via fatto dell’illegalità il modello di business vincente. Sia chiaro, il declino di Prato e della sua straordinaria storia di imprenditoria dei tessuti non è avvenuto per esclusiva colpa dei cinesi (i nuovi arrivati si sono posizionati con il loro «pronto moda» a valle delle manifatture locali) ma è nato comunque qualcosa di storto. Abbiamo permesso che nel cuore della civilissima Toscana in centinaia di laboratori clandestini imprenditori cinesi senza scrupolo obbligassero i loro connazionali più deboli e ricattabili a lavorare come schiavi. A dormire accanto alle macchine da cucire, ad allattare i bambini rubando il tempo alla produzione. Grazie a questo tipo di sfruttamento il distretto cinese di Prato si è rivelato negli anni una straordinaria macchina da soldi che ha venduto sui mercati di mezza Europa quantità incredibili di un made in Italy griffato di lavoro illegale, intimidazione ed evasione fiscale.
Se è questa la storia che c’è dietro il rogo di Prato è necessario chiedersi cosa fare, come conciliare la convivenza con le comunità cinesi con il pieno rispetto della nostra civiltà e dei diritti elementari del lavoro. Non possiamo tollerare zone franche ma in parallelo dobbiamo essere capaci di costruire un dialogo che veda protagoniste le autorità dei due Paesi e passi, però, anche dentro la società civile. I sindacati italiani dovranno ricordarsi che esiste l’anomalia Prato, che i lavoratori cinesi hanno gli stessi diritti dei nostri e che il Primo Maggio dovrà essere anche un po’ giallo per esser vero. Un grande contributo potrà poi venire dalle seconde generazioni: i ragazzi cinesi che vivono a Prato, a Bologna, a Milano e in tante altre nostre città possono rappresentare la leva di un cambiamento. Leggendo quanto scrivono sul sito di Associna, l’appello ai genitori perché consentano loro di «amare l’Italia», di rispettare la nostra civiltà, qualche speranza c’è.

La Stampa 2.12.13
Senza immigrati l’Italia non si regge in piedi
Cambia la nostra percezione: più aperti verso gli stranieri
I migranti negli ultimi 20 anni sono quasi decuplicati, ma è grazie a loro se riusciamo a colmare la voragine demografica dovuta al fatto che non facciamo più figli
È una verità che si fa strada nella popolazione. L’indagine “Last” mostra come, rispetto al 2007, gli italiani facciano valutazioni più razionali sul fenomeno dei flussi
di Daniele Marini

qui

Il leader della Cgil conferma anche che non andrà a votare per le primarie del Pd
La Stampa 2.12.13
Susanna Camusso: «L’Imu? Andava rimodulata per favorire i più poveri»
La Cgil avverte Letta «Basta con gli annunci»
«Insopportabile dire una cosa e farne un’altra, si rischia l’emergenza democratica»
intervista di Stefano Lepri


ROMA Con il governo Letta «il tempo è finito». Susanna Camusso, leader della Cgil, coglie l’occasione per passare all’attacco. «Intendo dire che è finito il tempo della propaganda, degli annunci e delle promesse. Sta diventando insopportabile l’abitudine di dire una cosa e di farne un’altra. Ci avevano detto che nell’esame della legge di stabilità in Senato ci sarebbe stata attenzione anche al lavoro. Non è accaduto nulla».
Il presidente del consiglio dice che tutti i risparmi di spesa andranno a ridurre le tasse sul lavoro.
«Vorremmo che cominciasse a precisare tempi, modi, quantità. Sentiamo che dopo il cambiamento nella maggioranza e le primarie Pd ci sarà un nuovo discorso programmatico. Ho perso il conto: sarà il quarto? E quand’è che si passa dai programmi alla attuazione? Come forze sociali, insieme con Cisl e Uil e con la Confindustria, in settembre avevamo avanzato richieste unitarie per rilanciare l’economia. Niente. Abbiamo la sensazione che i politici parlino molto di loro stessi e fra loro, invece di parlare alla gente di come risolvere i problemi. C’è il concreto rischio che il rancore e il risentimento che ormai si percepiscono ci portino verso una vera emergenza democratica. Il Paese è disorientato: pensi a un lavoratore che sta per ricevere la tredicesima e non sa che cosa potrà fare con quei soldi, quanti ne dovrà mettere da parte ad esempio per pagare quel pezzo di Imu che non è abolito...».
Ma se l’Imu lei ha appena dichiarato che era meglio tenerla tutta...
«Cambiandola per proteggere meglio le fasce più deboli. Con questo ritornello che bisogna abbassare le tasse poi si finisce che vengono abbassate ad alcuni e scaricate su altri. Siamo al punto che ad imposte progressive, che fanno pagare di più ai ricchi si sostituiscono imposte che gravano su chi ha meno, per esempio anche sugli affittuari. E se tiriamo le somme alla fine la pressione tributaria aumenta. Siamo prigionieri di un falso mito, che l’unica cosa utile per la
ripresa sia calare le tasse: ne risulta un vero imbroglio. E’ scandaloso che le rendite finanziarie si continui a tassarle al 20%, mentre l’aliquota più bassa sul lavoro dipendente è il 23%».
In concreto come Cgil che cosa volete?
«Siamo coscienti che il bilancio pubblico è messo male, e non chiediamo la luna: chiediamo misure per lo sviluppo, a partire da meno tasse su lavoro e pensioni. Inoltre, nel suo primo discorso programmatico il presidente del consiglio aveva promesso un nuovo provvedimento per alcune migliaia di lavoratori “esodati” non coperti dalle precedenti misure; non l’abbiamo ancora visto. Peggio, con i criteri restrittivi appena introdotti per la cassa integrazione in deroga, le imprese licenzieranno. Era questo il momento? Vedo che il ministro dell’Economia, nella sua intervista, riconosce che anche con la ripresa per un certo tempo la disoccupazione continuerà ad aumentare. Che vogliamo fare allora con i disoccupati? Insomma tutta questa incertezza non è tollerabile».
Ma a tagliare le spese siete d’accordo? Non sarà mica che i sindacati del pubblico impiego temono anche loro, come i burocrati, la “spending review”?
«Beh, se gli interventi sulle spese significano, come finora, il blocco dei rinnovi contrattuali del pubblico impiego, nessun recupero di efficienza, più tagli lineari, certo che come sindacato siamo contrari. Se invece si tratta di colpire davvero gli sprechi, come ridurre le trentamila diverse stazioni appaltanti, evitando che in tanti casi si paghino prezzi troppo alti sulle forniture, o di discutere una vera riforma, allora ci stiamo».
Tra i risparmi di spesa, Matteo Renzi propone di rivedere la formazione professionale, evitando che a gestirla siano sindacati e Confindustria...
«I sindacati? Come Cgil ce ne siamo tirati fuori vent’anni fa, quando era segretario generale Bruno Trentin. Sono d’accordo: occorre rivedere tutti gli “accreditamenti” dei corsi di forma zione. Se ne scopriranno delle belle».
A proposito, conferma che non andrà a votare alle primarie Pd?
«Molti militanti della Cgil e molti dirigenti ci andranno. Fanno bene, la partecipazione è per noi un valore; ma è anche bene che la direzione di un sindacato con un iscritto ogni dieci italiani se ne tenga fuori».

Corriere 2.12.13
La Consulta e la legge elettorale
Il Porcellum alla sbarra
di Michele Ainis


Processo al Porcellum , atto primo: domani alla Consulta s’aprirà l’udienza pubblica. Ma sul banco degli imputati non c’è solo la legge elettorale, c’è soprattutto la politica. Quella incarnata dalla destra, che nel 2005 confezionò la legge. Dalla sinistra, che nel 2006 vinse le elezioni, senza sognarsi d’abrogarla. Dall’ammucchiata destra-sinistra-centro, che ci governa da un paio d’anni senza mai battere ciglio, benché questa legge ci abbia spinto sul ciglio d’un burrone. Infine dai grillini, che disprezzano il Porcellum però dichiarano di volerlo conservare. Sul banco degli imputati c’è dunque il Parlamento, in tutte le sue articolazioni. E c’è il governo, che non ha avuto il fegato di sbrigare la faccenda per decreto.
Sicché adesso tocca alla Consulta, e non sarebbe il suo mestiere. Con quali conseguenze? Qui possiamo disegnare solo ipotesi, scenari, congetture. Il diritto non è una scienza esatta, altrimenti i suoi responsi verrebbero sottratti al verdetto di un giudice d’appello. Il primo dubbio circonda l’ammissibilità della questione. Significa che prima di deciderla nel merito, la Corte costituzionale deve misurarne la «rilevanza» nella causa intentata da Aldo Bozzi (nipote del politico liberale) davanti al tribunale di Milano: un cittadino che contesta l’espropriazione della sua libertà di voto. Significa perciò che quel giudizio dovrà dipendere, in positivo o in negativo, dal giudizio della Consulta. In caso contrario quest’ultima verrebbe interpellata direttamente dai cittadini: in Spagna si può fare, in Italia no. Ma è «rilevante» l’eventuale annullamento della legge elettorale dopo un’elezione contestata, però ormai consumata? Per la Cassazione questo problema non è affatto un problema, e d’altronde pure la giurisprudenza costituzionale offre almeno un precedente (sentenza n. 236 del 2010). Staremo a vedere.
Ciò che sicuramente non vedremo è il vuoto, la sparizione di qualsivoglia congegno elettorale. Altrimenti i mille parlamentari in carica diverrebbero immortali, nessuno mai potrebbe rimpiazzarli. Loro magari ne sarebbero felici, noi un po’ meno. Sicché un sistema pronto all’uso deve pur sopravvivere, dopo che la Consulta avrà usato i ferri del chirurgo. Quale? Per esempio un proporzionale puro, se in sala operatoria verrà amputato il premio di maggioranza. Oppure il Mattarellum . Dice: ma la Corte costituzionale ne ha già negato la reviviscenza, bocciando il referendum abrogativo che intendeva favorirla. Errore: altro è l’abrogazione (con legge o referendum), altro è l’annullamento (con sentenza). La prima vale per il futuro, il secondo retroagisce nel passato. E dopotutto tale soluzione suonerebbe assai meno creativa, meno invasiva. Rimetterebbe in circolo una scelta già timbrata dal legislatore italiano, mentre il proporzionale alla tedesca è roba per tedeschi.
E sul Parlamento in carica, quali conseguenze? Taluno opina l’illegittimità di ogni suo atto, compresa la rielezione di Napolitano. Balle. Se una sentenza vieta la fecondazione assistita, per rispettarla non dovremo uccidere il bambino nato con la fecondazione assistita. Meno ballista, viceversa, l’idea che sarà impossibile convalidare l’elezione di qualche centinaio di parlamentari, dato che le Camere non vi hanno ancora provveduto. Per evitare lo sconquasso, la Consulta potrebbe cavarsela con una pronunzia d’incostituzionalità «differita», che scatterebbe insomma alle prossime elezioni. Come ha già fatto, per esempio, rispetto ai tribunali militari (sentenza n. 266 del 1988). Ma è una frittata, comunque la si giri. E la gallina da cui sbuca l’uovo fritto è il sistema dei partiti .

Corriere 2.12.13
Porcellum, tocca alla Consulta. Ipotesi rinvio per evitare il caos
di M. Antonietta Calabrò


ROMA — Corsa contro il tempo delle Camere (oggi si vota l’ordine del giorno di Roberto Calderoli per il ripristino del Mattarellum). O forse all’opposto (anche se è una contraddizione in termini) corsa a un rallenti della Corte costituzionale. Il destino della legge elettorale, ormai, si gioca sul filo di lana dei giorni.
Domani i giudici della Consulta si riuniscono per esaminare il ricorso che la Cassazione (non un giudice qualsiasi) ha mandato alla Corte costituzionale, affinché venga dichiarato illegittimo il cosiddetto Porcellum, in particolare perché assegna un enorme premio di maggioranza a chi vince a Montecitorio, senza però fissare una soglia minima per ottenerlo.
L’aria che tira all’interno del secondo palazzo che sorge sul Colle più alto di Roma è di bocciatura della vituperata legge partorita dalla mente dell’ex vicepresidente del Senato Calderoli. Se il premio di maggioranza è illegittimo le conseguenze saranno catastrofiche per l’attuale Parlamento. Andranno quanto meno a casa tutti i deputati, circa 200, che risultano eletti grazie a quel premio e che la cui elezione non è stata ancora convalidata dalla Giunta di Montecitorio. Se il premio non ci sarà più, inoltre, lo stesso numero di seggi dovrebbe essere riassegnato su base proporzionale e naturalmente in questo gioco di numeri il «nuovo» partito di Berlusconi, Forza Italia, farebbe la parte del leone a scapito del Pd (con conseguenze immaginabili per la durata del governo e della legislatura).
Ecco allora che scatta per il governo la necessità di porre mano quanto prima ad una modifica del Porcellum, in modo da far dichiarare dalla Corte cessata la materia del ricorso. Un ex presidente della Consulta come Piero Alberto Capotosti ieri sulle colonne del Messaggero suggeriva di fissare al 35 per cento la soglia di attribuzione del premio di maggioranza (un risultato a portata di mano dei due partiti maggiori). «In fin dei conti basterebbe un articolo unico e pochi giorni di lavoro per l’approvazione in ciascuno dei due rami del Parlamento», spiega Capotosti.
Sul tappeto ci sarebbe anche l’ipotesi di un decreto legge del governo. Ma contro questa estrema ratio militano due fattori. Il primo è solido come un macigno ed è difficilmente aggirabile: mai si è ricorsi ad un decreto legge per modificare una legge elettorale. Il secondo coinvolge il ruolo del presidente della Repubblica: dato che il decreto legge deve essere firmato dal capo dello Stato, bisogna vedere se Napolitano sarà disposto o meno a farlo (cosa che viene ritenuta altamente improbabile).
Ecco dunque perché è necessario riporre fiducia nella possibilità pratica che la Corte costituzionale ha di dilatare i tempi della sua decisione (ordinatori e non perentori), complice il periodo di ferie natalizie. Insomma, si sta facendo avanti l’ipotesi di far slittare la camera di consiglio per il giudizio a metà gennaio (la prima udienza del prossimo anno è fissata per il 13 gennaio), anche se la trattazione pubblica del ricorso avverrà domani. In questo modo il Parlamento avrebbe il tempo (una volta chiarito chi comanda all’interno del partito di maggioranza relativa, cioè dopo le primarie del Pd, con la probabile vittoria di Matteo Renzi) di fare le modifiche ritenute necessarie. I giudici costituzionali infatti sono chiamati a decidere in prima battuta sull’ammissibilità dell’ordinanza.
Dalla Consulta potrebbe perciò uscire già domani questo «verdetto», con un rinvio all’anno nuovo della questione vera e propria della costituzionalità del Porcellum.

Repubblica 2.12.13
Possibile uno slittamento a gennaio-febbraio per dare un’ultima chance alla politica
Domani la riforma alla Consulta ma cresce il tam tam del rinvio
di Liana Milella


ROMA — Alla Consulta cresce il tam tam del possibile rinvio sul Porcellum. Un gesto di savoir faire istituzionale per dire alla politica “fate presto a cambiare la legge elettorale, senno decidiamo noi”. A 24 ore dall'udienza pubblica più attesa della stagione, si possono già mettere alcuni punti fermi. A partire dai possibili schieramenti tra gli alti giudici – tre in sostanza –, al di là del rinvio che farebbe slittare la questione tra gennaio e febbraio 2014. Un gruppo ritiene inammissibile la richiesta della Cassazione, perché aggirerebbe il divieto di ricorsi alla Consulta presentati da un singolo cittadino. Nel nostro caso l'avvocato Aldo Bozzi, che con altri 25 cittadini si è rivolto altribunale di Milano per contestare premio di maggioranza abnorme e negazione delle preferenze. Un altro gruppo di giudici ritiene che la questione sia ammissibile, ma di difficile soluzione, perché se si tocca la legge, in tutto o in parte, poi bisogna riscriverla, perché altrimenti il Paese restasenza una legge fondamentale. Un terzo gruppo è convinto che Bozzi e la Cassazione – il relatore della prima sezione civile Antonio Lamorgese – abbiano ragione, che i due quesiti debbano essere entrambi accolti, e che, per il principio della “illegittimità consequenziale”, la bocciatura trascinerebbe il Porcellum verso una tombale incostituzionalità, facendo rivivere il Mattarellumper evitare il vuoto legislativo. È la “riviviscenza”, principio che alcuni negano e che altri giudicano possibile alla luce della sentenza sul referendum scritta da Sabino Cassese nel 2013.
Ma partiamo dalle ultime novità pratiche. Domani – l'udienza è alle 9 e 30 – non ci sarà nessuno, tantomeno l'Avvocatura dello Stato per conto del governo, a difendere il Porcellum. È un primodato molto indicativo. Ci sarà, invece, l'avvocato Bozzi, che parlerà dopo il relatore Giuseppe Tesauro, il noto ex presidente dell'Antitrust. A seguire, ecco altre 16 cause, tutti conflitti tra Stato e Regioni. Un calendario così nutrito porterà a “sforare” nel pomeriggio (gli avvocati sono già stati avvisati) e comporterà il rinvio della camera di consiglio al giorno dopo, mercoledì. Il Porcellum è la prima questione, ma potrebbe anche diventare l'ultima per la sua rilevanza ed essere rinviata di una settimana solo per mancanza di tempo.
Se si discute, e c'è il rinvio, ovviamente il caso per il momento si chiude. Qualora prevalga la tesi che i tempi troppo lunghi della politica esigono un passo della Corte, si parte dall'ammissibilità. Dove la tesi prevalente è che la questione sia ammissibile, anche perché se non lo fosse vorrebbe dire che la legge elettorale non è “sindacabile”, è “immune” da qualsiasi intervento sulla sua costituzionalità e che la Consulta ha le mani legate proprio su una legge che può violare la Costituzione e danneggiare i cittadini.
Alla Corte sottolineano che, qualora si decida sull'ammissibi-lità, si andrà avanti anche sul merito. Qui il vero problema è cosa resta della legge, e se ne resta una, dopo le cesoie della Corte. Per questo si rafforza la tesi della riviviscenza che, come scriveva Cassese un anno fa, “non opera in via generale e automatica e può essere ammessa solo in ipotesi tipiche e molto limitate, e comunque diverse da quella dell'abrogazione referendaria. Ne è un esempio l'ipotesi di annullamento di una norma espressamente abrogatrice da parte del giudice costituzionale”. Sembra proprio la fotografia del Porcellum azzerato e che va rivivere il Mattarellum.

Repubblica 2.12.13
La legge elettorale
Pd pronto a votare il ritorno al Mattarellum
Oggi probabile il sì al Senato sul modello corretto. Renzi annuncia tre proposte
di Giovanna Casadio


ROMA — Il Pd apre alla proposta anti Porcellum di Renzi. Forse perché è un sasso nello stagno, o perché la Consulta incombe con l’udienza di domani, ma stasera nella riunione della commissione Affari costituzionali del Senato potrebbe essere votato un documento di indirizzo che prende per buone alcune delle richieste renziane. Non una novità assoluta, il ritorno al Mattarellum, però corretto con il premio di maggioranza, a cui il sindaco di Firenze punta in nome della chiarezza, del bipolarismo e della governabilità. Per Renzi è l’asso che potrebbe cambiare la partita e soprattutto portare al gol, dal momento che si sposa con l’ordine del giorno in commissione del leghista Roberto Calderoli. In un pentimento ormai definitivo, il “padre” della legge “porcata” - fu lui a scriverla e poi a definirla così - ha messo nero su bianco una proposta simile. Anche Anna Finocchiaro, la presidente democratica della commissione, anti renziana, ha depositato a maggio un disegno di legge che è un Mattarellum corretto in senso maggioritario.
Renzi sostiene che ci potrebbe essere un’unica traccia ma tre diverse soluzioni, così da rendere possibile una maggioranza per la riforma. E annuncia tre proposte. È vero che una legge elettorale si giudica dai particolari - spiega il capogruppo del Pd in Senato, Luigi Zanda - però si può cominciare a lavorare in questa direzione. Le linee-guida insomma potrebbero essere approvate subito, anche senza entrare nei tecnicismi. Infatti se si ripristinasse il Mattarellum, ovvero il modello di voto sulla base di collegi uninominali, e si confermasse una “torsione” in senso maggioritario di quel 25% (che il Mattarellum prevede come quota proporzionale), le soluzioni si trovano. Insieme con Scelta civica e con il Nuovo Centrodestra di Alfano e Quagliariello. Una ricetta «ardita» l’idea di Renzi, nel Pd attraversato dai malumori e diviso in tifoserie congressuali, però non disdegnata dai supporter dello sfidante alle primarie democratiche Pippo Civati. L’appoggia per esempio il senatore Corradino Mineo, che è in commissione Affari costituzionali: a patto che il residuo 25% in senso maggioritario sia assegnato con un doppio turno di collegio. «La legge Mattarella è una buona base - ragiona Mineo - bisogna però evitare le coalizioni-ammucchiata».
Gianni Cuperlo, l’altro rivale di Renzi alle primarie dell’8 dicembre, mette invece le mani avanti: «Una riforma elettorale ci vuole e in fretta, purché tutta questa ingegneria messa in scena dal sindaco di Firenze, non voglia dire che non si cambia niente». In pratica che i numeri non ci sono, e si vuole solo fare cadere il governo Letta. Sospetto che Stefano Fassina, il vice ministro dell’Economia, cuperliano, rilancia: «Un premio di maggioranza del 25% non s’èmai visto, è contraddittorio e poco coerente. Chi fa proposte ultimative come Renzi vuole andare al voto con il Porcellum. Scaduti gli ultimatum di Brunetta arrivano quelli di Renzi». In realtà il Mattarellum con premio di maggioranza è per i renziani tutto da studiare: quel 25% potrebbe ad esempio essere sdoppiato, una parte come premio di maggioranza e l’altra come diritto di tribuna. «Bisogna vedere come tutto questo si costruisce», frena Gianclaudio Bressa. Arturo Parisi, il promotore del referendum anti Porcellum e pro Matterellum (bocciato dalla Consulta) ha lanciato l’offensiva con Roberto Giachetti, il vice presidente della Camera, renziano, al 56° giorno di sciopero della fame per la riforma elettorale. C’è stata ieri una giornata di digiuno collettivo anti Porcellum.Parisi chiama alla mobilitazione: «La commedia è finita, prestissimo sapremo cosa decide la Consulta, siamo arrivati a dicembre senza avere fatto nulla, così non può continuare». Spera in Renzi, l’ex ministro di Prodi. Denuncia la dilazione e l’incapacità delle forze politiche. Ammonisce la presidente della Camera, Laura Boldrini: «Lo smacco più grande sarà se la Corte Costituzionale si pronuncerà nei prossimi giorni sulla legge elettorale prima che lo abbia fatto la politica».

Repubblica 2.12.13
Il docu-film di Hofer e Ragazzi, dalle primarie del 2012 alle larghe intese l’anno orribile dei democratici
Se basta un quiz per confondere la sinistra
di Lavinia Rivara


ROMA — È il 22 febbraio 2013, a Roma Pier Luigi Bersani chiude la campagna elettorale in un teatro, Grillo riempie San Giovanni. Nella piazza storica della sinistra avanza una nuova creatura politica, l’elettore grillino. «Se siamo più vicini alla destra o alla sinistra? Noi siamo al di fuori, siamo proprio “oltre”».
È il racconto di questo ultimo movimentato anno della politica italiana il nuovo film-documentario di Gustav Hofer e Luca Ragazzi, “What is Left?”, l’ultimo di una trilogia sull’Italia, un viaggio nella sinistra alle prese con la sua ennesima sconfitta. Che riaccende domande impellenti: che vuol dire essere di sinistra oggi, quali sono i suoi valori?. Qualcuno prova a dare delle risposte. «Sono stanco della responsabilità. Noi abbiamo voluto imporre agli elettori il senso di responsabilità. Ma loro non l’hanno votato” scandisce amaro un militante del circolo pd dell’Esquilino. Ma nonostante lo sconforto, il tono di Hofer e Ragazzi rimane leggero, non perde mai la speranza e l’ironia. Come nel quiz-show che dà il titolo al film, “What is Left” appunto, dove una conduttrice in tenuta da Armata Rossa, interroga i due registi-protagonisti concorrenti su alcune questioni sociali. Ma la domanda secca, “vero o falso?” non ottiene mai una risposta chiara. «È meglio usare sempre i contanti piuttosto che la carta di credito? È giusto che i ricchi paghino molte più tasse? Se i Rom sono per loro scelta senza fissa dimora non hanno diritto alle case popolari?». I due rispondono con mille distinguo, polemizzano, si contraddicono. Finiscono in confusione. Perché almeno sulla confusione non ci sono dubbi, quella «è di sinistra».
Il film comincia con le primarie Pd del2012. Gustav sta con Renzi, Luca vota Bersani. Vince il segretario e ci si avvia verso le elezioni. Ma il risultato sarà la famosa “non vittoria” del Pd. Nel circolo di Trastevere un militante azzarda: «Diciamoci la verità, l’accordo col Pdl si dovrà fare...» ma viene subissato di fischi. Poi l’intesa con i 5 Stelle si rivelerà una chimera e i 101 affosseranno Prodi. Il circolo Pd di via dei Giubbonari fa il tutto esaurito con Fabrizio Barca che presenta il suo manifesto. Luca è entusiasta: è l’uomo della provvidenza. Ma la sera quando prova a leggere il documento cede: «Non ci capisco niente ». E finisce spalmato sul divano ad ascoltare le canzoni di Carlà. Barca non se l’è presa a male. Ieri era alla presentazione del film al Nuovo Sacher, presente anche Nanni Moretti, ne ha sposato le conclusioni: «È proprio così, la sinistra non è morta ma deve darsi una sistemata».

Corriere 2.12.13
Contributi incostituzionali ai partiti
Dopo la denuncia occorrono i fatti
di Massimo Teodori


La Corte dei Conti del Lazio ha finalmente sollevato la questione d’incostituzionalità delle leggi che hanno restituito ai partiti, decuplicati, i finanziamenti pubblici abrogati dal referendum del 1993. Sapevamo da tempo che sui soldi la politica imbroglia l’opinione pubblica — gli «artifici semantici» e le «leggi camuffate» — , ma finora nessun organo dello Stato aveva preso una posizione così netta e chiara.
Nonostante le roboanti dichiarazione, infatti, il finanziamento ai partiti negli ultimi vent’anni è aumentato in maniera abnorme, e gli indizi fanno pensare che così sarà anche per il futuro. Una proposta in discussione prevede che tra alcuni anni i fasulli «rimborsi spese» vengano ridotti per essere subito compensati dal 2 per mille e dalle donazioni private defiscalizzate, cosa che farebbe ancor più lievitare l’entità complessiva dei soldi alla politica. È vero che nelle Regioni si contestano le spese dei consiglieri, ma nessuno mette in discussione in origine i finanziamenti ai gruppi-partiti dell’ordine complessivo di un centinaio di milioni l’anno.
Camera e Senato (ed Europarlamento) oltre a retribuire i parlamentari, come è giusto entro limiti, versano ai gruppi decine di milioni che finiscono ai partiti così come una percentuale degli stipendi individuali tra i più alti d’Europa. Ancor più grave è la mancanza di regole e controlli sui versamenti milionari (in cambio di cosa?) alle tante fondazioni correntizie, mentre continuano i contributi ai giornali di partito, spesso stampati solo per ottenere i sussidi, e diminuiscono gli aiuti di Stato alle storiche istituzioni culturali.
I pm contestano i casi di spese illegittime che, però, sono solo fatti collaterali, anche se spettacolari, del finanziamento. Per indebolire la casta abbarbicata al portafoglio, e restituire dignità alla politica, occorre piuttosto una drastica riduzione delle entrate complessive della politica, prima ancora del controllo delle uscite. Il procuratore della Corte dei Conti De Dominicis ha messo il dito sulla piaga, ma temiamo che i fatti stenteranno a seguire la denunzia.

Repubblica 2.12.13
Testa a testa tra Pd e centrodestra
Ncd vale il 5 per cento, M5S al 21
di Ilvo Diamanti


OTTO mesi dopo le elezioni politiche non è cambiato niente, in Italia. Almeno, dal punto di vista degli orientamenti di voto. Permane, infatti, un equilibrio instabile fra tre grandi minoranze.
MINORANZE che interferiscono reciprocamente. In Parlamento e nel Paese. È la principale indicazione che emerge dal sondaggio di Demos, pubblicato oggi sullaRepubblica. Il Centrosinistra e il Centrodestra: appaiati, poco oltre il 30%. Il M5S sopra il 21% e in lieve crescita. Il Centro, invece, ridotto in uno spazio quasi residuale. Intorno al 5%. Dopo il voto, però, è cambiato il sistema partitico. Nel Centrosinistra si è riaperta la questione, irrisolta, della leadership. Mentre il Centro si è ristretto e, al tempo stesso, diviso. Pochi voti e tanti leader: Monti, Casini, Mauro… Ma le novità più importanti sono avvenute a Centrodestra. Il Pdl non c’è più. È tornata Forza Italia. Per reazione, è sorto un Nuovo Centro Destra, intorno ad Alfano e ai ministri. “Destra Repubblicana”, l’ha definita Eugenio Scalfari. L’esito principale di questa scomposizione è che i due partiti post-Pdl, insieme, hanno recuperato quasi 6 punti percentuali, rispetto allo scorso ottobre. Allargando la base elettorale del Pdl anche rispetto alle scorse elezioni di febbraio. In altri termini, secondo la logica proporzionale, 1: 2=1,3.
Certo, conteggiare insieme due partiti divisi, esito di una scissione, è discutibile. Tuttavia, sono entrambi figli dello stesso padre, Silvio Berlusconi. E la legge elettorale li spinge — o meglio: li costringe — a tornare insieme, in caso di nuove elezioni. Per non rischiare, in caso contrario, di perdere. Entrambi.
È, semmai, interessante osservare come FI, da sola, non abbia perduto consensi rispetto al Pdl, due mesi fa. Quando la frattura di Alfano si era già consumata, in Parlamento. Al contrario. Oggi è quasi al 21%. Mentre il Ncd ha conquistato uno spazio elettorale significativo, ma limitato. Poco sopra il 5%. I suoi elettori provengono per oltre il 50% dal Pdl e per quasi il 10% dal Centro (Monti e Udc). Attratti da un comune richiamo: autonomia da Berlusconi ma contro la Sinistra. La separazione ha, peraltro, marcato in modo evidente l’identità politica dei due elettorati: l’Ncd spostato a centro-destra, FI molto più a destra.
Ciò che distingue maggiormente i due partiti, però, è il giudizio sul governo. Fra gli elettori di Ncd, infatti, si osserva la quota più ampia di giudizi positivi (dopo i Centristi): 70%. Oltre il doppio di quel che emerge fra gli elettori di FI: 33%. Il dato più basso, ad eccezione del M5S (23%). I due partiti post-Pdl, così, ripropongono un’anomalia normale nella politica italiana. Recitano, cioè, il doppio ruolo: di governo e di opposizione. Come hanno fatto la Lega e lo stesso Berlusconi, per decenni. Senza bisogno di dividersi. Il rapporto con il governo spiega, in parte, anche la tenuta di FI. Che oggi beneficia della rendita di opposizione a Letta. In declino di fiducia, nelle ultime settimane. L’andamento delle intenzioni di voto, rilevate nel corso del sondaggio, mostra, infatti, un aumento dei consensi per FI dopo l’uscitadalla maggioranza (martedì 26 novembre). Il Centrodestra, in questo modo, dopo essere stato in svantaggio per mesi, si avvicina al Centrosinistra e, praticamente, lo raggiunge. Entrambi allineati fra il 32 e il 33%. Così Berlusconi rilancia la strategia adottata, con successo, nella recente campagna elettorale. Caratterizzata dalla polemica contro Monti, leader di Scelta Civica e, in precedenza, premier del governo tecnico. Sostenuto da una maggioranza di “larghe intese”. Come quella del governo guidato da Letta. Bersaglio, non da oggi, delle critiche di Berlusconi e FI. Che cercano, in questo modo, di allontanare ogni responsabilità delle scelte fatte — e non fatte — negli scorsi mesi. Negli scorsi anni. Per intercettare, a proprio favore, il clima d’opinione del Paese. Avvelenato dalla crisi economica. Sfavorevole a ogni istituzione e a ogni attore politico.
A Centrosinistra, il Pd ha perduto consensi rispetto a ottobre (circa 3 punti). Ma resta il primo partito, (29%). Anche se i congressi e la campagna delle Primarie per il segretario non sembrano aver prodotto, fino ad oggi, lo stesso entusiasmo del passato. D’altronde, c’è un vincitore annunciato: Matteo Renzi. Un po’ a disagio, nella parte. Lui: è un outsider di successo. Oggi non recita il ruolo dello sfidante, ma dello sfidato. In mezzo a due figure diverse. Cuperlo, evoca la tradizione e l’organizzazione politica, radicate sul territorio. Civati, invece, compete con Renzi sul suo stesso piano. La giovinezza e la capacità mediatica — esibita, con grande efficacia, nel “faccia a faccia” su Sky.
Più in generale, pesa la delusione per la vittoria mancata alle elezioni politiche. Contro le attese suscitate dalle Primarie di un anno fa.
Così è arduo, domenica prossima, immaginare una partecipazione ampia come nelle precedenti occasioni. Potrebbe non essere un male. Costringerebbe il nuovo segretario a considerare il Pd un partito ipotetico (per citare Berselli): da (ri) costruire. A considerare la fiducia degli elettori: un obiettivo da ri-conquistare. Accettando la sfida del M5S. Che ieri, a Genova, ha di nuovo riempito la Piazza, per un nuovo V-Day. In nome dell’impeachment di Napolitano. L’ultimo riferimento istituzionale dotato di fiducia, fra i cittadini. Un nuovo passaggio della marcia contro i partiti e le istituzioni condotta negli ultimi anni. Con successo, visto che, secondo il sondaggio di Demos, il M5S continua a mantenere un livello di consensi superiore al 21%. Più di quanto segnalassero le stime elettorali pochi giorni prima del voto di febbraio. Peraltro, il M5S dispone di una base “fedele” più ampia di quel che si potrebbe pensare. Visto che il 60% di quanti l’hanno votato alle elezioni oggi confermerebbero la loro scelta. Ma la fedeltà verso Grillo e il M5S suona come la misura dell’in-fedeltà verso gli altri partiti e verso le istituzioni. Verso la democrazia rappresentativa. In un Paese che, dopo mesi di “larghe intese”, appare diviso assai più che condiviso.

Repubblica 2.12.13
Nencini rieletto segretario “Il Psi sarà leale a Letta”


ROMA — Riccardo Nencini è stato rieletto a larghissima maggioranza segretario del Partito socialista italiano. Nencini potrà contare su 259 seggi nel Consiglio nazionale, mentre i due oppositori interni Bartolomei e Sollazzo ne avranno 33 a testa. «Dopo 20 anni un presidente del Consiglio ha partecipato al congresso del Psi: Letta da Vilnius è venuto direttamente a Venezia », ha detto Nencini. «Siamo stati leali e saremo leali. - ha aggiunto - Sono cinque i partiti che sostengono il Governo. Letta ha detto che ci sarà discontinuità nell'azione dell'esecutivo. Io mi fido di lui, Abbiamo ottime energie da mettere a disposizione: il Presidente del Consiglio scelga dove, come e quando».

l’Unità 2.12.13
Civati al sindaco: «Su Letta hai cambiato verso...»
Il deputato lombardo a Bologna risponde a un Fazio immaginario e apre agli elettori grillini
di Adriana Comaschi


BOLOGNA La 'gag' migliore Pippo Civati la sfoggia alle 19, quando sale sul palco dell'Estragon di Bologna gremito (un migliaio i posti nel tendone di questo spazio concerti) e si prende la ribalta tv che, dice, Fabio Fazio gli ha negato. Ed è così, con sullo sfondo la scenografia di “Che tempo che fa” e con un sapiente montaggio audio con le domande (fatte ad altri) di Fazio che il candidato alla segreteria Pd sferza il sindaco di Firenze, pur senza mai citarlo: «Se vinciamo noi (usa il plurale) cambiamo tutto il gruppo dirigente. Senza parlare di rottamazione. Che poi ho visto le liste del rottamatore, li ha candidati tutti (boato). I nostri dirigenti saranno quelli che avete conosciuto qui oggi. E li porterò fuori dal palazzo, in tutte le province d'Italia». Non è l’unico affondo nei confronti di Renzi: «Cambia ancora verso spiega a proposito del’intervista del sindaco a Repubblica e annuncia un ultimatum a Letta.Capisco bene che dopo il confronto televisivo Renzi sia preoccupato e cerchi di recuperare audience...»...
L'altro 'colpo' del giorno è per Grillo e il suo Vaffa-day. Con una postilla che però sa molto di voglia di dialogo con l'elettorato grillino: «Loro mi attaccano. Ma per me la migliore risposta al V. Day è invitare i grillini in una Italia nuova. Grillo usa toni sbagliati, funerei, ma molte delle cose che dice hanno un fondo di verità. E gli 8 milioni di voti del Movimento 5 stelle meritano rispetto, come lo meritiamo noi. Ma meritano anche risposte». Insomma se l'ex comico genovese è «funereo», «noi cerchiamo di essere vitali», affonda il candidato.
La sala si riempe nel pomeriggio, in attesa dell'intervento di Civati e della cena di autofinanziamento a 5 euro segue con attenzione, tifo e applausi da stadio anche i candidati e chi la campagna di Civati l'ha costruita dal basso. Pubblico trasversale per età, ventenni e trentenni abbondano e non solo per l'attesa del concerto di “Marta coi tubi” offerto alla città a fine giornata: tra birre e piercing sul fondo è tutto un capannello di discussione, tra le sedie tutto un twittare i passaggi più salienti degli interventi.
Il giudizio netto sulle larghe intese è come sempre netto: «Anche dopo la decadenza di Berlusconi questo esecutivo è più o meno lo stesso commenta Civati -, è un governo di minoranza nel Paese». Ma è il senatore Felice Casson a scaldare gli animi quando dal palco accusa, «hanno salvato Alfano e la Cancellieri e noi non vogliamo questa gente, che non c'entra con la sinistra. Attenzione, dalle larghe intese siamo scivolati a una situazione ambigua e forse più pericolosa: abbiamo un problema di scorie. Come Schifani, Sacconi, Quagliarello, il ministro Mauro ( più welfare meno F35 è un must di vari interventi) , Giovanardi, Formigoni Cicchitto. Siamo in grado di formare una maggioranza, basta che ci liberiamo di queste scorie».
La necessità di scelte nette ritorna come un mantra. L'ex portavoce di Prodi, Sandra Zampa, ricorda che Civati «è scomodo, perché è coerente ed esige coerenza, che nel Pd non è di moda ma che in politica paga, la vicenda di Prodi l'ha dimostrato». Il nome del nume tutelare dell'Ulivo torna anche dal palco fittizio di “Che tempo che fa”, quando Civati risponde alla domanda di cosa farebbe nel primo giorno da segretario: «Il 9 dicembre porterei una tessera gold a Prodi, con scritto “101 free”. Quindi coinvolgerei Barca, Rodotà, Sel. E la sera andrei da Giuliano Amato: è un costituzionalista, mi può spiegare se può rinunciare ironizza Civati a due delle sue tre pensioni, o se è illegale come dice qualcuno». Poi quello che è stato definito l'outsider delle primarie esce dalla finzione e si rivolge direttamente al conduttore tv: «Ci siamo rimasti male di non essere stati invitati a differenza di Cuperlo e Renzi, oggi è l'1 dicembre si vota l'8 e non credo avremo occasione di farlo. Avete il diritto di invitare chi volete, lo rispetto e apprezzo tanto il vostro programma da averlo voluto riprodurre. Ma contesta Civati strappando un applauso chi è di sinistra dà a a tutti pari opportunità».

Corriere 2.12.13
Pippo Civati, Prodi e la carica sui 101
di Pierluigi Battista


La promessa di Pippo Civati di voler scovare i 101 del Pd che ad aprile hanno tradito Romano Prodi con il voto segreto conferma la leggenda di una grande ingiustizia e di un vulnus che quel giorno avrebbe deturpato l’immagine del Pd. Ci sono però tantissime ragioni, che ovviamente prescindono dalla indiscussa stima per la persona di Prodi, in grado di spiegare che la sua elezione al Quirinale non sarebbe stata necessariamente una festa della democrazia.
Prima ragione: anche ammesso che i 101 fedifraghi avessero compattamente scritto il nome di Prodi sulla scheda, i voti raggiunti sarebbero stati 496 (Pd più Sel), nove di meno dei 504 necessari all’elezione. Questo vuol dire che Prodi sarebbe stato eletto solo e soltanto grazie al «tradimento» di almeno otto grandi elettori. I «tradimenti» buoni sono solo quelli degli altri? Forse che Civati avrebbe considerato una giornata luminosa della democrazia quella che, a parti rovesciate, viene invece ricordata come una pagina buia? Seconda ragione: la premessa dell’affaire Prodi è stata la brutale e fratricida defenestrazione di un autorevole esponente del Pd, affondato con un’aggressività e un’acrimonia davvero inusitate all’interno di uno stesso partito. Siamo sicuri che l’antefatto del «tradimento» non sia stato questo violento strappo? Terza ragione: cercare «larghe intese» per il Quirinale non è un «inciucio», come vuole la vulgata dettata dal fanatismo che pervade il nostro discorso pubblico, ma è richiesto dalla stessa natura del Capo dello Stato come garante dell’unità nazionale e custode della Costituzione. Carlo Azeglio Ciampi fu eletto da una vasta maggioranza che non si identificava con quella di governo. E fu un bene. Bersani aveva proposto agli avversari del Pdl una rosa di nomi: non era un cedimento, ma l’attuazione di un elementare principio sancito dalla nostra Costituzione. La prima grande ingiustizia è stata l’impallinamento di Marini e la conseguente disgregazione del Pd.
Quarta ragione. Pd e Sel hanno ricevuto il voto di appena il 30 per cento degli elettori e solo in virtù del vituperato Porcellum la loro rappresentanza parlamentare si è gonfiata a dismisura. Che diritto avevano di imporre con un atto di forza il presidente della Repubblica due partiti così «minoritari»? Quinta ragione. Prodi era un candidato di «rottura». La sua elezione avrebbe provocato tensioni politiche fortissime. Con un sovrumano sforzo di immaginazione Civati dovrebbe intuire cosa avrebbe provocato nel suo mondo, a parti invertite e con solo uno 0,4 di differenza nelle urne, l’eventuale proposta di Berlusconi capo dello Stato. Ecco, per la destra Prodi viene vissuto nello stesso modo: è un delitto politico? Sesta ragione: il nome di Prodi non è stato votato, ma solo «acclamato»: siamo sicuri che l’acclamazione sbrigativa sia una forma di suprema decisione democratica? Il voto segreto per eleggere il capo dello Stato sì, lo è, e per questo fu scelto dai Padri Costituenti. Ben più di 101.

Corriere 2.12.13
Pagnoncelli
«Primarie strumento logorato Il calo ci sarà»
di Anna Gandolfi


Due giorni dopo il confronto tv fra i candidati alle primarie del Pd, il termometro dell’affluenza stimata al voto di domenica rilancia segnali negativi. Tanto che anche Matteo Renzi lascia trasparire timori per l’effetto-flop: «Se pure si presentassero 1,5 milioni di persone sarebbe un successo…». Ma la cifra è ben al di sotto dei risultati del 2012, quando — in gioco anche la premiership — i votanti superarono i 3 milioni. Anche il ricercatore Nando Pagnoncelli, alla guida di Ipsos, conferma le avvisaglie, aggiungendo però che «bisogna interrogarsi sullo strumento stesso delle primarie, perché appare piuttosto logorato». A dare un chiaro segnale di frenata era stato il faccia a faccia tv, con metà di spettatori rispetto a quello dell’anno scorso. «Ed era prevedibile — commenta Pagnoncelli —, perché il rapporto fra elettori e politica negli ultimi anni è andato peggiorando. L’erosione di interesse non risparmia le primarie». Stimare la partecipazione di domenica «è rischioso», ma i sondaggi sono sondaggi: «Stiamo indagando l’intenzione di recarsi alle urne, ma pure l’interesse effettivo verso la consultazione: il primo elemento, nelle dichiarazioni, è alto; il secondo molto più basso che in passato. Ciò rende probabile il calo di presenze rispetto al voto interno del 2012, ma pure del 2009». E se la disaffezione generale non risparmia alcun partito, nel Pd c’è un problema specifico: «Probabilmente — riflette il ricercatore — proprio lo strumento delle primarie è usurato, ha perso freschezza. Questo è un partito che nasce nel 2007 e già si appresta ad avere il quinto segretario: gli elettori sono forse disillusi. Minore interesse potrebbe poi derivare dal fatto che la vittoria di Renzi sia data quasi per scontata, che non abbiamo elezioni imminenti e il governo è guidato da un esponente pd». Sullo sfondo, il contraccolpo delle urne vuote sul segretario incoronato. E anche se, conclude il numero uno di Ipsos, «la minore affluenza non sarà delegittimante, non dovrà essere sottovalutata. Il Pd dovrà interrogarsi sia sull’utilizzo delle primarie, sia sulla progettualità che il partito dovrà essere in grado di esprimere».

il Fatto 2.12.13
Gianroberto Casaleggio: “Orgoglioso di essere un populista”

Non è stato un lungo intervento sul palco quello di Gianroberto Casaleggio: “Sono orgoglioso di essere un populista e di essere insieme a decine di migliaia di populisti - ha detto - il potere deve tornare al popolo, le persone nelle istituzioni devono servire il popolo, non possono essere sopra la volontà popolare. Stiamo cercando di introdurre nuovi strumenti di democrazia diretta. La democrazia in questo Paese è inesistente, viviamo in un Paese in cui i referendum non vengono accolti, vengono deviati, il loro significato viene annullato, abbiamo delle leggi popolari che non vengono discusse in parlamento”.

La Stampa 2.12.13
E tra gli eletti del movimento cresce il fastidio per il guru
L’imprenditore lombardo definito «questo individuo» nelle conversazioni
di Andrea Malaguti


Gli piacciono i condottieri. Li adora. Soprattutto Gengis Khan e Napoleone. Solo che quelli stavano in prima linea. Mentre lui, Gianroberto Casaleggio, preferisce l’ombra. La seconda fila. La dissolvenza. «Ci sono». «Sparisco». «Riappaio». Convinto che la distanza accresca il carisma. Dunque il potere. La forza. Ma quanta ne ha davvero, di forza, il
Guru del Movimento 5 Stelle? Esisterebbe senza l’energia contagiosa, superficiale e sgangheratamente rivoluzionaria di Beppe Grillo? E quanti sono i parlamentari che hanno smesso di guardarlo come se fosse in grado di distribuire miracoli? Sarebbe bello chiederglielo, anche adesso, qui, a Genova, mentre con un plotone di guardie del corpo che spingono come dannati e guardano in cagnesco chiunque osi avvicinarsi al suo divino capello spiovente, attraversa piazza della Vittoria come se fosse un’ispezione militare, sussurrando frasi di saluto agli attivisti che provano inutilmente ad avvicinarsi. E sarebbe bello domandargli che cosa pensi della mail inviata da un «suo» deputato ai colleghi la settimana scorsa.
Una lettera nata dopo uno scontro verbale con il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio proprio sul ruolo del Guru nel Movimento. Che cosa dice la mail? Testualmente. «Ora mi è definitivamente chiaro che c’è nel nostro gruppo qualcuno che è convinto di avere un rapporto, un legame e forse anche un debito di riconoscenza, nei confronti del signor
Gianroberto Casaleggio. E sta cercando di legittimare questo individuo come una sorta di leader, un saggio, quasi un padre». Con disprezzo. «Questo individuo». Lo stesso a cui Grillo porge il microfono alle cinque del pomeriggio e che nei trenta secondi dedicati alla folla (mica può perdere tempo, lui) cita Marco Aurelio «Chi non è utile per l’alveare non lo è neanche per l’ape» e invoca «potere per il popolo». Un dio minore, un genio del male o il Creatore di ogni cosa?
Ai piedi del palco c’è il senatore Orellana, un altro che, in compagnia di venti colleghi di Palazzo Madama, ha smesso di guardare Casaleggio con complicità. E che valuta il suo fulmineo intervento con stupore, come se quell’indecifrabile cinquantanovenne lombardo avesse azionato una minuscola leva nell’universo e in quel luogo preciso, per pochi istanti, avesse costretto la natura e il tempo a procedere a rovescio. Siamo una democrazia orizzontale o verticale? Comandi tu o noi tutti? Orellana il dubbio ce l’ha. E del resto conosce bene la mail del collega della Camera. Anche la parte in cui dice: «Sono mesi che viene infilato nei discorsi il nome di Gianroberto Casaleggio e della sua azienda. Io nella mia vita non ho mai avuto rapporti con imprenditori, potenti, lobby o massoni, e non ho mai avuto bisogno di avere rapporti o di legarmi in alcun modo con il signor Casaleggio». Massoni. Lobby. Potenti. E Casaleggio. Nella stessa durissima frase. Qual è stata la reazione del gruppo? La solita. Fastidio e indifferenza. Come avrebbe detto John Fante: «era un problema degno della massima attenzione. Lo risolsero spegnendo la luce e andandosene a letto». Favoloso. A che ora è la fine del mondo?

il Fatto 2.12.13
Negati i risarcimenti
Vittime del terrorismo tagliate dal Governo
di David Marceddu e Giulia Zaccariello


Il buio la risucchia quando ha da poco compiuto 20 anni e non la abbandona più. In un giorno d'estate che da quel momento non sarebbe stato mai più solo una data sul calendario. Due agosto 1980: Marina Gamberini lavora alla Cigar, in un ufficio sopra la sala d'aspetto della stazione di Bologna. “Non ricordo l'esplosione e nemmeno la polvere. Ho alcuni flash della sera prima e poi dell'oscurità arrivata all'improvviso. Sono rimasta sotto le macerie per oltre un'ora, prima che mi trovassero grazie alle indicazioni di mio padre”. Il resto è storia, immortalato per sempre in quella foto simbolo che la ritrae sulla barella con gli occhi e la bocca spalancati, mentre tutt'intorno c'è l'inferno. “Quell'immagine per me è sempre stata un problema: la vedo e riprovo quello che ho vissuto in quel momento”. Sono passati 33 anni da quella carneficina che si portò via 85 persone. E ne ferì altre 200, condannandole a convivere con le cicatrici e con i fantasmi di quella mattina. Anche davanti a loro il ministro Graziano Delrio, durante l'ultima commemorazione, aveva garantito i risarcimenti per la strage: “Al massimo in poche settimane risolveremo questa questione”. E invece di mesi ne sono passati quattro e del provvedimento non c'è traccia. Il problema rimane la mancata applicazione della legge 206 del 2004, che regola i benefici economici e fiscali riservati delle persone vittime di atti di terrorismo. E ai loro familiari, perché spesso quando sei costretto a convivere con l'abisso finisci per trascinare dentro anche quelli che ti stanno accanto. Marina Gamberini lo sa: “Non è vero che le esperienze se non ti uccidono ti rafforzano. Questa è una cosa che ti devasta. E poi devi passare il resto della tua vita a ricostruire”.
LEI CI HA PROVATO a rimettere insieme i cocci, come poteva, ma le crepe sono rimaste. “Ho preso psicofarmaci per un anno e mezzo, poi sono andata avanti con una terapia per cercare di placare l'angoscia. Anche il rumore dei fuochi d'artificio a capodanno ti può mandare nel panico. La cosa peggiore sono i sensi di colpa che provo pensando che io ci sono e le mie colleghe di scrivania invece no. Guardo il volto dei loro figli e vorrei fare chissà cosa per aiutarli, perché hanno subito un'ingiustizia così grande che non c'è risarcimento possibile”. E allora l'unico antidoto rimane la memoria, che a Bologna non vuole dire solo corone e gonfaloni. Vuol dire una città intera, giovani e vecchi, che scende in strada e guarda in faccia il proprio passato con l'orgoglio di un'identità ferita. “Sono sicura che, anche se un giorno abolissero la manifestazione del 2 agosto, la gente si ritroverebbe comunque in piazza. Sarà lì per dirti di non chiudere il libro, di andare avanti a ricordare anche se fa male, perché è giusto così”. Quelli come Gamberini sono centinaia in tutti Italia: Bologna, piazza Fontana, piazza della Loggia, l'Italicus. Persone entrate nella storia senza che nessuno abbia chiesto loro il permesso. Vittime e superstiti di bombe o di pallottole sparate alle spalle o alle gambe, di stragi o di attentati individuali. Scaraventate da un giorno all'altro in una guerra senza fine. Lo Stato ci ha messo oltre trent'anni per approvare una legge che riconosca i loro diritti. Ma oggi ancora non è applicata a tutti. E nonostante le promesse arrivate puntuali a ogni anniversario, il Senato, qualche giorno fa, con una mano ha approvato la manovra e con l'altra ha cancellato il maxi-emendamento che avrebbe reso la norma per i parenti delle vittime pienamente operativa. Un ultimo schiaffo. “Da quando la 206 è stata approvata, abbiamo sempre lamentato un'interpretazione restrittiva da parte degli enti pensionistici nel riconoscimento dei benefici”, denuncia Roberto Della Rocca, vicepresidente dell'Aiviter, associazione che unisce le vittime di terrorismo. “Ci sono persone che ancora oggi sono in attesa dei contributi pensionistici”. I casi sono tanti: c'è chi combatte contro la burocrazia perché al momento dell'attentato non era ancora maggiorenne, e chi invece non si vede riconosciuta l'anzianità prevista dalla legge. Come è successo alla moglie di un ferito della strage di Fiumicino del 1985, che preferisce non rivelare il nome. Dopo una vita passata ad assistere il marito, condividendo paure e incubi, le è stato negato il contributo previsto per i coniugi, perché non ancora sposata al momento dell'attentato: “Dopo la bomba mio marito è diventato un'altra persona. Soffriva di disturbi post traumatici da stress. Una sindrome che in Italia, all'epoca, nemmeno si conosceva. Ma a noi ha rovinato l'esistenza. Io ho dovuto lasciare il lavoro: ero devastata”. Antonio Calabrò invece è un sopravvissuto, di quelli rimasti per ore nel limbo tra la vita e la morte. Il 23 dicembre 1984 si trova sul Rapido 904, che da Napoli corre verso Milano, carico di viaggiatori diretti al nord per passare il Natale con amici e parenti. Alle 19.08, all'altezza di San Benedetto Val di Sambro, sull'appennino bolognese, una carica di esplosivo fa saltare la nona carrozza. È la più sanguinosa strage di Cosa nostra: 17 morti e 267 feriti. “Mi risvegliai sotto le macerie, avevo gli occhi serrati per il calore dell'esplosione. Non vedevo niente, ma i lamenti sì, li sentivo, come dei dannati che gridavano aiuto”.
NE ESCE VIVO, MA con ustioni di terzo grado su oltre la metà del corpo, un edema polmonare, un trauma cranico, la giugulare rotta e il rischio di setticemie per le ferite infette. “All'epoca avevo 22 anni, ero ancora studente universitario e non avevo mai aperto una posizione Inps. Così, nonostante oggi abbia raggiunto un'invalidità dell'80%, non posso ancora andare in pensione”. Ora, dopo gli annunci rimasti solo sui giornali, l'ultima possibilità per risolvere il caso di Calabrò e delle altre decine di persone in attesa da troppo tempo spetta alla Camera. Paolo Bolognesi, deputato Pd e presidente dell'Associazione tra i familiari delle vittime della strage di Bologna, ha già promesso che ripresenterà l'emendamento. “Se me lo respingono non voto la fiducia. Gli impegni vanno mantenuti”.

Corriere 2.12.13
Nuovo crollo a Pompei
Cede muro in via Stabiana


Nuovi crolli a Pompei dove ieri è caduto prima il muro di una bottega di via Stabiana, poi una parte di intonaco della Casa della Fontana piccola. I danni sono stati segnalati dalla Sovrintendenza Speciale dei Beni archeologici di Napoli e Pompei. Seguono quelli avvenuti soltanto pochi giorni fa, lo scorso 24 novembre, quando erano caduti alcuni stucchi di diverse Domus e si erano aperti squarci nelle mura delle Terme. Il degrado non si ferma nonostante il «Grande Progetto Pompei», il piano da 105 milioni di euro finanziato in parte dall’Unione Europea dopo le polemiche per l’incuria del sito archeologico. Il 6 novembre 2010 le immagini della distruzione della Domus dei Gladiatori a causa delle infiltrazioni d’acqua avevano fatto il giro del mondo. I lavori di ripristino degli edifici danneggiati ieri, assicura la Sovrintendenza, partiranno con urgenza a metà dicembre: è stata programmata la messa in sicurezza di tutte le murature della Regio VII del sito. Nel frattempo, a seguito delle decisioni prese con il decreto «Valore cultura», il ministero fa sapere che nominerà nei prossimi giorni la squadra guidata da un direttore generale del Grande Progetto Pompei.

Repubblica 2.12.13
Come convivere (a lungo) con la depressione economica
di Paul Krugman


Se trascorreste un po’ di tempo in compagnia dei funzionari monetari vi accorgereste di sentirli parlare spesso di “normalizzazione”. La maggior parte di tali funzionari, non tutti in verità, ammette che questo non è proprio il momento di essere spilorci, che per adesso il credito deve essere facilmente accessibile e i tassi di interesse devono essere bassi. Eppure, questi stessi uomini in completo scuro non vedono l’ora che arrivi il giorno in cui potranno tornare ai loro affari di sempre, e ad agguantare la ciotola del punch non appena la festa entra nel vivo.
E se invece il mondo nel quale stiamo vivendo da cinque anni a questa parte fosse la nuova norma-lità? E se le condizioni di depressione del momento fossero destinate a durare non un anno o due soltanto, ma decenni?
Si potrebbe supporre che le congetture di questo tipo siano di pertinenza di una frangia radicale. In verità, radicali lo sono sul serio. Ma frange mica tanto. Molti economisti si stanno trastullando con queste idee già da qualche tempo. E adesso diventano mainstream. In realtà, le argomentazioni a favore di una “stagnazione secolare” — una condizione persistente nella quale l’economia depressa è la norma, con episodi rari e sporadici di piena occupazione — sono state presentate di recente con grande foga in uno dei consessi più rispettabili che si possano concepire: la grande conferenza annuale del Fondo monetario internazionale. A illustrare queste argomentazioni è stato niente meno che Larry Summers. Esatto, quel Larry Summers [Ex segretario del Tesoro degli Stati Uniti, ex direttore del Consiglio Economico Nazionale, insignito di numerosi premi,
ndt] Se Summers ha ragione, tutto ciò che tante persone rispettabili stanno dicendo in tema di politica economica è sbagliato, e continuerà a essere sbagliato per molto tempo a venire. Summers ha esordito sottolineando un punto che dovrebbe essere ovvio, ma di cui di fatto spesso non si tiene conto: la crisi finanziaria che ha avuto inizio con la Grande Recessione è ormai acqua passata. In verità, in base alla maggior parte degli indicatori, è finita oltre quattro anni fa. Nonostante ciò, la nostra economia continua a essere depressa.
Summers ha poi illustrato un altro punto collegato a quello: prima della crisi abbiamo avuto una grossa bolla immobiliare e del debito. Eppure, nonostante quella grossa bolla abbia incrementato notevolmente la spesa, l’economia nel suo complesso andava soltanto così e così: il mercato del lavoro era ok, ma non eccellente. E il boom non è mai stato potente a tal punto da determinare una significativa pressione inflazionistica.
Summers ha proseguito poi tirando la morale di quanto aveva illustrato. Noi, ha suggerito, abbiamo un’economia la cui condizione normale è di domanda inadeguata — quanto meno è di lieve depressione — e riesce ad avvicinarsi soltanto un po’ alla piena occupazione quando è trainata dalle bolle.
Aggiungerei dal canto mio qualche ulteriore dato. Si pensi all’indebitamento delle famiglie rispetto al loro reddito. Quel rapporto dal 1960 al 1985 è rimasto più o meno stabile, mentre è andato aumentando rapidamente e inesorabilmente dal 1985 al 2007, quando lacrisi ha colpito. Eppure, perfino quando le famiglie sprofondavano nei debiti, nel complesso la performance della nostra economia in quel periodo è rimasta mediocre nel migliore dei casi, e la domanda non ha dato segni di andare oltre l’offerta. Se guardiamo al futuro, ovviamente sappiamo di non poter tornare indietro ai tempi di un indebitamento in costante aumento. Tuttavia, ciò significa una più debole domanda dei consumi. Senza quest’ultima, come si immagina di poter tornare alla piena occupazione?
Di nuovo, l’evidenza suggerisce che noi abbiamo un’economia la cui condizione normale è di lieve depressione, e i cui brevi momenti di crescita si verificano soltanto grazie alle bolle e a un indebitamento insostenibile.
Perché mai accade ciò? Una delle risposte possibili è la lenta crescita della popolazione. Se la popolazione aumenta, aumenta di conseguenza la domanda di case nuove, di edifici nuovi, di uffici nuovi, e così via. Quando tale crescita rallenta, la domanda cade. Negli anni Sessanta e Settanta, quando i baby boomer crescevano, la popolazione americana in età da lavoro aumentò rapidamente, e la forza lavoro crebbe ancor più velocemente quando le donne fecero il loro ingresso nel mercato del lavoro. Ormai, però, tutto ciò appartiene al passato. E gli effetti sono evidenti: perfino all’apice della bolla immobiliare non abbiamo costruito neppure lontanamente il numero di case che furono costruite negli anni Settanta.
Altro possibile fattore importante di cui si dovrebbe tener conto è quello dei continui deficit commerciali, apparsi negli anniOttanta e che da allora hanno subito sì qualche fluttuazione, ma senza mai scomparire del tutto.
Perché tutto ciò dovrebbe essere importante? Uno dei motivi è che i banchieri centrali devono smettere di parlare di “exit strategy”. L’“easy money”, il denaro facile, dovrebbe restare con noi — e probabilmente resterà — per molto tempo ancora. Ciò a sua volta significa che possiamo tranquillamente fregarcene di tutte quelle storie da paura sull’indebitamento pubblico, riassumibili nella frase: «Non sarà un problema adesso, ma aspetta che si alzino i tassi di interesse!». Più in generale, se la nostra economia ha una tendenza costante alla depressione, vivremo sotto le regole contrarie dell’economia della depressione — nella quale la virtù è un vizio e la prudenza è follia, nella quale i tentativi di risparmiare di più (compresi i tentativi di ridurre i deficit di bilancio) fanno stare peggio tutti quanti — per molto, molto tempo.
So che molte persone detestano sentir parlare di queste cose, che colpiscono il loro senso di onestà, offendono il loro stesso senso etico. Si presume infatti che l’economia consista nel fare scelte difficili (a spese degli altri, naturalmente); non che consista nel persuadere la gente a spendere di più.
Ma, come ha detto Summers, la crisi «non è finita finché non sarà finita ». E la realtà economica è quella che è. E ciò che quella realtà sembra essere in questo preciso momento è una realtà nella quale le regole della depressione varranno per molto, molto tempo.
Traduzione di Anna Bissanti © New York Times 2013

Corriere 2.12.13
Parto forzato, la neonata ai servizi sociali
La decisione dei giudici britannici sul caso di un’italiana con disturbi bipolari
di Paola De Carolis


LONDRA — Una donna bipolare al nono mese di gravidanza che in seguito a una crisi viene ricoverata in un ospedale psichiatrico, privata della sua bambina e rispedita in Italia. La storia, che risale a 15 mesi fa, è stata raccontata ieri dai giornali britannici con un particolare che ha tutti gli ingredienti di un incubo: il parto non sarebbe stato naturale, bensì un cesareo ordinato da un giudice britannico per la protezione dei minori ed effettuato senza il consenso della donna.
La protagonista della vicenda, il cui nome non è stato diffuso, si è mossa per vie legali per riavere la figlia. A febbraio, stando alla ricostruzione dei giornali britannici, si è presentata al tribunale di Chelmford, nell’Essex, per rivendicare i suoi diritti sottolineando di essere in cura da un medico e di aver ricominciato a prendere i medicinali appropriati. Il tribunale ha disposto invece che la bambina rimanesse in affidamento in Inghilterra e data in adozione al più presto in quanto le condizioni della madre non sarebbero sufficientemente stabili.
Il caso adesso è stato raccolto da John Hemming, un deputato liberal-democratico che lo porterà questa settimana all’attenzione della Camera dei Comuni. «Questa donna — ha detto il parlamentare — non è stata trattata come un essere umano. Credo che sia il peggior caso di abuso dei diritti umani che ho mai visto».
Per l’avvocato britannico dell’italiana, Brendan Fleming, si tratta di un caso «senza precedenti». «In 40 anni di carriera non ho mai sentito nulla di simile», ha detto. «Se c’erano dubbi sulla cura di questa bambina, allora perché non è stata affidata ai servizi sociali italiani? Non ha senso». Il console italiano a Londra Massimiliano Mazzanti ha sottolineato che «si tratta di un caso di cui il consolato generale a Londra era a conoscenza e che sta seguendo». Mazzanti ha precisato che lo scorso agosto la signora era tornata in Italia senza attivare le autorità consolari e che erano stati i servizi sociali dell’Essex a informarli dell’accaduto. «Più che una vicenda reale sembra un film dell’orrore», commenta Fabio Roia, presidente di sezione al Tribunale di Milano. «È stato violato il diritto alla tutela della salute di una paziente».
Shami Chakrabarti, direttrice di Liberty, l’associazione per la difesa dei diritti umani, auspica che dietro i fatti raccontati dai giornali «ci sia altro, perché così come è stata presentata questa è una vicenda che appartiene a una distopia da romanzo di science fiction , non a una democrazia come la nostra». Sicuramente si tratta di una storia in cui molti particolari rimangono da appurare. La donna in questione si trovava in un albergo di Stansted quando è stata sopraffatta dalla malattia. Era in Inghilterra per un corso di aggiornamento con Ryanair . Avrebbe allertato lei stessa la polizia che a sua volta ha chiamato i servizi sociali. Gli addetti al caso sarebbero riusciti a contattare la madre della malata per telefono, che avrebbe spiegato loro le condizioni della figlia ed espresso il timore che la crisi fosse stata provocata dalla mancanza dei medicinali. Sembra inoltre che la donna avesse avuto due figli dal marito americano che, in seguito a una perizia psichiatrica ha ottenuto, con il divorzio, l’affidamento dei bambini.
Per Hemming i precedenti hanno poca importanza. «Il fatto che una donna possa essere sottoposta a un cesareo senza esserne cosciente e senza dare il consenso è inaccettabile. Questo è un caso che mostra chiaramente il tipo di abuso di potere al quale sono soggetti i nostri tribunali delle famiglie e la mancanza di trasparenza da parte dei servizi sociali».

Repubblica 2.12.13
“L’italiana è pazza”, un cesareo forzato poi la neonata viene data in adozione
Londra, ora accusa i servizi sociali: “Rivoglio mia figlia”
di Enrico Franceschini


LONDRA — Le hanno portato via la figlia dal grembo, con un parto cesareo, dopo averla addormentata con l’anestetico. Una banda di rapitori senza cuore? No, i servizi sociali britannici, su ordine della magistratura di Londra. Vittima di questo caso legale “senza precedenti” - secondo quanto raccontato ieri in due articoli dal
Sunday Telegraph - è un’italiana venuta a fare un corso di addestramento nel Regno Unito.
La vicenda è avvolta da dettagli ancora poco chiari, nonostante il giornale affermi di averla verificata con tre diversi avvocati: nell’estate 2012 la donna, la cui identità non può venire rivelata per ragioni legali, era a Londra per partecipare a un corso di addestramento all’aeroporto londinese di Stansted, quartier generale della Ryan Air. Sofferente di bipolarismo, disturbo maniaco-depressivo caratterizzato da un’alternanza tra euforia e depressione, una sera, non avendo preso i medicinali con cui teneva sotto controllo la malattia, si è sentita male: a causare la crisi, rivela il giornale, sarebbe stato il fatto di non riuscire a trovare i passaporti delle due figlie, che erano rimaste in Italia con la nonna.
Dalla sua stanza d’albergo la signora ha chiamato la polizia: giunti in hotel, gli agenti - sempre secondo il racconto del giornale britannico - hanno parlato al telefono con la madre della donna, spiegando che si sarebbero rivolti ai servizi sociali per farla ricoverare e controllarne lo stato di salute. Una volta in ospedale però, la signora ha scoperto di essere praticamente in stato di detenzione in un reparto psichiatrico: nei casi di instabilità mentale la legge britannica prevede che una persona possa essere trattenuta per evitare che si faccia del male. Così la signora ha trascorso cinque settimane, fino a quando una mattina non è stata sedata e - senza essere stata avvertita sottoposta a un cesareo, al termine del quale la bambina appena nata è stata affidata ai servizi sociali inglesi per essere data in adozione, vista l’incapacità della donna di prendersene cura.
Svegliatasi, la signora avrebbe chiesto di riavere la neonata e dopo vari rifiuti sarebbe rientrata in Italia, dove avrebbe iniziato una battaglia legale: tornata in Gran Bretagna a più riprese si sarebbe rivolta ai giudici per riavere la figlia - che oggi ha 15 mesi - ma finora senza risultati. L’ultimo magistrato ha ammesso che, una volta ripresi i medicinali, la signora sta meglio e ha espresso un parere «favorevole » sulle sue condizioni, ma ha lo stesso rifiutato di assegnarle la figlia, sostenendo che poteva ricadere nello stato di depressione mentale.
La storia però lascia spazio a diversi interrogativi: perché nella vicenda non ha avuto un ruolo il padre della bambina, un americano da cui la donna è separata ma da cui ha già avuto un’altra figlia? L’uomo si sarebbe offerto di prendersi cura della piccola insieme alla sorella. E dove era la famiglia italiana nelle cinque settimane di permanenza in ospedale? Difficile al momento trovare risposte: il consolato italiano sottolinea però che la donna non ha chiesto assistenza alle autorità consolari.
«In 40 anni di carriera in questioni di diritto di famiglia nonho mai avuto a che fare con un caso del genere», spiega Brendan Fleming, l’avvocato inglese che rappresenta la madre. «La prima domanda da porsi è perché non sia stata fatta rientrare in Italia mentre era incinta», commenta il deputato liberaldemocratico John Hemming, preannunciando un’interrogazione in parlamento.
La vicenda rischia di aprire un conflitto giudiziario tra Italia e Gran Bretagna. Infatti la donna si è rivolta al tribunale di Roma, che ha chiesto alle autorità britanniche perché i servizi sociali siano intervenuti nei confronti di una cittadina italiana «abitualmente residente» nel nostro paese. Il giudice italiano, tuttavia, avrebbe poi riconosciuto che il tribunale britannico aveva giurisdizione sulla donna, giudicata «incapace» di dare istruzioni ai suoi avvocati nel momento del fatto.
Un esperto inglese in diritto di famiglia ha dichiarato alSunday Telegraph che la giustizia britannica si è comportata in modo «altamente insolito».

Corriere 2.12.13
Il «Fronte di sinistra» in marcia per una «rivoluzione fiscale»

Una marcia per la «rivoluzione fiscale». Dietro lo striscione «tassare il capitale, no all’aumento dell’Iva» hanno sfilato, ieri a Parigi, migliaia di persone. Il corteo è stato lanciato dal Front de gauche di Jean-Luc Mélenchon. La richiesta principale è che il governo rinunci all’incremento dell’imposta. Il valore simbolico della marcia è rivendicare a sinistra la battaglia sulle tasse. (Afp )

l’Unità 2.12.13
Saeb Erekat. il capo negoziatore dell’Anp sul bilaterale con il governo di Gerusalemme:
«La pace è possibile solo se si fermano gli insediamenti»
«L’Italia dica no alle colonie israeliane»
intervista di Umberto De Giovannangeli


«Il popolo italiano ha sempre dimostrato sensibilità e vicinanza al popolo palestinese e alla nostra battaglia di libertà. Per questo all’Italia, al suo primo ministro, mi sento di lanciare un appello accorato che so non verrà lasciato cadere nel vuoto: la politica colonizzatrice di Israele sta distruggendo il processo di pace, rendendo di fatto impraticabile quella soluzione “due Stati” che pure è sempre evocata e sostenuta dall’Europa e dagli Stati Uniti. All’Italia chiediamo di schierarsi non contro qualcuno ma per qualcosa. Per una pace giusta, stabile in Palestina. Una pace tra pari». Nel giorno del bilaterale intergovernativo a Roma Italia-Israele, parla l’uomo che ha fatto la storia dei negoziati di pace israelo-palestinesi: Saeb Erekat, capo negoziatore dell’Anp.
Oggi a Roma ci sarà il blaterale Italia-Israele. Cosa si sente di chiedere in questo frangente al premier italiano Enrico Letta?
«Ciò che ci sentiamo di chiedere non è la luna ma di sostenere con forza quanti, nei due campi, continuano a battersi per una pace giusta, fondata su l’unica soluzione possibile...».
Qual è questa soluzione?
«Quella “due Stati per due popoli”. Noi palestinesi ci battiamo non contro lo Stato d’Israele ma per veder nascere al suo fianco uno Stato palestinese, pienamente sovrano sul proprio territorio. Ma il presidente Letta sa bene che contro questa soluzione va la politica di colonizzazione operata da Israele in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Pace e colonizzazione sono tra loro inconciliabili. Ciò che chiediamo all’Italia, all’Europa, è di sostenere un negoziato serio, fondato sulla legalità internazionale; un negoziato che abbia come sue basi le risoluzioni 242 e 338 delle Nazioni Unite, quelle che Israele continua a negare».
Ma il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, non nega l’opzione «due Stati». «A parole non la nega, ma nei fatti la rende impraticabile. Perchè non è pensabile realizzare uno Stato degno di questo nome su un territorio frammentato dagli insediamenti israeliani». L’Italia come le maggiori cancellerie europee e la Casa Bianca sono per un negoziato senza pregiudiziali.
«Su questo occorre la massima chiarezza: quando chiediamo uno stop totale degli insediamenti, non poniamo una “pregiudiziale” ma chiediamo che Israele rispetti accordi sottoscritti e le indicazioni contenute nella Road Map che, è bene ricordarlo, è stata definita da Onu, Stati Uniti, Russia ed Europa».
Il segretario di Stato Usa, John Kerry, si è detto convinto che sia possibile raggiungere un accordo entro nove mesi. «Vorrei condividere questa speranza ma perché essa si realizzi c’è bisogno di una volontà politica da parte chi si siede al tavolo del negoziato. Volontà pratica e non solo declamata. Non mi pare che gli atti compiuti dal governo israeliano vadano in questa direzione». Ciò significa che la dirigenza palestinese è pronta a imboccare altre strade, diverse da quella dipomatica?
«Abbiamo detto più volte che per noi la strategia del dialogo è una scelta strategica. Il punto è un altro: Israele s’illude se pensa di poter mantenere lo status quo. Nei Territori cresce rabbia e frustrazione per una pace che non mostra mai i suoi dividendi. Per ridare speranza occorre fermare le ruspe israeliane, migliorare le condizioni di vita della popolazione palestinese, in Cisgiordania e soprattutto nella Striscia di Gaza. Per ridare speranza occorre dimostrare che esiste davvero un’altra via tra rassegnazione e false scorciatoie militari». Il premier israeliano ha invitato il presidente dell’Anp, Mahmud Abbas (Abu Mazen) a parlare alla Knesset. Non è un gesto di apertura?
«Lo è se non nasconde secondi fini. Bene ha fatto il presidente Abbas a dare la sua disponibilità, a patto però che il suo intervento non sia “sotto dettatura”...».
Vale a dire?
«Netanyahu insiste sul fatto che il presidente Abbas dovrebbe riconoscere non lo Stato d’Israele, cosa che sia l’Anp che l’Olp hanno fatto da tempo, ma uno “Stato ebraico”. Ma questo vorrebbe dire cancellare l’esistenza di oltre un milione di arabi israeliani. Certe richieste non aiutano il dialogo, ma costruiscono pretesti per una rottura. È questo che vuole Netanyahu?».

l’Unità 2.12.13
Le ruspe contro il governo. Assedio al potere a Kiev
Centinaia di migliaia i manifestanti pro-Ue
Occupato il Comune, assalto alla presidenza: l’opposizione denuncia provocazioni per screditare la protesta
Il ministro dell’Interno: «Non siamo la Tunisia o la Libia. Reagiremo agli appelli al disordine»
di Marco Mongiello


BRUXELLES Sabato scorso la polizia ne ha picchiati un migliaio, ieri ne sono scesi in piazza centinaia di migliaia. A Kiev le proteste contro la scelta del governo di non firmare l’accordo di associazione con l’Unione europea e di restare nella zona di influenza russa stanno diventando una vera e propria rivolta di popolo. Ora l’autoritario presidente Viktor Yanukovich teme l’effetto primavera araba e promette di fare «tutto il possibile per accelerare il processo di avvicinamento del Paese all'Unione europea».
Gli scontri con le forze dell'ordine sono stati ancora più violenti dei giorni scorsi e hanno portato al ferimento di circa 100 agenti, oltre a molti partecipanti al corteo, e all’occupazione della sede del municipio. Sfidando il divieto di manifestare fino al 7 gennaio, ieri oltre 350mila persone sono scese per le strade della capitale ucraina marciando verso piazza dell’Indipendenza. Un fiume umano colorato dalle bandiere dell’Unione europea e dell’Ucraina. «Abbasso la gang», è stato lo slogan più gridato. È la più grande manifestazione dalla «rivoluzione arancione» che nove anni fa portò al potere Yulia Timoshenko. Lei, dal carcere dove è detenuta per una controversa condanna a sette anni, ha fatto arrivare la sua solidarietà ai manifestanti. «Sono contenta che ci siamo svegliati dopo un sonno di dieci anni», ha dichiarato. A Parigi cinque donne in topless del gruppo Femen, quattro ucraine e una francese, hanno urinato sulla foto del presidente Yanukovich davanti al portone dell'ambasciata ucraina.
IL «SOGNO RUBATO»
Le manifestazioni pro-Europa a Kiev vanno avanti da giorni, ma è nel week end che lo scontro con le autorità si è inaspettatamente trasformato in una rivolta. Tutto è iniziato venerdì quando a Vilnius, in Lituania, il summit Ue sul Partenariato orientale si è chiuso confermando la scelta di Kiev di non firmare l’accordo di associazione con l’Unione europea, che prevedeva riforme democratiche in cambio di aiuti economici. Tra le condizioni poste da Bruxelles c’era anche la liberazione di Yulia Timoshenko, che invece resta in carcere nonostante le cattive condizioni di salute. All’alba di sabato un migliaio di manifestanti che aveva deciso di passare la notte in piazza è stato sgombrato brutalmente dai reparti speciali delle forze dell'ordine. La reazione delle opposizioni è stata unanime: annuncio dello sciopero generale e mobilitazione di massa. «Ci hanno rubato il sogno ha detto alla folla Vitaly Klitschko, uno dei leader dell'opposizione Se il governo non vuole realizzare la volontà del popolo allora non ci sarà questo governo e non ci sarà questo presidente. Ci saranno un nuovo governo e un nuovo presidente».
Le opposizioni e la stessa Timoshenko hanno detto apertamente di puntare al rovesciamento delle autorità attraverso una rivolta non violenta. Ieri però, anche se gran parte del corteo di protesta è stato pacifico, un piccolo gruppo di giovani incappucciati ha tentato di sfondare con una ruspa il cordone della polizia davanti alla sede della presidenza. Arseny Yatsenyuk, ex ministro dell’economia e uno dei leader dell’opposizione, ha preso le distanze dagli incidenti, sostenendo che si è trattata di una provocazione orchestrata dall’esecutivo. «Sappiamo che il presidente vuole dichiarare lo stato di emergenza nel Paese», ha denunciato. Il ministro dell’Interno Vitaly Zakharchenko ha risposto con una nota minacciosa: «Non siamo la Tunisia o la Libia», cioè i Paesi della primavera araba in cui i regimi sono stati rovesciati dalle proteste. «Se ci sono appelli al disordine ha aggiunto risponderemo».
Il palazzo del presidente Yanukovich è stato difeso da una fila di autobus e dagli agenti che hanno utilizzato gas lacrimogeni e granate stordenti. Oltre al pugno duro della repressione però l’esecutivo tenta allo stesso tempo di calmare le proteste con le promesse.
In un comunicato Yanukovich ha assicurato di non voler mettere in discussione il processo di avvicinamento del Paese all’Unione europea, cercando di giustificare la mancata firma dell’accordo al vertice di Vilnius. «L’Ucraina ha fatto la sua scelta geopolitica ha spiegato nella nota noi siamo un popolo europeo e il nostro cammino è stato determinato storicamente. Ma allo stesso tempo, secondo la mia profonda convinzione, il nostro governo dovrebbe associarsi alle nazioni europee come un partner alla pari per essere rispettato».
In realtà dietro la scelta del governo c’è soprattutto la pressione di Mosca, esercitata con promesse e minacce di rappresaglie economiche. Ieri il premier Mykola Azarov ha annunciato che nei prossimi giorni Yanukovich, dopo un breve viaggio in Cina, si recherà a Mosca per «firmare una roadmap sulla cooperazione» con la Russia.

Corriere 2.12.13
Il gioco fra autocrati sull’Ucraina disturbato dal Fattore Democrazia
di Luigi Ippolito


Aveva calcolato tutto: le minacce verbali; gli incontri segreti; le pressioni economiche. Fino al risultato finale: la rinuncia da parte dell’Ucraina a firmare l’accordo di associazione con l’Unione Europea.
Ma questo no, il presidente russo Vladimir Putin non l’aveva proprio messo in conto: la sollevazione del popolo ucraino contro un futuro da vassalli di Mosca. Anche la leadership politica di Kiev è stata presa alla sprovvista: il presidente Yanukovich è un burocrate sovietico poco abituato a tenere in conto l’opinione pubblica. E dunque si è piegato al ricatto del Cremlino convinto che l’avrebbe passata liscia ancora una volta.
Ma l’Ucraina ha alle spalle una storia che è difficile ridurre a quella di «marca di frontiera» dell’impero russo. Fino a quando ha retto la camicia di forza dell’Unione Sovietica, Kiev ha recitato la parte di periferia di Mosca. Ma non appena le sbarre della gabbia si sono allentate, già con la dichiarazione di indipendenza del 1991, è riemerso il mai sopito retaggio europeo.
Dopotutto la parte occidentale dell’Ucraina, fra il ‘500 e il ‘700, era stata nel Granducato di Lituania prima e nel Regno di Polonia poi. E la Galizia, la regione di Lviv (ossia Leopoli), fino alla Prima Guerra Mondiale era una provincia dell’Impero absburgico.
È vero, le regioni orientali, quelle del Donbass e di Kharkiv, sono sempre state nell’orbita di Mosca e l’unica lingua parlata da quelle parti è il russo. Ma l’Ucraina ha una doppia anima e una delle due è sempre stata rivolta verso Occidente. Lo si era visto nel 2004, quando le elezioni truccate (da Yanukovich) avevano scatenato la Rivoluzione arancione, con le sue richieste di democrazia e integrazione europea. Negli anni a seguire quelle spinte sembravano essere state sopite, tanto che il sempreverde Yanu-kovich era riuscito a tornare al potere sconfiggendo la pasionaria arancione Yulia Tymoshenko.
Ma ora che l’Ucraina si è ritrovata a una biforcazione della storia, il popolo è tornato a dire la sua. E si è rimesso in marcia: puntando dritto verso l’Europa.

Repubblica 2.12.13
Protesta shock a Parigi: urina sulle foto del presidente
Anche le Femen all’offensiva topless e slogan nel monastero


KIEV— Femen all’offensiva contro il regime dell’Ucraina, paese dove il movimento è nato: nella capitale una giovane attivista ha protestato a seno nudo all’interno del territorio della Pecherska Lavra — l’antico monastero medievale dalle cupole dorate che è uno dei simboli di Kiev — chiedendo la destituzione del presidente Viktor Yanukovich. Travestita da morte, con una corona di fiori in testa, teneva in mano una falce e sul corpo aveva scritto «Morte alla dittatura».
Le militanti femministe sono entrate in azione anche a Parigi, dove cinque ragazze sono arrivate di fronte all’ambasciata di Kiev e hanno inscenato una protesta shock. A seno nudo, con una corona di fiori sui capelli e le consuete scritte sul corpo, stavolta rivolte contro Yanukovich, le attiviste del movimento si sono abbassate le mutandine, restando coperte solo da un gonnellino, e hanno urinato su gigantografie del presidente, al grido di «Yanukovich, vattene» e «Ucraina in Europa».
La leader del gruppo, Inna Shevchenko, ha spiegato che il senso della manifestazione era di dire all’Europa che l’Ucraina «ha bisogno di aiuto» e di voler denunciare l’influenza negativa del presidente russo Vladimir Putin su Kiev. Definendo il regime ucraino una dittatura, la militante ha denunciato anche le violenze contro i manifestanti e ha aggiunto: «Per il mio paese non è un momento solo difficile, è un momento pericoloso ». Le ragazze se ne sono poi andate senza incidenti.
In un comunicato pubblicato online, l’organizzazione scrive di voler «spingere il popolo ucraino a iniziare una massacro brutale del regime dittatoriale di Yanukovich». Femen «accusa il presidente di violenza morale e fisica contro la sua stessa gente e lo condanna alla morte politica oimpeachment». A scatenare l’ira della popolazione delle organizzazioni politiche è stata la decisione di Kiev, che la settimana scorsa ha annunciato di non voler firmare un accordo che mette l’Ucraina sulla via dell’adesione all’Unione europea.

Repubblica 2.12.13
Il ricatto di Mosca che tiene Kiev fuori dalla Ue
di Luigi Caracciolo


VILNIUS, Lituania, giovedì scorso. Lo sguardo fisso, quasi assente, Viktor Yanukovich sfrega il pollice della mano destra su indice e medio, gesto che in tutto il mondo vuol dire una sola cosa: soldi.
Angela Merkel l’osserva sconsolata. Il presidente ucraino non ha bisogno di aggiungere parole per spiegare alla cancelliera tedesca come mai abbia rinviato senza data la firma dell’accordo di associazione con l’Unione Europea, piegandosi alle pressioni di Putin. Le casse di Kiev sono vuote e Bruxelles non può rimpinguarle. Mosca sì.
Non ci stupiremmo se nei prossimi mesi la Federazione Russa offrisse all’Ucraina un prestito di salvataggio e forse anche uno sconto sul prezzo del gas, per evitarne la bancarotta. Non per generosità, né per un moto di simpatia di Putin nei confronti del suo omologo ucraino, verso il quale anzi non perde occasione di ostentare disprezzo. Molto più banalmente, Mosca tiene Kiev sotto scacco con l’arma economica, specie energetica, per vincolarla alla sua sfera d’influenza geopolitica. Anche a costo di destabilizzare il suo massimo vicino occidentale, dove centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza in questi giorni per denunciare il dietrofront di Yanukovich e pretenderne le dimissioni.
Questa Ucraina invoca l’Europa. Non tanto per slancio europeista, ma come alternativa a Mosca. Europeismo, nazionalismo ucraino e russofobia sono oggi sinonimi nelle piazze di Kiev, come lo furono quasi dieci anni fa, ai tempi della “rivoluzione arancione”, presto abortita. Gli slogan che inneggiano ai «nostri eroi» e annunciano «morte ai russi» non appartengono al lessico brussellese, ma rivelano la determinazione dei nazionalisti ucraini, per i quali Stalin e Putin sono due facce della stessa medaglia coloniale.
Mosca ha vinto questo round con l’Unione Europea. Ma ricorrendo ancora una volta alle maniere forti, al ricatto economico, rischia di pagare un prezzo alto. Putin sta infatti eccitando l’opposizione antirussa proprio nel paese chiave dell’operazione geopolitica che lo ossessiona da quando, nel 2000, è assurto a leader quasi incontrastato della Federazione Russa: recuperare all’influenza di Mosca lo spazio ex sovietico. O almeno le sue terre più strategiche. Per formare il quinto impero russo, dopo quelli di Kiev (circa 850-1240), di Mosca (circa 1400-1605), dei Romanov (1613-1917) e dei bolscevichi (1918-1991). Un impero informale, di cui l’Unione doganale con Bielorussia e Kazakistan — alla quale potrebbe aderire anche l’Ucraina, completando il voltafaccia anti-occidentale — s’intende nucleo (ri) fondatore.
Questa confederazione del “mondo russo” non avrebbe senso senza Kiev. Per impulsi storico- culturali: il riferimento è alla Rus’ di Kiev, battezzata culla della Russia moderna, di cui nel luglio scorso Putin ha concelebrato, insieme ai vertici della Chiesa ortodossa, i 1025 anni dalla conversione al cristianesimo, sotto l’eloquente titolo “I valori slavo-ortodossi, base della scelta di civiltà dell’Ucraina”. Per ragioni economiche, stanti i fortissimi legami russo-ucraini in tutti i settori della produzione e del commercio, ereditati dalle precedenti epoche imperiali, in specie dal settantennio sovietico. E per la priorità geostrategica che nega all’Ucraina la prospettiva atlantica. Tanto che nel porto di Sebastopoli è sempre all’ancora la flotta russa del Mar Nero.
Nei laboratori strategici di Mosca lo slittamento dell’Ucraina nel campo occidentale è paragonato a un’esplosione nucleare. A chi non volesse intendere, si ricorda che cosa accadde nell’agosto 2008 alla Georgia, che aveva provocato la Russia agitandole davanti agli occhi il drappo rosso dell’integrazione atlantica. I leader americani ed europei non hanno dimenticato, tanto che in alcune cancellerie della “vecchia Europa” il rifiuto di Yanukovich è stato accolto con appena velato sollievo. Per chi largamente dipende dal gas russo importato via Ucraina, una nuova crisi fra Mosca e Kiev che potrebbe sfociare nella destabilizzazione di entrambe è il peggiore degli scenari possibili.
Polacchi, baltici e altri paesi dell’Europa centro- orientale non sono affatto di questa idea, perché considerano la Russia geneticamente inaffidabile e minacciosa. Aggiogare l’Ucraina alcampo occidentale, via Unione Europea e poi Nato, è il loro obiettivo strategico, che immaginano — forse ottimisticamente — condiviso dalla Casa Bianca. Come in un gioco a somma zero, ciò che per Mosca è vitale trattenere entro il proprio cortile di casa, per i suoi ex satelliti è altrettanto essenziale trasferire nella famiglia occidentale. La notizia della fine della guerra fredda, annunciata più di vent’anni fa, si conferma alquanto esagerata.
E gli ucraini? Restano divisi. Un recente sondaggio afferma che il 45% dei cittadini ambisce a integrarsi nell’Ue, mentre il 14% vorrebbe aderire all’Unione doganale guidata da Mosca. La classe politica, di governo e di opposizione, si segnala per la profonda corruzione — che a suo tempo contribuì a offuscare la fama dei leader della “rivoluzione arancione” — e non pare offrire alternative credibili al sempre più impopolare Yanukovich. Di fatto, le leve del potere restano nelle mani degli oligarchi che hanno lucrato sul crollo dell’Urss.
Quali che siano i rapporti di forza politici, un discrimine culturale, linguistico ed etnico divide l’Ucraina in tre parti: quella ucrainofona centrata su Leopoli, l’antica capitale della Galizia, segnata dall’impronta storica polacca e asburgica; la più ampia regione di mezzo, attorno a Kiev, dove ucrainofoni e russofoni, filo-occidentali e filo-russi convivono ma non si mescolano; e le province orientali, con la Crimea, prevalentemente russofone e sensibili agli umori di Mosca. Terre compresse a lungo nel contenitore imperiale, ma che una volta emancipate dal controllo diretto del Cremlino non hanno generato uno Stato nazionale. E difficilmente lo faranno, in questo clima da resa dei conti. Non è impossibile che il braccio di ferro sull’Ucraina finisca per produrne più di una. O condanni questo grande paese — il doppio dell’Italia, con 46 milioni di abitanti — a un’instabilità permanente, vittima delle politiche predatorie dei suoi dirigenti e delle ingerenze di vicini interessati solo a coltivarvi i propri interessi.

Corriere 2.12.13
Arte, provocazione e potere: arriva il film sulle Pussy Riot
di Laura Zangarini


«L’ arte non è uno specchio per riflettere il mondo ma il martello con cui scolpirlo». Questa citazione di Brecht sul potere trasformativo dell’arte è l’incipit di Pussy Riot - A Punk Prayer, il film del britannico Mike Lerner e del russo Maxim Pozdorovkin vincitore del World Documentary Special Jury Prize al Sundance film Festival 2013 nella sale dal 12 dicembre distribuito da I Wonder Pictures.
Ricalcando nello stile l’estetica DIY (Do It Yourself) del collettivo d’arte femminista Pussy Riot (così lo definiscono Nadia, Masha e Katia, le tre attiviste arrestate il 21 febbraio 2012 per un’esibizione anti-Putin sull’altare della Cattedrale di Cristo il Salvatore, la più importante chiesa di Mosca), il documentario ripercorre le loro performance, gli scandali, il carcere, il processo e la condanna (due anni di reclusione), allargando l’obiettivo alla Russia di oggi.
«Nessuno pensava che la reazione del governo sarebbe stata così dura — spiega ai registi, quattro mesi dopo l’arresto delle tre militanti, una delle 10 artiste del collettivo, il volto rigorosamente coperto dal passamontagna «fluo», parte del dress code del gruppo punk femminista —. Come artisti il nostro obiettivo è di cambiare il mondo, liberando la società da pregiudizi e stereotipi. Vogliamo abbattere un sistema corrotto. Non è più tempo di chiacchiere e compromessi: serve la rivoluzione».
Un concetto che le tre ragazze riprenderanno in tribunale, chiuse, nei due mesi di durata del processo, ripreso dalle telecamere di tutto il mondo, prima in una «gabbia» con sbarre di ferro e poi in una sorta di «acquario» dove, per parlare, avranno a disposizione solo una piccola «feritoia». Nonostante si veda chiaramente il loro disorientamento e la loro paura dietro le sbarre (soprattutto Nadia e Masha, sposate con figli, alle quali viene paventata la possibilità che i minori vengano affidati ai servizi sociali) non rinunciano a difendere le loro azioni, costi quel che costi. Rivendicando le Pussy Riot come «un tassello importante per la crescita socio-politica della Russia» e sottolineando come la loro performance abbia messo in evidenza la fragilità di un potere che si è scoperto nudo. Spesso, quando parlano tra loro commentando le accuse di cui sono oggetto, vengono riprese e minacciate dalle guardie di sicurezza, il più delle volte donne anch’esse. Nadia, che indossa in più occasioni una t-shirt con un pugno chiuso, è spesso provocatoria: «A scrivere la sentenza — dice alla pubblica accusa — non sarà il giudice ma Putin stesso». Mentre vengono tradotte dal cellulare nell’aula di giustizia, sotto i flash di reporter e fotografi di tutto il mondo, alzano le dita in segno di vittoria.
«Noi non siamo sconfitte — dichiarano — così come non lo furono i dissidenti, che sparirono in manicomi e prigioni per aver lottato contro un sistema che usa il potere per calpestare i diritti umani del popolo russo». «Nell’aula dove si è svolto il processo alle Pussy Riot — racconta il padre di Katia alle telecamere dei registi — si sono fronteggiate due Russie che si odiano. Rifiutano di parlarsi e di capirsi». Ma Nadia, Masha e Katia, che non hanno mai fatto i nomi degli altri membri del gruppo, «hanno difeso le loro azioni a ogni costo». Questo film vuole essere un omaggio alla loro lotta coraggiosa.

l’Unità 2.12.13
Bangkok si ribella al Berlusconi d’Oriente
La proposta di amnistia per l’ex primo ministro Shinawatra, fratello
della premier in carica scatena la protesta dell’opposizione
Scontri in piazza
di Gabriel Bertinetto


Presenti i capi delle tre armi, che si professano neutrali, il leader dei rivoltosi intima la resa alla donna accusata di guidare il governo della Thailandia per conto del fratello, esule e pregiudicato: Thaksin Shinawatra, il Berlusconi d’oriente. L’incontro avviene in una località segreta, dove la premier Yingluck Shinawatra si è rifugiata dopo che il circolo sportivo in cui si apprestava a incontrare la stampa internazionale era stato assaltato dai manifestanti.
Accade al termine di una giornata convulsa. Per la prima volta dopo una settimana di proteste pacifiche, sono divampati duri scontri fra polizia e dimostranti. Poche ore prima, nella notte fra sabato e domenica, manifestanti di opposte fazioni si erano affrontati vicino a uno stadio nella zona di Ramkhamhaeng, lasciando sul campo le prime vittime, tre, di questa ennesima ondata di disordini politici a Bangkok. Mentre la notte cala sulla capitale thailandese, non è affatto chiaro se la crisi si avvicina al drammatico epilogo annunciato dal capo dello schieramento antigovernativo, Suthep Thaugsuban: «Ho detto a Yingluck che questa è la prima e ultima volta che le parlo fino a quando non cederà il potere al popolo. Non ci saranno negoziati e tutto deve finire entro due giorni». Cioè domani, mentre oggi i cittadini di Bangkok vengono da lui esortati a godersi un giorno di vacanza e unirsi alla mobilitazione di piazza.
Le parole di Suthep cadono nel silenzio delle autorità, che non contestano la ricostruzione del colloquio, senza nemmeno confermare né smentire che fosse davvero avvenuto. Il vice-premier Pracha Promnok si limita ad invitare la gente a non uscire di casa fra le dieci di sera e le cinque di mattina, «per non restare vittime di provocazioni». Più un consiglio che un coprifuoco. Toni più minacciosi nella dichiarazione di Piya Utayo, portavoce della polizia, che preannuncia l’intervento degli uomini in uniforme per riappropriarsi delle «proprietà pubbliche» occupate dai contestatori. L’affermazione appare in singolare contraddizione con quanto ha dichiarato poco prima il capo della sicurezza nazionale Paradorn Pattanathabutr. «Non hanno preso un solo edificio», diceva Paradorn, smentendo che fossero caduti in mano ai rivoltosi una decina di siti.
Difficile capire comunque da che parte stiano le varie agenzie preposte alla sicurezza pubblica. In linea generale la polizia sembra ligia alle disposizioni del potere centrale, mentre i militari preferiscono mantenere un profilo istituzionale estraneo allo scontro politico in atto. Nel recente passato hanno però dimostrato in modo molto concreto la loro avversione verso la fetta di establishment legata a Thaksin, arrivando anche a destituirlo con un golpe nel 2006.
Causa scatenante delle tensioni è l’amnistia proposta da Yingluck con l’evidente scopo di consentire il ritorno in patria del fratello. Il progetto è fallito, ma ha innescato la ribellione alla cui guida si è posto Suthep Thaugsuban, vicepremier nel precedente esecutivo. Suthep si è dimesso dal Partito democratico, la principale forza di opposizione, per avere mano libera in una lotta dichiaratamente tesa a rovesciare il governo in carica, e «smantellare la macchina di potere» che fa capo a Thaksin.
Questi viene accusato di dirigere il Paese per interposta persona. Suthep e compagni denunciano l’andirivieni di ministri che fanno la spola fra Bangkok e le località in cui il Berlusconi d’Oriente solitamente risiede, Dubai e Hong Kong. Contestano quelli che considerano sprechi di denaro pubblico per favorire la cerchia affaristica incentrata nel clan dei Shinawatra. Sotto accusa un piano di sussidi ai risicoltori per vari miliardi di dollari, la gestione dei progetti idrici dopo le terribili alluvioni del 2011, e i 600 miliardi di dollari stanziati per vari investimenti infrastrutturali. Thaksin, che se rimettesse piede in Thailandia dovrebbe scontare una condanna a due anni di carcere per corruzione, costruì la sua fortuna politica grazie al controllo di televisioni e giornali, e gode tuttora di grande popolarità soprattutto nelle aree rurali. I suoi avversari, il Partito democratico in particolare, hanno la loro base sociale nei ceti medi urbani e nelle province meridionali. Suthep, leader del movimento antigovernativo, è un personaggio controverso. È sotto inchiesta per la violenta repressione delle proteste popolari nel 2010 (novanta morti). Allora le parti erano invertite, e nei panni dei contestatori erano i seguaci di Thaksin nelle loro divise rosse. In precedenza nel 1995 Suthep fu al centro di uno scandalo per avere dirottato a vantaggio di proprietari terrieri benestanti, fondi destinati ad aiutare i contadini poveri.

Corriere 2.12.13
La Cina sulla Luna


È il secondo passo della Cina per la conquista della Luna. Ieri un razzo Lunga Marcia-3B ha lanciato la sonda Chang’e-3 che porterà sulla superficie del nostro satellite naturale un robot su ruote battezzato Yutu, «coniglio di giada» (foto ), che uscirà dalla sonda madre dopo l’allunaggio. Le dimensioni sono minori di quelle di una lavatrice, ma i compiti sono complessi perché studierà il suolo. Assomiglia molto al rover marziano Spirit della Nasa. Yutu punta ad analizzare i minerali dell’area di sbarco, il cratere Sinus Iridum, una pianura di basalto estesa 400 chilometri nell’emisfero settentrionale incastonata alla sommità del Mare Imbrium. Chang’e impiegherà sei giorni per arrivare e poi inizierà la manovra di discesa mai tentata prima dagli scienziati cinesi. Pechino, dopo aver spedito con successo due sonde intorno alla Luna (primo passo) scrutandola dall’orbita, ora arriva in superficie governando Yutu nei suoi spostamenti per centinaia di metri. Potrà sembrare la ripetizione della missione Lunokhod compiuta dai russi nel lontano 1970, ma per i cinesi è solo un passo intermedio che verrà seguito da due sonde in grado di portare sulla Terra campioni di suolo lunare. E poi toccherà ai taikonauti sbarcare, come si prevede possano fare nel 2025. Perché la Cina vuole la Luna? «Perché è ricca di risorse come terre rare, titanio, uranio, elio-3 da utilizzare nei futuri reattori a fusione per produrre energia pulita; tutti materiali di cui sulla Terra c’è scarsità», ha spiegato il professor Ouyang Ziyuan a capo del dipartimento di esplorazione lunare dell’agenzia spaziale cinese. Sono le stesse affermazioni degli scienziati russi rimasti paralizzati su questa difficile strada. In Occidente, non tutti sono d’accordo nello scavare miniere seleniche distruggendo un ambiente per le necessità terrestri. Intanto la Cina si prepara, collauda le tecnologie necessarie come ora farà con Yutu e continua a offrire possibilità di collaborazione nei programmi spaziali più avanzati, soprattutto per la nuova stazione spaziale Tiangong. Come ha sottolineato Eugene Cernan, comandante dell’Apollo-17, l’ultima spedizione umana della Nasa nel 1972, il modulo di sbarco di Chang’e è più grande di quello che servirebbe per il piccolo Yutu e dunque sperimenterà le tecnologie per portare i taikonauti.

l’Unità 2.12.13
Ferite d’Italia
Da Rosetta Loy una biografia politica del Paese: cruda, dura, schietta
di Chiara Valerio


«Gli anni tra il cane e il lupo» è una cronologia possente e ragionata tra il «dopo» 1968 e «prima» dell’avvento politico di Silvio Berlusconi
L’analisi logica di una nazione contraddittoria e dei suoi misteri: dalle stragi impunite alle morti eccellenti
Un testo lucido e importante

«È INTANTO COMPARSO UN ENORME CARTELLONE ALLO SVINCOLO FRA TOR DI QUINTO E VIA FLAMINIA DOVE UNA BELLISSIMA BAMBINA BIONDA MI SORRIDE QUANDO TORNO A CASA. HA GLI OCCHI AZZURRI E LE LABBRA CHE SI SCHIUDONO SUL BIANCO DEI DENTINI MENTRE I RICCIOLI DORATI LE RICADONO SULLA FRONTE E DUE MERAVIGLIOSE FOSSETTE RALLEGRANO LE GUANCE. Sotto una scritta recita: “Fozza Italia”. La luminosità del suo viso accompagna il mio percorso mettendomi di buon umore. Ma la scritta mi rimane incomprensibile, e immagino che alluda a qualche nuovo formaggino che sta per essere messo in commercio». Gli anni tra cane e lupo di Rosetta Loy (pp. 304, 13,90 euro, chiarelettere) è un lungo racconto, esatto, annotato, cronologico e nel contempo distopico all’occhio e ai sentimenti di chi legge degli anni 1969-1994. Gli anni «dopo» il 1968 e «prima» dell’avvento politico di Silvio Berlusconi. Un racconto stretto tra la morte di Franco Piga, giudice costituzionale, e quella di Sergio Castellari, per 13 anni direttore delle partecipazioni statali. E, nel mezzo, costellazioni di morti violente, suicidi sospetti, processi decennali, colpi di stato e di testa, abdicazioni, stragi, defezioni, logge e partiti.
Rosetta Loy ricostruisce il cielo boreale al quale guardare per trarre conseguenze e oroscopi per la nostra storia politica a venire. Loy specifica che BR sta per «Brigate comuniste combattenti di prima linea», che P2 sta per «Propaganda due», che la «rivoluzione» non può essere «civile», che Calabresi ha regalato a Pinelli Mille milioni di uomini di Enrico Emanuelli e Pinelli ha regalato a Calabresi Antologia di Spoon River, restituisce insomma senso e spessore a sigle o incontri che sono diventati, negli ultimi trenta anni di eterno presente televisivo, etichette bidimensionali prive di contenuto e di storia, pezzi intercambiabili di una mitologia che non ha visto déi o battaglie tra déi e centauri, ma solo, come appunto si legge fin dal titolo, confusione, incertezza, mestizia immaginativa.
IL PROGETTO DEL NORD
Con una lingua piana e limpida, con una tensione elencativa che già sola come nei longevi del Libro delle Meraviglie di Flegonte di Tralle (Einaudi, 2013) è fatto e interpretazione, Rosetta Loy enumera le regole della grammatica politica della (nostra) storia politica recente. E ne fa l’analisi logica. Piazza Fontana 12 dicembre 1969 ore 16.37 «Milano luccicante di stelle natalizie» nella quale brilla però un ordigno che fa morti e feriti. 31 Marzo 1971, abrogazione dell’articolo 553, pillola anticoncezionale. 15 Marzo 1972, ritrovamento del corpo di Giangiacomo Feltrinelli. 11 Novembre 1973, morte di Salvador Allende. 14 Novembre 1974, Pasolini che sul Corriere della Sera scrive Io so i nomi e poi 2 Novembre 1975, omicidio di Pier Paolo Pasolini all’idroscalo di Ostia. 2 giugno 1977, nomina di Silvio Berlusconi a Cavaliere del Lavoro e 1979 debutto in televisione di Mike Bongiorno. «Dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, al Nord emette i suoi primi germogli un nuovo progetto politico. A dargli vita è l’imprenditore Silvio Berlusconi, classe 1936, che al momento del suo ingresso ufficiale nell’alta finanza milanese con cappotto di cammello e uno sfolgorante sorriso, si era ritrovato accanto come amico Bettino Craxi, diventato a quarantadue anni il più giovane segretario del Partito socialista italiano».
Nella corsa di questo elenco, cascata di fatti che la memoria collettiva è ormai incapace di connettere perché fatti e date sono stati trasformati sapientemente, dall’eterno presente televisivo che ci ha ottuso, in cartoline senza destinatario e mittente, Loy apre squarci corsivi nel testo di appercezione, momenti in prima persona, sempre riconosciuti a posteriori, in cui la storia d’Italia le è passata accanto. Il bar in Umbria nel quale sta per prendere un caffè, ma viene distratta da uomini simili a parà che vociano e invadono il piccolo bar e che portano armi alla cintura ma non esibiscono distintivo di corpo (e tempo dopo scoprirà che erano gli uomini per il Golpe Borghese), il pranzo assolato e poi bruciato dall’osservazione di una delle commensali mentre muore Salvador Allende e con lui una idea di liberazione e democrazia, il panino che il figlio Angelo le chiede dal sedile posteriore di una Peugeot in coda sulla Pontina direzione Mare, nei giorni successivi al rapimento Moro e il conseguente «sbandamento politico (...) simile all’oscillazione di una scossa di terremoto in un luogo imprecisato, ma sufficientemente intensa da turbare l’equilibrio».
Non esiste autobiografia politica che non contempli il fatto che l’Io che parla è un noi, «Noi, l’opinione pubblica», come scrive Loy, e che, non si fondi su una dimensione collettiva e dunque politica. Forse per questo Rosetta Loy appartiene all’ultima generazione in cui «Io» può essere «Noi». Ed è per questo che Gli anni tra cane e lupo è autobiografia politica d’Italia. Ed è pure la mia, che appartengo a una generazione per la quale l’etica politica si è trasformata, nel migliore dei casi, nella comprensione dei meccanismi politici e per la quale, in fondo, «capire» e «giustificare» sono, troppo spesso sinonimi. Rosetta Loy ha restituito valenza alle sigle, alle parole, ai costrutti e alle immagini con la coscienza, l’ottimismo e la protervia di chi vuole che si ricominci finalmente discutere di «cose pubbliche», di chi è stanco di un diffuso e mefitico ad personam. Senza lamentazioni, laica, «ferma e chiara».

l’Unità 2.12.13
Luce contro l’orrore
Primo Levi, l’importanza di farlo conoscere ai ragazzi
Chi era l’autore di «Se questo è un uomo»?
Uno spirito così tenace che sfidò la logica del lager, quella che privava le persone della propria umanità
di Giovanni Nucci


ITALO CALVINO ERA CONVINTO CHE NON FOSSE IMPORTANTE LA BIOGRAFIA DI UNO SCRITTORE E CHE QUELLO CHE HA DA DIRE, DI NORMA, LA LETTERATURA LO DICE ATTRAVERSO LE OPERE MOLTO PIÙ CHE ATTRAVERSO LA VITA DI CHI LE HA SCRITTE. È davvero importante sapere quante mogli ha avuto Shakespeare o come sia morto il fratello di Gadda o quanti processi abbia subito Pasolini per capire a fondo e apprezzare le loro opere? Che senso ha che degli studenti usino parte delle loro energie intellettuali per studiare la vita di Dante o quella di Leopardi quando potrebbero usarle tutte nello sforzo necessario a immergersi, farsi avvolgere e conquistare dalle loro opere?
D’altronde le biografie possono essere anch’esse e già di per loro delle opere letterarie, a volte rese tali dalla penna di chi le ha scritte, a volte dalla loro trama, cioè dalla vita di chi le ha ispirate. Ma è facile, molto facile, che la vita di uno scrittore sia di per sé banale e nient’affatto interessante almeno da un punto di vista letterario. E, soprattutto, è facilissimo che lo strabordante ego di un (magari mediocre) scrittore venga confuso per interesse letterario della sua biografia e prenda il sopravvento sul distacco e l’universalità di cui di solito la letteratura necessita.
«DENTRO» UN GRANDE SCRITTORE ITALIANO
Tutto ciò viene nello stesso tempo confermato e contraddetto dal bel libretto di Frediano Sessi sulla vita di Primo Levi (Primo Levi: l’uomo, il testimone, lo scrittore, pagine 159, euro 10,00, Einaudi Ragazzi). Perché, viene da chiedersi, la vita di Primo Levi dovrebbe essere più importante da conoscere della vita, non so, di Dino Buzzati?
Probabilmente perché la vicenda letteraria, cioè le opere, di Primo Levi è talmente intrisa della sua vicenda biografica che qualunque strada usiamo per arrivarci è utile e preziosa. E anche perché nel caso di Levi succede, ancora più che con gli altri scrittori, quello che Holden Caulfield si augura possa accadere con gli autori di cui ha amato i libri: volerli conoscere di persona, volerli conoscere meglio. Non voglia sembrare un gioco di parole irrispettoso, ma effettivamente dopo aver letto Se questo è un uomo si sente abbastanza il bisogno di capire, di sapere meglio, che tipo di uomo lo abbia potuto (o dovuto) scrivere. Leggere, quindi, il libro di Frediano Sessi è un modo per continuare a rimanere «dentro» uno dei più grandi scrittori italiani dello scorso secolo e della sua atroce vicenda umana, anche al di là di quanto le sue opere ci consentano.
Ma non è solo questo: se da una parte l’opera di Levi è pregna della sua vicenda biografica come lo è l’opera di quasi tutti gli scrittori, nello stesso tempo «quella» vicenda è al centro di uno momento della storia occidentale che «deve» continuare a restare lui stesso centrale nelle nostre riflessioni e attenzioni, che deve restare esemplare. E per quanto la storiografia ci fornisca degli strumenti importanti per analizzare le drammatiche vicende della Shoah, per quanto ci sia grande attenzione e si facciano grandissimi sforzi per mantenerne la memoria, il vero rischio volendo considerare la Shoah esemplare del male che l’occidente ha saputo fare a se stesso, è che tutto prenda una piega soltanto celebrativa, retorica, o che così venga percepito, soprattutto dalle nuove generazioni. C’è addirittura il rischio di arrivare a pensare che la Shoah possa essere utilizzata come mezzo per poter avere maggiore attenzione, un po’ più di spazio mediatico, un po’ di successo assicurato.
Ecco, l’unico modo per scongiurare questi pericoli è riportare l’attenzione, (lo ripeto) soprattutto delle nuove generazioni, sul fatto che quelle vicende, quelle storie ormai distanti da noi e dalla nostra vita quotidiana, sono accadute a degli uomini per niente diversi da noi, e per niente distanti. E che per capire la portata di quello che è successo, bisogna immaginarlo applicato al nostro vicino di casa, a nostro zio, a nostro fratello, a noi stessi. È questo l’enorme valore letterario dei libri di Primo Levi: aver saputo riportare la Storia (con la maiuscola) alla singola umanità di una persona. Ed è così, con questo spirito e questa attenzione, che il libro di Frediano Sessi ci racconta di quale persona si è trattato.

il Fatto 2.12.13
Cos’è il tempo
«Il tempo è dimensione dell’anima»
di Agostino di Ippona


Il tempo non esiste, è solo una dimensione dell'anima. Il passato non esiste in quanto non è più, il futuro non esiste in quanto deve ancora essere, e il presente è solo un istante inesistente di separazione tra passato e futuro...
Non ci fu dunque un tempo, durante il quale avresti fatto nulla, poiché il tempo stesso l'hai fatto tu; e non vi è un tempo eterno con te, poiché tu sei stabile, mentre un tempo che fosse stabile non sarebbe tempo. Cos'è il tempo? Chi saprebbe spiegarlo in forma piana e breve? Chi saprebbe formarsene anche solo il concetto nella mente, per poi esprimerlo a parole? Eppure, quale parola più familiare e nota del tempo ritorna nelle nostre conversazioni? Quando siamo noi a parlarne, certo intendiamo, e intendiamo anche quando ne udiamo parlare altri. Cos'è dunque il tempo? Se nessuno m'interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m'interroga, non lo saprei. Questo però posso dire con fiducia di sapere: senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo passato; senza nulla che venga, non esisterebbe un tempo futuro; senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo presente. Due, dunque, di questi tempi, il passato e il futuro, come esistono, dal momento che il primo non è più, il secondo non è ancora? E quanto al presente, se fosse sempre presente, senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo, ma eternità. Se dunque il presente, per essere tempo, deve tradursi in passato, come possiamo dire anche di esso che esiste, se la ragione per cui esiste è che non esisterà? Quindi non possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se non in quanto tende a non esistere.
*da “Confessioni”

Repubblica 2.12.13
Critica della Ragion Comica
di Antonio Gnoli


Pensate a come sarebbe stato bello se Kant, oltre alle tre “Critiche”, avesse scritto anche una Critica della Ragion Comica.
Ci piace immaginare che da qualche parte il testo c’è, come quello perduto di Aristotele su cui si divertì, agli esordi narrativi, Umberto Eco. La comicità degli antichi è diversa da quella dei moderni, lo spiega con persuasività Andrea Tagliapietra (Non ci resta che ridere,ed il Mulino). Oggi viviamo nella “contrazione democratica del riso”, segnalava, qualche anno fa, Kundera. Non ci sono individui che ridono, ma solo masse ridenti, aggiunge Tagliapietra. In Italia il fenomeno esplose trent’anni fa con il primo cinepanettone. I personaggi semiallegorici, che padroneggiavano il genere, precedettero gli stili politici del decennio successivo. Il passaggio dalla prima alla seconda repubblica maturò il dramma in riso. In poco tempo le inchieste, gli arresti, le morti si trasformarono in un’esilarante e conformistica comicità. Vent’anni di risate truffaldine innalzarono lo sghignazzo a sistema. E ora, eccoci qui a chiedere come sia stato possibile? Nuovi eroi all’orizzonte. Zalone sbanca. De Sica arranca. Si chiude un’epoca grottesca. Chissà se è vero. Siamo passati dal dadaismo al duduismo. Per alcuni la vita è sempre più Agrama.

il Fatto 2.12.13
Il sogno di far nascere qualcosa
Vincent, seminatore di colori
di Tomaso Montanari


Nel giugno del 1888 Vincent Van Gogh era ad Arles, una meravigliosa città romana mangiata dal sole della Provenza.
Intorno al 18 di quel mese egli scrisse una lettera ad un amico – pittore come lui – che si chiamava Émile Bernard. Gli raccontò che, stando in mezzo alla campagna, non riusciva a non pensare ai quadri di un altro grande pittore, che si chiamava Jean-François Millet, e che aveva rappresentato come nessun'altro la vita semplice e sacra di chi vive in comunione con la natura.
Vincent provava a rifare a suo modo i quadri di Millet: ma i semi della sua pittura germogliavano in qualcosa di molto meno tranquillo.
Così Vincent descrisse il quadro che vedete: «Ecco uno schizzo di un seminatore: vasto terreno di zolle di terra arata, in gran parte di un viola deciso. Campo di grano maturo, d'un tono ocra giallo con un po' di carminio. Il cielo, giallo cromo chiaro quasi come il sole che è giallo cromo 1 con un po' di bianco, mentre il resto del cielo è giallo cromo 1 e 2 mescolati. Quindi molto giallo. la blusa del seminatore è blu, i pantaloni bianchi. Nel terreno ci sono molti richiami di giallo, dei toni neutri che risultano dalla mescolanza del viola col giallo; ma mi sono infischiato un po' della verità del colore».
Se guardate il quadro, vedrete che Vincent continuò a cambiare i colori, dopo aver scritto questa lettera: se ne infischiava della verità, ma era ossessionato dal colore. Il colore: che si è depositato sulla tela fino a sembrare uno strato di pongo, appena spatolato. Un colore che vien voglia di toccare: di mangiare, perfino.
In questi giorni di freddo che ci conducono a grandi passi verso l'inverno, un quadro come questo appare un condensato di sole e di caldo, una promessa di rinascita, una scorta di colore per attraversare i mesi più grigi.
Dipingendo i suoi quadri, Van Gogh era divorato dalla stessa ansia del suo seminatore. Che è l'ansia di tutti coloro che seminano: l'ansia di un futuro, di un risultato, di un raccolto. E poco importa se i semi faranno nascere piante o idee, frutti da mangiare o rivoluzioni che diano un senso alla pancia piena. Ma guardando i suoi quadri, e ricordando la sua vita dolorosa e difficile, noi percepiamo che c'è qualcosa di più importante del seme, qualcosa di più utile del raccolto stesso, qualcosa di più prezioso del risultato finale. Ed è l'amore con cui si semina: quell'amore, impastato di ansia, che rende inconfondibile ogni quadro di Van Gogh.
Vincent Van Gogh, Il seminatore, Otterlo, Museo Kröller-Müller.

il Fatto 2.12.13
Pan(ico) quotidiano
Eppure la felicità esiste
di Emiliano Liuzzi


Ci sono momenti in cui la chiedi, a gran voce. Magari alla persona che ti è più vicina in quel momento, passeggero di una stazione che coincide. La trovi negli occhi di un padre, nel conforto di una mano che ti stringe. Più semplicemente la supplichi in un abbraccio. Parliamo della felicità. Che più spesso appare nei ricordi e non ci rendiamo conto che può esistere nel presente. É felice il ricordo di un divano in velluto, ma quanto l’hai odiato quando le riviste patinate ne mostravano un altro più lussuoso. A volte è a un passo, ma quando ci troviamo davanti a quel bivio si sceglie sempre la strada sbagliata. E non c’entrano quelle cose che raccontavano i nonni, quando avevamo meno ci innamoravamo di tutto.
Illustri filosofi hanno affrontato l’argomento. Ma non è questo il luogo. Esiste? La vita è invivibile, spesso. E noi tendiamo sempre a complicarcela, spesso più del dovuto.
Ci sono medici che in realtà la ritengono una patologia, tanto comune quanto incurabile. “La paura di essere felici può riflettersi su tutti i piani dell’esistenza”, spiegano. “I sentimenti, la sessualità, la realizzazione personale, il traguardo lavorativo, il relax, addirittura la salute. Il cervello che da tempo non attiva gli assetti neurochimici che corrispondono alla felicità e al benessere non riesce a gestirli quando essi si presentano, li sente nemici o alieni”. Così esiste una porta da aprire e fuggire via, verso il prossimo incubo. Non ci sono soldi, affetti. Non c’è realizzazione. Anche la più piccola scusa banale diventa motivo di infelicità. “Spesso”, dicono gli psichiatri, “questa è l’anticamera della depressione. Ma è un’a l t ra cosa. Esiste una vera e propria fobia nei confronti di quello che può essere il sereno scorrere del tempo. Ci sono soggetti che lo rifiutano, forse perché temono che un giorno possa fuggir via. O si giudicano superficiali”. Ma la parola felicità esiste.

Corriere 2.12.13
L’algoritmo dei sentimenti legge le emozioni sul tuo viso
Opera della scienziata egiziana che sosteneva Piazza Tahrir
Un software rivela le reazioni emotive delle persone
I critici: violata la privacy
di Massimo Gaggi


New York. Lo usano le industrie americane per capire, dalle espressioni del volto dei consumatori, l’atteggiamento verso i prodotti e l’efficacia dei messaggi pubblicitari. È l’algoritmo che legge i sentimenti. Un software raffinato eppure non infallibile destinato ad avere un impatto sempre più vasto in un numero crescente di settori: dal commercio alla difesa, dalla sicurezza negli aeroporti alla scuola, ai videogiochi. Ma anche dallo spionaggio alla politica.
Oggi non è ancora molto raffinato e viene usato soprattutto dalle industrie che cercano di capire, dalle espressione del volto dei consumatori, l’atteggiamento verso i loro prodotti e l’efficacia dei messaggi pubblicitari. Ma, nell’era di «big data», il software che interpreta le espressioni del volto è destinato ad avere un impatto sempre più vasto in un numero crescente di settori: dal commercio alla difesa, dalla sicurezza negli aeroporti alla scuola, ai videogiochi. Passando, inevitabilmente, per lo spionaggio e la politica.
Software sempre più raffinato ma tutt’altro che infallibile, sempre più intrusivo e dagli effetti devastanti sulla privacy, avverte il New York Times in un’inchiesta su questa nuova tecnologia. In effetti, oltre alla crescente sofisticazione degli algoritmi che oggi leggono i movimenti di 22 punti del volto attorno a occhi, bocca e naso, analizzano i movimenti dei tessuti e i cambiamenti del colore della pelle, il futuro di questa «esplorazione dell’anima» dipenderà molto anche dalla diffusione di congegni in grado di riprendere attimo per attimo le espressioni di un volto e di trasmetterle a un computer capace di individuare le emozioni della persona che ti sta di fronte.
Un’industria dell’interpretazione elettronica dei sentimenti che probabilmente decollerà se non ci saranno rivolte a tutela della riservatezza dell’individuo e del diritto a non essere ripresi a nostra insaputa. E che strariperà quando strumenti come gli occhiali di Google diventeranno di uso comune.
Ma una svolta importante arriverà già tra un mese, a gennaio, quando Affectiva, la società più avanzata in questo campo insieme alla Emotient di San Diego, in California, comincerà a vendere agli sviluppatori di dispositivi digitali mobili il suo software di affecting computing : una sorta di algoritmo dei sentimenti estratto sapientemente da un database che raccoglie due anni e mezzo di lavoro di una serie di webcam che hanno ripreso, analizzato e classificato un miliardo e mezzo di reazioni emotive di un gran numero di volti.
Evocare incubi orwelliani è banale quanto inevitabile e i giornali americani che raccontano questa storia non si tirano certo indietro. Alcuni indagano anche sulle possibili implicazioni spionistiche e militari. Ma il protagonista più in vista di questa inquietante rivoluzione non rassomiglia né al cliché del genietto della Silicon Valley, né a quello dell’oscuro tecnologo al servizio della Nsa. Rana el-Kaliouby, fondatore e chief science office r di Affectiva, società con sede in Massachusetts, è una giovane scienziata egiziana che nel 2011 era a Tahrir Square a sostenere il movimento della primavera araba contro Mubarak: «Mi sono appassionata alle tecnologie dell’interpretazione delle espressioni anche perché ero colpita da come il rais fosse convinto di godere dell’appoggio massiccio della popolazione, nonostante immagini di manifestazioni oceaniche che dicevano tutt’altro» ha raccontato tempo fa la computer scientist musulmana che ha lavorato a lungo su questo tipo di ricerche al Media Lab del Massachusetts Institute of Technology di Boston.
Poi ha fondato l’azienda che ora mette sul mercato un software che verrà sicuramente usato nei supermercati per spiare le reazioni dei consumatori davanti a prodotti e offerte speciali, ma che interessa anche, ad esempio, ai produttori di videogiochi (sfidare a un livello superiore l’utente che sembra annoiato), Hollywood (reazione degli spettatori ai trailer dei film), o ai siti che combinano incontri sentimentali.
Ma Rana è ambiziosa: è convinta che l’algoritmo delle emozioni possa sostituire prima o poi anche i sondaggi d’opinione. L’idea di una democrazia basata anche su algoritmi che pretendono di leggere i sentimenti fa venire i brividi. Ma, in fondo, è la strada sulla quale ci siamo già incamminati poco più di un anno fa quando New Scientist sperimentò la nuova tecnologia su un campione di spettatori dell’ultimo dibattito Obama-Romney della campagna per le presidenziali. Ricordate il grafico degli umori della gente che scorreva in basso sullo schermo mentre in tv andava avanti il botta e risposta tra i due candidati? Alla Cnn erano entusiasti, ascolti alle stelle. Abbasso la noia, viva le novità. A qualunque costo.

Repubblica 2.12.13
“Il mio giro del mondo a piedi dall’Etiopia alla Terra del Fuoco”
Paul Salopek, vincitore di due Pulitzer, viaggia sulle orme e con i mezzi dei nostri antenati
Nello zaino solo un cambio d’abito e un pc, va a caccia di storie
La sua impresa terminerà nel 2020
di Michele Gravino


Trentatremila chilometri, quattro continenti, sette anni in viaggio. A piedi. Per un totale di 30 milioni di passi, più o meno. Paul Salopek — 51 anni, giornalista e scrittore, ex inviato di guerra e corrispondente dall’Africa, due premi Pulitzer vinti — sta girando il mondo sulle orme (e con i mezzi) dei nostri antenati, i primi uomini che circa 60 mila anni fa lasciarono l’Africa e in poche migliaia di anni riuscirono a colonizzare l’intero pianeta. È partito a gennaio da Herto Bouri, un villaggio nel cuore dell’altopiano etiopico dove sono stati trovati i resti fossili di una delle più antiche specie di ominidi. Ha attraversato il deserto della Dancalia in compagnia di una guida e di un paio di dromedari, fino a Gibuti, dove si è imbarcato per l’Arabia Saudita. Proseguirà per il Medio Oriente, attraverserà l’Asia centrale, risalirà dalla Cina fino alla Russia siberiana, passerà in nave lo Stretto di Bering, sbarcherà in Alaska e scenderà lungo tutta la costa occidentale del continente americano, sempre camminando, «a cinque chilometri l’ora, la velocità per cui è programmato il nostro corpo», dice. La meta finale è la Terra del Fuoco, il punto più lontano raggiunto dall’uomo nella sua colonizzazione delle terre emerse. Se tutto va secondo i programmi, ci arriverà nel 2020.
Oltre a un cambio d’abito, qualche medicina, cibo e acqua, carta e matita, Salopek porta nello zaino un telefono satellitare e un computer portatile. Aggiorna costantemente il suo blog e ogni tanto si affaccia su twitter. Ma alla velocità con cui le informazioni si diffondono nell’era della rete contrappone il suoslow journalism, una filosofia che per sua stessa ammissione ricorda quella di Slow Food. «La sintetizzerei in una parola: qualità», spiega, raggiunto al telefono durante una pausa del suo viaggio. «Qualità nel cibo è un pomodoro cresciuto al sole invece che sottoposto a trattamenti chimici che accelerano la maturazione. Qualità nella scrittura significa poter approfondire, fare collegamenti, scoprire che cosa c’è dietro un titolo di giornale o una notizia riassunta in 30 secondi da un servizio in tv».
Dove si trova adesso?
«Sono in Giordania, ho appena attraversato il confine con l’Arabia Saudita. Finora ho percorso più o meno 2.000 chilometri».
Come si sente fisicamente? I piedi?
«Sto molto bene, non ho avutograndi problemi. È tutta la vita che cammino, quindi direi che anche i piedi sono abituati».
Quante paia di scarpe ha consumato?
«Uno solo, ma ormai è ridotto
a brandelli. Dovrò comprarmene uno nuovo».
Com’è la sua giornata?
«Finora ho viaggiato soprattutto in terreni desertici, tra Etiopia e Penisola arabica. Abbiamo vissuto un po’ come i beduini di 100, 200 anni fa: sveglia all’alba, colazione con un sorso di tè e un pezzo di pane e formaggio, poi camminare fino al tramonto, accamparsi per la notte, eccetera.Man mano che mi avvicino al nord del mondo il paesaggio cambierà, sarà dominato dalle automobili, ci sarà più gente, e certo non potrò dormire all’aperto. Dovrò chiedere ospitalità in giro, cambierà anche il mio modo di scrivere».
Viaggia da solo o in compagnia?
«Cercherò di essere sempre accompagnato. Amo la natura, amo stare all’aria aperta, ma questo progetto riguarda soprattutto la gente, gli esseri umani. Finora ho camminato con pastori nomadi, giornalisti disoccupati, lavoratori dei pozzi di petrolio in vacanza, soldati in congedo: tutte queste persone sono una finestra sulla comunità in cui vivono. Se viaggiassi da solo diventerebbe molto noioso: rischierei di raccontare solo i pensieri che mi vengono in testa».
Si ferma ogni tanto?
«Certo, per approfondire meglio una storia, o per riposarmi, raccogliere informazioni, scrivere. Sono stato fermo in città per tutto il mese di Ramadan: tutti digiunavano, me compreso, e andare in giro nel deserto a digiuno non è molto prudente ».
C’è un incontro che l’ha colpita più degli altri?
«Per attraversare il Mar Rosso da Gibuti all’Arabia Saudita, mi sono fatto dare un passaggio da una nave cammelliera. Portava 9.000 dromedari al macello, quindi era già un viaggio malinconico. In più, gli ufficiali della nave erano tutti siriani, lontani dal loro paese in guerra. Parlando con loro ho capito che cosa significa essere senza patria, non avere più un posto dove tornare».
Il suo articolo per
National Geographic
[è la storia di copertina del numero di dicembre, ndr] comincia con il suo incontro con un pastore etiope che le chiede: “Sei pazzo?”. Quante volte si è posto la stessa domanda in questi mesi?
«È una domanda che mi faccio da un sacco di tempo, quindi questo viaggio non cambia molto le cose. Voglio chiarire però che non sono partito per portare a termine un’impresa sportiva, non voglio entrare nel Guinness dei Primati. Sono qui perché penso che andando più piano il mio lavoro migliorerà, avrò più storie significative da raccontare. Se smettessi di trovarlo interessante, potrei fermarmi anche domani. Ma finora è stato interessantissimo».

Su National Geographic Italia in edicola da oggi il viaggio di Paul Salopek

Repubblica 2.12.13
La notte dell’avvenire
Evangelisti: “In Italia le piazze non sono più piazze”
“Un tempo si discuteva del domani e maturavano le idee collettive, oggi sono solo contenitori”
Intervista allo scrittore che ha appena pubblicato un romanzo sui socialisti romagnoli di fine Ottocento
di Giuliano Aluffi


Se un bracciante socialista della Romagna di fine Ottocento si materializzasse in mezzo a noi oggi, e, notato un movimento di piazza, per istinto si mischiasse ai manifestanti, avrebbe una sorpresa fatale nel trovarsi in mezzo ad una protesta di ultras di qualche squadra di calcio, o in un sit-in che attacca i giudici per difendere un magnate, o in un comizio-spettacolo di comici prestati alla politica, o in un tumulto di piccoli imprenditori e camioneros in protesta antifiscale. «La piazza non è più la piazza», dice Valerio Evangelisti, che è tra i nostri narratori più seguiti in Italia e all’estero, dove è tradotto in decine di lingue. «La piazza è diventata mimetica e può contenere di tutto: è un semplice collettore separato dall’anima cittadina e non ha più alcuna funzione nella gestazione delle idee. Un tempo invece era luogo di socializzazione, ospitava capannelli in cui si discuteva animatamente del domani, era veramente il cuore della città, e lì maturavano anche le idee collettive». Evangelisti ricostruisce nel suo nuovo romanzo Il sole dell’avvenire (Mondadori) quell’epoca in cui, proprio dai movimenti di piazza, nacque l’Italia moderna: l’ultimo quarto dell’Ottocento e le prometeiche scintille di progresso civile scaturite dall’agire dei movimenti di ispirazionegaribaldina, socialista e internazionalista.
Cosa rimane oggi delle lotte e dei sacrifici dei socialisti italiani, romagnoli soprattutto, tra il 1875 e il 1900?
«C’è un’eredità materiale evidente che è la trasformazione economica di questa regione. Però nell’indole della gente tutto quel patrimonio è svanito. Il sole dell’avvenire presuppone che si creda in un futuro diverso dalla realtà odierna, ma se ciò non succede finisce la spinta ideale. Il romagnolo di oggi non ha più molto in comune con quello di allora, salvo forse una certa concretezza. Ma è tutto lì».
Cosa ha cambiato gli italiani?
«L’idea pasoliniana del consumismo corruttore di anime scopre un nervo, ma non spiega tutto. Non è vero che uno, solo perché povero, sia anche automaticamente idealista. Piuttosto, viviamo tra le macerie di un crollo culturale mondiale che ci impedisce di pensare a un avvenire diverso, per cui ci si rassegna a quello che si è. Nessuno vede più la storia come un insieme di grandi forze che confliggono. Il nostro sguardo si ferma all’epifenomeno: la tale strage, il tale episodio, il tale misfatto. Ma ridotta così, la storia diventa impugnabile da chiunque per legittimare qualsiasi discorso di qualunque colore. Si è persa la capacità di vedere oltre non solo in senso storico ma anche sociale: è venuto meno lo humus dato dalla mentalità collettiva».
Eppure anche oggi ci sono lotte e rivendicazioni. Che differenze ci sono?
«Nessuno si sente più parte di un tutto, cosa che invece riusciva a gente che viveva in condizioni molto difficili. Guardi cosa è accaduto in certe zone d’Italia, ad esempio a Cerignola: Di Vittorio nel dopoguerra riuscì a fare sentire i braccianti pugliesi come parte di un tutto e spingerli a lottare per sé e per gli altri. Oggi invece in quello e in altri luoghi è tornato il caporalato: si sono fatti molti passi indietro».
Cosa contraddistingueva quella Romagna lei racconta attraverso le vicende di un bracciante ex garibaldino e di sua moglie, figlia di mezzadri?
«Un’umanità molto forte e una rissosità di fondo. I socialisti rivoluzionari romagnoli si chiamavano rivoluzionari, ma poi non attuavano nulla del genere: parlavano di insurrezioni, magari si lasciavano scappare un “Tajem la testa ai sciur!”, ma nel frattempo si facevano in quattro per procurare lavoro ai disperati. Erano un po’ gli antesignani del massimalismo, che sarebbe venuto dopo. Resta il fatto che la Romagna, è stata la vera culla del socialismo italiano. E non c’è mai stata in nessun’altra parte di Europa una partecipazione così compatta alla vita politica. A vantaggio innanzitutto del partito repubblicano, ma poi anche dei socialisti. E da ultimo devo dire anche i peggiori fascisti».
Partecipazione e sacrificio. È questo che la politica oggi non riesce più a chiedere?
«In quel periodo c’era anche una spinta che veniva da uomini disposti a sacrificare tutto per le loro convinzioni. Non a caso alcuni dei miei personaggi, come Canzio, il figlio di Attilio, vanno combattere per la libertà dei greci, proprio come fecero molti italiani. Pensi alla differenza con oggi. Chi andrebbe oggi a combattere come volontario in Darfur o altrove? È molto più facile che qualcuno vada a fare il mercenario in qualche guerra d’oppressione! »
La parola socialista in Italia ha avuto alterne fortune e soprattutto dopo Craxi e Tangentopoli è quasi scomparsa.
«Per dare un’idea di come ormai il cinismo sia merce comune: conosco dei so- di una certa età che mi hanno raccontato che una volta tra di loro erano soliti battersi sulla giacca per saggiare la grossezza del portafoglio e smascherare i traditori della causa: il socialista, infatti, doveva essere anche povero! Oggi un gesto come quello sarebbe considerato folle».
Ma non erano solo idealisti, era gente molto pratica. Come riuscivano a conciliare questi due aspetti della politica?
«C’era una spinta al fare che coinvolgeva gente semplice, portandoli a vivere grandi avventure di cui magari nessuno comprendeva interamente la portata. Come la straordinaria bonifica delle paludi di Ostia iniziata nel 1884, a cui dedico vari capitoli del mio libro. A proposito, mi permetto di rimproverare ad Antonio Pennacchi di aver parlato, nel suo Canale Mussolini, di quelle bonifiche senza citare ciò che era avvenuto 50 anni prima. Fu un’operazione gigantesca, che però i miei protagonisti non vivono come se fossero dei titani, ma come gente che aveva bisogno di lavorare e lo faceva a costo di tantissime fatiche e sofferenze, e a volte pagando anche con la morte — perché erano bonifiche fatte a mano. La mia gente le affrontava con uno spirito che non era né di rassegnazione né di esaltazione, ma uno spirito da gente che vuole darsi da fare».
Braccianti e contadini sono classi che storicamente sono state più “narrate” che “narranti”. Che tipo di responsabilità si è sentito addosso, nel dar loro voce?
«Di farli apparire il più umani possibile. Si trattava chiaramente di gente ignorante e poveri diavoli, che però avevano una gran voglia di istruirsi. Del resto quando questa gente cominciò a organizzarsi, in Romagna, le sedi delle loro organizzazioni non erano solo circoli politici o sindacali: spesso c’era una biblioteca, e maestri elementari — che ebbero una funzione fondamentale, e ne parlerò nel romanzo successivo. Socialisti e repubblicani hanno avuto un ruolo decisivo nell’emancipazione di masse analfabete che vivevano in un universo a sé, interamente confinato nel dialetto».

IL LIBRO E L’AUTORE Il sole dell’avvenire di Valerio Evangelisti (nella foto) (Mondadori pagg. 500 euro 17,50)

Repubblica 2.12.13
Perché il Diavolo torna a far paura
I nuovi esorcisti
E i preti si trasformano in “nuovi psicologi dell’anima”
Aumentano i sacerdoti che praticano riti contro il diavolo
“In tanti ci chiedono aiuto. Noi facciamo quello che molti preti non fanno più: ascoltiamo”
di Paolo Rodari


Nelle diocesi italiane (e all’estero) si moltiplicano le richieste di esorcismi
Per fronteggiare “presunte azioni demoniache” o semplici “sofferenze patologiche”, si rivaluta così un ministero antico, dimenticato da secoli.

ROMA Nell’attesa c’è chi sgrana il rosario. Chi, in ginocchio, tiene le mani sul viso dialogando in solitudine con Dio. E chi, invece, parla sottovoce col vicino: «Gesù, Gesù...», sussurra ogni tanto. Se le due file di panche di legno duro al lato sinistro dell’altare potessero parlare, chissà quali segreti svelerebbero. Quanti dolori saprebbero raccontare. Nell’“ospedale da campo” che è la Chiesa di papa Francesco, la parrocchia della Traspontina in via della Conciliazione a Roma, a un passo dal Vaticano, sembra esserne il pronto soccorso. Ogni mattina cinquanta, sessanta persone attendono il proprio turno sedute compostamente. Hanno ferite spirituali che – ne sono convinte – soltanto padre Vincenzo può curare. «In verità non sono io la medicina – spiega Vincenzo Taraborelli, 76 anni, prete carmelitano – è Cristo il guaritore. Io sono solo un sacerdote, a cui il cardinale Camillo Ruini affidò anni fa il ministero di esorcista». Come padre Vincenzo ce ne sono altri. Un numero in discreta ma costante ascesa.
Da non molto la diocesi di Milano ha nominato sette nuovi esorcisti, uno per ogni settore. E in curia è stato creato un centralino dedicato. Nel 2010 toccò alla diocesi di Napoli nominarne tre nuovi. Mentre, appena la scorsa estate, è stato il cardinale Antonio Maria Rouco Varela, arcivescovo di Madrid, a sceglierne otto nuovi fra il proprio clero «al fine di soddisfare le numerose richieste ricevute perché si dia maggiore attenzione alle presunte azioni demoniache». Ci sono casi «che vanno oltre gli psichiatri, che appaiono impotenti, e che suppongono una perturbazione nella vita delle persone», ha detto il cardinale. E ancora: «Questi casi si verificano e succedono con una frequenza appariscente».
E così in altre diocesi. Per esempio a Cagliari dove, secondo quanto ha scritto recentemente L’Unione sarda, tre sacerdoti sono stati mandati a scuola di esorcismo a Roma: perché in città, ha scritto il quotidiano, è in aumento il numero delle persone possedute dal demonio. Un “mestiere” antico, quello dell’esorcista, caduto nel dimenticatoio nei secoli bui della caccia alle streghe quando i posseduti, o presunti tali, venivano messi al rogo, ma tornato in voga negli ultimi decenni. «Le possessioni diaboliche sono in aumento per colpa del ricorso frequente all’occultismo», ha detto recentemente il presidente dell’Associazione internazionale esorcisti, padre Francesco Bamonte. E ancora: «A oggi gli esorcisti nelle diocesi sono ancora pochi, e quelli che ci sono non sempre riescono a smaltire l’enorme richiesta di aiuto».
Nella sagrestia della Traspontina, un piccolo quadro appeso al muro e firmato dal cardinale Ruini spiega che il mandato affidato a padre Vincenzo è nel nome di «Gesù, che ha nutrito una particolare predilezione per gli ammalati e i sofferenti, liberandoli dalle malattie dello Spiritodel male che spesso li possiede». Sono, dunque, persone vessate e possedute dal diavolo a venire da lei? «Non tutte. La maggior parte è gente normale, che molto però soffre in famiglia, al lavoro, persone ferite nel campo di battaglia che è divenuta l’esistenza dei più. I preti oggi sono troppo indaffarati nei propri servizi e non hanno tempo per accogliere, ascoltare, pregare. Così queste persone vengono da me. Bussano alla mia porta chiedendo una benedizione, un aiuto per la propria sofferenza. E io, fortunatamente, non avendo altri impegni a parte il ministero di esorcista, riesco ad accogliere tutti. E così accade in tante altre diocesi. È per questo, a mio avviso, che negli ultimi anni il numero di esorcisti è aumentato». Credono che lei abbia un poteredi guarigione? «Alcuni sì. Ma io vado subito al nocciolo della questione: invito a pregare, a convertirsi, facendo ben capire che gli esorcisti non hanno poteri taumaturgici. Sono preti come tutti gli altri il cui primo compito è riportare esistenze magari distrutte verso la conversione, che inizia sempre con preghiera e digiuno». Niente esorcismi stile William Blatty e il suo The exorcist,dunque? «A volte sì. Ma sono casi rari, rarissimi. Oggi l’esorcista fa molto altro: sta fermo in chiesa, in sagrestia, e qui accoglie, invita alla preghiera, benedice. E nei casi dove una patologia è evidente invita ad andare da un medico. Anche questa è carità. Facciamo ciò che, purtroppo, molti preti oggi non fanno più. Ma credo che grazie a Francesco, al suo esempio, — ogni mercoledì trascorre ore ad accogliere i fedeli quasi uno a uno durante le udienze generali — molti sacerdoti capiranno che debbono cambiare rotta, passare dai mille servizi alla semplice accoglienza».
La Chiesa non sempre ama parlare degli esorcismi. Vede in giro una curiosità morbosa sul tema, e insieme il rischio che tutto scada in taumaturgia, come se bastasse una benedizione di un prete esorcista per cambiare le carte in tavola di esistenze difficili. Eppure, nello stesso tempo, è consapevole che gli esorcisti servono. Perché a Milano, come a Napoli o a Madrid, e come un accade un po’ ovunque, un fenomeno si ripete senza sosta. È ciò che capitava già quaranta anni fa alla chiesa della Scala Santa a Roma quando lì operava l’esorcista Candido Amantini, il sacerdote passionista per il quale è stata da poco aperta la causa di beatificazione e canonizzazione: la gente accorreva a frotte. Voleva estirpare il male dalla propria vita. E all’esorcista toccava pregare, ma insieme ricordare che il male non si estirpa magicamente, bensì anzitutto con preghiera e volontà di vivere alla sequela dei comandamenti. Così oggi, in tutta Italia, gli esorcisti — circa 250— questo fanno: accolgono e abbracciano senza cedere amagia o taumaturgia.
Dopo aver costruito una carriera da Oscar su Georgetown, l’ateneo dei suoi anni universitari, William Blatty vuole salvargli l’anima. L’autore diThe exorcist ha scritto a Francesco chiedendo di cacciare l’università di Washington dalla Chiesa e dall’ordine gesuita se non farà una decisa marcia indietro da posizioni «pro aborto» e dunque «non cattoliche». Ma non sembra essere nelle corde di questo Papa prestarsi a condanne simili. È ancora oggi il tempo degli esorcisti, insomma, purché si attengano, con riservatezza e serietà, ai propri compiti. Non a caso Giandomenico Mucci, gesuita, membro della redazione deLa Civiltà Cattolica, esperto di cultura contemporanea e spiritualità, dice che «vanno stigmatizzate le paccottiglie di certa stampa dove si parla di interventi diabolici veri o presunti tali, perché confondono». Di quali scritti parla esattamente? «Mi riferisco alle pubblicazioni cattoliche che abbondano di racconti di possessioni diaboliche. A mio vedere, è una patologia parallela all’altra, presente spesso nelle stesse pubblicazioni, che propone racconti, chissà quanto veri, di apparizioni, miracoli, locuzioni soprannaturali. Io credo che il Nemico esiste e opera, quasi sempre occultamente e dunque più pericolosamente, nelle anime, nelle culture, nelle società umane e credo che il Signore entra in rapporto diretto, in molti modi, con eccezionali creature di ragione, come la Chiesa e la storia della mistica cristiana testimoniano e garantiscono. Penso però che l’insistenza su entrambe le patologie alimenta indebitamente il gusto o dell’orrido o del taumaturgico e rende così un pessimo servizio alla fede della Chiesa, sia perché devia l’interesse dei lettori più semplici e meno formati da ciò che è essenziale (i comandamenti, le beatitudini,al Pasqua, le virtù teologali e morali) e sia perché espone all’irrisione dei laicisti la nobile autentica dottrina della Chiesa ».
Don Gianni Sini vive della regione più magica d’Italia, la Sardegna. E spiega che non sono poche le persone, soprattutto dell’entroterra, che si affidano a maghi, satanisti, santoni. Fu il Concilio plenario sardo nel 2001 a lanciare l’allarme: «Le pratiche superstiziose più frequenti sono: il ricorso e il culto al demonio, lo spiritismo con cuisi pretende di evocare i morti, la divinazione, il rivolgersi a maghi e fattucchieri per fare o far sciogliere le fatture o per ottenere fortuna, il sacrilegio, la simonia e simili». Eppure, anche per don Sini, nonostante l’emergere nell’isola di una forte diffusione di credenze e di pratiche superstiziose, padre Mucci ha ragione. Dice: «Da me vengono spesso persone che pensano con la benedizione dell’esorcista di poter risolvere i problemi della propria vita. Il figlio va male a scuola? Con una benedizione lo facciamo studiare. Vedono negli esorcisti una sorta di ultima spiaggia, alla fine chiedendo loro le medesime cose che vengono chieste ai maghi. Spesso cedendo a quello che l’etnologia definisce come feticismo, una forma di religiosità primitiva che prevede l’adorazione di feticci, ovvero di oggetti — spesso manufatti antropomorfi o zoomorfi — ritenuti dotati di poteri magici. Me li portano questi manufatti, pensando che una mia preghiera possa renderli utili, possa concedere loro dei poteri. Io ascolto, consolo, prego e soprattutto richiamo alla normalità, alla necessità di abbandonare queste pratiche taumaturgiche e iniziare una normale vita di fede. Poi, certo, su cento persone che ricevo ce n’è una che può avere bisogno di me in quanto esorcista. Ma, ripeto, sono casi rari». Per questi casi come si comporta? «Secondo il mandato che mi è stato dato dal vescovo, in un luogo appropriato, svolgo il rito dell’esorcismo, chiedendo a Dio la grazia della liberazione».

RTV-LAEFFE Alle 13.50 su Rnews (canale 50 del digitale terrestre) video racconto sui nuovi esorcisti

Repubblica 2.12.13
Monsignor Bruno Forte, arcivescovo e teologo: “La fede si fonda sul primato di Dio”
“Ma la Chiesa non deve mai essere ossessionata dal Male”
di P. R.


Monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, teologo. Qual è la posizione dellaChiesa rispetto agli esorcismi?
«La fede della Chiesa è fondata sul primato di Dio e del suo amore e sulla centralità della persona umana, chiamata a corrispondere a quest’amore. La visione di fede non ignora le resistenze al bene e la fatica di amare. È una posizione realista. C’è una resistenza a fare il bene che non è solo frutto di scelte personali, ma tende a condizionare queste scelte, e nella quale spesso si fa presente l’opera del maligno. Dio ha il potere di vincere l’avversario, ma Satana non cessa di operare. Non si può escludere che ci siano persone che sperimentano una soggezione al demonio, perfino uno stato di possessione diabolica, per cui può essere necessario l’aiuto di un esorcista, incaricato dalla Chiesa, che però rifugge da ogni sorta di ossessione del demoniaco».
Perché aumentano gli esorcisti?
«C’è grande richiesta. Anche nella mia diocesi un presbitero è da me incaricato per svolgere questo ministero. Tutti i cristiani quando recitano il Padre nostro chiedono la liberazione dal maligno, e cooperano in qualche misura al ministero degli esorcisti. È poi richiesto che in ogni diocesi il vescovo scelga uno o più sacerdoti come esorcisti: preti prudenti, di profonda fede ed equilibrio. La loro presenza è benefica perchéaiuta molte persone, che non sono possedute, a comprendere che è di un intervento psicologico o psichiatrico che necessitano. Se non ci fossero gli esorcisti, molti, nei fatti, spesso non saprebbero da chi andare».
Fra chi chiede aiuto quanti sono posseduti?
«La stragrande maggioranza di chi si rivolge agli esorcisti non ha bisogno di esorcismi, ma di terapia medica. Con chi è posseduto inizia invece un percorso di conversione, aiutando a tornare alla preghiera, ai sacramenti, in modo che una vita di fede doni forza alla persona stessa per uscire dalla possessione. Poi, certo, si svolge anche il rito di esorcismo, ma non è l’unica azione. Senzaconversione non c’è liberazione».
Il Papa parla spesso del demonio, perché?
«Perché la realtà di Satana è parte della tradizione biblica e del patrimonio di fede della Chiesa. Parlarne non è cedere al sensazionalismo o a qualche fobia, ma essere realisti. Significa mettere sull’attenti l’uomo e spingerlo verso Dio. Anche Kant, che non può essere sospettato di facili credenze, parla del male radicale e della redenzione per grazia. Parlarne fa parte della visione cristiana dell’antropologia, amica dell’uomo e fiduciosa in lui, proprio perché fondata sul Dio che è amore».

Repubblica 2.12.13
Arturo Paoli, una vita da teologo della libertà
Escono i ricordi del “profeta” del cristianesimo senza potere che ha compiuto 101 anni
di Vito Mancuso

Cent’anni di fraternità è il nuovo bellissimo libro di Arturo Paoli, un titolo che suona come una metafora dell’esistenza in contrapposizione aiCent’anni di solitudine di Garcia Marquez, ma che certifica anche una vita individuale che il 30 novembre scorso ha compiuto 101 anni. Nato a Lucca nel 1912, sacerdote, medaglia d’oro al valor civile e giusto tra le nazioni per aver salvato molti ebrei, Paoli risulta presto sgradito alla chiesa di Pio XII e viene allontanato dall’Italia. Va in Argentina dove trascorre 13 anni e finisce tra le liste dei condannati a morte del regime, si salva andando in Venezuela dove rimane 12 anni, poi in Brasile dove passa vent’anni, torna in Italia nel 2005.
Maestro spirituale, profeta mite e severo, autore di numerosi libri che mostrano vasta cultura e uno stile letterario affascinante, la sua opera è un’anticipazione profetica e una coerente applicazione della Teologia della liberazione. In gioco vi sono due liberazioni, la prima riguarda i poveri e gli sfruttati del pianeta perché «tutto il Vangelo è una denuncia contro coloro che stanno sopra », perché «Dio si trasforma in un’immagine tirannica se l’uomo non lo raggiunge per il cammino della relazione con gli altri», perché se è vero che esiste una dimensione della vita più profonda della sfera economica è ancora più vero che «rinunziare a guardare in faccia l’economico è come svuotare la croce di Cristo». Il segno più chiaro dell’identificazione con Cristo ha molto a che fare con l’economia, il Vangelo la chiama fame e sete di giustizia.
La seconda liberazione promossa da Arturo Paoli riguarda lo stesso cristianesimo, spesso ridotto a ideologia che difende i privilegi dei potenti e che va riscattato da tale alienazione. Questo cristianesimo ecclesiastico nemico della liberazione degli uomini si manifesta nelle idee «che hanno portato i vescovi dell’Argentina ad aderire con un tacito assenso alla furia diabolica dei militari… con la complicità della Nunziatura apostolica, dunque del Vaticano». Nessuno può ignorare infatti che «i generali argentini si dichiaravano cattolici», «paladini della civiltà occidentale cristiana », né può essere un caso che lungo la storia dell’umanità «le nazioni cristiane sono quelle che hanno creato più guerre». Parole durissime, di un uomo sempre pacifico e sorridente ma che non fa sconti quando c’è di mezzo la giustizia, raro profeta all’interno di un cattolicesimo italiano così schiacciato sui calcoli politici e sempre generosamente ossequioso verso il potere. Arturo Paoli al contrario è sempre stato amico dei poveri, mai dei potenti, lo dimostrano le pagine di critica esplicita verso Karol Woytjla e Joseph Ratzinger per l’opera di demolizione della Teologia della liberazione e delle comunità ecclesiali di base. Temevano la contaminazione marxista, «però quelli che parlano di questi pericoli, non sono forse nel pericolo di far convivere tranquillamente la fede cristiana con l’ingiustizia e l’oppressione?».
Oggi l’anziano profeta scrive che «con papa Francesco sembra inaugurarsi uno stile nuovo di vita» e si dichiara «felice di ricevere dalla Chiesa l’elogio della Teologia della liberazione di cui sono stato fedele seguace». Attenzione però, niente mezze misure, perché occorre «rifondare un cristianesimo nuovo» e al riguardo Arturo Paoli non teme di affrontare il nesso strutturale del cristianesimo ecclesiastico, cioè la dottrina peccato originale-redenzione. Egli denuncia che Gesù è troppo schiacciato sul ruolo espiatorio del peccato, mentre «la sua vera missione è quella di
amorizer le monde, non quella di pagare il prezzo di espiazione dei nostri peccati». Gesù è il maestro dell’amare, non la vittima immolata per la nostra redenzione al fine di rimediare ai danni di un inesistente peccato originale.
Ma c’è un’ulteriore liberazione per cui lavora il cuore instancabile di Arturo Paoli: si tratta del nostro tempo imprigionato dalla tecnica, in particolare dell’anima dei giovani. Dichiarando di voler aiutare i giovani «a uscire da questa incredulità generale », confessa: «Devo essere lieto in un mondo sempre più triste». Egli sa bene infatti che è solo la gioia a poter veramente educare, e per questo suggella il libro con parole di grande spiritualità: «Più viviamo nella meravigliosa profondità della vita interiore, più scopriamo che lì si trovano i veri beni dell’essere umano: la sua libertà, la sua pace, la sua gioia». Conosco da tempo Arturo Paoli, l’ultima volta l’ho incontrato un mese fa, mi ha detto sorridendo che non rimpiange nulla della sua vita e che rifarebbe tutto, e io penso che questa sia la più grande beatitudine. Se il papa argentino si ricordasse di questo padre della Chiesa povera, farebbe il regalo più bello ai suoi cent’anni di fraternità.

IL LIBRO Cent’anni di fraternità di Arturo Paoli (Chiarelettere pagg. 168 euro 12)