giovedì 5 dicembre 2013

l’Unità 5.12.13
Il Porcellum è fuorilegge
Consulta: via premio e liste bloccate
«Ripristinati i diritti degli elettori»
di Claudia Fusani


ROMA La bomba esplode sul Parlamento alle 17 e 53. Ha la forma di dodici righe e la firma del palazzo della Consulta. Lo mette a nudo nella sua incapacità di riformarsi. E blinda, all’opposto, il governo Letta-Alfano perché a questo punto andare a votare nei prossimi mesi è veramente un periodo ipotetico del terzo tipo. Prima, in un modo o nell’altro, il legislatore ma anche lo stesso governo via decreto, dovranno riscrivere la legge elettorale.
La bomba di dodici righe dice che il Porcellum è incostituzionale in due parti. Quella che assegna «il premio di maggioranza alla lista o alla coalizione che hanno ottenuto il maggior numero di voti» senza fissare una soglia minima. E nelle norme che «stabiliscono la presentazione di liste elettorali bloccate che non consentono all’elettore di esprimere una preferenza». Seguono due precisazioni utilissime nel marasma di queste ore. La prima: «Le motivazioni saranno rese note nella prossime settimane» e solo da quel momento «dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici», cioè nessun effetto retroattivo e nessuna messa in mora dei duecento deputati che ancora attendono la convalida della Giunta delle elezioni (argomento assai caro al falco azzurro Brunetta).
La seconda precisazione è un monito, un invito, forse anche un ultimatum che spazza via tutti gli alibi: «Il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali secondo le proprie scelte politiche nel rispetto dei principi costituzionali». Perché sia chiaro, suggeriscono i supremi giudici, nessuno si è voluto sostituire al legislatore (una delle reazioni più ricorrenti nei capannelli di Montecitorio) che però è rimasto troppo a lungo e colpevolmente inerte.
Una battaglia durata otto anni, tanti sono gli anni di vita della legge 270/2005, il Porcellum voluto dall’allora ministro delle Riforme Roberto Calderoli. Come in tutte le battaglie ci sono vincitori e vinti. Vincono, e non stanno nella pelle dalla soddisfazione, i quattro avvocati che come quattro moschettieri anni fa si sono messi a capo di un drappello di 27 cittadini e hanno portato avanti «pur prendendo un sacco di ceffoni» una battaglia che sembrava impossibile «per ripristinare i diritti e i principi costituzionali violati dal sistema elettorale». Aldo e Giuseppe Bozzi, Claudio Tani, Felice Besostri, tradizione liberale i primi due, di sinistra gli altri (Tani nel Pci e Besostri nel Psi), uomini di diritto, non certo giovanissimi, convinti che «governare sia un problema politico non sostituibile da un premio di maggioranza».
Perde il Parlamento che pur avvisato da tempo del problema non ha saputo cambiare. E anche chi, cinicamente tanto a destra quanto a sinistra passando per Grillo molto affezionato al Porcellum, ha fatto di tutto anche in questi mesi per non cambiare nulla e tornare a votare con la garanzie delle liste bloccate e la manna del premio di maggioranza. Dal Colle più alto osserva la scena il presidente della Repubblica che ha supplicato fin troppe volte, inascoltato, una nuova legge elettorale e ne ha fatto la condizione della sua seconda elezione alla guida del Paese. Sorride il premier Letta che ha un motivo in più e bello forte per andare avanti. Deve arrendersi all’evidenza e congelare le voglie di voto, l’impaziente Matteo Renzi.
TUTTI SPIAZZATI
I quindici supremi giudici hanno stupito e spiazzato tutti. Nei tempi e nei contenuti. Hanno deciso subito. E in modo netto. Ventiquattro ore di camera di consiglio (dalle 17 di martedì alle 17 di ieri) rimasta divisa sull’ammissibilità del ricorso. Superato quello scoglio, è stato più facile entrare nel merito. È stata, come chiedevano gli avvocati ricorrenti, una sentenza caducatoria. Che ha abolito cioè i due passaggi che per ben tre volte (elezioni 2006-2008-2013) hanno ridotto i cittadini a «mandrie da voto» negando il diritto costituzionale ad esercitare una «cittadinanza consapevole» senza «premi di maggioranza fantasiosamente precostituiti» né liste di «già eletti anziché di candidati».
Il Transatlantico resta basito. Pino Pisicchio (Centro democratico) ricorda come non sarà possibile far rivivere il Mattarellum «visto che la preferenza dovrà a questo punto prevedere almeno tre persone tra cui una donna». Il presidente della Commissione Affari Costituzionali Francesco Paolo Sisto (Fi), a cui potrebbe toccare in sorte tra breve la legge elettorale che la commissione gemella al Senato non riesce a mandare avanti, si affida al diritto: «Solo le motivazioni ci faranno comprendere la portata della decisione della Corte».
La domanda è se abbiamo o meno una legge elettorale. E quale. «Nessuno vuoto di legge» spiega Aldo Bozzi felice di aver «sconfitto tutti i pregiudizi degli uccelli del malaugurio e di chi in cattiva fede invitava la Corte a non accogliere il nostro ricorso». Ancora più chiaro Besostri: «Da oggi, se dovesse servire, abbiamo un sistema di voto proporzionale con soglia di sbarramento e liste in cui la preferenza può essere espressa mettendo una croce ma anche cancellando un nome e alterando così l’ordine di nomina». Claudio Tani rassicura sia sulla legittimità di questo Parlamento in base al principio tempus regit actum che sulla assenza del vuoto legislativo. Ma soprattutto esulta perché «i cittadini vedono affermato il loro diritto di cittadinanza» e ricorda che «la palla torna al Parlamento che a questo punto non può dimenticare, scrivendo la legge, che esistono organi di garanzia e confini insuperabili».

il Fatto 5.12.13
Torna il proporzionale

La decisione della Consulta cancella dalla legge elettorale il premio di maggioranza senza soglia minima e le liste bloccate. Dunque resta in piedi l’impianto di un sistema proporzionale “puro ”. Il premio è abolito e non potrà essere la Corte a stabilire come costruirlo e con quale soglia: è compito del legislatore. Rimane in vigore lo sbarramento previsto all’ingresso: le liste che non raggiungono il 4 per cento alla Camera e l’8 per cento al Senato non entrano in Parlamento. Le percentuali salgono al 10 e 20 per cento per le coalizioni. In merito alle liste bloccate, ora sarà necessario individuare dei meccanismi per reintrodurle, un passaggio che potrebbe richiedere un intervento normativo. L’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà con la pubblicazione delle motivazioni della sentenza, ovvero nelle prossime settimane.

il Fatto 5.12.13
Porcellum arrosto, ci ha pensato la Consulta
di Antonella Mascali


LA CORTE COSTITUZIONALE ACCOGLIE IL RICORSO: BASTA CON I NOMINATI E CON I PREMI DI MAGGIORANZA A CHI NON SUPERA UNA DETERMINATA SOGLIA


Devastante sentenza della Consulta: cancella il premio di maggioranza e le liste bloccate, ripristina (salvo nuova legge) il proporzionale puro e delegittima l’intero sistema. Primo effetto collaterale: potrebbero decadere i deputati di Pd e Sel eletti in più grazie al bonus abrogato. B. e Grillo: “Elezioni subito”

La Corte costituzionale ha bocciato il “Porcellum”, la legge elettorale definita così dal suo stesso padre, il leghista Roberto Calderoli.
I giudici hanno detto no al premio di maggioranza senza soglia e alle liste bloccate che non permettono agli elettori di esprimere le preferenze e quindi di scegliere i parlamentari.
La decisione di ieri rappresenta uno spintone alla politica perché finalmente passi dalle parole ai fatti su una riforma che non ha mai voluto varare. Formalmente, infatti, quanto stabilito ieri dalla Corte, al momento, non avrà alcuna conseguenza: il Porcellum resta in vigore fino a quando sentenza e motivazioni non saranno depositate. Si parla di diverse settimane.
In questo modo la Consulta salva il suo onore istituzionale nel respingere quella che fino a ieri, a larga maggioranza, voleva accogliere: la richiesta della politica di rinviare la pronuncia al nuovo anno. Allo stesso tempo, però, non depositando il dispositivo della sentenza, la Corte dà modo al Parlamento di poter ancora riformare il “Porcellum”, nel solco delle sue indicazioni fornite ieri con un comunicato, oppure di fare una nuova legge elettorale.
SECONDO il presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida, uno dei saggi del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, se il verdetto di ieri dovesse essere applicato “non si torna alla legge precedente”, ossia il Mattarellum. “Si ha non tanto un ritorno, ma una conferma del proporzionale senza premio di maggioranza”.
Proprio rispetto al premio di maggioranza senza soglia minima di voti, la Consulta ha dichiarato incostituzionali “le norme che prevedono l’assegnazione di un premio sia per la Camera sia per il Senato – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione”. Quanto alle liste bloccate, che per tre elezioni politiche, nel 2006, nel 2008 e nel 2013, hanno prodotto un Parlamento di nominati, la Consulta “ha dichiarato l’illegittimità costituzionale... nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza”.
Quindi si torna all’ordine di elezione secondo le preferenze e non secondo la lista?
Dal comunicato non è chiaro e anche il presidente Onida non si sbilancia: “Su questo punto, credo dovremo attendere le motivazioni per capire bene la portata della sentenza. Ma se i partiti faranno la riforma, quanto deciso dalla Corte sarà superato”. Ed è la stessa Corte, nella parte conclusiva del comunicato, che fa sapere alla politica di poter ancora agire: specifica che “gli effetti giuridici” della bocciatura scatteranno con la pubblicazione della sentenza e delle motivazioni “nelle prossime settimane” e che “il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali”.
IL CAMBIO DI PASSO della Consulta, che fino a ieri voleva far slittare, a maggioranza, la decisione almeno a gennaio, si deve soprattutto al presidente Gaetano Silvestri a cui non sono andati giù i pressing, le voci fatte filtrare ad arte dai Palazzi della politica. Inoltre, non è un mistero, che all’interno della Corte sia stato tra i più critici sulla legge elettorale” tanto che nell’infuocata camera di consiglio che bloccò il referendum anti “Porcellum”, si era battuto perché fosse dichiarato ammissibile.
La sentenza di ieri è il frutto della determinazione di 27 cittadini rappresentati dagli avvocati Aldo e Giuseppe Bozzi, Claudio Tanti e Felice Besostri, loro stessi ricorrenti, che al fotofinish, in Cassazione, a maggio, hanno vinto.
La Suprema Corte, infatti, ha deciso che potevano ricorrere davanti alla Consulta. E lunedì, nell’udienza pubblica, in maniera sintetica ed estremamente efficace hanno illustrato alla Corte i punti incostituzionali del “Porcellum”: premio di maggioranza senza soglia e liste bloccate. Gli stessi che ieri la Consulta ha bocciato.
L’avvocato Tani aveva detto che la legge Calderoli ha trasformato gli elettori “in mandrie da voto” e i candidati al Parlamento delle “curie di partiti”. L’avvocato Aldo Bozzi, il primo che si è mosso per arrivare alla Consulta, aveva voluto rispondere agli “illustri” giuristi che avevano sollevato dubbi sull’ammissibilità del ricorso: “Sarebbe infondato e pretestuoso qualsiasi dubbio sull’ammissibilità. Questa – aveva concluso – era l’unica azione proponibile a tutela del diritto al voto libero... è stato reciso il rapporto diretto tra elettori ed eletti perché i parlamentari sono scelti dai partiti”. E la Corte costituzionale gli ha dato ragione.

il Fatto 5.12.13
Eletti mai convalidati Parlamento di abusivi
di Sara Nicoli


ILLEGITTIMI anzi no. Del tutto abusivi. Se non fosse che per le questioni elettorali ci si basa sul principio di non retroattività (ma deve comunque essere un giudice a farlo valere) alla luce della sentenza della Consulta sul Porcellum, ora alla Camera ci sarebbero 148 deputati decaduti da un lato ma, di fatto, mai convalidati dall’altro. La storia affonda le sue radici nel regolamento di Montecitorio, in particolare in quello della Giunta per le elezioni. Che ha 18 mesi di tempo, dal momento delle elezioni stesse, per convalidare ciascuno dei 630 deputati eletti. Solo che fino ad oggi, si diceva, nessuno è stato convalidato perché la Regione Friuli Venezia Giulia ha fatto ricorso alla Corte Costituzionale sui risultati delle ultime politiche e così il lavoro dell’organismo si è bloccato in attesa del “ve rd e t to” che dovrebbe arrivare a febbraio prossimo. Un dettaglio procedurale che non ha minimamente preoccupato né i deputati, né la Giunta, visto il precedente – clamoroso – della legislazione 2006-2008, quando nessuno (nessuno!) dei deputati e dei senatori fu convalidato fino alla scadenza della legislatura. Ora, però, alla luce della sonora bocciatura del Porcellum, la questione cambia. Cancellando il premio di maggioranza con cui sono entrati alla Camera 148 deputati, la Corte gli ha – di fatto – dichiarati illegittimi. Anche se, come si diceva, è probabile che in questo caso venga fatto valere il principio di non retroattività per non far implodere l’intero sistema. Solo che, al momento, questi non risultano neppure convalidati. E allora? La questione andrà comunque risolta, anzi dovrà essere risolto il paradosso di chi potrebbe essere dichiarato illegittimo pur non essendo mai di fatto entrato nel pieno del suo mandato per mancanza di convalida. Un pasticcio, insomma, tutto italiano, dove la cancellazione, seppur parziale, di una legge, provoca conseguenze inattese. Per non dire grottesche. Perché tutti gli atti fin qui svolti dalle due Camere, nomine comprese, dovrebbero essere bollati come illegittimi perché emanati da “illegittimi”. A partire dall’elezione del capo dello Stato. Uno scenario che nessun costituzionalista commenta perché “impossibile da ve r i f i c a rs i ”. Il Porcellum, infatti non è “morto”, è solo ferito “grave m e n te ” sul premio di maggioranza, dunque la legge “c’è”, anche se “monca”, ma non risolve la questione più delicata dei 148 possibili “abusivi”. Che lo sono, ma anche no...

il Fatto 5.12.13
Aldo Bozzi Il legale vincitore
Ero sicuro di avere ragione, la Costituzione parla chiaro
di A. Masc.


Aldo Bozzi è un avvocato di 80 anni. A vederlo ne dimostra molti meno. Quanto a lucidità batte tanti giovani. Si è visto come davanti alla Corte costituzionale, lunedì, in poche parole ha demolito il cosiddetto Porcellum: “Ha tolto la libertà di voto agli elettori”. È lui il protagonista della battaglia che ha portato alla bocciatura della legge Calderoli davanti alla Consulta. Come Davide contro Golia, ha vinto contro ogni previsione, insieme ad altri avvocati, professionisti, semplici cittadini. Ventisette in tutto. “Non ho ancora potuto brindare”, ci dice quando lo chiamiamo al telefono. “Ho la mano stanca a furia di rispondere al telefono. Ho ricevuto decine e decine di chiamate non solo di amici e conoscenti ma anche di gente che non ho mai incontrato”.
Cosa le hanno detto?
Siamo con lei, lei è tutti noi. Congratulazioni.
Che cosa l’ha mossa in questa impresa?
Come cittadino, come elettore deluso ho sentito che dovevo fare qualcosa. Ne ho parlato con amici e tutti ci siamo convinti che avremmo dovuto agire perché questa politica non avrebbe mai fatto nulla. Dovevamo rompere il cerchio. D’altronde, quando ho votato per la prima volta con il Porcellum, nel 2006, ho fatto mettere una nota a verbale in cui dicevo che facevo il mio dovere civico ma che questo non mi impediva di essere in disaccordo totalmente con la nuova legge elettorale. Nel 2008, in vista delle nuove elezioni mi sentivo sempre più disturbato e mi sono detto: ‘Quasi quasi ci provo a fare ricorso’. Ho avuto torto in primo grado e in secondo grado. A quel punto ho avuto la tentazione di mollare, di non ricorrere in Cassaizone. Poi con i colleghi Claudio Tani, Felice Besostri, con mio cugino, l’avvocato Giuseppe Bozzi, abbiamo deciso di tentare l’ultima spiaggia, non mi andava di lasciare le cose a metà. L’udienza davanti alla Suprema Corte è stata entusiasmante, il procuratore generale Libertini Russo era più accalorato di noi. E a maggio i giudici ci hanno dato ragione.
Come avete reagito?
Non ci credevamo quasi. Arrivare davanti alla Corte costituzionale ci è sembrata una cosa grandiosa.
Se la politica restasse immobile e la sentenza della Consulta diventasse “esecutiva ”, cosa accadrebbe?
Difficile rispondere senza aver letto le motivazioni. Sicuramente non si crea nessun vuoto normativo. Potrebbe tornare il Mattarellum, ma potrebbe tornare anche il proporzionale senza premio di maggioranza.
Sull’ammissibilità del ricorso mai un dubbio?
Come avvocato parto sempre dalla Costituzione e quindi ero sicuro che avessimo ragione.
Lei è il nipote di uno dei padri del Partito liberale, Aldo Bozzi e suo cugino Giuseppe è il figlio. Quanto conta nella sua vita quell’esempio?
Mio zio ha fatto la Resistenza! Per me è un esempio.
Cosa ha detto appena ha saputo che i giudici avevano bocciato il Porcellum?
Evviva!

il Fatto 5.12.13
Gianluigi Pellegrino Una questione di legittimità
“Il Parlamento va sciolto ora”
di Wanda Marra


Gli effetti della sentenza della Corte costituzionale peraltro ineccepibile è quello di certificare l’illegittimità istituzionale dell’attuale Parlamento”. Gianluigi Pellegrino, giurista, non ha dubbi nel dare il suo giudizio.
Avvocato, con quale motivazione è così perentorio?
Basti pensare che la giunta delle elezioni della Camera, di fronte alla quale pendono una serie di ricorsi, deve ancora convalidare le elezioni di centinaia di parlamentari. Ora non potrà più farlo, e dovrà sostituire gli eletti col premio di maggioranza con onorevoli di Cinque Stelle, Scelta Civica e Pdl.
E ora?
È un dovere civico scioglierlo, salvo non voler compiere un atto eversivo.
Ma allora non sono illegittimi anche il governo, espressione di questa maggioranza, e il Presidente della Repubblica, eletto da queste Camere?
L’illegittimità non è retroattiva e non si ripercuote sugli atti passati.
Ma da ora in avanti il Parlamento non può fare leggi?
Ha perso la legittimazione sia politica che istituzionale e l’unica cosa che può provare a fare e solo se c’è un’ampia condivisione è la nuova legge elettorale. Come peraltro chiede la Consulta. Ma la legge dev’essere fatta da tutte le forze politiche: non si può usare quel premio di maggioranza illegittimo contro le minoranze.
E se le Giunte correggono il risultato, non convalidando gli eletti?
Si può andare avanti. Ma a tutto questo si aggiunge un elemento: la delegittimazione politica di questo Parlamento è indiscutibile e il dovere civico del presidente della Repubblica è prenderne atto.
C’è chi dice che questa sentenza ci riporta indietro di vent’anni.
È colpevole chi ha fatto la piaga, non il medico che ha dovuto amputare la gamba. La Corte era ben disposta a rinviare se ci fosse stato un embrione di riforma.
Qual è lo scenario più probabile?
Il voto in primavera con una legge elettorale approvata. E sappiamo di quale il paese ha bisogno.
Quale?
Elezione diretta degli onorevoli nei collegi e premio di maggioranza su base nazionale. Il Governo deve fare un decreto con questo contenuto: o viene convertito, oppure si vota con la legge uscita dalla sentenza della Consulta.
Adesso, non si rischia la rivolta popolare?
Se non siamo conseguenti certamente.

il Fatto 5.12.13
Festeggiano gli inciucisti Renzi teme la fregatura
di Carlo Tecce


LETTA E ALFANO PROVANO A INTRAPPOLARE IL SINDACO DI FIRENZE CHE VOLEVA COMANDARE LA PARTITA. E LUI: “SI TORNA INDIETRO, ALLA PRIMA REPUBBLICA”

I pezzi di Porcellum rotolano in Parlamento, fra i piedi di Enrico Letta, Angelino Alfano e, soprattutto, di Matteo Renzi: il governo può inciampare e neanche il Partito democratico, prevedibile, pare stabile. Con l’intervento dei giudici, però, il Sindaco (non di ottimo umore) ha ricevuto una brutta notizia perché non può dettare i tempi dei giochi. Conseguenze: Palazzo Chigi non conferma “patti”, anzi smentisce perché non vuole infastidire Alfano che col drappello di diversamente berlusconiani sostiene il respiratore all’esecutivo. I rapporti di forza sono capovolti: Enrico&Angelino, felici per la ventata di proporzionale da “grande inciucio”, rivendicano il comando. E il Quirinale non vuole urne nei prossimi dodici mesi. Renzi intravede il pericoloso: “Torniamo indietro di vent’anni: ecco la Prima Repubblica. La scelta è discutibile”.
BEPPE GRILLO s’è liberato di quel fascino autoritario che dava la legge di Roberto Calderoli con l’insaccato di nominati messi lista. E così, risoluto, il Movimento Cinque Stelle vuole che le Camere, “stracolme di parlamentari illegittimi”, siano sciolte: “Voto subito con il Mattarellum”. E Forza Italia, compianta la defunta porcata, osserva, attende, perché vuole evitare di cadere in trappole: rischiano di rafforzare lo scissionista Alfano. Correre in campagna elettorale, presto.
La Consulta ha tagliato le zampe e la testa al Porcellum e l’ha trasformato in un sistema proporzionale: ora sembra appetitoso soltanto a quei raminghi di centristi che vogliono le larghe intese a vita.
Il promesso segretario Renzi ha comunicato la sua proposta e vuole garanzie da Letta: non private al telefono, ma pubbliche durante il voto di fiducia di mercoledì in Parlamento. Al sindaco di Firenze vanno bene le preferenze, ma insiste con un Mattarellum corretto: collegi uninominali e premio di maggioranza, non eccessivo, a portata di Pd, per governare senza Scilipoti di turno. E per blindare l’accordo, Renzi vuole imporre un disegno di revisione costituzionale per abolire il Senato. Desideri che si scontrano con le esigenze di Letta e di Alfano. L’ex discepolo del Cavaliere vuole (almeno) un anno di tempo per completare la crescita lontana da palazzo Grazioli, per creare una struttura di partito e scongiurare un ritorno dal Capo per un’alleanza umiliante. Alfano, non competente in materia, s’affida al ministro Gaetano Quagliariello, irritato per i movimenti dei renziani in Commissione Affari Costituzionali di palazzo Madama. Da troppi mesi, il Senato ha preso in ostaggio la legge elettorale, e non fa mai un passo in avanti: ora c’è l’obbligo dei giudici costituzionali e, superata la tesissima seduta di ieri, sono costretti a dare un segnale di vivacità. I democratici di Renzi non abboccano e chiedono ai senatori di “revocare” l’impegno e riprendere da Montecitorio, dove il Partito democratico rappresenta il 55 per cento dell’emiciclo. Lo stesso Roberto Giachetti, che non interrompe lo sciopero della fame contro la porcata di Calderoli - va avanti da oltre 60 giorni con 3 cappuccini al dì – s’aspetta che dal 9 dicembre, incoronato Renzi, si riparta da Montecitorio. La Commissione, ancora una volta, ha rinviato con unanime imbarazzo, ignorando gli ordini del giorno di Lega e M5S (ritorno al Mattarellum). Quagliariello non consegna il fragile Ncd al sindaco fiorentino: “Il caso scoppiato in Commissione, per il dissenso dei renziani rispetto al comitato ristretto sulla legge elettorale, è una discussione senza senso. Non possiamo procedere con maggioranze variabili”. Traduzione: noi governiamo insieme ancor più di prima senza il Cavaliere, insieme scriviamo il successore del Porcellum. Alfano vuole un patto con Letta che vuole un patto con Renzi, e viceversa. Il presidente del Consiglio non abbraccia Matteo e coccola Angelino, e poi trasmette un paio di righe pilatesche e timorose: “Ora non ci sono alibi, il Parlamento agisca”. E lui, che fa?

il Fatto 5.12.13
Larghe intese per sempre
di Salvatore Cannavò


SENZA I PREMI DEL PORCELLUM I DUE GRANDI PARTITI SAREBBERO CONDANNATI A GOVERNARE INSIEME PER I PROSSIMI DECENNI
COSTRETTI DAI TANTI CONSENSI CONQUISTATI DAI CINQUE STELLE DI GRILLO

Senza il Porcellum la geografia del Parlamento sarebbe stata molto diversa. Il Movimento 5 Stelle avrebbe avuto un exploit molto superiore a quello, già storico, ottenuto lo scorso febbraio. Il Pd avrebbe quasi dimezzato i seggi e sarebbe stato costretto alle larghe intese per i prossimi venti anni.
NELLA SIMULAZIONE che presentiamo in questa pagina, formulata eliminando il premio di maggioranza, nazionale, alla Camera, e quelli, regionali, al Senato, il Pd sarebbe ancora il primo partito con 177 seggi a Montecitorio e 110 al Palazzo Madama. Grazie ai seggi guadagnati nelle circoscrizioni estere e a un vantaggioso calcolo sui resti, scavalcherebbe il Movimento 5 Stelle che pure, alla Camera, ha avuto 45 mila voti in più. Grillo però avrebbe potuto intestarsi 170 deputati e 85 senatori. Si tratta di un’ipotesi del tutto accademica, senza l’attuale legge ce ne sarebbe stata un’altra, forse il vecchio “mattarellum”. Ma il gioco delle torte aiuta a capire quanto ghiotta sia stata la rendita di posizione che il Porcellum ha garantito al vincitore di turno. La legge “porcata” è stata pensata per due scopi: impedire, nel 2006, che l’allora Unione di Prodi facesse il pieno al Senato, ma anche garantire al vincitore di prendersi tutto con un premio di maggioranza esorbitante. Proprio quello che la Consulta ha sanzionato. Logico, quindi, che i suoi effetti siano stati vertiginosi per chi ha vinto le elezioni – stavolta il Pd, ma la volta precedente il vantaggio è toccato a Berlusconi – e frustranti per le opposizioni. Il Pdl, considerato nel suo insieme, prima della scissione di Alfano, avendo perso le elezioni a febbraio, ha ottenuto solo 98 seggi. Senza il premio di maggioranza del Porcellum ne avrebbe avuti 135. Al Senato, invece, dove il premio si calcola su base regionale, sarebbe stato penalizzato. Svantaggio da “porcellum” anche per Scelta civica o per la Lega nord che però, sempre per il gioco dei premi regionali, ha avuto dei benefici al Senato.
La rendita ideata nel 2005 da Roberto Calderoli ora è destinata a polverizzarsi. La Corte costituzionale ha garantito che l’attuale Parlamento potrà modificare la legge elettorale. Il problema è capire in quale direzione si andrà. Le ipotesi, al lordo delle manovre politiche e delle tattiche che i vari gruppi metteranno in campo, sono sostanzialmente quattro.
Rimanere nel solco dell’attuale legge – una legge, di fatto, proporzionale con un assurdo premio di maggioranza – aggiustando il premio e vincolandolo al raggiungimento di una determinata soglia. La proposta di Luciano Violante, che ha diversi estimatori sia nel Pd che nella stessa Forza Italia, è quella di fissare la soglia al 45%. Solo il partito o la coalizione che la raggiunge potrebbe beneficiare del premio di governabilità. Altrimenti si resta in un proporzionale rafforzato con effetti analoghi a quelli simulati nel nostro grafico.
UN’ALTRA SOLUZIONE è il ritorno al Mattarellum, quella più semplice dal punto di vista legislativo perché basta un tratto di penna per abolire l’attuale legge. In tal caso si tornerebbe a un sistema misto in cui il 75% dei seggi viene assegnato su base uninominale in 475 diversi collegi e il 25% determinato con sistema proporzionale e soglia di sbarramento al 4%. È l’ipotesi preferita dal Movimento 5 Stelle.
Le ultime due soluzioni rappresentano due varianti di un sistema unico, il doppio turno. Il Pd lo propone da tempo, ma con scarsa convinzione. A rilanciarlo con forza è stato Renzi quando ha detto di volere una legge analoga a quella con cui si eleggono i sindaci – doppio turno con ballottaggio dei primi due candidati che non raggiungono il 50% –. Il Pdl ha sempre sostenuto di poter discutere di questa ipotesi, ma solo se agganciata a un sistema semi-presidenziale alla francese con elezione diretta del presidente della Repubblica.
Ci sono voluti otto anni per definire incostituzionale “la porcata”. Ora il Parlamento potrebbe avere solo poche settimane a disposizione per varare un nuovo testo prima di essere accusato di illegittimità incostituzionale. Il sistema politico italiano ieri è stato sanzionato nel peggiore dei modi. E ora, come la maionese, rischia di impazzire.

La Stampa 5.12.13
Un colpo all’ipocrisia della politica
di Luigi La Spina


La pressione dell’opinione pubblica e una certa «vocazione» politica hanno prevalso sulle ragioni del diritto. Solo così si può comprendere una decisione della Consulta che ha dichiarato incostituzionale una legge che, da otto anni, ha fatto eleggere dai cittadini la massima istituzione della Repubblica italiana, il Parlamento. Una sentenza che, se non politicamente e giuridicamente, ma almeno dal punto di vista morale, delegittima quasi dieci anni di vita pubblica nel nostro Paese.
Sono significative, del resto, le prime reazioni a questo verdetto della Corte Costituzionale: applausi unanimi e propagandistici delle forze politiche; sconcerto, in privato, e perplessità, in pubblico, della gran parte dei giuristi.
È vero, però, che la decisione sarà accolta da un sospiro di sollievo e dall’entusiastico consenso di tutti gli italiani, giustamente indignati dal comportamento ipocrita e inaccettabile di una classe politica che, nonostante gli appelli del Capo dello Stato sostenuto da un’opinione pubblica insolitamente compatta, non è riuscita a trovare un accordo per cambiare l’obbrobrio del «porcellum». La sentenza, infatti, costituisce un durissimo monito a coloro che ci hanno governato negli ultimi anni, raccoglie lo sdegno degli italiani per l’esproprio della volontà popolare subito da parte delle segreterie dei partiti, ma apre, nello stesso tempo, scenari del tutto imprevedibili davanti a un futuro politico già molto complicato.
La Corte non solo lancia al Parlamento un ultimatum, un messaggio che sarebbe potuto arrivare anche se accompagnato da un più comprensibile rinvio della decisione, ma non lo aiuta a individuare un indirizzo di riforma urgente del «porcellum» finché, fra alcune settimane, non saranno note le motivazioni. A meno che siano attendibili le voci che, ieri sera, confidavano una opinione della Corte altrettanto sorprendente, quella di una sentenza già applicativa della legge elettorale, con due correzioni: il proporzionale puro e la preferenza unica.
È molto difficile, in queste ore, valutare le conseguenze, sul piano strettamente politico, del clamoroso verdetto della Consulta, perché il solito uso della logica e della ragionevolezza potrebbe essere vanificato da un clima di tale confusione, persino tra le istituzioni, da non poter escludere nessuna ipotesi, anche la più inverosimile. A prima vista, però, la sentenza potrebbe garantire al governo Letta, per almeno un anno, un’affidabile assicurazione sulla vita. I paradossali consensi alla decisione della Corte da parte di quelle stesse forze politiche così duramente messe sotto accusa e delegittimate non preludono a un immediato accordo su una nuova legge elettorale, perché gli interessi di parte sono così frazionati da rendere molto arduo il raggiungimento di un’intesa ampia tra i partiti, quale sarebbe necessaria per una riforma così delicata, quella che deve stabilire le regole del gioco elettorale. I tempi, poi, si potrebbero allungare anche per l’opportunità di legare alla nuova legge sul metodo di voto almeno due riforme costituzionali, quella sulla riduzione del numero dei parlamentari e quella sul monocameralismo.
Tale percorso politico che in queste ore i principali esponenti del governo prevedono come il più probabile, e anche quello da loro evidentemente caldeggiato, si potrebbe scontrare con la forza dirompente della sentenza emessa ieri sera dalla Corte che, in un momento di acute tensioni sociali e di gravi preoccupazioni economiche, potrebbe travolgere le sempre fragili difese di un equilibrio politico molto delicato. È chiaro che le forze d’opposizione al governo Letta, a cominciare dal Movimento 5 Stelle, useranno il verdetto come il più autorevole avallo all’attacco di questo Parlamento e alla delegittimazione di quella maggioranza che sostiene l’esecutivo. Ma anche la risorta Forza Italia potrebbe trovare nella Consulta un formidabile alleato per giustificare l’urgenza di nuove elezioni e, così, strozzare nella culla il neonato concorrente costituito dal partito di Alfano.
L’effetto sentenza, infine, potrebbe indirettamente indebolire anche le resistenze di Napolitano a interrompere la legislatura, perché, da una parte, rafforza gli appelli del Capo dello Stato per la riforma della legge, ma, dall’altra, dichiara sostanzialmente illegittima la composizione delle attuali Camere.
L’Italia, insomma, si appresta a vivere scenari del tutto inediti, nei quali si mischiano populismi di vario genere, un antieuropeismo a sfondo autarchico e una crisi di delegittimazione morale di una intera classe politica. In questo clima, le istituzioni fondamentali del nostro Paese rischiano, pure loro, di non credere più a se stesse, al ruolo che devono esercitare in una democrazia. Ecco perché è giusto che siano sensibili alle esigenze dei cittadini, ma nell’assoluto rispetto dei confini del loro potere.

La Stampa 5.12.13
Il verdetto indebolisce le Camere
di Ugo De Siervo


Dinanzi allo scarno comunicato dell’Ufficio stampa della Corte Costituzionale relativo al ricorso contro la legge elettorale vigente, non è possibile, né corretto, cercare di commentare una decisione di cui non si conoscono neppure gli esatti contenuti, né tanto meno le relative motivazioni. C’è però la necessità di cercare di spiegare all’opinione pubblica, che potrebbe essere perplessa a causa della notevole perentorietà dei contenuti preannunziati della sentenza, quanto si può dedurre dal comunicato.
Tanto più perché la Corte sembra aver imboccato un percorso innovativo. Inoltre, in prospettiva sembra profilarsi qualche significativo problema istituzionale fra le determinazioni assunte dalla Corte e l’impegno del Parlamento ad adottare una nuova legislazione elettorale.
Anzitutto, la Corte, pur apparentemente riaffermando principi tradizionali e cioè che la sentenza, con le relative motivazioni, verrà pubblicata «nelle prossime settimane», così dando efficacia solo allora alle decisioni assunte, sembra in realtà preannunziare una sorta di efficacia differita di questa sentenza, sul modello di quanto avviene nell’ordinamento tedesco. Ma soprattutto un significativo rinvio nel tempo della pubblicazione della sentenza potrebbe trasformarsi in una sorta di «spada di Damocle» sui futuri lavori del Parlamento, libero certo di approvare nuove leggi elettorali, ma tenuto al «rispetto dei principi costituzionali», come scrive il comunicato stampa. Ma se prima della pubblicazione della sentenza dovrebbero restare segrete le motivazioni che hanno indotto la Corte a dichiarare l’illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate, nei parlamentari resterà sempre il dubbio sulla legittimità di quanto stanno progettando.
Più in generale resta poi la resurrezione del modello proporzionale (il Porcellum meno i premi di maggioranza è un sistema proporzionale con alcune soglie minime per escludere i piccolissimi partiti non alleati ad alcuno), il che peserà inevitabilmente molto nei futuri confronti parlamentari in materia elettorale: tutto il tempo che si perda in inconcludenti lavori parlamentari sarebbe a vantaggio dell’improvviso riemergere di un sistema elettorale che, almeno a parole, pochissimi sostengono.
Ma poi occorrerà capire cosa voglia dire nel comunicato il riferimento al fatto che le liste elettorali sarebbero incostituzionalmente «bloccate» ove non consentano «all’elettore di esprimere una preferenza»: sono molti i sistemi elettorali che non prevedono preferenze, pur garantendo all’elettore una scelta personalizzata fra i vari candidati. Ed anche qui: il Parlamento potrà essere libero di discutere e decidere su temi del genere?
In generale, la sentenza appare davvero assai drastica e perfino tale da ingenerare qualche dubbio sulla stessa piena legittimazione delle istituzioni repubblicane: non mi riferisco certo alle ridicole tesi di coloro che dicono che allora tutti gli organi rappresentativi, in modo diretto od indiretto, sarebbero illegittimi, ma al fatto che certo un simile drastico giudizio di incostituzionalità del sistema elettorale funzionante da otto anni indebolisce non poco la credibilità degli stessi organi che sarebbero chiamati a guidare il paese fuori dalle grandi difficoltà attuali.

Corriere 5.12.13
L’estremo rimedio
di Michele Ainis


Ora le anime belle dei partiti metteranno alla berlina la Consulta. Ne denunceranno l’ingerenza, l’invadenza, la supplenza. No, è la loro assenza che va piuttosto denunciata. È il vuoto politico che ha tenuto a galla per tre legislature una legge elettorale che costituisce di per sé un insulto alla democrazia. Perché non siamo più elettori, quando non possiamo decidere gli eletti. E perché i rappresentanti non rappresentano nessuno, quando per entrare in Parlamento usano il vecchio quiz di Mike Bongiorno ( Lascia o raddoppia? ), grazie a un premio di maggioranza che premia in realtà una minoranza.
Certo, sarebbe stato meglio, molto meglio, che a scrivere le nuove regole del gioco fossero state le assemblee legislative. Nell’inerzia delle Camere, al limite avrebbe potuto provvedervi con decreto lo stesso esecutivo, dato che ogni decreto va pur sempre convertito in legge. Una sentenza costituzionale non è la via maestra, non è mestiere della Consulta scrivere le leggi elettorali. Ma fra il nulla e la sentenza, meglio la sentenza. Alla fine della giostra, è infatti di questo che si tratta: un rimedio estremo rispetto a un danno estremo. Dunque un insuccesso per la democrazia dei partiti, un successo per lo Stato di diritto. Significa che dopotutto c’è ancora un giudice a Berlino, come sospirava il mugnaio di Potsdam.
Con quali conseguenze, sul piano del diritto? E con quali argomenti di diritto? Questi ultimi li conosceremo quando verrà depositata la sentenza, corredata dalle sue motivazioni. Per intanto c’è solo un comunicato, e anche alquanto scarno. Ma basta per tirare alcune conclusioni. Primo: non ritorna in vigore il Mattarellum , pace all’anima sua. La Consulta non ha cassato l’intera legge elettorale, manca pertanto il presupposto per riesumare la normativa preesistente. Secondo: via il premio, sia alla Camera che al Senato. Ne scaturisce dunque un proporzionale puro, con soglie minime per guadagnare seggi. Con meno del 2%, ogni partito otterrà il suo posto in Paradiso. Non è esattamente l’ideale per governare quest’Italia sgovernata, però i partiti hanno tutto il tempo per correggere, emendare, riformare.
E anzi dovranno farlo, giacché la Consulta ha annullato pure le liste bloccate, nella parte in cui impediscono al popolo votante d’esprimere una preferenza sul popolo votato. Come? Qui è impossibile pretendere ricette dai giudici costituzionali: la loro funzione s’esercita soltanto in negativo, come diceva Kelsen. Servirà quindi un’operazione di cosmesi, ma non è la prima volta che la Consulta mette il legislatore in mora. Un caso analogo si registrò al tempo del referendum sul maggioritario (sentenza n. 32 del 1993), e almeno in quella circostanza il legislatore fu solerte. Sancendo così il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica; e vedremo a breve se questa sentenza sarà il preludio della terza. Nel caso, dovremo innalzare un monumento a due signori, alla loro ostinazione. Aldo Bozzi, l’avvocato milanese di 79 anni che ha sollevato l’incostituzionalità del Porcellum . Roberto Giachetti, in sciopero della fame da 59 giorni per la sua riforma. Buon appetito a entrambi, ma a questo punto siamo tutti un po’ affamati.

Corriere 5.12.13
Un terremoto che spiazza il partito della crisiSenza Riforma è messo a rischio tutto il Sistema
di Massimo Franco


La tentazione che sta emergendo non è solo di correggere il sistema elettorale bocciato ieri dalla Consulta, ma di additare come «abusivo» il Parlamento emerso dal voto del febbraio scorso. D’altronde, se domenica il sindaco di Firenze, Matteo Renzi sarà eletto segretario del Pd, i leader dei tre maggiori partiti risulteranno «extraparlamentari»: infatti non siedono alle Camere nemmeno Beppe Grillo e Silvio Berlusconi, appena decaduto da senatore. Eppure toccherà a loro, dall’esterno, affrontare il tema della riforma dopo la sentenza con la quale ieri la Corte costituzionale ha bocciato il sistema attuale: il cosiddetto «Porcellum», ritenuto illegittimo per un premio di maggioranza che non fissa la soglia minima per farlo scattare; e per l’impossibilità di esprimere la preferenza per l’uno o l’altro candidato.
La spinta a concordare una nuova legge dovrebbe prevalere su tutto. Ma non è scontato che avvenga; e se allungherà la legislatura o la farà finire a primavera. L’occupazione dei banchi del governo da parte dei deputati del Movimento 5 stelle, le bordate berlusconiane contro i senatori a vita scelti dal Quirinale e contro l’euro, aggiunte all’incognita del congresso del Pd, spargono un acuto odore di elezioni anticipate. Ma per fare che cosa? Il primo contraccolpo della decisione della Consulta è che nessuno probabilmente avrebbe una maggioranza: proprio come avvenne dopo il voto di febbraio. E le implicazioni istituzionali sarebbero perfino più gravi. L’opposizione grillina attacca da tempo il Quirinale: soprattutto perché è il punto di massima resistenza a una crisi di sistema.
Ma la soddisfazione generale e trasversale con la quale è stato accolto il verdetto della Corte insospettisce: nel senso che ognuno «legge» il responso per accreditare la propria riforma. Un interesse e un progetto comune non esistevano e non esistono, anzi: ognuno affida al sistema di voto una strategia diversa. I centristi di Pier Ferdinando Casini vedono nella sentenza un’indicazione per tornare al sistema proporzionale. In questo caso si consoliderebbero le «intese più strette» ma più omogenee tra Letta e il nuovo centrodestra di Angelino Alfano. Un esito del genere, però, significherebbe la fine del progetto di Renzi, per il quale è vitale confermare e anzi accentuare il sistema bipolare.
È difficile prevedere le ricadute di questo terremoto prima di conoscere le motivazioni della decisione della Corte, in arrivo tra qualche settimana. Il rompicapo è oggettivo, e per il Pd lo è ancora di più, ad appena tre giorni dalle primarie. Berlusconi ha ragione quando dice che la sorte del governo Letta è nelle mani di Renzi. Se sarà segretario, o si rassegnerà a ingoiare un sistema imposto dall’attuale maggioranza, perpetuandola anche se la detesta; o dovrà cercare un’alternativa inseguendo la saldatura con i grillini o col Cavaliere: operazione temeraria. È una partita aperta, confusa e pericolosa. L’esigenza di approvare una riforma comunque rappresenta, in sé, un atto d’accusa contro i ritardi dei partiti, pungolati inutilmente per mesi dal Quirinale. Non è che la Corte costituzionale li abbia scavalcati: sono loro ad essere rimasti colpevolmente indietro. E la Consulta, ieri, ha smontato l’ultimo alibi.

Corriere 5.12.13
La delusione del Quirinale per le Camere messe in mora
di Marzio Breda


ROMA — Non si è mai arreso all’idea che il Parlamento venisse messo in mora e umiliato in maniera così clamorosa. Perciò ha incalzato la classe politica per tre anni, quasi ossessivamente, incassando impegni sempre disattesi. Ha insistito con richiami alla «responsabilità» e indirizzato anatemi contro le «troppe inconcludenze e sordità» fino a quando, qualche settimana fa, in risposta a un cittadino che lo incitava a dare un mese ai partiti per fare la riforma elettorale o altrimenti di mandare tutti a casa, aveva detto: «Un mese? Fosse per me gli darei gli otto giorni». Insomma la politica non ha saputo, né voluto, «battere un colpo», come sperava lui, prima che arrivasse la pronuncia della Corte costituzionale. E adesso, più che rivendicare i suoi avvertimenti, un deluso Giorgio Napolitano s’interroga sul «marasma» provocato dalla bocciatura.
Non filtrano commenti, dal Colle. Ma è ovvio che anche lassù ci si è chiesti quali potranno essere i collaterali «effetti problematici» di cui ormai discute l’intero Paese e che saranno chiariti dalle motivazioni in base alle quali la Consulta ha stroncato i capisaldi del Porcellum. E si confida che vi sia riassunta una ragionevole via d’uscita, tale da sedare le già scattate nuove fibrillazioni ed evitare che sfocino in una crisi di sistema.
Ieri ci si interrogava sull’idea che la decisione potesse davvero far decadere i deputati e i senatori eletti in febbraio, stroncando immediatamente la legislatura (e non a caso chi invoca le urne sostiene quest’interpretazione, magari senza crederci e dunque per un gioco delle parti). Uno scenario che la gran parte dei costituzionalisti tende a scartare, evocando la probabilità di una «efficacia differita» del pronunciamento, tale da offrire alle Camere un «lasso di tempo» per correre ai ripari. E che la Corte costituzionale ha cercato di escludere in serata, spiegando che «vengono fatti salvi gli effetti di legge per il passato». Altrimenti, lo scenario di un Parlamento «delegittimato perché incostituzionale» avrebbe potuto causare ricadute cariche di incognite. Fino a chiamare in causa lo stesso Napolitano, contro il quale il Movimento 5 Stelle ha azzardato addirittura la tesi di una rielezione parallelamente «illegale».
In ogni caso, la decisione della Consulta tiene in pressione il mondo politico. Di sicuro c’è che il presidente farà di tutto per mettere in sicurezza la legislatura (e il governo) almeno fino alla primavera 2015, in modo da garantire alcuni interventi urgenti per fronteggiare l’emergenza economica e, in particolare, se ci si paralizzerà su altre riforme, almeno la legge elettorale. Ci proverà. Forte di una consapevolezza da ieri evidente: la bocciatura della Consulta è una sconfessione per coloro che hanno frenato sulle riforme giurando di volerle fare, non certo per lui che le ha sempre chieste. 

Repubblica 5.12.13
Uno schiaffo agli stregoni
di Piero Ignazi


UNA delle peggiori leggi elettorali delle democrazie occidentali, distillata dall’ingegno dei quattro saggi di Lorenzago, guidati dal dentista leghista Roberto Calderoli, è stata stracciata dalla Corte Costituzionale. Va finalmente al macero il sistema elettorale con il quale siamo stati condotti alle urne per ben tre elezioni, dal 2006 ad oggi.
Un sistema che era stato studiato per evitare che il vincitore annunciato al-le elezioni del 2006, il centro- sinistra guidato da Romano Prodi, potesse insediarsi a Palazzo Chigi forte di una maggioranza omogenea tra Camera e Senato. Inventando un premio di maggioranza che distorce in maniera clamorosa il principio di rappresentanza, differenziando la sua applicazione tra Camera e Senato e adottando le liste bloccate, gli apprendisti stregoni del centro-destra hanno portato al voto gli italiani in condizioni di “minorità democratica”. Questa menomazione dei diritti deriva, come sottolinea la Corte, dal premio di maggioranza e dalle liste bloccate che vengono quindi considerate gravi violazioni della possibilità di determinare, attraverso il principio di “un uomo un voto”, la volontà dei cittadini.
La Corte Costituzionale ancora una volta interviene a supplenza della politica, come da ormai lunga tradizione (basti ricordare le sentenze della Corte guidata da Giuseppe Branca negli anni Settanta che aprirono la breccia alla stagione dei diritti civili). Il suo schiaffo all’inerzia parlamentare è sonoro. In nove mesi non è stato partorito nulla e i partiti si sono spesi in ballon d’essai e proposte alambiccate. Ora non ci sono più scuse, e non c’è nemmeno più tempo. Le Camere devono produrre ad horas una nuova legge che dovrà necessariamente tener conto delle indicazioni fornite dalla sentenza di ieri. Anche perché il rischio è che si vada a votare con la proporzionale. Un rischio da evitare assolutamente.
Il compito di elaborare dovrà impegnare a tempi serrati tutto il Parlamento. Però questa sentenza “delegittima” gli esponenti del centro-destra di allora, ideatori del Porcellum, da Bossi a Casini, da Berlusconi allo stesso Alfano: tutti corresponsabili di questo
monstrum premiale, disomogeneo e bloccato. Spetta agli oppositori del Porcellum, peraltro troppo acquiescenti e troppo a lungo silenziosi, proporre una nuova legge elettorale dato che Lega e Forza Italia (ma anche il Nuovo Centro Destra) hanno oggettivamente perso voce in capitolo.
Il Pd diventa il master del gioco. E allora deve fare piazza pulita di formulette e giochini al ribasso e puntare alla chiarezza e alla semplicità. Gli elettori hanno diritto di poter decidere tra alternative chiare e ben visibili,sapendo bene qual è il reale peso del loro voto. Soprattutto devono vedere in faccia il loro eletto. A questo punto al Pd non rimane che ritornare alla sua opzione originaria, sempre recitata come una giaculatoria salvifica e poi sacrificata sull’altare della responsabilità e della concertazione: il doppio turno.
Quello adottato in Francia per le elezioni legislative rappresenta un modello sperimentato che ha consentito nel tempo la riduzione della frammentazione, la formazione di coalizioni alternative e la governabilità. Poi si possono studiare anche altre varianti, purché gli obiettivi rimangano gli stessi. Infatti il doppio turno riporta nelle mani dei cittadini la scelta del loro eletto, e consente di riallacciare un rapporto fiduciario tra cittadini e rappresentanti, finora segregato dalle liste bloccate.
L’antipolitica montante di questi ultimi anni è stata alimentata anche dalla distanza, anzi dalla barriera, che separava elettori ed eletti. Ridurre questa separazione, mantenendo le condizioni per il bipolarismo, è un imperativo. E per rispondervi non è rimasta che questa strada.

Repubblica 5.12.13
Il fantasma del proporzionale e la promessa di Renzi e Letta “Non tornerà la Prima Repubblica”
L’arma spuntata del voto anticipato. I tempi delle riforme
di Claudio Tito


IL FANTASMA che si aggirava solo ipoteticamente tra i Palazzi della politica si è improvvisamente materializzato. Con la sentenza della Corte costituzionale, infatti, quello che alcuni hanno definito un “Super- Porcellum” è diventato realtà. Il ritorno ad una legge elettorale totalmente proporzionale, come quella della Prima Repubblica.
IL PATTO siglato nei giorni scorsi tra Renzi e Letta viene quindi messo subito alla prova. L’abolizione del Senato e l’introduzione di un sistema a doppio turno dovrà essere ora calato nelle nuove condizioni. «L’accordo c’è - conferma il futuro segretario del Pd - ora va solo rispettato». E anche il presidente del consiglio non nasconde nei suoi colloqui informali di aver concordato un percorso da ufficializzare quando il sindaco sarà effettivamente il leader democratico. «Ma la strada è quella che è stata descritta e ora, dopo questa sentenza, a maggiora ragione bisogna andare avanti. Non possiamo certo rimanere fermi». La svolta della Consulta, quindi, può diventare uno sprone per arrivare alla riforma. Anzi, per l’asse Enrico-Matteo è un «obbligo».
E infatti il premier ne parlerà esplicitamente mercoledì prossimo alla Camera e al Senato. Annuncerà un disegno di legge costituzionale preparato dal ministro delle riforme Quagliariello per la trasformazione di Palazzo Madama nel Senato delle Autonomie. Un articolato che sarà approvato in un consiglio dei ministri prima di Natale. E anche sulla riforma elettorale ribadirà che l’esecutivo intende guidare il processo escludendo il ricorso ad un decreto - che porta al consolidamento del bipolarismo e descriverà un modello che richiama implicitamente quello francese del doppio turno.
Eppure, la decisione della Consulta può trasformare nel senso opposto il volto appena disegnato di questa legislatura. La sentenza dei giudici - che gli esperti considerano autoapplicativa, ossia non richiede necessariamente altri interventi normativi - per molti assomiglia ad una «operazione di chirurgia estetica che cambia improvvisamente i connotati della situazione politica». L’incostituzionalità di due articoli della legge - quello sulle liste bloccate e quello sul premio di maggioranza - ha di fatto portato le lancette dell’orologio elettorale al 1992. Quando si è votato per l’ultima volta con il sistema proporzionale puro. Quell’impianto ha ripreso vita con una sola correzione: la soglia di sbarramento al 4%. E con una sentenza “additiva” è stata anche reintrodotta la preferenza unica.
Una scelta, appunto, in grado di terremotare l’equilibrio della nuova maggioranza. Il fronte dei “proporzionalisti” ha ripreso vigore e sta già tentando di far naufragare il piano Letta-Renzi. A farne le spese potrebbe essere in primo luogo il sindaco fiorentino. Che non a caso boccia come «discutibile» la sentenza e che ora si ritrova con un’arma spuntata: non può più minacciare le elezioni anticipate. Ritornare al voto senza una riforma, infatti, significa cadere nell’autoperpetuarsi delle larghe intese. Il nuovo segretario democratico rischia di ritrovarsi incatenato nella gabbia della potenziale ingovernabilità. Un pericolo che l’ex rottamatore ha ben chiaro e che adesso può esorcizzare solo con una risultato netto alle primarie di domenica in termini di consensi e partecipazione.
Nessuno degli attuali quattro poli è in grado di conquistare la maggioranza dei seggi. Il massimo per Silvio Berlusconi che da mesi punta sulla “non vittoria” del centrosinistra e anche per Beppe Grillo che fa della confusione e della inerzia altrui il suo gioco. In effetti la sentenza della Corte costituzionale ha di nuovo messo in evidenza l’incapacità della politica di prendere una decisione e di assumersi una responsabilità. C’è stato bisogno della mossa di un soggetto esterno per rimuovere in qualche modo una legge che tutti definivano una porcata.
Conseguenza: la legislatura rischia di paralizzare se stessa fino alla definizione di un nuovo sistema elettorale e di dare voce ai difensori dello status quo. Ma nello stesso tempo tutti avvertono il pericolo di una delegittimazione politica di questo Parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale nel suo nucleo essenziale. Certo la Consulta ha voluto mettere al riparo tutti gli atti compiuti dalle Camere fino ad ora per non far crollare l’intero sistema come un castello di carte. Il principio del “tempus regit actus” vale quindi per ogni provvedimento, anche per la convalida dei parlamentari. Pure per quelli che alla Camera sono in attesa del definitivo via libera dalla Giunta per le elezioni.
A questo punto la vera sfida sono i tempi. Il patto Letta-Renzi regge se viene confermato nel merito e nella cronologia. Per andare a votare nella primavera del 2015, bisognerebbe approvare senza esitazioni tutte le modifiche alla Costituzione. A Palazzo Chigi il cronoprogramma prevede il disco verde finale di questo pacchetto entro la prossima estate per poi approvare la legge elettorale contestualmente o in autunno (come accadde nel 1993). E infine celebrare tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015 l’eventuale referendum confermativo.
Un calendario a tappe forzate. Che, però, adesso spaventa l’intero fronte bipolarista. Senza il pungolo di un possibile ritorno alle urne, qualcuno sta già pensando di allungare la fine concordata della legislatura spostando l’appuntamento al 2016. Un’ipotesi che innervosisce Renzi e che non viene gradita nemmeno dal presidente della Repubblica. Che da tempo invoca una riforma elettorale. E che fin dall’inizio del suo secondo mandato aveva fatto capire di non voler affatto completare il settennato. Ma di volersi dimettere una volta messo in sicurezza il sistema politico e istituzionale.

Repubblica 5.12.13
Domande & Risposte
Il Parlamento legittimato a cambiare sistema elettorale altrimenti si vota senza premio
Ecco perché la Corte non ha ripristinato il Mattarellum
di Liana Milella


ROMA — E adesso che succede? Ma anche: che cosa ha veramente deciso la Consulta? E perché lo ha fatto? Ha terremotato il Parlamento stesso e le basi della sua legittimazione giuridica e politica? Ha imposto il suo potere di primo giudice delle leggi a dispetto di Camera e Senato, in spregio ai partiti, in contrapposizione con palazzo Chigi e con il Colle? La sua è una sentenza giusta o, come dice Berlusconi, una sentenza politica «di sinistra»? Si riempiranno, di qui a venire, pagine e pagine di libri di diritto per interpretare la decisione della Consulta sul Porcellum. Cerchiamo qui, in pillole, di elencare le domande più importanti e le possibili risposte.
Che succede adesso? Cade il Parlamento? Chi ne fa parte decade automaticamente? Non si può più neppure votare?
Bocce ferme. Non succede nulla di tutto questo. Come pure paventa Grillo e più di un disfattista. Alla Consulta l’interrogativo se lo sono anche posto. I giudici ne hanno brevemente discusso. Si sono dati una risposta, dal loro punto di vista, tranquillizzante. Per noi, una risposta autorevole. Dopo i tagli dei premi di maggioranza e l’aggiunta del voto di preferenza si può tranquillamente andare a votare. Certo, non c’è più il Porcellum. C’è un proporzionale puro. Ma non c’è un vuoto né legislativo, né del sistema elettorale.
Ma giuridicamente esiste ancora una legge elettorale?
Prendiamo a prestito l’opinione del costituzionalista Massimo Luciani: «Se il dispositivo fosse esattamente quello indicato nel comunicato della Corte, avremmo un sistema elettorale perfettamente proporzionale. Però è ovvio che avrebbe bisogno di un intervento applicativo per definire le circoscrizioni, senza le quali nessuna legge elettorale può essere applicata».
Se si volesse votare domani con la legge che resta lo si potrebbe fare?
Insisto, dice sempre Luciani, «bisognerà leggere nel dettaglio il dispositivo. Tuttavia è ragionevole immaginare che resterebbe un impianto di legge perfettamente proporzionale».
E se si votasse che Parlamento salterebbe fuori?
Si può rispondere con la preoccupazione del costituzionalista Stefano Ceccanti: «Qui si restaura il sistema della preferenza unica con un sistema proporzionale che risale agli anni ’91 e ’92. Nessuno vince le elezioni. C’è una garanzia di ingovernabilità. Si crea un sistema che tende alla “grande coalizione permanente”».
La Corte ha pesato fino in fondo il suo passo e ne ha valutata l’eventuale portata distruttiva?
A sentire “Radio Corte” pare proprio che gli alti giudici abbiano ragionato soprattutto su questo. Si sono chiesti se il loro intervento era invasivo al punto da lasciare il Paese senza uno strumento per andare a votare, visto soprattutto che forze politiche e Parlamento non si sono dimostrati affatto efficienti. La Corte si è risposta che sì, con il Porcellum che resta si può votare. Certo, non si è data una risposta in termini “politici”, su quale Parlamento salterebbe fuori. Ma questa preoccupazione sì che sarebbe stata anomala.
Non era più semplice azzerare del tutto il Porcellum per far “rivivere” in pieno il Mattarellum?
Per certo il Mattarellum non rivive per deliberata scelta dei giudici. Soprattutto perché per arrivare fin lì, la Corte avrebbe dovuto allargarsi rispetto ai due quesiti posti dalla Cassazione e avrebbe dovuto applicare il principio «dell’illegittima consequenziale». I due quesiti bocciati avrebbero dovuto trascinare nel baratro tutto il Porcellum. La Corte si è fermata sul ciglio del baratro e il Porcellum è rimasto in vita.
Il Porcellum azzoppato che conseguenze comporta? Ha ragione Grillo quando dice che bisogna sciogliere il Parlamento, mandare a casa il governo e Napolitano?
Nient’affatto. Anche qui risponde lucidamente Massimo Luciani: «I parlamentari rimangono al loro posto, né la loro elezione è inficiata». Quanto a governo e capo dello Stato neppure a parlarne, visto che non sono stati neppure“votati” col Porcellum.
E i 200 deputati eletti, ma non ancora convalidati alla Camera dalla giunta per le Elezioni?
Ancora Luciani: «Se il principio fosse questo, allora dovrebbero saltare non solo i 200 deputati non ancora convalidati, ma l’intero Parlamento, il che non è possibile per il principio di continuità degli organi costituzionali».
E come mai la giunta delle Elezioni presieduta dal grillino Giuseppe D’Ambrosio non ha convalidato ancora l’elezione?
Senza fare dietrologia, si segnala un’anomalia e si mettono in fila i fatti. L’esponente di M5S non si scalmana per convalidare i risultati. È noto che alla Consulta è in bilico il Porcellum che invece dovrebbe spingere ad accelerare la convalida. Grillo adesso vuole tutti a casa.
Solo un nuovo Parlamento, dice sempre Grillo, potrà cambiare la legge elettorale? È vero?
No, è falso, le attuali Camere possono tranquillamente cambiare la legge elettorale.
Nel momento in cui salta il premio, si mette in crisi l’attuale Parlamento?
Luciani: «Politicamente sì, giuridicamente no, perché il premio è stato applicato».
E l’imposizione delle preferenze?
Vale lo stesso principio.
Un Parlamento eletto sulla base di una legge incostituzionale che deve fare?
Ancora Luciani: «Giuridicamente non ci sono effetti immediati, ma politicamente deve adottare una nuova legge elettorale perché la sua posizione politica è diventata particolarmente difficile».
Quando dovrà agire il Parlamento?
Quando lo ritiene opportuno, meglio prima delle motivazioni della sentenza.
La Consulta ha “commissariato” il Parlamento per la legge elettorale?
La Consulta ha fatto la sua parte, adesso il Parlamento, nella sua piena autonomia, faccia la sua.

La Stampa 5.12.13
La battaglia di Forza Italia sui parlamentari non convalidati
di Marcello Sorgi


A giudicare dalle prime reazioni, non è scontato che l’abrogazione del Porcellum decisa ieri dalla Corte costituzionale porti a una più rapida definizione della nuova legge elettorale. La prima conseguenza della sentenza infatti è stata l’apertura da parte di Forza Italia di un nuovo fronte sulla convalida dei senatori a vita, già contestati in occasione del voto sulla decadenza di Berlusconi, perché considerati pregiudizialmente a favore del centrosinistra, in un Senato in cui i numeri della nuova maggioranza sono stretti.
Analoga iniziativa, proprio in forza del dispositivo della sentenza della Consulta, Forza Italia si prepara a prendere al Senato. La Corte ha prudentemente annunciato che gli effetti della propria decisione si manifesteranno solo dopo la pubblicazione delle motivazioni, questione di settimane. Ma la cancellazione del premio di maggioranza mette in discussione tutti gli eletti che hanno conquistato il seggio in Parlamento proprio grazie al premio, di cui, come si sa, ha usufruito il centrosinistra.
Teoricamente ci sarebbero 148 deputati del Pd che dovrebbero lasciare il seggio: ma è prevedibile che il grosso delle polemiche della destra di opposizione si concentrerà su quelli di loro che non sono ancora stati convalidati dalla giunta per le elezioni. Per quanto rapide possano essere le operazioni di convalida, di fronte a un’opposizione dura all’interno della giunta, alcuni di loro rischiano effettivamente di perdere il posto e di ridurre i margini di manovra della nuova maggioranza anche a Montecitorio.
È evidente che la reazione di Forza Italia il partito che volle il Porcellum e ne ha accolto peggio di tutti la cancellazione è legata all’ipotesi che con l’avvento di Renzi alla segreteria del Pd e con lo spostamento della discussione sulla legge elettorale dal Senato, dove è rimasta finora senza risultati, alla Camera, dove il centrosinistra avrebbe i numeri per cambiarla anche da solo, la tentazione del nuovo leader di dare un’accelerata, anche senza l’accordo di Berlusconi, si sia rafforzata. Occorrerà vedere, al di là delle tante voci che circolano, quali saranno le effettive intenzioni di Renzi a partire da lunedì. Togliendo di mezzo il Porcellum, la Consulta ha indubbiamente sgomberato il campo per una trattativa senza impacci sulla nuova legge elettorale. Ma cancellando il premio ha anche liberato le tentazioni proporzionaliste, presenti in tutti i partiti. Vent’anni dopo il referendum sul maggioritario e la scelta del bipolarismo, la politica è di nuovo a un bivio, che sottolinea tutte le sue difficoltà. Non è detto che questo renda più vicine le elezioni anticipate.


l’Unità 5.12.13
Civati: la novità sono io
«Vincerò e il governo se ne andrà a casa»
di Maria Zegarelli


(...)
Civati, che si dice sicuro di vincere le primarie con il 41%, dal canto suo si mette a sinistra e insiste sui temi più cari a chi ha smesso di guardare con fiducia al Pd. «Il conflitto di interessi? Uno dei peccati mortali del centrosinistra, quando ha governato. La madre e il padre di tanti altri errori dice nella più generale cultura delle larghe intese televisive». E quindi se sarà segretario, depositerà «subito un testo nettissimo, a cominciare dai casi di ineleggibilità a monte, come doveva essere già nel 1994 per Berlusconi. E poi, evidentemente, riforme sulle incompatibilità di membri di governo, di parlamentari e amministratori». La Rai? «Sono per difendere il servizio pubblico come bene comune, dandogli autonomia contro tutte le ingerenze». Da Bruxelles attacca Renzi: «Rischia di invecchiare. Rischia di fare il fratello minore di Alfano ed Enrico, anzi Angelino ed Enrico, come si chiamano tra di loro. Renzi passa dal fare al copiare», dice ricordando di aver proposto per primo ad aprile il contratto di coalizione sul modello tedesco. Quanto alla collocazione del Pd in Europa, nessun dubbio: «Nel Pse ma con un forte rapporto con gli ambientalisti e con la sinistra radicale» della Sinistra Unita europea. Poi, torna sulle elezioni del presidente della Repubblica: «Rodotà è un patrimonio dell'Unesco insieme a Prodi».

l’Unità 5.12.13
Gianni Cuperlo: «Nei gazebo è in gioco il destino della sinistra»
In Renzi vedo una continuità con l’impianto moderato che ha segnato questo ventennio
Il governo sarà più forte se fa le cose per le persone che non reggono più l’urto della crisi
Non mi convince un partito schiacciato tra un capo carismatico e il niente
di Simone Collini


«VA CAMBIATO L’ORDINE DEI FATTORI: È SOLO CREANDO OCCUPAZIONE CHE SI RIMETTONO IN MOTO LA DOMANDA INTERNA, LA PRODUZIONE, I CONSUMI, LA CRESCITA»

ROMA La prima delle domande che in parte sono della redazione e in parte sono arrivate via Twitter dai lettori è questa: dal giorno dopo le primarie, questo governo sarà più forte o più debole? «Sarà più forte se fa le cose. In questi mesi c’è stato un pezzo della maggioranza che ha detto o si fa così o cade il governo. E in alcuni passaggi noi abbiamo subito quel ricatto. La vicenda Imu, per esempio, grida vendetta. Dopo l’uscita di Forza Italia la maggioranza si è ristretta ma c’è maggior chiarezza, ci si è liberati di un’ipoteca. Adesso il governo deve mettere mano a quelle che sono le vere priorità, a cominciare dal lavoro. Siamo seduti su una polveriera sociale, o ce ne rendiamo conto e assumiamo le logiche conseguenti, di carattere emergenziale, anche a partire dalla legge di Stabilità, oppure non abbiamo chiara la situazione del Paese, dove milioni di persone e centinaia di migliaia di imprese non riescono più a reggere l’urto della crisi».
Come bisognerebbe intervenire, concretamente? «La prima cosa da fare, per quel che riguarda la legge di Stabilità, è discutere in Parlamento la possibilità di elevare il rapporto deficit-Pil dal 2,5% al 2,7%. Vorrebbe dire liberare 3 miliardi di risorse aggiuntive da destinare a un piano per l’occupazione».
E al di là della legge di Stabilità?
«Dobbiamo rovesciare l’ordine dei fattori che finora ha dominato sulla crisi, dobbiamo introdurre un chiaro elemento di discontinuità. Lo dico anche guardando all’impostazione politica e culturale del sindaco di Firenze. La strategia delle classi dirigenti europee secondo cui dalla crisi si esce con più rigore e austerità perché questa è la premessa per rilanciare l’occupazione, i redditi, i consumi, si è rivelata fallimentare. Noi dobbiamo rovesciare l’ordine dei fattori, che non può essere rigore, crescita, lavoro. All’opposto, è solo creando lavoro che si rimettono in moto la domanda interna, la produzione, i consumi, la crescita». Faceva riferimento all’impostazione politica e culturale di Renzi: cos’è che non la convince?
«Noi dobbiamo avere il coraggio di rompere alcuni tabù che sono anche dalla nostra parte. Nel sindaco Firenze e in alcuni suoi collaboratori vedo una sostanziale continuità con le ricette politiche ed economiche degli ultimi venti anni. Continuano a parlare di flessibilità del lavoro, per esempio. E questo quando ormai è chiaro che noi abbiamo usato la leva della flessibilità precarizzando la vita delle persone e non abbiamo capito che il grande ritardo della competitività del nostro Paese non è nella disciplina del mercato del lavoro, ma nel non aver investito nell’innovazione e nella ricerca. E poi vedo che il sindaco di Firenze dice di prendere 4 miliardi di euro dalle pensioni, cioè da fasce sociali che hanno già pagato il prezzo della crisi, parla di tagli alla spesa pubblica, di abolizione dell’articolo 18. Vedo cioè una sostanziale continuità con l’impianto moderato che ha segnato questo ventennio».
E invece lei, che domenica va alla sfida delle primarie con Renzi e Civati, cosa propone per superare la crisi e per rafforzare il governo? Alla guida di quale Pd si candida?
«Io voglio un Pd che riscopra l’orgoglio, la passione, i principi della sinistra. Domenica si decide anche questo. Leggo su Repubblica di un patto già siglato tra Letta e Renzi per il dopo. Non me ne importa nulla, non so se sia vero e in ogni caso sarebbero affari loro, ma io dico scegliamo: vogliamo una grande forza spostata sul fianco moderato, con una cultura moderata, sostanzialmente di continuità con l’esperienza di questi venti anni, o vogliamo una grande forza della sinistra, popolare, radicata nel Paese, capace anche di introdurre una rottura sul terreno delle politiche economiche e sociali?».
Accennava prima alla strategia del rigore dominante in Europa: cosa bisogna fare concretamente per cambiare quel paradigma?
«Assumere politiche che vadano esattamente nella direzione opposta, anche perché l’Europa così muore. Gli errori che le leadership tecnocratiche di Bruxelles hanno compiuto nel cuore di questa crisi gridano vendetta. Bastava qualche decina di miliardi di euro per mettere in sicurezza la Grecia e non portarla sull’orlo del collasso sociale. Non possiamo continuare a ricevere pagelle da Bruxelles, dobbiamo andare in Europa a batterci, insieme alla famiglia dei progressisti, contro la vecchia ricetta per cui si esce dalla crisi attraverso la svalutazione del lavoro e di tutto ciò che è pubblico. Io voglio un Pd che riscopra i principi della sinistra anche a partire da qui, dal valore sociale del lavoro, dal valore di ciò che è pubblico, nella logica di poter tornare a dire col nostro vocabolario che ci sono sfere della vita individuale delle persone dove il mercato e la logica del profitto non possono penetrare».
Non crede che ci sia una responsabilità della sinistra italiana e anche europea da questo punto di vista? Non sarebbe opportuna un’autocritica? «Assolutamente, ma più che un’autocritica serve dire come rompi questa dinamica. Noi non siamo nati per essere il volto buono della destra, noi siamo la sinistra, abbiamo un’altra funzion. In questi venti anni abbiamo espresso in troppi momenti una subalternità dal punto di vista culturale nei confronti delle ricette dei nostri avversari. Ora dobbiamo ripartire da una sinistra dei diritti e da una rivoluzione della dignità, dalla centralità della persona. Siamo nati per questo, non per mettere le toppe agli abiti cuciti da altri».
Qual è il ruolo della sinistra, in questo passaggio in cui il Pd sostiene un governo insieme a un pezzo di centrodestra?
«Dobbiamo sostenere il governo e anche incalzarlo più di quanto non abbiamo fatto, ma dobbiamo guardare oltre. Voglio che il Pd ripensi il futuro di questo Paese per i prossimi decenni. Non c’è sinistra senza cambiamento ma al tempo stesso non c’è vero cambiamento senza la profezia della sinistra».
Il nuovo segretario, chiunque vinca, avrà il consenso di meno della metà degli iscritti: non crede ci sia qualcosa che non va nel meccanismo di elezione? «Abbiamo un sistema piuttosto bizantino per scegliere il nostro segretario. La verità è che abbiamo pensato a questo modello in un’altra stagione. Il Pd è nato sull’idea al di là della vocazione maggioritaria che è un’ambizione che merita una riflessione perché contiene un fondo di verità che noi facessimo un investimento nel sostanziale bipartitismo di questo Paese. Le cose sono andate diversamente. Non abbiamo costruito un sistema politico nel quale possiamo ritenerci autosufficienti. Noi non siamo autosufficienti, né sul piano elettorale né sul piano culturale né sul piano politico. Dobbiamo avere l’umiltà di capire che molto di buono è oggi fuori da noi».
Ritiene che quando ci saranno le primarie per la premiership debba presentarsi un candidato anche della sinistra, oltre al segretario e al premier in carica? «Molto dipenderà dall’offerta politica che daremo al Paese. Questo governo è una parentesi nella storia d’Italia, giusta, necessaria, ma una parentesi. Dopo la quale dobbiamo tornare a quel bipolarismo di fatto in cui il centrosinistra abbia la possibilità di riaggregare un’area vasta del Paese che non si riconosce nella destra. Il futuro del centrosinistra non può essere la riproposizione della coalizione che presentata al voto di febbraio e ha perso. Dobbiamo ricostruire un rapporto di fiducia con le forze più dinamiche della società, della legalità, del civismo, le associazioni, i movimenti, tutti quelli che hanno fatto in questi anni barriera al declino economico e anche democratico».
Se venisse eletto segretario, quali priorità imporrebbe al governo?
«Non imporrei nulla ma difenderei con grande forza la necessità di una sterzata radicale nell’azione di questo governo, che deve mettere al centro quelle fasce sociali che hanno pagato il prezzo più alto della crisi. Da parte del sindaco di Firenze e di Civati ho visto una grande cautela, una diffidenza anche, nei confronti della parola patrimoniale. Ma di fronte al fatto che negli ultimi trent’anni c’è stata un’opera di redistribuzione delle risorse dai redditi da lavoro verso altre fonti, di rendita, di speculazione, non si possono avere certe paure. Dobbiamo ricostruire il Paese nel suo modello economico e sociale, dal punto vista dell’etica pubblica. Ci deve allora essere un senso di responsabilità di tutti, non scaricare il peso di questa crisi su categorie che l’hanno già pagata. Alla Leopolda Davide Serra ha detto tra gli applausi che se l’Italia è ridotta così la colpa è dei pensionati e dei sindacati. Per questo voglio un Pd che non stia in quel solco e che invece riscopra i valori della sinistra. Allora, l’imposta patrimoniale non è un modo per punire la ricchezza, è un modo per chiamare al senso di responsabilità una parte delle élite di questo Paese».
Da segretario come riorganizzerebbe il partito?
«Io vorrei comporre una segreteria certamente con il 50% di donne, ma vorrei anche che un suo membro avesse il suo ufficio collocato stabilmente a Bruxelles, perché la politica comunitaria e la nostra appartenenza al campo della sinistra europea sempre di più siano non un vincolo esterno ma la chiave sulla quale costruire l’identità del partito. Questa segreteria dovrebbe una volta al mese riunirsi a Bruxelles e anche in diverse città italiane, per vivere fisicamente nei luoghi della crisi e della riscossa. E poi non comporrei organismi sulla base di una bilancia correntizia. Mi batterei per spiegare che le correnti, che non rappresentano delle idealità ma semplicemente delle filiere notabilari, di potere, non vanno nel senso di costruire questo partito, ma nel senso opposto». Quale messaggio vorrebbe che passasse, in questi ultimi giorni di campagna?
«Vorrei si capisse che domenica si decide il destino di questo partito dal punto di vista della sua natura: chi siamo, per chi siamo. Ai gazebo non è in discussione soltanto la scelta di un nuovo volto. Non possiamo ridurre tutto a un rimpallo di battute, anche perché non è un battutismo che ci salverà dalla crisi di questi anni, che ci farà rinascere. Il problema è se battiamo la destra, non se facciamo delle buone battute. E la destra la puoi battere se riscopri le radici profonde della tua identità. La sinistra non è una pagina della storia passata
di questo Paese, come qualcuno vuole raccontare. La sinistra è l’anima di questo progetto, è l’elemento che gli dà senso. Allora domenica non si sceglie solo un nome, un volto, tantomeno una cravatta, domenica si decide sull’autonomia culturale della sinistra italiana e sul progetto del Pd. Questa è la posta in gioco».
Come risponde a chi polemizza per il sostegno alla sua candidatura da parte dello Spi-Cgil?
«Io sono orgoglioso di quella scelta. Ma poi, scusate, Davide Serra sale sul palco della Leopolda e dice che la colpa è di sindacati e pensionati, e chi dovrebbe appoggiare lo Spi, Renzi? E poi, io sono sostenuto dalla presidente del sindacato dei pensionati Cgil, Carla Cantone, che è candidata nelle nostre liste a Bologna, e da Fausto Raciti, che è un giovane parlamentare leader dei Giovani democratici. Forse questo vuol dire qualcosa». Quanti votanti prevede, domenica ai gazebo? «Intanto, ho sentito qualcuno dire che se vota un milione e mezzo di persone è una sconfitta. Ma come si fa a dire una cosa del genere? Assistiamo da anni a uno spettacolo, nella politica italiana, con un capo che prende la parola da un palco e tutti che applaudono. Con noi hanno votato 300 mila persone nei circoli del Pd e domenica andranno ai gazebo tra un milione e mezzo e due milioni di persone. Ma come si fa a non vedere la grandezza di questo?».
Come giudica il fatto che in questo congresso non si sia parlato quasi per niente del partito, di quale modello debba avere?
«Lo considero un fatto negativo. Tra i sostenitori del sindaco di Firenze ho sentito proporre l’abolizione degli iscritti. No, un partito senza gli iscritti è come la democrazia senza le elezioni. Io invece penso che dobbiamo investire sugli iscritti, per esempio chiamandoli a rispondere a dei referendum anche su scelte di merito. Il modello di partito del sindaco di Firenze a me non convince. È costruito sulla polarizzazione tra gli amministratori, che sono fondamentali, e i parlamentari, che sono altrettanto decisivi. Ma si ripropone uno schema dove in mezzo, tra il governo e il Paese, c’è una vasta terra di nessuno che non è occupata, se non da altre forze che possono anche essere pericolose per la tenuta del sistema democratico. L’idea di un partito tutto schiacciato e giocato sulla logica di un capo carismatico che comanda e poi gli amministratori da un lato, i parlamentari dall’altro, e sotto niente non mi convince».

il Fatto 5.12.13
Soldi, ma come sono opache le primarie
di Wa. Ma.


Pippo Civati? Non mi piace, è il tappetino di Renzi e dice solo cose che portano acqua al sindaco di Firenze. E poi ha speso troppo in questa campagna per le primarie. Come Renzi, peraltro, che solo per mettere un annuncio su Repubblica , ieri, per far sapere che era al Teatro Olimpico a Roma, ha speso 7.000 euro”. Ugo Sposetti, l’ex tesoriere dei Ds, uno dei grandi elettori di Gianni Cuperlo, va giù duro. E accusa: “C’è un’informazione di regime. Possibile che nessuno si chieda quanto spende Civati, il web costa, e quanto spende Renzi?”. La questione delle spese per le primarie è spinosa, ed è di quelle destinate a rimanere in una zona di parziale opacità. Il tetto è di 200 mila euro, ma per ora è praticamente impossibile capire quanto abbiano effettivamente speso i vari concorrenti. Le primarie non sono ancora chiuse e quindi ognuno di loro è legittimato a fornire cifre a spanne, pronto a giurare di essere pienamente nei limiti richiesti. Dice Alberto Bianchi, presidente della Fondazione Big Bang, da sempre delegato a far quadrare i conti del Sindaco di Firenze: “Abbiamo speso circa 85 mila euro, prevediamo di spenderne circa altri 25. Il Teatro Olimpico a Roma è costato 5 mila euro. A mia conoscenza su Repubblica non è apparsa nessuna propaganda elettorale. È apparsa la notizia di un incontro con Renzi, che è cosa ben diversa da un annuncio di sostegno o di propaganda”. E le iniziative in giro per l’Italia, a partire da Bari? I renziani garantiscono che tutto questo è pagato dai comitati locali e che comunque non si supererà il tetto di spesa. Duri anche i civatiani : “Non accettiamo lezioni di trasparenza da chi sostiene un candidato che non sta rendicontando agli elettori quanto raccoglie e come lo spende. Gianni Cuperlo è l'unico dei tre candidati a non aver reso queste informazioni disponibili on line”, dice Paolo Cosseddu, campaign manager per Civati. “La cifra raccolta da noi è pubblicata online sul sito civati.it   e attualmente si aggira attorno ai 90.000 euro”. In campo scende anche la tesoriera del comitato Cuperlo, Donata Lenzi: “Non so quanto abbiamo speso, alla fine tireremo le somme”. La polemica è di quelle destinate a tornare. Nel degttaglio chi ha finanziato le primarie dell’anno scorso di Renzi? Nel dettaglio non si sa. E la rendicontazione delle spese sostenute da Bersani per la sua corsa contro Renzi? Gli ultimi capitoli di spesa non sono mai stati resi noti. Cosa ne è stato del “tesoretto”, i 6 milioni ricavati dalle consultazioni dall’anno scorso? Ufficialmente non si sa come siano stati utilizzati. C’è poi il tallone d’Achille del Rottamatore, dal punto di vista dei soldi: la Leopolda. Dice Bianchi che costerà intorno agli 85mila euro, ma che non fa parte della campagna congressuale, e quindi non fa cifra per il tetto. Motivazione discutibile. E comunque, chi la finanzia? Lo scopriremo solo nella prossima primavera. Sono gli ultimi fuochi polemici di una campagna che si avvia alla conclusione. E intanto Matteo Renzi continua a ricevere endorsement dei più variegati. Da Pippo Baudo a Max Giusti, arrivando a Belen Rodriguez, che la mette così: “È il più bello tra i tre candidati alle primarie del Pd. Il suo accento fiorentino mi diverte molto, mi piace fisicamente, ha dei begli occhi chiari". E dunque, per chi voterà alle primarie? “Non saprei, mi devo informare”. Rischi che si corrono.

l’Unità 5.12.13
Aborto, indietro tutta
Troppi obiettori, «194» inapplicata
di Roberto Rossi


800 è  il prezzo, in sterline, che molte italiane pagano per abortire in cliniche inglesi
La legge è stata emanata nel 1978 È stata confermata con una consultazione referendaria il 17 maggio 1981

POCHI OSPEDALI GARANTISCONO QUELLO TERAPEUTICO. SPESSO LE PAZIENTI CAMBIANO REGIONE, ALTRE VOLTE ADDIRITTURA STATO.
PER LA POLITICA È UN TABÙ. MA C’È CHI SI RIBELLA, COME A JESI...

Racconta Andrea Cataldi: «Era martedì e io ero a letto con una tonsillite. In soggiorno mia moglie, alla diciottesima settimana di gravidanza cerca di tenere a bada il nostro primogenito Daniele non le concede tregua (...) Nella frenesia si fa largo il trillo di un telefono che non avremmo voluto sentire». Simona alza una cornetta «che non avrebbe dovuto alzare». Dall’altro capo l’ospedale di Ascoli Piceno, la città dove vivono, con i risultati dell’amniocentesi: «Dovremmo parlare con voi». E arriva «il buio, all’improvviso». In pochi minuti raggiungono la struttura. La tonsillite di Andrea è una «questione già vecchia». «Trisomia 13, sindrome di Patau» c’è scritto nella cartella. Un caso rarissimo, uno su diecimila. Chi ne è affetto nasce deforme e non vive più di tre mesi. «Incompatibile con la vita» dicono all’ospedale, «incompatibile con la vita» pensano i genitori sconvolti. «Piano piano, quasi bisbigliando, ci viene illustrato l’unico scenario plausibile, proprio quello più impensato, proprio quello che mai avremmo preso in considerazione»: l’aborto.
«Quella parola si fa fatica a pronunciarla, persino il personale medico accenna, ammicca, ricorre agli acronimi: Ivg, Itg». Figurarsi poi quando devono «confessare che: “noi qui queste cose non le facciamo, siamo obiettori”». Se si vuole ci sono altre strutture. Ancona, San Severino Marche o Pesaro. «Ma ad Ancona la lista d’attesa è lunga» e più si aspetta più diventa complicato, pericoloso. La scelta cade su San Severino Marche, due ore di auto. Eppure la legge, la «194», ideata 35 anni fa per regolare la proceduta di aborto, dovrebbe obbligare gli ospedali dove esiste un reparto di ostetricia e ginecologia, come quello di Ascoli, a eseguire interruzioni di gravidanza dopo i primi novanta giorni. L’articolo 9, che regola il diritto all’obiezione di coscienza, lo dice chiaramente quando riporta che «gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti ad assicurare l’espletamento delle procedure previste...».
FOTOGRAFIA
Ma se la legge lo recita, in Italia in pochi la applicano. Per capire quanti, visto che il ministero della Salute non fornisce un elenco aggiornato degli ospedali nei quali siano operanti i reparti di ginecologia che garantiscano l’aborto terapeutico (dopo i primi 90 giorni), e dato che l’Istat non fornisce questo tipo di informazioni, trincerandosi dietro un illusorio «segreto statistico», la Laiga (Libera associazione ginecologi per l’applicazione della 194) ha fatto una sua personale ricerca. «Ospedale per ospedale» ci dice la dottoressa Anna Pompili. Non tutti, naturalmente, ma una fetta talmente larga di strutture da rendere lo studio un prezioso documento. I risultati si fermano all’aprile di quest’anno, ma da allora si può immaginare che poco sia cambiato, in meglio.
La fotografia è riassunta nelle tabelle a fianco ma il responso è netto: nel nostro Paese la «194» è spesso carta straccia. Sommersa da una dilagante obiezione di coscienza, spesso piegata a logiche che nulla hanno a che fare con un reale convincimento interiore, e da una conseguente e ben più grave obiezione di struttura. Una realtà che il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, fa finta di non vedere fissando il numero di obiettori a una cifra che balla, per ogni regione, intorno al 70%. Ma si tratta di una media semplice, fuorviante. In certe realtà l’applicazione della 194 è complicata.
Nel Lazio, ad esempio, l’unica regione nella quale l’indagine è completa, su un numero totale di 391 ginecologi strutturati nei reparti solo 33 non obiettori eseguono l’interruzione di gravidanza volontaria. Neanche uno su dieci. Non che da altre parti vada meglio. In Sardegna negli ospedali Civili di Bosa e di Ozieri, sono quasi tutti obiettori. In Campania solo il 16% dei ginecologi è non obiettore, in Calabria la percentuale si abbassa anche di più (sfiorando appena il solo il 7%).
Ma anche al nord si trovano delle realtà piuttosto complesse.
All’ospedale di Bergamo sono obiettori 20 ostetrici-ginecologi su 27, 32 anestesisti su 100 e 52 membri del personale sanitario non medico su 125. A Seriate, sempre in Lombardia, su 33 ostetrici-ginecologi 21 sono obiettori. L’en plein lo fa il presidio di Treviglio: 14 ginecologi e 22 anestesisti. Tutti obiettori. Ma ci sono, come ha denunciato il Pd locale, anche i casi di Montichiari, in provincia di Brescia, di Cuggiono, presidio dell’ospedale di Legnano, di Iseo, che dipende dall’ospedale di Chiari, di Sondalo e di Chiavenna, distaccati dell’ospedale della Valtellina e Valchiavenna. Quante interruzioni si sono fatte? Zero. In totale, ha calcolato la Laiga, su 441 strutture italiane sentite, solo poco più del 10% garantiscono l’aborto terapeutico. Molti pazienti sono così costretti a spostarsi in un altro ospedale. Come succedeva a Caserta, dove nella Clinica S. Anna, convenzionata con la Regione e autorizzata ad eseguire interruzioni di gravidanza, nel 2012 si sono presentate 1633 donne. Di cui solo il 30% residenti in città o in provincia. Il resto, sette donne su dieci, proveniva da altre zone: Napoli (il 50% delle pazienti) o Frosinone e Latina. Ma questo accadeva fino all’agosto di questo anno. Avendo già esaurito il budget a disposizione, la clinica S. Anna non effettua più aborti.
Se la regione o la città più vicina rappresentano la prima opzione, alle volte si sceglie anche di andarsene all’estero. In Gran Bretagna, ad esempio. Con quasi ottocento sterline molte cliniche praticano l’interruzione terapeutica. Nel paese (secondo i dati della Uk Abortion Statistics relative al 2012) la presenza delle italiane (oltre un centinaio) è seconda solo a quella delle irlandesi. Tenendo a mente, però, che per le leggi di Dublino, l’aborto è illegale. Fino a qualche anno fa anche la Svizzera era gettonata, ma come ci spiega il dottor André Seidenberg dell’Università di Zurigo «l’anno scorso nella mia clinica è arrivata solo una donna italiana». Meglio allora la Spagna, o la Slovenia. Come ha fatto Anna, anni 37: «Sono partita senza la certezza di abortire. Una volta lì mi hanno sottoposta a una visita con ecografia, un colloquio con genetista e alla fine una commissione medica ha deciso se potevo procedere o meno. Io mi sono trovata molto bene, personale medico molto disponibile e scrupoloso».
RESISTENZA
Se spesso si decide di andarsene, altre volte invece ci attrezza per resistere. Alessandra fa parte di un piccolo ma agguerrito collettivo nato a Jesi (nelle Marche). È composto da una decina di donne (età media 33 anni) e ha adottato un nome che è un programma: «Collettivo Vialibera194». L’idea di formare un gruppo in difesa della legge che regola l’aborto ha preso corpo nel gennaio del 2013. «A Jesi – spiega in una mail il Collettivo – con l’obiezione degli ultimi ginecologi, nel luglio del 2012, non è stato più possibile accedere al servizio di interruzione di gravidanza. Una situazione che abbiamo ritenuto gravissima e insostenibile visto che si tratta di una prestazione garantita dal sistema sanitario nazionale».
Da qui l’idea di formare un gruppo di difesa della 194. Attraverso incontri, dibattiti e la creazione di un apposito blog, il Collettivo si è impegnato nel creare una rete di sostegno per l’applicazione della legge nelle Marche. E da maggio fino a settembre, ha raccolto oltre quattromila firme, messe nero su bianco in una petizione con la quale si chiede il ripristino della legalità non solo nella zona di Jesi e Fabriano, ma nell’intera regione.
In questa loro battaglia il Collettivo non è solo.
Tra i co-promotori compaiono altri 58 soggetti, tra partiti politici locali, associazioni e piccole istituzioni. Il problema è che queste firme sono pronte ma nessuno vuole riceverle. «Stiamo attendendo ancora da parte dell’Assessore alla Sanità della Regione Marche, Almerino Mezzolani, un appuntamento, più volte rimandato, per la consegna della petizione». Nel frattempo nell’ospedale di Jesi il servizio è stato ripristinato solo parzialmente con un numero di interventi (otto in un mese) eseguiti da una ginecologa che con cadenza settimanale fa la spola tra Jesi e Fabriano.
Dunque, in Italia c’è una legge che dopo 35 anni è praticamente disattesa. E che, ormai, in pochi reclamano. Anche perché l’argomento spacca le maggioranze politiche. Come è successo in Toscana lo scorso 2 ottobre quando, in Consiglio regionale, la maggioranza di centro sinistra si è divisa (compreso il Pd) su una mozione, primo firmatario il capogruppo Fds-Verdi Monica Sgherri, che impegnava, tra l’altro, la Giunta toscana a «emanare atti che prevedano con effetto vincolante per tutte le strutture dove si pratica l’interruzione volontaria di gravidanza per assicurare la piena applicazione della legge 194, e di istituire elenchi di medici obiettori e non obiettori». Il documento era stato sottoscritto da vari consiglieri di maggioranza, specialmente donne. La mozione fu respinta, per un solo voto di scarto, anche per colpa delle numerose assenze in aula e i voti contrari di alcuni consiglieri Pd (di area ex Margherita), che non hanno seguito il resto del proprio gruppo ed hanno votato contro la mozione insieme all’opposizione.
Di legge 194, dunque, meglio non parlarne. Racconta ancora Andrea Cataldi in una lettera recapitata anche al Tribunale del malato di Ancona: «Simona mi stringeva come se fossi l’unica sua speranza, assisto al parto, ed al raschiamento che ne segue. Vedo nascere mio figlio Francesco e lo vedo morire. Se non fosse stato per un’unica mezz’ora» nella quale hanno ricevuto assistenza medica, «in pratica l’interruzione di gravidanza l’avremmo dovuta gestire autonomamente, nella più totale solitudine di una stanzetta le cui pareti incombono ancora sui ricordi. Poi tutto finisce e ci chiediamo di dimenticare, dobbiamo solo dimenticare. Ma si può?»

l’Unità 5.12.13
«Ministro Lorenzin, quei dati sono anomali»
«In Italia gli aborti diminuiscono. In Europa no, anche se si usano più contraccetivi. Perché?»
Le cifre fornite dal ministero della Sanità non rispecchiano la realtà, fatta anche di aborti clandestini e medicine on line
Un mercato utilizzato soprattutto dalle straniere
«Si controlli quanti pazienti si ricoverano per gli effetti collaterali dei medicinali abortigeni»
di Carlo Flamigni


Tra i miei ricordi di scuola c’è la storia di Margite, un misterioso personaggio (appare brevemente nell’Alcibiade minore), il quale, dice il testo, «pollà episteto, kakòs dè episteto panta», sapeva molte cose ma le sapeva tutte male. Mi viene sempre in mente Margite quando leggo le dichiarazioni dei nostri ministri della Salute, costretti a impegnarsi in una serie infinita di problemi, molto complessi e molto diversi l’uno dall’altro, della maggioranza dei quali sono del tutto ignari (come potrebbe essere diversamente?) cosa che li ha costretti a fidarsi di un consulente, scelto da loro o imposto da qualcuno al quale non si può dir di no, tenendo ogni volta le dita incrociate: il motto dei nostri ministri è, ma è cosa nota a tutti, «speriamo che Dio me la mandi buona». Questa volta Dio non l’ha mandata buona al ministro Lorenzin, che pure meriti di brava cattolica li dovrebbe avere, le cui dichiarazioni sull’attuazione della Legge 194 (rilasciate nel settembre scorso) nel 2011 e nel 2012 temo proprio che non potrebbero essere utilizzate come buon esempio di razionalità e di buon senso. Dunque il ministro Lorenzin, qualche mese fa, ha apprezzato come tutti noi il fatto che le interruzioni di gravidanza continuino a diminuire, ha aggiunto qualcosa anche sugli aborti delle nuove cittadine il cui numero, ha detto, è elevato «con tendenza alla diminuzione» e poi ha aggiunto che «i dati della relazione indicano che relativamente all’obiezione di coscienza e all’accesso ai servizi la legge ha avuto complessivamente un’applicazione efficace». Nello stesso comunicato stampa, un po’ più avanti, si legge poi che «i numeri complessivi degli obiettori di coscienza sono congrui al numero complessivo degli interventi e eventuali difficoltà sembrano derivare da una distribuzione ineguale del personale tra le strutture sanitarie all’interno di ciascuna regione». Burocratichese, ma comprensibile.
La Laiga (associazione che raccoglie i ginecologi non obiettori) non è proprio d’accordo con queste affermazioni e fa osservare che non tengono conto del fatto che in Italia l’obiezione di coscienza è diventata in realtà una obiezione di struttura, che in molti ospedali i servizi che dovrebbero provvedere alle interruzioni di gravidanza non esistono a causa del grande numero di obiettori, cosa che costringe molte donne a cercare una soluzione ai loro problemi altrove (il che significa emigrare nelle regioni nelle quali i servizi funzionano) o rivolgersi a chi pratica aborti clandestinamente, o addirittura emigrare come era abitudine fare prima del 1978. Oltre a ciò il signor ministro non ha tenuto conto del fatto che i ginecologi che operano negli ospedali che sono privi del servizio in questione non hanno alcun bisogno di sollevare obiezione di coscienza e questo significa che il numero totale di obiettori è ancora più alto di quello scritto sugli appunti dell’onorevole Lorenzin: c’è da chiedersi a questo punto a quanto in realtà corrisponda l’88,4% di medici obiettori della Campania. Quanto a questi obiettori, io credo che il ministro non possa non sapere che solo una parte di loro appartiene alla categoria delle brave persone che interrogano la propria coscienza e ne seguono i dettami, e molti altri sono invece persone di moralità per lo meno discutibile, interessate solo alla propria convenienza e al proprio interesse.
Forse converrebbe che il signor ministro, prima di parlare ancora di obiezione di coscienza, leggesse il codicillo di dissenso che segue il documento del Cnb del 2012, senza curarsi troppo del fatto che l’ho scritto io, ci troverà pareri di illustri studiosi di diritto che sono d’accordo con le mie critiche. Se poi ha ancora il tempo per leggere qualche libro interessante, compri «La scintilla di Caino», l’ultimo saggio pubblicato da Carlo Augusto Viano, uno dei maggiori filosofi del nostro tempo, che a proposito dei medici antiabortisti scrive: «In questo modo l’obiezione di coscienza, da strumento per esercitare il diritto di sottrarsi a una imposizione è diventata un modo per imporre agli altri le proprie scelte impedendo il godimento di un diritto sancito dalla legge».
SULLA RETE
Mi chiedo poi se sia umanamente possibile che al signor ministro non sia passato nemmeno per l’anticamera del cervello che qualcosa di poco chiaro, nei dati che riguardano la richiesta di interruzione di gravidanza delle nostre ragazze più giovani e delle nostre nuove cittadine, quelle che il ministro chiama «straniere», in effetti c’è. Le ragazze che non hanno ancora superato i vent’anni hanno un tasso di abortività pari a 6,7 (2011) – 6,4 (2012), che si confronta piuttosto male con i dati relativi alle coetanee francesi (15,2), inglesi (20) e spagnole (13,7), e si confronta bene solo con i dati che arrivano dalla Germania e dalla Svizzera: solo che in questi due Paesi le ragazze ricevono una educazione sessuale (e da noi no), fanno uso di mezzi contraccettivi efficaci ( e da noi no) e si dicono molto interessate alla prevenzione delle gravidanze indesiderate ( e da noi no). E allora, come spiega il signor ministro, questa strana anomalia? Provo a dare un suggerimento: vada su Internet e veda un po’ cosa succede se interroga il web su termini come «Ru 486 online», o «pillola abortiva» o «Mifegyne» (ma poi le verranno nuove idee viaggiando in rete): scoprirà quanto è facile trovare solidarietà e aiuto concreto ( e anche moltissime fregature) e come le pillole abortive si trovano, basta pagarle, arrivano dalle fonti più impensate. Bisogna dunque accettare il fatto che se il Ministero continua a ignorare l’educazione sessuale e a privare le giovani donne dell’aiuto dei consultori, le ragazze si arrangiano: e siccome c’è certamente una percentuale di queste interruzioni che non ha un esito del tutto favorevole e che costringe le ragazze a sottoporsi a un raschiamento, chieda ai suoi esperti di controllare se gli aborti spontanei non sono per caso aumentati di numero, e se è così calcoli che quell’aumento rappresenta circa il 4-5% degli aborti clandestini nei quali sono stati utilizzati farmaci abortigeni.
Temo che per quanto riguarda le nuove cittadine il problema sia ancora più complicato, perché molte di loro usano le prostaglandine che comprano in farmacia (con la scusa di curarsi il mal di stomaco) con ricette firmate dai nostri medici. Ora potrebbe essere interessante controllare chi firma queste ricette, verificare quante di queste donne finiscono in ospedale per gli effetti collaterali del farmaco e dare anche un’occhiata alle differenti etnie, non sarà che qualcuna di esse non figura nell’elenco di quelle che vengono ad abortire nei nostri ospedali? Perché se è così allora vuol dire che alcune di esse (ad esempio, quella cinese) si sono costruite i loro ospedali personali.
Concludo. Secondo me il ministro dovrebbe scegliersi un altro esperto e mandare l’attuale «nei ruzzoli», come si dice dalle mie parti. Se vuole un consiglio, eviti di sceglierne uno che ha scritto libri per dimostrare che l’Ru 486 è una pillola mortale o che ha sostenuto con grande sicumera che la legge va bene così e non ci sono problemi da risolvere per quanto riguarda la sua applicazione. Perché, signor ministro, non è vero.

il Fatto 5.12.13
Roma
San Camillo, viaggio nelle corsie della vergogna
di Tommaso Rodano


PAZIENTI SULLE BARELLE PER GIORNI, FLEBO DAI SOFFITTI, PUZZA E MEDICI ESASPERATI. L’EMERGENZA DURA DA ANNI

Quello che colpisce di più è l’odore. Un fetore penetrante, a cui non ci si abitua. Le corsie del pronto soccorso del San Camillo sono un dormitorio di barelle. I fili delle flebo scendono dalle pareti, dietro le porte. Siamo nel reparto d’urgenza di uno dei più grandi ospedali di Roma. Il corridoio che porta all’accesso dei “codici verdi”, i malati meno gravi, è occupato sui due lati dalle lettighe dei pazienti. Rimane una striscia di pavimento nel mezzo, dove passano medici e infermieri. Corpi sdraiati e sguardi cupi, assenti. Sulla sinistra c’è un anziano con una camicia a quadri grigia, i pantaloni abbassati mostrano il pannolone e scoprono parte delle natiche. Un uomo più giovane è in piedi, con la flebo attaccata al braccio, non sa dove appoggiarsi. All’esterno, di fronte all’ingresso del pronto soccorso, ci sono quattro ambulanze ferme. Le barelle sono rimaste dentro, insieme ai pazienti. Le auto non possono ripartire. Non è un’emergenza, è la quotidianità. Il grido di dolore dei medici è lo stesso, da più di due anni, quando la sofferenza è aumentata e hanno cominciato a circolare le foto dello scandalo, con i pazienti curati per terra, stesi su un materasso. Ogni tanto si fa “pulizia”, ma dura poco. Il tempo di una vistita ufficiale o di far calare l’attenzione dei giornali. Ma dentro lo scenario, con rare eccezioni, è sempre lo stesso.
AL FATTO QUOTIDIANO è arrivata la lettera struggente di un medico del pronto soccorso del San Camillo, che chiede di rimanere anonimo: “Abbiamo gridato il nostro inferno in tutti i modi, chiedendo aiuto a tutti, dalla magistratura, alla regione ai nostri vertici aziendali. Nulla! ”. Nel reparto si va avanti così: “Il 3 dicembre erano ancora da ricoverare pazienti del giorno 25 novembre. Si può avere anche solo un’idea di cosa significhi restare su una barella per 9 giorni consecutivi? ”. Il medico racconta episodi raccapriccianti: “Arrivano degli anziani che alla prima visita sono ancora capaci di esercitare la loro dignità e si spogliano con pudore; dopo 2 giorni nei nostri stanzoni hanno perso qualsiasi rispetto della persona, si lasciano pulire e visitare davanti al vicino, magari di sesso opposto, negli occhi rassegnazione e disperazione. L’altro giorno in sala emergenza ho visto un’infermiera passare direttamente dal massaggio cardiaco su un paziente, a imboccare un altro paziente anziano che era lì da tre giorni”. Lo stesso medico, incontrato fuori dal reparto, continua il suo sfogo: “Siamo sotto organico. Abbiamo turni massacranti. Dobbiamo sbrigare, allo stesso tempo, il nostro lavoro di pronto soccorso e anche quello dell’ospedale, dove non possiamo far ricoverare i pazienti perché non ci sono posti letto. In un ambiente terrificante, soprattutto a livello emotivo. A fianco a me, per forutna, ci sono colleghi con professionalità straordinarie, che tengono in piedi un sistema sul punto di crollare”.
Sandro Petrolati è un cardiologo del San Camillo e un dirigente dell’Anaoo, sindacato dei medici dirigenti. “A partire dal 2008 – spiega – in questo ospedale c’è stato un crollo dei posti letto. Se ne sono persi circa 400. La conseguenza è questo sovraffollamento selvaggio. È lo stesso in tutti i grandi nosocomi pubblici di Roma: non possiamo trovare ospitalità ai pazienti al Pertini o al San Giovanni, perché i loro pronto soccorso sono nelle nostre stesse condizioni”.
La sanità laziale continua a essere commissariata, la spesa è abnorme e i tagli una minaccia incessante. Com’è possibile che le strutture versino in queste condizioni? “Il denaro pubblico finisce altrove, si nasconde in mille rivoli. In questo ospedale, per esempio, nonostante i tagli sul personale e sui posti letto, si spende la stessa cifra di prima, se non di più. Evidentemente qualcosa non va”.

il Fatto 5.12.13
Il miracoloso stipendio dei preti in divisa
I cappellani militari percepiscono fino a 4mila euro. E paghiamo noi
di Daniele Martini


I CAPPELLANI MILITARI PERCEPISCONO FINO A 4 MILA EURO E PENSIONI VANTAGGIOSE, MOLTO PIÙ DEI COLLEGHI “CIVILI”. E PAGHIAMO NOI

Don Renato Sacco, coordinatore del movimento Pax Christi e parroco di Verbania nella diocesi di Novara, riceve grazie all'8 per mille uno stipendio mensile di 1.200 euro netti per 12 mensilità. Il nuovo ordinario militare, monsignor Santo Marcianò, riscuote invece dallo Stato-ministero della Difesa un assegno cinque volte più sostanzioso per 13 mesi di fila, equivalente a quello di un generale di brigata. Più l'auto blu. Monsignor Marcianò è stato nominato ordinario poche settimane fa, il 10 ottobre, da papa Francesco. Il quale in questo caso evidentemente non se l'è sentita di mettere in discussione una pratica assai amata dalla Chiesa tradizionalista, ma che da più di mezzo secolo provoca lacerazioni nel popolo di Dio. Per esempio l'ultimo numero di Mosaico di pace, la rivista diretta da padre Alex Zanotelli, ha pubblicato un dossier di venti pagine molto critico sull'argomento.
AL DI LÀ degli aspetti dottrinali, l'organizzazione di un corpo di cappellani militari assai ben pagati ed omaggiati mette in evidenza l'esistenza all'interno del clero di una specie di casta con le stellette, strutturata come una vera diocesi, addirittura con un proprio seminario piazzato nel bel mezzo delle caserme della città militare di Roma alla Cecchignola. L'Ordinariato militare ha uno suo arcivescovo-generale assistito da un vicario e 5 vicari episcopali più altri 176 religiosi con 3 auto blu a disposizione. Il loro status è regolato dal Concordato Stato-Chiesa del 1929 rinnovato nel 1984 ai tempi di Craxi presidente del Consiglio, e infine ritoccato da una legge di tre anni fa che ha precisato le condizioni giuridiche e l'avanzamento di carriera dei preti in uniforme. Tutti quanti, dall'ordinario militare al cappellano sono equiparati ad ufficiali delle Forze armate italiane e trattati come tali, con relativi vantaggi e privilegi, sia dal punto di vista della remunerazione sia della pensione. A un cappellano militare alle prime armi (è proprio il caso di dirlo) viene riconosciuto il grado di tenente con uno stipendio di 1.700 euro netti al mese. Dopo 15 anni, grazie all'avanzamento automatico della carriera e al ruolo più alto raggiunto, può contare su una paga tra i 3.500 e i 4.000 euro netti. I pensionati sono circa 160, tra cui 4 ordinari militari e 4 vicari. Gli ordinari riscuotono un assegno di oltre 4.500 euro netti, la maggioranza degli altri pensionati ha un trattamento da colonnello e quindi percepiscono circa 3.800 euro. Per il mantenimento dell’Ordinariato militare il Ministero della Difesa spende 17 milioni di euro ogni anno: 10 milioni per gli stipendi dei cappellani in servizio e 7 milioni per le pensioni dei preti soldato.
IN FUTURO quest'ultima cifra è destinata a crescere parecchio perché anche ai cappellani militari potrebbe essere riconosciuto quel vantaggiosissimo “scivolo d'oro” che il ministro ciel-lino della Difesa, Mario Mauro, sta regalando ai dipendenti delle Forze armate nonostante le terribili ristrettezze del bilancio statale. Il contingente militare dovrà scendere da un totale di 190 mila soldati a 150 mila nel giro di pochi anni e di conseguenza anche il numero dei cappellani militari dovrebbe essere ridotto di conseguenza. A quel punto si porrà la questione dell'esubero dei preti soldato ai quali è del tutto probabile che il ministro della Difesa voglia assicurare lo scivolo d'oro. In base a questo provvedimento i militari possono ritirarsi a 50 anni d'età con uno stipendio pari all'85 per cento di quello pieno più i contributi versati e calcolati sulla retribuzione di quando erano in attività. E se vorranno, potranno pure trovarsi un altro lavoro. Dopo 10 anni di questa pacchia potranno andarsene comodamente in pensione di vecchiaia a 60 anni (per i militari la legge Fornero non vale). E non è finita perché per i quattro anni successivi avranno diritto all'”ausiliaria”, cioè al recupero fino al 75 per cento dei benefici economici concessi ai colleghi in attività.
DIVENTATI UNA CASTA nella casta, i preti soldato dovranno allora fare i conti con un problema di coscienza in più. Non solo come conciliare le stellette con il messaggio evangelico di pace, ma con quale faccia presentarsi all'altare davanti alla comunità dei fedeli.

l’Unità 5.12.13
«Piangeva»
Uccide il figlio di 14 mesi
di Pino Stoppon


Verona, fermata la madre con l’accusa di omicidio: il piccolo aveva ecchimosi sul volto

VERONA Ucciso a pugni dalla madre. Questo il terribile sospetto della polizia di Verona che ha fermato una donna sudamericana dopo la morte del suo figlioletto, arrivato al pronto soccorso con segni sul volto e ormai in fin di vita. Per questo, in sera, la donna è stata fermata dalla polizia con l’accusa di omicidio. A carico della donna, si è appreso, sarebbero emersi gravi indizi di colpevolezza. Si sospetta che abbia picchiato a morte il piccolo.
Ieri mattina i poliziotti delle volanti sono intervenuti su una segnalazione pervenuta sul 113 da parte della sala operativa del 118, presso l’abitazione di una donna residente Verona, in via Manara, zona Santa Teresa, nel quartiere di Borgo Roma, dove i sanitari, all’arrivo degli agenti, stavano praticando le manovre rianimatore in soccorso di un bimbo di appena 14 mesi. Il piccolo, che versava in gravissime condizioni con lividi sul volto, è stato trasportato presso il cittadino Ospedale Civile Maggiore, dove, purtroppo però è giunto oramai cadavere. La chiamata d’emergenza è arrivata alle 9 e 30, fatta dalla stessa madre, ma il piccolo Micael così si chiamava il bambino non ce l’ha fatta ed è arrivato all’ospedale Maggiore già cadavere. Il decesso è stato dichiarato alle 10.30. Il bimbo è stato trovato dai soccorritori del 118 nel proprio letto di casa già in arresto circolatorio. Il piccolo è stato rianimato sul posto, intubato, ma è poi deceduto prima di arrivare in ospedale. Il padre del bambino, e marito della donna, con la quale non conviveva, non è ancora stato rintracciato. La Squadra Mobile di Verona è al lavoro per indagare sui risvolti dell’episodio per meglio accertare la dinamica di quanto accaduto al bambino precedentemente ai soccorsi. E proprio per capire chi o cosa abbia provocato al bambino quei lividi che la polizia in queste ore sta raccogliendo, per poi passarle al vaglio, le spiegazioni della madre, una donna uruguaiana di 40 anni , la quale ha personalmente allertato il soccorso sanitario telefonando al 118. Ai sanitari, la donna aveva ipotizzato che il piccolo fosse andato in shock anafilattico, per la puntura di un insetto.
DUBBI E SOSPETTI
I medici intervenuti sul posto si sono insospettiti, al punto da avvisare il 113, per alcuni lividi sul corpo del piccolo, in particolare per le ecchimosi al volto. Sono stati gli stessi uomini del 118 ad avvisare la polizia. La Mobile sta cercando di ricostruire quello che è successo nelle casa nei momenti precedenti la tragedia, anche perché lo stesso bambino presentava dei lividi al volto. Gli investigatori, proprio per capire chi o cosa abbia provocato sul bambino i lividi, hanno a lungo interrogato la madre. Di fondamentale importanza, a tale riguardo, sarà l’esame autoptico del corpicino del bimbo morto che l’autorità giudiziaria disporrà nelle prossime ore per chiarire le cause esatte del decesso. La polizia quindi ha proceduto al fermo di polizia giudiziaria della madre del bimbo di poco più di un anno morto ieri a Verona durante i soccorsi. Secondo quanto riferisce una nota della Questura, gravi indizi di colpevolezza sono emersi a suo carico. L’accusa con la quale è stata fermata è appunto quella di omicidio. Al termine delle formalità di legge la donna è stata portata nel carcere di Verona-Montorio, a disposizione dell’autorità giudiziaria che la interrogherà nelle prossime ore.

il Fatto 5.12.13
I voli segreti Cia sui cieli d’Italia
di Eric Frattini


Pubblichiamo un’anticipazione di “Italia sorvegliata speciale” di Eric Frattini (Ponte alle Grazie) storia del rapporto tra Italia e Servizi segreti Usa raccontata attraverso 150 documenti inediti
Robert Baer, ex direttore operativo della CIA, ha spiegato molto bene che cosa fossero le extraordinary rendition: “Se la CIA voleva un interrogatorio serio, il prigioniero veniva mandato in Giordania. Se voleva che fosse torturato, lo si spediva in Siria. Se voleva che sparisse e che non fosse più ritrovato, lo inviava in Egitto”. (...) Tra il 2001 e il 2005 diverse persone sospettate di avere rapporti diretti o indiretti con al Qaeda furono arrestate dagli agenti della CIA, con l’aiuto dei servizi segreti alleati, e inviati, a bordo di voli speciali, in paesi terzi per essere interrogati e torturati o, semplicemente, affinché fossero fatti sparire. La CIA denominò questa operazione Extraordinary Rendition.
George Tenet, direttore della CIA dal 1997 al 2004, ha dichiarato a questo proposito: “Lavoriamo con diversi governi europei, con gli italiani, i tedeschi, i francesi e gli inglesi, per individuare e distruggere i gruppi terroristici che attentano agli interessi statunitensi in America e in Europa”.
(...) all’interno della cosiddetta operazione Extraordinary Rendition, furono decisi, per esempio, i rapimenti di persone sospettate di appartenere a cellule terroristiche islamiche e il loro successivo trasferimento, a bordo di aerei noleggiati dalla CIA, nei centri di detenzione affinché fossero interrogate e sottoposte a tortura, nonché l’uso della base aerea francese a Gibuti per il decollo di droni della CIA diretti contro obiettivi nello Yemen (...) Il centro operativo, con sede a Parigi, era denominato in codice Alliance Base, Alleanza Base, con riferimento alla traduzione del nome dell’organizzazione al Qaeda, “la base”. (...) Il caso più famoso di detenzione illegale che vide coinvolti i servizi segreti e le autorità italiane nell’ambito dell’operazione Extraordinary Rendition è quello di Abu Omar, ma ci sono anche i casi di Abou Elkassim Britel e Maher Arar.
Abou Elkassim Britel è un cittadino italiano di origine marocchina. Arrivato in Italia nel 1989, ha ottenuto la cittadinanza dopo dieci anni e il matrimonio con una donna italiana. Domenica 17 giugno 2001, Britel lascia il Paese, diretto in Iran, con l’intento di entrare in Pakistan attraverso Lahore. Domenica 10 marzo 2002, una squadra speciale dell’ISIS, l’intelligence pachistana, arresta Abou Elkassim Britel all’aeroporto, accusandolo di essere in possesso di un passaporto falso. (...) Sabato 25 maggio 2002, l’intelligence pachistana lo consegna a quattro agenti della CIA. (...) Nel gennaio del 2004, un tribunale speciale lo condanna a nove anni di reclusione per partecipazione ad associazioni sovversive e coinvolgimento in attività “non autorizzate” dalle leggi del regno alawita. Nel settembre del 2006, dopo cinque anni d’indagini, la giustizia italiana ha dimostrato che c’era “una totale assenza di prove a suo carico nel processo in Marocco e che i sospetti alla base delle indagini condotte su di lui sono risultati infondati”. (...) Ancora oggi Abou Elkassim Britel, sebbene abbia già scontato la sua condanna a nove anni di reclusione, è rinchiuso in una prigione marocchina.
LA SECONDA vicenda che dimostra il coinvolgimento del-l’Italia nell’operazione Extraordinary Rendition e la sua complicità con la CIA, è quella del canadese Maher Ara. Giovedì 26 settembre 2002, Arar, di ritorno da una vacanza a Tunisi, atterra all’aeroporto JFK di New York York, da cui prevede di prendere un volo per Montreal. Arar, un ingegnere informatico trentaquattrenne di origine siriana, si è stabilito in Canada nel 1987, dove è diventato padre di due figli.
Arrivato al controllo passaporti dell’autorità d’immigrazione USA, scatta l’allarme. (...) Arar rimane in custodia cautelare, come previsto dal Patriot Act, fino a martedì 8 ottobre, quando è scortato in manette fino all’aeroporto di Bargor, nello Stato del Maine. Lì viene consegnato a quattro individui, probabilmente uomini della CIA, e imbarcato su un aereo dell’agenzia d’intelligence. Il velivolo, con codice di registrazione n829mg, lo attendeva già in pista con i motori accessi. Il Gulfstream III è registrato a nome della Presidential Aviation, una delle aziende di copertura della CIA (...) Il pilota del Gulfstream chiede l’autorizzazione di atterrare all’aeroporto romano di Ciampino per fare rifornimento, cosa che avviene alle 20.22, ora locale. Trentasette minuti dopo, il velivolo decolla nuovamente diretto in Giordania.
(...) Giovedì 10 ottobre, Arar viene rinchiuso in una cella. Una fossa di due metri per tre con un buco in alto attraverso il quale urinano animali e guardie. Vi trascorrerà dieci mesi e dieci giorni, venendo fatto uscire solo per gli interrogatori. Nell’agosto del 2003, sotto tortura, Maher Arar confessa di essere stato in un accampamento di terroristi in Afghanistan, ma non è nemmeno in grado di spiegare come sia arrivato nel Paese dell’Asia centrale. Finalmente, domenica 5 ottobre 2003, Arar viene rilasciato. Appena arrivato in Canada, denuncia l’accaduto, il coinvolgimento degli Stati Uniti nel suo arresto, la complicità dell’Italia, che ha permesso il transito dell’aereo della CIA in uno dei suoi aeroporti senza chiedere alcuna spiegazione, e della Giordania per averlo consegnato alla Siria, infine la Siria, per averlo rinchiuso illegalmente e torturato in una prigione clandestina.
Gli aerei della “CIA Airlines” atterravano e decollavano dagli aeroporti italiani senza nessun tipo di controllo, senza che le autorità chiedessero quale fosse la loro destinazione, perché si trovassero là, chi fossero i passeggeri che trasportavano o qualsiasi altra informazione. Di seguito, gli aerei transitati dall’Italia e appartenenti alle compagnie della Central Intelligence Agency. (...)
TRA IL 20 GENNAIO 2002 e il 24 novembre 2005, tredici aerei di compagnie “fantasma”, di proprietà della CIA, hanno realizzato 46 scali in territorio italiano all’interno dell’operazione Extraordinary Rendition. La Alleanza Base ha operato in Europa, tra il 2002 e il 2009. La CIA continua ancora oggi a negarne l’esistenza, nonostante John McLaughlin, vicedirettore dell’agenzia da luglio a settembre del 2004, abbia dichiarato: “La collaborazione tra la CIA e la dgse era totale”. Un sottufficiale dei ros ha raccontato: “Andammo in quattro a Guantanamo, a interrogare diversi detenuti nel campo nel novembre 2002 su mandato del comando generale nella persona del generale Giampaolo Ganzer. Non riferimmo all’autorità giudiziaria nulla sulla nostra attività, perché nessuna delle persone che sentimmo rispose alle domande”.

ITALIA SORVEGLIATA SPECIALE Eric Frattini Ponte alle Grazie pagg. 729, 23 €

l’Unità 5.12.13
Indesit, accordo separato. La Fiom dice no
di Massimo Franchi


ROMA Sette mesi di trattative. Cento ore di scioperi. La rottura due settimane fa. Martedì sera l’accordo separato, senza la firma della Fiom. La vertenza Indesit non ne vuole sapere di chiudersi. La soddisfazione di azienda, governo, Regione Campania e Marche sindacati firmatari (Fim Cisl, Uilm, Ugl) per l’accordo si misurerà con il voto dei lavoratori sulle otto pagine dell’accordo nel referendum vincolante di martedì 10 dicembre sul quale si pronunceranno gli oltre 5mila lavoratori italiani della multinazionale con sede a Fabriano, dopo le assemblee che cominciano oggi e terminano lunedì. Se vince il «Sì», la Fiom firma. Se vince il «No» si torna al tavolo.
Se i firmatari sottolineano il dato più evidente e positivo, i 1.400 esuberi per cui due settimane fa (dopo la rottura) era partita la procedura di mobilità, la Fiom (unico sindacato a non firmare) sottolinea come la delocalizzazione di molte produzioni sia confermata e che «gli esuberi rimangono», parlando di «accordo fatto su misura per vendere l’Indesit».
Nel testo dell’accordo si legge come «le parti convengano» «la concentrazione nei siti italiani delle produzioni del freddo da incasso, dei piani cottura gas, dei forni da incasso, degli speciali, del lavaggio ad alta capacità (le lavatrici sopra i 9 kg, ndr) e la riallocazione delle produzioni non sostenibili in paesi a minor costo». In più ci sono i 330 pensionamenti (non previsti nell’accordo) che riguarderanno tutti coloro che nel 2016 avranno i requisiti per la pensione.
Nel dettaglio i quattro stabilimenti italiani coinvolti nella riorganizzazione nella sede centrale di rimarranno i soli forni da incasso, a Comunanza (Ascoli Piceno) le lavatrici sopra i 9 kg, a Caserta incasso del freddo e piani cottura a gas. «Il governo giudica molto positivamente l’accordo perché, grazie al confronto, l’azienda ha profondamente modificato il suo piano originario ed ora risulta scongiurato completamente il rischio di oltre 1.400 esuberi», commenta il sottosegretario allo Sviluppo economico Claudio De Vincenti.
«PIANO FATTO SOLO PER VENDERE»
«Noi contestiamo il metodo e il merito dell’accordo», risponde Michela Spera, segretario nazionale della Fiom. «Ci è stato presentato un testo già pronto e immodificabile. Nel merito non è vero che gli esuberi sono azzerrati: ne rimangono 1.100 perché le attività re-internalizzate daranno lavoro a soli 300 lavoratori, mentre si licenziano i 120 lavoratori di Refrontolo (Treviso) e Brembate (Bergamo). In più si delocalizzano le lavatrici a Caserta (che vanno in Turchia) e i piani cottura a Fabriano. Il tutto è fatto per facilitare la vendita del gruppo, come conferma il mandato all’advisor che la Consob ha reso pubblico».
«L’azienda si è impegnata a ritirare le procedure di mobilità e ad assegnare delle missioni produttive alle fabbriche italiane, facendo rientrare produzioni che erano state portate in Turchia e Polonia. Gli stabilimenti italiani saranno focalizzati sulle produzioni di alta gamma», commenta la segretaria nazionale Fim Anna Trovò.
«Governo, sindacati hanno trovato un’intesa che significa prospettiva per lavoratori e impresa. Solo la Fiom Cgil è venuta anche in questa vicenda meno a quello che sono gli obiettivi di un sindacato che tutela chi lavora facendo accordi», afferma il segretario generale
della Uilm, Rocco Palombella. «Considerando il punto di partenza della trattativa, possiamo ritenerci più che soddisfatti, perché si è scongiurato ogni licenziamento e ottenuto l’impegno dell’azienda a non farlo fino al 2018», dichiara Antonio Spera (Ugl). «Penso comunque che sia sbagliato fare accordi separati in sede di governo», ha commentato Susanna Camusso: «L’unica connotazione che rende questo accordo diverso dalla stazione degli accordi separati è che si andrà al referendum tra i lavoratori».

La Stampa 5.12.13
Dopo il No di Fiom
Caso Indesit la Camusso contro l’intesa separata
di M. Cas.


TORINO Anche alla Indesit si è rotto il fronte sindacale con la Fiom che non ha firmato l’accordo che, dopo sei mesi di lotta e 130 ore di sciopero, ha fatto rientrare i 1400 licenziamenti annunciati. A differenza del Piemonte, dove due anni fa anche i meccanici Cgil avevano firmato l’intesa che prevedeva la chiusura del sito dentro a un progetto di reindustrializzazione, stavolta è arrivato il no. Ora la parola passa ai lavoratori che si esprimeranno nei referendum. La Fiom spiega che non era possibile firmare perché «l’ipotesi di accordo prevede la delocalizzazione delle produzioni delle lavatrici dallo stabilimento di Caserta e il trasferimento delle produzioni dei piani cottura realizzate nello stabilimento di Melano a Caserta; un fatto grave, che pregiudica il futuro dei lavoratori e getta un’ombra sul ruolo delle istituzioni in una vertenza difficile come questa».
La segretaria della Cgil, Susanna Camusso giudica negativamente l’accordo separato: «L’unica connotazione che rende questo accordo diverso dalla stagione degli accordi separati è che si andrà al referendum». Per la Indesit l’ad del gruppo, Marco Milani, non ha dubbi: «Credo che sia un buon accordo. Ora c’è il referendum tra i lavoratori, sarebbe magnifico se la Fiom poi decidesse di associarsi». Si scatena la polemica dei sindacati che hanno firmato. Per il segretario Fim, Giuseppe Farina, la mancata firma «è sindacalmente non spiegabile. L’intesa in una situazione così difficile e con una procedura di licenziamenti aperta rilancia le produzioni degli stabilimenti italiani, difende l’occupazione ». Si associa il segretario Uilm, Rocco Palombella: «Il no della Fiom rappresenta il dramma di un sindacato allo sbando».

Repubblica 5.12.13
L’intervista
Ferrero alla vigilia del congresso: pronta la lista anti-austerity per le Europee
“Rifondazione esiste ancora ma non andremo mai col Pd”
di Matteo Pucciarelli


MILANO — Si riparte domani da Perugia, nono congresso della sua storia. Il terzo di fila fuori dal Parlamento. Con Paolo Ferrero sempre in pista.
Segretario ma allora Rifondazione esiste ancora?
«Trentamila iscritti, mille congressi di circolo, 120 gruppi di acquisto popolari, cellule operaie ancora attive come all’Ilva di Taranto. Ci siamo ancora, una militanza non settaria, con pochi mezzi ma molta passione».
Lei si ricandida di nuovo?
«Da noi il presidenzialismo non c’è, decideranno i delegati. Intanto c’è un documento di maggioranza che dice una cosa chiara però: costruire una sinistra di alternativa dal basso, una testa un voto. E fuori dal centrosinistra».
Quindi con il Pd è una storia definitivamente chiusa?
«Il Pd è un partito di centro, con un premier e un prossimo segretario post- dc. Che si limitano ad amministrare l’esistente. Noi invece, per fare un esempio, proporremo un Piano per il Lavoro da un milione e mezzo di posti di lavoro. Dicono che non è fattibile? Non è vero, un’altra possibilità esiste».
La prospettiva del Prc in vista delle europee qual è?
«Abbiamo un candidato presidente giovane e vincente come Alexis Tsipras, leader di Syriza. Pensiamo a una lista della sinistra anti-austerity, creata dal basso, in modo democratico e unitario».
Sel può rientrare in questo disegno? Superare il 4 per cento non sarà facile né per voi né per Vendola.
«Loro vogliono entrare nel Pse, che sostiene le larghe intese un po’ ovunque. A me piacerebbe molto se invece si costruisse insieme una Sinistra Europea più forte. Il disegno di Altiero Spinelli è stato tradito E occorre disobbedire ai trattati».
Landini e Rodotà, gli organizzatori della manifestazione del 12 ottobre “Costituzione via maestra”, rientrano nel vostro progetto?
«Il Prc ha aderito sia a quel corteo che a quello del 19. Democrazia e diritti da una parte, antagonismo sociale dall’altra. Si possono e si devono unificare le lotte».

Repubblica 5.12.13
Stamina, il Tar sospende la bocciatura degli esperti
Il professor Angelo Vescovi, da anni impegnato nella ricerca contro la Sla: quel metodo non è mai stato divulgato e finora non ha dato riscontri
“Insisto: stanno solo illudendo chi soffre chi dice che un elefante vola poi deve provarlo”
di Elena Dusi


ROMA — «Se si sostiene che un elefante vola, poi bisogna dimostrarlo. Se il Metodo Stamina è efficace, cosa ci vuole a tirare fuori le prove? Il professor Vannoni impiegherebbe pochi secondi a convincerci. Invece siamo di fronte a un metodo che non vogliono divulgare e a risultati che non trovano riscontri. Un po’ poco per fidarsi ». Angelo Vescovi, professore alla Bicocca di Milano, è esperto proprio di quelle cellule staminali del sistema nervoso che il Metodo Stamina dichiara di saper ricreare. Sta portando avanti una sperimentazione per il trattamento della Sla presso l’Associazione Neurothon ed è direttore scientifico dell’Istituto Casa sollievo della sofferenza.
E se i pazienti sostengono di stare meglio?
«In una sperimentazione l’unica persona di cui non si ascolta la voce è il paziente. Si usano solo criteri di valutazione oggettiva. Si misura la condizione del malato prima, durante e dopo il trattamento. Seguendo una procedura così rigorosa alla fine si può stabilire se il miglioramento c’è. Questo metodo standardizzato vale in tutto il mondo e ci ha permesso di fare trapianti di cuore, di fegato, terapia genica e di applicare migliaia di altre cure mediche. E noi dovremmo abbandonare regole così solide per seguire una persona che si rifiuta di rivelare il suo metodo e non dà nessuna provadei risultati che sbandiera?».
Stamina ammette di non seguire questi criteri, ma di offrire una speranza a pazienti senza possibilità di cura.
«È un’illusione, non una speranza. Il professor Vannoni insegna psicologia all’università e queste cose dovrebbe conoscerle. Sperare nel nulla vuol dire illudersi e Stamina sta illudendo i pazienti facendo leva sulla loro fragilità emotiva».
In tutti i paesi del mondo sono nate cliniche che offrono speranze di cura legate alle staminali,non solo da noi.
«Ma non fino a questo punto. Sono di ritorno da una serie di conferenze in Svezia e negli Usa. Ormai i colleghi mi chiedono se anche la mia sperimentazione sulla Sla è “all’italiana”. In qualunque altro paese del mondo un metodo così poco supportato dai fatti come Stamina sarebbe morto sul nascere. Se domani mi alzassi e dicessi che riesco a lanciare un razzo su Marte, perché mai la gente dovrebbe credermi? Questi signori sostengono di poter curare 250 malattie diverse».
Che il metodo funzioni è impossibile come vedere un elefante volare?
«Una malattia come la distrofia colpisce 40 chili di muscoli. Per ipotizzare di curarli, bisognerebbe infondere nel corpo dei malati 20 chili di staminali. Non conosco il loro metodo perché appunto non è stato divulgato, ma mi pare che sia troppo poco supportato dalla realtà».
Cosa pensa dell’idea di sperimentare il metodo Stamina a Miami nei laboratori di Camillo Ricordi?
«Se la sperimentazione seguirà un metodo oggettivo e standardizzato, ben venga. Anch’io avevo proposto ad alcuni pazienti di curarsi da me, usando reagenti puliti e cellule coltivate nel mio laboratorio che erano già maturate in neuroni. Il mio metodo poi non ha nulla di segreto ed è consultabile da chiunque sul sito dell’Autorità del Farmaco. I pazienti però hanno rifiutato di lasciare Stamina».

l’Unità 5.12.13
Francia, arriva la legge contro la prostituzione. Multe ai clienti
di Sonia Renzini


Primo sì del Parlamento francese al disegno di legge sulla prostituzione che introduce multe fino a 1500 euro per i clienti, 3mila euro in caso di recidiva. A poco sono valse le numerose proteste delle scorse settimane, a partire da quelle delle stesse prostitute, che hanno puntato il dito sulla ulteriore precarizzazione delle loro condizioni di lavoro e sul forte rischio della clandestinità, e hanno dimostrato in maschera davanti al Parlamento.
L’Assemblea nazionale francese, cioè la Camera bassa del Parlamento, ha approvato il discusso provvedimento con 268 voti a favore, 138 contrari e 79 astenuti. Ora la bozza di legge, promossa dal partito socialista con il sostegno convinto del ministro per i Diritti delle donne, Najat Vallaud-Belkacem, passerà all’esame del Senato entro la fine di giugno dove affronterà un’opposizione più ampia.
Alla Camera tutti i partiti hanno lasciato libertà di voto ai propri deputati: i socialisti e il Fronte di sinistra hanno votato in maggioranza a favore, contro si sono schierati soprattutto radicali e Verdi, mentre il fronte del centro-destra con l’Ump (Unione per un movimento popolare) e Udi (Unione dei democratici e indipendenti) si sono divisi. L’obiettivo è depenalizzare la prostituzione per le 40mila lucciole presenti nel Paese, le quali, se abbandoneranno la «professione», potranno contare su un permesso di soggiorno di sei mesi e su misure di sostegno sociale, grazie a un fondo di 20 milioni di euro l’anno. La nuova legge abolisce anche il reato di adescamento passivo introdotto da Nicolas Sarkozy nel 2003, che penalizzava, invece, le prostitute.
In caso di approvazione anche da parte del Senato, Parigi si allineerà a Svezia e Norvegia, all’avanguardia nella lotta alla prostituzione. Ma il dibattito è certo destinato ad allargarsi anche in altri paesi europei, visto che anche la Germania valuta una riforma del genere e la neonata Grosse Koalition se ne occuperà già a partire dall’inizio del nuovo anno. La normativa, come annunciato dal responsabile per le politiche interne dell’Unione Cdu-Csu Hans Peter Uhl (Csu), farà parte di un’ampia riforma destinata a cambiare la legge sulla prostituzione in vigore da 12 anni in Germania. Le prime modifiche avverranno già a inizio 2014.
Già a fine ottobre, intellettuali, politici e società civile cappeggiati dalla femminista tedesca Alice Schwarzer avevano chiesto un ripensamento della normativa voluta dai Verdi, lanciando un «Appello contro la prostituzione», divenuta una «moderna schiavitù» delle donne.
Non sarà una passeggiata.
Anche in Francia la riforma ha oltremodo infiammato l’opinione pubblica, producendo pure un manifesto firmato da noti esponenti del mondo della cultura e dei media (come il giornalista Frederic Beigbeder, il regista teatrale Nicolas Bedos e Richard Malka, avvocato di Dominique Strauss-Kahn). Per l’occasione si sono appellati i «343 bastardi», sulla falsariga del manifesto delle «puttane» pubblicato nel 1971 sul Nouvel Observateur, con il quale le firmatarie ammettevano di aver avuto un aborto. Quella presa di posizione contribuì enormemente all’apertura di un dibattito pubblico sull’aborto, allora illegale, che si concretizzò nella legge Veil del 1974 rendendo possibile l’interruzione di gravidanza.

l’Unità 5.12.13
Kiev, Mosca detta la linea: ordine e sicurezza
di Marco Mongiello


Il braccio di ferro in Ucraina tra esecutivo e opposizione sta diventando una guerra di trincea in cui la partita più importante si gioca oramai sullo scacchiere internazionale. Nessuno interferisca, ha chiesto ieri il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov. Ma a Mosca, come a Bruxelles e a Washington, la macchina della diplomazia lavora a pieno ritmo.
Per le migliaia di manifestanti che continuano a protestare a Kiev per il mancato accordo di associazione con l’Unione europea la rivolta contro l’autoritario regime di Vitkor Yanukovich è diventata soprattutto una prova di resistenza contro il freddo e contro le minacce delle autorità. Nella centrale piazza dell’Indipendenza restano montate le tende come nella «rivoluzione arancione» del 2004 e dei volontari distribuiscono cibo e bevande calde, ma ieri le temperature hanno iniziato a scendere sotto lo zero.
La folla non desiste e continua a bloccare il palazzo del governo e a occupare la sede del municipio. Dopo il brutale intervento delle forze speciali della polizia di sabato mattina ora le autorità esitano ad utilizzare l’arma della repressione, anche se un cambio di strategia potrebbe arrivare da un momento all’altro. «Tutti devono comprendere che la costituzione e le leggi del Paese sono in vigore, nessuno ha il permesso di violarle», ha ricordato il premier Mykola Azarov, avvertendo che «tutti quelli che compiranno atti illegali dovranno risponderne».
Al momento però l’attenzione della comunità internazionale è troppo alta per far intervenire di nuovo le teste di cuoio. A Kiev, ieri, Thorbjorn Jagland, segretario generale del Consiglio d’Europa l’organizzazione di Strasburgo in cui ha sede la Corte europea per i diritti umani ha incontrato i vertici del Paese per tentare una mediazione. «Noi stiamo dimostrando di non utilizzare la forza, ma l’opposizione la usa», gli ha spiegato il premier. Ieri, inoltre, nella sede dell’Expo della capitale ucraina è iniziata anche la due giorni della riunione ministeriale dell’Osce, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. Si tratta l’organizzazione basata a Vienna e creata nel ’73, in piena guerra fredda, proprio per favorire il dialogo sui diritti umani tra il blocco comunista e l’Occidente.
Le manifestazioni pacifiche a Kiev, ha spiegato il ministro degli Esteri ucraino Leonid Kozhara aprendo i lavori, «sottolineano l’osservanza da parte dell’Ucraina dei diritti umani e delle libertà fondamentali».
La presenza di ministri europei, però, non fa che rafforzare la volontà dei manifestanti di svincolarsi dall’influenza russa per avvicinarsi a Bruxelles. Il capo della diplomazia tedesca, Guido Westerwelle, che ha deciso all’ultimo di recarsi a Kiev di persona, ieri è andato a piazza dell’Indipendenza e ha incontrato i dirigenti dell’opposizione. «Siamo qui da europei fra gli europei ha detto -, le porte dell’Unione restano aperte. L’Ucraina deve salire a bordo e le proposte europee restano attuali».
Nello stesso tempo il segretario di Stato americano John Kerry ha visitato Chisinau, la capitale della Moldavia, che la settimana scorsa al summit Ue sul Partenariato Orientale ha deciso, insieme alla Georgia, di avviare i negoziati per firmare quello stesso accordo di associazione all’Unione europea rifiutato all’ultimo dall’Ucraina. Ora la Russia ha bloccato le importazioni di vino dalla poverissima Moldavia, ma Kerry ha rassicurato i produttori che li aiuterà insieme all’Ue a trovare nuovi mercati. «Incoraggio tutti a non intervenire», ha protestato Lavorv al termine di una riunione con i vertici della Nato a Bruxelles, che ha criticato aspramente per il comunicato che condanna l’uso eccessivo della forza della polizia ucraina. A Mosca intanto una delegazione del governo ucraino è andato a battere cassa alla Russia per evitare la bancarotta finanziaria del Paese. Il premier Dimitri Medvedev ha risposto con commento che suona come un invito ad usare il pugno duro: «Certo questo è un affare interno ha affermato ma è molto importante che ci sia ordine e stabilità nel Paese».

La Stampa 5.12.13
Libano, eliminato leader di Hezbollah
Ali-Laqquis, vicino a Nasrallah, era specializzato in missilistica
Accuse a Israele
I miliziani sciiti: era la nona volta che ci provavano
di Francesca Paci


ROMA L’omicidio del comandante di Hezbollah Hassan Al-Laqquis, freddato da 5 colpi col silenziatore davanti alla sua casa nella periferia sciita della capitale libanese, riporta la tensione tra Beirut e Tel Aviv a livelli di guardia. Sebbene l’azione sia stata rivendicata da due fantomatiche milizie islamiste anti Assad, la «Brigata dei sunniti liberi di Baalbek» e l’«Alleanza della Ummah», Hezbollah e i suoi sponsor iraniani puntano il dito (e l’artiglieria) contro Israele che nega ma si dice pronto a replicare duramente a qualsiasi tentazione di rappresaglia.
Come nel caso di Mughniyeh, assassinato a Damasco nel 2008, il profilo dei dirigenti di Hezbollah emerge solo a posteriori. Al-Laqquis, 45enne e noto agli 007 occidentali sin dagli anni 80, era un sodale di Nasrallah, che poco prima della sua morte aveva accusato Riad dell’attentato di novembre all’ambasciata iraniana di Beirut. Specializzatosi a Teheran in armi tecnologiche e droni, teneva i contatti con Gaza, dove, secondo una fonte del Daily Star, trafficava in razzi e esplosivi. Alcune foto recenti postate su Twitter lo mostrano al mausoleo sciita Sayida Zeinab a Damasco, prova del suo impegno contro i ribelli siriani (secondo fonti libanesi era a Qusayr, la battaglia che ha rovesciato le sorti della guerra civile siriana a favore del regime). Un combattente e un tecnico che, a detta dell’agenzia di stato iraniana Fars, aveva riparato il network comunicativo di Hezbollah danneggiato dai raid israeliani del 2006, quando era sopravvissuto a un attentato ma aveva perso il figlio.
L’omicidio di Al-Laqquis rivela la vulnerabilità di Hezbollah in disgrazia tra i sunniti per il suo coinvolgimento in Siria, nota Matthew Levitt, autore di un corposo saggio su Hezbollah.
Chi è stato a sparare? La lista è lunga: ribelli siriani, qaedisti anti Assad, sauditi, libanesi sunniti. Ma l’esperto della Foundation for Defense of Democracies Tony Badran ci spiega il possibile ruolo d’Israele, che ha ammesso di aver tentato d’ucciderlo una volta nel 2006 (Hezbollah dice 9 volte): «Al-Laqquis era tra i «most wanted» di Israele da prima del 2006, lavorava con l’ingegnere iraniano Tehrani Moghaddam, la mente dei missili balistici di lungo raggio sperimentati dal Libano a Gaza e ammazzato nel 2011. È l’ultimo del club dei «balistici» eliminati in questo modo. Poi certo, può essere stato chiunque, compresi i palestinesi-libanesi che da mesi hanno voltato le spalle a Hezbollah». Come reagirà Nasrallah? Le minacce sono già sul tappeto, ma dietro lo scontro con il nemico israeliano c’è quello sanguinario tra sciiti e sunniti.

La Stampa 5.12.13
Ai domiciliari da 3 anni. Non è accusata di nulla
La moglie di Liu Xiaobo “Mi hanno sepolta viva”
Denuncia di Liu Xia mentre a Pechino c’è Biden che sprona i cinesi a «ribellarsi»
di Ilaria Maria Sala


HONG KONG «Voglio vedere un dottore di mia scelta. Voglio avere il diritto di leggere le lettere che mi invia mio marito, Liu Xiaobo. Voglio che mi si lasci lavorare e che guadagnarmi da vivere». Queste, le tre semplici richieste di Liu Xia, moglie del premio Nobel per la Pace Liu Xiaobo, imprigionata in casa sua senza nessuna motivazione ufficiale da ormai tre anni – da quando, cioè, il marito ha ricevuto il Nobel, che si diffondono in Cina e nel mondo proprio mentre il vicepresidente Usa Joe Biden arriva a Pechino. La visita è iniziata ieri dall’Ambasciata americana nella capitale cinese, dove il vicepresidente ha incoraggiato le persone in coda all’ufficio visti a «sfidare lo status quo»: finora, l’unico accenno in favore della libertà di espressione. Biden ha ricevuto una lettera aperta da parte di Human Rights Watch, Amnesty International e dell’American Pen Center che lo spronano a sollevare il caso di Liu Xiaobo, e quello di Liu Xia, e le aspettative sono alte.
In particolare data la situazione terribile e irregolare nella quale si trova Liu Xia: da un anno nessuno è stato in grado di farle visita, dopo che un «commando» composto da alcuni suoi amici avevano deciso di forzare il cordone di polizia in borghese che impedisce l’accesso a casa sua – come si può vedere in un video diffuso ieri su YouTube dalla sua amica, l’attivista Zeng Jingyan, intitolato «Visiting a woman under house arrest» (Visitare una donna agli arresti domiciliari). Da allora, la visita è costata cara a Liu Xia: suo fratello Liu Hui è stato messo in prigione per undici anni, giudicato colpevole di frode, in un processo che ha lasciato allibiti gli stessi avvocati, che hanno dichiarato che il caso «era già stato risolto fuori dalla Corte». La sentenza, emessa lo scorso agosto, è stata criticata sia da diversi Paesi democratici che dalle organizzazioni per i diritti umani del mondo intero.
Liu Xia, 54 anni, è una poetessa, artista e fotografa, e prima dell’arresto del fratello, riusciva a mantenersi grazie a quello che poteva passarle lui. Le è infatti impedito di vendere il suo lavoro, sia fotografico che artistico, e si ritrova ora in una condizione di isolamento che sta portando i suoi famigliari e amici a temere per la sua salute mentale. Da alcuni mesi le stanno somministrando degli antidepressivi ma vorrebbero che potesse essere visitata da un medico, che sia in grado di valutare se i farmaci somministrateli sono quelli di cui ha bisogno. Liu Xia stessa, però, è spaventata all’idea di un medico inviato dal governo, preoccupata di essere rinchiusa in un ospedale psichiatrico.

Corriere 5.12.13
La regina Noor di Giordania: «Europa, accogli i profughi»
Appello ad aiutare le vittime del conflitto siriano
di Viviana Mazza


LONDRA — «Ai governi in Italia e in Europa chiedo di cercare di creare maggiori possibilità di asilo e di risistemazione per i rifugiati siriani». La regina Noor di Giordania, quarta e ultima moglie di Re Hussein (ma non madre dell’attuale sovrano, re Abdallah, che è figlio della seconda moglie), lancia questo appello in un’intervista al Corriere a margine della conferenza annuale «Trust Women» sui diritti delle donne, organizzata dalla Fondazione Thomson Reuters a Londra.
A quasi tre anni dall’inizio delle rivolte contro il regime di Damasco, i siriani fuggiti nei Paesi vicini sono oggi quasi 3 milioni, secondo l’ultima stima dell’Alto commissario Onu dei rifugiati (Unhcr): il 50% sono bambini e il 30% donne. Volker Türk, direttore per la protezione internazionale dell’Unhcr, avverte che l’Italia vedrà arrivare sempre più bambini siriani nei barconi diretti a Lampedusa. Ma sono i Paesi confinanti con la Siria a sostenere oggi gran parte del peso della crisi umanitaria: la Giordania, con 600 mila rifugiati, è la terza destinazione dopo il Libano (1 milione) e la Turchia (700 mila); e un recente sondaggio mostra che il 70-80% dei giordani sono contrari alla presenza dei profughi. «Siamo un Paese umanitario e compassionevole ma siamo stati spinti all’estremo — spiega la regina Noor —. E proprio per questo chiedo all’Europa non solo di aumentare gli aiuti umanitari ma anche gli aiuti per lo sviluppo, per sostenere i Paesi che hanno accolto i profughi per così lungo tempo e che continuano a vederli arrivare. Le infrastrutture sono state schiacciate e sono sotto pressione, nel tentativo di provvedere sia alla nostra popolazione che ai rifugiati. E se tantissimi siriani si trovano nei campi profughi come Zaatari, sono ancora di più quelli che vivono fuori dai campi e finiscono nelle comunità più povere, senza supervisione dell’Unhcr o di altre organizzazioni che possano assisterli. L’inverno sta arrivando e nella nostra regione può essere molto rigido».
La regina Noor (in arabo significa «luce»), nata a Washington 62 anni fa con il nome di Lisa Najeeb Halaby, laureata in architettura a Princeton e convertitasi all’Islam prima delle nozze, ha origini in parte siriane: il bisnonno paterno, cristiano, emigrò in America alla fine dell’Ottocento, secondo una ricostruzione della tv americana Pbs . Perciò, la crisi siriana per lei è «una questione personale ma, se non avessi sangue siriano, non sono certa che non sarebbe altrettanto personale, perché la nostra regione vive di intrecci profondi e, nonostante le divisioni create durante il colonialismo, i legami sono rimasti forti, generazione dopo generazione. Perciò la situazione in Siria è personale per tutti noi. Avendo trascorso del tempo ad Aleppo e a Damasco, poi, e avendone ammirato la ricchezza storica e culturale e la convivenza di diverse identità religiose, etniche e geografiche, è particolarmente doloroso ora vedere le spaccature create dal conflitto».
La regina non prende posizione sul ruolo che il presidente Assad avrà nel futuro della Siria mentre, in attesa dei negoziati di Ginevra a gennaio, i Paesi occidentali preoccupati dalla presenza jihadista sembrano assai più cauti che in passato sulla sua uscita di scena (su cui insistono invece i ribelli). Sottolinea però che «l’unica soluzione sostenibile è quella diplomatica: sedersi faccia a faccia per trovare un compromesso. Sì, lo so che sembra idealistico, ma è l’unica soluzione. E le donne dovrebbero essere incluse nei negoziati e messe al centro di questa riconciliazione». In Medio Oriente «le donne hanno visto progressi nell’istruzione e nei servizi sociali — spiega — ma non a sufficienza in campo economico e politico. Ovviamente le situazioni di conflitto le portano a fare passi indietro». La regina condivide l’opinione di diverse partecipanti alla conferenza che la colpa della misoginia nel mondo arabo non sia degli islamici, ma dell’intera società e degli stessi progressisti. «La colpa non è dell’Islam: l’Islam ha liberato le donne dalla misoginia pre-islamica. Oggi credo che uno dei modi migliori per fare progressi sia di dimostrare agli uomini che la famiglia e la società intera traggono beneficio dal coinvolgimento delle donne a ogni livello».

La Stampa 5.12.13
Gli Stati Uniti attraversati da una raffica di proteste e scioperi contro le retribuzioni insufficienti
Obama: così l’America perde il suo sogno
Il presidente: troppe diseguaglianze tra ricchi e poveri, ora bisogna aumentare il salario minimo
di Maurizio Molinari


«L’American Dream è in pericolo e per salvarlo bisogna combattere le diseguaglianze esistenti incominciando con l’aumento del salario minimo»: con queste parole Barack Obama interviene nella disputa sugli stipendi che attraversa la nazione. Il presidente parla a Washington, ospite del «Center for American Progress» di impronta clintoniana, e l’intento è anzitutto denunciare «diseguaglianze e carenza di mobilità» che «mettono a rischio il sogno americano». Per avvalorare tale affermazione cita una raffica di statistiche: dal 1979 la produttività nazionale è aumentata del 90 per cento ma i redditi di una famiglia media sono cresciuti appena dell’8, il 10 per cento della popolazione 30 anni fa accumulava il 33 per cento delle ricchezze ed ora è arrivata al 50, un ceo guadagna in media 288 volte il reddito di una famiglia, un bambino povero ha appena 1 possibilità su 20 di avere successo. Per aggiungere pathos ai numeri, cita una frase di Papa Francesco: «Come è possibile che non faccia notizia quando un anziano senzatetto muore di freddo mentre è notizia quando il mercato perde due punti?».
Per invertire questa tendenza, afferma Obama, «serve un maggiore ruolo dello Stato» nella vita dei cittadini e, dopo la riforma della Sanità, la battaglia che indica all’orizzonte con maggiore determinazione è sull’aumento del salario minimo. Si tratta di un tema rovente in America perché nel Thanksgiving Day migliaia di dipendenti della maggiore catena di supermercati, Wal Mart, hanno incrociato le braccia chiedendo di portare la remunerazione dagli attuali 7,25 dollari ad almeno 14. E oggi un’altra ondata di scioperi è in programma fra i dipendenti delle catene dei più popolari fast food, da McDonald’s a Wendy’s.
Può essere la genesi di un movimento di protesta di dimensioni nazionali, che si nutre del malessere di una classe media con i redditi in calo. Obama dimostra di volerne ascoltare le ragioni: «Abbiamo da tempo superato il momento in cui bisogna aumentare il salario minimo, il cui valore reale oggi è inferiore ai livelli dei tempi di Harry Truman» ovvero la fine degli Anni Quaranta. «Non è una questione ideologica, si tratta solo di applicare il principio di Adam Smith, il padre dell’economia di mercato, sulla necessità di far condividere ai lavoratori i prodotti del loro lavoro» sottolinea il presidente, che liquida come «infondate» le obiezioni secondo cui l’aumento del salario minimo porterebbe a licenziamenti e aumenti dei prezzi.
Le tesi di Obama ricordano quelle sostenute da Ted Kennedy, lo scomparso senatore del Massachusetts, che aveva fatto dell’aumento del salario minimo il cavallo di battaglia dell’«ala liberal del partito democratico». «Il New Jersey è diventato il 20° Stato ad aumentarlo, anche Washington lo ha fatto e la maggioranza degli americani è d’accordo conclude Obama, con un crescendo che evoca proprio i comizi di Ted Kennedy io sono sulle stesse posizioni e mi batterò affinché gli aumenti avvengano nell’intera nazione, per il bene della nostra economia e delle nostre famiglie».

Corriere 5.12.13
Il poker nel Pacifico e i rischi di scontro
L’America in declino fronteggia la Cina in ascesa
di Guido Santevecchi


Se c’è un americano che conosce bene Xi Jinping è Joe Biden. Il vice di Obama ha incontrato il leader cinese diverse volte, quando Xi non era ancora salito al vertice del Partito comunista e dello Stato. Due personalità diverse: Biden figlio di un piccolo venditore di auto usate della Middle America; Xi un «principe rosso», figlio di un alto dignitario della rivoluzione maoista, allevato per il potere. Eppure i due si capiscono, possono parlare di affari insieme. E gli affari questa volta sono complicati e rischiosi.
La Cina a fine ottobre ha improvvisamente annunciato l’istituzione di una «zona di difesa e identificazione aerea» che si allarga a Est fino alle isole Senkaku, amministrate dal Giappone ma rivendicate da Pechino sotto il nome di Diaoyu. Si sono levati in volo B-52 americani, aerei da caccia giapponesi e sudcoreani, intercettori cinesi, in un pericoloso gioco di guerra. Ora Biden vede Xi a Pechino, con l’obiettivo di aprire un canale di comunicazione che eviti un incidente capace come minimo di far precipitare le Borse mondiali. Qualche schermaglia in avvio: Biden ha invitato gli studenti cinesi a «pensare liberamente»; la stampa cinese lo ha ammonito a «non fare osservazioni errate».
Ma da parte cinese c’è attesa per i colloqui. «Ci è sembrato che nella gestione della recente crisi interna del budget, Biden non sia stato in prima linea, lo abbiamo visto solo una volta mentre mangiava un panino con Obama, ma era una photo opportunity. Quindi ci aspettiamo che cerchi di giocare un ruolo da protagonista in campo internazionale. Pensiamo che voglia preparare un viaggio di Obama l’anno prossimo», ci spiega il professor Diao Daming, direttore dell’Institute of American Studies dell’Accademia delle scienze, think tank del governo cinese.
Ma quanto è critica ora la situazione? Secondo Kurt Campbell, ex sottosegretario agli Esteri di Obama e architetto della politica «Pivot to Asia» che prevedeva il ridispiegamento delle forze Usa nel Pacifico, è il momento che la Casa Bianca «tracci una linea» con i cinesi. Una linea? L’amministrazione Usa sembra disegnare curve, più che linee: prima ha risposto alla «zona difensiva di identificazione aerea» lanciata da Pechino il 28 novembre facendola attraversare dai suoi B-52; subito dopo ha consigliato alle compagnie aeree Usa di piegarsi alle regole cinesi, deludendo gli alleati giapponesi; poi Biden è andato a Tokyo a proclamare che «noi, gli Stati Uniti, siamo profondamente preoccupati dal tentativo cinese di cambiare lo status quo nella regione». Campbell, intervistato dalla Cnn , replica dicendo che un conto è la risposta militare, un altro la necessità di evitare pericoli per il traffico civile. La memoria torna sempre al volo Kal 007, il Boeing sudcoreano abbattuto da un caccia sovietico nel 1983 «per errore»: 269 civili uccisi per un errore. Campbell peraltro è convinto che «una scaramuccia» militare nel cielo delle Senkaku a questo punto sia inevitabile.
Stephen Hadley, che è stato consigliere alla sicurezza nazionale di Bush, dice al Corriere che il primo sbaglio è stato proprio il «Pivot to Asia» di Obama: «Gli Stati Uniti non hanno mai lasciato l’Asia, sono una potenza residente nel Pacifico, per questo non avevano bisogno di proclamare che sarebbero tornati. C’erano contrasti nell’amministrazione sul “Pivot to Asia”. E anche chi era a favore, pensava soprattutto alla necessità di reimpiegare le forze liberate dalle crisi mediorientali. Ora, dalla Siria alla Libia, vediamo che spostare il centro della nostra azione dal Medio Oriente non è più possibile». Quindi un doppio danno: si sono allarmati i cinesi e non ci sono forse neanche le risorse per far fronte alla promessa maldestra.
Hadley resta fiducioso, ci ha detto di credere nella serietà di Xi Jinping che a giugno nel vertice in California con Obama ha parlato di un nuovo modello di relazione con l’America. Però, in autunno, al culmine della crisi per il bilancio che ha tenuto in scacco Washington per settimane, l’agenzia di notizie statale Xinhua ha invocato una «de-americanizzazione» del mondo, almeno da un punto di vista di dipendenza finanziaria (Pechino è il maggior detentore di titoli del debito pubblico Usa ed era frustrata dal balletto dello shutdown e dallo spettro default).
In questa selva di segnali contrastanti, di sicuro, ancora per i prossimi dieci anni Pechino resterà relativamente più debole della superpotenza americana, dal punto di vista economico e militare. E proprio questa distanza accresce il rischio di scontro tra i due attori principali della scena globalizzata, gli Usa forse declinanti e la Cina in ascesa. C’è un ultimo rischio: per descriverlo gli analisti dell’European Council on Foreign Relations fanno ricorso alla teoria di Freud sul «narcisismo delle piccole differenze», la tendenza di popoli e leader essenzialmente simili per obiettivi a fissarsi su differenze minori per giustificare i loro sentimenti ostili. Questo narcisismo, oltre che per le relazioni Usa-Cina, vale anche per quelle Cina-Giappone.
Scoppierà l’incidente militare temuto da Washington? Gli strateghi di Pechino sono convinti che americani e giapponesi non abbiano altre risposte oltre a volare, quindi avrebbero finito le carte. Però, la Cina non è riuscita a vincere la mano di poker. E nel mazzo non ci sono più assi, per nessuno. 

Repubblica 5.12.13
Le sfide dell’Iran
di Mohammad Javad Zarif


Nelle ultime settimane, la Repubblica Islamica dell’Iran e il P5+1 sono riusciti a cogliere l’eccezionale opportunità offerta dalle elezioni presidenziali iraniane della scorsa estate per risolvere il problema nucleare, che aveva gettato sulla regione l’ombra dell’insicurezza e della crisi. La maggior parte della comunità internazionale ha visto in questo uno sviluppo positivo, ma alcuni amici nostri vicini temono che questa apertura vada a loro scapito.
Purtroppo, nella nostra regione come nel mondo è stata prevalente una mentalità “a somma zero”, e forse alcuni si sono abituati a sfruttare l’ostilità nei confronti dell’Iran per i propri interessi. Voglio ribadire tuttavia che la Repubblica Islamica dell’Iran non si fa di queste illusioni: siamo consapevoli che non possiamo promuovere i nostri interessi a spese degli altri, soprattutto se la sicurezza e la stabilità dei vicini sono intrecciate alle nostre.
Sebbene l’attenzione del mondo si sia focalizzata in questi giorni sui rapporti dell’Iran con l’Occidente, in realtà l’obiettivo prioritario della nostra politica esteraè la nostra regione.
In politica estera poche cose sono costanti, e la geografia è una di queste. Il bacino d’acqua che a sud ci separa dai nostri vicini non è semplicemente una via d’acqua, è la nostra comune salvezza. I nostri destini sono così strettamente legati che è illusorio credere che gli interessi di uno possano essere perseguiti senza tener conto degli interessi degli altri. Nessun Paese è un’isola. Siamo destinati a vincere — o perdere — insieme. Siamo capaci di unire le nostre potenzialità e costruire una regione più sicura e prospera, ma purtroppo il modello di sicurezza e stabilità che è stato imposto alla nostra regione si basa sulla concorrenza, la rivalità e la formazione di blocchi in competizione. Tutto questo ha solo favorito nuovi squilibri e fatto emergere ambizioni che nel corso degli ultimi tre decenni hanno minacciato la regione.
Come possiamo cambiare strada? Occorre individuare le aree di interesse comune e trovare modi per cooperare. Dobbiamo capire che condividiamo un solo destino. È interesse di tutti prevenire l’insorgere di tensioni, reprimere l’estremismo e il terrorismo, promuovere l’armonia tra le diverse sette islamiche, preservare l’integrità territoriale e l’indipendenza politica, assicurare il libero flusso del petrolio e proteggere l’ambiente. È imperativo tenere presenti tre punti.
Innanzitutto, costruire un contesto inclusivo. Qualsiasi esclusione sarà fonte di diffidenza e cri-si future. Il nucleo di ogni assetto regionale dovrebbe essere limitato agli otto Stati rivieraschi. L’inclusione di altri Stati significherebbe affrontare altri temi complessi, che complicherebbero la natura della sicurezza. Naturalmente, esistono preoccupazioni legittime circa gli squilibri e le asimmetrie che potrebbero nascere da un nuovo sistema, e devono essere prese in considerazione. Per costruire un sistema inclusivo basato sul rispetto reciproco e il principio di non-interferenza, dovremo trovare soluzioni nell’ambito delle Nazioni Unite. Il contesto istituzionale necessario è già stato offerto dalla risoluzione 598 del Consiglio di Sicurezza, che ha posto fine alla guerra imposta da Saddam Hussein all’Iran, l’Iraq e l’intera regione.
In secondo luogo, siamo coscienti dei molteplici interessi legati alla nostra regione. Il corso d’acqua che ci divide è vitale per il mondo, ma i motivi della sua importanza non sono i medesimi per tutti. Dobbiamo tenere presente questa differenza qualitativa. Per noi, Stati rivieraschi, rappresenta una salvezza. Per coloro per i quali siamo i principali fornitori di energia è un fattore di benessere economico e industriale. Per chi invece non dipende dalle nostre risorse energetiche, la nostra regione è semplicemente un importante teatro attraverso il quale estendere il controllo sull’arena politica e la concorrenza economica internazionale.
Terzo punto, l’elemento internazionale dell’instabilità della nostra regione deriva dalla diversa natura dei vari poteri esterni in concorrenza tra loro. Non sempre il loro primo interesse è la stabilità. La presenza di forze straniere ha storicamente prodotto instabilità interna nei Paesi che le hanno ospitate.
Sono convinto vi sia un’autentica volontà di discutere di queste sfide comuni. Dobbiamo inaugurare un dialogo che produca risultati pratici e graduali. L’Iran non ha attaccato nessuno in quasi tre secoli. Tendiamo la mano in amicizia e solidarietà islamica ai nostri vicini, assicurando loro di essere un partner affidabile.
Con le recenti elezioni presidenziali il mio governo ha ricevuto un forte mandato popolare per interagire costruttivamente con il mondo, e in particolare con i nostri vicini. Siamo decisi a tener fede a questo mandato ma non possiamo farlo da soli. Adesso più che mai è il momento di unire le forze per assicurare a tutti noi un destino basato sui nobili principi del rispetto reciproco e della non-interferenza.
L’autore è ministro degli Esteri della Repubblica Islamica dell’Iran (Traduzione di Marzia Porta)

l’Unità 5.12.13
I mutamenti di Rai5
Varato la nuova rete tematica
per spettacoli dal vivo (ma non troppo)
di Luca Del Fra


ROMA COSA SARÀ RAI 5 PERFORMING ARTS? IL NUOVO CANALE TEMATICO DELLA RAI, VARATO IL 1° DICEMBRE E PRESENTATO IERI IN UNA CONFERENZA STAMPA CUI HANNO PARTECIPATO IL MINISTRO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI MASSIMO BRAY, il direttore generale della Rai Luigi Gubitosi e il direttore della rete Pasquale D’Alessandro, parte con le migliori intenzioni ma, almeno finora, ne realizza solo una parte, perdendo forse la sua specificità.
La rete è una trasformazione di Rai 5 di cui mantiene le frequenze, e si è intanto assicurata la diretta dell’apertura della stagione della Scala questo sabato con Traviata di Giuseppe Verdi. Il palinsesto si articola in serate tematiche, che durante la settimana alternano arti figurative la domenica, i classici del teatro il lunedì, il cinema d’autore il martedì, la letteratura attraverso letture attoriali il mercoledì, opera, balletti e concerti il giovedì, il cinema documentario il venerdì, teatro e danza contemporanei il sabato. Inoltre sono in cantiere rubriche e approfondimenti, trasmissioni che parlino del cartellone in scena in Italia e all’estero dei più interessanti spettacoli, ritratti d’autore e così via.
Definirlo un canale di «performing arts», vale a dire arti sceniche teatro, danza, opera, concertistica e balletto tuttavia è per lo meno azzardato ed è facile rendersene conto fin dai partecipanti alla presentazione: non una persona di teatro o di danza, ma Marco Müller, direttore del Festival del Cinema di Roma, Claudio Strinati, storico dell’arte che preso da una ventata di pia spiritualità curerà un programma dedicato alle arti visive e agli ordini religiosi, e per fortuna Michele dall’Ongaro, direttore per la parte musicale di Radio 3 e di Rai 5, autore del programma Petruška, ma anche compositore, dunque almeno lui uomo di spettacolo dal vivo.
Sarebbe perciò giusto definire Rai 5 Performing Arts una rete generalista dedicata alla cultura e, pensando alla Rai del decennio passato, va riconosciuto il notevolissimo sforzo per tornare a fare servizio pubblico da parte della Rai. E dunque ha ragione il ministro Bray che con soddisfazione la ha definita «un regalo della Rai alla cultura».
Non vanno però sottovalutati i rischi: infatti, oggi l’offerta in questo settore è agguerrita, dal canale franco tedesco Arte al recente Sky Arte ad altri. Senza considerare quanto spesseggino nomi un po’ noti, forse onnipresenti o troppo presenti non li citiamo per evitare polemiche -, e una vaga tendenza al compromesso, per cui il palinsesto ha smottamenti verso documentari sulla natura e il David Letterman Show, che pure con la migliore buona volontà non si possono che definire fuori contesto lo ha fatto lo stesso direttore Pasquale D’Alessandro.
Non a caso Gubitosi ha insistito parecchio, tanto che sembrava giustificarsi, sull’esigenza di far tornare il pubblico verso un certo tipo di programmazione e che il primo problema della rigenerata Rai 5 non saranno gli ascolti.
Tuttavia rischi e smottamenti si sarebbero potuti facilmente evitare mantenendo la specificità della proposta che l’Unità aveva fatto propria con una campagna stampa e partita da una idea di Franco Scaglia: una rete dedicata solo allo spettacolo dal vivo.
Sarebbe un unicum in Europa e probabilmente nel mondo che, se ben architettato, potrebbe diventare facilmente un punto di riferimento a livello internazionale. Una idea che avrebbe dovuto funzionare da detonatore, per scardinare le porte e aprire agli autori, alle persone di spettacolo, ai compositori, agli interpreti, ai registi, chiamandoli a confrontarsi con un mezzo come la televisione con tutte le sue differenze con lo spettacolo dal vivo.
Altrettanto rischia di accadere per un’altra delle campagne lanciate da «l’Unità», ovvero quella in favore di un canale tematico dedicato alla scienza, cosa che non deve essere dispiaciuta in Rai visto che dovrebbe probabilmente nascere, ma all’interno del palinsesto di Rai Scuola: così anche stavolta si rischia di perdere la specificità dell’idea.
D’Alessandro ha definito la nuova creatura «un cantiere», che cambierà e migliorerà, lasciando più spazio al teatro e alle altre arti sceniche. Il compito più arduo della rigenerata Rai 5 sarà soprattutto ritrovare quella specificità che per ora sembra esserle scivolata via tra le dita come sabbia.

l’Unità 5.12.13
E tra poco arriverà la Scienza
Il direttore generale Gubitosi benedice Rai5 e annuncia che il canale Scuola si occuperà anche della ricerca
di Natalia Lombardo


L’IDEA DI RAI TEATRO, LANCIATA DA FRANCO SCAGLIA, SOSTENUTA DA «L’UNITÀ» , È STATA ACCOLTA E RIPRESA IN POCO TEMPO DALLA RAI, anche se il direttore generale della tv pubblica, Luigi Gubitosi, non lo ammette...
Allora direttore, la nuova Rai5 sarà dedicata al teatro?
«Comprenderà non solo teatro ma anche balletto, musica colta. L’idea è quella di avere un canale dedicato alle arti dal vivo, nel quale il teatro avrà un ruolo importante. Abbiamo creato un tavolo al ministero dei Beni Culturali con autorevoli esponenti del teatro italiano». Chi sono?
«Ecco, lo può dire il “curatore” del tavolo, Marino Sinibaldi». All’ingresso della sala degli Arazzi di Viale Mazzini, prima della presentazione di Rai5, interviene anche il direttore di RadioTre: «Sono vari, ognuno è stato scelto per la sua storia, ma anche perché rappresenta una realtà territoriale. Ci sono Mario Martone del Teatro Stabile di Torino, Elio De Capitani dell’Elfo di Milano, Nicola Piovani che è venuto qui con molto entusiasmo, come Dacia Maraini. Poi Alessandra Belledi del Teatro delle Briciole di Parma, Rosita Marchese del San Carlo di Napoli, Massimo Monaci dell’Eliseo, Fabrizio Grifasi del Roma Europa Festival, Franco Scaglia del Teatro di Roma».
L’idea su cui «l’Unità» ha dato battaglia era quella di una RaiTeatro... invece sarà più ampia?
«Si chiama Rai5 e il teatro avrà un grosso ruolo. L’idea è che non sia un teatro romanocentrico ma che abbia una presenza sul territorio, ci stiamo attrezzando per poter selezionare le opere più interessanti e mandare in onda delle dirette dal territorio. Che siano dai teatri di Trieste piuttosto che di Torino o Napoli».
Il teatro in Italia è in grande difficoltà. Come accade con RaiCinema sarà offerto anche un aiuto alla produzione di spettacoli da parte della Rai? «Valuteremo quali sono le produzioni più interessanti da coprire. Comunque, in modo diverso rispetto al cinema, il Fondo unico per lo spettacolo supporta le produzioni teatrali. Noi cercheremo di riavvicinare il pubblico al palcoscenico in tv e stiamo pensando a un Premio per il teatro. Ecco lavoriamo nel tavolo al Mibac su varie iniziative, anche per coprodurre qualche spettacolo che illumini il palinsesto».
Sinibaldi ha ancora qualcosa da dire: «Sul teatro comunque dalla Rai arrivano già dei soldi. Noi a RadioTre, pur con un budget molto diminuito, paghiamo per avere spettacoli a via Asiago e mandarli in onda, come il Via col vento di Latella; poi arrivano i diritti d’autore, insomma, in qualche modo si aiuta il teatro». Gubitosi, sempre« l’Unità» ha lanciato la proposta di realizzare il canale RaiScienza. È possibile? «Veramente ci stavamo già pensando. E ci tengo a dire che la Rai è la tv pubblica europea che trasmette più scienza in prima serata. Ci invidiano i programmi con Piero Angela o altri». Programmi divulgativi più che scientifici.
«In tv la scienza deve essere divulgativa, se è per addetti ai lavori diventa un canale di nicchia, non può essere l’alternativa a un convegno medico. E stiamo potenziando non solo la parte di scienze, ma anche di scienze sociali». Pensate a un canale dedicato solo alla scienza? «Abbiamo già tre canali che trasmettono cultura: uno è Rai5 che sta cambiando pelle con le performing arts, un altro è RaiScuola che si evolverà in una dimensione scientifica e l’ultimo è RaiStoria, che sarà dedicata anche alle scienze sociali».
Al ministro Bray piacerebbe che la Rai facesse parte del ministero dei Beni culturali. Come vedrebbe un cambio di azionista?
«Le azioni della Rai le possiede il Tesoro, il ministero dell’Economia. La Rai ha una forte valenza culturale e, nel caso di Rai5, il ministero con cui cooperiamo è il Mibac; poi dipende dalle specificità, per Linea verde può essere l’Agricoltura, per RaiScienza sarà quello della Ricerca e istruzione».
La nuova Rai5 sarà un po’ come SkyArte?
«Noi non siamo a pagamento!»
Vero, ma vi siete ispirati al canale satellitare?
«No, perché Rai5 sarà molto più legata all’arte, con un palinsesto specifico e delicato, altri canali tendono ad essere dei contenitori generali».

Repubblica 5.12.13
Segretario
Quei numeri uno sospesi tra cambiamento e tradizione
Dalla battaglia per le primarie che impegna e divide il Pd alla scissione del Pdl e la difficile successione a Berlusconi
Ecco perché i partiti italiani faticano a trovare i leader del futuro
di Giancarlo Bosetti


Al Pd ora sta accadendo, alla destra forse, ma il cambio di leadership è da sempre trauma o di più: missione impossibile. «Ogni opposizione viene biasimata come demagogia…; l’appello di chi non è soddisfatto dei dirigenti… viene respinto come scorrettezza o bollato col marchio di infamia… detrattori e nemici del partito». Sia maledetto nei secoli chi non è leale con il capo, uscente. Parole famigliari, ma antiche. Le ha scritte uno dei migliori allievi di Max Weber 103 anni fa, parlando dei partiti, di tutti i partiti: Roberto Michels, autore diLa democrazia e la legge ferrea dell’oligarchia.
Molte cose sono cambiate da allora nella funzione di segretario di partito, nel passaggio da partiti di ceto, di classe e di patronato, a partiti ispirati da una concezione del mondo, laica o religiosa, cristiana e marxista, da partiti di notabili a partiti di massa. Già David Hume distingueva tra due grandi categorie, “partiti di interesse” e “partiti di principio”; l’evoluzione più recente ha poi spinto verso un abbandono dell’impronta ideologica e verso una diluizione e complicazione degli interessi, il distacco dalla classe di riferimento, una composizione socialmente più eterogenea, uno spirito più pragmatico, il rafforzamento dei vertici, e soprattutto del segretario, attraverso i media, vecchi e nuovi, e il rapporto senza mediazione con gli elettori.
Rimane importante la divisione destra-sinistra, ma è ora la stagione del “partito pigliatutto”, che va alla conquista di voti su tutta la prateria, anche nel territorio degli avversari. In questi vent’anni la formula della destra, anche se interpretata da un monopolista in conflitto d’interesse, era in perversa sintonia coi tempi. La sinistra manteneva invece la sua creatura arcaica in terapia intensiva con fusioni e trasfusioni. Per la destra italiana il dramma è quello della crisi finale di un capo- padrone, per la sinistra è quello della crisi finale di una forma partito. A destra orfani di un monarca che ha perso la faccia e l’agibilità, a sinistra orfani di un “organismo” politico pensante, di un “attore” che ha perso la sua identità rassicurante, che non c’è più.
Le differenze storiche tra i partiti elettorali, angloamericani, e i partiti organizzati di massa dello scenario continentale, sono ormai meno drammatiche. Gli schemi di gioco si somigliano molto più di un tempo: la leadership è contendibile; le primarie hanno attraversato l’Atlantico in modo ormai irreversibile.
Eppure, in Italia, anche se non ci sono più in scena le vecchie e gloriose corazzate politiche del dopoguerra, con i loro carismatici De Gasperi, Fanfani, Nenni, Togliatti e Berlinguer, la scelta del numero uno provoca insuperabili, finora, resistenze da parte dei capi in carica. A una destra che tenta tardivamente di divincolarsi da una leadership carismatico patrimoniale corrisponde una sinistra che cerca di abbandonare la “persistenza degli aggregati” e l’infinito prolungarsi nel tempo di “aree di deferenza” nei confronti di ex leader. Sembrava che le sconfitte elettorali non bastassero mai per produrre il ricambio. Gli sconfitti si sono riproposti anche dopo aver perso enormi quantità di voti, come quando le elezioni erano soltanto uno dei momenti della vita imponente di una organizzazione con un milione di tesserati e con una mis-sione ideale di indefinita durata.
Forse questa fase è in via di archiviazione, ma le parole del sociologo tedesco italianizzato si adattano ancora alla tenace resistenza al cambiamento di casa nostra. Nel 1910, quando Michels scriveva, la socialdemocrazia tedesca aveva già dato forma al prototipo del moderno partito novecentesco, con i suoi tic oligarchici. Tra questi il più clamoroso: la perpetuazione delle posizioni di potere: «La direzione del partito viene riconfermata per il semplice fatto che esiste… è la legge dell’inerzia e della stabilità … che prolunga il mandato ai capi fino alla morte ». E non parlava di dittature. Che sia giunto adesso davvero il momento di una svolta?
La centralità delle elezioni dovrebbe essere chiara in questa stagione europea al punto da fare apparire cervellotica ogni ipotesi di separazione tra guida politica dei partiti e candidatura alla guida del governo. Tanto più che il compito del governo s’impone ora su tutte le altre funzioni, ormai in crisi: la formazione dei dirigenti, l’integrazione politica e sociale, l’elaborazione dei programmi locali e nazionali. Molti fattori hanno agito per demolire l’orizzonte dei floridi partiti di massa: la corruzione e gli scandali hanno colpito dovunque il prestigio delle leadership; il ciclo lungo delle politiche neoliberali ha tolto terreno alle possibilità di redistribuzione; la recessione ha tagliato i margini di manovra sui bilanci statali; il centro delle decisioni si è spostato fuori del bacino nazionale, mentre la dimensione europea della democrazia non prende corpo; la formulazione delle complesse politiche da adottare, di difficile comprensione e spesso impopolari, avviene, se avviene, in centri di ricerca esterni ai partiti.
Tutto questo rischia di trasformare i vecchi soggetti politici in “conchiglie vuote”, che non producono più idee, come scrivono i politologi chiamati a raccolta da Esprit (À quoi servent les partis politiques? N. 8/9, 2013) per analizzare la «fine di un ciclo storico». È una crisi che depone in favore di soluzioni forti, per segretari che unifichino il comando sopra la vecchia creatura esaminata crudamente da Michels, che lo guidino, lo cambino e non si facciano trascinare giù per il pendio della sua crisi.

Repubblica 5.12.13
Le figure carismatiche della Prima repubblica
Quando il Capo era quasi sacro
di Filippo Ceccarelli


Nel dicembre del 1977, all’indomani di una grande manifestazione di metalmeccanici, sulla prima pagina di Repubblica Giorgio Forattini disegnò il Segretario, o meglio il Segretario Generale del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer che adagiato in vestaglia su una poltrona sorbiva una tazza di tè incurante delle grida che gli giungevano dalla finestra di casa sua. Si trattava appunto di una vignetta. Senonché il giorno dopo lo storico ufficiale del Pci Paolo Spriano scrisse a Repubblica una sdegnatissima lettera chiedendo conto ai responsabili del misfatto: «Ma avete idea della vita di sacrificio, di passione rivoluzionaria, di tensione politica e morale di un dirigente comunista come Berlinguer?». Contro la caricatura prese posizione anche Trombadori e persino Fortebraccio, mentre Pajetta decretò che non faceva ridere. Nel rispondere a tutti, Eugenio Scalfari osservò che per i compagni Berlinguer era considerato «poco meno che l’Immacolata Concezione ».
Il richiamo dogmatico e dottrinario aiuta a comprendere in che modo quella carica fosse allora vissuta nel partito. Nell’immaginario comunista la figura del segretario non solo era per sua natura sottratta alla competizione, ma specialmente e letteralmente incarnava la Razionalità della Storia. Anche per questo un’atmosfera mistico-magico già aleggiava intorno a Togliatti, la cui guardia del corpo Armandino pretendeva che mangiasse ogni giorno un piatto di cervello perché doveva «pensare a tutti noi»; così come il suo medico personale, Spallone, si preoccupava anche a livello organizzativo della vita sessuale del Migliore per evitare «che la tensione affettiva, se contrastata, impedisse alla mente di Togliatti di ragionare con la lucidità che gli era propria e ai suoi nervi di essere meno saldi del consentito». E tuttavia con lo scorrere del tempo quest’aura al tempo stesso corporea e sacrale, venne meno e nel 1986 l’inserto satirico dell’Unità, Tango, raffigurò il povero Natta, allora in carica che ballava nudo al suono della fisarmonica di Craxi. Quest’ultimo ne fu piuttosto impressionato. Nessuno a via del Corso si sarebbe mai spinto a tale dileggio. Rispetto alla separatezza che persino nelle dislocazioni logistiche informava l’intangibile solitudine dei capi alle Botteghe Oscure, il vertice del Psi era da sempre più libero, provvisorio, litigioso e sgangherato. Il “Vecchio”, cioè Nenni, era persona amabile e tollerante; e la guerra permanente fra Mancini e De Martino aveva finito per insediare una specie di rispettosa alternanza con tanto di stratificazioni. Craxi al contrario instaurò un cesarismo piuttosto prepotente, forse necessario alla guerra di corsa, ma di certo basato sulla paura e sul conformismo. Rimase segretario anche a Palazzo Chigi, lasciando che nel partito crescessero ambizioni e appetiti, cacicchi e ladroni. Del resto anche La Malfa senjor, Saragat, Malagodi e Almirante ebbero personalità così forti da oscurare sia avversari che re travicelli di Pri, Psdi, Pli o Msi.
Caso tutto diverso quello dei segretari della Dc. Qui occorrevano indispensabili requisiti, il primo dei quali era il favore delle gerarchie ecclesiastiche; il secondo imponeva una situazione coniugale regolare e il terzo una teorica indisponibilità al comando («Domine non sum dignus») temperata da spirito di servizio. Eletto primus inter pares, e tuttavia investito del maggior potere possibile, il segretario dc era in realtà in quel posto come garante del governo, delle alleanze, delle oligarchie, delle corporazioni, dei gruppi collaterali, dei territori, delle correnti, della tribù. Per cui ogni tanto veniva fatto secco ma non per sempre, un po’ come succede nel Pd – ma con molta più fantasia e
Ai tempi di Togliatti l’apparato vigilava anche su ciò che “il Migliore” avrebbe dovuto mangiare e sulla sua “regolare” vita sessuale, per garantire sempre la perfetta efficienza del suo intelletto

Repubblica 5.12.13
Parla Roberto Andò, regista di “Viva la libertà”
“Solo un folle ci può aiutare
intervista di Simonetta Fiori


Filosofo geniale e un po’ folle, suona Schubert e come spin doctor ha scelto Brecht. È il segretario di partito che di recente ha colpito il cuore e la mente di molti italiani, soprattutto a sinistra. Ma per trovarlo bisogna rivolgersi allo scrittore e regista Roberto Andò, che l’ha messo inscena nel suo film pluripremiato Viva la libertà.
Perché il segretario di partito? Non vengono in mente altri film incentrati su questa figura.
«Credo di essere stato l’unico regista italiano ad averne fatto il cuore di un racconto. Le ragioni di una scelta si scoprono sempre a posteriori. E io le ho capite leggendo Anatomia di un istante di Javier Cercas».
Cosa dice Cercas?
«È rimato molto colpito da un sondaggio inglese: un quarto della popolazione crede che Churchill sia stato un personaggio di finzione. Ecco, mi sono detto: tra vent’anni un quarto degli italiani crederà che quello del segretario di partito sia stato un ruolo di pura invenzione. È infatti una figura che sta scomparendo ».
Però, per sceglierlo, ci si divide.
«Sì, ma è una figura dell’impotenza, la testimonianza quasi tragica di un mondo al tramonto. Togliatti o De Gasperi raccontavano una certezza di sé, i loro pronipoti incarnano l’indecisione e l’inadeguatezza, amministratori di un potere chepassa per altri canali. Sovrani detronizzati, ecco ciò che appaiono. Personaggi quasi paradossali, che possono dar vita a una farsa».
Il trono vuoto: è anche il titolo del suo romanzo che ha suggerito al film la storia del segretario folle.
«Sì, un titolo scelto non a caso. Questa idea mi viene da un bellissimo romanzo di Carlo Levi,L’orologio,che registra l’inaridimento della politica nell’immediato dopoguerra. Nel libro è contenuta una profezia: se sulla passione prevarrà l’intrigo, i partiti sono condannati a morire. E il funzionario di partito viene ritratto come prigioniero dentro una scacchiera: basterebbe un colpo, dice Levi, per liberarlo e ridare senso alla politica».
Per ridare senso alla politica lei s’inventa un fratello matto del segretario, che lo sostituisce alla guida del partito.
«Sì, è lui che fa saltare la scacchiera e tutto quello che comporta. Ho scelto una figura eccentrica, anche un po’ depressa, perché solo un estraneo poteva far saltare codici imbalsamati. Un segretario che sceglie come spin doctor Brecht e non Maurizio Costanzo. Un leader profondamente nutrito di cultura, perché cultura è progetto e conoscenza, non una cosa polverosa ».
Un segretario che non va mai in tv, ma solo tra le persone. Vera fantascienza.
«Sì, mi sono preso qualche libertà filologica».
A questo leader fasullo spetta riportare la politica dentro la realtà.
«Aveva ragione Leonardo Sciascia: con la prigionia di Aldo Moro, il romanzesco s’è impadronito della politica italiana. C’è forse differenza traLa festa del caprone di Vargas Llosa e le cronache di Giuseppe D’Avanzo sul signore di Arcore? Ora bisogna spezzare questo legame perverso. E la politica deve tornare alla realtà».
L’epilogo del suo film è enigmatico. Chi resta alla guida del partito: il segretario vero o quello falso? Il burocrate o il genio? O una sintesi perfetta di entrambi?
«Massimo Cacciari ha detto che ogni uomo politico ha dentro di sé un estraneo che cerca di raggiungere. Forse questa è la chiave della politica del futuro. In fondo la Chiesa l’ha già fatto. S’è salvata scegliendo un perfetto estraneo».

“Il protagonista del mio film è una figura eccentrica e un po’ depressa perché solo un completo estraneo poteva far saltare codici ormai imbalsamati Un uomo colto, perché la cultura è progetto”

Repubblica 5.12.13
Scrittori e blogger under 30 rispondono al libro di Serra
Dalla parte dei figli
“Generazione sdraiata? No siamo solo furiosi”
di Raffaella De Santis


Sarà una reazione. Forse è solo la risposta istintiva a una crisi d’identità. Mai però come in questi ultimi tempi sono stati pubblicati libri che ruotano intorno alla figura del padre. Ma i figli che pensano di questo campionario di padri incredibilmente variegato? Padri che non capiscono e che li guardano fare scelte per loro incomprensibili. Come accade a Michele Serra che vede in suo figlio diciassettenne l’appartenente alla tribù degli
Sdraiatiche trascorrono il tempo passando dal letto al divano, sempre connessi, tra tv, iPod, computer (pubblicato da Feltrinelli, è primo in classifica con 80 mila copie vendute in tre settimane e sei ristampe). O come nel caso di Giovanni Valentini con il figlio Niccolò, trentenne militante nel Movimento 5 Stelle. Dal loro dialogo è nato un libro,Voto di scontro, edito da Longanesi. Padri quarantenni saturnini, sul tipo delPadre infedele di Antonio Scurati (Bompiani), che imparano a cantare la ninna nanna ai figli piccoli, ma non sanno affrontare una crisi coniugale senza andare in tilt. Padri separati ai quali è negata insieme alla possibilità di vedere la figlia anche la gioia della paternità: Gianni Biondillo,
Nel nome del padre (Guanda). Padri in difficoltà, come Gianluca Nicoletti, genitore di un figlio autistico (Una notte ho sognato che parlavi,Mondadori). A volte, invece, il viaggio è percorso a senso contrario: Valerio Magrelli inGeologia di unpadre(Einaudi) restituisce lo sguardo del figlio per riannodare i fili di un rapporto: «Era lo zenit della mia ammirazione infantile», scrive: un padre- eroe come Ulisse, Sandokan, Mandrake.
Padri e figliè il titolo di un noto romanzo di Turgenev. E se lo ribaltassimo? Cosa dicono i figli dei padri? Come li guardano, come li giudicano? Massimo Recalcati, che lavora da anni intorno al tema lacaniano dell’“evaporazione del padre”, nel Complesso di Telemaco(Feltrinelli) ha indicato nel figlio di Ulisse, l’esempio del giovane che aspetta il ritorno del padre e invoca la sua legge, pronto a raccoglierne l’eredità. Perché, per quanto se ne dica, anche i figli della crisi e del consumismohanno bisogno di un punto di riferimento, di una legge autorevole a cui appellarsi per diventare adulti. Proviamo allora a scrivere il romanzo dei figli sui padri, dando la parola ad alcuni scrittori delle ultime generazioni.
«Siamo cresciuti nell’instabilità, ma non ci diamo per vinti. Non siamo affatto sdraiati, siamo semmai incasinati, impegnati su diversi fronti perché abituati a vivere nella precarietà», dice Claudia Crocco, 26 anni, un dottorato a Trento dopo essersi laureata all’università di Siena e aver fondato insieme a un gruppo di coetanei il blog404: File not found, nato nel 2010 durante il movimento di protesta dell’Onda. Claudia fa parte della generazione Erasmus, ha vissuto in Inghilterra e in Australia, ha già molte medaglie conquistate sul campo, ma sul futuro un grande punto interrogativo: «Non dipende da me, non so cosa accadrà tra un anno… Purtroppo i padri parlano di noi più di quanto ne parliamo noi stessi». Lorenzo Mecozzi, un suo collega blogger ventiquattrenne,figlio di impiegati, arrivato a Siena da Fermo per studiare, ribalta la prospettiva: «I nostri padri non vogliono prendersi la responsabilità dei loro fallimenti. Ho fatto l’Erasmus a Parigi e mentre scrivo la tesi lavoro part time per pagarmi gli studi. Non posso perdere tempo. Siamo una generazione furiosa, non possiamo permetterci il lusso di poltrire».
Colpisce l’ottimismo della volontà, anche rispetto alla mancanza di lavoro. Leyla Khalil, 22 anni, ha messo su due blog (Pop Corners eFacci un salto),curato un’antologia di racconti sui fast food, si sta laureando in Mediazione culturale e intanto segue corsi di Kung Fu e fa la giocoliera: «Mio padre sognava per me un buon matrimonio. Io mi sento versatile, irrequieta. Come definirei i miei coetanei? La generazione dei saltellanti. Perché saltiamo, anche per necessità, di qua e di là e siamo abituati a stare sempre con i piedi in più scarpe. Forse non avremo mai il lavoro dei nostri sogni, ma questo ci ha insegnato a essere versatili e nonè un male».
Anche chi come Giorgio Ghiotti, autore per Nottetempo del romanzo Dio giocava a pallone, è arrivato a coronare il suo sogno di scrittore a soli 18 anni, lancia un avvertimento agli adulti: «La crisi economica non può ricadere su noi figli. Lo spettro della disoccupazione, quel monito continuo dei genitori “fai le scelte giuste, altrimenti non troverai lavoro” può diventare un peso. Col risultato che spesso siamo poco fiduciosi nelle nostre qualità, pieni di passioni, ma scoraggiati ». Giorgio è una felice eccezione: lui è stato sempre sostenuto dai genitori (mamma casalinga laureata in economia e commercio e papà assistente parlamentare) e ora, oltre a scrivere, sta progettando insieme a Nicola Ingenito una rivista di scrittori ventenni. Si chiamerà Choosbury, un neologismo nato dall’unione dell’inglese “to choose”, che significa “scegliere” e “Bloomsbury”, dal circolo che animò la vita letteraria della Londra di inizio Novecento.
Di loro si è detto: bamboccioni (copyright Padoa Schioppa), viziati e schizzinosi (anzi choosy,secondo la sfortunata definizione dell’allora ministro del lavoro Elsa Fornero). Ma loro si vedono come la generazione che è sopravvissuta al naufragio. Almeno prima c’erano i Padri (quelli con la maiuscola), o i loro surrogati (la parrocchia, il partito, il lavoro) e adesso? Marco Cubeddu, autore diC.U.B.A.M.S.C. Con Una Bomba a Mano sul Cuore (Mondadori) dice: «Quando il Titanic becca l’iceberg non va subito a picco. L’89, l’anno del crollo del muro, è stato l’iceberg. Beccato l’iceberg però abbiamo continuato a vivere come se ci fosse ancora una festa in corso, come sul Titanic prima della collisione. Invece la nave stava affondando e ora alle nuove generazioni non resta che andare avanti senza alcuna certezza. Io e miei coetanei, quelli nati nell’87, abbiamo vissuto gli ultimi fasti, per noi esisteva ancora il McDonald e l’America era ancora un sogno. Ma oggi perfino l’America non è più un mito di progresso».
Sono sempre in movimento, cambiano città in continuazione, abituati a guardare all’estero per cercare opportunità. Viola Di Grado, 26 anni, due romanzi all’attivo pubblicati con e/o (Settanta acrilico trenta lana eCuore cavo),è figlia di intellettuali, ora vive in Inghilterra dove sta facendo un dottorato in Buddismo. Parla inglese, giapponese e cinese, è andata via dalla sua terra, la Sicilia, appena compiuti i 18 anni: «Sapevo che volevo diventare scrittrice fin da quando ero bambina. Sono tutt’altro che sfaticata, sono inquieta».
Per tutti gli altri, per gli adolescenti pigri che di impegnarsi troppo non ne vogliono sapere, è appena uscito un libro di Bernd Brunner intitolato L’arte di stare sdraiati (Raffaello Cortina), un elogio alla “vita orizzontale” che potrebbe diventare il loro vangelo.

BESTSELLER Gli sdraiati di Michele Serra (Feltrinelli) ha superato le 80 mila copie vendute

Repubblica 5.12.13
“Libero e indipendente” L’Europa premia Scalfari
Consegnato a Bruxelles il “Prix du livre” al fondatore di “Repubblica”


BRUXELLES «Lavorare in questi giornali è qualcosa di più che un destino professionale. Qui abbiamo direttori di giornali che in qualche modo sono stati anche direttori di coscienza. Hanno saputo stabilire un rapporto con l’attualità ma anche con la storia, hanno avuto la capacità di capire l’afflato storico che c’è nella contingenza quotidiana. Non solo testimoni della storia, insomma, ma anche protagonisti, perché hanno contribuito a farla muovere». È il filosofo Bernard-Henri Lévy a parlare, di fronte a lui siede Eugenio Scalfari, nella sala intitolata a De Gasperi. Siamo al Parlamento europeo, che ha deciso di cogliere l’occasione della cerimonia del Prix du livre européen 2013 per conferire un solenne omaggio al fondatore diRepubblica. Assieme a lui sono stati menzionati altri due «fondatori emblematici » di grandi quotidiani europei: Jean Daniel, creatore diLe Nouvel Observateur e Adam Michnik che ha dato vita alla Gazeta Wyborcza. Uomini, diceHenry Lévy, «che hanno donato il loro corpo alla parola dei loro giornali».
Un omaggio nel segno dell’Europa, dedicato al futuro dell’Europa. Non a caso è stato il presidente Martin Schulz a ricordare che «la crisi non è certo finita: il problema è che sono sempre più numerose le persone che abbandonano l’idea europea. Se pensiamo che la crisi sia superata solo perché l’economia ha ricominciato a respirare allora è perduta ogni speranza». Con una battuta, si potrebbe dire che bisognerebbe tornare allo spirito della
Marsigliese: Scalfari, nel suo lungo discorso di ringraziamento, ha ricordato un aneddoto di suo nonno, che festeggiava il Primo maggio andando in giro con i sette figli in ordine di età cantando, appunto, l’inno francese: «Perché i valori di liberté, égalité, fraternité non devono mai essere disgiunti: se si separano ne deriva solo del male». È suonato quasi come un appello quello lanciato dal fondatore diRepubblica:«L’Europa deve essere federale, perché il futuro è degli Stati-continente. Da soli, i vari Stati-nazione saranno irrilevanti di fronte agli Stati-continente ». Ovviamente ha parlato anche della sua intervista con Papa Francesco: un pontefice «rivoluzionario», del quale «sono diventato amico nonostante io non sia un credente». Una libertà di pensiero che si ritrova nelle motivazioni del riconoscimento a Scalfari: «Per il suo impegno critico, la volontà di promuovere l’ideale europeo, la difesa della democrazia, dei diritti umani e della libertà di espressione e l’indipendenza indomabile».
Nel corso della cerimonia sono stati anche consegnati i riconoscimenti per il Prix du livre européen. Il vincitore per la saggistica è il giornalista diLe Monde Arnaud Leparmentier con il libro
Ces français fossoyeurs de l’euro,che ricostruisce con interviste ai protagonisti i retroscena delle fasi più drammatiche della crisi della moneta unica. Per il romanzo, il premio è andato allo scrittore spagnolo Eduardo Mendoza per An Englishman in Madrid.
Il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari è stato premiato ieri a Bruxelles