martedì 3 dicembre 2013

l’Unità 3.12.13
Susanna Camusso a l’Unità: «Quegli operai morti sono una sconfitta del sindacato»
Il segretario della Cgil: ci sono gli strumenti di prevenzione e controllo. Prato non è una metropoli, dove sono le istituzioni, gli amministratori e la polizia?
intervista di Rinaldo Gianola


«I morti sono tutti uguali, italiani o cinesi, clandestini o regolari, ogni volta che c’è un incidente, ogni volta che si muore per il lavoro, per noi è una sconfitta». Susanna Camusso, leader della Cgil, si interroga sull’ultima tragedia del lavoro, ma sarebbe più giusto parlare di sfruttamento, di schiavitù, di segregazione per il rogo umano di Prato.
Camusso, Prato non è in Pakistan, siamo in una città di medie dimensioni, con una storia di solidarietà, di sana politica e anche di buona amministrazione in passato. La comunità cinese è presente da decenni, possibile che non sia stato possibile fare nulla per evitare questo incidente?
«Quello che più mi colpisce in questo dramma umano è proprio il fatto che avviene in una città italiana, di lavoro e industria, un distretto famoso nel mondo che oggi si presenta con le fabbriche dormitorio, con le sbarre alle finestre, con il lavoro ridotto alle condizioni opprimenti di un carcere. In quelle condizioni, come lavorano e come muoiono i lavoratori cinesi, siamo alla schiavitù vera e propria. Non vorremmo nemmeno immaginare che possano accadere fatti come questi. In Italia abbiamo tanti problemi ma non vogliamo precipitare in questi drammi di sfruttamento e di morte, come la cronaca invece ci ripropone».
Cosa c’è che non va?
«C’è una sensazione di impotenza che coinvolge tanti, politica istituzioni amministrazioni. I cinesi sono presenti nel nostro Paese da molti anni, sono attivi a Prato da decenni, producono e fanno affari dentro un sistema sommerso che continua restare sommerso nonostante ci siano gli strumenti per farlo emergere, per costringerlo alla legalità. Noi della Cgil siamo stati spesso accusati di esagerare, di voler denunciare realtà economiche che non ci piacevano, proprio a Prato, perchè vedevano e vediamo il pericolo di quelle condizioni di sfruttamento e di violenza». Che cosa non le torna?
«Non mi torna il fatto che Prato è una città controllabile non è una megalopoli, con una presenza ben definita delle fabbriche cinesi. Dove sono i controlli, perchè non ci vanno le forze dell’ordine, dove sono le verifiche dell’Inps, perchè il sindaco e gli amministratori non usano gli strumenti che hanno in mano? Chi controlla le utenze del gas, della luce, i flussi di denaro? Forse dobbiamo adeguare le nostre capacità di intervento, ma ci sono già gli strumenti, di prevenzione e controllo, per far rispettare le leggi anche ai cinesi».
E il sindacato, quali difficoltà incontra?
«Il sindacato fa fatica, ci troviamo spesso di fronte a chiusure totali, saracinesche culturali che non riusciamo ad alzare. La comunità cinese si avvolge nella sua solitudine, spesso è impermeabile alle comunità in cui opera. È un fenomeno mondiale, riguarda tutti i paesi. La Cgil è aperta e sensibile a tutti i lavoratori stranieri, ma con i cinesi è un’impresa difficilissima. Abbiamo pochi delegati cinesi, pochi iscritti al sindacato. L’esperienza che abbiamo avuto anche come movimento delle donne è stata esemplare di questa chiusura: dopo un primo contatto con le donne cinesi, non è stato più possibile andare avanti, sono scomparse».
C’è una relazione tra l’espansione di questa economia e la crisi?
«Penso che la crisi abbia allargato il territorio dell’economia illegale, sommersa, accentuato i fenomeni di sfruttamento e di violazione sistematica dei diritti. I prodotti di quelle fabbriche cinesi vengono venduti su molti mercati, oppure vengono usati da altri imprenditori che sfruttano proprio il basso costo della mano d’opera, senza curarsi delle condizioni in cui avvengono queste produzioni. Prato è sempre stato un grande distretto tessile, poi le nostre imprese si sono ritirate, alcune per la crisi altre per errori. Sono state sostitute in parte da un’imprenditoria criminale, che non può essere tollerata anche se produce enormi profitti di cui evidentemente molti beneficiano»
Come combatterla?
«Alcuni strumenti efficaci ci sono già, come ho detto. Ma sento il bisogno di mettere in campo uno sforzo ulteriore, la repressione da sola non basta. Dove vanno a scuola questi bambini cinesi? Cosa fanno le loro famiglie? È possibile agganciare questa comunità, renderla sensibile anche ai diritti, al lavoro dignitoso, al rispetto? A Barletta, dove c’è stata un’altra tragica vicenda simile a quella di Prato, siamo riusciti ad avviare un’esperienza positiva contro il lavoro nero, a sensibilizzare le persone e le imprese sul valore e l’importanza della legalità. Un esempio positivo ha un impatto ben più forte di tante discussioni, bisogna provarci».

l’Unità 3.12.13
La strage di Prato e il racket dei diritti
di Vittorio Emiliani


NON DICIAMO, NEPPURE PER SCHERZO (CRUDELE), CHE NON LO SAPEVAMO, O CHE NON LO SOSPETTAVAMO. Le condizioni primordiali in cui si lavorava (e si lavora) nei capannoni del tessile di Prato occupati dai cinesi o dei loro appartamenti diventati laboratori erano state illustrate in tante inchieste televisive soprattutto dalle testate Rai che fanno ancora servizio pubblico (Report, Presa diretta, ecc.). Sapevamo tutti di questi grigi capannoni. Di questi magazzini che sono insieme luoghi di produzione e abitazioni, per intere famiglie persino, dei loculi con poca luce, con aria inquinata, nel frastuono praticamente continuo delle macchine. Dove si produce un volume di affari stimato sui 400 milioni l’anno, fondato su remunerazioni miserabili, 40 centesimi per capo finito, accettate per fame. Ora si sostiene da parte del sindaco di Prato, a capo di un centrodestra dopo decenni di governo ininterrotto della sinistra che con la numerosissima comunità cinese insediatasi negli ultimi anni nella città toscana provenendo in prevalenza dalla provincia orientale costiera di Zhejiang (una popolazione pari, quasi, a quella dell’intera Italia), non si riesce ad avere molti canali di comunicazione e di scambio, che essa rimane per lo più chiusa in se stessa e quasi impenetrabile. Certo essa è meno disponibile di altre ad una vera integrazione o coabitazione culturale e sociale (è così, in parte, anche a Roma per la Chinatown, mercantile peraltro, creatasi attorno a piazza Vittorio) e tuttavia troppo poco si è fatto per accrescere quel basso livello di comunicazione. Esemplificata dal fatto che nessuno si sia presentato a riconoscere le povere vittime del rogo. A questa impenetrabilità e omertà dei cinesi di Prato (mitigata dalle classi multietniche nelle scuole pratesi) da parte italiana si è risposto con una palese indifferenza. Quasi che quei mondi così diversi potessero coesistere nella stessa città. Eppure i cinesi «ufficiali» di Prato sono 12.000 che con gli irregolari diventano 20.000, cioè più di un residente su dieci e con quartieri come il San Paolo sulla Via Pistoiese dove le insegne e i cartelli in cinese paiono davvero preponderanti.
Sapevamo praticamente tutto e però quasi nessuno è di fatto intervenuto per riportare questo fenomeno produttivo paleo-capitalistico ad emergere, sia pure gradualmente, alla luce della legalità, ad una dimensione umana. Si temeva probabilmente di mettere in crisi un modello industriale, primordiale ripeto, che ricordava, molto in peggio, quello del lavoro a domicilio nelle cascine e nelle borgate della pianura padana, mezzo secolo fa, soprattutto per maglie e calze.
Ha pienamente ragione il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, quando reclama che «al di là di ogni polemica o di pur obiettiva ricognizione delle cause che hanno reso possibile il determinarsi e il permanere di fenomeni abnormi», interventi concertati fra governo-regione-comune che facciano emergere «da una condizione di insostenibile illegalità e sfruttamento senza porle irrimediabilmente in crisi realtà produttive che possono contribuire alo sviluppo economico toscano e italiano».
È il problema, sollevato ieri su l’Unità anche dal presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi (che ha poi evocato il lager di Auschwitz), di un distretto tessile di importanza strategica che però spesso risulta clandestino, ai limiti dello schiavismo, diffuso fino a raggiungere dimensioni di massa. Fra l’altro, come dimenticare che, anche grazie alla sordità e cecità delle banche, fior di imprese artigianali fiorentine e toscane sono state costrette a chiudere per la concorrenza sleale dei capannoni e dei laboratori domestici cinesi di Prato? Ma come si può tollerare che migliaia di lavoratori immigrati operino e vivano in simili condizioni rischiando ogni giorno, ogni notte la vita? «Nessuno può affermare seriamente di non sapere cosa succede a Prato ha sostenuto il segretario generale dei tessili Cgil, Emilio Miceli eppure Prato rappresenta probabilmente la più grande concentrazione di lavoro nero, al limite della brutalità e della schiavitù, che esista in Europa». All’inizio del terzo millennio il distretto tessile, all’origine in prevalenza laniero, di Prato contava circa 9.000 aziende (quelle ufficiali, naturalmente) e 45.000 dipendenti. Bisognoso di grandi ristrutturazioni e innovazioni perché troppo, per il passato, esso era dipeso dal basso costo del lavoro. Bisognava puntare come hanno fatto con evidente successo in altri distretti lanieri, in quello di Biella in particolare sulla qualità, sui marchi, su di un brand elevato.
La concentrazione a Prato di cinesi di nuova immigrazione, lontani da questa cultura innovativa, ha invece continuato a fondare il profitto d’impresa sui bassi salari, sull’evasione fiscale e contributiva. Ci vuole un grande piano nazionale di ristrutturazione, propone il presidente della Regione, Enrico Rossi, un vasto accordo di programma. E in effetti è la sola strada percorribile in una economia, in una democrazia europea. Bisognerà vedere tuttavia in quale modi e in quale misura sarà disposta ad esso la controparte dei neo-milionari cinesi.

La Stampa 3.12.13
Vito, il pescatore eroe di Lampedusa: “Così ho capito che era un massacro”
A due mesi dal naufragio, raccolte le testimonianze di superstiti e soccorritori
Il 3 ottobre scorso un barcone di immigrati è naufragato al largo di Lampedusa. Alla fine i morti sono stati 366
di Niccolò Zancan


«Io sono Vito Fiorino. Ho 64 anni e non sono un eroe. Voi che non vivete di mare, lo sapete che si muore di maestrale?». Era la prima cosa che ti dicevano tutti, il pomeriggio del 3 ottobre. «Andate a cercare Vito. Ha un bar sulla strada principale. Potrà spiegarvi meglio di chiunque altro quello che è successo». A Lampedusa c’era un sole stupendo. Atterravano in continuazione aerei carichi di giornalisti ed elicotteri della marina militare. Su furgoni del pane e del pesce, invece, arrivano i primi cadaveri ripescati al largo dell’Isola dei Conigli. Li allineavano nell’hangar dell’aeroporto, dentro sacche di nylon di tre colori diversi. Per ogni corpo, un numero scritto a pennarello: 114 alle sei di sera.
A quell’ora Vito Fiorino aveva chiuso il suo piccolo bar per lutto autodecretato. Camminava avanti e indietro per via Roma, con un codino di capelli bianchi che sbatteva sulla canottiera stinta dal sole. I parenti lo chiamavano al cellulare inorgogliti, ogni tre minuti: «Corri al bar... Torna, Vito. Dai... Ti vogliono intervistare. C’è Canale5». Ma lui continuava a camminare scuotendo la testa, sempre sul punto di scoppiare a piangere. Ripeteva a bassa voce: «Ho fatto soltanto quello che dovevo fare».
Il giorno prima era andato a pesca di tonnetti con sette amici. Insieme avevano dormito in mare e brindato alla fine dell’estate. Erano in pace. Fino a quel rumore stridulo delle sei del mattino. «All’inizio pensavo fossero gabbiani, stormi di cavazzi. Lo ripetevo al mio amico, che per primo si era svegliato. “Gabbiani, gabbiani, stai tranquillo...”. Ma mi sbagliavo. Erano urla di ragazzi a braccia alzate, che chiedevano aiuto in mezzo al mare, a mezzo miglio da noi. Allora ho preso la ciambella di salvataggio e ci ho attaccato una cima. Abbiamo incominciato a tirarli a bordo uno dopo l’altro, senza nemmeno bisogno di guardarci negli occhi. Erano ragazzi stravolti, nudi, sporchi di nafta, per questo scivolosi. Ho chiesto a uno: da quanto siete in acqua? Mi ha risposto: quattro ore. C’era scirocco e non maestrale, per fortuna. Il vento li aveva portati verso riva. Ho chiesto a un altro: quanti siete? Cinquecento, mi ha riposto. Allora ho capito che era una massacro».
Vito Fiorino ha salvato quarantasei uomini e una donna. Li ha contati personalmente durante le opera- zioni di sbarco al molo Favaloro. Era furioso per- ché i soccorsi, se- condo lui, avreb- bero potuto esse- re più rapidi. O al- meno non imbri- gliati dentro pro- tocolli assurdi. «Sono arrivati con navi enormi che non servivano per ripescare i naufraghi dice ho chiesto di poter trasferire i miei ragazzi sulla loro barca per continuare il salvataggio, ma loro non hanno voluto». Ancora oggi è tormentato dagli orari: «Alle 6,40 abbiamo chiesto aiuto attraverso il canale 16 della radio di bordo, collegato con la capitaneria  di Lampedusa. Nulla. Alle 7,20 abbiamo chiamato via telefono il centralino di Roma e ci hanno risposto: “Stanno arrivando”. Ma sono passati altri 5 se non 10 minuti, non riesco a pensarci. Mi sale una rabbia...». I morti, alla fine, saranno 366.
Tutti i protagonisti di questa storia ne sono prigionieri. Tutti hanno perso per sempre qualcosa, anche i sopravvissuti. E tutti temono di restare in silenzio, a sentire ancora quelle grida che non erano gabbiani. Ecco perché è nato il progetto «Sciabica». È una parola araba che significa rete da pesca. Vuole essere un modo per impigliare la storia, i vivi e i morti, per non lasciarli andare.
Per non dimenticarli. È una raccolta di testimonianze. Piccole frasi lapidarie. Pizzini come quello di Vito Fiorino. O come questo: «Io sono Russom, ho trent’anni e non sono un eroe. Dal mare mi ha salvato Dio. E Vito».
Russom non possiede neppure il suo cognome. Non può dirlo perché ha paura che il governo del suo Paese metta in atto delle ritorsioni contro i parenti. Dall’Eritrea scappano spesso ragazzi condannati alla leva militare permanente. Russom è nato in un villaggio nel deserto. Per poter incominciare a sognare il grande viaggio ha dovuto rinunciare a tutto. Lo ha raccontato ai coordinatori del progetto Sciabica: «Ho venduto le mie 50 pecore. Mia moglie ha venduto l’oro che aveva. Io sono un pastore, so leggere le stelle. A piedi dall’Eritrea sono arrivato a Khartum, Sudan. Ho pagato 2200 dollari per andare in Libia. In Libia ho speso 1300 dollari per salire sulla barca affondata il 3 ottobre 2013. Quella notte abbiamo bruciato coperte per farci vedere, anche se qualcuno ci aveva già visto. Chi di noi sapeva nuotare si è buttato in mare. Io mi sono spogliato e mi sono tuffato».
Lo hanno messo a verbale diversi testimoni. Almeno due imbarcazioni – forse tre – hanno visto alla deriva il barcone carico di immigrati. Motore in panne. La costa ormai vicina, ma non abbastanza. Accendere un fuoco doveva servire per rendersi finalmente visibili.
Invece si sono ritrovati a nuotare nel mare scintillante di stelle. Un mare enorme e calmo, blu cobalto. Russom ha resistito per quattro ore. Stava per arrendersi quando ha sentito il braccio di Vito che lo issava a bordo. Da quel giorno lo chiama «papà». Gli deve una seconda vita. Insieme combattono contro il silenzio. Per loro e per tutti quelli che non si sono salvati. Ecco perché questa sera Vito Fiorino sarà al Circolo dei lettori di Torino per testimoniare. «Ho guardato quei ragazzi negli occhi. Ho capito che hanno un cuore e un coraggio a noi sconosciuti. Sono orgoglioso che Russom mi chiami papà. Ma nulla può avere un senso se questa tragedia non ci indicherà la strada perché non succeda mai più».

Corriere 3.12.13
L’eroina in lacrime premiata a Berlino «A Lampedusa troppi affaristi»
Le motovedette tardarono perché aspettavano ordini da Roma
di Felice Cavallaro


CATANIA — Sono passati due mesi esatti dal naufragio di Lampedusa con i 366 migranti annegati a mezzo miglio dall’isola dei Conigli. E una delle immagini che simboleggiano la tragedia è quella di Grazia Migliosini, commerciante e turista, quel giorno per caso in zona. La prima a intervenire, con sette amici, riuscendo a salvare 47 disperati. La prima a rientrare con quel carico dolente al Molo Favorolo. Lei, dritta a prua, le lacrime asciugate col dorso di una mano e una rabbia subito denunciata «per il ritardo di motovedette che invece di salvare vite umane aspettavano ordini da Roma», come disse allora e ripete oggi.
Una denuncia inquietante seguita dal silenzio su quell’equipaggio di giovani che per fortuna, avendo deciso di passare la notte in rada per pescare, all’alba si erano accorti del dramma lanciando il primo allarme. Elogi, citazioni ufficiali ed encomi a tanti non ne sono mancati. Ma Grazia e i suoi amici sono rimasti un po’ oscurati, dalle nostre parti. Mentre in Germania li hanno chiamati perfino per la notte delle stelle, i «Bambi Awards», i riconoscimenti più importanti dei media tedeschi. E lei si è ritrovata sullo stesso palco con Bill Gates e Robbie Williams, come racconta appagata: «I tedeschi si sono accorti di noi. Hanno proiettato un filmato commovente, con le immagini sul mio arrivo, in piedi sulla barca, in lacrime. Ed erano lacrime di dolore perché si poteva fare di più. Per questo ci siamo permessi di criticare chi non è arrivato in tempo per aiutarci a salvare altre decine di migranti».
Eccola a Catania, appena rientrata da Berlino, lontana da Lampedusa dove ha saputo di Domenico Colapinto, il pescatore in analisi che, dopo aver partecipato ai soccorsi, non riesce più ad andare per mare: «Io spero di riaprire la boutique in aprile, di tornare nell’isola, ma so che quelle immagini restano impresse nell’anima e tornano la notte. Così, prendo le distanze da quanti si stanno facendo un po’ di pubblicità, da qualche personalità politica, dal nostro sindaco, da alcuni aspiranti candidati a prossime elezioni, da quelli del Centro di accoglienza, da alcuni sponsor della Guardia costiera che merita rispetto ma senza nasconderne insufficienze e ritardi».
Insiste lei con Marcello Nizza, anche lui a Catania, e con gli altri amici di quella drammatica alba: «Un’inchiesta sui morti che hanno fatto morire non la faranno mai. Ma si potrà dire o no la verità se una motovedetta, invece dei 17 minuti ufficialmente strombazzati, ne impiega 47 per raggiungerci dal porto all’Isola dei Conigli? Io so che col mini-fuoribordo di mia sorella bastano cinque minuti».
Dura, determinata, amareggiata dopo la pausa tedesca, contrattacca, leggendo le ultime ricostruzioni su un’altra tragedia finita male: «Si è ripetuto lo stesso copione l’11 ottobre, con duecento migranti morti a causa dei ritardi. Al di là di ogni retorica, sprechiamo soldi e non riusciamo a impedire che questi disperati affoghino nel Mediterraneo. Basta con la retorica. Che male c’è a dire che la macchina non funziona come vorremmo? È il quesito posto a Berlino, mentre da Lampedusa a Roma noi siamo nessuno».
Ha raccolto le copie dei giornali, si è documentata e i conti non le tornano: «Quando abbiamo sentito che da Bruxelles piovevano 30 milioni di euro all’Italia ho capito che Lampedusa è il cuore di un business. Un affare. Ho scoperto che in sei anni dalla Ue sono arrivati 580 milioni di euro all’Italia per l’emergenza extracomunitari. Posso dichiararmi sorpresa? Ho il diritto di interrogarmi, visto che ho contribuito a salvare 47 disperati? No, non punto il dito contro la Guardia costiera, ma contro un sistema nel quale vedo bene immersi tanti maneggioni e opportunisti».

l’Unità 3.12.13
Porcellum, il Senato «abdica» Decide la Corte Costituzionale
La commissione rinvia la decisione sulla legge elettorale
Renziani in pressing per trasferire la questione alla Camera
Ma si rischia l’ingorgo istituzionale e Calderoli s’indigna: «Una porcata»
di Claudia Fusani


Il Parlamento si presenta a mani vuote davanti alla Consulta. Nulla di fatto, ancora una volta, una volta di più. Con l’aggravante che questa volta siamo nel mezzo di un pericoloso ingorgo istituzionale che mette insieme congresso del Pd, nuova fiducia per il governo Letta, divisione del centrodestra e Corte Costituzionale che oggi potrebbe dire che il Porcellum è incostituzionale. Il problema è che non si vede un vigile in grado di sbrogliare l’ingorgo.
Ieri sera era convocata (alle 20) la commissione Affari costituzionali del Senato. Dopo varie fumate nere, i senatori sembravano aver trovato un accordo sull’ordine del giorno di Roberto Calderoli che, funambolico, propone di tornare al Mattarellum contro il suo Porcellum.
Un ordine del giorno non è un disegno di legge. Ma sarebbe stata la prova di un accordo politico trovato e traducibile in legge in un mese.
La notizia della sconvocazione arriva poco dopo le cinque del pomeriggio. Fino a quell’ora Forza Italia ha provato a trovare un accordo con il Pd. E molti sforzi sono stati fatti per convincere Berlusconi che ormai «noi (Fi, ndr) e leghisti giochiamo partite diverse». Perché se per Forza Italia non ci sono problemi di raggiungere la soglia del 4 per cento, è chiaro che gli uomini del Carroccio preferiscono giocarsi i collegi nei territori. Ma è arrivata l’ennesima fumata nera.
Il capogruppo del Pd cerca di mettere una pezza. «Serve una nuova breve sospensione, che è stata condivisa» dice Luigi Zanda spiegando che «la nascita di un nuovo gruppo parlamentare come il Nuovo centrodestra e l’imminenza della conclusione del congresso del Pd non consentono un dibattito costruttivo». In effetti se è chiaro cosa vuole Forza Italia (il Porcellum con l’introduzione di una sogli per il premio), lo è meno il Nuovo centrodestra di Alfano. Le pressioni di Renzi sulla legge elettorale, hanno fatto il resto.
Ieri erano tutti furenti. Più di tutti Calderoli che a proposito di «porcate» ha detto: «Porcata è dire di voler cambiare il Porcellum e invece mantenerlo perchè così ha ordinato il granduca di Toscana» alludendo a Matteo Renzi. E «porcata» ha aggiunto «è affidare la palla alla Consulta o peggio affidare alla Camera la discussione per farne carne da macello».
In effetti adesso è assai probabile il passaggio alla Camera dove il fronte pro Mattarellum, o comunque anti Porcellum, è più consistente e sicuro e dove è già stata votata la procedura d’urgenza. «Questo rinvio è un fatto gravissimo» ha denunciato Loredana De Petris (Sel). «Politicamente grave e autolesionista per la maggioranza e per il governo» aggiungono i senatori Benedetto Della Vedova e Alessandro Maran di Scelta civica.
I renziani intanto si fregano le mani. «Il Senato ha fatto flop» scrivono i deputati che chiedono di portare il testo alla Camera dove assicurano di poter approvare la riforma in fretta. Il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti, 57 esimo giorno di sciopero della fame, twitta: «Ho sempre detto che il Senato non è in grado. Ora la legge vada alla Camera». Sempre che non provveda prima direttamente il governo.

l’Unità 3.12.13
Tre carte sul tavolo della Consulta. E l’incognita rinvio
di Claudia Fusani


Oggi l’udienza pubblica sulla questione 144, l’ammissibilità dei quesiti dell’avvocato Bozzi, la costituzionalità del Porcellum

La cosa potrebbe essere vista anche così: processo al Parlamento incapace in sette anni di cambiare una legge elettorale che a parole tutti biasimano ma di cui, nei fatti, non possono farne a meno. Oppure, la si potrebbe guardare dal punto di vista di un avvocato ottantenne e di antiche tradizioni liberali che s'è incaponito così tanto da fare ricorso, lui e altri 24 cittadini, e arrivare fino al secondo piano del palazzo della Consulta. Nella sala, cioè, delle pubbliche udienze della Corte Costituzionale dove stamani a partire dalle ore 9 e 30 si discuterà la «questione di costituzionalità 144/2013». Una causa – con conseguente decisione – che può cambiare la storia del Paese. E della legislatura. Più di un voto di fiducia. E più di una decadenza. Una causa che potrebbe anche rappresentare un inedito nel nostro ordinamento: potrebbe essere la Corte Costituzionale, infatti che è giudice delle leggi ma non legislatore a indicare la via per cambiare legge elettorale costringendo nei fatti il Parlamento a fare quello che non è mai stato capace di fare nonostante gli appelli, quasi le suppliche del Quirinale. Nonostante questa legislatura di “larghe intese” abbia un carattere costituente.
Era il 17 maggio scorso quando Aldo Bozzi, l’ostinato avvocato di 80 anni che si è rivolto ai giudici contro il Porcellum, si è visto riconoscere ragione dalla prima sezione civile della Cassazione. Due i punti incostituzionali del Porcellum secondo il ricorso del cittadino Bozzi: la mancanza di una soglia minima per beneficiare del premio di maggioranza alla Camera (55%); le liste bloccate di nominati.
E da qui che partirà stamani il relatore della causa, Giuseppe Tesauro davanti al presidente Gaetano Silvestri e ai tredici giudici costituzionali. Nei corridoi della Corte si dibatte da tempo sul tema e sugli aspetti delicati connessi alla questione di costituzionalità n.144.
I giudici hanno davanti tre possibilità. La prima: giudicare inammissibile il ricorso per «difetto di incidentalità». La procedura prevede che sia un giudice, e non un cittadino, a sollevare l’eccezione di costituzionalità. Sarà interessante capire come la Corte giustificherà il caso Bozzi. Questa opzione (inammissibilità) metterebbe al riparo di una serie di effetti collaterali assai temuti da giuristi e costituzionalisti. Due soprattutto: la Corte non dispone della legittimazione a scrivere o suggerire sistemi elettorali che sono prerogativa del Parlamento; un eventuale giudizio di ammissibilità, e conseguente dichiarazione di incostituzionalità del Porcellum, aprirebbe a un vuoto legislativo insopportabile per un paese democratico o, peggio che mai, al rischio di illegittimità di circa duecento deputati, quelli arrivati in Parlamento grazie al premio di maggioranza.
La seconda opzione sul tavolo della Corte è l’ammissione del ricorso e la conseguente illegittimità del Porcellum. Solo in parte, però, quella relativa al premio di maggioranza sprovvisto di soglia minima di sbarramento.
La terza opzione prevede addirittura la cancellazione del Porcellum in base al principio della «illegittimità consequenziale». Ovverosia non è possibile intervenire solo su due parti così importanti di una legge premio di maggioranza e liste bloccate senza stravolgerne il senso. Pezze e toppe giuridicamente molto azzardate. A quel punto, allora, tanto vale cancellare tutta la legge.
Fin qui lo schema di gioco principale. La seconda e terza opzione aprono un problema di vuoto legislativo(il Porcellum non può più vivere) e di «riviviscenza» della precedente legge in vigore, il Mattarellum. Ma come si fa è il dilemma in queste ore dei giudici «a far rivivere un morto senza un opportuno atto legislativo?».
L’ideale, ancora una volta, sarebbe prendere tempo. Per vedere se il Parlamento riesce a fare qualcosa. Almeno un segnale dopo l’ennesima buca ieri sera al Senato.
L’agenda della Corte è molto affollata e potrebbe dare una mano a chi ancora spera nel Parlamento. Stamani sono iscritte a ruolo 17 cause contro una media di 8-10. La «questione 144» è la prima e sarà discussa abbastanza in fretta, tra l’altro, visto che dopo la relazione di Tesauro è previsto solo l’intervento di Bozzi poichè lo Stato ha rinunciato a costituirsi in giudizio. La prassi prevede però che i giudici discutano tutte e 17 le cause prima di rititarsi in camera di consiglio. Non prima di mercoledì, a questo punto.
Nel segreto della camera di consiglio è sufficiente che un giudice alzi la mano per ottenere il rinvio della discussione di dieci giorni «data la sua rilevanza». Oppure i giudici vanno avanti, senza sospensioni nè rinvii. Dichiarano ammissibili e rilevanti i quesiti posti. Ma per saperne di più, per leggere le motivazioni, bisognerà aspettare la seconda metà di gennaio. Ultima spiaggia di un Parlamento alla deriva perchè incapace di decidere.

Corriere 3.12.13
Primarie, caso affluenza
Ora è a rischio la soglia di 2 milioni
«Europa»: meno 300 mila in dieci giorni Tra i prodiani nessuno con Cuperlo
di R. R.


ROMA — Sulle primarie del Partito democratico incombe sempre più lo spettro della scarsa affluenza ai gazebo dell’8 dicembre. A pronosticarlo sono stati ieri ben due sondaggi. Quello del quotidiano Europa , affidato all’agenzia Quorum, che fissa a un milione e 800 mila votanti l’asticella di domenica prossima, 300 mila in meno rispetto alla valutazione dello scorso 18 novembre. Con Renzi al 66 per cento, Cuperlo sopra il 20 e Civati al 12,7. E anche l’Ipr parla di meno di 2 milioni al voto e percentuali simili per i tre candidati.
È lo scenario che preoccupa più di tutti Matteo Renzi, che ieri ha proseguito il suo braccio di ferro con il vicepremier Angelino Alfano. «Non siamo noi che tiriamo la corda, sono gli italiani che stanno tirando la cinghia. Quelli che stanno subendo le difficoltà della politica sono gli italiani per bene», ha replicato infatti il candidato alla segreteria del Partito democratico al leader del Nuovo centrodestra. E ha aggiunto: «Se vinceremo noi, lavoreremo a una riduzione da un miliardo di euro dei costi della politica, a partire dal Senato, e a un gigantesco piano per il lavoro per tornare ad assumere».
Anche Gianni Cuperlo, altro candidato alla segreteria del Partito democratico, è intervenuto sulla necessità di «incalzare il governo affinché prenda quei provvedimenti indispensabili ad affrontare la crisi. Serve maggiore attenzione a chi più sta soffrendo questa crisi, ai lavoratori e anche a quegli imprenditori che non ce la fanno». Ma rivolgendosi a Renzi, Cuperlo ha ammonito: «Noi dobbiamo batterci perché Letta riesca nel suo intento, compia la svolta e abbia successo, non per seminate trappole e farlo cadere. Io non ci sto a giocare di sponda con Berlusconi. Renzi non pensi di fare il segretario nei ritagli di tempo e di oscillare continuamente tra lusinghe e minacce al governo. Dire che si fanno le cose è uno slogan, ma bisogna vedere come si fanno: per esempio, Sacconi ha appena apprezzato le parole di Renzi sulle regole del lavoro; ecco, quella di Sacconi sul lavoro non è la mia direzione. Vorrei sapere se è quella di Renzi».
Ma a Renzi si è rivolto anche Pier Luigi Bersani: «Dicono che pretenda disciplina di partito, nel caso di vittoria alle primarie: certo, con della gente che gliela dà, senza che lui gliela chieda, si fa presto a pretendere». Mentre la prodiana Sandra Zampa ha annunciato che, per la segreteria pd, darà il suo voto a Pippo Civati: «Ama la coerenza costi quel che costi». Altri, tra i vicini a Prodi, voteranno per Renzi, come Arturo Parisi. Nessuno invece, a quanto pare, per Cuperlo.

Repubblica 3.12.13
Renzi: sotto il milione e mezzo le primarie sono una sconfitta
D’Alema: niente scissioni
Il sindaco: ma non voglio il posto di Letta
di Tommaso Ciriaco


ROMA — Neanche un minuto. In caso di vittoria alle primarie Matteo Renzi è pronto ad annunciare già il 9 dicembre la nuova segreteria del Pd. L’annuncio arriva nelle ore in cui Massimo D’Alema promette di votare il sindaco di Firenze alle prossime Politiche, ma ribadisce il sostegno congressuale a Gianni Cuperlo. Il partito, intanto, rischia di spaccarsi già oggi al Senato su una mozione che obbliga le forze politiche a dichiarare prima delle Europee il gruppo di appartenenza nel ParlamentoUe. Il candidato alla segreteria dem interviene a Piazza Pulita. Annuncia che sotto il milione e mezzo d’affluenza le primarie sarebbero «una sconfitta». Torna a promettere una riduzione dei costi della politica di un miliardo di euro, giura che «abbassare le tasse è di sinistra». Poi si rivolge direttamente a Enrico Letta: «Mi dicono che voglio fregargli il posto, ma se vinco io faccio due passi indietro ». Non mancherà il sostegno al premier, a patto che l’esecutivo agisca: «Se balbetta, del Pd resteranno brandelli nell’aria».
Massimo D’Alema, però, non rinuncia a stuzzicarlo. Gli preferisce Gianni Cuperlo alla segreteria, anche se giura che mai favorirà una scissione. Alle Politiche, invece, lo sosterrà: «Certamente, è molto più adatto a fare il candidato alle elezioni. Se poi da qui al 2015 scopriamo che abbiamo Superman, lo candidiamo». D’Alema lamenta l’errore di aver lasciato la guida del partito per Palazzo Chigi, poi torna a bacchettare Renzi: «Concepisce il partito come un trampolino di lancio per volare su Palazzo Chigi, per tuffarsi. Ma la piscina è vuota perché le elezioni ancora non ci sono». Immediata la replica del candidato alla segreteria: «Vivo senza preoccuparmi troppo dei suggerimenti di D’Alema. Se c’è da tuffarsi, uno si tuffa».
Il rapporto con il candidato toscano, d’altra parte, è da sempre in chiaroscuro: «Se lui non li rompe a me — promette D’Alema — io non li rompo a lui. Io — dice conversando con l’inviato delle “Iene” — non sapevo manco chi era. Si è affermato con la parola d’ordine “rottamare D’Alema”. Tu ti saresti incazzato? E pure io».
A pochi giorni dalle primarie torna a farsi sentire anche Pierluigi Bersani. Giudica quella di Cuperlo la candidatura più convincente, ma boccia la performance televisiva dei tre contendenti: «Non è apparso ben chiaro cosa dobbiamo decidere, e cioè il segretario. Può esistere un partito oggi o dobbiamo affidarci a quelli personalistici?». Pippo Civati, intanto, ostenta ottimismo — «vinceremo noi» — e ribadisce che «il destino del governo lo sceglieranno gli elettori. E se Renzi convergerà, saremo in due a direche si va a votare in primavera». Beppe Fioroni, invece, attacca a testa bassa il sindaco di Firenze: «È più destabilizzante lui di Grillo e Berlusconi».
Come se non bastasse, approda oggi a Palazzo Madama una mozione del socialista Riccardo Nencini, sottoscritta da senatori della sinistra dem come Corradino Mineo e Ugo Sposetti. Prevede l’obbligo di indicare «prima e du-rante le elezioni Europee a quale partito europeo sono affiliati». Anche sulla scheda. Un incubo, per i popolari del Pd, da sempre ostili al matrimonio con il Pse.

l’Unità 3.12.13
Maria C. Lanzetta: «Pippo è anti-leader la gente gli crede»
di Rachele Gonnelli


«Sono emozionata, molto». Maria Carmela Lanzetta, sindaca di Monasterace nella Locride, lo sapeva già di essere diventata un simbolo, il volto della lotta contro le infiltrazioni della ‘ndrangheta nelle amministrazioni locali del Mezzogiorno. Lo ha capito fino in fondo lo scorso luglio quando le hanno sparato quattro colpi di pistola contro la macchina e la porta di casa. Ma solo da poco, dalla tv, ha scoperto di essere addirittura assurta a un pantheon di figure-guida. Lei che è sindaca di un paese di 3mila anime insieme al primo cittadino della città più importante del mondo, quel Bill de Blasio che ha fatto della lotta alla disuguaglianza sociale la bandiera di una nuova New York, più solidale. Sono questi due i riferimenti indicati nel confronto tv dal candidato alla segreteria Pd Pippo Civati.
Maria Carmela non lo sapeva che sarebbe stata chiamata in causa come simbolo. «Non me l’aspettavo proprio. Avevo deciso di votare Civati e quando i ragazzi di Vibo Valenzia e di Reggio Calabria mi hanno chiesto anche di impegnarmi a sostegno della mozione ho accettato per passione, così senza rete come faccio io, sulla scia dell’entusiasmo. Ma non mi aspettavo di essere chiamata in causa così, per me è un grande onore e una grande responsabilità».
Cosa l’ha convinta ad aderire alla mozione Civati?
«Sinceramente ciò che mi piace di più di Civati è il suo essere anti-leader, quel suo impegno a puntare sulla responsabilizzazione e sulla partecipazione dei cittadini, un metodo con il quale sta cercando di liberare il partito dalle logiche dell’apparato, la visione di un Pd semplice e accessibile. È un impegno grosso, per il quale serve un grande sforzo organizzativo. Ciò che stiamo cercando di fare è rinnovarlo partendo dalle competenze e non dalla fedeltà. E poi mi ha convinto la sua propensione ad una lettura della crisi sociale ed economica anche nel Mezzogiorno».
I candidati Pd vengono tutti e tre dal Centro-Nord, lei pensa che Civati rappresenti qualcosa di diverso per il Mezzogiorno?
«C’è da dire che la crisi sta investendo in modo drammatico tanto il Sud quanto il Nord. Nelle nostre terre però viamo in una morsa terribile, da una parte la mancanza di lavoro e l’estrema fragilità del nostro tessuto produttivo e dall’altra l’assoluta necessità di un ripristino dello stato di legalità. Questa morsa ci fa sentire più forti i bisogni. È in atto una fuga dei nostri giovani che ha per noi dei connotati luttuosi, perché se ne vanno quando entrano nell’età lavorativa per non tornare mai più. Se c’è un problema di questo tipo in Lombardia in Calabria è amplificato».
Per lei Civati interpreta più degli altri questo problema?
«Sì, perché è più vicino a chi non ha voce e ai tanti movimenti e associazioni che in tutta Italia ci esprimono solidarietà. Noi ci sentiamo ancora molto senza voce e tramite la mozione che porta il suo nome cerchiamo di darne a chi vuole restare cercando di lavorare in positivo per la legalità e il lavoro al Sud. Lavoro e legalità vanno in parallelo, sono lo stesso binario. Io sono una persona come tante, vado al lavoro nella mia farmacia ogni mattina e sento tante persone scoraggiate, che si allontanano dal voto. Invece il Pd è un partito migliore degli altri perché ha saputo organizzare primarie vere, e speriamo anche libere, per dare la possibilità di scelgliere. Speriamo che siano in tanti a partecipare, è fondamentale».
Il governo Letta fa abbastanza per il Sud?
«Il governo Letta è nato per fare la riforma elettorale e affrontare la crisi. Per il resto è meglio che lasci spazio a un governo che rappresenti la maggioranza degli italiani e che faccia, ad esempio, il salario minimo garantito e tuteli le nostre imprese».

Corriere 3.12.13
Civati: io sottostimato come Grillo a febbraio
Vinco e si va a votare
intervista di Monica Guerzoni


ROMA — «”Civoti” vince il congresso».
Esagera, onorevole Pippo Civati.
«Non esagero, ho rilevazioni interessanti. L’operazione “recuperlo” è conclusa e ora ci occupiamo di Renzi».
Cosa le fa pensare di poter battere non solo Cuperlo, ma anche Renzi?
«La mia è una posizione netta, la sua è più incerta. Prendiamo le liste per l’assemblea nazionale del Pd, dove è passato dal “rottamiamoli tutti” al “candidiamoli tutti”, a cominciare da D’Alema».
Ieri girava un sondaggio in cui Renzi è al 66, Cuperlo al 20 e lei...
«Vogliamo fare come con Grillo a febbraio, quando non ci prese nessuno? Noi abbiamo sondaggi molto diversi, ma non li possiamo dire. Si vede una grande mobilitazione in nostro favore e se parlo al plurale non è perché mi sono montato la testa dopo aver vinto il confronto tv, ma per via del “civoti”, uno slogan nel quale credo molto».
Mettiamo che lei vinca le primarie, non teme che alle prossime elezioni prevalga ancora il centrodestra?
«No, il gruppo dirigente che si è visto su Sky li batte. Loro hanno Alfano e Berlusconi, ma vogliamo scherzare? Recuperiamo i delusi, motiviamo le persone, facciamo una campagna degna di questo nome e le vinciamo noi, le elezioni anticipate».
Con il Porcellum?
«La cosa più importante è cambiare la legge elettorale e tornare al Mattarellum».
Si voterà nel 2014?
«Se si vota vuol dire che le primarie le ho vinte io, perché Cuperlo e Renzi non vogliono andare alle urne».
Nemmeno Renzi? Sicuro?
«Sicuro no, perché ogni giorno Matteo cambia idea. È contraddittorio. In tv ha detto che non si andava a votare, il giorno dopo in una intervista ha affermato l’esatto contrario e poi l’ha smentito... Vorrei sapere se sostiene Letta o no. Io ho un’idea diversa e lo dico con chiarezza».
Perché ha l’ossessione dei 101 che non votarono Prodi al Quirinale?
«Perché quei 101 parlamentari, pur avendo vinto, non si sono dichiarati e noi nel Pd dobbiamo poterci fidare del vicino di banco. In secondo luogo perché è sbagliato dire che Prodi non era e non sarebbe, in questo momento, rappresentativo del Paese».
C’è chi dice che non avesse i voti.
«Se il Pd avesse tenuto, Monti si sarebbe aggiunto e avremmo messo in difficoltà il M5S».
Però il fondatore del Pd non voterà alle primarie...
«Rispetto la sua amarezza. Ma a Prodi il 9 dicembre la tessera del partito la porto io, da segretario».

Repubblica 3.12.13
E Cuperlo avverte Matteo “Basta giocare sul governo non ci sto a imitare la Dc”
“Enrico lo fermi, così ci divide”
di Goffredo De Marchis


ROMA — Gianni Cuperlo avvisa Letta. Non sulla tenuta del governo «che deve gestire l’emergenza e il semestre europeo ». Il candidato alla segreteria chiede però al premier un intervento per garantire l’unità del Pd. «Sarebbe utile una sua parola per dire al Partito democratico che non si gioca con messaggi un giorno collaborativi e un giorno ultimativi».
Ce l’ha con Renzi?
«Penso che non servano gli ultimatum né nascondere la polvere sotto il tappeto. Dire che non si temono le urne mentre Alfano rischia di finire asfaltato da Forza Italia diventa una sponda a Berlusconi. Così non si unisce il Pd ma lo si divide”
E Letta cosa c’entra? Lui vuole tenersi fuori dal vostro congresso.
«Bene, lo rispetto. Ma forse è il caso di dire al suo partito che sulla sorte del governo e del Paese non si fanno giochi di parte. A meno che...».
A meno che?
«A meno che il messaggio non sia che tanto, dopo le primarie, “tra lui e Matteo non ci saranno problemi”. Basta saperlo. Io non ho grande interesse a partecipare al congresso postumo della Democrazia cristiana. Penso che il Pd, senza la cultura di una sinistra ripensata, semplicemente non esiste. E sono convinto che la nostra responsabilità davanti all’Italia sia enorme, perciò dobbiamo condividerla. Il che però significa che non puoi un giorno minacciare e quello dopo blandire».
Non si possono muovere critiche all’esecutivo? Lei sembra l’unico che difende l’azione del governo.
«Per me Letta ha il compito di portare l’aereo sulla pista e consentirgli di decollare. Dopo servirà un’alternativa di centrosinistra in grado di far valere la nostra cultura in Europa. A partire, me lo lasci dire, dalla vicenda di Prato. Lampedusa, Sardegna, le fabbriche in crisi, i luoghi di violenza sulla donne sono i temi su cui il centrosinistra deve rinascere. Ma Prato ha portato nel cortile di casa nostra la violazione di diritti umani e ci parla di una politica da ripensare. Allora io dico che il governo deve invertire la tendenza anche su questo. Perché l’Europa non è solo fiscal compact e conti pubblici. È anche la Carta dei diritti della persona».
Epifani propone un rimpasto di governo. Lei è d’accordo?
«Epifani propone la discontinuità e un rafforzamento dell’esecutivo e ha ragione. Io voglio aiutare Letta, poi valuti lui se e come allargare questa esperienza a partire da personalità dell’Italia migliore, nei movimenti, nel lavoro e nelle professioni, nella cultura».
Sul futuro lei dice: se vince Renzi è in pericolo l’unità del Pd. Significa che pensa alla scissione?
«No. Non ci sarà nessuna scissione. Il problema è la chiarezza di una linea. C’è qualcuno che punta a metter fine a questo governo da ora? Lo dica e se ne assuma la responsabilità. Io penso che Letta deve gestire l’emergenza e le riforme. E che il segretario del Pd debba lavorare anche all’alternativa per il dopo. In una chiarezza di ruoli e offrendo al governo sostegno e idee nel segno dell’equità a cominciare dall’Imu su cui è bene piantare la parola fine dopo mesi di messaggi confusi».
Ma il nuovo segretario avrà la possibilità di dettare la sua linea al Pd?
«Vincere le primarie non vuol dire “dettare” i compiti a tutti, governo e gruppi parlamentari compresi. Non eleggiamo un capo solitarioma un segretario e un gruppo dirigente. Aggiungo che chi guida la più grande forza del centrosinistra dovrebbe fare quello e basta. Doppi e tripli incarichi hanno corroso il civismo del Paese, non solo nella politica ma nelle università come negli ospedali. La sfida è ricostruire un’etica pubblica e questo vuol dire anche chiudere la stagione in cui un certo numero di persone ha occupato una quantità irragionevole di posti».
Troverete un accordo nel Pd sulla legge elettorale?
«Indico tre tappe. Mai più al voto col Porcellum. Promuovere il doppio turno di collegio che garantisce il diritto di scegliersi il parlamentare e una ragionevole governabilità. Ma se non fosse possibile un accordo su questa ipotesi, sono disposto a qualunque soluzione le si avvicini. Con una sola pregiudiziale: no a derive presidenzialiste, sarebbero la risposta sbagliata alla crisi profonda della nostra democrazia ».

l’Unità 3.12.13
Fabrizio Barca
«Il mio progetto va avanti, il segretario ascolti le periferie»


«Dopo mesi trascorsi a imparare un partito e verificare la tenuta di un metodo, è il momento di metterlo in pratica. E così, in un processo di mutuo apprendimento, proveremo ad applicare le idee sul partito nuovo in un numero limitato di luoghi e a tradurre le idee del territorio in prototipi per il partito».
Lo scrive Fabrizio Barca sul suo nuovo blog, che è online da ieri sera. Nel blog (www.fabriziobarca.it), sempre ieri sera, è partita una raccolta fondi (crowd funding), trasparente e limitata nel tempo (60 giorni), per consentire di portare avanti il lavoro iniziato in questi mesi di viaggio per l'Italia dei circoli Pd.
«Il mio auspicio aggiunge Barca è che dal 9 dicembre nel partito si apra uno spazio di confronto e di discussione nazionale che dia visibilità e voce alla “pressione” dei luoghi. Il nuovo segretario è chiamato a partire anche da lì. Anzi, soprattutto da lì sostiene l'ex ministro dal suo nuovo blog -. Dai buoni esempi di democrazia partecipata e dai futuristici casi di partito in Rete. Ispirandosi alla parte più vera della militanza di base, che resiste, nonostante tutto. Dimostrando che Roma sa essere meno lontana dalle periferie. Convincendosi, e convincendoci, che non è più il tempo di una dirigenza autoreferenziale e lontana dalla realtà».

Corriere 3.12.13
Intrappolati in un girotondo
di Giovanni Sartori


Specialmente noi — anche se non soltanto noi — ci siamo intrappolati in un girotondo vizioso che era facile prevedere ma che non è stato previsto. Sorvoliamo sulle colpe. Il fatto è che abbiamo creato una Comunità europea indifesa e indifendibile nella sua economia produttiva e nei suoi livelli di occupazione. Eppure era ovvio che aprirsi alla globalizzazione in un mondo nel quale i salari dei Paesi poveri, i Paesi del cosiddetto Terzo mondo, erano 5, 10, a volte persino 20 volte, inferiori ai nostri salari, avrebbe costretto le nostre industrie, specie le grandi industrie, a dislocarsi dove il lavoro costava meno.
Dunque la globalizzazione dell’economia produttiva comportava la disoccupazione europea. I Paesi più efficienti e meglio governati hanno sinora fronteggiato la situazione. Ma in parecchi membri dell’Unione Europea la globalizzazione ha gonfiato il debito pubblico a livelli non sostenibili e ha gonfiato a dismisura la burocrazia dello Stato o comunque a carico dello Stato. Oggi siamo costretti a dimagrire: per cominciare, via gli enti inutili, via le Province, via le burocrazie clientelari e gonfiate delle Regioni. La soppressione delle Province forse andrà in porto: ma con l’assicurazione che il loro personale verrà salvato e manterrà lo stipendio che aveva. E allora siamo sempre nel circolo vizioso di partenza.
Il punto è che per uscire dalla crisi di disoccupazione che ci sta facendo affondare bisogna che il lavoro torni nell’Unione Europea. Come si fa? Si fa come hanno sempre fatto tutti gli altri Paesi avanzati, ivi inclusi gli Stati Uniti e il Regno Unito (che sta in Europa sì e no), e cioè proteggendosi quando occorre. Gli europeisti ritengono invece che la soluzione sia nel federalismo; ma, come non mi stanco di ripetere, un sistema federale richiede una lingua comune.
L’unica eccezione a questa regola è la piccola Svizzera. Ma chi cita la Svizzera (che poi, salvo un’eccezione, è in sostanza bilingue) dovrebbe spiegare e adottare la formula di governo federale di quel Paese. Che è molto bizzarra e che non è certo esportabile. Al massimo l’Europa può puntare su una formula confederale con un potere centrale molto debole; ma questa soluzione non risolverebbe granché. La mia proposta invece è di una Unione Europea che sia al tempo stesso anche una unione doganale. Il che significa che una difesa doganale non può essere decretata da un singolo Stato, ma deve essere autorizzata, per esempio, dalla Banca centrale europea.
Altrimenti il nostro Paese continuerà a tassare semplicemente per pagare poco e male le pensioni, e a sussidiare poco e male i disoccupati. Un pozzo senza fondo nel quale stiamo sprofondando sempre più (altro che ripresa!), visto che abbiamo anche stabilito che l’immigrazione clandestina non è reato, e che abbiamo una ministra dell’Integrazione che si batte per istituire lo ius soli , il diritto di chi riesce ad entrare in Italia di diventarne cittadino.
A questo proposito si deve ricordare che la industrializzazione dell’Europa continentale fu favorita e protetta da una unione doganale (inizialmente lo Zollverein tedesco); in sostanza, dalla protezione delle industrie senza le quali un Paese non diventa industriale. Nel contesto dell’Unione Europea la protezione di ogni singolo Stato dovrebbe essere consentita, per esempio, dalla Banca centrale, che potrebbe anche permettere barriere interne che siano giustificate dalla difesa del lavoro e delle industrie chiave nei Paesi che le hanno perdute .
Specialmente noi — anche se non soltanto noi — ci siamo intrappolati in un girotondo vizioso che era facile prevedere ma che non è stato previsto. Sorvoliamo sulle colpe. Il fatto è che abbiamo creato una Comunità europea indifesa e indifendibile nella sua economia produttiva e nei suoi livelli di occupazione. Eppure era ovvio che aprirsi alla globalizzazione in un mondo nel quale i salari dei Paesi poveri, i Paesi del cosiddetto Terzo mondo, erano 5, 10, a volte persino 20 volte, inferiori ai nostri salari, avrebbe costretto le nostre industrie, specie le grandi industrie, a dislocarsi dove il lavoro costava meno.
Dunque la globalizzazione dell’economia produttiva comportava la disoccupazione europea. I Paesi più efficienti e meglio governati hanno sinora fronteggiato la situazione. Ma in parecchi membri dell’Unione Europea la globalizzazione ha gonfiato il debito pubblico a livelli non sostenibili e ha gonfiato a dismisura la burocrazia dello Stato o comunque a carico dello Stato. Oggi siamo costretti a dimagrire: per cominciare, via gli enti inutili, via le Province, via le burocrazie clientelari e gonfiate delle Regioni. La soppressione delle Province forse andrà in porto: ma con l’assicurazione che il loro personale verrà salvato e manterrà lo stipendio che aveva. E allora siamo sempre nel circolo vizioso di partenza.
Il punto è che per uscire dalla crisi di disoccupazione che ci sta facendo affondare bisogna che il lavoro torni nell’Unione Europea. Come si fa? Si fa come hanno sempre fatto tutti gli altri Paesi avanzati, ivi inclusi gli Stati Uniti e il Regno Unito (che sta in Europa sì e no), e cioè proteggendosi quando occorre. Gli europeisti ritengono invece che la soluzione sia nel federalismo; ma, come non mi stanco di ripetere, un sistema federale richiede una lingua comune.
L’unica eccezione a questa regola è la piccola Svizzera. Ma chi cita la Svizzera (che poi, salvo un’eccezione, è in sostanza bilingue) dovrebbe spiegare e adottare la formula di governo federale di quel Paese. Che è molto bizzarra e che non è certo esportabile. Al massimo l’Europa può puntare su una formula confederale con un potere centrale molto debole; ma questa soluzione non risolverebbe granché. La mia proposta invece è di una Unione Europea che sia al tempo stesso anche una unione doganale. Il che significa che una difesa doganale non può essere decretata da un singolo Stato, ma deve essere autorizzata, per esempio, dalla Banca centrale europea.
Altrimenti il nostro Paese continuerà a tassare semplicemente per pagare poco e male le pensioni, e a sussidiare poco e male i disoccupati. Un pozzo senza fondo nel quale stiamo sprofondando sempre più (altro che ripresa!), visto che abbiamo anche stabilito che l’immigrazione clandestina non è reato, e che abbiamo una ministra dell’Integrazione che si batte per istituire lo ius soli , il diritto di chi riesce ad entrare in Italia di diventarne cittadino.
A questo proposito si deve ricordare che la industrializzazione dell’Europa continentale fu favorita e protetta da una unione doganale (inizialmente lo Zollverein tedesco); in sostanza, dalla protezione delle industrie senza le quali un Paese non diventa industriale. Nel contesto dell’Unione Europea la protezione di ogni singolo Stato dovrebbe essere consentita, per esempio, dalla Banca centrale, che potrebbe anche permettere barriere interne che siano giustificate dalla difesa del lavoro e delle industrie chiave nei Paesi che le hanno perdute .

Corriere 3.12.13
Referendum dei Radicali, ufficiale il no della Cassazione


I sei quesiti referendari sulla giustizia promossi dai Radicali sono stati bocciati dalla Cassazione per mancanza del numero necessario di firme. La decisione ufficiale dell’ufficio referendum della Suprema corte conferma le anticipazioni dei giorni scorsi. I quesiti erano stati presentati in Cassazione a settembre. A sottoscrivere i referendum era stato anche Silvio Berlusconi. I primi due quesiti sulla responsabilità civile dei magistrati hanno raggiunto 421.117 e 406.814 firme. Il terzo quesito che chiedeva l’abolizione per i magistrati del cosiddetto «fuori ruolo», ovvero il loro impiego presso uffici legislativi, ha raggiunto 405.335 firme. Il quarto quesito contro l’abuso della custodia cautelare in carcere ha raggiunto 391.268 firme. Per l’abolizione dell’ergastolo, chiesta dal quinto quesito, sono state raggiunte solo 323.888 firme mentre per la separazione delle carriere dei giudici sono state raggiunte 403.377 firme. L’Unione delle camere penali verificherà con il Comitato promotore i motivi per cui molte firme sono state ritenute non valide.

Corriere 3.12.13
«Il rettore della Sapienza favorì il figlio»
I pm chiudono l’inchiesta per abuso d’ufficio. Adesso Frati rischia il processo
di Fulvio Fiano


ROMA — Solo tre giorni fa, all’inaugurazione di quello che dovrebbe essere il suo ultimo anno accademico da rettore — tecnicamente è in pensione già dal primo novembre ma ha fatto «responsabilmente» richiesta al ministro di mantenere il posto sfidando una diffida del sindacato — aveva speso parole di incoraggiamento per gli studenti: «L’Ateneo torni a essere un ascensore sociale». E aveva esortato Maria Chiara Carrozza, titolare del dicastero dell’Università, a «trasformare in professori a contratto quei docenti che si dedicano più alle loro personali ricerche che all’insegnamento». Merito e mobilità. Ieri è arrivata la notizia della chiusura indagini, il passo che precede di norma la richiesta di processo, per lo stesso rettore, Luigi Frati, dominus della Sapienza. Secondo l’accusa dei pm, in accordo con altre tre persone, avrebbe creato nel 2011, all’interno del policlinico Umberto I, l’ospedale universitario, un’unità programmatica autonoma rispetto a cardiochirurgia, mettendovi alla direzione Giacomo, suo figlio. Contattato al telefono, il «magnifico» si limita ad annunciare querele.
Oltre a padre e figlio gli indagati sono l’allora commissario straordinario dell’Umberto I, Antonio Capparelli, e l’ex direttore sanitario, Francesco Vaia, che avrebbero materialmente commesso l’abuso dispensando Frati jr. dal servizio assistenziale e di guardia presso la Uoc di Cardiochirurgia e attribuendogli la direzione dell’unità creata ad hoc, con propri posti letto e personale «di fatto voluta dal rettore Luigi Frati per favorire il figlio Giacomo», scrivono il pm Alberto Pioletti e l’aggiunto Francesco Caporale. Che aggiungono: «Delibera che veniva adottata in carenza di qualsiasi parere o preventiva approvazione della Regione Lazio e pertanto in violazione di norme di legge o regolamento». Rischia il processo anche Floriana Rosata, che «in qualità di dirigente dell’area risorse umane della Regione Lazio ometteva di adottare i prescritti provvedimenti di competenza in relazione a tale delibera non verificandone la legittimità e il rispetto della normativa». È accusata di omissione in atti d’ufficio.
Merito e mobilità. Le cronache dell’epoca raccontano la folgorante carriera di Frati jr., ricercatore a 28 anni, professore associato a 31, titolare di cattedra a 36, ordinario di medicina nella facoltà diretta dal padre dove hanno trovato posto anche la moglie del rettore, Luciana Rita Angeletti, laureata in lettere e docente di storia della medicina, e l’altra figlia Paola, laureata in legge e docente di medicina legale. Per far fare la giusta gavetta al figlio, Frati sr. aveva creato una dependance della Sapienza a Latina, dove il figlio ammise in un’intervista «di aver fatto pratica sui manichini» e dove il tasso di mortalità, a fronte di un numero di interventi molto sotto la media laziale, era il più alto della regione. Giacomo è pronto per il Policlinico, decide il padre, che gli affida la neoattivata guardia medica di cardiochirurgia. Quattro mesi a fare le notti e arriva la nascita dell’«Unità programmatica di tecnologie cellulari applicate alle malattie cardiovascolari», dove entra da primario. Un posto ottenuto, secondo il Tar, «con irragionevole penalizzazione dei candidati idonei».
Il rettore ricorre nelle cronache giudiziarie. Lo stesso Tar (altra sezione) ha annullato di recente il decreto di sospensione emesso da Frati nei confronti del primario cardiochirurgo dell’Umberto I, Michele Toscano, a seguito della morte di una paziente. Una vicenda che su denuncia e accuse ribaltate dallo stesso Toscano ha strascichi ancora pendenti in sede penale. Dove altri due fascicoli riguardano Frati: indagato per la manipolazione delle cartelle cliniche dei malati sottoposti a terapia del dolore nel reparto di oncologia e chiamato in causa per l’errata somministrazione (due volte) di un farmaco antitumorale a un’altra paziente, che rischiò di morire e fu dirottata, per i pm, ad altre terapie per coprire le responsabilità. In questo caso, il «magnifico» in veste di primario si autosospese «per spezzare il legame mediatico tra attacchi alla persona e coinvolgimento della struttura». «Intimidazioni», disse, «e indegne speculazioni sui malati».

Corriere 3.12.13
Quegli appalti pubblici assegnati all’uomo che finanziava i politici
Ci sono anche Matteo Renzi con i 60 mila euro per la Fondazione Big Bang e i 10 mila euro per le cene elettorali nel 2006 di Gianni Cuperlo
La cifra più alta va però a Luca Zingaretti
di Lorenzo Salvia


ROMA — Ci sono le piccole forniture, come l’acqua per un macchinario dell’università di Pavia, una bottiglia pagata 24 euro sul cosiddetto mercato elettronico contro i 4-5 chiesti dal vecchio rivenditore. E poi ci sono i grandi appalti, come quelli per i servizi di pulizia e manutenzione degli edifici pubblici, dove torna spesso il nome di Alfredo Romeo, condannato in secondo grado per corruzione e turbativa d’asta, che negli ultimi anni ha finanziato le campagne elettorali di diversi politici. Era dedicata alla Consip, la società del ministero dell’Economia che si occupa di acquisti della pubblica amministrazione, la puntata di Report andata in onda ieri sera su Raitre. «Siamo d’accordo che avere una centrale unica di acquisti sia una buona idea — dice Milena Gabanelli — ma poi dipende da come la traduci nella realtà. E come sempre la differenza la fa la qualità delle persone».
Nella «spartizione» — titolo dell’inchiesta di Emanuele Bellano e Luca Chianca — vengono ricordati i finanziamenti del gruppo Romeo alle campagne elettorali di diversi politici come Italo Bocchino (all’epoca in Fli) e Goffredo Bettini (Pd) che ha restituito 40 mila dei 50 mila euro ricevuti. C’è anche Matteo Renzi con i 60 mila euro per la Fondazione Big Bang che il sindaco di Firenze commenta così: «Io francamente non l’avrei presi, l’ho anche detto ai miei amici della fondazione. Però probabilmente non lo sapevano nemmeno». E ci sono anche i 10 mila euro per le cene elettorali nel 2006 di un altro candidato alla segreteria Pd, Gianni Cuperlo. La cifra più alta va però a Luca Zingaretti, per le elezioni del 2008 alla Provincia di Roma, con 230 mila euro. «I finanziamenti ai politici sono stati da essi stessi richiesti ed effettuati nei modi di legge» dice l’avvocato del gruppo Romeo in una lettera che Gabanelli legge in studio, aggiungendo: «Non ne dubitiamo ma possiamo sospettare che poi qualcuno venga favorito». Tra gli appalti vinti attraverso Consip dal gruppo Romeo c’è anche quello per le pulizie al tribunale di Milano, con gli «uffici giudiziari che hanno espresso il loro non gradimento».
Nell’inchiesta viene intervistato un ex dirigente Consip, ripreso di spalle, la voce camuffata. Racconta come la società non sia tenuta a controllare la conformità dei beni venduti attraverso la propia piattaforma. Ci sono solo verifiche a campione, fatte da un’azienda esterna. «La società che in questi anni ha effettuato i controlli — dicono gli autori — ha la sede in Svizzera, ed è la Sgs, il cui presidente è Sergio Marchionne».

l’Unità 3.12.13
La sinistra e la partita dell’Europa
di Alfredo Reichlin


Siamo seri, il cuore delle riforme è questo. È il rapporto tra un grande Paese come il nostro che non riesce a riformare il complesso del suo «organismo» (il nesso tra Stato e società) e una moneta unica che continua a non avere un sovrano, e che quindi non dipende da un potere collettivo, condiviso, bensì da vincoli in larga parte imposte dalle scelte del Paese più forte. Il problema, a questo punto, non è più soltanto economico. Io credo sia matura una riflessione sulle forme del potere in un mondo globalizzato. È qui che si gioca la partita della democrazia. Pongo questo problema alla vigilia delle primarie del Pd. Lo faccio per l’enorme responsabilità che pesa su questo partito e, nella convinzione che chiunque sia il vincitore molto dipende dalla coscienza di sé e del ruolo che è in grado di esprimere quell’insieme di bisogni, di culture e di speranze che mi ostino a chiamare la «sinistra», e che non accetterà mai di farsi emarginare, essendo un fattore costitutivo del Pd. So che la parola «sinistra» turba alcuni nostri amici. Ma forse non si è capito che con essa non si intende evocare storie e attori del passato. Al contrario, si cerca di misurarsi con le nuove dimensioni dei problemi e, quindi, della politica.
L’avanzata delle destre in tutta Europa non è leggibile (solo) con categorie sociologiche (i ricchi, i poveri, gli emarginati, i nuovi ceti) né (solo) con le tradizionali categorie politiche. Per capire cosa sta succedendo dobbiamo partire dalla nuova dimensione, ormai mondiale, dei processi politici e sociali essendo questi essenzialmente questi che ridefiniscono i termini dei conflitti e dei nuovi bisogni. È giusto condannare quella falsa risposta che è il «populismo». Ma la sinistra rischia davvero di ridursi a una èlite minoritaria, se non capisce che dietro il «populismo», cioè dietro l’appello diretto e demagogico al popolo in contrapposizione al sistema politico e istituzionale democratico (comprese le leggi e i tribunali, nel caso della destra italiana) non c’è solo il vecchio qualunquismo. C’è il fatto che il centro di gravità del potere risiede sempre meno nelle istituzioni rappresentative. È anche a causa di ciò che si è creata quella profonda frattura tra dirigenti e diretti che quasi ovunque si manifesta. Il popolo emerso dalla vecchia società non capisce più chi lo rappresenta, sente la vacuità della vecchia politica e finisce col condannare tutto e tutti. Possiamo disprezzare i demagoghi che ne approfittano, ma la sinistra riformista sbaglia se non capisce che dietro tutto questo c’è la necessità di ridefinire il senso e la ragione effettiva del riformismo nel mondo globale.
Dobbiamo uscire da una grande contraddizione. Siamo e restiamo convinti che una prospettiva di sviluppo dell’Italia non è pensabile se finiamo ai margini dell’Europa. Ma, al tempo stesso, non possiamo accettare i diktat dell’oligarchia dominante. Perché è vero che non è la signora Merkel ma sono i nostri sprechi e le nostre rendite più o meno malavitose che hanno accumulato l’enorme debito pubblico. Ma il rischio che il debito italiano diventi insostenibile resta, e tale resterà fino a quando ci viene imposta una linea di politica economica in cui il «rigore» si mangia le risorse per lo sviluppo e in cui i profitti finanziari si formano a scapito dell’occupazione, dei servizi sociali e degli investimenti produttivi.
Come ne usciamo? La mia tesi è che l’alternativa, in realtà, non è così secca: o mangi questa minestra o salti dalla finestra; o esci dall’Europa o ci stai dentro in questo modo. Bisogna mettere in campo la grande politica, una nuova soggettività. Non bastano i «numeri» dei centri studi, ci vogliono nuove alleanze, politiche e sociali. Sarebbe semplicemente stupido non tener conto dei numeri che riflettono la realtà e i suoi vincoli. Ma cos’è la realtà? Non è così banale e così ovvio ricordare che la realtà siamo anche noi, non sono solo i fattori esterni a noi. La realtà sono anche gli italiani: la volontà e i pensieri di sessanta milioni di persone, un quinto degli europei. La realtà non sono solo i pochi che contano. Mi chiedo, a questo proposito, noi oggi in Italia chi rappresentiamo, e chi, di fatto, abbiamo rappresentato in tutti questi anni di governo. Ce la poniamo questa domanda? Dopotutto i popoli esistono e alla fin fine ciò che decide è il loro modo di pensare, di schierarsi, di unirsi o di dividersi. Non si capisce perché la loro voce non può diventare quella di una nuova domanda di democrazia invece di quella della protesta eversiva, senza sbocco. Forse pesa anche il fatto che il nostro linguaggio è troppo simile a quello felpato dei ministri. Certo è che la costruzione europea non regge se consiste solo in un interminabile negoziato quasi incomprensibile e riservato a vertici ristretti. Non è realistico. Non è possibile misurarsi con la complessità dei problemi e dei poteri di un insieme variegato di Stati se non si mette in campo la forza di un grande e chiaro disegno politico alternativo, sia pure a medio termine, cioè con l’idea di una Europa diversa e messa sulle gambe di un movimento reale; democratico e di sinistra.
Io inviterei a riflettere bene sulla grande questione che sta venendo all’ordine del giorno. La questione della democrazia e della sovranità in un contesto sovranazionale. E inviterei tutti noi gli anziani ma anche i giovani a smetterla di pensare la politica solo nell’ambito del breve periodo. Governare non significa solo stare al governo, significa anche mettere in campo un grande disegno politico capace di parlare a trecento milioni di persone, tra le più colte e le più ricche del mondo, le quali non possono stare alla mercè di un pugno di eurocrati, se non peggio. Che prospettive ha la sinistra se non affronta questo problema?
Vorrei concludere con le parole di un autentico statista europeo, l’ex cancelliere Helmut Schimlt. «Ci troviamo di fronte a uno scenario in cui alcune migliaia di speculatori finanziari e qualche agenzia di rating americane hanno preso in ostaggio i governi europei». E così concludeva: «Se gli europei avranno la forza e il coraggio di imporre una drastica regolamentazione del mercato finanziario potremmo pensare di diventare una zona essenziale per stabilizzare il mondo. Se falliremo, il peso dell’Europa continuerà a diminuire e il mondo si avvarrà avvierà verso un duopolio Washington-Pechino».

il Fatto 3.12.13
Il cesareo alla donna italiana e lo choc dell’eugenetica inglese
di Cateria Soffici


Londra La vicenda è fumosa, ma una cosa è certa: una donna italiana ha partorito in Inghilterra e i servizi sociali britannici le hanno tolto la bambina perché la madre, definita “maniaca depressiva bipolare” era giudicata non in grado di occuparsene. La storia risale a 15 mesi fa e viene alla luce ora sul Sunday Telegraph. Secondo la versione del-l’avvocato della donna Brendan Fleming di Birmingham, l’avrebbero narcotizzata e fatta partorire con un cesareo, togliendole la neonata. Ora è partita l’azione legale per riprendere la bambina. “In 40 anni non ho mai visto un caso del genere”, ha detto Fleming. In effetti, la storia raccontata fa impressione. Tanto che il deputato liberaldemocratico John Hemming ha preannunciato un’interrogazione in Parlamento. Il nome della madre non è stato reso noto perché la legge inglese impedisce di rivelare particolari di processi dove sono coinvolti minori. Il Telegraph ha scritto che la donna era in Inghilterra per un corso di addestramento all’aeroporto londinese di Stansted, quartier generale della Ryan Air. È stata colta da un attacco di panico, pare perché non trovava più i passaporti delle altre due figlie, in Italia con la nonna. Era in un hotel ed è stata chiamata la polizia. Le hanno fatto ciò che in Italia si chiamerebbe Trattamento sanitorio obbligatorio: cioé è stata ricoverata a forza in un ospedale psichiatrico. Dopo 5 settimane, l’avrebbero narcotizzata e fatta partorire per sottrarle la neonata.
Il Console d’Italia Sarah Castellani, spiega che le autorità italiane sono state avvisate solo dopo il parto, perché la donna non ha chiesto il loro intervento prima: “Abbiamo un accordo bilaterale sui detenuti se un cittadino italiano viene arrestato le autorità britanniche ci avvisano. Ma se viene ricoverato non hanno nessun obbligo”.
QUINDI È STATO IL TRIBUNALE del minori inglese a contattare il tribunale dei minori italiano, per avvisare che la donna era lì e che non era in grado di intendere e di volere. La donna soffre di un disturbo bipolare e per questo le erano state tolte anche le prime due figlie, il cui padre è un americano tornato a vivere in America, che erano state affidate alla nonna italiana (madre della donna). Perché il padre biologico della neonata non si è fatto vivo? È un africano, vive in Italia e quando l’hanno contattato è stato chiaro che non ha alcuna intenzione di prendersene cura. Quindi i servizi sociali inglesi hanno deciso di trattenere la bambina. Secondo quando risulta al console Castellani, il desiderio della madre non sarebbe tanto di riavere la figlia con sé, ma di riunire tutte e 3 le figlie e di poterle mandare in America, dal padre biologico delle prime due, dove a occuparsene sarebbe un parente. Ma il tribunale dei minori inglesi si è opposto perché non c’è nessun legame di sangue con la terza bambina.
Storia ingarbugliata. Dove certamente la notizia del cesareo lascia esterrefatti, ma il console Castellani chiarisce: “È un dettaglio che non sapevamo e va verificato. Forse le condizioni della donna non erano tali da farle affrontare un parto. La donna è tornata in Italia per proseguire una cura psichiatrica”. L’avvocato spiega: “Abbiamo trattato altri casi del genere. Bambini tolti subito alla madre e dati in adozione. Sono casi di abbandono o di problemi psichiatrici”.

Corriere 3.12.13
La badante toscana lotta con Londra: mia figlia ha due sorelle, stia con loro
Dopo il ricovero coatto vennero contattati due nostri tribunali
di Paola De Carolis


Il malessere e la richiesta
d’aiuto Nel 2012, nell’Essex (Gran Bretagna), una ragazza italiana incinta con disturbi bipolari ha una crisi e chiede aiuto alla polizia. La donna, che si trovava nel Regno Unito per un corso di aggiornamento professionale, ha accusato il malessere in un albergo di Stansted

L’intervento forzato e l’affido
Gli agenti inglesi decidono  di portare la donna in una clinica psichiatrica dove, dopo un lungo ricovero, i medici — ottenuta dal giudice l’autorizzazione a sedare la paziente per l’intervento — procedono a un parto cesareo. Lo stesso giudice decide di affidare la bimba ai servizi sociali, escludendo di ridarla  alla madre

Il ricorso e il rigetto del giudice
Lo scorso febbraio la donna presenta un ricorso al giudice inglese per riavere la figlia che ora ha 15 mesi. Il giudice rigetta la richiesta. Per il magistrato i problemi psichici della donna sono troppo destabilizzanti per poter tenere la bambina.  Il timore è quello di una ricaduta

LONDRA — Dice che la sua bambina ha una famiglia. Lei non è in grado di prendersene cura, ma la piccola ha due sorelline a Chiusi, nel Senese. Possibile obbligarla a vivere senza conoscerle? Parole che esprimono la disperazione di una donna cosciente della propria malattia e allo stesso tempo disposta a lottare per sua figlia.
Sono loro le protagoniste di una storia che continua a suscitare scalpore e sulla quale si esprimerà adesso l’Alta corte di Londra: Alessandra Pacchieri, 35 anni, una donna bipolare, italiana (vive a Chiusi dove «si arrangia come badante di una coppia di anziani», fa sapere l’avvocato Stefano Oliva), e la figlia di 15 mesi. A febbraio il tribunale di Chelmsford, nell’Essex, aveva dato il via libera all’adozione della piccola da parte di una famiglia residente in Gran Bretagna. Il giudice aveva riconosciuto che le condizioni psichiche della madre erano migliorate ma non le aveva considerate abbastanza stabili da autorizzare il ritorno della bimba in Italia. Una sentenza contro la quale la madre ha fatto ricorso. Il presidente della sezione famiglia dell’Alta corte ha annunciato così ieri che sarà lui, da ora in poi, ad occuparsi della vicenda.
Dietro un caso all’apparenza inverosimile — il parto cesareo, dato che la madre era affetta da gravi disordini bipolari e crisi psicopatiche considerate pericolose per lei e per la nascitura, era stato ordinato da un giudice — c’è una famiglia devastata dalla malattia e in preda a grosse difficoltà. Due bambine di 11 e 4 anni avute dalla donna da due diversi uomini statunitensi sono state affidate alla nonna materna dopo il divorzio. La terza gravidanza — il padre senegalese è un immigrato che risiede in Italia senza permesso — è stata complicata da una grave ricaduta ed è terminata in un istituto psichiatrico dell’Essex.
La donna era arrivata in Inghilterra nel giugno 2012 per un corso di aggiornamento professionale all’aeroporto di Stansted. Nel giro di pochi giorni era crollata e fu disposto un ricovero coatto. Il mese successivo, a luglio, il tribunale di Chelmsford aveva informato il tribunale della città italiana dove risiede la donna dell’accaduto. Ad agosto il giudice inglese aveva predisposto il parto cesareo e informato della decisione il tribunale dei minori di Roma (che ha giurisdizione sui minori che non risiedono in Italia). La donna a dicembre era tornata a Chiusi al termine di sei mesi di cure. Un portavoce dei servizi sociali dell’Essex ha sottolineato che a differenza di quanto scritto dalla stampa le era stato permesso di vedere la bambina subito dopo il parto e ancora il giorno successivo e che ogni tentativo era stato fatto di coinvolgere la madre della donna, ma senza risultati. La nonna delle tre bambine non può più occuparsi di loro. Le due più grandi potrebbero ora essere affidate alla zia paterna, negli Stati Uniti, mentre la terza rimane in Gran Bretagna. Il padre, che è stato contattato anche grazie al Consolato italiano a Londra, ha una nuova compagna e non vuole prendersi cura della figlia.
A lottare perché la bimba torni in Italia c’è solo lei, la madre, che comunque ha ammesso alle autorità giuridiche inglesi di non essere in grado di occuparsene. Vorrebbe che fosse adottata, così come le altre figlie, dalla sorella dell’ex marito che però con la bambina non ha legami di sangue. Per le autorità inglesi non è un’opzione praticabile. «Adesso che ha fatto ricorso — spiegano al Consolato italiano — valuteremo con il ministero degli Esteri come tutelarla, assicurandoci che abbia assistenza legale e un trattamento equo». Legalmente la situazione è delicata. Il tribunale per i minori di Roma avrebbe espresso qualche riserva sull’adottabilità della bambina e soprattutto sulla richiesta da parte del giudice inglese che questa sia riconosciuta in Italia. «C’è un dialogo aperto tra i due tribunali», ha sottolineato il Consolato.
John Hemming, il deputato liberaldemocratico che ha impugnato il caso della donna italiana ed è in contatto con lei, si è detto soddisfatto che il procedimento legale sia stato trasferito all’Alta corte di Londra e sicuro che la vicenda verrà trattata con trasparenza e razionalità, mentre accusa i servizi sociali dell’Essex di «non aver seguito il regolamento, soprattutto dato che la bambina è nata e per la legge rimane italiana». Compatibilmente con i desideri della donna e le sue necessità legali conta di portare il caso all’attenzione della Camera dei Comuni.

Repubblica 3.12.13
“Io, sedata e raggirata per partorire ecco come si sono presi mia figlia”
Il racconto dell’italiana: la bambina non sia adottata in Inghilterra
di Enrico Franceschini e Fabio Tonacci


ROMA — «Rivoglio mia figlia, soffro come un animale. Mi hanno costretto a fare il cesareo, senza dirmi niente. Il giorno del parto pensavo che mi stessero solo spostando da una stanza all’altra, mentre io dicevo che volevo tornare in Italia. Poi sono stata sedata. E quando mi sono svegliata lei non c’era più. Me l’hanno presa». Parla come parlano le mamme ferite, Alessandra Panchieri, 35 anni, di Chianciano. È lei la donna con disturbo bipolare che ha denunciato di essere stata costretta nella contea di Essex, in Inghilterra, a dare in affidamento la propria bambina, subito dopo aver partorito il 24 agosto del 2012. «Parto cesareo che mi è stato imposto, non sono stata neanche informata», sostiene lei. Aggiungendo: «Non ho dato il mio assenso, né verbale né scritto, all’adozione di mia figlia. Il padre naturale, senegalese, e una mia parente americana, Indra Armstrong, erano disposti a prendere in affidamento la piccola. Ma i servizi sociali inglesi li hanno ignorati. Perché? Perché nessuno mi ha aiutato?».
Non sono le uniche domande che meritano una risposta in questa storia complessa, impastata com’è da vicende familiari un po’ sconnesse, carte bollate, ricorsi a tribunali, istituzioni sorde. In cui c’è un giudice, Roderick Newton, della Court of Chelmsford County, una sorta di corte d’appello, che in un documento ufficiale visionato daRepubblicae datato 1° febbraio 2013 definisce «unusual» l’atto del suo collega Justice Mostyn della Court of Protection, il magistrato che ha deciso il 23 agosto 2012 di sottoporre Alessandra al cesareo forzato. Scrive ancora Newton, nella sua istruttoria che ha dato il via alla procedura di adozione in Inghilterra: «I dottori che l’avevano in cura hanno sostenuto che fosse in grado di fare la madre». Impressione che però lui non ha condiviso: «Quando si è presentata davanti a me non mi sembrava stare bene».
È qui dentro, in questi due atti giudiziari in parte contraddittori, che bisogna ricercare la genesi di un caso che oltre Manica è diventato lo spunto per una battaglia a favore della trasparenza delle Corti che si occupano di materie di famiglia, portata avanti in Parlamento dal deputato liberal democratico John Hemming. E il cui riverbero però arriva in Italia, quando l’avvocato Stefano Oliva racconta le porte chiuse che si è visto sbattere davanti da quando ha preso il caso di Alessandra all’inizio del 2013 (è rientrata in Italia nell’ottobre del 2012). «Hanno abusato dei suoi diritti in maniera indegna. Ci siamo rivolti prima al tribunale dei minori di Firenze che si è dichiarato incompetente, poi a quello di Roma, dove ci è stato detto che non potevano fare niente. A maggio di quest’anno ho contattato i ministeri degli Esteri e della Giustizia, l’ambasciata, il nostro consolato a Londra. Ho ancora il carteggio, non ci hanno aiutato».
A Londra però si racconta una storia un po’ diversa. I servizi sociali britannici - sostengono fonti del consolato generale italiano - hanno contattato il tribunale dei minori di Firenze già il 26 luglio, un mese prima del parto, per metterli al corrente. Lo stesso avrebbero fatto dopo la nascita e il cesareo è stato fatto per tutelare la salute della piccola. «E Alessandra non ha mai chiesto loro ditenere la figlia, consapevole di non essere in grado. Non c’erano altri familiari disposti a prenderla in affidamento».
«Mia figlia non è pazza, si cura per un disturbo bipolare. E le hanno strappato la bimba contro la sua volontà», dice Marino Pacchieri, ristoratore con un locale sul Lago di Chiusi. Al telefono non ha voglia di aggiungere altro. Maneggia una storia più grande di lui da quando Alessandra è partita per l’Inghilterra per fare un corso di addestramento alla Ryanair, lasciando a lui le due nipoti di 11 e 4 anni, bimbe con padri diversi entrambi americani. E anch’esse tolte dai nostri servizi sociali alla potestà genitoriale di Alessandra.

l’Unità 3.12.13
Huxley, crepuscolo mortale
Suicida lo stesso giorno dell’attentato a Kennedy
Famoso per i romanzi di fantascienza Huxley si interessò a parapsicologia e misticismo filosofico sostenendo e facendo uso di allucinogeni
di Tommaso Pincio


Dopo la prima diagnosi e poi dopo l’intervento lo scrittore ebbe una serie di incubi profetici
Un racconto inedito di Pincio ripercorre gli ultimi giorni dell’autore di «Le porte della percezione»
Per lenire i dolori, i medici gli avevano prescritto
un derivato dalla morfina che stimolava zone inconsce
Malato terminale chiese alla moglie l’eutanasia proprio il 22 novembre 1963

OGGI, 22 NOVEMBRE 1963, FACEVANO ORMAI PIÙ DI TRENT’ANNI DA QUANDO ALDOUS HUXLEY AVEVA IMMAGINATO E DESCRITTO L’OSPEDALE PER MORIBONDI DI PARK LANE. IN QUELLA torre alta sessanta piani l’aria era costantemente vivificata da allegre melodie sintetiche, selezioni di profumi; estasianti ventate di paciuli si succedevano a tiepide carezze di verbena. Vi si moriva in compagnia di altri moribondi, con le comodità proprie di un Mondo Nuovo e moderno, in compagnia di decine e decine di bambini che le infermiere lasciavano liberi di scorrazzare per i corridoi e di fare chiasso affinché sapessero e imparassero. Non v'era nulla di così terribile nella morte e nessuno, tra chi era vissuto, che fosse valso più di chiunque altro.
Ai piedi di ogni letto, in faccia all’ospite in procinto di andarsene, un apparecchio televisivo era sempre in funzione, mattina e sera. Osservare le figure che si muovevano nello schermo come il popolo di un acquario aveva sul moribondo lo stesso effetto del risveglio all’interno di un sogno. Tutto era abbellito, addolcito, trasformato dal soma, la droga che scorreva nel sangue acquietando ogni cosa nel torpore di una gioia infantile.
Non era quello un buon modo di morire? Distaccarsi senza rendersene conto, scivolando in una consapevolezza sempre più vaga e sfumata simile alla quieta arrendevolezza con la quale si acconsente che il sonno fagociti lo stato di veglia. Non era forse questo il miglior modo di morire? Dormendo e, forse, sognando? (....)
Nelle ultime settimane di vita, la mente di Huxley era stata più attiva che mai. Per lenire i dolori, i medici gli avevano prescritto il Dilaudid, un derivato della morfina che, malgrado non appartenesse al gruppo delle sostanze propriamente psichedeliche, stimolava comunque zone della coscienza che di norma non affiorano nella superficie della compiuta espressione.
La parte di Huxley consapevole della morte imminente era trasparente come nemmeno un vetro potrebbe essere. Era però una parte che apparteneva al profondo e alla quale egli non dava mai sfogo né osava accennarvi.
Sua moglie Laura aveva cercato a più riprese di offrirgli l’opportunità di affrontare il discorso. Quasi ogni giorno trovava un pretesto per tirare in ballo l’argomento, ogni argomento è una luna di cui soltanto una faccia è visibile. Così, quando si trattava della morte, Huxley sceglieva sempre il lato nascosto del problema, quello della vita.
Avevano letto più volte, insieme, le bozze di una sorta manuale basato sul Libro Tibetano dei Morti. Si intitolava L’esperienza psichedelica e si presentava come una guida rivolta a coloro che intendono affrontare una sessione per l’espansione della mente. Vi si sosteneva che le istruzioni da tenere presenti nel corso di una sessione psichedelica non erano diverse da quelle che si sarebbero dovute impartire a una persona in punto di morte. Secondo il manuale, l’accettazione che l’amore è il principio cosmico, primario e fondamentale poteva essere raggiunto solo allo stesso modo in cui il moribondo, congedandosi dal proprio corpo, cessa per sempre di esprimersi attraverso passioni e desideri. (...)
La ghiandola sul collo aveva fatto la sua prima comparsa alla fine di maggio dell’anno precedente. Era gonfia e molle. Dopo un minuzioso esame, il medico era giunto alla conclusione che la protuberanza fosse soltanto la manifestazione di una qualche specie di infezione locale, nel qual caso avrebbe dovuto sparire nello spazio di un paio di settimane. Diversamente si sarebbe raccomandato di intervenire chirurgicamente e, laddove i risultati della biopsia sul tessuto asportato avessero parlato di metastasi, intervenire di nuovo per liberarsi di un paio di altre ghiandole più piccole.
Il medico si premurò di precisare che niente di invasivo era nell’aria. «Ringraziando il cielo» disse il medico, «questo genere di metastasi rimangono circoscritte e quasi mai coinvolgono altre parti dell’organismo, a meno che non le si lasci sviluppare per lungo tempo».
Quella notte Huxley fece un sogno davvero spiacevole. C’era un uomo senza volto né nome che lo stava per uccidere. L’uomo spiegava a Huxley che non sarebbe stato doloroso. Tutto sarebbe stato predisposto nel migliore dei modi e al momento opportuno. Poiché l’azione si svolgeva nell’impossibile simultaneità tipica dei sogni, mentre delucidava, l’uomo si affaccendava nei suoi preparativi omicidi, trovando per giunta il tempo di condurre Huxley da una stanza all’altra di una casa che non era una casa.
Stando al medico, però, anche nella peggiori delle ipotesi, la ghiandola non doveva destare particolari preoccupazioni. Non c’erano dunque ragioni per interpretare troppo alla lettera il sogno. Inoltre, così come era poco incline a ragionare per presentimenti, Huxley era riluttante a leggere i racconti dell’inconscio alla stregua di un messaggio cifrato. A suo modo di vedere i sogni non erano quel pullulare di significati che credevano gli psicanalisti. (...)
Pur non sottovalutando le potenzialità dei mondi evocati nel sonno, Huxley riteneva che i sognatori fossero soggetti alle inevitabili disfunzioni della complessa rete cui erano collegati.
Eppure, malgrado le sue convinzioni, se si soffermava con lo sguardo, o perfino soltanto con il ricordo, sulle foglie degli alberi, sui colori dei fiori o quello del cielo, sul il verde increspato del mare di quel mattino, un senso di dilaniante bellezza lo commuoveva fino all’annientamento. Ogni cosa sembrava carica di una intensità nuova, sul punto di scoppiare per quanto era meravigliosa. Non era, quella, la prova inconfutabile che la morte si era avvicinata di almeno un passo?
La ghiandola venne asportata il 4 luglio 1962. Il responso degli esami attribuì al tessuto una natura maligna. Il medico non si sperse d’animo; continuava a confidare in un recupero completo del paziente, a dispetto della biopsia e dei sogni di Huxley che nel frattempo si erano fatti sempre più gravidi di simboli dal senso inequivocabile. Il presentimento della fine incombente teneva il passo della metastasi e, come una metastasi, allargava i suoi domini nell’anima, addentrandosi ormai, per un verso o per l’altro, in ogni tipo di pensiero, dando manifestazione di sé finanche in assenza di qualunque pensiero. Per contro Huxley non smise di ignorare l’argomento. Come molti malati terminali, fino all’ultimo si ostinò a considerare la situazione nei termini di una fase transitoria. Perfino la sera prima, saranno state le otto, gli venne questa idea di spostarsi in un appartamento in affitto. «Tutte queste infermiere per casa. Non va bene». Pensava a Ginny e ai bambini. Non erano nel Mondo Nuovo e non era giusto imporre loro la presenza di un malato nelle sue condizioni, l’odore delle medicine, il viavai dei medici, le facce contrite, il silenzio obbligato.
«Va bene» disse Laura, «ne parlerò con Ginny che si farà una bella risata».
«No, dico sul serio. Bisogna pensare qualcosa».
Laura continuò a scherzarci sopra. «Facciamoci un bel viaggetto da qualche parte, allora».
Huxley tenne il punto. «Prendiamo un appartamento in affitto. Solo per adesso. Solo per questo periodo». Anche quella sera diede a intendere di continuare a ragionare per periodi, di credere che, di lì a poche settimane, si sarebbe rimesso per tornare alla sua vita di sempre. Le volte in cui era stato sopraffatto dalla debolezza fino a provarne spavento non si contavano più, ma l’idea di tornare alla vita di sempre era un motivo ricorrente nei suoi pensieri.
«Dobbiamo trovare un modo per accelerare questa convalescenza» aveva detto soltanto pochi giorni addietro. «Mi sento meglio, è vero. E anche la schiena va meglio, ma è così deprimente non avere la forza di fare quello che vorresti fare».
Mangiare era fuori discussione. Se provava a mandare giù qualcosa che fosse qualche cucchiaio di purè, dopo pochi bocconi cominciava a tossire per non fermarsi più. Parlava a fatica e spesso non riusciva a parlare affatto, fatica o meno. Aveva sempre la febbre e il polso alto a centoquaranta o giù di lì. Non c’era niente che andasse bene. L’unica cosa che davvero si accelerava era il peggioramento del quadro generale.
Quella mattina Huxley cominciò ad agitarsi. Il medico gli praticò un’endovenosa. Una specie di droga che avrebbe dovuto dilatargli i bronchi, farlo respirare. In passato era servito a qualcosa, ma questa volta non fece che aumentare lo stato di agitazione. Huxley non era in condizione di esprimersi, ma a tratti riusciva a implorare Laura di spostargli le gambe e le braccia, di spostarlo su un fianco e poi sull’altro, di spostare il letto.
Qualche giorno prima una giornalista europea aveva telefonato per prendere un appuntamento con Huxley. Disse che non aveva fatto seimila miglia per tornare a casa con pugno di mosche e che non sarebbe andata via dalla California senza un’intervista.
«Ma se non può nemmeno parlare» aveva protestato Laura. «Il medico gli ha prescritto silenzio assoluto».
«Niente intervista, allora. Gli darò solo un’occhiata. Lo guardo e basta. Non lo stancherà mica, essere guardato».
Laura aveva messo giù senza replicare.
Guardandolo in quello stato, adesso, le venne da pensare che qualunque cosa potesse sfinirlo. I medici avevano preparato Laura al peggio. Le avevano spiegato che gli ultimi avrebbero potuto essere dolorosi. Le avevano parlato di spasmi e crisi di soffocamento.
Alle dieci di quel mattino Huxley mormorò: «Chi è che sta mangiando nel mio piatto?»
Laura non aveva la minima idea di cosa stesse parlando.
«Lascia stare. Era solo una battuta».
Se ne stava andando ma, per qualche ragione, la sua attività cerebrale sembrava avere raggiunto una specie di apice interno.
Un giovane entrò nella stanza con una bombola d’ossigeno dicendo ad alta voce, «Avete sentito del Presidente Kenn...»
Laura lo zittì con un gesto della mano.
«Sono pesanti quelle bombole» mormorò Huxley. «Dàgli un dollaro».
Laura disse che glielo avrebbe dato, ma mentre lo diceva pensò che per prendere il dollaro di mancia sarebbe dovuta uscire dalla stanza e non voleva farlo, non voleva che lui morisse senza lei al fianco.
«Dàgli un dollaro» ripeté Huxley percependo l’esitazione della moglie. «Prendilo dalle tasche dei miei pantaloni, dentro l’armadio».
Huxley si acquietò per un tempo che rimase imprecisato perché in quella stanza, anziché scorrere come sempre fanno, i minuti galleggiavano in uno stagno di dolore, nel rimbombo ovattato del silenzio. Quindi ci fu una nuova richiesta. Gli mancavano le forze per parlare e fece capire a gesti di voler scrivere qualcosa. Scrisse poche parole dalla grafia quasi illeggibile, ma Laura credeva d sapere cosa Huxley stava cercando di dirle.
«Cento microgrammi di LSD intramuscolare?» domandò Laura.
Huxley fece sì con gli occhi.

il Fatto 3.12.13
La paura di Kiev. questo è un golpe
Non si fermano le proteste contro il governo che ha bloccato l’intesa con la Ue a favore della Russia

I gruppi dell’opposizione: pronti a una nuova rivoluzione arancione
di Giampiero Gramaglia


Che sia un pretesto, un simbolo, o davvero la posta in palio, l’Unione europea smuove le masse. Almeno in Ucraina, dove mezzo milione di persone ha manifestato contro presidente e governo, dopo il no all’intesa con l’Ue ribadito venerdì al Vertice di Vilnius in obbedienza a Mosca . Il premier Azarov parla di “colpo di stato” in atto a Kiev, dove, da domenica, oppositori bloccano il palazzo del governo e – dice il potere - si appresterebbero a lanciare l’assalto al Parlamento. Le organizzazioni internazionali e i Paesi vicini predicano calma ed esprimono preoccupazione. “Esercitiamo la pazienza, ma non vogliamo si pensi che in Ucraina tutto è permesso”, dice Azarov agli ambasciatori di Ue, Usa e Canada.
   La repressione delle manifestazioni ha fatto centinaia di feriti, fra cui una cinquantina di giornalisti. In Ucraina, in 22 anni d’indipendenza post-sovietica, il pendolo ha più volte oscillato tra Ue e Russia. E la piazza ha già dimostrato di potersi imporre, come fece la Rivoluzione Arancione, che portò al potere nel 2004 figure pro-occidentali. Corruzione, rivalità, l’impatto della crisi hanno però smorzato il movimento: così, gli ucraini hanno ridato il potere un leader più vicino alla Russia che all’Ue, l’attuale presidente Yanukovich, mentre la Tymoshenko, eroina della rivoluzione, sconta in carcere una condanna politica.
   Le proteste di domenica a Kiev e altrove, senza uguali dal 2004, sono proseguite, con l’occupazione di piazze e strade. L’opposizione appare rafforzata e invita la gente a mantenere la mobilitazione fino alle dimissioni del presidente e del governo. In difficoltà, il regime manda segnali di dialogo. Il presidente del Parlamento Rybak accetta di mettere ai voti oggi una mozione di sfiducia al governo, che il partito al potere non appoggia. E Yanukovich riconosce in tv che le forze dell’ordine “sono andate troppo oltre”. Il governo non intenderebbe proclamare lo stato d’emergenza. Ma da Mosca Putin getta benzina sul fuoco: le manifestazioni sono “preparate dall’estero” e “assomigliano più a un pogrom che a una rivoluzione”. Lo stesso Yanukovich chiama il presidente della Commissione Ue Barroso, promette
   un’inchiesta su quanto avvenuto in piazza e gli chiede di ricevere una delegazione ucraina: bisogna discutere “certi aspetti dell’accordo di associazione”, come se la questione fosse ancora aperta. Ma Yanukovich conferma pure una missione in Cina questa settimana e annuncia un viaggio a Mosca, per firmarvi

La Stampa 3.12.13
Zachar Prilepin
Ridacci oggi il nostro Stalin
“Contro gli errori del neoliberalismo”
Rappresenta il rifiuto del social-darwinismo degli ultimi vent’anni
È un simbolo di ordine. Un riscatto dall’umiliazione
È qualcosa di religioso
Parla lo scrittore russo di cui è appena uscito in Italia il nuovo romanzo Scimmia nera
intervista di Anna Zafesova


Zachar Prilepin è nato 38 anni fa in un villaggio della Russia centrale. Ha fatto il militare in Cecenia dove ha comandato un distaccamento di Omon, la famigerata polizia speciale. Oltre a esperienze televisive, cinematografiche e musicali, all’attività letteraria affianca quella politica, come opinionista e come militante del partito nazional-bolscevico di Eduard Limonov Zachar Prilepin è considerato uno dei migliori scrittori della nuova generazione russa, il «Gorkij del 2000». Una definizione che si adatta, più che al suo linguaggio vivido e sferzante, alla passione per i temi sociali, per la denuncia: la sua Russia è popolata di ragazzi arrabbiati delle periferie, di soldati mandati in Cecenia, di vittime e carnefici, di miseria e violenza. Il suo romanzo Scimmia nera, appena pubblicato in Italia da Voland (pp. 271, € 15), narra di una nuova generazione di bambini, killer senza pietà, e il protagonista, indagando le origini di questa agghiacciante «mutazione», esplora un mondo senza speranza: interi condomini di alcolizzati, poliziotti corrotti e violenti, ragazze costrette a prostituirsi alla stazione, una Russia che più che di Gorkij sa di Dostoevskij.
Personaggio carismatico che si è cimentato nel giornalismo, nella musica, nel cinema, in tv, Prilepin è anche riprendendo un’altra consolidata tradizione russa – un opinionista e un militante politico, vicino al partito nazional-bolscevico di Eduard Limonov. Un anno fa ha fatto scalpore la sua lettera a Stalin nella quale lo ringraziava per aver fatto della Russia «una potenza senza pari» e si scagliava contro i liberali che hanno «svenduto» la gloria passata.
Cosa è Stalin per un russo di 38 anni come lei?
«È una figura che si contrappone agli errori colossali del neo-liberalismo: 70 milioni di persone gettate in miseria, la guerra in Cecenia, il parlamento preso a cannonate da Eltsin nel 1993. Tutto giustificato perché “con Stalin sarebbe stato peggio”. Alla sinistra è stato chiesto di pentirsi del passato. Stalin diventa il rifiuto del socialdarwinismo degli ultimi vent’anni. Ovviamente non significa giustificare le purghe. È un simbolo. Di ordine, di una certa rigidità, di un potere che ha zero edonismo, lui che non ha lasciato nulla, solo un cappotto militare e un paio di stivali. È un riscatto dall’umiliazione. È qualcosa di religioso. Come diceva Iosif Brodsky, “il mio è il Dio del Vecchio testamento”, un Dio di violenza».
E anche una soluzione?
«La soluzione è una nuova élite che non viene scelta per i soldi. Una nuova aristocrazia, militare, spirituale, scientifica, religiosa anche. Il cambio del paradigma, coltivare coraggio e intelligenza, non indulgere nelle debolezze umane ma cercare di superarle».
E da dove dovrebbe venire fuori?
«Certo, ci vorrebbe una rivoluzione.
Un nuovo potere che coltiva una aristocrazia metafisica, un esercito di bambini colti e preparati, bastano 20 anni e il 3% della popolazione. Si tratta di rinunciare alla matrice liberale, all’idea che l’individuo viene prima della società e che la tua libertà finisce dove comincia la libertà del prossimo. Il liberalismo può funzionare in condizioni protette della serra europea. Non funziona in Russia».
Non le sembra la riedizione di un dibattito molto vecchio, slavofili e occidentalisti, e dell’idea che la Russia non può essere «un Paese normale»?
«Perché dovrebbe? Ci dicono che continuiamo a girare per una selva invece di prendere la strada maestra, ma perché non dovremmo restare nella selva?».
Anche quella dell’ingegneria sociale non è un’idea nuova.
«In realtà, anche il liberalismo, come il socialismo, auspica un uomo nuovo, solo che lo vuole spinto dai peggiori istinti, in nome del profitto e del successo».
Chi alleverà la sua aristocrazia, visto che il mondo degli adulti che lei racconta è fatto di alcolizzati, corrotti, violenti, bugiardi e approfittatori?
«Ci sono i giovani nati e cresciuti in Urss, che negli Anni 90 sono diventati la generazione “si sono spartiti tutto senza di me”. Sono i 30-40enni, non sono bacchettoni come i sovietici, ma non hanno nemmeno illusioni liberali».

Gli Ustascia, che Dylan avrebbe la colpa di aver assimilato ai nazisti e al Ku Klux Klan, furono infatti bande di massacratori alleati di nazisti e fascisti nel corso del secondo conflitto mondiale
l’Unità 3.12.13
Odio razziale. Dylan nei guai
Il musicista indagato in Francia per un’intervista
L’artista, denunciato da un’associazione croata, è accusato dalle autorità d’Oltralpe di istigazione all’odio
di Valeria Trigo


PROPRIO LUI, BOB DYLAN, UNO DEI CANTANTI PIÙ IMPEGNATI POLITICAMENTE E STRENUO DIFENSORE DEI DIRITTI CIVILI, è stato ascoltato dai magistrati francesi ed incriminato per «ingiurie» e «istigazione all’odio», in seguito ad un’intervista rilasciata all’edizione francese della rivista musicale Rolling Stone. Slate Francia riporta la notizia appresa dal giornale croato Slobodna Dalmacija tradotto dal Croatian Times. A portare l’autore di Like a Rolling Stone davanti ai giudici di Parigi è stato il «Consiglio Rappresentativo della Comunità e delle Istituzioni Croate» (gruppo di croati a Parigi) a causa di alcune parole pronunciate dal cantautore durante una delle pochissime interviste, rilasciata da Dylan al famoso magazine americano per promuovere Tempest, il suo ultimo disco. Nella fattispecie a fare infuriare la comunità croata è stato questo passaggio: «Il problema è che questo Paese, l’America, è troppo ossessionato dal colore della pelle. I neri sanno che alcuni bianchi non avrebbero mai abbandonato lo schiavismo, che se li avessimo lasciati fare sarebbero ancora sotto il loro giogo e non possono fingere di ignorarlo. Se avete il Ku Klux Klan nel sangue, i neri possono sentirlo, anche oggi. Allo stesso modo in cui gli ebrei possono sentire il sangue nazista e i serbi quello croato».
Vlatko Maric’ del Conseil reprèsentatif de la communautè et des institutions croates de France, non ha dubbi. Non usa mezzi termini, reputache si tratti «di incitazione all’odio. Non si parla di criminali croati, ma di tutti i croati. Non abbiamo nulla contro Rolling Stone come rivista o Bob Dylan come cantante», eppure la denuncia, sporta nel dicembre 2012, è partita, benché seppur accettata nella forma non è ancora stata esaminata a fondo.
Intanto il 13 novembre scorso Bob Dylan è stato insignito dal ministro della Cultura francese Aurelie Filippetti della Legione d’Onore, massima onorificenza francese la cui assegnazione al songwriter di Duluth aveva, però, creato qualche problema. Il settimanale francese Le Canard Enchainé, a maggio, aveva scatenato una polemica riportando come sul nome di Dylan non ci fosse affatto unanimità, anzi, il Gran Cancelliere Jean-Louis Georgelin lo avrebbe addirittura giudicato «indegno». I motivi? Eccesso di pacifismo e droga.
Adesso questa nuova batosta. Una sola frase, all’interno di una lunga intervista in cui in realtà Dylan dimostra per l’ennesima volta di stare dalla parte dei più deboli.

Repubblica 3.12.13
Il nuovo femminismo della Gauche al potere
di Bernardo Valli


Era quasi deserto l’emiciclo di Palazzo Borbone venerdì notte quando era all’ordine del giorno la multa da infliggere ai clienti delle prostitute. Insomma ai puttanieri. A quelli colti in flagrante e d’ora in poi punibili con una contravvenzione di 1.500 euro, che in caso di recidiva salirà a 3.750 euro, «a fini pedagogici e dissuasivi, graduali e progressivi». Il tema scotta non solo per il vasto numero dei virtuali colpevoli (il 10-12 % della popolazione maschile praticherebbe il sesso tariffato), ma perché la questione investe un’ampia gamma di sentimenti e di principi.
Domani, quando si voterà la legge nel suo insieme, si presume che l’Assemblea nazionale sarà più affollata. François Hollande snobba i deputati meno dei sei suoi predecessori nell’ultimo mezzo secolo alla testa della semipresidenziale Quinta repubblica. Gli eletti dal popolo, più considerati e quindi meno frustrati, commetterebbero un grave errore se disertassero l’appuntamento. I francesi non lo ignoreranno. Litigano, si accapigliano, scendono in piazza, quando si pongono problemi di società. Mercoledì 4 dicembre distoglieranno per un po’ l’attenzione dalle grigie notizie economiche e drizzeranno gli orecchi per seguire il voto di palazzo Borbone.
Dopo il « matrimonio per tutti », dopo gli omosessuali, ecco che la sinistra mette sulla ribalta le prostitute. Sarà pure smarrita, confusa, litigiosa, inconcludente, superata, al punto da strisciare raso terra come una lucertola nei sondaggi, ma questa Gauche tanto maltrattata pone problemi di società che gli altri trascurano. In questo è fedele ai principi che dovrebbero distinguerla. Il progetto di legge ha già provocato polemiche. Si sono mobilitati persino non pochi intellettuali, da tempo assopiti sulle sponde della Senna. Alcuni di loro, autodefinendosi «343 salauds » (343 farabutti o sporcaccioni) hanno lanciato lo slogan «giù le mani dalla mia puttana».
Najat Vallaud-Belkacem, giovane ministra e portavoce del governo, ha precisato che non si tratta di una questione di sessualità, ma del denaro che va al prossenetismo. L’esempio è la SEXKÖPSLAGEN svedese, legge che penalizza l’acquisto di atti sessuali, adottata quattordici anni fa nel paese scandinavo. Il risultato, secondo le autorità, sarebbe stato eccellente. Malmskillnadsgatan, vicino alla stazione di Stoccolma, un tempo affollata di prostitute adesso è deserta. O quasi. Sulla strada ci si imbatte in qualche ragazza alla vana, difficile ricerca di un cliente, in un quartiere che non assomiglia per nulla alla agitata Pigalle, ma al sinistro angolo di un centro d’affari disertato al tramonto. Non per questo le prostitute sono sparite a Stoccolma. Non sono più per strada ma lavorano attraverso Internet in luoghi chiusi.
È probabile che questo accada anche a Parigi, dove però le prostitute sono sparite da un pezzo da molte aree della metropoli dove avvenivano i loro incontri. Una legge di Nicolas Sarkozy contro l’adescamento, compreso quello passivo, o pacifico, vale a dire il semplice “battere il marciapiede” senza ammiccamenti ai passanti, è all’origine della scomparsa apparente delle prostituzione in molti quartieri sulla Senna. Pigalle è tuttavia sempre Pigalle. Ogni tanto se ne annuncia la morte, ma non è vero. Abito ai suoi piedi. Quel che è mutato è il meccanismo. Sotto Montmartre lo spettacolo si è banalizzato per la concorrenza delle trasmissioni televisive e dei film, e perché i costumi, e con essi gli sguardi, sono cambiati. E anche qui tutto avviene tramite il web.
Il valore «morale» della legge francese ha un’impronta femminista. A mio parere è appropriata.Giusta. Può anche essere efficace. Simultaneamente e stato annullato il reato di adescamento istituito da Nicolas Sarkozy. Non è più dunque la donna a essere colpita, ma l’uomo. Nella Francia considerata permissiva hanno prevalso gli abolizionisti, che considerano la prostituzione una forma di sfruttamento e di minaccia alla dignità umana.
Per loro le prostitute sono vittime e i prosseneti dei criminali. Come in Svezia, in Norvegia, in Islanda, soltanto quest’ultimi saranno dunque puniti dalla legge. Nessuno si illude di abolire così la prostituzione. Le donne che la praticano in Francia (tra le venti — quarantamila, contro le quattrocentomila in Germania, dove sono autorizzate le case chiuse) sono in gran parte straniere, molte provengono dall’Europa orientale. L’obiettivo é di alleggerire il ruolo di vittime delle donne senza difesa, e di trasferire almeno in parte la colpa sui clienti finora immuni, e naturalmente colpire gli sfruttatori.
Le letteratura francese è straricca di immagini che riconducono ai fatti di oggi. Penso al più grande novelliere dell’‘800, che ha scritto quasi trecento racconti, in cui nella cornice del paesaggio normanno illustra l’ipocrisia borghese, l’ironia anticlericale e spesso la prostituzione. Due capolavori di Guy de Maupassant sono La Maison Tellier e Boule de Suif, che hanno come eroine delle prostitute.
Un bravo scrittore, pessimo politico e grande puttaniere, Drieu La Rochelle, ha dedicato pagine e pagine affettuose, nel suo diario, alla donne che frequentava nei bordelli parigini, tra la Trinité e l’Operà. È come se quella remota folla femminile riaffiorasse, alla ricerca di una difficile dignità.
La linea di separazione tra «regolamentaristi », che considerano la prostituzione un’attività professionale normale, e i « proibizionisti », che denunciano lo sfruttamento, attraversa i partiti in diagonale. La sinistra ha preso l’iniziativa ma ha trovato oppositori al suo interno e alleati a destra. Gli ecologisti invocano la libertà e sono contro la legge che punisce i clienti. Nell’agosto 2011, l’allora ministro della Coesione sociale, Roselyne Bachelot, ordinò un sondaggio. Il 66% rispose «no» alla domanda: la penalizzazione dei clienti può diminuire il numero delle prostitute? Due anni dopo, con Najat Vallaud-Belkacem ministro per i Diritti della donna, il 73 % degli interrogati si è detto convinto che la lotta contro la prostituzione passa attraverso la responsabilizzazione del cliente. L’opinione è cambiata.

Repubblica 3.12.13
Oggi il Parlamento vota la legge contro la prostituzione.
Il cliente del sesso che divide la Francia
di Anais Ginori


Stage di “sensibilizzazione” e 1.500 euro di multa per chi chiede prestazioni a pagamento.
Ma è bufera sulla proposta dei socialisti.
Le lucciole protestano in nome dell’indipendenza La destra in difesa della libertà
Così tra petizioni e cortei il dibattito sul mestiere più antico del mondo spacca il Paese

PARIGI Vous couchez avec nous, vous votez contre nous. Lo slogan esposto davanti all’Assemblée Nationale non va molto per il sottile. «Venite a letto con noi, votate contro di noi». Un messaggio malizioso rivolto ai deputati che domani dovrebbero approvare la nuova, controversa legge contro la prostituzione. «Più si ostacola il lavoro sessuale e più noi prostitute siamo in pericolo», spiega Morgane Merteuil, 25 anni, che si definisce «puttana, militante, femminista», autrice dello slogan e rappresentante dello Strass, Syndicat du Travail Sexuel. «Quanta ipocrisia», aggiunge la leader delle lucciole che ha incominciato a fare la escort due anni fa per pagarsi gli studi: ha appena finito un master con tesi su Albert Camus, ma ormai non pensa di fare altri lavori. Insieme ad altre associazioni, Merteuil guida la marcia delle “putes” contro una République che vuole multare i clienti delle prostitute: 1.500 euro e quasi il doppio in caso di recidiva. Alla sanzione economica, si aggiunge uno «stage di sensibilizzazione alla lotta contro l’acquisto di atti sessuali». In un mercato come gli altri, regolato dalla domanda e dall’offerta, il governo francese ha deciso di prendersela con il consumatore.
Si tratta di dissuadere in modo graduale e progressivo i clienti», spiega la relatrice socialista, Maud Olivier. Tutto è cominciato un anno e mezzo fa, quando la giovane ministra ai Diritti delle donne, Najat Vallaud-Belkacem, ha annunciato di voler «abolire la prostituzione». Obiettivo ambizioso, ispirato al modello scandinavo e in particolare al “Sexköplagen” varato dal governo svedese nell’ormai lontano 1999. Lassù al Nord, oltre alla multa, è previsto fino a un anno di carcere. La cultura latina dei legislatori francesi ha suggerito pene meno drastiche. E nel frattempo la tanto annunciata legge non è più firmata dalla ministra Vallaud-Belkacem che alla fine ha deciso, forse ben consigliata, di delegare al parlamento l’ardua decisione. «Non vogliamo abolire la prostituzione, ma cominciare a far cambiare lementalità», precisa adesso la ministra delle Donne, trentotenne, femminista dichiarata, che ha riesumato questo dicastero, scomparso da quindici anni. Anche se in parte ridimensionata, la riforma francese resta clamorosa, contando che molti paesi vicini, dai Paesi Bassi alla Svizzera, hanno invece legalizzato da tempo i bordelli e la professione delle sex workers.
Nella proposta di legge viene abolito il reato di «adescamento passivo», varato sotto la presidenza di Nicolas Sarkozy, che penalizzava le prostitute. È prevista anche la creazione di un fondo di 20 milioni di euro per aiutare le donne che vogliono abbandonare il mestiere. Diviso per le oltre 20mila prostitute (alcuni sostengono 40mila) che ci sarebbero in Francia non è moltissimo fanno notare le associazioni. Alle straniere viene promesso anche un permesso di soggiorno di sei mesi rinnovabile ma, dicono sempre gli oppositori, per denunciare i loro magnaccia le lucciole non hanno garanzie di protezione dalla polizia. «Il governo ci propone disanzionare i clienti in cambio di diritti sociali», commenta Morgane Merteuil, la leader delle prostitute francesi. «Ma le misure sono praticamente inesistenti: solo 11,50 euro al giorno per le vittime di sfruttamento sessuale. Nel contesto economico attuale, è un gesto criminale». Secondo Merteuil, la legge non permetterà di smantellare le reti mafiose e criminali. «Anzi — dice — renderà più forti gli intermediari».Le prostitute chiedono di poter continuare a fare il loro lavoro in modo indipendente. «Vogliamo l’abrogazione di tutte le leggi specifiche sul lavoro sessuale e ottenere invece la protezione sociale, con assistenza sanitaria, contributi e pensione, così come accade per tutti gli altri lavoratori».
Sono ormai settimane che i giornali francesi non parlano d’altro, con appelli e contropetizioni. «Lo Stato deve lottare contro la tratta delle donne, non moralizzare la vita sessuale », ha tuonato in un editoriale
Le Monde, aprendo un dibattito di opinioni sulle sue pagine in cui si sono sfidate le filosofe Sylviane Agacinski favorevole alla legge («Una servitù arcaica da abolire») ed Elisabeth Badinter, contraria e preoccupata («È una dichiarazione di guerra agli uomini»). L’effetto non voluto della riforma è che per la prima volta tanti maschi, per giunta famosi, si sono esposti pubblicamente sulla questione. «Giù le mani dalla mia puttana», è lo slogan dei 343 “salauds”, maiali, citazione del celebre manifesto delle 343 “salopes”, sgualdrine, pubblicato dalle femministe nel 1971 per difendere la legalizzazione dell’aborto. Il testo apparso sulla rivista Caseur,diretta dalla giornalista Elisabeth Levy, è un’orgogliosa rivendicazione maschile del diritto a poter comprare sesso«tra adulti consenzienti». Un altro appello, concorrente, è stato lanciato dal cantante Antoine e sottoscritto anche dall’ex ministro della Cultura Jack Lang, il cantante Charles Aznavour e il regista Claude Lellouche. «Senza voler favorire né approvare la prostituzione — sostiene quest’altra petizione — rifiutiamo la proposta di punire i clienti delle prostitute». Quest’ultima petizione ha fatto scalpore perché appoggiata anche da alcune donne tra cuila cantante Jeanne Moreau e l’attrice Catherine Deneuve, che si prostituiva per diletto nel film “Bella di giorno”.
È questa la libertà delle donne: vendere, o “affittare” come dice Badinter, il proprio corpo? «Non è perché una piccola minoranza di prostitute si dichiarano libere di farlo che dobbiamo dimenticare la schiavitù ditutte le altre», obietta Maud Olivier, relatrice della legge. La dura realtà, continua, è che il 90% delle persone che si prostituiscono lo fanno per necessità o perché costrette da intermediari violenti. Anche nel governo si è alzata qualche voce contraria. Il ministro dell’Interno, Manuel Valls, sostiene che abolire “l’adescamento passivo” impedirà alla polizia di avere un «importante mezzo per il mantenimento dell’ordine pubblico».
Tra sofisticati distinguo e contradditori pareri di esperti, il primo emendamento che prevede la multa ai clienti è passato venerdì in un’aula semideserta. La destra si è divisa e una parte della sinistra, tra cui i Verdi, ha votato contro. «È il segnale dell’arcaismo della dominazione maschile che esiste ancora nel parlamento», commenta Olivier, sostenuta nella proposta di legge bipartisan da un relatore dell’Ump, Guy Geoffroy. Il malcapitato deputato della destra è stato accusato dai colleghi di essere un «vassallo al servizio di un puritanesimo vecchio stile». «Si parla tanto della soddisfazione del desiderio maschile? E perché non di quello femminile? », ha detto citando come esempio di coraggio Lucien Neuwirth, il gollista che ha promosso la legge per la legalizzazione della pillola nel 1967, morto la settimana scorsa. Il radicale Charles de Courson, favorevole alla legge, ironizza sulle improvvise defezioni in parlamento. «Un terzo dei francesi è stato con una prostituta, non si capisce perché, all’Assemblée, dovrebbe essere diverso».
Alla fine, anche grazie alle astensioni, la riforma dovrebbe passare. Dopo il voto dei deputati, è previsto un ultimo passaggio al Senato. Entro primavera, i clienti potranno essere legalmente puniti se trovati in flagranza di reato. «Il governo vuole farsi bello, ma non ha idea di come funzionano davvero le cose», spiega Denis Ponton, ex poliziotto alla Buoncostume che ha scritto un libro sulla prostituzione. Gli agenti, dice, non hanno i mezzi per applicare davvero la riforma. «L’unica differenza sarà che le prostitute entreranno in clandestinità e quindi per la polizia sarà ancora più complicato intercettare le reti di prossenetismo». Patrice Ribeiro, segretario del sindacato di categoria Synergie-Officiers, sintetizza il futuro con una battuta: «La strada per l’inferno della polizia è lastricata da buone intenzioni del legislatore ». Il dibattito più vecchio del mondo può continuare.

Repubblica 3.12.13
Svezia. Addio alle carceri i detenuti si rieducano
Meno 6% di reclusi, 4 le prigioni restituite allo Stato
Merito di programmi di recupero e pene alternative
di Paolo G. Brera


Ma come si fa ad andare avanti con 2.500 letti liberi? Come fai a tenere aperto se fai fatica persino a coprire i turni in mensa, e non parliamo di organizzare un torneo di calcio appena decente. E allora basta, qui si chiude: sono rimasti così pochi detenuti, in Svezia, che l’amministrazione penitenziaria ha deciso di restituire allo Stato quattro edifici carcerari. Grazie tante, non servono più. Si chiamano Aby e Haja, Batshagen e Kristianstad: due li venderanno, due li destinano ad altro e si vedrà.
E dire che non hanno neanche avuto un ministro Cancellieri e uno straccio di decreto Svuota carceri:è bastata un’indicazione della Corte suprema a essere meno severi nelle pene correlate alla droga, indirizzando i condannati ai programmi di recupero invece che dietro le sbarre, ed ecco lì lo Svuota carceri alla svedese: -6% in un solo anno, nel 2012. E già stavano larghi: nel 2011, secondo il Consiglio europeo, avevano 6.977 posti e ne occupavano 6.742. Ora i detenuti condannati sono poco più di 4.500.
In Italia, intanto, dietro le sbarre è un inferno: abbiamo 205 penitenziari che possono ospitare 47.649 carcerati, e secondo i datidiffusi ieri dal garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, ci stipiamo dentro 64.084 persone. Sono 16.435... esuberi, in questa parte di mondo solo Grecia e Serbia fanno (poco) peggio. «Occorre intervenire urgentemente sui nodi strutturali che producono il sovraffollamento: riforma del codice penale e di procedura penale, gli stranieri detenuti (37%) e i reati connessi alle droghe (40%)», dice Marroni.
Ecco, appunto. Lassù al nord, dove oltretutto i reati commessi sono in crescita, il problema lo hanno risolto, nonostante siano tutt’altro che concilianti. Ve lo ricordate quel papà italiano, Giovanni Colasante, che nel 2011 finì in galera tre giorni per un “rimprovero” al figlio 12enne, uno schiaffo rifilato a Stoccolma durante le ferie? Ci vanno giù duri, con chi sbaglia, ma poi quando parlano di rieducazione ci credono davvero. E lo fanno. Per assistere i condannati in regime di prova hanno più supervisori che detenuti, 4.500 volontari che diventano amici e consiglieri e insegnano a ritrovare la carreggiata. Raramente affibbiano l’ergastolo, e mai a chi ha meno di 21 anni; ma anche quando lo fanno commutano quasi sempre la pena in una “lunga” detenzione, da 18 a 25 anni. La responsabilità penale inizia sì a 15 anni, ma fino a 18 non c’è carcere né riformatorio. E i giovani si rieducano in scuole con grandi finestre e biliardino, con tanti libri, corsi d’arte e artigianato.
È dopo la sentenza che la via svedese imbocca la discesa mentre l’Italia arranca tra sovraffollamento, suicidi e recidive. «Quest’anno e il prossimo la priorità saranno i giovani aggressori e gli adulti violenti», ha detto il governatore del carcere di massima sicurezza di Kumla, Kenneth Gustafsson, alGuardian che gli ha paragonato il disastro delle carceri inglesi, dove a 10 anni puoi finire all’ergastolo: «In Svezia ci crediamo molto, nella riabilitazione. Certo, ci sono persone che non miglioreranno mai, ma per la mia esperienza la maggior parte dei detenuti vorrebbe cambiare vita e noi abbiamo il dovere di fare il possibile perché accada».

La Stampa 3.12.13
Dove osano gli atleti della Memoria
Un ragazzo svedese vince a colpi di mnemotecniche il 22° Campionato mondiale a Londra
di Claudio Gallo


Per arrivare al Centro Congressi di Croydon, nella periferia meridionale di Londra, dove si tiene il 22° Campionato mondiale della Memoria, si deve navigare attraverso le bancarelle di frutta e verdura del mercatino di Surrey Street, con i chioschi fumiganti che offrono cibo cinese, thai e mediorientale.
Bisogna proprio ricordarsi di essere a Londra (non lontano dalla casa dei Kercher, i genitori di Meredith) perché sembra invece di essere sul set di Matrix IV: volti orientali, carnagioni scure, delegati danesi che parlottano nella loro lingua spigolosa, biondi tedeschi con il badge nero-rosso-giallo, qualche sparuto inglese dalle gote rosse.
Nel salone al secondo piano dove si svolge la sfida tra un centinaio di partecipanti da una trentina di paesi, tutti intruppati in banchi scolastici, c’è un silenzio da chiesa. E’ in corso un test mnemonico, l’unica voce che si sente è il conduttore che scandisce i numeri alla rovescia.
Le prove a cui sono sottoposti gli atleti della memoria sono incredibili per la massa dei distratti, nel rassicurante recinto della normalità: memorizzare la sequenza di dieci mazzi di carte in meno di un’ora, ricordare un numero di mille cifre in meno di un’ora, fissare nella memoria un mazzo di carte in meno di due minuti.
Dietro tutto questo c’è un uomo che alla capacità di consultare il passato come se fosse un catalogo davanti agli occhi ha dedicato la vita: Tony Buzan. Settantuno anni, occhi chiari scintillanti, elegante in una giacca carta da zucchero, nessuno ha fatto più di lui per rivitalizzare l’antica arte del rammemorare. «Perché fa mentre pone un sigillo rosso sulla copia di una sua biografia i romani avevano già inventato tutto. I retori insegnavano come fare a ricordare gli argomenti da usare in un discorso».
Se qui chiedete a chiunque se con la memoria da Pico della Mirandola si nasce, tutti risponderanno di no, che il metodo e la disciplina sono fondamentali.
«No pain, no gain», senza sforzo non c’è risultato. La cartografia mentale che Buzan ha messo a punto per arrivare ai suoi straordinari risultati mnemonici discende direttamente dal «metodo della stanza romana», che nasce con il De Oratore di Cicerone. Cicerone riporta infatti la leggenda di Simonide, l’unico scampato al crollo di un salone per banchetti. Riuscì a identificare le vittime, sfigurate e irriconoscibili, ricordando il posto che occupavano a tavola.
Buzan ha inventato la tecnica delle mappe logico simboliche che ci aiuta ad andare a recuperare le informazioni, dando un nome e un colore emotivo ai ricordi che erano rimasti sfigurati. «E’ importante capire spiega che la tecnica del ricordo non è lineare ma passa attraverso immagini legate a determinate sensazioni».
Sebbene il paragone non sia ufficialmente autorizzato, le mappe mentali hanno qualcosa in comune con i mandala del Buddhismo tibetano, anch’esse cartografie, destinate a guidare la meditazione.
Consulente dei ministeri dell’Istruzione di molti governi, dalla Malesia al Sud Africa, Buzan ha convinto mezzo mondo che noi usiamo soltanto l’1 per cento delle potenzialità del nostro cervello. «La buona notizia ama ripetere è che l’altro 99 è a nostra disposizione».
Boris Nikolai Konrad, neuroscienziato tedesco di 29 anni che partecipa alla competizione fa questo esempio ipersemplificato. Reduce da un test in cui ha riconosciuto 109 volti assegnando loro il nome corretto in 15 minuti, ha spiegato: «Trasformo il nome in un’immagine e poi la associo al volto corrispondente. Così per Tom penso a Tom&Jerry oppure penso a Tom che si mangia un pomodoro». Tecnica e disciplina dunque, come conferma il «quasi sedicenne» Ni Ziqiang, arrivato scortato dalla madre da Nantong, in Cina, ieri sera 13° nella classifica generale: «A casa mi esercito ogni giorno, devo lavorare sodo per essere competitivo».
A vincere il campionato è stato lo» svedese Jonas von Essen, 22 anni. Ha cominciato ad allenarsi solo un anno fa, ha stupito tutti con la velocità dei suoi progressi.

La Stampa 3.12.13
Carlo Rosselli a Parigi, affetti e concetti
Un volume sulle orme dell’intellettuale antifascista esule in Francia
di Bruno Quaranta


Nasceva a Torino, nel 1988, la Fondazione Rosselli. Di Giovanni Spadolini il discorso ufficiale: «Itinerari in verità non coincidenti furono quelli percorsi da Carlo e Nello Rosselli, l’uno proveniente dalle sofferenze e dalle contraddizioni del socialismo e proiettato verso una profonda critica del marxismo, l’altro invece legato a quella scuola amendoliana raccolta intorno al progetto di una “nuova democrazia”».
Carlo e Nello Rosselli, due destini tragicamente conclusisi in Francia. Come quello di Piero Gobetti. Loro assassinati nel 1937 a Bagnoles-del’Orne, in Normandia, dai «cagoulards», mandante Ciano. L’arcangelo della Rivoluzione liberale deceduto lungo la Senna in seguito alle percosse degli squadristi, ligi agli ordini mussoliniani, via telegramma: «Rendere difficile vita questo insulso oppositore governo e fascismo».
Fino al 1951, i fratelli Rosselli e Gobetti riposeranno insieme, nello stesso campo, al Père Lachaise. Le salme di Carlo e Nello furono allora traslate, per volontà dei familiari, nel cimitero di Trespiano. Gobetti è ancora là: «Se non è morto in Italia un motivo c’è, teniamolo desto», non esiterà il figlio Paolo.
Il Père Lachaise è fra i luoghi del racconto, cosparso di cartografie e foto d’epoca, La Parigi e la Francia di Carlo Rosselli. Sulle orme di un umanista in esilio di Diego Dilettoso (Biblion), che sarà presentato oggi a Torino, ore 17,30, in corso Giulio Cesare 4 bis/b, sede della Fondazione (introduce Emilio R. Papa, intervengono, con l’autore, Luigi Bonanate, Carla Ceresa e Valeria Mosca, moderatore Massimo Novelli).
Carlo Rosselli e la Francia. Una parabola lunga otto anni. Cominciata nel 1929, in luglio la fuga dal confino di Lipari (con Emilio Lussu e Fausto Nitti), a cui era stato condannato per aver favorito l’espatrio di Turati. Parigi è l’approdo, la Ville degli affetti e dei concetti. Nel medesimo anno battezza il movimento «Giustizia e Libertà», riecheggiando le Rime carducciane: «Sole nel mondo regnano / giustizia e libertade». Nel 1930 diventa padre di Amelia, futura poetessa, e nel ’31 di Andrea. Sempre nel ’30 pubblica il suo «manifesto», Socialismo liberale, da ultimo, in Italia, per Einaudi, con l’introduzione di Bobbio, dove si riflette su diversità e affinità tra l’autore e Gobetti, in comune «la concezione elitistica dell’azione politica, l’idea che, per lo meno in certi periodi storici, solo élites ristrette di intellettuali illuminati possono prendere nelle loro mani il destino di una nazione».
Esuli a Parigi. Gobetti per pochi giorni, febbraio 1926, nel Quartiere Latino, in rue des Ecoles e in rue Vaugirard. Carlo Rosselli, dopo la sosta in rue des Marroniers, vicino alla pensione dov’era solito scendere Salvemini, si troverà a suo agio in place du Panthéon (scriveva alla madre nel 1933: «Amo il Quartier latino, la giovinezza e la vita intensa. Nei quartieri deserti, sulle rive melanconiche della Senna e nelle strade senza carattere della vita nuova si sente di più la lontananza»). Salvo traslocare, tale la necessità di fare economia, in rue Notre Dame des Champs, Montparnasse.
Di qui Carlo Rosselli partirà nel 1936 per la guerra di Spagna («Oggi in Spagna, domani in Italia»), qui farà ritorno nel 1937, in gennaio, avvicinandosi, in giugno, i sicari. Al funerale (suo e di Nello) parteciperà il biografo princeps Aldo Garosci, nato non lontano da Torino, a Meana di Susa. Alessandro Galante Garrone lo rammenterà «l’immagine che meglio lo rappresenta» dietro «il feretro di Carlo Rosselli, lo sguardo fisso sulle insegne di GL, un passaggio di responsabilità che si consumava».

Repubblica 3.12.13
Il Principe e i corrotti
Leggere Machiavelli al tempo della crisi
Un libro-conversazione fra Antonio Gnoli e Gennaro Sasso racconta l’attualità del pensatore fiorentino
di Alberto Asor Rosa


Cade quest’anno (più o meno) il cinquecentenario della composizione del Principe di Niccolò Machiavelli. I segnali che il paese (l’Italia, insomma) se ne sia accorto sono scarsi: qualche, sia pure non irrilevante, manifestazione universitaria; nulla a livello istituzionale (che so, un’iniziativa a cura della Presidenza della Repubblica o della Presidenza del Consiglio); poco sulla stampa; nulla nei media. Non vorrei esordire con la solita, benché giustificatissima, ma ormai ampiamente logora, querimonia: questo paese (l’Italia, insomma) non ricorda niente di sé, neanche le cose sue più alte e più belle. Machiavelli è uno dei tre-quattro intellettuali italiani (si possono ancora usare questi termini?), per cui il resto del mondo è in debito con l’Italia: insieme con lui, a volerci tenere molto stretti, Dante, Galilei e Leopardi. Per giunta, Machiavelli, interprete acutissimo di virtù e, soprattutto, di vizi italici, dovrebbe essere, e restare illivre de chevet dei nostri politici, governanti e, per la seconda volta absit iniuria verbis,intellettuali. Insieme con Machiavelli, e con lui tutti gli altri rappresentanti di una non ignobile tradizione, va a picco tutta la nostra cultura (del resto, su queste pagine ne ha già parlato opportunamente Maurizio Bettini, il 30 novembre): così si farà strada più facilmente la nuova tecnologia del sapere, orientata in larga parte a una cono-scenza senza pensiero.
Tanto più opportune e gradite arrivano dunque fra noi queste Conversazioni su Machiavelli, intitolate I corrotti e gli inetti,fra Antonio Gnoli e Gennaro Sasso (Bompiani, pagg. 208, euro 11), le quali, sia pure velocemente e sinteticamente, fanno il punto sulla situazione, elencando al tempo stesso i molteplici e resistentissimi motivi di attualità del Segretario fiorentino. Ad Antonio Gnoli il compito, svolto egregiamente, di spremere il maggior succo possibile da uno studioso eccezionale del pensiero machiavelliano come Gennaro Sasso (del quale rammenterò soltanto, fra i tanti titoli possibili, una riedizione aggiornata di un suo vecchio testo su Machiavelli, ora in due volumi: I.Il pensiero politico, e: IILa storiografia,il Mulino, 1993; e il fatto che sta attendendo conGiorgio Inglese a una Enciclopedia machiavelliana, destinata a uscire entro il 2014 presso Treccani); ma anche, con domande pungenti e qualche inserimento scomodo, andando qui e là anche al di là delle pur preziose affermazioni del Maestro.
Nessuno può pretendere che sia possibile racchiudere in un articolo di giornale una così ricca materia. Dirò solo alcune cose sulla posizione ermeneutica di Sasso, ovviamente agli intendenti già ben nota, e tuttavia nella concisione talvolta quasi epigrammatica assunta qui nelle “conversazioni”, in un certo senso ancora più precisa e chiara.
I cardini dell’interpretazione sassiana di Machiavelli sono: 1. l’idea che Machiavelli sia un pensatore profondamente anticristiano (il che gli sarebbe valso l’ostracismo da molti, e importanti e duraturi settori della nostra cultura e opinione pubblica e politica militante); 2. L’idea, mutuata dall’antico, che il mondo, siccome non è stato creato, è eterno e che perciò i suoi sommovimenti si ripetono con regolarità impressionante, anche se con fogge diverse; 3. l’idea che la storia umana si svolga lungo un piano inclinato che tende uniformemente verso il basso, cioè in decadenza inarrestabile e continua.
Se si mettono insieme queste tre (colossali) premesse, ne nasce una visione precisa del pensiero politico machiavelliano: il quale sarebbe espressione di un’energia d’insuperabile portata, che però lotta necessariamente contro forze indomabili. Perciò, per citare direttamente il Maestro, Machiavelli «ha, della storia, una concezione tragica» (p. 119); è «l’autore di un pensiero politico tragico» (p. 77); più esattamente ancora (ma il riferimento più preciso, e non infondato, è in questo caso alle Istorie fiorentine), «Machiavelli è uno storico che non evita l’apocalisse » (p. 113). In questo ragionamento su di un Machiavelli “oscuro” (la definizione ricorre più volte nelle “conversazioni”), Gnoli interviene in un certo senso per accentuarla. È questo il senso di una sua domanda a Sasso, con evidente sottolineatura: “Anche se in forma sfumata consideri Machiavelli un pensatore nichilista?” (e Sasso, a dir la verità, risponde: «Al fondo non lo era. Sempre, e ostinatamente, egli s’impone di credere che si potesse costruire una repubblica »; il che, a dir la verità, non significa negare del tutto il senso sottoposto alla domanda di Gnoli).
Se un articolo di giornale non è la sede più giusta, per esporre in tutti, i suoi aspetti, una materia così complessa, lo è ancor meno per motivare un punto di vista sia pure modestamente differenziato rispetto a quello dei due autori. Proverò soltanto a dire, anche questa volta, come la ricchezza del pensiero machiavelliano sia tale da renderne possibili letture diverse, e pure non necessariamente antagonistiche fra loro (forse complementari?).
Io, in questa fase storica, che per noi italiani va dagli albori del Risorgimento e arriva fino ai giorni nostri, ancorerei di più Machiavelli alla vicenda italia-na. Non c’è dubbio che Machiavelli pensi e operi nel momento in cui quella che io ho chiamato in numerose occasioni la “grande crisi italiana” (la “grande crisi”, di cui, si badi bene, noi siamo ancora oggi figli), sia già allora in atto. Giudicata a questa stregua la stessa idea di scrivere Il Principe e di proporlo all’attenzione dei principi italiani del tempo affinché ne prendessero esempio e incitamento, avrebbe dovuto apparire, agli occhi del suo stesso autore, inane e vane. Eppure, lo concepì e lo scrisse: perché nel grande politico il dovere del fare prevale sempre sull’obbligo del pensare (o meglio: il pensare è sempre messo al servizio del fare). Naturalmente, nel 1513-14, gli anni, appunto, della composizione dell’operetta, l’impresa teorico-politica doveva sembrare ancora possibile, per non apparire, appunto, inutile e vana. Appena qualche anno più tardi, fra il 1525 e il 1526, Machiavelli e Guicciardini prodigiosamente affiancati come non lo erano stati mai in passato, si forzano insieme di trovare gli strumenti affinché anche l’ultimo varco non si chiuda. Quando nel 1527 il loro disegno viene catastroficamente spazzato via dalle inarrestabili armate imperiali e dai lanzichenecchi trionfanti sul Papa Medici a Roma, evidentemente Il Principe nonavrebbe più potuto essere scritto; e del resto Niccolò, tanto per non lasciar dubbi in proposito ai posteri né doverne affrontare lui stesso, preferì sparire definitivamente dalla scena un mese e mezzo circa, dopo l’ingresso del Borbone a Roma (forse proprio perché si rendeva conto che nonavrebbe più potuto scrivere Il Principe e forse nessun’altra opera degna di quella?).
Insomma: Machiavelli vede, all’inizio di quella catastrofe, una possibilità ancora in atto di un’azione riparatrice, e la espone con il massimo dell’eloquenza possibile. Drammatico sì,non v’è dubbio; ma non tragico: perché qui la tragedia viene a posteriori, e Machiavelli, come chiunque altro, non era in grado di prevederla in quelle forme e dimensioni, perché se lo fosse stato il suo ragionare e prender parte sarebbero stati, lo ripeto, a loro volta semplicemente autodistruttivi (cioè, gli avrebbero tolto in tutto e per tutto la parola, e, di più, la ragione e la forza della parola).
L’ultimo capitolo, il sesto, dei Corrotti e gli inetti, s’intitola “L’Italia s’è persa” e proietta il ragionamento fino su questi nostri ultimi disperati decenni (diciamo, dalla Resistenza in poi fino ai nostri giorni, in caduta libera). Ci vorrebbe un’altra recensione per commentare a dovere questa parte del ragionamento. Anche in questo caso non si può non condividere il giudizio pesantemente negativo dei due autori. E però... E però, siamo ancora oggi prima del 1527 o dopo? Sembra che tutti, compresi (o a partire da) i nostri politici abbiano deciso che veniamo dopo. Ma Machiavelli c’insegna non solo a pensare e agire ma anche a sperare (senza di che un grande pensatore non è un grande teorico-politico ma un filosofo, eventualmente grande). Abbiamo bisogno, oggi come allora, di un Grande Politico. O almeno di un Politico. Il guaio è che, oggi, in forme diverse e molto più accentuate di allora, il politico non può fare a meno del consenso. E il consenso, si sa, abbassa tutto. E infatti: anche la volpe non ha più la forza di accompagnarsi con il leone e diventa vulpecula. Allora: questo è il problema.

IL LIBRO I corrotti e gli inetti Conversazioni su Machiavelli di Antonio Gnoli e Gennaro Sasso (Bompiani pagg. 208 euro 11)

Repubblica 3.12.13
Il patrimonio genetico trasmette anche emozioni come la paura, che porta a proteggersi dai traumi Un esperimento pubblicato su “Nature Neuroscience” racconta le fasi della successione ereditaria

La memoria cambia il Dna così passa di padre in figlio
di Elena Dusi


I ricordi non si trasmettono di padre in figlio solo attraverso i racconti o gli oggetti di famiglia. Un metodo per far tramandare la saggezza lungo le generazioni l’ha escogitato nei tempi remoti della nostra evoluzione anche il Dna. La molecola della vita non contiene solo informazioni sui “mattoni” e sulle “regole di assemblaggio” di un organismo. Ma, come si è scoperto ora, trasmette anche massime di vita. Come quella che suggerisce a un topolino appena venuto al mondo di tenersi lontano dagli odori pericolosi (come quello di un gatto) perché un antenato, prima di lui, è passato attraverso l’esperienza traumatica e ha imparato a starne alla larga.
L’esperimento raccontato da Nature Neuroscience coinvolge un gruppo di topi di laboratorio esposti a un odore normalmente piacevole: l’acetofetone, una sostanza chimica dal profumo di fiore di ciliegio. Ogni volta che l’acetofetone è stato diffuso nella gabbia, però, il topolino ha subito una piccola scossa a una zampa. Da allora, ogni spruzzata ha scatenato la paura fra i roditori del test. Fin qui si tratterebbe di una normale reazione pavloviana. Ma i ricercatori della Emory University hanno poi fatto accoppiare i topolini impauriti (tutti maschi), tenendoli lontani dalla prole. Pur non avendo mai subito una scossa elettrica, i figli hanno iniziato a tremare di paura quando l’acetofetone è stato spruzzato nella gabbia. E stesso comportamento è stato osservato nei nipoti. I ricercatori della Emory puntano a capire ora se anche i ricordi traumatici subiti dai soldati in guerra o dai sopravvissuti di altre tragedie possono trasmettersi ai figli, causando disturbi mentali. Uno degli autori dell’esperimento, Kerry Ressler, è uno psichiatra che si è occupato di casi di droga o malattie mentali ricorrenti in una stessa famiglia. «Quanti aneddoti ci dicono che il rischio si trasferisce lungo le generazioni — spiega su Nature —e che spezzare il ciclo può essere difficile».
Come un ricordo si fissi nel Dna per essere trasmesso ai figli è però un aspetto della ricerca tutt’altro che chiaro. Gli stessi autori ammettono di non riuscire a spiegare come l’odore della paura arrivi a imprimersi nella molecola della vita, e proprio in un filamento di Dna particolare come quello dello spermatozoo: l’unico ereditato dalla prole. «Ciaspettiamo che il nostro studio venga accolto con scetticismo» conferma Ressler. «Almeno fino a quando non si riusciranno a capire tutti i passaggi molecolari del meccanismo».
La spiegazione ricade in ogni caso in un nuovo campo della genetica che si chiama “epigenetica”. Il Dna può variare se si cambiano le sue basi, ovvero i “mattoni” costituenti. Ma la sua espressione può essere modificata da tutti i fattori ambientali (paura inclusa) che accendono o spengono i geni a seconda delle situazioni. Come le circostanze esterne agiscano su questi interruttori, influenzando l’attività del Dna pur senza modificarne la struttura, è proprio l’oggetto di studio dell’epigenetica. Nell’esperimento della Emory, l’acetofetone ha fatto aumentare il numero di neuroni deputati alla percezione di quell’odore (nel cervello dei topi l’olfatto occupa uno spazio assai vasto). Per qualche via sconosciuta questo cambiamento ha modificato il Dna. La variazione ha raggiunto le cellule del sistema germinale: gli spermatozoi, tanto che nei figli dei topi spaventati i neuroni dell’olfatto e i recettori dell’acetofetone sono apparsi modificati esattamente come nei genitori così come il frammento di Dna deputato alla percezione dell’odore. Come questo sia potuto avvenire, però, saranno probabilmente gli scienziati della prossima generazione a spiegarlo ai loro padri.

Repubblica 3.12.13
L’intervista
Han Brunner, presidente dei genetisti europei: “Una sorpresa continua”
“L’informazione del pericolo prepara i piccoli al mondo”
intervista di E. D.


Un campo emergente della genetica e pieno di sorprese ». Così definisce l’epigenetica Han Brunner, presidente dell’European Society for Human Genetics.
Oltre alla paura, altre emozioni o ricordi possono essere ereditati?
«Non è stata l’emozione a essere ereditata, ma l’informazione che una sostanza può essere pericolosa. Questo fa parte probabilmente del meccanismo dell’imprinting che prepara i piccoli ad affrontare l’ambiente esterno. La grande sorpresa di questo studio è che l’imprinting influenza un gene ben preciso. E che questo cambiamento viene trasmesso al Dna delle cellule germinali».
Qual è l’utilità per l’evoluzione?
«Tutti abbiamo bisogno di nascere pronti ad affrontare l’ambiente esterno. Un esempio è il cosiddetto “effetto Barker”, dal nome dell’epidemiologo che notò il fenomeno: i bambini molto magri alla nascita erano più a rischio di obesità e diabete. Evidentemente non erano pronti ad affrontare l’abbondanza di cibo».
Come fa il Dna a riconoscere un’esperienza così importante da dover essere tramandata?
«Il meccanismo che permette questa trasmissione, evidentemente, è presente già prima che l’esperienza venga vissuta. Tutti i roditori sono dunque geneticamente programmati per imparare dai genitori a evitare certi odori. Comportamenti che consideriamo istintivi nascerebbero da ciò che genitori e nonni hanno imparato a evitare, non solo da un programma genetico».

Repubblica 3.12.13
L’altro Gesù
Parla Reza Aslan, autore di una biografia di Cristo bestseller negli Usa
“io, musulmano educato dai gesuiti ho raccontato l’uomo, non il dio”
intervista di Massimo Vincenzi


NEW YORK Fine luglio, studi di Fox News: Lauren Green uno dei volti più noti della televisione incalza un uomo dall’aria disarmata e dalla voce tranquilla. Lei chiede: «Perché un musulmano scrive un libro su Gesù?». Lui, un po’ stupito: «È il mio lavoro, sono un professore, uno studioso di religioni». Ma lei ancora, senza ascoltarlo, come un disco rotto: «Sì, ok, ma perché ti sei interessato al fondatore del cristianesimo? ». Così per dieci, infiniti, minuti che sono il manifesto perfetto di una frattura culturale, della totale incapacità di comunicare. Il video “dell’intervista peggiore mai vista”, come viene subito definita, diventa virale su Internet, spopola nei talk show e sui giornali. Lui si chiama Reza Aslan, 41 anni, insegna all’Università della California, scrittore e giornalista nato in Iran, arriva in America con la famiglia dopo la rivoluzione di Khomeini. Il libro sul banco degli imputati esce ora in Italia con il titoloGesù ilribelle(Rizzoli) e negli Usa domina per mesi le classifiche dei bestseller, a partire da quella delNew York Times, che si schiera in difesa dell’autore. L’idea è quella di raccontare la figura di Cristo separando la verità storica dal mito successivo. Un’operazione, ampiamente sfruttata da altri in passato, ma avvincente, con una narrazione che scorre fluida, senza mai urtare la sensibilità del lettore, anche quello più religioso. Non c’è provocazione, non c’è sarcasmo: ma solo voglia di capire. Come spiega lui aRepubblica (con, alla fine, una postilla personale).
Immagino che lei sia stufo, ma bisogna per forza partire dall’intervista cult alla Fox News. Come è andata?
«È anche colpa mia, me lo dovevo aspettare: quella rete tv ha costruito il suosuccesso su posizioni molto conservative e radicali: la paura dell’Islam è uno dei loro marchi di fabbrica. Ma quello che mi ha colpito è stata la maniera inesorabile con cui sono stato attaccato. La conduttrice non passa mai a parlare del libro, non riesco mai ad esporre le mie tesi: non le interessano, lei vuole solo mettermi in difficoltà, rendermi ridicolo. Ed è lo stesso modo con cui vengo colpito sui social network: nessuno entra mai nel merito delle mie idee: solo insulti basati su stereotipi».
L’America ha vissuto l’Undici settembre, da allora per i musulmani tutto è stato più complicato. Com’è la situazione adesso? C’è ancora molta intolleranza?
«Non penso che il problema derivi dagli attentati alle Torri Gemelle: quelli sono un fatto, era persino naturale ci fosse risentimento e diffidenza. Il peggio è venuto dopo, intorno al 2004-2005, quando uomini politici, imprenditori, scrittori, predicatori hanno iniziato a finanziare l’industria dell’islamofobia perché hanno scoperto che paga in termini di popolarità. È più facile parlare alle paure della gente che alla loro intelligenza, poi però ricostruire la convivenza diventa complicato ».
Perché, da studioso, ha scelto di occuparsi di Gesù Cristo, sul quale c’è già una sterminata produzione letteraria?
«È la persona più importante degli ultimi duemila anni, è alla base della civiltà occidentale. Io volevo separare la sua realtà storica dal mito religioso, che è successivo. Volevo spiegare come un contadino povero e analfabeta fosse riuscito a fondare un movimento rivoluzionario in difesa dei diseredati e degli emarginati, arrivando a sfidare in maniera diretta il potere romano e delle gerarchie ebraiche. Mi interessava immergere Cristo nella sua epoca, vedere le sue azioni collegate agli eventi di quel periodo: azioni e reazioni. Perché se pensiamo alla sua dimensione religiosa è ovvio che non esiste il tempo, le sue parole e le sue azioni sono eterne, valgono sempre e per sempre. Io volevo raccontare l’uomo, non Dio».
Come ha lavorato?
«Ho iniziato le ricerche vent’anni fa: prima da studente e poi da professore. Ho usato tutte le fonti dirette dell’epoca, ho tradotto le versioni originali del Nuovo Testamento: mi sono mosso secondo i criteri scientifici che usiamo di solito all’università per qualsiasi ricerca. Poi ho messo tutto quello che ho trovato nel racconto, cercando di affascinare il lettore, di portarlo dentro la fantastica vita di Gesù. Ma ogni riga che ho scritto è documentata».
Che rapporto ha con la religione?
«La studio da sempre, è la mia vita. Credo in Dio, lo scopo delle religioni è fornire un linguaggio per aiutare le persone adefinire la propria fede. Dopo essere stato educato al cristianesimo, adesso mi sento più vicino all’Islam. Io non penso che sia più giusto o che annunci verità più forti, semplicemente sento i suoi miti, le sue metafore più consone al mio mondo ».
Lei è nato in Iran, come è stato crescere negli Stati Uniti?
«Sono arrivato nel pieno dello scontro con Teheran: l’epoca degli ostaggi, delle tensioni e qui c’erano tantissime persone ostili agli iraniani. Io, come è ovvio, come fanno tutti i bambini, ho cercato di integrarmi il più possibile nel nuovo ambiente, volevo essere americano al cento per cento e così mi sono dimenticato delle mie origini: a scuola fingevo di essere messicano per venire accettato dai compagni di classe. Poi dopo il college ho iniziato a riscoprire la mia cultura e ho recuperato il passato».
Cosa pensa dell’accordo sul nucleare?
«È una novità bellissima, penso sia il primo passo verso una svolta molto importante. Se si riesce a portarlo avanti potrebbe aprire una nuova era nei rapporti tra gli Usa e l’Iran e portare così finalmente un po’ di pace in Medio Oriente».
Segue l’azione di Papa Francesco?
«Certo, ne sono entusiasta. Io sono stato cresciuto dai gesuiti e il metodo che mi hanno insegnato mi ha portato ad appassionarmi al Gesù storico, prima ancora che a quello religioso. Il mio libro è in linea con la loro formazione: racconta un Cristo attento soprattutto ai poveri, alla loro liberazione, alla loro salvezza. Se il Papa riesce, come sta riuscendo, a rimanere fedele alle sue origini porterà nella chiesa una trasformazione mai vista prima. È il ritorno ad una vita nel segno della vocazione, lontano dalla burocrazia del potere: il suo esempio sarà rivoluzionario. Ne sono sicuro».
Sta già lavorando ad un nuovo libro?
«Vorrei scrivere sulle origini di Dio, su come si è evoluta la sua figura nel corso della storia dell’umanità, come è cambiata la concezione che hanno gli uominidi lui».
Andrà alla Fox a presentarlo?
«Di sicuro. Secondo lei mi invitano?».
È passata quasi un’ora. Ma, prima dei saluti, come per rispondere ad una domanda mai fatta aggiunge: «Mia mamma è cristiana, così come mia moglie e mio fratello. A 15 anni, dopo essermi imbattuto in Gesù ascoltando la sua storia in un campo estivo, ne sono rimasto talmente rapito che andavo in giro per le strade fermando gli sconosciuti narrando loro la buona novella: tipo giovane predicatore. Mi prendevano per matto, i miei genitori si preoccupavano. Io non avrei mai potuto scrivere un libro contro i miei valori, contro le persone che amo e in cui credo. Volevo solo capire. Solo capire».

IL LIBRO E L’AUTORE Reza Aslan ha scritto Gesù il ribelle (Rizzoli, trad. di Stefano Galli, Sara Reggiani e Leonardo Taiuti) pagg. 342, euro 19,50)

Repubblica 3.12.13
A Scalfari l’omaggio dell’Europarlamento


BRUXELLES — Eugenio Scalfari riceverà domani un riconoscimento speciale da parte del Parlamento europeo «per il suo impegno critico, la volontà di promuovere l’ideale europeo, la difesa della democrazia, dei diritti umani e della libertà di espressione e l’indipendenza indomabile ». L’omaggio al fondatore diRepubblica,che avviene sotto gli auspici del presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, è stato attribuito dal presidente della giuria del Prix du livre européen, Bernard-Henri Lévy, e dall’associazione Esprit d’Europe patrocinata da Jacques Delors e Pascal Lamy. Insieme con Scalfari, saranno premiati i fondatori di altri tre grandi giornali europei: Jean Daniel del Nouvel Observateur, Juan-Luis Cebrián diEl Paise Adam Michnik di Gazeta Wyborcza.

il Fatto 3.12.13
Promesse mancate e caos totale: ultimi crolli a Pompei
di Vincenzo Iurillo


ROMESSE MANCATE E CAOS TOTALE: ULTIMI CROLLI DI POMPEI
BASTA UNA PIOGGIA PER FAR SBRICIOLARE I RESTI DEL SITO ARCHEOLOGICO: STAVOLTA TOCCA AL MURO DI VIA STABIANA CI SONO 105 MILIONI DA SPENDERE, MA NESSUNO SA COME

Pompei Negli Scavi di Pompei il terrore corre sul filo delle previsioni meteo. Un paio di piogge più intense del solito, e il sito archeologico si sfarina. L’altro ieri notte è crollato un piccolo pezzo di intonaco affrescato all’ingresso della Casa della Fontana Piccola, ed è caduto giù il muro di una bottega adiacente a via Stabiana, nella Regio VII. “Opera incerta” e “danno limitato” minimizza in un comunicato la Soprintendenza per i Beni Archeologici che annuncia come imminenti i lavori di messa in sicurezza delle Regiones circostanti, le cui gare sono in via di conclusione, e attribuisce le cause del degrado delle murature al fatto che siano state realizzate con pietrame minuto e malta molto povera. Sarà. Ma qui è tutto un allarme, tra cartelli di lavori in corso e di chiusura al pubblico. Appena il 24 novembre ci sono stati altri preoccupanti segnali della (mal) tenuta generale della Pompei archeologica: cedimenti negli stucchi della Domus e squarci nelle mura delle Terme, mentre nei vicini Scavi di Ercolano si verificava il cedimento in una zona della Casa dell’Atrio Corinzio. Pioveva, molto, anche in quei giorni. E gli operatori del settore, quando scende l’acqua, si innervosiscono. Ieri una guida quasi gridava: “Cadono due pietre senza importanza e subito titolano ‘Pompei crolla’”. “E dove sono queste due pietre cadute”? “Voi chi siete? Un giornalista? ”.
CERTO, POCA roba rispetto alla rovina della Domus dei Gladiatori venuta totalmente giù durante l’orribile novembre del 2010 – quanta pioggia anche allora. E ci prova l’ex ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi quando azzarda paragoni tra quel disastro e gli episodi di questi giorni: “Il Capo dello Stato espresse il suo sdegno e partì una barbara caccia all’uomo. Naturalmente, nessuno, tantomeno il Presidente della Repubblica, ha creduto di dire una sola parola in seguito agli innumerevoli crolli che si sono verificati dal 2010 ad oggi, gli ultimi in questi giorni, né - figuriamoci - di chiedere delle scuse”. A parte le scuse che ora rivendica Bondi per il prosieguo dei crolli anche dopo il suo infelice ministero, il “poeta” verrà ricordato, soprattutto, per gli sprechi della gestione commissariale finiti sotto inchiesta.
Intanto, mentre Pompei si sbriciola, Roma discute. Della nomina del direttore generale del “Grande Progetto Pompei’, che gestirà 105 milioni di euro per il restauro generale del sito messi da parte combinando fondi nazionali e Ue, da spendere entro il 2015. La nomina è di competenza del ministro dei Beni Culturali Massimo Bray, che promette di ufficializzarla “entro il 9 dicembre”. La firma poteva arrivare già a metà ottobre. Una petizione che corre sul web attribuisce i ritardi a una lotta intestina nel Mibac. E lancia l’allarme sui tempi ristrettissimi: il prescelto dovrà stilare entro il 31 dicembre un piano che convinca l’Unesco a non revocare per Pompei lo status di “patrimonio dell’umanità”. Con il rischio che i finanziamenti europei vadano in fumo.

Repubblica 3.12.13
L’incompetenza e i crolli di Pompei
di Salvatore Settis


Scadono l’8 dicembre i tempi per la nomina del nuovo direttore generale di Pompei, ma non si arrestano i crolli nella sfortunata città: adesso è toccato al muro di una bottega in via Stabiana e all’intonaco della Casa della Fontana piccola. Per sanare questa vergogna, ci sono già fondi (in parte europei) per 105 milioni di euro, ma si richiedono altissime competenze specializzate. Eppure, a quel che pare, il governo non cerca archeologi per Pompei, ma diplomatici o banchieri.
E non è un caso isolato: nella corsa all’incompetenza che è fra gli sport più amati dagli italiani, si ritiene che gli incarichi di vertice nei beni culturali non vadano agli esperti ma a manager tuttofare, pronti a saltare agilmente da McDonald’s o da una banca ad alte responsabilità ministeriali. Per «adeguarsi agli standard internazionali», ci vien detto. Ma il presidente-direttore del Louvre è un ottimo archeologo classico, Jean-Luc Martinez; il direttore della National Gallery di Londra è uno storico dell’arte coi fiocchi, Nicholas Penny; il direttore e Ceo (amministratore delegato) del Metropolitan Museum di New York è Thomas Campbell, eccellente studioso di arazzi; il direttore del Getty Museum di Los Angeles è Timothy Potts, espertissimo archeologo. Gli esempi qui scelti (ma si potrebbe continuare ad libitum) non sono anziani signori abbarbicati alla poltrona: sono nomine recentissime, di studiosi attivi nel loro campo, ma anche efficaci amministratori.
Governo e privati fanno a gara in questo festival dell’incompetenza: il bando per la direzione del Museo Egizio di Torino (secondo al mondo dopo quello del Cairo), lanciato dalla privata Fondazione che gestisce questo Museo di proprietà pubblica, non menziona nemmeno l’egittologia fra i prerequisiti del futuro direttore. Titolo preferenziale è, anzi, la laurea in «economia e management di beni culturali», accompagnata da attitudine al fund raising. Di egittologia neanche l’ombra. Ma come farà, un direttore incapace di decifrare un geroglifico, a dialogare alla pari con i suoi colleghi di Berlino o di Parigi? L’International Council of Museums, riunito ad Assisi pochi giorni fa, ha stilato una lettera di raccomandazione in cui si stigmatizza la mancata richiesta di una specifica preparazione in egittologia e si chiede che il bando di concorso venga rivisto.
Ma il versante pubblico non è da meno: è in questa logica che Bondi spedì alla direzione generale della Valorizzazione Mario Resca, un manager che veniva da McDonald’s. E oggi si parla di Giuseppe Scognamiglio, responsabile public affairsdi Unicredit, alla nuova direzione generale di Pompei istituita dal decreto “Valore cultura”. In altri termini, il “valore cultura” consiste nell’affermare che la cultura non ha alcun valore se non nelle mani di un manager privo di competenza specifica. Alle spalle di questa nomina c’è una catena di fallimenti: non solo Resca, che ha lasciato il Ministero dopo anni inconcludenti, ma prefetti e generali in pensione paracadutati a Pompei con lamission impossible di fare un lavoro che non è il loro. Ma l’arroganza del potere continua a giocare sulla scacchiera delle poltrone intendendole come nomine politiche, senza riguardo agli standard internazionali e infischiandosene del fallimento certo a cui si va incontro.
Intanto il sindaco di Pompei ha nominato “ambasciatore di Pompei nel mondo” Emanuele Filiberto di Savoia. Il privato (a Torino), il pubblico (a Pompei) e perfino le dinastie in disarmo: tutto fa brodo, pur di evitare a qualsiasi costo che i beni culturali siano gestiti da chi se ne intende. Queste due nomine (Torino e Pompei), entrambe imminenti, sono un banco di prova per la credibilità del Paese: se ne accorgeranno, i nostri politici intenti a rattoppare alleanze e giochi di potere?

Repubblica 3.12.13
Crolli di Pompei, Bray sotto accusa
Il centrodestra attacca il ministro: “Per Bondi si chiesero dimissioni”
di Francesco Erbani


APompei crollano pezzi di muro e di intonaco e a Roma il ministro Massimo Bray finisce nel mirino di parlamentari di Forza Italia: quando c’era Sandro Bondi e le domus si sfarinavano, accusano, tutti inveivano contro il titolare dei Beni culturali, e ora? Nel frattempo — altre polemiche — è in arrivo un nuovo direttore generale, incaricato proprio di mettere in sicurezza il sito archeologico fra i più importanti al mondo: sarà Giuseppe Scognamiglio, un passato come uomo di banca e di diplomazia? La decisione è attesa entro l’8 dicembre, quando scadono i termini previsti dalla legge Valore cultura, ma qualcuno sostiene che potrebbe essere anche questione di ore. Le domande però incalzano: perché Scognamiglio che, si è sempre detto, non incontra il favore del ministro Massimo Bray almeno quanto quello del premier Enrico Letta? Quali competenze può sfoggiare per gestire i 105 milioni che l’Unione europea ha destinato per i restauri pompeiani?
Ma intanto le piogge inzuppano Pompei. Domenica sono crollati il muro di una bottega in via Stabiana e una parte dell’intonaco nella Casa della Fontana piccola. Danni lievi, rispetto allo sbriciolarsi della Schola Armaturarum nel novembre del 2010, quando il mondo intero si accorse della fragilità di Pompei, ma sufficienti a uno stuolo di deputati berlusconiani per denunciare che allora si chiesero le dimissioni di Bondi. In realtà lo stillicidio di crolli da tre anni in qua non si è mai fermato, segno, come denunciano archeologi e restauratori, che il problema grave di Pompeiè l’assenza di una manutenzione ordinaria e costante.
E i 105 milioni europei? Di essi si parla almeno dal 2011: che cosa ne è stato? Ieri è intervenuta Antonia Pasqua Recchia, segretario generale del ministero, che da Pompei ha fatto il punto. Dei 105 milioni 85 sono destinati a restauri. Attualmente sono in funzione cinque cantieri, per un importo di 6 milioni e mezzo: si rimettono in sesto la Casa dei Dioscuri, la Casa del Criptoportico, la Casa del Sirico, la Domus dalle Pareti Rosse e la Casa del marinaio. Questi restauri dovrebbero concludersi nel marzo del 2014. E il resto? Altri cantieri, assicura Recchia, partiranno a metà dicembre. Costo, 23 milioni. Ingenti i lavori: dalla messa in sicurezza dei terreni al confine dello scavo, al restauro di apparati decorativi e pittorici della casa di Loreio Tiburtino e della Venere in Conchiglia. Verrà messa in sicurezza la Regio VI oltre alla VII, la stessa interessata dal crollodi domenica. Quanto dureranno questi altri cantieri non è chiaro. Come non è chiaro quando verrà realizzata la terza tranche di interventi. Si sa solo che i bandi, pari a 29 milioni, saranno emessi «entro dicembre».
La lentezza degli interventi non regge l’urto del maltempo che in questi mesi è inflessibile. La pioggia ingrossa i terrapieni e penetra nelle murature. Bray annuncia la nomina del direttore generale, dotato di poteri eccezionali. Che non sono un inedito per la Pompei dove hanno governato, senza lasciare buoni ricordi, city manager e commissari straordinari.

La Stampa 3.12.13
Gli Etruschi di Cerveteri al Louvre di Lens


Sarà allestita dal 5 dicembre al 10 marzo presso la sede del Louvre a Lens, in Francia, la mostra «Les Etrusques et la Mediterranée: la cité
de Cerveteri», organizzata in collaborazione con l’Istituto di studi sul Mediterraneo antico del Cnr. Tra le 400 opere selezionate, ceramiche, oggetti di metallo, vetro, sculture di pietra e terracotta, gioielli e utensili da lavoro, dai musei di tutto il mondo. Ci saranno anche il sarcofago fittile «degli sposi», le lastre dipinte di Parigi, Villa Giulia e Cerveteri, le terrecotte votive del Vaticano e quelle decorative di Berlino e Copenhagen.

Repubblica Salute 3.12.13
Malattie mentali e saggezza nelle cure
di Paolo Cornaglia Ferraris


Le malattie della psiche sono realtà scientificamente definite sia nell’infanzia che in adolescenza. Raccontate nel bellissimo libro di Stefano Vicari (L’insalata sotto il cuscino, Ed. Tea, segnalato sullo scorso RSalute) autismo, anoressia, depressione, schizofrenia, ossessioni, Adhd, Tourette, diventano storie emozionanti. Le famiglie coinvolte hanno vita amara, tanto dolorosa quanto ignota ai più. Ma i servizi psichiatrici sono poco attrezzati per affrontarla. Il libro di Vicari, neuropsichiatra al Bambino Gesù di Roma, racconta di ragazze, ragazzi e genitori sofferenti, che lottano con coraggio e speranze di guarigione. Fuori dagli psicologismi analitici che confondono (e si pagano in contanti), le storie raccontate aiutano a superare i pregiudizi, per affrontare consapevolmente la realtà. Pagine che dovrebbero leggere pediatri e psicologi, ma anche i familiari di chi, travolto da malattie mentali croniche, può essere ben curato solo da chi sa combinare con saggezza psicoterapia e farmaci.

La Stampa 3.12.13
Nel “Paradiso” secondo Carné la realtà storica filtrata dal sogno
di Gianni Randolino


Ieri è tornato in sala Les Enfants du Paradis: versione restaurata, edizione integrale, lingua originale francese con sottotitoli italiani. E’ un’opera che segnò una sorta di frattura fra il primo e il secondo periodo dell’attività del regista francese Marcel Carné, per molti aspetti considerata la sua opera più importante e riuscita. Les Enfants du Paradis (uscito in Italia col titolo Amanti perduti) è stato realizzato fra il 43 e il 45. In questo film sontuoso e di vaste proporzioni, ampio affresco della Parigi di Luigi Filippo, si dipana una storia di passioni, di avventure, di delitti fra personaggi che si chiamano Garance, Lacenaire, Debureau, Lemaître, Nathalie, oltre al conte de Montray che verrà assassinato. E Parigi non è soltanto uno sfondo, ma addirittura un vero protagonista. Il Boulevard du Crime e il Théâtre des Funambules sono gli splendidi scenari di questo racconto in cui la realtà dei fatti e dei personaggi (riscontrabile in molti punti con la realtà storica) assume una dimensione fantastica di ampio respiro. Osservati da una distanza che oltre a essere storica è essenzialmente intellettuale, i personaggi vivono nella precisa funzione di tessere di un superbo mosaico pittorico e letterario, e solo in esso hanno una giustificazione e acquistano una realtà poetica. Risalendo alle origini della sua formazione artistica, al lungo apprendistato con Jacques Feyder, Marcel Carné pare ritrovare la sua vena più autentica, di sapiente illustratore di storie altrui, senza implicazioni d’ordine ideologico e politico. L’intellettualismo di Les Enfants du Paradis si identifica con una sorta di classicismo, che nel regista Carné nasce dalla coscienza dei propri meriti artigianali e dalla naturale disposizione dello spirito a tutto incasellare in un disegno rigoroso, che non ammette improvvisazioni e sbavature, e anche dalla sua incapacità di affrontare la realtà direttamente, cercandone le suggestioni e i motivi di ispirazione senza dover ricorrere al diaframma della tecnica. In più c’è la collaborazione con Jacques Prévert. Le Enfents du Paradis segna la fine, anche cronologicamente, non soltanto d’una fase dell’attività cinematografica di Carné, ma di tutto un periodo del cinema francese, che in Carné vide uno dei suoi autori più significativi.

l’Unità 3.12.13
In scena solo stavolta
Sergio Rubini: «A teatro grazie a Bellocchio»
L’attore e regista nei panni di zio Vanja: «Amo il lavoro di Marco, ma non avevo mai recitato per lui. Come rifiutare la proposta di Placido?»
di Francesca De Sanctis


«IL TEATRO? NO, NO... È SOLO UN PARENTESI. QUESTO SPETTACOLO È UN EVENTO TALMENTE ECCEZIONALE CHE NON CREDOPROPRIOAVRÀUNSEGUITO».Sergio Rubini, udite udite, torna al teatro. Torna, sì, è la parola giusta, perché prima del cinema il suo mondo era quello del palcoscenico, dove salirà di nuovo stasera per recitare con Michele Placido, Pier Giorgio Bellocchio, Anna Della Rosa, Lidiya Liberman, Bruno Cariello, Maria Lovetti, Marco Trebian con la partecipazione straordinaria di Lucia Ragni in Zio Vanja, adattamento e regia di Marco Bellocchio (Roma, Teatro Quirino, fino al 15 dicembre).
Sergio, dopo tutti questi anni di cinema come mai hai deciso di tornare alla tua vecchia passione?
«Vengo da lì è vero, mi sono formato all’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico e all’inizio ho fatto tanto teatro. Ma ad un certo punto ho deciso di lasciar perdere. È successo la sera in cui Federico Fellini, non potendoci andare, mi regalò il suo biglietto vedere Viktor con Pina Bausch. Era il 1986. Allora ebbi il sospetto che il teatro di parola era finito».
Un po’ drastico... non ti pare?
«Fui talmente colpito dalla bravura di Pina Bausch che pensai sarebbe stato impossibile per il teatro scatenare le stesse emozioni. Da allora sono sempre scappato dal teatro. Che poi era anche la grande passione dei miei genitori e poiché i figli, si sa, cercano sempre di imboccare strade diverse rispetto a quelle dei genitori... diciamo che ho preferito il cinema».
In questi giorni però ti vedremo in teatro, una bella occasione per lavorare con Bellocchio, per il quale finora non mi pare fosse capitato di recitare sul grande schermo?
«Sì, questo è senza dubbio uno dei motivi. Conosco, amo e frequentato Marco da tempo ma finora non era mai capitato di lavorare insieme. La proposta è arrivata da Michele Placido (che oltre a recitare produce lo spettacolo con la moglie di Federica Vincenti per Goldenart production, ndr) ed ho capito subito che si trattava di una di quelle proposte che non si potevano rifiutare... Tra l’altro vidi molti anni fa una regia di Bellocchio di un altro testo di Cechov, Il gabbiano, una versione strepitosa. Insomma il modo in cui si presentava questo spettacolo mi è sembrato anomalo e non ho potuto fare altro che dire sì». Come ti sei preparato per affrontare questo testo, tra l’altro già diretto da grandi registi a cominciare da Stanislavskij...
«Proprio dimenticandomi di Stanislavskij e di tutto il resto. All’inizio Vanja mi sembrava un personaggio lontanissimo da me, un po’ depresso, immobile, mentre io sono molto più dinamico. Poi è stato sorprendente capire che Marco partiva da me. Cioè il regista mi ha aiutato a cercare il personaggio dentro di me. È stato anche un po’ doloroso, ma alla fine ho cominciato a trovare delle analogie con personaggio. Questa è anche la forza di un classico, dentro ci trovi l’uomo. E in effetti Zio Vanja, scritto alla fine dell’Ottocento, parla anche della società di oggi. Loro non sapevano cosa gli sarebbe piombato addosso, così come non sappiamo cosa accadrà a noi che siamo nel bel mezzo di una tempesta. La regia mette in luce la contemporaneità del testo. Decisamente un’avventura anomala questo spettacolo, con Marco non ci si può aspettare niente di canonico. E poi con tre registi che vengono dal cinema l’operazione non può che essere esplosiva, piena, una regia aperta ma senza effetti speciali».
Ma se sei così orgoglioso di quest’esperienza perché dici che è solo una parentesi?
«Perché ho vissuto troppo a lungo con altri ritmi. Il teatro richiede il buio, io invece amo la luce. Mi piace svegliarmi presto per lavorare, invece con il teatro si fa sempre notte»..
All’inizio di questa chiacchierata citavi Fellini (personaggio tra l’altro interpretato da Rubini nel recente film di Scola Che strano chiamarsi Federico, ndr), è stato l’incontro decisivo della sua vita?
«Ci sono stati tanti incontri decisivi nella mia vita: Fellini, Piccioni, Tornatore, Salvatores... È la passione che le persone ci mettono che poi ti resta addosso, il loro modo di vivere. Quasi sempre, dopo aver fatto qualcosa con una di loro, ne è seguita un’altra ancora. È stato un innamoramento dopo l’altro». E il prossimo «innamoramento» al cinema qualche sarà?
«Un film di Giulio Manfredonia, prodotto da Lumière, con Stefano Accorsi. Abbiamo appena terminato le riprese. E poi sto scrivendo io una nuova storia, ma sono appena all’inizio».
Scriverebbe una storia su questo preciso momento storico dell’Italia?
«Io credo che il cinema si sia disimpegnato a raccontare la realtà perché ormai sembra che non si possa più fare. Solo commedie. Il nostro Paese sta vivendo un momento molto complicato e il cinema vive di riflesso».
Voterà alle primarie del Pd?
«No. L’ultima volta ho impiegato tre giorni per dare il mio voto perché mi hanno fatto un sacco di storie per via della residenza. Ho dato il mio voto a Bersani, perché mi piaceva. E poi? Chi avrebbe mai pensato che ci sarebbe stato un governo delle larghe intese... Ho sempre creduto che attraverso il voto si potevano cambiare le cose, ma non è andata così. Sono stanco e deluso. Ho perso la fiducia».