domenica 8 dicembre 2013

l’Unità 8.12.13
Civati
In autostop l’ultimo scatto: «Prodi? Vorrei il suo voto»
di Davide Madeddu


CAGLIARI Un voto per cambiare nonostante i gufi. E senza dimenticare avversari da punzecchiare, un passaggio su Prodi e Stefano Rodotà prospettive e futuri scenari sulla legge elettorale. Ringraziamenti e ironia. Ci sono centinaia, qualcuno parla di oltre 500 sostenitori a seguire Pippo Civati a Cagliari nella sala dell’ex stazione marittima dove il candidato alla carica di segretario del Pd chiude la sua campagna elettorale dopo un tour in Sardegna. Nel capoluogo ci arriva con mezz’ora di ritardo perché, nella campagna elettorale “low cost” l’auto che lo accompagna (lo si legge in un tweet che appare sul maxi schermo) finisce il carburante. Un incidente di percorso che arriva alla fin di una giornata intensa in cui non ha risparmiato neppure incontri in giro per la Sardegna. Come, in mattinata, nell’oristanese, Uras prima e Oristano poi, l’incontro con le vittime dell’alluvione dello scorso 18 novembre e poi la proposta di devolvere il contributo di due euro per le primarie per l’emergenza. La serata parte con la proiezione di un video parodia cui seguono sei interventi.
Ci sono studenti e precari, amministratori e professionisti. Anticipano il suo intervento alla manifestazione organizzata dal circolo Copernico di Cagliari. Applausi prima dell’ovazione che accoglie Civati quando arriva nella sala gremita alle 19.33. Venti minuti più tardi l'intervento. «Tutti i ragazzi salgano sul palco annuncia occupiamolo, perché domani noi vinciamo».
È l'ultimo appuntamento della giornata su e giù per la Sardegna e della lunga sfida per il cambiamento, in cui si parla a tutto campo. «I gufi sono appollaiati sui gazebo da qualche giorno e sperano che le primarie vadano male perché così non cambia niente dice -. Già la partecipazione sarebbe un segnale e poi dipende dal voto». Perché con Cuperlo « rimane tutto com’è con quella classe tipica di un grande dirigente nazionale che non vuole particolarmente cambiare le cose». Nell’attacco di Civati non manca neppure Renzi che, a suo dire «ha sbagliato ad imbarcare troppe vecchie glorie e io scherzando ho detto: non avrà esagerato con il rinnovamento? Fassino, Burlando e tante persone che vengono da lontano». Non manca l’ironia. «Renzi nel segreto dell’urna voterà Civati, perché è l’unico che vuole andare a votare. Ma lui non riesce a dirlo: sembra Fonzie quando non riesce a chiedere scusa, visto che gli piace molto il modello».
E poi c’è la questione Prodi: «Al voto di Romano Prodi ci terrei moltissimo, ma non è quello il punto. Sceglierà lui e di sicuro non dirà per chi vota e quindi l’importante che ci sia la sua presenza e ci sia il fondatore dell’Ulivo perché a quel progetto ancora ci crediamo». Rimarcando il fatto di essere quello che ha «parlato di più di tutti dei 101» aggiunge che «Romano Prodi è per me una figura straordinaria» e il fatto di «non averlo votato è stato un errore non solo per le nostre miserie, ma perché sarebbe stato uno straordinario rappresentante dell’Italia nel mondo, uno degli uomini più prestigiosi del pianeta e forse dovremmo recuperare il senso delle proporzioni».
Nel passaggio sul partito, bocciata quella che è stata definita la questione della «scissione a sinistra» del Pd. «È una cosa che mette in giro D’Alema una volta era Cuperlo che scriveva i discorsi per lui, ora è il contrario: secondo me era meglio prima anche se non funzionava tantissimo. Poi i risultati non sono stati eccezionali ma i discorsi erano scritti bene». Ricordando il Governo con«Alfano, Formigoni e Sacconi», aggiunge che ci sono due sinistre divise «e io voglio rimetterle insieme».
Non risparmia un passaggio sulla sentenza della Corte Costituzionale a proposito del Porcellum: «Abbiamo parlato per quattro mesi della decadenza di uno che era già decaduto ad agosto e alla fine ci troviamo nell’imbarazzo politico di essere decaduti tutti quanti, al di là del fatto tecnico che non andiamo a casa domani mattina». Non solo. «Abbiamo mollato Sel e quindi non avremmo dovuto neppure ricevere quel premio di maggioranza però tanto tutto fa brodo. Io invece penso che la democrazia sia la cosa più importante e che con la democrazia e con un sistema elettorale nuovo si mangi, per riprendere la frase di Tremonti, perché una classe politica più credibile fa bene a tutti, all’economia e rende più forte i cittadini e i loro rappresentanti». Quanto alla legge elettorale che potrebbe essere un regalo di Natale per l’Italia auspica il Mattarellum che pur non considerandolo una «legge perfetta», potrebbe essere «una piccola rivoluzione e un ritorno a quello che c’era otto anni fa e comunque meglio del Porcellum». Non è tutto. «Tutti si dichiarano favorevoli al ritorno a questo sistema, anche Grillo. Ci sarebbe la maggioranza in Parlamento e i nostri elettori e concittadini ci chiedono perché non lo facciamo. La risposta è lo facciamo lunedì».
Nel caso non tutto andasse bene: annuncia che sarà al servizio delle idee che sta portando avanti e «di quelle che dicono gli altri e che condivido».

GOVERNO
Pochi mesi al governo poi al voto con Barca

Dei tre candidati alla segreteria, Civati è quello più distante dal governo Letta. Da deputato non ne ha votato la fiducia e se diventerà segretario, questa la sua promessa, non gli garantirà lunga vita. Per Civati il governo è il frutto amaro di una stagione nata male con la sconfitta alle politiche di febbraio e finita peggio col tradimento dei 101 parlamentari democratici contro Prodi candidato alla Presidenza della Repubblica. A suo giudizio Letta dovrebbe avere davanti a sé i mesi contati. Quelli indispensabili a rimettere un po’ in ordine i conti, ma soprattutto a fare una nuova legge elettorale. Poi tutti al voto per restituire ai cittadini il potere di decidere del proprio futuro. Invece «se vincono Renzi e Cuperlo il governo Letta durerà tantissimo». E se diventerà segretario, e quindi ci saranno le elezioni, candiderà Fabrizio Barca come premier.

DIRITTI
Parità per tutti e difesa della 194

Il Pd di Civati si batterà per introdurre in Italia «il matrimonio egualitario, le unioni civili per coppie omo ed eterosessuali, l’adozione per i single e per le coppie gay». Il principio a cui legare le scelte concrete è cioè «autodeterminazione». E quindi si deve avere il diritto di avere cure anche quando non è garantito il risultato. Il riferimento è alle staminali su cui la ricerca non va fermata «entro i limiti e i controlli della legge». Da qui il superamento della legge 40 sull’utilizzo degli embrioni. «Vogliamo impegnarci a promuovere il testamento biologico» scrive, per riconoscere a tutti il diritto di «scegliere autonomamente quando e come l’accanimento terapeutico debba fermarsi». Sulla legge 194 punta a una reale applicazione che ora viene messa in discussione dallo «smantellamento dei consultori» e dall’«aumento vertiginoso dell’obiezione di coscienza».

LAVORO
Reddito minimo e stop al precariato

Due i presupposti su cui si basa la proposta di Civati: la centralità del lavoro e il sostegno alle imprese che investono. Dà l’idea di diminuire le tasse sui redditi da lavoro, alleggerendo al contempo gli altri oneri fiscali e contributivi che pesano sul lavoro stabile. Così da una parte si aumenta la busta paga del lavoratore e dall’altra si fa calare il suo costo per l’impresa. Il principio è che «il lavoro flessibile e discontinuo deve costare più di quello stabile. Altrimenti significa precarietà». Per i giovani in cerca di occupazione ci sarà il «contratto unico d’inserimento» con una durata minima e massima. Civati propone anche un reddito minimo di almeno 400 euro al mese (circa 20 miliardi l’anno) e un sussidio di disoccupazione che sostenga la persona nel suo percorso formativo spingendola poi a ricollocarsi nel mondo del lavoro.

PARTITO E RIFORME
Decisioni dalla base e Mattarellum

È una piramide rovesciata il Pd di Civati: la base decide, il vertice esegue. Lo definisce il «partito delle possibilità» e prevede «un deciso cambio della dirigenza che ci ha portato lontani dal progetto originario e a continui fallimenti». È prevista la partecipazione alle discussioni e alla decisioni anche ai non iscritti. In più però Civati prevede un potere decisionale allargato a tutti i cittadini, infatti i gruppi dirigenti «a ogni livello» andranno eletti con le primarie. Propone però anche le «doparie» cioè consultazioni periodiche sulle scelte politiche. Gli organismi dovranno essere assai più snelli e sono vietati i doppi incarichi.
Sulle riforme ha sostenuto la mobilitazione in difesa della Costituzione (promossa da Rodotà e altri), ma chiede la diminuzione dei parlamentari e il superamento del bicameralismo perfetto.
La sua legge elettorale è il Mattarellum.

il Fatto 8.12.13
Pantheon
Gramsci 2.0, la sinistra schizofrenica
di Daniela Ranieri


Un tempo quelli di sinistra la chiamavano Bildung, formazione. Era un insieme di riferimenti, esperienze, preferenze che contribuivano alla creazione di sé e di un sentimento di appartenenza. Si partiva da Gramsci e si finiva a Benigni passando per Brecht recitato da Milva, ci si specchiava nel biancore metafisico delle copertine Einaudi e si andava a votare.
Gli elettori delle primarie del PD sappiano che oggi non stanno votando solo il segretario del loro partito, ma la visione del mondo che ciascuno di loro veicola, la loro Bildung e forse, anche, il senso della eredità culturale della sinistra.
Renzi e Civati hanno il grande vantaggio di essere contemporanei: calibrati sull’attuale, i loro programmi trasudano l’entusiasmo della ripartenza su un campo brullo. Il programma sul sito di Ci-vati è tutto un pop-up di proposte-zigulì: L’ora del riscatto, Contro il cinismo, Per accorciare le distanze, La vera crescita, Uscire dallo schema. Parole-chiave sguinzagliate nella caccia ai 101 mascherati, capri espiatori di un’analisi collettiva promessa a nostro beneficio. Nella pagina Rivoluzione digitale si rischia l’iperventilazione da digital divide, multi-utility, scuola 2.0, ecosistema culturale. Nessun Pantheon: nel documento Dalla delusione alla speranza Gramsci ottiene 0 occorrenze, come Gobetti, Longo, Togliatti. Persino Calamandrei, che pure va forte in rete, non è mai nominato. Berlinguer guadagna una menzione, in una battuta che contrappone la sua austerità alla austerity. C’è un passo di una lettera di un prigioniero della Resistenza, e una frase carina di Faulkner (“Essere contro una società multiculturale è come vivere in Alaska ed essere contro la neve”). Manca Oscar Wilde, paladino di ogni brillantone 2.0.
“Dobbiamo recuperare il senso del mondo intorno a noi”, dice il simpatico Civati. Giusto: ma partendo da dove? Da quali valori sedimentati?
La schizofrenia della neo-sinistra rispetto alla cultura dà il suo meglio sul sito di Renzi. Trovare il programma è una caccia al tesoro frizzante e spericolata: si rischia di comprare tazza e felpa “Cambia verso” e persino la cover dell’iPhone, ma non si capisce quali siano i riferimenti del sindaco, formazione liceale classica, laurea in giurisprudenza. Finalmente compare il link “Libri”: lo apriamo, con la bava alla bocca: sono i libri di Matteo Renzi. Però si può scaricare del materiale, un cadeau: Mozione in pillole, Volantone, Cartoline (18×10). Forse Renzi può farcela, a portare la Sinistra al Governo, come Berlinguer.
CUPERLO È QUELLO CHE RISCHIA DI PIÙ: alieno, inattuale, mentre cita Prezzolini che dice agli operai della Fiat “perché non rivendicate le tute blu come strumenti del riscatto? Perché vi vergognate e fuori dalla fabbrica indossate gli abiti borghesi? ”, fuori dalla Camera stanno sfilando i maiali della Coldiretti, materica allegoria e memento mori della buonanima del Porcellum.
Mette Saba nel documento congressuale: “Ai poeti resta da fare la poesia onesta”. Forse un’analogia troppo romantica per il momento tragicomico. C’è il rischio di rimarcare quella linea un po’ snob al di sotto della quale ci sono i leoni del berlusconismo, il bracciante lucano, il pastore abruzzese.
Ma a Cuperlo è caro anche l’episodio della biografia di Eduardo che riguarda la prima di Napoli milionaria, il 25 marzo del ’45: “un mese prima della Liberazione, teatro gremito. La bambina si ammala e la madre arricchita con la borsa nera non può salvarla; arriva il vicino, che si è rovinato proprio con la borsa nera ma ha la medicina. Il padre, Eduardo, mette il denaro sul tavolo e dice ‘ti fa battere il cuore questo? ’ e chiosa con la famosa battuta sulla notte che deve passare. Quando cala il sipario tutto il teatro piange, catarsi totale. La famiglia è il Paese”.
Non stiamo dicendo che i due giovani non siano di sinistra perché non usano i padri del comunismo come special-card in una ideale raccolta-punti (Civati ha detto da Santoro di avere Gramsci sul comodino). Né che la sfida è tra vocazione alla sconfitta e citazionismo vintage da una parte e rinuncia all’egemonia culturale della sinistra dall’altra.
Sarebbe troppo facile. Un tempo alle assemblee bastava alzarsi, mettere su la faccia di Deleuze, sostenere le peggio cose con “Come disse Gramsci” (i più raffinati dicevano Terracini) e ci si ritrovava rappresentati di Istituto o funzionari di partito.
Cuperlo pronuncia la parola “sinistra” senza autocomburere, e insieme a un cammeo di Marx nel programma compare Il club degli incorreggibili ottimisti di Guenassia, protagonista un gruppo di esuli russi nostalgici del comunismo prima della eterogenesi dei suoi fini. Tra i suoi libri di formazione mette la biografia di Gramsci di Fiori, La Storia dell’Europa di Febvre, (“dovrebbe essere obbligatorio per tutti i parlamentari”), Le radici del Romanticismo di Isaiah Berlin. Ma gli piace anche Lansdale: Texas, pop-corn, macchinoni (“Una volta presentava il suo libro a Roma. Mi misi in fila e mi feci autografare tutti i suoi 14 libri. Non lo scrivere questo”). Certo il suo non è un Pantheon “del fare”. Non soffre di ma-anchismo.
Non si sforza di sembrare risolto rispetto al passato nella Fgci e di contraddire l’accusa di tutelare lo status quo buttando nel calderone culturale Bono Vox, Amedeo Nazzari, Rino Tacchino. Gli piace Amadeus, il film: “A una certa età capisci se sei la reincarnazione di Salieri o di Mozart. Il dramma è quando non sei Mozart e non te ne fai una ragione”. E chi vuole intendere intenda.
Nel confronto Sky somigliava a Pertini visto da Manganelli: “uno sfacciato vegetariano in una nazione di cannibali”.
Il punto riguarda piuttosto la coscienza culturale di sinistra, il sentimento per il quale comunque vadano le cose anche nella nostra notte di cartone da operetta, i rapporti sociali e economici sono leggibili attraverso la chiave di un’appartenenza e di un’identità definita. Forse la cultura di sinistra è ormai stritolata dentro un algoritmo di ineluttabile brutalità, anche per colpa di quelli che in tv non riuscivano a dire nemmeno una cosa di centrosinistra. Nel-l’urna Dio non ti vede, e nemmeno Stalin: l’elettore del PD si guarda da sé, è affar suo se negli occhi conserva l’impronta della bellezza e di una qualche verità, che sia stata pronunciata da Dostoevskij, da Giotto o da Checco Zalone.

il Fatto 8.12.13
Matteo, uno nessuno e (forse) un milione di voti
Ha fatto il boy scout ed è cresciuto nella Margherita
Eletto con preferenze assicurate da Comunione e liberazione e dalla Compagnia delle Opere
È stato a pranzo con Berlusconi, a cena con Davide Serra. Ora vuole la guida del Pd
di Wanda Marra e Davide Vecchi


Cravatta slentata alla Justin Bieber, profilo in evidenza, Matteo Renzi consegna alla copertina di Vanity Fair una delle ultime immagini da regalare al popolo dei fan prossimi venturi prima delle primarie. “Mi immagino un futuro in politica? No, mi piacerebbe fare il professore, magari all’università. O il conduttore tv”. A giudicare dalle performance offerte in questi anni, il “giovane” sindaco di Firenze potrebbe avere le carte in regola per sfondare in entrambe le professioni, inventandosi un modello di insegnamento “motivazionale” all’americana o ruminando format su format. Il futuro per ora è una pagina bianca. Il passato, invece, può vantare milioni di pagine scritte su di lui, ma anche da lui. La partecipazione col giubbetto da Fonzie ad Amici, la copertina di Chi con le nonne. E poi la foto con Mandela postata su Facebook un attimo dopo la sua morte. I titoli dei suoi libri sono estratti perfetti della costruzione di un’immagine e di una carriera politica in divenire. Ma le giubbe rosse non uccisero Aldo Moro. La politica spiegata a mio fratello (scritto con Lapo Pi-stelli nel 2005), Tra De Gasperi e gli U2. I trentenni e il futuro (2006), A viso aperto (2008), Fuori (2011), Stilnovo (2012), Oltre la rottamazione (2013).
I grandi giochi del capo scout
Matteo Renzi nasce l’11 gennaio 1975 a Firenze, secondo dei quattro figli di Laura Bovoli e Tiziano Renzi, ex consigliere comunale della Dc a Rignano sull’Arno. Tiziano è tuttora segretario del circolo Pd di Rignano. E la racconta così: “Mi rendo conto che a volte con la mia attività politica per lui sono ingombrante, però anch’io devo poter continuare a fare il mio, no? ”. Restio a indulgere nei racconti: “Com’era Matteo da piccolo? Gli piaceva giocare a pallone e non gli piaceva perdere. Anche se poi con Bersani ha perso”.
Renzi entra al Liceo classico Dante di Firenze nel 1988. Lì come rappresentante studentesco ha la prima e – fino alle primarie dell’anno scorso – unica sconfitta della sua vita. La lista capeggiata da Leonardo Bieber “Carpe Diem” supera la sua “Al buio meglio accendere una luce che maledire l’oscurità”.
Dopo il diploma nel 1993 comincia a lavorare alla Chil, l’azienda di famiglia che si occupa di marketing e giornali. Ne diventa dirigente il 27 ottobre 2003: appena 11 giorni dopo diventa presidente della Provincia. Così, avendo un contratto privato, si garantisce il versamento dei contributi pensionistici da parte dell'ente che presiede. Del 1994 la prima apparizione tv. Va alla Ruota della Fortuna di Mike Bongiorno. Cinque puntate, 48 milioni in gettoni d’oro. Alto, allampanato, occhialoni, aria da secchione. È subito fama. Dice di lui Mike: ”È un campione, non sbaglia”.
Matteo da piccolo fa soprattutto lo scout. Nel 1995 partecipa a un campo di formazione per capi clan, la fascia più adulta dell’organizzazione. “Dopo due giorni mi era chiaro che aveva una marcia in più”, racconta l’avvocato Roberto Cociancich che quel campo lo conduceva, arrivato ora in Senato con Matteo. La scalata è rapida, anche nell’Agesci. Nel ’97 dà una mano a organizzare un grande evento in Francia, che coinvolge 5000 giovani. Non si fa mancare la stesura di un documento: “Manifesto dei giovani per il futuro”. Nel 2000 dirige il giornalino dell’Agesci, Camminiamo insieme. “Matteo era un capo bravissimo, si divertiva, era abilissimo a coinvolgere i ragazzi con lo stile del gioco. E poi, magari, durante una partita di pallacanestro combattutissima lo sentivi dire ‘attenti alla lealtà’”, racconta Cociancich.
La scalata a Firenze
“È l’unico politico che ammette di essere ambizioso. Io e Matteo ci dicevamo già allora ‘non diremo mai che facciamo politica per spirito di servizio’, perché è un modo ipocrita di presentarsi. L’ambizione per te stesso, per il tuo paese serve”. Cociancich è di quelli che ancora oggi crede non solo nelle capacità di Renzi, ma anche nelle sue motivazioni ideali. D’altra parte, quelli che lo sostengono in maniera quasi fideistica sono altrettanti di quelli pronti a giurare che sotto il vestito non c’è niente. Renzi è soprattutto un abile politico, uno che ha cominciato prestissimo, con una carriera fulminante da portaborse a segretario. Nel 1996 è animatore dei Comitati Prodi nel Valdarno e si iscrive al Partito popolare. Nel ’99 diventa segretario provinciale, ottenendo il 70% grazie ai demitiani (Giuseppe Matulli, ex sottosegretario all’Istruzione, in testa). Sempre nel ‘99 si laurea in Giurisprudenza con tesi su Giorgio La Pira, sindaco di Firenze e padre costituente, la cui foto campeggia oggi dietro la sua scrivania a Palazzo Vecchio. Assistente parlamentare di Pistelli (ora al governo con Letta, uno dei padri che “mangerà” battendolo alle primarie), sposa Agnese, conosciuta all’epoca degli scout, dalla quale ha tre figli. Nel 2001 diventa coordinatore della Margherita a Firenze, benedetto da Rutelli. Nel 2002 è segretario provinciale, nel 2004 diventa presidente del-Provincia di Firenze. Il suo capo segreteria è Marco Carrai, l’“uomo nero”, il suo “Gianni Let” (copyright David Allegranti Matteo Renzi. Il rottamatore del Pd, Vallecchi). Eletto consigliere con preferenze assicurate da Comunione e liberazione e dalla Compagnia delle Opere che in Toscana è presieduta da Paolo Carrai e da Leonardo Carrai, alla guida del Banco alimentare. Sono i cugini di Marco. È Carrai che cura i rapporti con la grande finanza, a cominciare da Davide Serra. È lui che gestisce le operazioni più discutibili. Matteo lo piazzerà via via nei posti che contano: Ad di Firenze Parcheggi, nel Cda dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze e del Gabinetto Vieusseux, presidente di Aeroporti Firenze (Duccio Tronci in Chi comanda Firenze, Castelvecchi).
Rottamazioni
L’exploit è del 2009. Partecipa alle primarie per sindaco nonostante i veti del suo partito, il Pd (che ovviamente si presenta diviso), e le vince. Raccontano Simona Poli e Massimo Vanni (autori dell’ultima biografia, Il seduttore, Matteo Renzi e la sinistra rosè, Barbera editore), che in quell’occasione ricorda Meme Auzzi, sindaco di Incisa, diessino, morto nel 2006 avversario in pubblico, ma amico in privato: “Meme non mi avrebbe mai permesso di farle, lo sapeva che vincevo io”. Auzzi è nell’ultimo Pantheon del sindaco, quello annunciato nel dibattito Sky. Da vincitore delle primarie, Renzi sfida il portiere Galli alle elezioni. Vince e diventa sindaco di Firenze. Uno slogan: “O cambio Firenze o cambio mestiere e torno a lavorare”. Prima operazione, la pedonalizzazione di Piazza del Duomo, fatta in barba a veti, procedure e resistenze. Da sindaco, piazza ovunque fedelissimi. Tra gli assessori comunali c’è Lucia De Siervo, sorella di Luigi, tra i suoi uomini più fedeli e figlia di Ugo, ex presidente della Corte costituzionale. Il marito Filippo Vannoni, invece, lavora alla Servizi alla strada spa. Filippo Bonaccorsi diventa presidente dell’Ataf, Jacopo Mazzei diventa presidente Ente Cassa di risparmio per volere di Carrai. Paolo Fresco, ex presidente Fiat, vicepresidente del Maggio Musicale Fiorentino. Non sdegna i consueti canali politici. L'ex tesoriere della Margherita, Luigi Lusi, ha presentato le ricevute di un versamento da 70 mila euro a suo favore di Renzi. Prima di essere portato a Rebibbia, spiega che il sindaco fiorentino per le primarie “aveva chiesto 100, 120 mila euro e dovevano essere versati in tre tranche distinte, ma dopo la prima Rutelli fermò il tutto dicendomi di non versargli altro”. Renzi ha smentito, è in corso il processo a Roma. Il lavoro lo ha invece finito la Corte dei Conti che ha scandagliato i conti della Provincia negli anni in cui era presieduta da Renzi e nell'estate del 2011 ha condannato in primo grado il sindaco toscano. La procura contabile aveva contestato alla ex giunta provinciale, quindi il presidente Renzi e i suoi assessori, un danno erariale di 2 milioni e 155 mila euro per quattro assunzioni effettuate senza seguire l'iter previsto. Il sindaco bollò la ricostruzione della Corte “fantasiosa e originale”. La vicenda si è conclusa con una condanna ridotta in fase di giudizio a 14 mila euro. Ma sui conti della Provincia c'è un'altra inchiesta aperta sempre dalla Corte dei Conti insieme alla Guardia di Finanza su incarico del ministero del Tesoro in merito a 20 milioni spesi nel periodo compreso tra il 2004 e il 2009. Viaggi, aragoste, spese varie. Ma anche sponsorizzazioni particolari, tipo quella del 2005: Renzi stanzia 100 mila euro per fare “il compleanno alla Pimpa”. Il fumetto. A proposito di scivoloni, il 6 dicembre 2010 va a pranzo ad Arcore. Il popolo Pd insorge. Lui rivendica: “L’ho fatto per Firenze. Se il premier mi chiama, ci vado tutti i giorni”.
Renzi è sindaco solo da un anno quando comincia la scalata nazionale. A suon di eventi mutuati dal modello scout, promesse di cambiamento, slogan. E format di tipo televisivo. È un format la campagna per le primarie 2012: un’ora con video, slide e battute. Quanto di più lontano da un comizio. È un format la Leopolda. Un grande spettacolo, a sfondo partecipativo (5 minuti per ciascuno ), video, colonna sonora assordante, vissuti in parallelo su Facebook e Twitter, fedele all’immagine che vuole Renzi tutt’uno col suo smartphone, pronto a digitare, annunciare, rispondere. La prima edizione è del 2010, l’ultima di un mese e mezzo fa. La “prima volta” accanto a Matteo c’è Civati. Negli anni, il parterre si allarga, ma i sostenitori appaiono e scompaiono. Passano il giuslavorista Pietro Ichino e Sergio Chiamparino, Luigi Zingales e il responsabile Mtv, Antonio Campo Dall’Orto. Ritornano Alessandro Baricco, Oscar Farinetti, l’inventore di Eataly, e David Serra, numero uno dell’Hedge Fund italiano più famoso d’Europa. Giorgio Gori da protagonista diventa comparsa. D’altra parte collaboratori fraterni appaiono e scompaiono. E Gori è solo uno dei tanti a essere avvicinati e triturati, sedotti e abbandonati: in principio fu Pistelli poi Civati. E Giuliano da Empoli e tantissimi “retrocessi” da vicinissimi a simpatizzanti. Sono tre quelli che resistono a ogni bufera: Marco Agnoletti, portavoce, Luca Lotti, con lui in Comune, ora avamposto in Parlamento e al partito, Maria Elena Boschi, avvocato, la “giaguara” dell’ultima Leopolda.
Finanza & relazioni pericolose
L’appoggio di Serra non passa inosservato. Durante le scorse primarie Bersani attacca frontalmente: “Chi paga le tasse in Gran Bretagna deve votare per Cameron”. Serra più che il voto ci mette il money. L’ Ente Cassa di Risparmio di Firenze decide a fine settembre di investire 10 milioni di euro nei CoCo bond di Algebris. Due settimane dopo insieme all'allora renziano Giorgio Gori, Serra organizza una cena di finanziamento a Milano e riesce a coinvolgere portafogli interessanti: il numero uno di Deutsche Bank Italia, Flavio Valeri, il presidente di Lazard e Allianz Italia, Carlo Salvatori, l’ex dg di Bpm, Enzo Chiesa, Andrea Soro di Royal Bank of Scotland e l’amministratore delegato di Amplifon, Franco Moscetti. Da Firenze arriva il finanziere, Francesco Micheli. Per partecipare si pagano in anticipo 5.000 mila euro, minimo. Il banchiere d'affari Guido Roberto Vitale commenta uscendo: “Renzi è bravo, parla come una persona di sinistra che non demonizza il capitalismo e non ha letto Marx, fortunatamente”.
Il sapore della sconfitta
Dopo una campagna elettorale combattutissima, tra colpi d’ala e colpi bassi, alle 20:20 del 2 dicembre Renzi scrive il tweet della sconfitta: “Era giusto provarci, è stato bello farlo insieme”. Finita. Quando arriva al quartier generale allestito per l’occasione, il teatrino lorenese alla Fortezza da Basso, ha gli occhi lucidi. Fa un discorso che per i maligni è il suo migliore. “Non sono riuscito a scrollarmi di dosso l’immagine di ragazzetto ambizioso”. A primarie perse, comincia la fase più confusa. “Non fuggo col pallone”, dichiara lui. E però scalpita, alla ricerca di una collocazione.
Palazzo Chigi si allontana. Al fianco di Bersani all’Obihall di Firenze, durante la campagna elettorale. L’“assassinio” politico in diretta tv di Finocchiaro e Marini come candidati al Quirinale. Il commento a caldissimo dopo il fallimento della votazione per Prodi: “È evidente che la sua candidatura è tramontata”. Che gli vale l’accusa di principale indiziato di tradimento. E lui, lì a telefonare a tutti, giornalisti compresi: “Ma che ho detto? Me l’hanno chiesto e io ho solo risposto la cosa più ovvia. Non scherzate, no! ”. Poi, la candidatura a premier durata solo un giorno. In Oltre la rottamazione racconta: è stato Berlusconi a dire che “preferisce Amato o Letta”. Tutto sempre sulla ribalta mediatica. Per le larghe intese, contro le larghe intese, per il voto subito, per la governabilità. Dice tutto e il contrario di tutto. Alla festa nazionale di Genova lancia la sua candidatura alla segreteria, più sull’onda della necessità politica che dell’entusiasmo (“C’è solo una cosa da fare adesso, e Matteo deve farla”, commentano quelli dei suoi che lo spingono). Tra maggio e giugno, Palazzo Vecchio è coinvolto in un'inchiesta sulle escort. Il Giornale e Libero sparano su Renzi “come Silvio”. Il sindaco è appena sfiorato. La vicenda riguarda un dirigente sorpreso con una escort nell'ufficio del Comune. L'indagine è aperta, Renzi non è coinvolto. Il resto è cronaca. Con l’assalto finale al Nazareno, e gli avvertimenti a Napolitano e Letta: “Se vinco, cambia tutto. E se lo dico prima, sono legittimato a farlo”. Con l’ultima settimana in giro a chiedere il voto a tappeto. Chi lo conosce da sempre, “Matteo” lo racconta come un misto di istinto e calcolo, uno che ha sempre la battuta pronta, che fiuta la strategia più che pensarla. Uno che parla con tutti e decide da solo. ““Prima ti deridono, poi ti combattono, poi vinci”. Firmato Mahatma Gandhi, era scritto sui muri dell’ultima Leopolda. Perché “questa è la volta buona”. E assomiglia tanto a un “Rischiatutto”: o vince (bene) o perde tutto.

La Stampa 8.12.13
Lo staff di Bersani
E gli irriducibili del “Tortello magico” liberano già le stanze
di Fabio Martini


ROMA Se ne sono andati alla spicciolata, uno alla volta e già da diversi mesi. Per primo ha lasciato il capo, Pier Luigi Bersani. Da questa estate al Nazareno non lo hanno più visto, il suo studio è chiuso a chiave e la dolce Lucia, la signora che pulisce gli uffici del Pd, non può più lasciare sulla scrivania le sue farfalle di carta. Tra i bersaniani, un tempo potenti al partito, da mesi non si vede più Vasco Errani, il governatore dell’Emilia che nei giorni delle trattative Quirinale-governo aveva assunto i pieni poteri del clan bersaniano, spodestando un altro fedelissimo, il taciturno Maurizio Migliavacca, piacentino come Bersani. Ha lasciato il piano nobile del Nazareno anche il calabrese Nico Stumpo, uno dei giovani voluti quattro anni fa da Bersani all’Organizzazione. Unici a restare al piano, unici superstiti della disfatta di primavera sono i due responsabili della comunicazione bersaniana, Stefano Ditraglia e Chiara Geloni, direttrice di YoudemTv, una pasionaria con la fama di attaccabrighe: per anni non c’ è stato flame, fiammata su Twitter e Facebook, che non l’abbia vista protagonista. Dopo l’estate la loro porta è rimasta chiusa, con loro dentro, circondati dai pacchi del trasloco: come amanuensi hanno scritto il loro diario del naufragio e poi hanno pubblicato la loro versione dei fatti col libro “Giorni bugiardi”.
Sbigottimento senza speranze quello che, da mesi oramai, ha colpito i «bersanes», i seguaci di Pier Luigi Bersani, protagonisti di una diaspora che questa sera potrebbe subire un ulteriore scossa per effetto di un evento di portata storica: per la prima volta dal 1948 il principale partito progressista italiano potrebbe essere guidato da una personalità che non è mai stato iscritta al Pci, a parte le brevi transizioni Franceschini ed Epifani. È la fine di una lunga storia? Chiara Geloni scuote la testa: «Questa interpretazione millenaristica è
sbagliata. Non è vero che finisce una storia e ne comincia un’altra. Si è fatto un congresso, se ne farà un altro, un partito sceglie un leader e speriamo possa durare per 4 anni». Non la pensa così Claudio Petruccioli, uno dei protagonisti della svolta che cambiò nome al Pci: «Per me la storia politica di quel partito è finita 25 anni fa, ma per altri non è stato così e bollando il nuovo inizio come nuovismo, il Pd sino ad oggi non è mai nato».
Nello sfarinamento del «tortello magico» non c’è spazio per autocritiche, ma semmai per qualche rimpianto. Dice Nico Stumpo: «Di questa stagione resterà molto, anche la consapevolezza di quel che non è stato fatto, anche per effetto di una continua allerta elettorale: l’idea di partito con la quale avevamo vinto nel 2009, un partito aperto alla partecipazione senza trasformarsi in un comitato elettorale». Anche la Geloni è orgogliosa: «Ieri, ad Abano Terme, una ragazza di nome Vanessa mi ha detto: Bersani, a differenza di altri segretari, ci ha insegnato qualcosa, la politica è pensiero che cerca di stare ai fatti e non solo comunicazione». Ma se Renzi vincerà, da stasera tutta l’area post-comunista che sta dietro a Gianni Cuperlo, per la prima volta passa all’opposizione di sinistra. Nel passato è capitato a Fabio Mussi, uno degli artefici della svolta che, dopo aver criticato gli intellettuali che volevano restare «attaccati al Pci come ad un bambolotto di pezza», pur di non entrare nel Pd, fece la sua scissione.

Repubblica 8.12.13
Il cantautore al seggio sull’Appennino: poco entusiasmo, ma uno spera sempre che qualcosa cambi
Guccini: Prodi mi ha convinto io vado, fermiamo il suicidio
di Marco Marozzi


PAVANA — «Sì, nemmeno adesso sono sicuro che il Pd sia ancora il mio partito. Ma uno spera sempre che qualcosa cambi. Così vado a votare alle primarie. Ho sentito quel che ha detto Prodi, pure lui ci ha ripensato e va a votare. Anche questo mi ha convinto ».
Francesco Guccini ancora una volta indossa l’eskimo. «Diciamolo per dire, ma davvero si ride per non piangere perché... io, come sempre, faccio quel che posso, domani poi ci penserò se mai» canterella. Guarda Raffaella, la moglie che insegna su queste montagne. Oggi tutti e due vanno a votare nella biblioteca di Taviano, frazione di Sambuca Pistoiese, vicino a Pavana dove vivono. Al seggio del Pd per le primarie.
Ci ha ripensato dopo che la primavera scorsa aveva detto di non riconoscersi più nel Pd?
«Credo che la gente debba partecipare, decidere. Anche se è piena di dubbi, si trova di fronte un sacco di cose che non condivide. Se non si continua a provare, non si cambia mai nulla. E con Raffaella ci siamo detti che anche due voti possono contare».
Come giudica i tre candidati?
«Non rispondo perché se no si capisce per chi voto. Diciamo in questa situazione penso vincerà Renzi».
Del governo Letta cosa pensa?
«No comment. Sono sempre stato contrario alle larghe intese ».
Alle primarie del 2012, lei firmò l’appello per Bersani, lei che è andato su un palco solo nel 2006 con Prodi. Poi si è infuriato per come il Pd ha trattato sempre Prodi per la presidenza della Repubblica. Pentito di quell’impegno?
«No. Non rimpiango nulla. Continuo a stimare Bersani, sono sempre furioso per Prodi massacrato in casa. Ho visto un Pd a pezzi, non mi ha convinto Epifani alla segreteria, figurati l’incrocio con il Pdl».
E va a votare per il Pd?
«Non ne posso più di suicidi rituali. Vedo il Paese che soffre, credo che la sofferenza di oggi possa insegnare qualcosa alla sinistra: non si vive di sole tattiche. Se la sinistra non è unita, sinceramente agganciata a dei principi di igiene politica che tutti riconoscono, allora paga e pagherà duramente. Non ha alternative all’essere brava, sincera, unita, pulita, generosa. Milioni di cittadini attendono risposte e non intrighi, veleni, lotta ai coltelli».
Sua figlia Teresa non vota, il suo amico Ligabue nemmeno, il suo fan Samuele Bersani ha scelto Grillo. I giovani non votano. Perché?
«Non trovano la spinta per interessarsi alla politica. Bisogna sapere reinventare l’entusiasmo ».

il Fatto 8.12.13
In piazza l’11 e il 12 Maurizio Landini, Fiom
“Zanonato e Letta fanno fuggire le imprese migliori”
intervista di Salvatore Cannavò


In altri tempi si sarebbe detto “governo servo dei padroni”. Landini non usa certamente questi termini. Ma il messaggio al governo Letta e al ministero dello Sviluppo economico, Flavio Zanonato, Pd, è netto. “Su tutti i vari tavoli di crisi, spiega il segretario della Fiom, il governo sta facendo gli interessi delle imprese, limitandosi ad accompagnare i vari processi di chiusura, delocalizzazione e privatizzazione. Non è questo il suo ruolo”.
Per questo la Fiom organizza una manifestazione di due giorni a Roma, l'11 e 12 dicembre. L'11 ci sarà l’arrivo dei camper da tutte le regioni fino al ministero dello Sviluppo economico e alla Rai. Alle 18, poi, in un'assemblea pubblica in piazza del Popolo prenderanno la parola tutti coloro che hanno aderito alla manifestazione del 12 ottobre in difesa della Costituzione. Il 12, poi, il corteo vero e proprio arriverà a Palazzo Chigi dove, dice Landini, “vogliamo essere ricevuti da Enrico Letta”.
Cosa direte al premier?
Il nostro disaccordo sulle scelte di politica economica e, in particolare sulle privatizzazioni, e l'assenza di un intervento pubblico. Vogliamo rifinanziare i contratti di solidarietà e denunciare l’assenza della politica industriale. Il governo rischia di favorire le delocalizzazioni, la vendita dei pezzi migliori del nostro paese e quindi un processo di deindustrializzazione.
Gli atti del governo a vostro giudizio più negativi?
La scelta di andare verso le privatizzazioni di aziende pubbliche come Fincantieri rappresenta una svendita. Una svendita, peraltro, per pochi euro di attività che invece sono importantissime. È il momento, invece, di un piano per l’attività nazionale, di un Polo per i trasporti, per l’agenda digitale, la banda larga. Invece si svende Telecom. Di fronte alle delocalizzazioni in atto, come nel settore elettrodomestico, siamo di fronte a un ministero dello Sviluppo economico che invece accompagna quei processi.
Si tratta di un atto di accusa al ministo Zanonato?
Quel ministero, oggi, è il luogo in cui le imprese impongono il loro punto di vista. Non ha una politica industriale e svolge un ruolo mai visto prima. L’ultimo caso è quello che riguarda Indesit.
Cosa è successo?
Non era mai avvenuto che il ministero si presentasse con un testo già scritto che ricalca il piano dell’azienda e che indica con precisione che in alcuni stabilimenti, vedi Caserta, si delocalizzano le produzioni. Il ministero dovrebbe svolgere un ruolo vero di politica industriale e di eventuale mediazione. Non di sostegno del punto di vista delle imprese.
Il problema riguarda solo Indesit?
Quello che è successo in quella vertenza è un fatto molto grave ma la situazione riguarda tutti i settori, dalla siderurgia al settore auto, fino alle telecomunicazioni. Siamo di fronte a un processo di deindustrializzazione che il governo favorisce. Del resto, cosa vuol dire annunciare a freddo la privatizzazione di Fincantieri? In questa situazione il sud paga un prezzo doppio. Indesit è a Caserta così come la Jabil. Irisbus ad Avellino, Termini Imerese in Sicilia. Su tutto questo non c'è una politica industriale
Il governo vi darà ascolto? Che prospettive di vita ha?
Un governo che galleggia un altro anno non serve a nulla. Il momento delle scelte è adesso. La Volkswagen sta discutendo di un piano di investimenti da 60 miliardi in cinque anni. Se l'Italia rimane ferma salterà un giro. Non c'è più tempo da perdere.
Oggi si vota per le primarie Pd?
Lei va a votare?
No, non ci sono mai andato. Non è quello il mio ruolo.
Ma le guarderà con interesse?
Nulla mi è indifferente, in particolare ciò che può indurre dei cambiamenti e di cambiare le politiche. Quello che è avvenuto negli ultimi mesi, con le sentenze della Corte costituzionale, rappresenta una bancarotta della politica. Per questo servono dei cambiamenti profondi.

l’Unità 8.12.13
Gustavo Zagrebelsky
«Queste liste di proscrizione inaccettabili in democrazia»
intervista di A. C.


«Le liste di proscrizione sono inaccettabili in un paese democratico». Gustavo Zagrebelsky, giurista, ex presidente della Consulta, è uno degli intellettuali amati dal popolo a 5 stelle. Arrivò quarto alle Quirinarie della scorsa primavera. Ed è rimasto colpito dalla schedatura dei giornalisti sul blog.
«Chiunque ha diritto di recriminare su ciò che viene scritto dai giornali. Ma per reagire a presunte distorsioni, o anche a diffamazioni, la strada non è certo quella delle liste di proscrizione. Si può sporgere querela, chiedere smentite, o anche attivare delle pratiche di controinformazione. Quello che è stato fatto, invece, fa tornare in mente periodi bui della storia italiana».
La presidente Boldrini ha parlato di un pestaggio digitale.
«Sono d’accordo. E mi auguro che Grillo e il suo movimento riflettano sulla gravità di queste iniziative contro le persone. Bisogna sempre distinguere le persone dalle idee». Perché il M5S è così ossessionato dalla stampa?
«Si sentono bistrattati, ignorati, c’è un complesso di persecuzione che dà luogo a reazioni scomposte. Mi auguro che capiscano che non tutto è lecito dentro la convivenza democratica. La lotta è legittima, purché sia sulle idee».
Ieri è partita anche la schedatura dei 148 parlamentari eletti con il premio di maggioranza. Grillo dice che vanno fermati all’entrata del Parlamento.
«Separerei due aspetti. La legittimità dell’elezione dei parlamentari in questione, in assenza della convalida, è un problema prettamente giuridico che deve essere risolto con gli strumenti adeguati. L’idea di bloccarli all’ingresso delle Aule, invece, configura una inaccettabile violenza privata».
Vede un collegamento tra le due liste di proscrizione?
«La lista dei deputati a mio parere è un atto molto meno grave. Non c’è l’aspetto della caccia all’uomo, o alla donna come in questo caso. E del resto i nomi e i volti dei nostri deputati sono noti, non vedo nella pubblicazione dei nomi degli eletti qualcosa di paragonabile alla foto della vostra giornalista sul blog. Quest’ultimo è un atto decisamente più grave, perchè la vostra giornalista viene messa alla gogna con una “colpa”, mentre i deputati non sono accusati di nulla se non di essere stati eletti con una legge che ora è stata cancellata dalla Consulta. E tuttavia nel complesso queste vicende mi sembrano parte di un degrado complessivo in cui è finito il nostro Paese. Stiamo veramente toccando il punto zero. Questo riguarda tutta la classe dirigente, mi ci metto dentro anch’io».
Ha l’impressione che il M5S stia assumendo connotazioni più marcatamente di destra?
«A me pare ancora un movimento in fieri, che deve darsi una identità più definita. Convivono pulsioni diverse, che creano tensioni interne, come è accaduto sul reato di immigrazione clandestina. È un fenomeno tipico della fase iniziale dei movimenti».
C’è il rischio che si trasformi in un movimento pericoloso per la democrazia. «Temo in particolare che gli altri possano spingere in questa direzione, gettare benzina sul fuoco...».

il Fatto 8.12.13
L’autogol di Beppe: giornalisti resi martiri
di Andrea Scanzi


È incredibile il talento di Beppe Grillo nel farsi male da solo. Sul palco del terzo Vaffa Day era parso (per quanto può) più propositivo che distruttivo. Neanche una settimana dopo, torna quel suo agire perennemente bipolare: un giorno una mossa vincente e quello dopo un autogol titanico.
A CHE SERVE, politicamente, il post di Beppe Grillo contro la giornalista de L’Unità? A nulla, se non a generare due effetti particolarmente nefasti per il M5S. Il primo è che quasi tutti i giornalisti, a partire da coloro che hanno colpe gigantesche sullo svilimento della categoria, potranno recitare comicamente la parte dei martiri. Il secondo è che l’attacco frontale a Maria Novella Oppo de L’Unità ecciterà la parte insultante dell’elettorato grillino. Una parte largamente minoritaria, come testimoniava la piazza del V-Day 3 (fatta più da “dialoganti” che da “talebani”), ma che in Rete è assai attiva. Esporre alla gogna i giornalisti, con tanto di foto segnaletica, è tanto volgare quanto politicamente suicida. Alimenta le accuse di fascismo, di squadrismo. Riverberba l’incubo delle liste di proscrizione, che con il M5S non c’entrano nulla, ma che Grillo e Casaleggio in qualche modo fanno ricordare attraverso post inquietanti.
Non c’è nulla di nuovo nel rapporto conflittuale tra Grillo e giornalisti. E’ stato parte del suo successo, soprattutto all’inizio: serviva a sottolineare la differenza tra “noi” e “loro”. Stampa e tivù hanno colpe enormi. Gli stessi articoli della Oppo picchiavano duro: “Ogni giorno una pagliacciata dei grillini [... ] fanno casino [... ] dimostrano di non saper fare e di non aver fatto niente per il popolo italiano [... ] sono succubi di Berlusconi”. Asserire il non vero per supportare Cuperlo, o dileggiare l’avversario per rivalutare D’Alema, è cosa diversa dall’esercitare il diritto di critica. In un emblematico fuori onda, l’inviato nonché (bravo) autore di Piazzapulita Alessandro Sortino ha candidamente ammesso una settimana fa che, in tivù, il politico potente non è quasi mai messo sotto torchio. Altrimenti, poi, non torna. Bisogna trattarlo bene. Parlava, con alcuni attivisti 5 Stelle, di Matteo Renzi, che infatti suole farsi intervistare in collegamento dal suo studio e possibilmente senza interlocutori a parte il conduttore, ma vale per quasi tutti. Con Grillo e parlamentari 5 Stelle, al contrario, si usa il napalm.
COME ha detto Fiorella Man-noia, c’è “questa caccia insopportabile al grillino mezzo scemo”: sulla parlamentare che crede alle sirene si sprecano pagine, su Boccia e Violante che difendono Berlusconi si preferisce glissare. Due pesi e due misure, prassi deontologicamente orrenda di cui peraltro L’Unità (o quel che ne resta) è maestra. Ciò, però, non giustifica il post di Grillo. Giustifica casomai la frustrazione di militanti e parlamentari, che continuano a essere trattati da reietti come se passassero la vita a discutere di scie chimiche oppure occupare i tetti. Non però coloro che sono i leader di un Movimento che aveva il 25% a febbraio e che è ancora sopra il 20%: un capo – o “megafono” che sia – non può permettersi di esporre al pubblico ludibrio un giornalista, innescando insulti che in Rete ci sono ovunque (ovunque: grillini, renziani, berlusconiani, persino civatiani) ma che se “incentivati” da un leader politico diventano oltremodo gravi. Grillo non accetta le critiche, ed è un problema suo; così facendo, oltre a fare pubblicità ad articoli che nessuno si sarebbe filato, continua però a mettere in difficoltà deputati e senatori che stanno crescendo. E questo diventa un problema di molti, se non di tutti. I suoi attacchi ai giornalisti sono ciclici. Chiamò Formigli “Vermigli”, fece definire questo giornale “falso amico” dal primo Farinaccino che gli passava davanti e riuscì persino a far passare un Pigi Battista qualsiasi per una sorta di Politkovskaja nostrano (poveri noi). Più attacca i suoi detrattori, più li eleva a martiri. Più si circonda di cattivi consiglieri rissosi, politicamente arguti come tanti Renzo Bossi duropuristi, più depotenzia un Movimento che non esisterebbe senza di lui.
LA MALAINFORMAZIONE è un problema enorme e le carognate che riceve M5S ne sono ulteriore prova. Non è però pubblicando gli identikit delle “nemiche” Oppo che si risolve il problema. Tutti i politici sono vendicativi, ma di solito si “limitano” a negarti le interviste. La colonna infame è irricevibile, nonché un boomerang: se qualcuno facesse lo stesso con un ritratto di Casaleggio, infierendo sui boccoli da Yoko Ono folgorato sulla via di Cocciante, non basterebbe tutta Nonciclopedia. Dario Fo, con consueta lucidità, ha riassunto la vicenda: “I toni di Beppe sono inaccettabili, ma i giornalisti la smettano di sputtanare”. Sintesi perfetta. Grillo vuole bene al Movimento e ai suoi parlamentari. Proprio per questo, e al più presto, deve individuare e disinnescare il mandante di tutte le cazzate che fa.

La Stampa 8.12.13
Forza Italia e il feeling con Grillo negli attacchi a governo e Colle
Napolitano è il nemico comune, le elezioni anticipate l’obiettivo Ed entrambi insistono: a casa i deputati di Pd e Sel “illegittimi”
di Ugo Magri


Tra Berlusconi e Grillo, chi copia chi? Accertarlo è impossibile. Mai come in questi giorni forzisti e Cinque stelle si scippano gli argomenti, si scambiano le parole d'ordine, si contendono i bersagli con una ferocia spesso smodata.
In comune, questo «strano asse» ha un nemico: abita su un Colle, ormai è prossimo ai 90 anni, si chiama Napolitano.
È diventata la regola.
Ogni qualvolta il Comico chiama, il Condannato risponde (e viceversa). Grillo non fa in tempo a esprimere sul suo blog un desiderio (pubblicare «nomi e volti» dei deputati eletti con il premio di maggioranza), che i giornali di area berlusconiana glielo esaudiscono in tempo reale. La terza pagina del «Giornale», ieri mattina, sembrava un casellario giudiziario: tutte e 148 le faccine dei parlamentari «abusivi». «Libero» ha trovato eccessive le foto segnaletiche, limitandosi ai profili anagrafici ripartiti per regione. Cosicché Grillo c’è tornato su, forse per riprendersi il maltolto («Questi abusivi devono essere fermati all’ingresso di Montecitorio», ha sparato ancora più forte).
In altre circostanze erano stati i «berluscones» ad accendere la miccia, con i grillini a ruota. Per esempio, mercoledì scorso sulla contestazione dei senatori a vita che va intesa come vendetta trasversale contro il Capo dello Stato. Oppure nella caccia spietata ai giornalisti di parte avversa: aveva incominciato Brunetta prendendo di mira gli emolumenti di Fazio; poi si erano lanciati come un sol uomo lui e Grillo contro Floris; infine ha esagerato l’altroieri Beppe mettendo all’indice come un pericolo pubblico la cronista dell’«Unità» Maria Novella Oppo (ma tutti i giorni il «Mattinale» forzista fa le pulci ai retroscenisti nella rubrica, simpaticamente polemica, «Se la cantano e se la suonano»).
Gli studiosi di politica potrebbero evocare mille altre assonanze tra il popolo grillino e quello del Cavaliere: dalla comune idiosincrasia per le toghe alla incomprimibile vena euro-scettica, dalle cavalcate ventre a terra contro Equitalia alla scarsa simpatia per gli immigrati, resa pubblica da Grillo tra gli «ooooh» stupiti di quanti lo reputavano (come era già accaduto molto tempo fa per Bossi) quasi una costola della sinistra italiana. Con assoluta certezza, l’opposizione a Cinque stelle viene considerata da Berlusconi un punto di riferimento esemplare, un modello da ricalcare. E dunque tra i forzisti ben si coglie l’ansi di raccordarsi col M5S. Al punto che, dopo la scissione di Alfano, qualche emissario del Cav è corso a proporre ai grillini di cambiare collocazione nell’emiciclo, di accostarsi, insomma, così da raffigurare plasticamente il neonato fronte comune...
Non se n’è fatto nulla poiché, spiega D’Ambrosio, «quando una come la Santanché si dichiara pronta a votare la nostra proposta di impeachment, mi viene da vomitare». In molti da quelle parti la pensano come lui, incominciando da Grillo che con Silvio non vuole avere nulla a che fare. Al «guru» Casaleggio, invece, e all’«ideologo» Becchi, la «Pitonessa» non suscita questi stessi conati; anzi, viene giudicata un’utile sponda, un sensore affidabile per capire che cosa ha in mente Berlusconi. Si vocifera di contatti anche molto recenti, in vista della grande offensiva che verrà scatenata contro il Colle non appena la Consulta depositerà le motivazioni della sentenza ammazza-Porcellum. Su quali basi la campagna di «impeachment» verrà argomentata, al momento non è dato sapere. Però dalle parti di Arcore non attendono che un segnale: se Grillo darà il via, loro sono pronti a spalleggiarlo. L’ha confermato ieri Brunetta, non senza previa consultazione del leader: «Quando il M5S presenterà l’atto d’accusa contro Napolitano, avremo il dovere di esaminarlo».
Nessuno si illude che la forzatura avrà successo. Ma l’obiettivo palese è di mettere le istituzioni sotto stress, di surriscaldare l’atmosfera al punto che nessuno, tantomeno il Capo dello Stato, potrà sentirsi al riparo. Svela il piano un senatore di Forza Italia che è già in prima linea contro il Quirinale, l’ex direttore del Tg1 Minzolini: «Napolitano deve smettere di fare scudo al governo, di difendere l’indifendibile». Altrimenti, è il sottinteso, finirà sotto i colpi di Grillo e di Berlusconi...

Corriere 8.12.13
Paolo Flores d’Arcais, in un recentissimo numero di Micromega
La Costituzione e quell’uso strumentale che la minaccia
di Ernesto Galli della Loggia


Quelle letture strumentali della Costituzione. La Carta come un’arma che divide
La deriva dal terreno legittimo dello scontro politico alla scomunica dell’avversario

Rallegrarsi come è giusto perché la Corte costituzionale ha cancellato il Porcellum sulla base di quanto stabilito dalla Costituzione non vuol dire che allora questa, però, non si presti in alcune sue parti ad un uso strumentale che rischia di snaturarne il significato. E che quindi, se mai fosse possibile, almeno per ciò essa andrebbe modificata. Ce lo fa capire come meglio non si potrebbe Paolo Flores d’Arcais, in un recentissimo numero di Micromega. Naturalmente a modo suo, e cioè tessendo un’entusiastica apologia della Carta e deplorandone la «mancata attuazione». («Realizzare la Costituzione» s’intitolano il numero e l’articolo, e a rendere più chiaro il concetto le parole sono accompagnate dalla nota immagine — peraltro falsa come si sa — di tre giovani partigiane che ci guardano dalla copertina tenendoci un mitra puntato addosso). Ciò su cui Flores non si stanca d’insistere è che la Costituzione italiana non è tanto una Costituzione bensì «un programma politico più che mai attuale», anzi «di stringente attualità»: addirittura «la cura adeguata per i mali dell’Occidente».
Che cosa significa? Prendiamo per esempio l’articolo 3 sul diritto al lavoro. Ebbene, esso costituisce, scrive Flores, un impegno «niente affatto generico bensì tassativo per tutti i governi, che altrimenti diventerebbero estranei e nemici della Repubblica». Non solo: ma visto che l’art. 36 prescrive altresì che «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa», anche qui, deduce l’autore, «ogni salario che non lo garantisce è anticostituzionale». E così via di seguito: «è contro la Costituzione — per fare un altro esempio — ogni politica che non assicuri a tutti gli asili nido» (a tutti i bambini, immagino); per non dire degli articoli 1 e 4 che, sempre ad avviso di Flores, sancirebbero «l’ostilità alla Repubblica di ogni politica che non abbia al primo posto la scomparsa della disoccupazione»; o l’art. 42 che subordina «senza se e senza ma» il profitto a una non meglio determinata «funzione sociale».
Il bello è che dopo aver proclamato il carattere strettamente politico-programmatico della Carta, Flores tuttavia, non rendendosi conto della contraddizione evidente, afferma che ciò nonostante essa «dovrebbe essere l’orizzonte comune del Paese, la trama condivisa di valori» sentita come tale anche dalle «forze politiche contrapposte». Se non lo è, vuol dire — si noti il modo di ragionare dell’autore — che allora la Costituzione stessa «è stata tradita, vuol dire che l’altra parte (cioè quella in disaccordo con le opinioni costituzionali di Flores) è già eversiva di quell’orizzonte comune, è già in “guerra civile”». E poiché la nostra Costituzione è una «Costituzione antifascista» ne discende — prosegue il discorso — che la parte riottosa ai suoi precetti non può naturalmente che essere «il fascismo»: a dispetto del fatto — aggiunge Flores con il suo abituale lessico da Comitato di Salute pubblica — che con il 25 aprile «tutta la nazione abbia deciso che su di esso dovesse abbattersi la damnatio memoriae» . Ancora un’ultima citazione per intendere tutta la limpidezza dell’argomentazione: «Se la Costituzione repubblicana resta una bandiera di parte, vuol dire che il fascismo ancora non è stato sepolto, non è stato archiviato nella cloaca della sua storia (...), che dunque un fascismo vivo e vegeto proietta ancora la sua ombra, l’ossequio al potere in spregio e in censura ai fatti».
Insomma: chi a dispetto della Carta pensasse, mettiamo, che il livello del salario debba essere legato alla produttività, o, per dirne altre, che la lotta alla disoccupazione debba necessariamente sottostare a certi vincoli, o, ancora, che assicurare l’asilo indistintamente a tutti i bambini non possa farsi sempre e comunque per via della spesa eventualmente insostenibile: ebbene, chi pensasse cose simili non sarebbe solo una persona ragionevole o al più, se si vuole, di orientamento conservatore. No: secondo il direttore di Micromega e il suo sobrio lessico egli sarebbe né più né meno che «contro la Costituzione», un «nemico della Repubblica», un «fascista» da mettere al bando. Il tutto, per l’appunto in nome dell’ «attuazione della Costituzione».
Mi chiedo che cosa pensino Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky o Sandra Bonsanti o don Luigi Ciotti, e tante altre persone che come loro si sono battute in questi ultimi tempi in «difesa della Costituzione», che cosa pensino, dicevo, di queste forsennate conseguenze del loro impegno. Le condividono? È questa la Costituzione, è questa la sua interpretazione che vogliono difendere? In base alla quale bisognerebbe considerare fascista, tanto per dire, la signora Thatcher e molti degli editorialisti di questo giornale? O mettere fuori legge il cancelliere Schröder per la sua politica non proprio filo-sindacale?
Credo e spero di no. Ma le forsennatezze diciamo così teoriche di Flores — che pure dirige la rivista a cui le persone di cui sopra collaborano con particolare frequenza — dicono qualcosa di importante, di cui esse pure, forse, farebbero bene a occuparsi. E cioè che effettivamente, a motivo di una dizione perentoriamente ancorché astrattamente(prescrivere senza comminare sanzioni lascia il tempo che trova) prescrittiva, molti degli articoli della nostra Costituzione — specie quelli del Titolo II e III — si prestano troppo facilmente ad essere interpretati come un obbligatorio programma di governo. Non è un’idea nuova peraltro: già mezzo secolo fa un autorevole costituente comunista, Renzo Laconi, affermava testualmente che la Carta costituiva «un vero e proprio programma politico che impegna unitariamente tanto l’opposizione che la maggioranza» , riecheggiando le parole ancora più drastiche pronunciate da Togliatti durante i lavori della Costituente allorché aveva detto: «Tutti coloro che accettano questa Costituzione come fondamento della vita politica italiana devono essere impegnati a muoversi sulla via del rinnovamento economico e sociale». Esattamente ciò che sostiene il «libertario» Flores oggi.
Ma la domanda che tutto ciò solleva con forza è sempre la stessa: che ne è di chi per avventura non condivide tale rinnovamento? Che ne è nella Repubblica democratica di chi invece si trova ad avere un punto di vista conservatore o semplicemente moderato (cioè di una buona metà degli italiani?): è fuori della Costituzione? è un «fascista»? o che cosa?
In realtà, è evidente che la concezione politico-programmatica della Carta come quella che Flores sostiene non può che essere, essa sì, ferocemente divisiva del Paese. Essa sì è eversiva alla radice dell’ordine repubblicano. Essa sì è la premessa per una sorta di guerra civile. Tale concezione, infatti, mira a null’altro che a trasferire le divergenze di opinione e di programmi tra i partiti dal terreno legittimo dello scontro politico democratico a quello della legalità costituzionale. Con ciò dunque esasperando quelle divergenze, facendone motivo di scomunica a priori dell’avversario, e riponendo le proprie speranze anziché nella sua sconfitta elettorale nella sua messa al bando per decreto.
L’odierna geremiade sulla non avvenuta attuazione degli inattuabili articoli della Costituzione serve precisamente a questo: a perpetuare l’uso della Costituzione stessa come arma della battaglia politica, travestendo ipocritamente le opzioni ideologiche di una parte nella disinteressata devozione alla legge suprema. Ed è per questo, come si capisce, che chi vuole continuare a servirsi di uno strumento così comodo non si stanca anche di sostenerne l’intangibilità in saecula saeculorum.


Repubblica 8.12.13
“Schiaffo dalla Consulta ma lo Stato deve sopravvivere e il Parlamento è legittimo”
Zagrebelsky: si poteva far rivivere il Mattarellum
intervista di Liana Milella
Gli attacchi di Grillo ai giornalisti?
Le liste di proscrizione ci riportano a un periodo buio

Gustavo Zagrebelsky è stato giudice della Corte Costituzionale dal ’95 al 2004, e presidente nel 2004

ROMA — La sentenza della Corte? «Ci riporta alla Prima Repubblica». Il Parlamento attuale? «È delegittimato, ma non annullato». I 148 deputati ancora non convalidati? «Possono sperare». Grillo? «A lui si è data materia, ma non ha ragione ». C’è stato uno schiaffo della Consulta al Parlamento? «Sì, ma forse finirà tutto lì». Il professor Gustavo Zagrebelsky con Repubblica riflette sulla sentenza della Corte sul Porcellum e sulle sue conseguenze.
Grande caos. Grillo impazza. Vuole fuori dalla Camera i 148 “abusivi”. In realtà, vuol far fuori tutti. La sentenza della Corte cancella la storia d’Italia a partire dal 2005, quando è stato votato il Porcellum?
«Un’osservazione sul “grande caos”. Ci si è cacciati in un vicolo cieco, del quale è difficile vedere l’uscita. Possiamo prevedere che ci sguazzeranno a lungo politici, politicanti, giuristi, azzeccagarbugli. Cerco di non far la fine di questi ultimi. Siamo forse alla fine di un ciclo. Se una lezione siamo ancora in tempo a trarre per l’avvenire è che ogni piccolo cedimento quotidiano, alla fine produce una valanga che ci travolge tutti».
A proposito di Grillo, che impressione le fa l’attacco alla collega dell’Unità Maria Novella Oppo?
«Le liste di proscrizione ci riportano a un periodo buio. Una cosa è la polemica sulle idee, che può essere accanitissima, un’altra l’attacco alle persone. Le idee si discutono e si contestano, le persone si rispettano».
Torniamo ai travolgimenti, la sentenza travolge o no 7 anni di storia costituzionale?
«No. Per il principio di continuità dello Stato: lo Stato è un ente necessario. L’imperativo fondamentale è la sua sopravvivenza, che è la condizione per non cadere nell’anomia e nel caos, nella guerra di tutti contro tutti. Perfino nei cambi di regime c’è continuità, ad esempio dal fascismo alla Repubblica, o dallo zarismo al comunismo. Il fatto stesso di essere costretti a ricordare questo estremo principio significa che siamo ormai sull’orlo del baratro».
Dunque, questa sentenza non è retroattiva?
«Se si applicano le regole comuni, e se la Corte non si inventa una qualche diavoleria, la situazione in termini giuridici è la seguente: dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza (non del comunicato, ma delle motivazioni, ndr.) la legge dichiarata incostituzionale non può più essere applicata».
Quindi esiste o non esiste il problema dei 148 eletti col premio di maggioranza? Propaganda politica a parte, vanno convalidati prima, vanno sostituiti, possonostare tranquilli?
«Su questo i giuristi scateneranno la loro fantasia e possiamo aspettarci le tesi più diverse e contraddittorie. Si può ragionare così: l’elezione di febbraio è un fatto concluso, sotto la vigenza di quella legge. Quindi la giunta per le Elezioni non dovrebbe fare altro che trarre le conclusioni di quella elezione. Portando a termine la vicenda elettorale, secondo la legge vigente allora. Oppure si potrebbe dire che la giunta, nel convalidare o non convalidare, non può applicare la legge vecchia e deve tener conto di quella nuova. Questa seconda soluzione porterebbe al caos, anche perché i deputati non convalidati non potrebbero essere sostituiti da altri tra quelli non eletti, perché anche la loro elezione sarebbe illegittima. Ma è proprio qui che dovrebbe valere il principio della continuità dello Stato».
Nel suo comunicato la Corte dice cheil Parlamento può fare la legge elettorale che crede. Secondo lei, oltre ogni ragionevole dubbio, sta parlando di “questo” Parlamento?
«Vede bene... a che punto siamo giunti: in nome dellasalus rei pubblicaeci dobbiamo tenere istituzioni parlamentari che solo un cieco non vedrebbe quanto la attuale vicenda abbia delegittimato dal punto di vista democratico. L’incostituzionalità della legge elettorale del 2005 deriva dalla violazione dei principi che riguardano il diritto di voto. Se anche nulla accadrà giuridicamente, i nostri governanti si rendano conto che molto deve cambiare politicamente. Quello che è accaduto rischia di essere un colpo mortale alla credibilità delle istituzioni».
Ma lei che giudizio dà della sentenza della Consulta?
«È forse la decisione più legislativa che la Corte abbia mai pronunciato. Apparentemente elimina pezzi della legge, in realtà vale come ribaltamento della sua logica perché sostituisce un sistema maggioritario con uno puramente proporzionale. A mia memoria, un’operazione delgenere non era mai stata tentata».
Sarebbe stato meglio azzerare tutto e ripristinare il Mattarellum? La corte avrebbe potuto farlo...
«Avrebbe potuto ammettere il referendum di due anni fa facendo “rivivere” il Mattarellum. A maggior ragione avrebbe potuto farlo in questa occasione. Ma la storia non si fa con i se».
Che succede adesso? Se, per assurdo, si votasse domani, con che legge si voterebbe? E cosa succederebbe dopo l’uscita delle motivazioni?
«Domani, si voterebbe con la vecchia legge. Dopo le motivazioni con una proporzionale».
E come la mettiamo con il voto di preferenza? La Corte dice che il cittadino elettore ne deve esprimere almeno una. Questo non annulla tutti gli eletti attuali che non sono stati frutto di una preferenza e che succederà per quelli futuri?
«Per la prima parte, se vale, vale il principio di continuità. Per il futuro è onere della Corte rispondere nella sua sentenza. La legge che ne risulta deve essere di per sé funzionante e spetta a lei dirci come ».
Lei ha criticato il Porcellum tante volte. Adesso, se dovesse dare un consiglio ai nostri legislatori, cosa gli direbbe? Di lasciarlo com’è dopo la “cura” della Corte, di integrarlo, di buttarlo via tutto?
«È una domanda strettamente politica perché le opzioni possibili sono le più diverse ».
Sì, ovviamente. Ma cosa sarebbe più utile per il nostro Paese?
«Come le opzioni, anche le opinioni sono le più diverse. Si possono lasciare le cose così come staranno dopo la sentenza della Corte. Da giurista, dico che il proporzionale è un sistema altrettanto degno quanto il maggioritario, quindi non è affatto obbligatorio che il Parlamento intervenga per modificare la legge in questa direzione. Se si vuole farlo, lo si può fare. Ogni sistema elettorale, purché non pasticciato, ha la sua dignità, i suoi pregi e i suoi difetti. Ma qui dovrebbero entrare valutazioni di politica istituzionale. Purtroppo non c’è materia come quella elettorale in cui prevalgono gli interessi immediati dei partiti politici. Da questo punto di vista, non vedo per quali ragioni si dovrebbe trovare oggi quell’accordo che per tanto tempo non è stato possibile raggiungere».
La sua previsione?
«Che ci terremo la proporzionale e si continuerà a dire che la si vuol cambiare per guadagnare tempo e lasciare le cose come stanno».

Repubblica 8.12.13
Dario Fo: Beppe è uno di sinistra sbagliato accostarlo a Berlusconi
intervista di Matteo Pucciarelli
MILANO - «Personalmente non mi piace quando si colpiscono i sentimenti delle persone con il sarcasmo», dice Dario Fo — icona della sinistra, premio Nobel e da un po’ di tempo tra i “padri nobili” del M5S — a proposito del post sul blog di Grillo contro Maria Novella Oppo dell’Unità.
Quindi, Grillo ha sbagliato a mettere all’indicela cronista?
«No, aspetti. Ha solo detto che le cose scritte a proposito del movimento non sono vere. Io me li sono andati a rileggere quei pezzi della Oppo: sono pieni di falsità».
Ma è vero che vi siete sentiti con Grillo e lui dopo ha tolto il post dalla homepage del blog?
«Ho parlato con Casaleggio. Vede? A me fa enormemente piacere se una mia osservazione è utile a far cambiare idea».
E come vi siete chiariti?
«Non c’era nulla da chiarire, io parlo con molta libertà e sincerità e lo ho fatto anche stavolta. Nessun problema».
Perché prendersela con i giornalisti, però?
«Ma non sono i giornalisti in sé, solo chi dice menzogne. E lo sa perché se la prendono tanto con il M5S? Perché in tanti hanno il terrore di questi ragazzi che vogliono un cambiamento vero. Vedo tanto egoismo in giro, etanta paura di perdere privilegi».
Esiste anche la querela, se ci si sente diffamati, o no?
«Sì, poi passano anni e non si risolve nulla e si spendono patrimoni in avvocati. Sa quante ne ho ritirate io?».
Grillo dice di fermare all’ingresso del Parlamento gli eletti abusivi. Concorda?
«Lui utilizza il suo linguaggio, ma sono d’accordo. Mi scusi, ma se sono illegittimi perché fare gli ipocriti? In un Paese normale per una cosa del genere il governo sarebbe già crollato, siamo alla follia. La follia di una sinistra che sta insieme alla destra».
Non le fa effetto vedere che Grillo e Berlusconi adesso hanno lo stesso obiettivo da colpire, cioè Napolitano?
«Non mi provochi. Non metta sullo stesso piano due persone diverse tra loro. Berlusconi pensa solo ai fatti suoi. Grillo ha smesso di lavorare e dato spazio a dei giovani volenterosi. È come dire che comunismo e fascismo sono la stessa cosa, solo perché magari combacia un punto in un determinato momento».
E Grillo sarebbe il comunismo immagino...
«È un uomo di sinistra, di sicuro. Come me. Magari ci arriviamo in modo diverso, ma è così ».

Repubblica 8.12.13
Tutto è in ordine, ma niente a posto
di Eugenio Scalfari
SIAMO tutti illegittimi, urla Grillo nei comizi che le televisioni italiane (La7 in particolare) riportano integralmente col risultato che la demagogia più smodata d’Italia occupa gli schermi dove l’ex comico — se invitato — non metterebbe mai piede.
Tutti illegittimi, naturalmente deputati, senatori e consigli regionali. Ma se Grillo fosse conseguente dovrebbe estendere l’illegittimità anche ai membri della Corte costituzionale nominati dal Parlamento e anche dal Capo dello Stato, illegittimo anche lui, alle leggi emanate dal 2006 in poi sui più vari argomenti, alle direttive europee ratificate, alle opere pubbliche eseguite con appalti privati. Dovrebbero insomma essere cancellati sette anni di storia pubblica e in parte anche privata di questo Paese. Grillo ignora cioè (o fa finta pensando che larga parte degli italiani credano a quanto lui dice) che le sentenze della Corte non sono retroattive e si applicano soltanto dal momento in cui sono pubblicate dalla Gazzetta Ufficiale il che avverrà nel prossimo gennaio. Quelle di Grillo sono dunque baggianate demagogiche, avallate però e fatte proprio da Brunetta e da tutto lo stato maggiore di Forza Italia.
La realtà è che la sentenza della Corte sulla legge elettorale “Porcata” (così definita a suo tempo dal suo presentatore, il leghista Calderoli) rappresenta uno schiaffo ben meritato ad un Parlamento volutamente dormiente su questo tema nonostante i molti pronunciamenti che la Corte aveva tre o quattro volte anticipato senza poterli tradurre in atto per mancanza di parte offesa e ricorrente.
Alla fine un ricorrente, Aldo Bozzi, si è manifestato e la Corte ha agito prontamente. Dunque ora tutto è tornato in ordine?
Sarà pure tutto in ordine, ma niente è a posto. La sentenza ha sanato uno sconcio costituzionale ma ha dato luogo ad un pasticcio politico pressoché insolubile. Poteva e doveva prevederlo ma non l’ha neppure preso in considerazione motivando la sua omissione con un argomento apparentemente dirimente: le conseguenze politiche non sono di pertinenza di chi esercita giustizia. È vero come è anche vero che nessuno può intervenire in materia elettorale lasciando un Paese senza una legge che ne assicuri l’esercizio. Un Paese senza legge elettorale sarebbe infatti in preda all’anarchia politica. Ma la Corte ha risolto il problema, resuscitando il sistema proporzionale. Ma qui nasce il pasticcio, anzi il subbuglio, anzi un vero e proprio sfascio ed ecco perché.
La Corte è il nostro massimo organo costituzionale, sovraordinato a tutti i poteri dello Stato, perfino al presidente della Repubblica che pure ne nomina alcuni membri; perfino al potere esecutivo cioè al governo, perfino al potere legislativo cioè al Parlamento e perfino alla magistratura quando questi vari poteri che compongono quello che si chiama Stato di diritto, elemento fondante di ogni democrazia che sia veramente tale, compiano atti incostituzionali.
Bene. In che modo la Corte esercita il suo potere sovraordinato sugli altri e qual è lo strumento di cui si avvale? Sentenze. Di vario tipo: deliberative, interpretative, additive. Sentenze che eliminano atti incostituzionali, quale che ne sia l’autore e la materia. La definiscono “ammazza-legge” il che significa che la Corte ha soltanto un parere negativo.
Questa volta, purtroppo per lei e per il Paese, la Corte ha rivoltato la frittata, ha ammazzato un pezzo soltanto della legge “Porcata” ed ha instaurato una nuova legge che è appunto quella proporzionale pura. Questo avrebbe dovuto evitarlo.
Lo scrive anche un egregio costituzionalista, Michele Ainis, in un articolo di fondo sul “Corriere della Sera” di giovedì che è per due colonne favorevole all’intervento della Corte anche per ciò che riguarda il suo risultato finale e cioè la proporzionale che incontra il suo favore. È vero che la proporzionale è stata in vigore dal 1947 fino al 1992 ed ha sempre espresso una solida maggioranza ma allora erano altri tempi e lo schieramento si divideva in due parti soltanto: una minoranza comunista da un lato e una maggioranza anticomunista dall’altro dominata dalla Democrazia cristiana. Oggi la situazione è completamente cambiata, non siamo più in una fase bipolare ma tripolare o addirittura quadripolare e quindi la proporzionale sarebbe un caos. Così scrive intanto Ainis, confermando uno dei punti che abbiamo già sollevato: «La Consulta non ha cassato l’intera legge elettorale. Ha cassato il premio sia alla Camera che al Senato. Ne scaturisce una proporzionale pura. I partiti potranno e dovranno correggere, emendare, riformare. Come? È impossibile pretendere ricette dai giudici costituzionali: la loro funzione si esercita soltanto in negativo. Serve dunque un’operazione di cosmesi».
Ainis la chiama cosmesi. Francamente la parola mi sembra eufemica. Altro che cosmesi, siamo alla chirurgia di eccellenza e non ne abbiamo molti di chirurghi di tal fatta. Si tratta nientemeno che di mantenere il principio proporzionale che dà a tutte le forze politiche un’adeguata rappresentanza, ma assicurando altresì la governabilità, possibilmente senza alleanze tra forze opposte che possono unirsi solo per breve tempo quando vi siano casi eccezionali di necessità e di emergenza.
Ma anche ammesso che questi chirurghi di eccellenza vi siano, occorre che vengano fatti entrare nella sala operatoria con i ferri, i liquidi e i gas necessari al buon esisto dell’operazione. Ipotesi al momento molto dubitabile perché la proporzionale pura con soglie d’accesso minime fa gola a molti: sicuramente a Forza Italia, a Grillo, alla Lega, alla Sel di Vendola e perfino alla nuova destra di Alfano. Ma ancora, per quel che valgono numericamente, fa gola ai radicali, a Rifondazione comunista, alle liste dei pensionati, degli animalisti, dei No Tav, a eventuali scissionisti del Pd e delle Cinque stelle.
Questo è il panorama. La Corte non se ne cura perché non è compito suo. Ma la Corte sapeva che aver cancellato la “Porcata” avrebbe dato vita ad un’operazione non soltanto negativa ma anche positiva ed avrebbe di fatto gettato il Paese nell’ingovernabilità. Probabilmente sarebbe stato molto meglio annullare l’intera Porcata facendo rivivere il “Mattarellum” che con tutti isuoi difetti assicura però un certo equilibrio tra proporzionale e governabilità. Per aggiornarlo basta in quel caso sì, un’operazione di cosmesi.
Non è quindi vero che la Corte non abbia considerato il risultato “positivo” della sua “ammazza-legge”. C’erano due risultati positivi ed ha scelto il peggiore, il più controverso, il più difficile da emendare. Ho molta stima per la Corte e ne ho quasi sempre difeso le pronunce; di alcuni suoi componenti sono anche amico da molti anni. Non so e non voglio sapere da che parte siano stati nelle votazioni della sentenza, ma il risultato è pessimo anche se la Corte non può più emendarlo né il Parlamento, quand’anche si sentisse leso nelle sue prerogative. Infatti ricorrere contro una sentenza emessa da un organo preordinato agli altri è cosa impossibile.
Ricordo a questo proposito che l’ex presidente della Corte, Piero Alberto Capotosti, in un articolo di fondo sul “Messaggero” di giovedì scorso, aveva sostenuto con dovizia di argomenti che la Corte non doveva intervenire in materia di leggi elettorali. A intervento avvenuto, si è rassegnato. Che cos’altro poteva fare?
C’è un altro presidente emerito della Corte del quale è interessante sentire l’opinione su quanto è accaduto. Collabora a Repubblica ed è Gustavo Zagrebelsky. Di solito non parla della Corte avendola a suo tempo presieduta, ma stavolta ha superato lo scrupolo, ne vale la pena. Potete leggere la sua intervista nelle pagine del giornale.
C’è un’altra ed ultima domanda che si pone: il governo Letta esce indebolito o rafforzato da questa vicenda? Bisognerebbe saper guardare nella palla di vetro per rispondere, ma di una cosa sono convinto: non può disinteressarsene. Deve proporre nei prossimi giorni un disegno di legge elettorale che delinei la convivenza tra i principi proporzionali e quelli della governabilità ed insieme proponga anche una legge costituzionale da approvare a suon battente sulla trasformazione del Senato in Camera delle regioni con relativo taglio del numero dei parlamentari. Nel frattempo vada avanti a passo accelerato nella politica economica e si faccia valere a Bruxelles. Sono cose da fare senza perdere più un attimo di tempo. E niente semipresidenzialismi o sindaci d’Italia: sarebbe come cadere dalla padella nella brace.

Repubblica 8.12.13
Le facce da Terza repubblica che in cinquanta giorni hanno liquidato la vecchia politica
Tre candidati opposti, in comune il taglio col passato
di Curzio Maltese


È BELLA, tanto per cominciare, la foto di gruppo. Renzi, Cuperlo e Civati hanno facce da Terza repubblica. Sono in ogni caso, antropologicamente, la negazione del politico della Seconda repubblica.
GIOVANI o quasi giovani, onesti, intelligenti, non cortigiani, offrono tutti insieme l’immagine di una politica alternativa alla famosa casta. Rappresentano per molti un pezzo della classe dirigente che l’Italia avrebbe dovuto scegliersi già vent’anni fa, dopo la catastrofe morale e culturale di Tangentopoli, e non abbiamo avuto l’opportunità e il coraggio di scegliere. Assomigliano ai nuovi gruppi dirigenti riformisti che in giro per l’Europa in questi anni prendevano il posto dei vecchi, nel normale ciclo della politica, mentre in Italia tutto era bloccato e la nomenklatura del centrosinistra era immutabile, inossidabile alle sconfitte, agli errori, alle complicità evidenti col berlusconismo imperante. Simul stabunt, simul cadent. Com’era prevedibile, il rinnovamento della sinistra è partito quando Berlusconi si è avviato al tramonto. Poi, certo, sono diversi per stile,linguaggio, prospettive.
DA OUTSIDER A FAVORITO
Matteo Renzi aveva il compito più difficile, l’outsider diventato favoritissimo, ma l’ha svolto assai bene. Non ha mai ceduto alla tentazione di rispondere per le rime alle critiche, anche molto pesanti, partite da Cuperlo e Civati, ed è entrato in polemica soltanto con pezzi di vecchio apparato. In particolare, con Massimo D’Alema, al quale avrebbe dovuto fare un monumento già dai tempi delle primarie per il candidato sindaco di Firenze.
Si è liberato della consulenza di Giorgio Gori, un grande equivoco. Lo rendeva simpatico a destra e indigesto al popolo di sinistra, quello che va a votare alle primarie. Rimane però l’unico leader nella storia della sinistra italiana, con l’eccezione di Prodi, capace di parlare all’intero elettorato e non soltanto alla base progressista, storicamente minoritaria dal Dopoguerra, quindi l’unico che può vincere. I suoi punti forti trasversali sono il taglio dei costi della politica e il ritorno a una politica che faccia accadere le cose. Il governo Letta, non facendo né l’una né l’altra cosa, gli ha dato una bella mano. Il punto debole è il programma economico, molto vago nei fondamentali. È il più televisivo dei candidati, che significa il più sveglio, non necessariamente il più profondo, ma in un Paese ipnotizzato dalla televisione si tratta di una qualità decisiva. Il difficile per lui arriva dal 9 dicembre e infatti parla come se avesse già vinto. A volte si tratta di una buona tattica, a volte no, soprattutto se bisogna convincere i cittadini ad andare a votare in massa per non svilire il risultato finale.
ETICA E NOMENKLATURA
Gianni Cuperlo è il più intellettuale dei tre, un pesante handicap che l’interessato non ha fatto nulla per correggere in corsa. L’altro handicap, ancora più pesante, è l’appoggio della nomenklatura quasi al completo, tranne alcuni già saltati sul carro di Renzi. A parte questo, scrive cose meravigliose sulla missione di una sinistra moderna, che non legge quasi nessuno. È ammirevole e anche simpatico nel suo ostinato rifiuto di ogni forma di demagogia. Identifica molto bene un considerevole pezzo di popolo della sinistra che conserva una passione genuina per la politica e saldi valori etici. Questo sarebbe un vantaggio se lo stesso pezzo di sinistra «cuperliana» non fosse fin troppo consapevole di essere minoritario da sempre nel Paese, come del resto lo è lo stesso Cuperlo. Il ragionamento che scatta è fatale: se voto uno che assomiglia a me, non vinceremo mai.
IL CORAGGIO DELLA RETE
Pippo Civati è stato la sorpresa della campagna per le primarie, almeno per chi lo conosce. Chi lo conosce, gli aveva consigliato di candidarsi già nel 2009, da terzo incomodo contro Bersani e Franceschini, al posto di Ignazio Marino, che poi sfruttò bene l’occasione. L’avesse fatto, oggi sarebbe forse il favorito. Civati rinunciò e poi si alleò con Renzi nel progetto della rottamazione, ma anche lì senza arrivare fino in fondo. È la dimostrazione vivente che il coraggio, se uno non ce l’ha, se lo può dare. Civati se l’è dato nell’ultima parte della campagna per le primarie, quando aveva già perso, e ha tirato fuori il meglio di sé: brillante, dotato di sense of humour, molto innovativo. È bravo a stare davanti alle telecamere come Renzi, ma ha letto anche il secondo libro del Capitale di Marx come Cuperlo. Ha il vantaggio non trascurabile, come ha dimostrato il fenomeno Grillo, di usare meglio degli avversari la Rete. In ogni caso, sarà un’ottima risorsa per il futuro del Pd.
A questo punto la parola è agli elettori delle primarie. Vinca il migliore, dicevano una volta i cronisti sportivi. E il grande Nereo Rocco rispondeva sempre: «Speriamo di no».


Repubblica 8.12.13
Berlusconi vuole un accordo subito “L’importante è il bipolarismo”
“E il governo non metta mano alla riforma del voto”
di Carmelo Lopapa


PROVARE a scardinare tutto, governo e Parlamento, giocando di sponda con Grillo. E stringere allo stesso tempo un’intesa elettorale col Pd di Renzi già nelle prossime settimane.
«LE ELEZIONI anticipate non ce le danno, ma dobbiamo approvare un nuovo sistema con chi in Parlamento è per il bipolarismo, il governo non ci dovrà mettere mano » catechizza i suoi Silvio Berlusconi, per nulla rassegnato.
Vuole fare in fretta comunque, per trascinare il Paese al voto prima del “blackout” della presidenza Ue italiana. È la strategia borderline di un Cavaliere per metà extraparlamentare per metà con ambizioni riformiste. Il ritorno alle urne, unica bussola. La convention di oggi all’Auditorium della Conciliazione, del resto, il lancio dei mille (nel frattempo lievitati a «tremila») club “Forza Silvio” non è altro che una nuova tappa della lunga campagna elettorale aperta il giorno della decadenza. Evento da contrapporre alle primarie e all’incoronazione di Matteo Renzi e in cui non si vedrà alcun parlamentare forzista, nessun posto riservato loro in platea. E infatti diserteranno tutti, fatta eccezione per Deborah Bergamini, nuovo responsabile comunicazione, e Annagrazia Calabria, a capo dell’organizzazione dei giovani. Che poi saranno protagonisti, a beneficio di telecamere, tra i 1.700 che gremiranno la sala a due passi dal Vaticano. Mastica amaro la vecchia guardia del partito, falchi e lealisti compresi. Allarmati in queste ore anche dall’ascesa di due nuove stelle nella costellazione berlusconiana. Marcello Fiori, a cui fanno capo i club: sua l’organizzazione della kermesse di oggi pomeriggio e lui sarà tra i pochi a salire sul palco assieme ai giovani. E poi Giovanni Toti, direttore di Tg4 e Studio aperto, ormai con un piede in Forza Italia e consigliere tra i più ascoltati. Berlusconi è assai preso e galvanizzato dal bagno di folla under 30 allestito per oggi, raccontano, è rimasto ieri a Roma per lavorarci. Si lancerà in un nuovo sermone antigiudici ma intenzionato a giocare davanti ai ragazzi la carta dell’entusiasmo, «stile ‘94». Ai dirigenti e parlamentari di Forza Italia ha lasciato il compito di tenere ieri conferenze stampa in tutte le province.
Chi lo ha sentito nelle ultime ore spiega che per la prima volta il capo è con la testa sul nuovo sistema elettorale, nonostante le ritrosie di sempre su listini, preferenze e quozienti. Ha sentito già numerosi esperti. Gli hanno spiegato che votare con le Europee a maggio sarebbe possibile, ora che alle politiche anche in Italia si voterà in un solo giorno. E allora bisogna aprire subito il tavolo della riforma. Non ha ancora un’idea chiara sul sistema, ha preso davvero in considerazione un ritorno al Mattarellum, comunque convinto che «bisogna lavorarci in Parlamento con tutti coloro che credono nel bipolarismo: il governo deve starne fuori». Devono starne fuori Letta e Alfano, insomma. Denis Verdini sponsorizza lo spagnolo: il 20 per cento (150 parlamentari) eletto col proporzionale in liste bloccate, il restante 80 con collegi e preferenze per scegliere tra 4-5 deputati. Una sola la linea guida, per dirla con Deborah Bergamini: «Guai a tornare agli obbrobri della Prima Repubblica». «E mai doppio turno al quale si presenterebbe meno della metà degli italiani come alle amministrative » è il paletto del responsabile elettorale Ignazio Abrignani. I giochi si apriranno in settimana, quando il Pd avrà un leader che, ne è certo Berlusconi, «ha il nostro stesso interesse ad andare presto al voto». Su governo e Quirinale il Cavaliere vuole tenere alta la tensione. Lascia che siano i suoi a sparare sull’impeachment a Napolitano, dalla Santanché a Brunetta a Minzolini. Come sulla storia dei 148 «parlamentari abusivi della sinistra» sui quali i giornali di area hanno già avviato la campagna. «Nella nota di venerdì non ce l’avevo col Colle, ma con la Consulta » ha provato a minimizzare ieri coi suoi, ai quali ha anche spiegato che va bene Grillo, «Ma non possiamo dare l’impressione di inseguirlo su tutto». Va bene puntare sull’anti-politica, insomma, ma quella metà di campo è già occupata dal comico e bisognerà pur distinguersi per raccogliere voti. Sulla kermesse di Angelino Alfano ha buttato giusto un occhio. Sarcastico il commento di Berlusconi: «Anche al lancio di Flic’era tanto entusiasmo».

Corriere 8.12.13
Lo psichiatra riapre il caso Preiti
«Era lucido e non viveva isolato»
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Quando ha sparato contro i carabinieri davanti a Palazzo Chigi, Luigi Preiti era lucido, perfettamente padrone di sé. Ma soprattutto non aveva alcuna intenzione di suicidarsi dopo l’attacco, come invece ha cercato di far credere. La perizia psichiatrica sulle condizioni dell’uomo entrato in azione in piazza Colonna il 28 aprile scorso, giorno di insediamento del governo guidato da Enrico Letta, smonta alcune circostanze emerse sino ad ora. E apre scenari nuovi rispetto a quanto accaduto prima che arrivasse a Roma dalla Calabria. Perché svela che l’attentatore non viveva affatto isolato, anzi partecipava a gare in un circolo di biliardo e «seratine» con svariate persone. E proprio durante quegli incontri potrebbe quindi aver pianificato l’agguato.
Un «eroe vendicatore»
La relazione firmata dal professor Pietro Rocchini ha conclusioni lapidarie: «Al momento del fatto l’imputato presentava un modesto disturbo depressivo in un soggetto portatore di un disturbo di personalità. Tali componenti non avevano rilevanza psichiatrica forense e dunque per le loro caratteristiche e intensità non incidevano in modo significativo sulla sua capacità di intendere e di volere». L’accertamento medico era stato disposto dal giudice per verificare le condizioni dell’uomo, ma anche la possibilità di processarlo.
Il perito esclude ostacoli allo svolgimento del giudizio. E infatti scrive: «Preiti mostra caratteristiche di personalità con larvata costante conflittualità nei confronti dell’ambiente (soprattutto “classe politica”, “Stato” e i suoi rappresentanti) e di un esame della realtà molto immaturo e superficiale. Anziché un autentico desiderio di morte si rileva una “aggressiva ricerca” di riconoscimento pubblico. Gli eventi oggetto di processo, quindi, non sono sembrati condizionati da una qualche patologia che abbia valore sul piano psichiatrico forense, capace cioè di limitare la capacità di intendere e di volere, ma da un fortissimo senso di rivalsa nei confronti “delle Istituzioni”, “dei politici” , dei loro rappresentanti, con l’immaturo desiderio di trasformarsi in una sorta di eroe vendicatore, pubblicamente riconosciuto».
«Seratine» e cocaina
Non è vero, almeno a leggere l’esito degli accertamenti, che Preiti vivesse in una condizione di disperazione. Secondo Rocchini, l’attentatore presenta «un’affettività immatura ed egocentrica, con ridottissima capacità empatica in cui le vittime nel suo racconto sono apparse poco più che soggetti su cui scaricare una cinica aggressività, così come la tendenza all’impulsività manifestata quasi come forma di abreazione cioè di scarica emozionale liberatoria per delusioni e insuccessi». Ma non evidenzia «alterazioni formali del pensiero, né emergono contenuti di tipo delirante».
Non a caso viene citata l’ammissione dell’imputato: «La cocaina mi faceva parlare, stare bene, pensavo a divertirmi per partecipare al meglio alle mie “seratine”». Secondo Rocchini «tale abuso non sembra neanche essere entrato nel processo mentale che ha determinato la decisione di Preiti, lui stesso ha dichiarato che “la decisione di venire a Roma l’avevo presa prima di prendere la cocaina”. Il soggetto non ha mai accusato rallentamenti sul piano motorio e ideativo, tristezza vitale, aridità affettiva anzi al contrario si è mostrato capace di porre in essere una sua precisa “eclatante” progettualità, costruendola con cura. Pur se in condizioni di difficoltà e frustrazione, egli ha sempre mantenuto dall’arrivo in Calabria un buon funzionamento sociale (breve relazione con una donna del luogo, frequentazione pressoché quotidiana di un circolo di biliardo con partecipazione a una gara, costanti “seratine” con gli amici fino a poco prima della partenza per Roma) e lavorativo (chiaramente limitato dalle ridotte possibilità locali, non dalla mancanza di volontà o energia)».
Colloqui e lettere
Il perito ritiene che le lettere inviate al brigadiere Giuseppe Giangrande per chiedere perdono, fossero «strumentali» a ottenere benefici in carcere e nel processo. Evidenzia infatti che «Preiti ha ripetutamente parlato dei suoi sensi di colpa per quanto commesso, ma sempre senza mostrare quell’elaborazione depressiva che ne è la naturale conseguenza e, pur con una certa stereotipata teatralizzazione, senza un’autentica partecipazione emotiva. L’aver scritto alle vittime dichiarando di “non avercela con i carabinieri” colpiti, sembra invece dare a tutto questo una diversa valorizzazione: la volontà di conquistare e mantenere il centro del palcoscenico». E ancora: «La spinta suicidaria da lui riferita sembra essersi fermata a livello di pensiero senza alcun reale tentativo di messa in pratica».
Secondo il professore l’assenza di pentimento è provata dalle condizioni attuali dell’uomo. In carcere studia per prendere il diploma di terza media e imparare a usare il computer. Aggiunge Rocchini: «Il 10 maggio in assenza di manifestazioni psicopatologiche dichiarava di essere “contento per il colloquio avuto con i familiari” in seguito al quale si sentirebbe “ottimista” riguardo al futuro». Ha smesso di prendere i farmaci antidepressivi, solo un blando medicinale per dormire.

Corriere 8.12.13
Prato, la fuga in avanti di Rossi non aiuterà la comunità cinese
di Dario Di Vico


La proposta avanzata dal governatore della Toscana Enrico Rossi di concedere la cittadinanza italiana ai cinesi immigrati nel distretto di Prato la si può considerare, con molta benevolenza, una fuga in avanti. Lungi dal generare tutti quei riflessi positivi che Rossi immagina (emersione, iscrizione ai sindacati, denuncia degli sfruttatori, fedeltà fiscale e investimenti aggiuntivi) avrebbe da subito un effetto concreto: inasprire ancora di più la contrapposizione tra italiani e asiatici.
La partecipazione della popolazione di Prato alla giornata di lutto cittadino è stata, per usare un altro eufemismo, blanda. I toscani pensano che il tragico rogo di domenica scorsa e le sette vittime siano il frutto di una decennale impunità concessa agli imprenditori-aguzzini del distretto parallelo cinese. Non hanno nessuna intenzione di porgere la mano, anche se in città non pochi si sono arricchiti affittando capannoni ai nuovi arrivati oppure gestendo traffici illeciti come lo spaccio dei permessi di soggiorno.
Se gli italiani sono rimasti sostanzialmente sulle loro posizioni chi si è mossa nei giorni scorsi è stata la comunità cinese profondamente scossa dalla tragedia. La console Wang Xinxia e l’imprenditore Gabriele Zhang hanno preso in pubblico precisi impegni di regolarizzazione delle attività e di lotta all’illegalità. In molti a Prato, e non solo, considerano tutto ciò alla stregua di un bluff ma il compito della politica è «andare a vedere». E allora invece di lanciare proposte insensate e controproducenti si deve avanzare un passo alla volta e nella direzione giusta. Solo così i pratesi si convinceranno della bontà del dialogo e della sincerità dei cinesi. E allora bisogna cominciare a lavorare sulla trasparenza e la tracciabilità della filiera produttiva del pronto moda cinese fino alla commercializzazione. Vanno chiusi da subito i capannoni-dormitorio per evitare nuove tragedie e va individuata una modalità di emersione fiscale e di riconoscimento dei diritti dei lavoratori. È un tragitto difficile e un compito immane che richiedono a tutta Prato un salto di qualità nel modus operandi quotidiano. L’ultima cosa di cui c’è bisogno sono i diversivi e le fughe in avanti.

l’Unità 8.12.13
La nuova strada della sinistra
di Michele Ciliberto


ALCUNI GIORNI FA SU UN QUOTIDIANO UN’ACUTA SCRITTRICE HA SOSTENUTO CHE oggi «non bastano le primarie» e ha citato, per rafforzare la sua tesi, l’esempio della Spd tedesca che, con audacia, ha sottoposto ai suoi iscritti il testo dell’accordo con la Cdu per l’approvazione. Se non ci sarà, la grande coalizione non potrà decollare.
Così la Spd ha dimostrato di non essere vincolata dall’ossessione dello stato di necessità e della stabilità: due totem che invece hanno dominato in Italia. Sono d’accordo con questa analisi; salvo il giudizio sulle primarie, e lo dico pur avendo espresso anche su questo giornale dubbi e perplessità nei confronti degli effetti che può avere la democrazia diretta. Le primarie non vanno però considerate in astratto, ma nella situazione in cui si svolgono; ed oggi esse possono avere una funzione importante sia per la vita politica italiana che per il Pd. Sul primo punto non ci sono dubbi: è una grande esperienza democratica nella quale sono coinvolti migliaia di cittadini. Ma anche per quanto riguarda in modo specifico il Pd, queste primarie possono essere un passaggio decisivo. Per cosa è nato il Pd, cosa vuole fare sul piano ideale, politico, culturale? Se si guardasse a quello che il Pd ha fatto in questi ultimi anni sarebbe complicato rispondere perchè in quel partito si sono sovrapposte linee e strategie politiche diverse, in una confusione di lingue accentuata dalla «necessità» di confrontarsi con situazioni impreviste e per certi aspetti imprevedibili. È invece più facile dire che cosa vorrebbe essere il Pd risalendo alle origini, ai suoi «principi». Schematizzando essi sono due: costituire un partito nel quale confluiscano le principali correnti riformatrici della storia italiana, assumendo la fine delle forme politiche e partitiche novecentesche e dando vita a nuove esperienze ideali, politiche, organizzative; contribuire a riformare dalle fondamenta il sistema politico in termini bipolari per liquidare le tradizionali politiche centriste e il trasformismo che ne è stato spesso una naturale conseguenza.
Quando si parla di partito a vocazione maggioritaria è questo che si intende. Perché questo progetto ha stentato a dispiegarsi finendo su molti scogli? Mi limito a citare una sola causa, ma decisiva: la nascita del nuovo partito non si è intrecciata alla formazione di una nuova classe dirigente. E dicendo questo non penso a un ricambio di tipo generazionale, alla rottamazione: una formula efficace ma ambigua. Intendo dire che le redini del nuovo partito sono rimaste nelle mani della vecchia «nomenclatura» di matrice sia comunista che democristiana. Certo, quando si fanno operazioni così complesse è necessario mantenere alcune forme del passato, fosse solo per una elementare esigenza di «consenso», e non solo strettamente elettorale. Ma qui il «vecchio» ha afferrato il «nuovo» cancellando il problema stesso di una nuova classe dirigente e indebolendo il processo di formazione di una nuova e autonoma cultura politica. Chi farà la storia del Pd si troverà di fronte una singolare situazione, quasi metafisica: un nuovo partito fatto dagli stessi uomini, dagli stessi dirigenti delle formazioni originarie. Di per sé non è una novità; è tuttavia un esempio del potere della «burocrazia» sulla politica. Quando però questo accade vuol dire che si è nel pieno della crisi, e che non si riesce a individuare la strada per venirne fuori. Il Pd nasce, del resto, in questa crisi, ne è un figlio, ma in modi complessi e contraddittori. Anzi, per certi aspetti, non è mai nato, non ha mai spiccato il volo; tanto più colpiscono i successi che nonostante tutto è riuscito ad ottenere. Questo significa due cose: le radici da cui è nato sono forti e vitali, la sua formazione corrisponde ad una esigenza nazionale. E nonostante la sconfitta delle ultime elezioni non sono venute meno né l'una né le altre. Proprio il successo di un movimento come il M5S dimostra infatti la necessità nazionale ed europea di un moderno partito riformatore, capace di scelte radicali ed anche conflittuali. Se il Pd riuscisse finalmente a nascere, ad essere se stesso, l’acqua da cui Grillo raccoglie forza e consenso verrebbe progressivamente meno. Per poter nascere ed essere se stesso è però necessario che riprenda il filo laddove si è interrotto, costruendo una nuova classe dirigente coerente con i suoi «principi». Sta precisamente qui l'importanza delle primarie di oggi: nell’aver rimesso sul tappeto il problema della nuova classe dirigente, sulla base ovviamente di un «vincolo» comune.
Questo ci dicono i tre candidati in competizione: chiunque vinca, c’è stata un’importante assunzione di responsabilità, se il Pd intende diventare un pilastro della politica italiana quale fulcro di una nuova stagione riformatrice, fortemente bipolare, capace di affrontare i problemi dell’Italia. Certo, quello del rinnovamento, e della mobilità della classe dirigente non è l'unico problema, ma è diventato ormai un nodo decisivo che bisogna sciogliere, e non per motivi generazionali.
Perciò è auspicabile che oggi votino in molti, anche se in una situazione ordinaria dovrebbero essere gli iscritti a scegliersi il segretario del loro partito, e non la moltitudine. Ma qui, scendendo in mare aperto, si sta decidendo se il Pd debba avere un destino o decadere nei vizi che sono sotto gli occhi di tutti. E dopo la sentenza della Corte costituzionale sul Porcellum, non si tratta solo del destino del Pd: chiunque sia il vincitore, queste primarie possono contribuire a formare una barriera, contro l'ondata proporzionalistica che sta montando in questi giorni. Lo dico senza enfasi: per l’Italia sarebbe, da ogni punto di vista, un passo indietro assai grave.

l’Unità 8.12.13
La Nobel Gbowee: «Per onorare Mandela seguiamo il suo esempio»
intervista di Umberto De Giovannangeli


«Nelson Mandela ci ha insegnato che le responsabilità non possono, non devono essere delegate. “Madiba” ha dimostrato, con l’impegno di una vita, che la Giustizia non è sinonimo di Vendetta, e che l’istinto di rivincita può trasformarsi nel trionfo della riconciliazione. E ha insegnato a tutti noi quello che è il più importante, universale diritto dell’Uomo: essere libero nella propria terra, indipendentemente dal colore della sua pelle, della razza a cui appartiene, della fede che professa. E, infine, Nelson Mandela ha dato concretezza alla parola “Utopia”, ha trasformato in realtà un anelito di libertà condiviso da milioni di persone. La sua eredità è immensa, sta a noi non delapidarla». A parlare è Leymah Gbowee, 41 anni, la pacifista liberiana vincitrice del Premio Nobel per la Pace 2011, insieme alla Presidente della Liberia, Ellen Johnson Sirleaf e alla yemenita Tawakkul Karman.
Un premio che ha ottenuto principalmente per aver fondato nel 2002 Women of Liberia Mass Action for Peace, movimento che riuscì a unire le donne cristiane e musulmane nella lotta non violenta, simboleggiata dagli abiti bianchi indossate dalle attiviste. Tornata nel Paese all’indomani dello scoppio della Prima guerra civile liberiana nel 1989, la Gbowee decise di impegnarsi in prima persona in attività umanitarie. Insieme a Comfort Freeman fondò poi Women in Peacebuilding Network (Wipnet). Le due donne, che erano anche presidenti di due diverse Chiese luterane, scrissero al padre-padrone della Liberia, Charles Taylor: «In passato siamo rimaste in silenzio, ma dopo essere state uccise, violentate, disumanizzate e infettate e aver visto i nostri bambini e le nostre famiglie distrutte, la guerra ci ha fatto capire che il futuro risiede nel dire “no” alla violenza e “sì” alla pace». «In questo ricorda commossa Leymah Gbowee l’esempio di Nelson Mandela è stato per noi decisivo».
Il mondo piange Nelson Mandela. Tutti i leader mondiali saranno martedì a Soweto per dare l’ultimo saluto a «Madiba». Il presidente Usa Barack Obama sarò in prima fila, assieme alla moglie Michelle. «Non posso immaginare la mia vita senza l’esempio di Nelson Mandela», ha affermato Obama. Cosa ha perso l’Africa con la morte di Nelson Mandela?
«L’Africa ha perso un grande leader. Il movimento per la pace ha perso un grande mentore. La leadership politica dell’Africa ha perso un’icona. La morte di Nelson Mandela ha lasciato un vuoto incolmabile in tutti coloro che ebbero la fortuna di conoscerlo, e io sono tra questi fortunati. Mandela ha incarnato lo spirito della generosità e ha rappresentato ciò di cui il mondo necessità di più: giustizia, dignità, diritti. Sempre dalla parte dei più umili, degli indifesi.
All’Africa, alla sua gente, ha ridato l’orgoglio di sé, della propria identità. È stato un leader senza essersi mai atteggiato a tale».
Molti hanno visto in lui un simbolo, il simbolo della Libertà.
«Certo, Nelson Mandela è stato questo. Ma è stato anche il simbolo di qualcosa di non meno importante ed anzi, per certi versi, di ancora più straordinario: il simbolo del perdono. E c’è anche un’altra lezione che Mandela ci lascia...». Qual è questa lezione?
«L’orizzonte a cui tendere, quello per cui vale la pena battersi, non è l’orizzonte della tolleranza, che prefigura comunque una entità superiore, ma quello del riconoscimento dell’altro da sé. La dignità è tale davvero se è tra pari». Cos’altro ha rappresentato Mandela per un continente depredato dal colonialismo, come l’Africa?
«Tante cose, che sarebbe troppo lungo elencare. Mandela ci ha insegnato che non c’è pace senza giustizia, che la pace, quella vera, presuppone la liberazione da ogni catena, materiale e psicologica. Ci ha insegnato che rispettare chi ti è distante politicamente o culturalmente, non è una prova di debolezza ma un segno di forza. E poi ci ha insegnato che la responsabilità non è delegabile. La responsabilità è personale. Ai giovani che ho incontrato in giro per il mondo, in tante conferenze, non mi sono stancato di ripetere: “non aspettate un Gandhi, non aspettate un Martin Luther King, un re...Perché voi siete King, voi siete il vostro Gandhi...”. Ed ora siete voi Nelson Mandela. Mi lasci aggiungere un’altra cosa che Mandela ci ha lasciato in eredità. Tanto più importante in una Africa dove è ancora fortemente radicata una cultura, e una pratica, patriarcale...».
A cosa si riferisce?
«Alla convinzione che una società davvero democratica, una rivoluzione davvero compiuta, non possono definirsi tali se non contemplano un ruolo centrale della donna. Anche qui: “Madiba” ha saputo andare ben oltre l’orizzonte del rispetto, della “tutela”. Così come ha saputo cogliere la dimensione rivoluzionaria della non violenza. La non violenza, la disobbedienza civile, come alternativa alla rassegnazione e all’illusione che esista una scorciatoia armata alla liberazione».
Mandela come eroe rivoluzionario.
«Definirlo così è limitativo. Perché la grandezza di Mandela è stata quella di essere riuscito ad essere questo, un rivoluzionario, ma non restare prigioniero del suo mito. Si è sporcato le mani, ha fatto i conti con le difficoltà di essere Capo di Stato. Uno Stato del dopo-apartheid. E se un cruccio lo ha accompagnato nella sua ultimi anni di vita, è forse quello di non aver visto crescere una classe dirigente all’altezza, immune dal virus della corruzione. In questo, il suo resta un sogno incompiuto».

Repubblica 8.12.13
Madiba, quell’eroe imperfetto ultima icona anti-globalizzazione
Così Mandela entra nella galleria dei miti immortali
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON SONO le ingiustizie universali che creano gli eroi universali, come Madiba Nelson Mandelaè diventato.
È IL sentimento che l'eroismo e le azioni di un singolo, la sua ribellione, la sua vittoria o la sconfitta risuonano oltre i confini del luogo e del tempo e toccano qualcosa che generazioni lontane avvertono come proprio e soprattutto come vero.
Se la topografia delle città del mondo è piena di strade e piazze dedicate a George Washington è perchè l’indipendenza cercata disperatamente dai coloni americani contro il dominio della lontana corona britannica parlò la lingua dei popoli europei tra la fine delle monarchie assolute e il ritorno della restaurazione post-napoleonica. Se un lontanissimo miliardario indonesiano chiamato Thohir, scoperto soltanto grazie alla globalizzazione del gioco del calcio, decide di chiamare 'Garibaldi' uno dei suoi figli, è perchè il nizzardo che si battè in Brasile, in Uruguay, in Italia, in Francia, sembra rispondere ancora, 140 anni dopo la sua morte, al generico quanto potente richiamo della parola 'libertà'.
Saranno sicuramente milioni i neonati che saranno chiamati con il nome di Mandela. Già nelle prime ore dopo la sua morte molte scuole elementari americane hanno deciso di cambiare il proprio nome e di intitolarsi a lui. Il culto del suo nome, che la scomparsa ha reso definitivo, resterà vivo fino a quando saranno vive le ragioni che lo hanno creato, riassunte nella fin troppo generica parola 'razzismo'. Ovunque una tribù umana pretenderà di sentirsi migliore di altre tribù dai trattisomatici e dalla carnagione diversi e di utilizzare questa 'superiorità' per il proprio interesse, il nome di Mandela riaffiorerà. Dunque per un lungo, lungo tempo.
Nell’universalità dell'eroe si manifesta la convinzione che anche i casi più oggettivi di oppressione e di razzismo abbiano bisogno di un soggetto che incarni lo spirito della battaglia e lo traduca in azioni: «Beato il popolo che non ha bisogno di eroi», scriveva in una celebre frase Brecht. Le colonie americane avrebbero probabilmente trovato negli anni l’indipendenza anche senza George Washington, ma il suo esercito di dilettanti armati ebbero bisogno di lui per diventare rivoluzione vittoriosa. E se l'atrocità codificata dell'Apartheid non avrebbe retto nel tempo, senza Madiba si sarebbe trascinata negli anni e probabilmente sarebbe affondata nel sangue di una guerra civile. Così come la negazione dei diritti civili e umani ai neri degli Stati Uniti dovette avere in Martin Luther King - altro eroe divenuto universale - il proprio martire. Discorsi simili si possono fare per il Mahtma Gandhi in India o, venendo all’oggi, per Aung San Suu Kyi in Birmania.
La forza dell’esistenza diquesti personaggi oltrepassa e cancella nella codificazione del mito, tutti gli errori, le debolezze, i difetti dei protagonisti che vengono identificati con una causa. Nessuno di questi eroi globali era un santo, come lo stesso Mandela - l'uomo che non sapeva piangere avendo avuto le ghiandole lacrimali bruciate nel sole della cava di pietra dove era stato per 27 anni - si affrettava a ripetere. Washington era proprietario di schiavi e marito assai poco esemplare. Garibaldi conobbe fallimenti militari e personali. Martin Luther King, pastore ordinato della chiesa battista, aveva un debole per le donne che l’FBI di Hoover religiosamente registrava e catalogava: eppure questo non riuscì mai a scalfire il suo prestigio, poi persempre sigillato dai proiettili di Memphis.
Anche l'uso della violenza e delle armi, che in teoria tutti condannano, non intacca la potenza del culto universale di certi personaggi: condizione necessaria però è che i fucili, le armi, le bombe rispondano a criteri di specificità e di riconoscibilità degli obbiettivi. L'attacco alle Torri Gemelle, con lastrage di turisti, sguatteri, impiegati, addetti alle pulizie, passeggeri di aerei civili non avrebbe mai potuto far assurgere Osama bin Laden alla statura di eroe universale per l’oscena insensatezza dell'operazione. Ma i massacri di uomini bianchi in divisa blu compiuti dai celebri guerrieri indiani in America non hanno impedito che figure come quella di Cavallo Pazzo raggiungessero lo status di eroismo transnazionale: la necessità che spingeva le loro mani disperate era evidente. Vale, per 'l'eroe universale', il principio della legittima difesa, impossibile da applicare al terrorismo ideologico o mistico.
Se una caratteristica accomuna coloro che come Mandela assurgono agli altari della beatificazione globale, questa è il rifiuto dell'accanimento nel potere che pure hanno conquistato. Ogni scolaretto sa - o dovrebbe sapere - come scelse di finire la propria esistenza Giuseppe Garibaldi, nella solitudine dell'isola di Caprera. George Washington, che aveva recalcitrato anche davanti alla propria elezione a primo Presidente, chiuse i suoi giorni come li aveva cominciati, da 'farmer',agricoltore, nelle colline della Virginia. Mandela, che sarebbe stato eletto e rieletto presidente del Sudafrica anche sul letto di morte, scelse di servire la nazione per un solo mandato e poi ritirarsi. Martin Luther King non ebbe il tempo per scegliersi il proprio tramonto, ma fu ucciso per avere voluto a ogni costo e contro i consigli dei suoi, partecipare allo sciopero degli spazzini di Memphis, discriminati ed esporsi al balcone del motel.
Per vibrare attraverso i secoli e i continenti, la corda dei sentimenti deve sentire che in questi personaggi c'è il senso di unamissione che va oltre l'ambizione personale e l'autoglorificazione. Milioni di persone venerano ancora Ernesto Che Guevara non per i suoi successi rivoluzionari, inesistenti in America Latina, ma per il suo sacrificio. Lenin e Mao, sicuramente formidabili personaggi ascesi a statura planetaria, sono rimasti impigliati nella stessa rete dell'ideologia che li aveva sollevati e poi zavorrati dal fallimento dei sistemi che attorno a loro, o in loro nome, erano stato costruiti. Julian Assange, il pontefice di Wikileaks, sta raggiungendo per alcuni i cieli della venerazione, ma ancora troppo poco sappiamo su di lui, sui suoi motivi, sui finanziamenti, per poterlo accettare come eroe universale della libertà di informazione.
Ci deve essere, come per Garibaldi, per Washington, per King, per Cavallo Pazzo, per Mandela una presunzione di innocenza e di purezza dello spirito, se non sempre nei comportamenti. E per questo, in un mondo che ha disperatamente bisogno di sopravvivere alla frantumazione quotidiana della globalizzazione che tutto appiattisce, continueranno a vivere, nella immortalità del nostro bisogno di eroi.

l’Unità 8.12.13
Hollande vuole la Festa della laicità. E senza velo
Sarà il 9 dicembre
In Parlamento i 15 articoli. L’azione nelle scuole. La protesta degli islamici
di Anna Tito


Non si discute: la laicità in Francia è uno dei cardini della République. Ma la celebrazione della giornata del 9 dicembre fortemente voluta dal Presidente François Hollande come «Festa nazionale della laicità» accende gli spiriti e suscita polemiche, come spesso avviene Oltralpe. Già approvato dal Senato, il disegno di legge per l’istituzione della giornata è da alcuni giorni in attesa in Parlamento.
Se ne fa portavoce il deputato di centro-destra Jean-Christophe Lagarde, secondo il quale «la laicità non si basa sulla tolleranza delle differenze, ma sull’uguaglianza dei cittadini», riprendendo le parole del leader socialista Jean Jaurès assassinato nel 1914. Insomma, anche per la destra i termini di «democrazia e laicità si equivalgono». Quanto al cardinale arcivescovo di Parigi, André Vingt-Trois, pur contrario all’iniziativa, poiché «la laicità non è una religione che deve organizzare festività, bensì un modo di governo, un’organizzazione della vita collettiva e da vivere insieme in maniera positiva», e non comprendendo «perché si dovrebbero fare processioni il 9 dicembre», si è ben guardato dal condannare il principio. La legge viene accettata quindi da tutti, ultracattolici e lefevriani compresi. Su tutte le chiese di Francia campeggia dal 1905, quando fu siglata la legge di separazione della Chiesa dallo Stato, il motto della Repubblica, una e indivisibile «Liberté, Egalité, Fraternité». La laicità costituisce una sorta di quarto valore, che fanno proprio tutti i partiti, anche l’Ump di Sarkozy e il Front National di Marine Le Pen, che si dichiarano risolutamente laici, anche se in funzione anti-islamica.
Ha protestato soltanto il Consiglio per il culto musulmano che ha lamentato diversi riferimenti all’Islam, dalla reiterazione del divieto di esibire simboli religiosi, legge controversa in vigore dal 2004, all’allusione alla parità fra i generi ma il governo socialista marcia dritto e si appresta a introdurre il divieto di portare il velo anche nelle Università.
Le quindici «tavole» vietano l’esibizione di simboli religiosi, fanno riferimento alla parità tra uomo e donna e, punto ancora più importante, affermano come ogni argomento, dogmi religiosi compresi, posa essere soggetto alla «discussione razionale e scientifica» nelle aule di scuola. Ecco, la questione è tutta qui: osteggiare l’ostentamento dei simboli religiosi, specie per i musulmani. Seppure l’obiettivo consiste nel trasmettere ad alunni e insegnanti il valore positivo della laicità, specie a seguito delle polemiche sul velo islamico, la Carta della laicità sembra essere ostile alle minoranze. «La Repubblica esige ragione e giustizia», e per questo «la scuola francese ha il compito di contribuire al bene comune, alla costruzione dell’uguaglianza, della libertà e della fraternità, e di aiutare gli studenti a diventare cittadini senza ferire alcuna coscienza: è l’essenza della laicità».
E tutto è andato liscio quando, in settembre, la Francia è «tornata in classe senza Dio», ma in compagnia dei quindici articoli, destinati a ben dodici milioni di alunni dalle materne al liceo della Carta della laicità appesa ai muri dei 54.000 istituti scolastici statali, insieme alla bandiere blu bianco rossa e alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1792.
La novità, annunciata nel dicembre dello scorso anno, è stata presentata ufficialmente dal ministro dell’Educazione nazionale, il filosofo Vincent Peillon, già inventore dell’ora di morale laica destinata a entrare in vigore nel 2015, che respinge tutte le polemiche: «Non è una lotta per opporre gli uni agli altri, ma, al contrario, una battaglia contro coloro che vogliono opporre gli uni agli altri». Il governo sembra intenzionato a non fermarsi di fronte alle contestazioni. Si vogliono stabilire basi e modalità di un insegnamento di morale laica «comune», non dogmatica o antireligiosa o di Stato, ma rispettosa della libertà di coscienza e di giudizio di ciascuno, fondata sui «valori, i principi e le regole che permettono di convivere, nella Repubblica, secondo il comune ideale di libertà, eguaglianza e fraternità».
La decisione viene confortata dai sondaggi Ifop: il 90% dei francesi è favorevole.Di questi l’83% è di religione cattolica.

l’Unità 8.12.13
Germania
I giovani del Spd bocciano la Grande coalizione


Il congresso degli «Jungsozialisten» (Jusos), l’associazione giovanile del partito socialdemocratico, ha bocciato ieri a maggioranza nel suo congresso di Norimberga la decisione della Spd di entrare nel governo di Grosse Koalition. Secondo i giovani socialisti, all’accordo di governo manca una base solida su come finanziare gli investimenti futuri previsti. Inoltre con l’alleanza con la Cdu/Csu di Angela Merkel ritengono impossibile un cambiamento di rotta politica. Prima del voto il presidente della Spd, Sigmar Gabriel, in un appassionato discorso aveva inutilmente tentato di convincere i giovani Jusos assicurando di «non voler attendere quattro anni» per migliorare le condizioni di vita dei tedeschi.

Repubblica 8.12.13
Le cicatrici della storia
di Ian Buruma


Le crescenti tensioni sorte riguardo a una manciata di isolette situate nel Mare cinese orientale potrebbero essere lette come un chiaro caso di politica muscolare. La Cina è in ascesa, il Giappone sta attraversando un periodo di depressione economica, e la penisola coreana rimane divisa: è naturale che la Cina tenti di riaffermare il proprio predominio storico sulla regione. Ed è altrettanto ovvio che il Giappone provi un forte nervosismo di fronte alla prospettiva di diventare una sorta di Stato vassallo (condizione alla quale i coreani sono più abituati).
L’asservimento agli Usa, che il Giappone dovette subire a partire dal 1945, era l’inevitabile conseguenza di una guerra catastrofica, e in quanto tale la maggior parte dei giapponesi era disposta ad accettarlo. La sottomissione alla Cina sarebbe, invece, intollerabile.
Tuttavia, poiché la politica nell’Asia orientale è ancora fortemente improntata a un modello dinastico, una spiegazione biografica potrebbe essere assai utile. Abe Shinzo, il primo ministro giapponese, è nipote di Kishi Nobusuke, che in tempo di guerra fu uno dei burocrati industriali più in vista del Giappone; imprigionato dagli americani nel 1945 come criminale di guerra, fu rilasciato senza processo agli inizi della guerra fredda, ed eletto come primo ministro conservatore nel 1957.
Negli anni Trenta e Quaranta, Kishi era un nazionalista con propensioni fasciste. Dopo la guerra, la sua profonda avversione per il comunismo fece di lui un devoto alleato degli Stati Uniti; Richard Nixon era un suo caro amico. Kishi tentò sino all’ultimo di riscrivere la Costituzione pacifista giapponese, stilata dagli americani all’indomani la guerra, e trasformare di nuovo il Giappone in una fiera potenza militare. I suoi sforzi, tuttavia, rimasero vani.
Il più grande desiderio del primo ministro Abe è di completare il progetto nel quale suo nonno ha fallito: eliminare il pacifismo costituzionale e glissare sui crimini di guerra compiuti all’epoca di Kishi, rimanendo al tempo stesso un alleato degli Usa contro la Cina. In quanto nazionalista di destra, Abe si sente obbligato — anche solo retoricamente, per ora — ad opporre resistenza all’egemonia della Cina.
Durante la guerra fredda uno dei principali alleati di Kishi — a parte Nixon — era il dittatore sudcoreano: il presidente Park Chung-hee. Anche lui durante la guerra aveva svolto un ruolo dubbio: con il nome giapponese di Takagi Masao, Park aveva infatti prestato servizio come ufficiale nell’esercito imperiale giapponese. Si era diplomato presso un’accademia militare della Manciuria, dove Kishi un tempo era stato a capo di un impero industriale basato sullo sfruttamento della mano d’opera di schiavi cinesi.
Anche Park era un nazionalista, ma a parte i suoi legami sentimentali con il Giappone, che risalivano ai tempi della guerra, il suo anti-comunismo sarebbe stato un incentivo sufficiente a mantenere un rapporto cordiale con la nazione che per mezzo secolo aveva brutalmente colonizzato la Corea. L’attuale presidente sudcoreano Park Geunhye è sua figlia.
Park Geun-hye adorava il padre almeno quanto Abe amava il proprio nonno, anche se il suo retaggio dinastico ha sortito un effetto opposto rispetto a quello ottenuto da Abe. Per essere considerata una nazionalista coreana, Park Geun-hye oggi deve prendere le distanze da alcune delle amicizie politiche del padre, e in particolare dal suo legame con il Giappone. Come sulla maggioranza della vecchia élite conservatrice, anche su Park Chung-hee (a cui molti sudcoreani riconoscono ancora oggi il merito di aver riscostruito la nazione dalle rovine della guerra) grava l’ombra del collaborazionismo di guerra. Per evitare divedersi affibbiare le colpe del passato coloniale del padre, Park Geun-hye è quindi costretta ad affrontare il Giappone riguardo alle dispute territoriali, anche a rischio di prendere le parti della Cina.
Il caso dell’attuale leader cinese, Xi Jinping, è forse il più complicato dei tre. Suo padre, Xi Zhongxun, era uno dei principali leader della rivoluzione comunista; oltre ad essere uno dei capi della guerriglia nella guerra contro il Giappone, aiutò a sconfiggere i nazionalisti di Chiang Kai-shek durante la guerra civile cinese. In seguito divenne membro del Comitato centrale del partito, direttore della propaganda, vicepremier e governatore del Guangdong.
Un’impeccabile carriera comunista, si potrebbe pensare. Suo figlio non dovrebbe dunque tentare di prendere le distanze da lui, o desiderare di portare a compimento delle ambizioni frustrate. Eppure, anche il nazionalismo di Xi Jinping ha una storia.
Il principale obiettivo del presidente Mao era quello di consolidare la sua rivoluzione in patria. Le sue credenziali di nazionalista erano talmente solide da permettergli di mantenere un atteggiamento relativamente morbido con i nemici di un tempo. Le dispute territoriali attorno a delle isole di nessuna importanza potevano essere messe da parte. Non si preoccupò nemmeno di rivendicare Hong Kong di fronte ai britannici.
Fu solo quando Deng Xiaoping aprì la porta agli scambi commerciali con le nazioni comuniste che in Cina i sentimenti anti-giapponesi furono deliberatamente fomentati. Né il marxismo, né il maoismo potevano essere usati per giustificare il fatto che la Cina si stesse unendo al mondo capitalista. Il nuovo corso causò un vuoto ideologico che fu presto riempito dal nazionalismo di vecchio stampo. Più la leadership apriva l’economia cinese, più rinfocolava la rabbia popolare contro i torti del passato, in particolare quelli commessi dal Giappone.
Colui al quale si riconosce la maggiore responsabilità per la politica della “porta aperta” di Deng non era altri che il padre di Xi: XiZhongxun. Comunista pragmatico, era stato oggetto di diverse purghe durante il regime di Mao, quando individui relativamente moderati venivano spesso denunciati come controrivoluzionari. Suo figlio, Jinping, sembra seguire la stessa tradizione pragmatica di apertura agli scambi commerciali con il mondo. Ecco perché anche lui, al pari dei riformatori di Deng Xiaoping, deve dare prova delle proprie credenziali nazionalistiche prendendo posizione contro il Giappone e affermando il predominio cinese nell’Asia orientale.
Né Xi, né Abe, né Park desiderano realmente una guerra. Le loro pose ostentate sono a beneficio dei loro rispettivi popoli. Uno dei motivi che gli permettono di adottare questa pericolosa politica del rischio calcolato è dato dalla continua presenza degli Usa nella regione, nei panni di polizia militare. Le forze armate Usa fanno da cuscinetto tra le due Coree, e tra la Cina e il Giappone.
La presenza degli Usa permette alle potenze rivali dell’Asia orientale di agire in maniera irresponsabile. L’unica cosa che potrebbe cambiare il loro comportamento sarebbe il ritiro delle forze militari Usa. Poiché a quel punto i tre Paesi dovrebbero vedersela da soli, gli uni con gli altri.
Tuttavia, dal momento che gli americani non stanno ancora prendendo in considerazione una simile eventualità, considerata dagli americani, dai giapponesi, dai coreani e probabilmente persino dai cinesi come un rischio eccessivo, è probabile che lo status quo si protragga, il che significa che l’agitazione riguardo al mare cinese orientale è lungi dal concludersi.
(Traduzione di Marzia Porta)

l’Unità 8.12.13
Salviamo i libri di Sanguineti
A rischio la biblioteca che il poeta donò a Genova
Il figlio Federico lancia l’allarme: 40mila volumi che attendono ancora una sistemazione definitiva nell’ex Hotel Colombia, una struttura in degrado
di Federico Sanguineti


La biblioteca di Edoardo Sanguineti è a rischio. La sua eredità alla collettività, i suoi libri, le sue letture non sono ancora né al posto giusto né «al riparo». Il poeta e intellettuale genovese aveva deciso di donare i suoi libri quarantamila volumi alla sua città, desiderava che fossero a disposizione dei suoi concittadini. E così è andata, due anni dopo la sua morte, nel gennaio del 2010: la moglie, Luciana Garabello, affida i libri al Comune di Genova. E l’amministrazione si impegna a far vivere l’immenso patrimonio culturale del grande poeta e individua nella nuova biblioteca universitaria di Genova Principe lo spazio idoneo. Tutto bene? Purtroppo no. Perché la sede della nuova biblioteca, l’ex Hotel Colombia, di proporietà del Ministero dei Beni Culturali, è stata chiusa fino a due mesi fa e ha perso lo smalto che le aveva dato il restauro, lo stabile ha infiltrazioni di umidità e nei locali non c’è hanno adeguato ricambio d’aria, non proprio una manna per i libri, i quali libri non sono sistemati negli scaffali perché gli scaffali non ci sono. Federico Sanguineti, il figlio che ha seguito le orme del padre (insegna Filologia e critica dantesca all’Università di Salerno) dà l’allarme, che accogliamo e facciamo nostra. La lettera che pubblichiamo in questa pagina è un grido di dolore. Salviamo la biblioteca di Sanguineti.

GENTILE «UNITÀ», VORREI SOTTOPORRE ALL’ATTENZIONE DEL QUOTIDIANO UN ESEMPIO CHE AL TEMPO STESSO COMPENDIA IN SÉ SIA QUESTIONI RELATIVE ALLA PIÙ O MENO CORRETTA AMMINISTRAZIONE DEL DENARO PUBBLICO, sia questioni relative alla gestione e/o fruibilità dei beni culturali.
L’esempio di cui parlo è quello dell’attuale sede della Biblioteca Universitaria di Genova, ex Hotel Colombia sito in via Balbi 40 (non lontano dall’Università che ho frequentato da giovane). Per quanto mi è dato sapere, l’Hotel fu acquistato dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo alla fine degli anni Novanta e poi «restaurato» con spesa complessiva ammontante a circa 22 milioni di euro (spero di sbagliarmi sull’entità della cifra). Fino all’ottobre di quest’anno la sede, benché acquistata per alloggiarvi la Biblioteca, è rimasta chiusa. Dal mese di ottobre, vi sono stati trasferiti gli uffici amministrativi e una parte delle raccolte, quelle che erano nelle sedi dismesse di via XX Settembre e di via Balbi 38. Mancano però ancora, a quanto pare, nonostante l’impegno economico profuso dal Ministero (ripeto: 22 milioni di euro!), le scaffalature per collocare le raccolte delle sale di lettura dell’antica sede di via Balbi 3, quelle per collocare i 21.427 metri lineari del deposito di via Balbi 3 (contenente circa 650mila volumi) e quelle per collocare i circa 40mila volumi del fondo Sanguineti, ceduto dalla famiglia al Comune di Genova e dato in comodato d’uso alla Biblioteca Universitaria di Genova.
Mi interrogo su come sia possibile che, a un anno e più dalla cessione della Biblioteca al Mibact, ancora non vi siano scaffalature adatte a conservare il patrimonio librario; e, per ciò che riguarda il lascito di Edoardo Sanguineti, come mai non siano ancora stati convocati, da parte della Direzione Regionale della Liguria, i Comitati di gestione e scientifici che dovrebbero decidere, fra l’altro, il tipo di collocazione da attribuire ai volumi (operazione propedeutica al lavoro di catalogazione).
Personalmente mi chiedo fra quanto tempo sia possibile al pubblico consultare i volumi della «biblioteca Sanguineti» nel loro ambiente «naturale», cioè insieme a tutti gli altri fondi storici, ancora collocati nella vecchia sede di via Balbi 3.
Mi chiedo soprattutto se, a quasi dieci anni dal termine del costosissimo «restauro», non sia il caso di rendere edotta l’opinione pubblica sull’articolazione delle voci di spesa e sulla consistenza della cassa residua della Direzione Regionale destinata alle esigenze della Biblioteca Universitaria. Ciò anche in considerazione del fatto che l’ex Hotel Colombia, un tempo (dagli anni Venti agli anni Ottanta) lussuosissimo, si presenta oggi, in seguito a detto «restauro», vergognosamente inagibile almeno agli occhi del comune visitatore: pareti dell’atrio con evidenti tracce di umidità, mancanza di ricambio d’aria, serramenti mal funzionanti, perdite d’acqua dai soffitti, pregiati legni del pavimento in condizioni pietose, per non parlare, ciliegina sulla torta, dei libri stessi che, per infiltrazione d’acqua, a loro volta necessitano ormai di restauro.
Domanda: che fine hanno fatto i circa 22 milioni di euro?

l’Unità 8.12.13
Pompei, il ministro Bray minaccia le dimissioni
di Luca Del Fra


SIAMO ALLA RESA DEI CONTI SULLA NOMINA DEL DIRETTORE DEL GRANDE PROGETTO POMPEI (GPP) E, mentre nel sito continuano i crolli, Massimo Bray non ci
sta, e sarebbe arrivato a minacciare le dimissioni per l’ultimo sconfinamento del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Filippo Patroni Griffi che ha candidato Umberto Postiglione. Infatti
la nomina del direttore del GpP dovrebbe essere della Presidenza del Consiglio ma su proposta del ministro per i Beni Culturali. Oltre alla forma però c’è anche la sostanza.
Postiglione è un prefetto, scelta non nuova per Pompei, la fece l’allora ministro Sandro Bondi con Renato Profili. Un uomo per tutte le stagioni e dai doppi e tripli incarichi: da sindaco di Angri, sua città natale vicino Salerno, Postiglione governava una maggioranza da Alleanza Nazionale a Rifondazione Comunista e venne poi pizzicato da Sergio Rizzo sul «Corriere della Sera» per il suo doppio stipendio, da Prefetto di Palermo e da commissario alla Provincia di Roma. La candidatura di Postiglione emerge dopo che sono stati bruciati troppi nomi: economisti diplomatici, archeologi in quanto dalla Presidenza del Consiglio non vogliono personale del Mibact, docenti e perfino rettori universitari. Sembra la reggia di Danimarca alla fine dell’«Amleto», cosa significano tutti questi cadaveri? Il fatto è che il GpP oltre al sito archeologico, per cui sono stanziati 105 milioni di euro, riguarda l’intero distretto dei comuni di Pompei, Ercolano e Torra Annunziata. Una operazione di rilancio e riqualificazione del territorio che potrebbe prevedere perfino un milione di metri cubi tra costruzioni ristrutturate e nuove, e un investimento che, compresi i 105 per il sito, supera i 600 milioni di euro. Gli appetiti sono scatenati da tempo, gli imprenditori campani, inizialmente capeggiati da Riccardo Villari già passato dall’Ulivo alla Pdl, ora cercano sponda nella Fondazione Pompei di Guglielmo Vaccaro, e hanno già pronto un progetto con annesso parco tematico dei divertimenti in toga. La nomina si attende «ad horas»: ma il direttore del GpP, novello Fortebraccio, sarà in grado di inventare un vero progetto di riqualificazione, e allora forse occorrerebbe un urbanista, oppure uomo sensibile alle pressioni dei più vari potentati come ai tempi di Bondi e Berlusconi? Marcello Fiori altro commissario a Pompei nominato da Bondi è oggi coordinatore dei club di Forza Italia.

il Fatto 8.12.13
Crotone
Il relitto del Sud che ospita solo i disperati
di Antonello Caporale


CROTONE, LA CASA DI PITAGORA, IMMERSA IN UNA BAIA MAGNIFICA, AVEVA PUNTATO TUTTO SU CENTRALI ELETTRICHE E GRANDI INDUSTRIE: ORA RESTANO L’AMIANTO E IL PERCOLATO, I MALATI DI TUMORE, I BARCONI DEI CLANDESTINI, LA ‘NDRANGHETA E UNA SQUADRA DI CALCIO CHE SOGNA LA SERIE A. MA I GIOVANI, APPENA POSSONO, FUGGONO

Pitagora sarebbe presto ammattito e avrebbe rinunciato per disperazione a costruire il suo teorema. Altro che ipotenusa e cateto! Crotone, la sua città, ha ridotto in cenere la ragione e ogni equivalenza possibile. Benché immersa in una baia magnifica – infatti risulta comicamente area marina protetta – è avvelenata fino nelle sue narici. Cammina ogni giorno sul bitume contaminato da una schifezza dalla sigla oscura (il cic, conglomerato idraulico catalitico), manda a scuola i suoi figli e trova l’amianto, attende il passaporto in Questura e l’aspetta il cadmio. Cerca l’ospedale e spunta la clinica privata, punta al mare e trova in spiaggia una grande discarica di scorie industriali. Qui il lavoro si trasforma magicamente in un appalto chiuso, devoluto alle solite famiglie dominanti, filiazioni barbariche dello spacchettamento territoriale in divisioni ’ndranghetiste. Cerca la politica e bussa a casa di gente civilmente disastrata. Un sindaco, Pasquale Senatore, è riuscito a edificare su un alto pianoro, affinché, forse, fosse vista da ogni luogo, la sua personale interpretazione della libertà e della pace: Gladio e la sua spada. Siamo, come vi è chiaro, a un confuso e terrificante memorial da Decima Mas.
Finanziamenti statali buttati e il pallone si chiama Vrenna
Crotone è amata e dannata. Fa pentire i suoi figli, li costringe a fuggire. Francesca Travierso ha perso di vista quasi tutti i suoi compagni di scuola: “Eravamo in 28 nella mia classe al liceo, abbiamo resistito in tre. Significa che chi ha un minimo di talento è costretto a mostrarlo altrove, e qui non resta che un abissale vuoto generazionale. Un’intera classe dirigente ha fatto le valigie, lasciando casa al suo destino di merda. Credo che siano partiti i migliori. Così però questa città muore ogni giorno di più. Banale ma vero”. Anche partire costa una faticaccia. La ferrovia è in rovina – binario desolato e interdetto al traffico di umani, solo cani randagi pernottano sotto le pensiline vuote – l’aeroporto è chiuso, da lì decollano i disperati migranti liberati dal locale centro di accoglienza, l’internamento moderno dei derelitti del mondo. Resta a disposizione della cittadinanza la corsia unica della famigerata Statale 106, la strada della morte per via degli abituali, quasi quotidiani incidenti, che corre lungo lo Jonio. “È una città che non si vuole bene e che non vuole essere salvata. Abbiamo ereditato un senso di colpa e lo abbiamo accettato credendo di non meritarci altro che questo. Occorrerebbe una specie di psicoterapia collettiva per elaborare il lutto subìto”, diagnostica il giovane antropologo Davide Scotta, anch’egli appena fuggito. “Crotone era il fiore della Magna Grecia, sede della grande scuola medica, della inarrivabile scuola atletica, ma è disinteressata alla sua memoria, ai suoi antenati. Dovrei alzare bandiera bianca io che ho amato smisuratamente questo luogo, ma non lo faccio, non mi arrendo”, aggiunge disperato il professor Vittorio Emanuele Esposito, preside oggi in pensione del liceo classico.
Crotone sembra il teatro permanente della sciagura umana, di quanto ci costi curare la bellezza nostra, la salute nostra, di come i soldi ci abbiano impoveriti, resi sudditi, ridotti a brandelli a volte – fuor di metafora – nelle corsie di oncologia degli ospedali del nord. Scatoloni di euro (e prima miliardi di lire) mangiati dalla nullafacenza, da bugiardi programmi di bonifica, da corsi truffaldini di formazione, e ignobili accordi denominati “contratti d’area e di programma”. 170 miliardi di lire una volta, 400 una seconda, 800 la terza. Poi nel decennio trascorso siamo passati agli euro. Cento milioni, poi quaranta poi trenta. Il risultato è stato comunque catastrofico. La più grande città operaia del Sud, e la più antica, e la più rossa, ridotta a uno scheletro. Senza fabbrica, senza lavoro, senza salute. L’unica speranza, che è anche l’ultimo orgoglio possibile, è la squadra di calcio. Crotone gioca a testa alta in Serie B e nello stadio Ezio Scida è dovuta venire anche la Juventus a combattere. Piani alti della classifica, bilanci in equilibrio, ricerca doviziosa di calciatori locali emergenti. Si può giocare bene anche se il portafogli è vuoto. Si può lottare per la promozione con ingaggi da operai rispetto al lusso degli altri club. Nei giorni scorsi ci sono state piogge alluvionali, ma il manto erboso ha tenuto, oggi splende il sole e con Antonio Galardo, la gloria degli ultras, saggiamo il terreno: “Possiamo allenarci, mi sembra tutto a posto”. Galardo ha 37 anni e continua a giocare bene, è nato qui, nel rione più povero (Fondo Gesù), e non si è mai mosso da qui, dalla linea arretrata di centrocampo. Fa l’interditore: blocca l’avversario, se ci riesce avanza e smista all’attacco. È una vita da mediano, una vita da gregario: “Sono 17 anni che combatto a centrocampo, e sono state gioie e dolori. La porta l’ho vista poche volte, in rete vanno gli altri. Io esulto da dietro. Però non esiste possibilità che cambi squadra adesso, e sono felice non sai quanto”. Come Totti, Zanetti e Del Piero. Anche lui è un simbolo, ed è forse il più vivo, l’unica scialuppa a cui aggrapparsi. Certo, il calcio non si sottrae alla storia calabrese.
La squadra è detenuta da un nome pesante e ingombrante, la famiglia Vrenna, imprenditori di tutto, calamita di appalti, professionisti con collaudate, connesse e facoltose sponde nella politica. Il cognome rimbomba nella storia locale, rimanda a lunghe inchieste giudiziarie di Pierpaolo Bruni, giovane pm antimafia che a Crotone è nato e, per amore della sua terra, in quella procura ha lavorato, qui ha visto coronare le sue fatiche, i successi e anche gli insuccessi. “Sono giudiziariamente accertati i legami tra politica e ‘ndrangheta, assodato che la malavita arricchisce poche mani e lascia tutti nella miseria. Nulla ci è oscuro, purtroppo”. Fu proprio Bruni a inquisire Raffaele Vrenna, il presidente della squadra di calcio. Condannato in primo grado ma assolto in appello. Vrenna rifiuta da allora, comprensibilmente, ogni accostamento o rievocazione. Esiste il Crotone ed esiste perciò il calcio criminale? Un pentito (fa di cognome Bonaventura) riferì negli anni scorsi di illeciti, soldi e partite di kalashnikov, devianze ed estorsioni. Lui, il presidente, gli contestò ogni virgola e annunciò querela.
L’eolico e la cosca Arena Marrelli è il signor sanità
In Calabria il sistema pubblico non esiste. Ogni rivolo di spesa confluisce in tasche private. Ha il vento da far sfruttare eppure l’ha regalato alle imprese eoliche che hanno costruito le torri nei terreni degli Arena, cosca illustre della formazione criminogena locale. Ha i rifiuti da smaltire? Ecco i Vrenna, specializzati nella raccolta e termodistruzione. Ha la salute dei cittadini da difendere? Nessun problema: a Crotone c'è Massimo Marrelli e la sua catena di hospital al-l’avanguardia. Tutto privato, tutto però convenzionato. Gli ospedali cascano, chiudono, si trasformano in luoghi del permanente dolore, il professor Marrelli apre, allarga e, anche grazie al suo merito e alla sua intraprendenza, ammoderna, specializza. Dalle cure odontoiatriche (una vera eccellenza, bisogna dirlo) alla chemio (una vera disgrazia sociale). L’imprenditore qui non può vivere senza la politica, senza l’aggancio, l’amica o l’amico. Per Marrelli la connessione è praticamente tradotta in decreto, sigillato in un atto burocratico: sua moglie, architetto, già manager della salute, è vicepresidente della Regione. Si chiama Antonella Stasi, ed è la vicaria di Scopelliti, il governatore del centrodestra. Antonella è la vice Peppe: dove non c’è lui c’è lei e – per proprietà transitiva – dove lei non c’è più (le cliniche) resta il marito a presidiare, avanzare, sostenere e inaugurare. Hanno anche la tv, per non farsi mancare niente. Se la classe politica è predatoria l’impresa è funzionalmente, filosoficamente prenditrice. L’imprenditore – questo il teorema disgraziato e inossidabile – esiste solo se c’è l’appalto pubblico e quell’aiutino sistemico che beffa ogni proposito di concorrenza, ogni ottimismo nel proprio talento, ogni fiducia nelle pari opportunità. A Crotone le torri delle ciminiere, ormai tossiche, spente e fallite, il luogo dove Montedison produceva i fosfati e Pertusola sud lo zinco, hanno le cuffie del call center. Crotone è infatti la capitale dei telefonisti, la destinazione via cavo dei nostri bisogni, delle nostre richieste d’aiuto. E il detentore di questa macchina risponditrice a cui è legata la vita di intellettuali disoccupati, ingegneri, medici, avvocati e architetti, si chiama Sergio Abramo. Che, guarda un po’, fa il sindaco di Catanzaro dal 1997 per il centrodestra e nell’intervallo tra un mandato e l’altro è riuscito anche a essere consigliere regionale. Per i 5 anni di dedizione alla causa gode di un assegno vitalizio di 2.800 euro mensili, somma ricevuta allo scoccare del 55esimo anno di età. Infatti appena 12 giorni dopo aver spento le candeline ha chiesto e ottenuto la pensione accessoria. Il nostro Abramo sa fare anche impresa, infatti è sbarcato in Albania, terra di più fertile contaminazione, dove il pacco telefonisti costa pochi euro al giorno. A Crotone il suo call e recall è l’unico salvagente rimasto. Fondi pubblici naturalmente sono serviti per la sede, per agevolarne i contratti, ottimizzarne la resa. Sono moltissimi i giovani che trovano riparo negli stanzoni dove le più grandi aziende italiane indicano il loro customer care.
Il porto per gli extracomunitari e la solidarietà low cost
L’opacità rende più del sole splendente, l’estorsione più dell’onestà. La ‘ndrangheta è più forte dello Stato. Sono continue siringhe criminogene che agitano tutto il corpo di questa terra così martoriata da sembrare morta. Perciò dalla Calabria l’Italia non sembra aspettarsi mai nulla di buono. E per questo alla Calabria l’Italia volta sistematicamente le spalle. Semplicemente non c’è, non esiste. E se esiste è solo per accogliere i barconi dei disperati. Ecco l’altra industria che non soffre crisi: quella dell’accoglienza, in mano alla Misericordia che riesce a fare prezzi favolosi per alimentare la sua carità. A Crotone servono solo 22 euro a giorno per migrante, contro i 40, i 50 degli altri centri. Un ribasso notevolissimo. Ma chi guarda, chi controlla, chi eventualmente censura? Certo, anche qui c’è gente che dimostra come il volontariato possa essere sincero e non la grande ipocrisia sotto cui si cela un’industria aggressiva. Pino De Lucia, presidente della cooperativa Agorà, è impegnato nella lotta al disagio sociale dei figli di Crotone. Cura da artigiano la sua comunità che può ospitare e dare completa assistenza solo a nove persone. Cioè niente. Sono gli effetti della spending review.
E risplende come un fiore nel deserto l’integrità economica di Viviana Sacco che insieme al suo papà Gerardo e ai fratelli immagina, produce e distribuisce gioielli. È orafa e il suo fatturato, 4 milioni di euro, non sbuca dalla solita cassa pubblica. Viviana aveva appena finito la Luiss e voleva correre verso il nord, sperimentare altrove le sue doti manageriali: “Però papà aveva bisogno di me, l’azienda non passava un buon momento e io mi sono applicata ai bilanci. Siamo soli, periferici, accerchiati da un territorio che non ti aiuta. Eppure ce la facciamo. Abbiamo smesso con l’oro, produciamo gioielli d’argento e insieme ai ragazzi che lavorano con noi, sono una decina, immaginiamo, creiamo, sperimentiamo. Vorrei andar via da qui, trasferire l’azienda, trovare un luogo più accogliente. Però i dipendenti perderebbero il lavoro, che è la loro vita. E quindi rinuncio”. Viviana è giovane e grintosa e sta bene in salute. Anche Tina De Raffaele è mamma, ed è piena di grinta. E quando ha scoperto di avere un cancro, quando ha capito che il tumore insegue lei e la sua famiglia ha scelto di non fuggire, di resistere qua. Ha messo la sua faccia su Facebook a disposizione dei tanti che piangono i morti della Pertusola, le vittime della grande siderurgia italiana. A Crotone si muore di più che negli altri posti, l’innalzamento delle percentuali è terrificante: siamo a una media del 15 per cento. Fino a ieri erano invisibili, corpi adagiati sui letti del San Raffaele a Milano, o a Bologna, o a Roma. Invece grazie a Tina qualcosa di nuovo e di bello è nato. Mille mani e mille palloncini bianchi sono sfilati per la città nelle scorse settimane. Crotone è come Taranto e forse peggio. Ma non ha voce, nemmeno tenta più di farsi rispettare, di ripulire la sua faccia sporca, i luoghi dell’indecenza e della morte radioattiva. Partì dalla sua Crotone anche Rino Gaetano, funambolico cantautore scoperto dagli italiani dopo la sua morte. Resta una stele in piazza a ricordo. Crotone non ha più lacrime per piangere e qui nessuno arriva più.
(5 - fine)


La Stampa 8.12.13
Leggere “Il Principe” a Teheran
Studiato anche nell’Iran che scopre realismo e soft power
di Roberto Toscano


Anche in Iran si celebra il quinto centenario del Principe di Niccolò Machiavelli. Grazie a un’iniziativa dell’ambasciatore italiano, Luca Giansanti, l’opera e la figura del pensatore fiorentino sono state – a fine novembre – al centro di due giornate di intenso dibattito (la prima, pubblica, nella sede del Centro per la Grande enciclopedia islamica, la seconda in formato seminariale presso l’ambasciata d’Italia) alle quali hanno partecipato studiosi dei due Paesi.
In Iran Machiavelli è letto e conosciuto, e non solo in ambito accademico, quello degli italianisti e degli studiosi di filosofia politica. Le due giornate machiavelliane di Teheran, pur nel rigore storico e concettuale degli interventi, hanno invece confermato che – come è vero di tutti i grandi pensatori – Machiavelli continua dopo mezzo millennio a trasmettere, e non solo agli esperti, elementi di analisi e riflessione validi per il nostro tempo.
Ma come si legge Machiavelli a Teheran? Quali indicazioni risultano oggi particolarmente rilevanti per la politica iraniana?
Sembrerebbe quasi ovvio che qualcuno cogliesse, nel momento in cui si discute di Machiavelli in Iran, un parallelo tra il Principe e l’ayatollah Khomeini. Un parallelo non forzato, se si pensa che Khomeini ha fondato una repubblica, per quanto islamica, e ha dimostrato di essere sia «volpe» (dissimulando fino a dopo il rientro a Teheran la sua intenzione di gestire direttamente il potere) sia «leone» (con la sua estrema durezza nell’eliminazione degli avversari). Anzi, Khomeini, leader religioso e politico nello stesso tempo, ci appare come una combinazione di Savonarola e Cesare Valentino.
Ma oggi a Teheran a nessuno verrebbe in mente di tracciare un simile parallelo, e non solo perché la figura di Khomeini rimane off limits rispetto a qualsiasi analisi critica. La ragione più profonda è che gli iraniani hanno oggi ben altre priorità che non la costruzione di una repubblica o la presa del potere attraverso l’eliminazione degli avversari.
Al primo posto, in assoluto, troviamo il realismo, un aspetto del pensiero di Machiavelli su cui si sono soffermati tutti gli interventi dei partecipanti iraniani. Interventi in cui si parlava, anche con grande competenza storica, della Firenze del Cinquecento, ma si pensava alla Teheran di oggi. La svolta di Rohani, infatti, si spiega soprattutto in chiave di realismo. Realismo degli elettori, che hanno deciso con una maggioranza di oltre il 50 per cento di accantonare le loro preferenze ultime (riformiste o conservatrici) per convergere su quanto di meglio offriva, o permetteva, il nezam, il sistema. E realismo di Rohani e del suo team diplomatico nello sbloccare con intelligente flessibilità un negoziato nucleare paralizzato fino al 2005 soprattutto dall’intransigenza americana, ma dopo quella data, con il passaggio da Khatami ad Ahmadinejad, anche da un atteggiamento di provocazione non solo sul tema nucleare (pensiamo al negazionismo della Shoah), in una sorta di mussoliniano «molti nemici, molto onore». A Ginevra gli iraniani sono invece passati, permettendo al presidente Obama di dare prova di altrettanta flessibilità, dalla contrapposizione frontale, con i rischi di un conflitto, alla disponibilità ad accettare regole e limiti pur nella difesa dei propri diritti.
Si è molto parlato, soprattutto in occasione della partecipazione del presidente Rohani all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, di quella che la stampa americana ha definito la charm offensive del nuovo governo iraniano, e qualcuno non ha mancato di metterne in evidenza gli aspetti di «marketing politico», senza parlare della interpretazione più estrema che ne ha dato il primo ministro israeliano Netanyahu (Rohani come «lupo travestito da agnello»). La realtà è invece più consistente e meno strumentale. Lo hanno confermato, nelle giornate su Machiavelli a Teheran, quegli interventi in cui gli studiosi iraniani hanno fatto riferimento al concetto di «fama», un concetto che Machiavelli ha valorizzato nel Principe sottolineando l’importanza, in politica, non solo di realizzare fatti concreti, ma di proiettare un’immagine positiva e convincente. L’Iran, in altri termini, sembra oggi avere scoperto il soft power.
Ma il realismo, nell’Iran attuale, non si applica soltanto alla politica estera, bensì all’altra componente fondamentale della proposta politica del nuovo governo, l’economia – un settore dove l’ideologia populista e la prassi demagogica di Ahmadinejad hanno prodotto danni anche più gravi e profondi che non le sanzioni. Molti interventi hanno messo in rilievo l’importanza, nel pensiero di Machiavelli, del fine di perseguire il «bene comune» inteso nella sua concretezza, rispetto al quale il potere o le ideologie possono soltanto avere un ruolo strumentale.
Realismo contro ideologia, «fama» contro sterile provocazione, accento sul bene comune, regole come alternativa al conflitto: ecco come si legge Machiavelli a Teheran in questa fase di rinnovamento politico.

La Stampa 8.12.13
Ma messer Niccolò non si definirebbe “machiavellico”
di Massimiliano Panarari


Se Marx si dichiarava non marxista, ci sono ragionevoli motivi per ritenere che anche Niccolò Machiavelli avrebbe avuto parecchio da ridire sulla qualifica di «machiavellico». Mentre il concetto di machiavellismo è dilagato, tra usi e (soprattutto) abusi, nella scienza e, ancor più, nella pratica della politica, fino a designare il suo dark side e a sovrapporsi, di recente, perfino alle «arti oscure» dello spin doctoring e della manipolazione comunicativa.
Come tutti i grandi autori seminali, Machiavelli si offre a molte ermeneutiche possibili, e il suo essere stato uno dei maestri del realismo politico (e della dissimulazione) ha portato a una semplicistica equazione tra la «categoria» di machiavellismo e la riprovevole triade immoralità, opportunismo e cinismo. A sostenerlo è stata una tradizione di lunga data, da Tommaso Campanella all’Antimachiavelli di Federico di Prussia («riveduto e corretto» da Voltaire), sino al soprannome spregiativo, «le Florentin», affibbiato in tale ottica a François Mitterrand. Il Principe e lo slogan «il fine giustifica i mezzi» (frase da lui mai scritta, per la verità) sono così diventati pilastri della Realpolitik e della legittimazione dell’uomo forte – e solo – al comando, da Benito Mussolini a Bettino Craxi e Silvio Berlusconi (tutti e tre, non a caso, prefatori di altrettante riedizioni dell’opus magnum del pensatore rinascimentale).
Negli Usa, tra gli affezionati della versione realista del nostro troviamo James McGregor Burns, autore di una delle più note biografie di Franklin Delano Roosevelt, machiavellicamente intitolata The Lion and the Fox (1956), e, ai giorni nostri, lo stratega obamiano David Axelrod e il politologo di Harvard Joseph Nye jr, che fa del Segretario fiorentino il teorico del primato dell’hard power.
Alla tesi di Machiavelli cattivo maestro si oppone, invece, il filone della «interpretazione obliqua del machiavellismo», secondo cui egli, indirizzandosi ai principi, parlava ai popoli per metterli in guardia dalla violenza della tirannide, nel quale troviamo, in assortita compagnia, figure del calibro di Spinoza, Rousseau, Alfieri e Foscolo. E non manca neppure il Machiavelli pop, che compare come personaggio nel celebre videogioco Assassin’s Creed. Machiavellismo neo-ludico...

La Stampa 8.12.13
Uno storico decritta tre lettere di Vettori al Segretario fiorentino
“Altro che profeta del cinismo La sua vera colpa fu l’idealismo”
di Alberto Mattioli


«Avevo spesso pensato che Machiavelli fosse “machiavellico” in teoria ma ingenuo nella pratica politica. La mia scoperta lo conferma». Parola di Marcello Simonetta, storico del Rinascimento con cattedra a Parigi e autore del bestseller L’enigma Montefeltro, nel quale rileggeva la congiura dei Pazzi dopo aver decrittato alcune lettere in cifra. Prossimamente uscirà da Bompiani il suo Volpi e Leoni. I misteri dei Medici. E ancora una volta la sorpresa è crittografica. Simonetta ha decifrato tre lettere di Francesco Vettori a Machiavelli, due conservate alla British Library e una all’Archivio di Stato di Firenze. «Vettori era il grande amico e corrispondente dello scrittore, destinatario della celebre lettera del 10 dicembre 1513 in cui è annunciata la composizione del Principe. Ma, a differenza di Machiavelli, Vettori era una specie di gattone politico che dopo ogni rivolgimento politico fiorentino cadeva sempre in piedi».
Siamo nell’agosto 1526 quando Machiavelli, dopo tredici anni di oblìo, rientra finalmente nelle grazie di papa Clemente VII Medici e dunque nel grande giro politico. È incaricato di riorganizzare la milizia fiorentina, quindi ha l’occasione di realizzare finalmente i suoi progetti di riforma militare. «Ma dalle lettere del Vettori, che risponde a quelle di Machiavelli andate perdute, si capisce che non c’è nessuna possibilità di mettere in pratica la teoria. Il Papa scrive Vettori è “sbigottito” perché 400 senesi hanno sbaragliato i suoi 5 mila mercenari. La “fortuna” dell’Imperatore Carlo V, i cui lanzichenecchi stanno calando su Roma, potrebbe certo “mutare”, ma a Roma non ci sono i “danari” e dunque “bisogna misurare a punto”, cioè andar cauti con le spese e non fare castelli in aria. Insomma, fra Vettori e Machiavelli il più machiavellico è Vettori».
Secondo Simonetta, i veri politici fiorentini consideravano Machiavelli un uomo di pensiero, non d’azione: «Personaggi come Vettori, Guicciardini o Acciaiuoli non lo prendevano molto sul serio come politico. Da Amboise, Acciaiuoli, ambasciatore in Francia, scrive a Guicciadini che il tentativo di «disciplinare le fanterie» del Machiavelli gli pare «come la Repubblica di Platone». Un’eco ironica al famoso capitolo 15 del Principe sulla «verità effettuale contrapposta alle utopie». Che paradosso. La colpa vera di Machiavelli non era il cinismo: era l’idealismo.

La Lettura 8.12.13
La nostalgia di Prospero
Tutti in calesse nel nome di Gramsci


Smascherata l’ennesima congiura mediatica dei poteri forti. Il l ibro nero della società civile di Michele Prospero (Editori Internazionali Riuniti, pp. 143, € 12,50), denuncia una trama volta a sabotare, con la campagna anticasta, il progetto «di fare del Pd un partito strutturato». L’antipolitica grillina e le proposte di riforma istituzionale, scrive l’autore, fanno parte della stessa «ondata di regressione». E l’unico rimedio è tornare al partito teorizzato da Gramsci, «il moderno Principe come risposta alle illusioni della personalizzazione del potere». Un po’ come combattere lo smog rilanciando la locomozione animale.

La Lettura 8.12.13
Basaglia, Br e altri misteri friulani


Una bellissima mattina di fine giugno il commissario di Pubblica sicurezza Vidal Tonelli sta cercando funghi su per i monti di Pordenone. Ma quando arriva a Piancavallo, dove il sentiero del bosco si immette nella carrozzabile, vede una vecchia Volvo parcheggiata; si avvicina, guarda e scopre tre ragazzi morti ammazzati. I ragazzi sono della base aerea americana di Aviano: odore di marijuana e intorno lattine di birra. È così che facciamo la conoscenza di un nuovo protagonista del giallo italiano, e di un nuovo autore, Gianni Zanolin, che promette subito buone avventure future che non ci verranno di certo negate. È nuovo il paesaggio friulano che fa da sfondo agli avvenimenti e anche il dialetto che colora i discorsi tra quanti si dedicano alle indagini. Il solo che non usa neppure una parola in dialetto — e questo pare subito strano — è il casaro che abita nella malga lassù in montagna insieme alle sue molte vacche. È lui l’assassino, e subito confessa: i ragazzi lo hanno preso in giro, lui ha tirato fuori la sua arma, un Mauser di quelli usati dai soldati tedeschi nell’ultima guerra, un’arma terribile e però difficile sia da usare e sia da mantenere in efficienza: gli sono bastati due colpi per far fuori tutti e tre i ragazzi, un lavoro da professionista. Poi con la chiave dell’auto ha inciso sulla portiera di sinistra la stella a cinque punte delle Brigate Rosse. Infine, perquisendo la sua casa giù in paese, che cosa trova Vidal Tonelli? Una biblioteca di volumi Adelphi e Einaudi e, al muro, un grande quadro di Vittorio Basaglia, tutto sui toni dell’azzurro, lo stesso colore del famoso Marco Cavallo che l’artista veneto aveva costruito nel 1973 come simbolo della apertura del manicomio di Trieste. Dunque chi è veramente quel casaro troppo ricco e dai gusti troppo raffinati? Ma proprio la mattina della scoperta Tonelli lo aveva visto a colloquio con un uomo che gli pareva di conoscere. E infatti a un tratto ricorda: è un ufficiale dei carabinieri in pensione, poi passato ai servizi segreti, con cui aveva già dovuto scontrarsi in passato. E il passato puntualmente ritorna, tanto che proprio un capo dei Servizi lo invita a lasciar perdere: «Non si intrighi in questa vecchia storia… È una vicenda troppo alta e importante, per uno come lei!». Ma chi può credere che il nostro nuovo commissario si fermi?

La Lettura 8.12.13
Guerra aerea, invenzione italiana

Come ha scritto uno degli storici militari italiani più importanti, Giorgio Rochat, a Giulio Douhet (1869-1930, l’antesignano delle teorie sul «dominio dell’aria») è toccata la stessa sorte di Niccolò Machiavelli: quella cioè di essere più studiato all’estero che in patria. A colmare questa lacuna viene pubblicata in questi giorni dal Mulino la biografia di Eric Lehmann, La guerra dell’aria. Giulio Douhet, stratega impolitico (pp. 226, e 20), che ha il merito di analizzare per la prima volta i diari e le corrispondenze del soldato visionario, autore del classico Dominio dell’aria (prima edizione 1921, poi ampliata e riscritta), che già prima della Grande guerra in una serie di articoli e saggi analizzava le possibilità militari della «aeronavigazione». Ma è durante il conflitto mondiale che questo ufficiale nato a Caserta, ma di origine savoiarda, elaborò, in stretto collegamento con l’ingegner Gianni Caproni, le sue teorie sull’importanza strategica dell’aviazione. È stato documentato che nella seconda metà del 1917 il costruttore di velivoli Caproni consegnò agli inviati statunitensi dell’Army Air Service un Promemoria per la guerra aerea americana, scritto in collaborazione con Douhet, in cui si suggeriva il «bombardamento strategico contro alcuni centri industriali delle potenze centrali — Essen, Monaco di Baviera, Vienna». Gli storici americani si sono interrogati sulla paternità dell’idea del bombardamento strategico, ma secondo Lehmann non c’è dubbio che lo stesso Caproni, come si evince per esempio da una lettera del 1934 alla vedova di Douhet, riconosceva all’amico l’originalità delle intuizioni, nate anche per evitare l’orrore e la perdita di vite umane nella guerra di trincea. Nella seconda edizione del Dominio dell’aria Douhet si spinse ad affermare non solo la creazione dell’aviazione come arma indipendente, ma anche la sua superiorità assoluta. Da allora il dibattito se le guerre si possano vincere con i soli attacchi dall’aria è proseguito sino ai nostri giorni. Certo il nome di Douhet va ricordato come quello di un pioniere, accanto all’americano Billy Mitchell e al britannico Hugh Trenchard.

La Lettura 8.12.13
Tra i 64 prigionieri di Guantanamo
Il detenuto pesa 32 chili


Lo scorso giugno, il Dipartimento della Difesa mi mandava ogni giorno delle email con il numero dei prigionieri che rifiutavano il cibo e di quelli che erano — con un eufemismo usato alla base — «nutriti per via enterale» (venivano cioè legati a una sedia, mentre gli infermieri gli pompavano nello stomaco un frullato di proteine attraverso un tubo). A giugno, 106 dei 166 detenuti allora avevano aderito allo sciopero. Ora ne sono rimasti 15. Secondo Pardiss Kebriaei, del Center for Constitutional Rights, uno di questi uomini pesa 32 chili. Le email del Dipartimento della Difesa sono cessate. A Gitmo (nome usato dall’esercito Usa per indicare la base navale di Guantanamo Bay), gli eufemismi sono tutto quanto resta dell’America.
Nei dodici anni trascorsi da quando gli Stati Uniti hanno cominciato a portare prigionieri musulmani a Cuba, ci sono state sette condanne per crimini di guerra e sono stati spesi 5,24 miliardi di dollari. Ora perfino il generale Mark Martins, procuratore capo di Guantanamo, ammette che solo venti dei 164 uomini ancora detenuti sull’isola saranno incriminati. I restanti 144 probabilmente saranno detenuti fino alla fine della guerra al terrore. Ma nessuno — né i portavoce, né gli ex procuratori e neppure il contrammiraglio Butler, l’uomo più potente dell’isola — sa che cosa significhi la fine della guerra al terrore.
Guantanamo è un’allegra cittadina americana con un negozio di souvenir i cui bicchieri decorati con delfini hanno l’aria di essere dei boccali di birra kitsch a Dachau. Il motto di Gitmo è Honor Bound to Defend Freedom (l’onore mi impone di difendere la libertà). La dichiarazione della sua missione è: «Sicuro, legale, trasparente, umanitario». «Umanitario» è una delle parole più in voga a Guantanamo. È quasi come «umano», ma non del tutto. Le guardie indossano visiere di plastica. A volte i detenuti vengono innaffiati di urina. Le guardie dicono di non sapere il perché. Dopo un turno tra i nove e i dodici mesi, le guardie tornano a casa e ne arrivano altre, e con esse il confronto con le incombenze quotidiane ricomincia. Le guardie conoscono gli uomini che sorvegliano solo dal numero. Se questi numeri restano o se ne vanno, per loro non fa differenza. «Il mio lavoro è svolgere i miei compiti», mi dice il tenente Smith. I suoi superiori approvano con un cenno del capo. Il tenente Smith è biondo, di una bellezza campagnola. Mi chiama signora. La corpulenta guardia 09166 dice che dato che non «capisce perché si debba essere detenuti a oltranza», non se ne preoccupa. Due volte al giorno, la bella Andromaca (come tutti gli ufficiali medici, anche lei usa uno pseudonimo shakespeariano), ficca un tubo nello stomaco di diciotto uomini legati. Poi gli pompa dentro un frullato di proteine. Seduta accanto alla sedia di contenzione, mi dice di non sentirsi in colpa. Come il tenente Smith, sta solo eseguendo gli ordini. Le guardie hanno un cappellano per la cura delle anime. Gli chiedo se qualcuno di loro abbia mai espresso dei dubbi su quel che sta facendo qui. Mi dice di no. Quando tutto è incasellato, non c’è bisogno di pensare.
Carol Rosenberg, una giornalista del «Miami Herald» che per 12 anni si è occupata della base, ha diffuso attraverso Twitter pagine di documenti del tribunale di Gitmo che erano stati resi accessibili al pubblico. Molte frasi erano censurate con una riga nera. Mentre pranziamo alla mensa delle guardie, l’addetto stampa mi avverte che anche la linea costiera è sottoposta a segreto militare. I militari temono che Al Qaeda possa tentare uno sbarco. I jihadisti, come chiunque altro, possono vedere l’intera conformazione di Guantanamo su Google Earth. Ma questo pare non preoccupi. I segreti generano obbedienza. Importa poco che il segreto sia già di dominio pubblico.
Brandon Neely è uno dei pochi che non terrà nascosti i segreti di Guantanamo. Neely è ora un poliziotto in Texas, ma undici anni fa era una delle guardie di Guantanamo. È andato a Londra per chiedere personalmente scusa agli uomini che aveva sorvegliato. Ha parlato ai media di pestaggi, torture e detenzione di innocenti. L’ho chiamato e gli ho domandato perché lo ha fatto. «Non per soldi o per avere notorietà o cose simili», ha risposto. «Al lavoro mi è costato caro, è stato un inferno. L’ho fatto solo perché la gente deve essere informata. Per far capire che i detenuti non mentono. Come posso insegnare ai miei figli a fare quel che è giusto, se io per primo non sono disposto a farlo... Era un rischio che dovevo correre».
L’ultima mattina abbiamo preso un sandwich McMuffin all’uovo al McDonald’s della base. Kelly, una signora bionda e gentile a capo dell’ufficio di pr della base navale di Guantanamo, si lamenta che le è stato difficile rendere note le belle cose che fa la Marina. I media si occupano solo dei prigionieri. La Marina non ha nulla a che fare con le prigioni. Kelly non ne è più responsabile di quanto io, da newyorkese, lo sia delle carceri di Rikers. Mangio il mio sandwich McMuffin sul traghetto che mi riporta all’aeroporto. A Guantanamo 144 uomini sono detenuti senza un’accusa. Nessuno sa quando saranno rilasciati.
(Traduzione di Maria Sepa)

La Lettura 8.12.13
Il Novecento in una tovaglia
Li ospiti di casa Borgese a Milano lasciavano con un lapis sul lino i loro nomi
Le firme di 718 protagonisti del secolo
E c’è Mussolini accanto a Turati
di Corrado Stajano


Chissà com’era vestita Eleonora Duse quella sera del 1920 quando salì su per lo scalone rococò del Palazzo Crivelli, a due passi da Brera, nel centro di Milano, e lasciò la sua firma, con una calligrafia che rivela una forte personalità, sulla tovaglia di lino bianco che le porgeva la padrona di casa, Maria Borgese.
E chissà di che umore era Gabriele d’Annunzio, tre anni dopo, quando arrivò in quel palazzo, con Luisa Baccara, l’amica dell’epoca, e segnò la tovaglia con il suo nome svolazzante che sembra segare anche la tela.
E che uomo era Igor Stravinskij, nel 1926, già di gran fama, quell’anno, dopo Petrouschka , La sagra della primavera , L’histoire du soldat ? Anche lui depose allora la sua firma.
Non andavano dal notaio per un rogito quei personaggi già illustri, ma a passare la sera, a cena o al dopocena nella grande casa dello scrittore Giuseppe Antonio Borgese e di sua moglie Maria Freschi, che invitava i suoi ospiti, in segno di amicizia, a scrivere con un lapis la propria firma su una tovaglia di lino quadrata (un metro e 75 centimetri). Lei poi ricamava paziente il nome e il cognome di ognuno con il cotone rosso, a punto erba, per dar forza, colore e memoria.
Nel corso degli anni, dal 1915 al 1947, la tovaglia di lino si affollò di firme illustri e meno illustri, note e poi ignote. La tela diventò, a osservarla ora, una sorta di opera concettuale informe, dove 718 nomi si incrociano incastrati l’uno nell’altro, paralleli, perpendicolari, obliqui, un fuoco artificiale di firme lunghe, corte, spezzate, ridondanti, panciute, minute, esibizioniste, timorose quasi di svelarsi, eleganti, gonfie di sé, sopraffattrici, sinuose, raffinate, lapidarie, volitive, uno spicchio, ciascuna, del carattere che mosse quelle mani.
La tovaglia di lino è appesa ora a una parete della casa di una nipote di Giuseppe Antonio, Giovanna, figlia di Leonardo, pittore e critico d’arte, primogenito dello scrittore, vicino alla chiesa di Santa Maria delle Grazie, a Milano. Senza vetro, senza cornice.
Come mai tutti quei personaggi di rango, che vivevano a Milano o venivano da fuori, passavano dal Palazzo Crivelli, onorati di lasciare la loro firma su quella tovaglia ?
G.A. Borgese era allora uno scrittore e un personaggio famoso. Aveva già scritto Rubè , il suo romanzo più noto, era critico letterario del «Corriere della Sera», insegnava Estetica all’Università di Milano. Di pelle color delle olive, gli occhi scuri mobilissimi, veniva chiamato «il saraceno». Era un uomo di grande fascino intellettuale. Le sue lezioni rappresentavano ogni volta un evento, popolavano l’aula non soltanto gli studenti, ma anche le signore della buona società, attratte da quella figura anomala, dal suo parlare limpido che esercitava sul prossimo un ascendente di cui era fin troppo consapevole nel suo voler piacere.
Inquieto, controverso, di grande talento, in lotta perenne con se stesso e con il mondo, era nato (nel 1882) a Polizzi Generosa, sui Nebrodi di Sicilia. Benedetto Croce l’aveva tenuto a battesimo, poco più che ventenne, pubblicando la sua tesi di laurea, Storia della critica romantica , elevandolo sul gradino più alto della cultura e non fu avaro di elogi, burbero com’era, scrivendo di un suo saggio su Gabriele d’Annunzio. Borgese visse così la giovinezza in quella privilegiata cerchia crociana, da critico amato e stimato dal sommo maestro .
Poi accadde l’irreparabile pagato a caro prezzo. Borgese non fu benevolo nel recensire lo studio del Croce sul Vico. Il gran patriarca che teneva in pugno la cultura italiana della prima metà del Novecento e non tollerava critiche, e neppure ragionevoli appunti, prese le distanze da quel suo precocissimo allievo: cominciò così un ostracismo durato per tutta la vita. Croce ebbe crude parole. Borgese, che non restò silenzioso, fu da allora stroncato, denigrato, insultato dai critici più autorevoli dell’epoca, da Renato Serra a Luigi Russo a Giuseppe De Robertis. Nel conflitto con Benedetto Croce e i crociani più fedeli contarono non soltanto le diversità del giudizio critico, ma anche quelle caratteriali. Il successo mondano di Borgese, da cui il Croce e i suoi, infastiditi, dicevano di rifuggire, era disturbante.
Fu un uomo solo G.A. Borgese, dopo Rubè pubblicato da Treves nel 1921 e dedicato alla moglie Maria. Scrisse altri libri di valore, anche se dimenticati come I vivi e i morti , firmò critiche non soltanto militanti, raccolte nei tre volumi di La vita e il libro , ebbe intuizioni intelligenti. Fu lui a definire così i poeti crepuscolari e a scoprire con un elzeviro sul «Corriere della Sera», il 21 luglio 1929, Alberto Moravia che aveva pubblicato a sue spese Gli indifferenti , il romanzo di un giovane allora ignoto. Fu ancora lui a far conoscere a chi amava i libri le letterature non soltanto europee.
Malvisto dai fascisti, giudicato rinunciatario per le tesi sostenute durante e dopo la Grande guerra sulla questione dalmata, era considerato un nemico ancora dieci anni dopo. Subì minacce, alcuni dei suoi allievi furono aggrediti dai fascisti all’Università di allora in corso Roma a Milano. Accettò una cattedra di italiano all’Università della California e nel 1931 lasciò l’Italia. Fu uno dei 14 professori universitari che rifiutarono di firmare il giuramento di fedeltà al fascismo.
Maria Borgese, la signora della tovaglia, era tutta all’opposto, nel carattere e nei modi, dal tempestoso temperamento del marito. Fiorentina, poetessa, autrice di novelle e di romanzi, conobbe Giuseppe Antonio nella redazione della rivista «Hermes», fondata e diretta a Firenze dal futuro marito. Scrisse biografie narrative, soprattutto, immedesimandosi nelle romantiche passioni di personaggi femminili, La contessa Lara , il dramma d’amore e di morte di Eva Cattermole, e poi L’appassionata di Byron , Teresa Guiccioli, la nobildonna amata dal poeta.
Scrisse affettuosamente della «dolce Maria», Marino Moretti — la sua firma sulla tovaglia non manca — nel suo Il libro dei miei amici : «Come avviene spesso tra coniugi, contrastava al suo compagno di vita per il suo femminile riserbo, per il sentimento segreto, magari per la sua stessa biondezza e finezza botticelliana, la sua stessa fiorentinità che a poco a poco cedeva, anche nella parola, come appannandosi al contatto con l’energia e forza d’animo isolana che alla donna chiede la dedizione assoluta. Lei accettava senza sacrificio. Ma sacrificio doveva essere poi nella lunga attesa della fine, tratto tratto consolata dalla luce della sua arte, abbandonata per far posto a quella di lui, e infine ripresa come atto d’amore».
La tovaglia di lino bianco sembra un arabesco, o anche un disordinato campo di battaglia dove le forze in armi misurano gli spazi della loro autorità: a batter tutti nell’ipotetica gara è certamente Grazia Deledda. Nel 1915, quando fu invitata a Palazzo Crivelli, non aveva ancora vinto il premio Nobel (1926), ma certo doveva sentirlo a portata di mano. Quei suoi trenta centimetri di firma imponente indicano — non occorre, per capirlo, essere dei grafologi — l’alto concetto che la scrittrice aveva di sé. Discreto, umile quasi, appare invece Rabindranath Tagore, ospite nel 1923, che il Nobel l’aveva vinto dieci anni prima — chissà se quella sera era vestito all’indiana o all’europea — e Pirandello che vincerà il premio di Stoccolma nel 1934.
Le firme degli scrittori fanno la parte del leone sulla tovaglia, dove s’incontrano e si scontrano passatisti e avanguardisti, tradizionalisti, futuristi e surrealisti, vociani e nazionalisti, capiscuola di stili e di tendenze culturali differenti. Chissà se Maria Borgese era attenta nei suoi inviti alle amicizie e alle inimicizie, agli odi e agli amori che quei suoi ospiti dovevano avere l’uno per l’altro, alle loro affinità e inconciliabilità e li scaglionava con grazia.
Sono molti sulla tovaglia i nomi degli scrittori che spesso hanno poco o nulla in comune tra loro: Matilde Serao, Salvatore Di Giacomo, Stefan Zweig, Federigo Tozzi, Amalia Guglielminetti, Luciano Folgore, Jules Supervielle, Annie Vivanti, Sibilla Aleramo, Leonetta Cecchi Pieraccini, Massimo Bontempelli, FuturisMarinetti — firma così — e i più giovani, Alberto Savinio, Giovanni Comisso, Margherita Sarfatti, la futura apologeta di Dux , Guido Piovene, Aldo Palazzeschi, Cesare Zavattini, Vitaliano Brancati, Dino Buzzati, Corrado Alvaro.
Si capisce che esisteva allora una società intellettuale e politica viva, si intuisce che le persone si vedevano tra loro, scambiavano idee e opinioni, non stavano chiuse nei loro orti .
I musicisti non mancavano mai, compositori, direttori d’orchestra, cantanti d’opera: Alfredo Casella, Vittorio Gui, Gian Francesco Malipiero, Michelangelo Abbado, Ildebrando Pizzetti, Umberto Giordano, che scrisse sulla tovaglia qualche nota della sua Fedora, Balilla Pratella e con loro i tre Crepax, violinista, violoncellista, violista dell’orchestra della Scala e il maestro Antonio Guarnieri, il padre di Annamaria, la futura attrice .
Le arti, le scienze, la storia e la filosofia si mescolavano tra loro. Benedetto Croce fu ospite nel 1926, una firma che sembra impaziente, la sua. Si trovava quella sera in una terra di nessuno dove dominava «il saraceno», il suo antico allievo prediletto diventato nemico, ma vincevano ancora le buone maniere, e il filosofo era affezionato, lo sarà fino alla morte, alla bionda signora Maria. Con il Croce, Charles Du Bos, Antonio Banfi, lo storico dell’arte Adolfo Venturi, Ernesto Rogers, architetto dello studio BBPR; i critici Attilio Momigliano, Luigi Russo, Francesco Flora, Ugo Ojetti; Vittorio Emanuele Orlando, il presidente della Vittoria (mutilata); Alcide De Gasperi, Antonio Salandra, Alessandro Casati, Carlo Sforza, Tommaso Gallarati Scotti; i giornalisti Luigi Albertini, direttore del «Corriere», e suo fratello Alberto: mancavano cinque anni alla rottura con Mussolini e alla defenestrazione dal giornale. E poi Mario Missiroli, Orio Vergani, Enrico Emanuelli; l’editore Arnoldo Mondadori; i pittori Carlo Carrà, Felice Casorati, Aldo Carpi, Gabriele Mucchi, Arturo Tosi, Lorenzo Viani; la figlia di Tolstoj, Tatiana .
Maria Borgese amava il mondo del teatro. E in quegli anni furono in molti gli attori e gli autori a frequentare i saloni di Palazzo Crivelli: Sergio Tofano disegnò sulla tovaglia il Signor Bonaventura, firmarono, tra gli altri, Sem Benelli, Ugo Betti, Renato Simoni, Marco Praga, Sabatino Lopez, Dario Niccodemi, Angelo Musco, Dina Galli, Enzo Ferrieri, Luigi Cimara, Ruggero Ruggeri, Tatiana Pavlova e gli inarrivabili Giorgio e Ludmilla Pitoëff, i grandi attori russi. Ettore Petrolini, poi.
Fu ospite nel 1926, «l’aedo del nostro tragicomico tempo» come scriverà Mario Tobino (Sulla spiaggia e di là dal molo ), che lo vedrà recitare al teatro Eden di Viareggio: «Gastone usciva dalla quinta di sinistra, era vestito col frac, funebre di lucido nero, la pettorina bianca inamidata, le scarpe morbide di lucida pelle, galosce di un grasso pesce di fiume, il cilindro infossato sulle tempie. Entrando nella luce si infilava un guanto “bianco latte”, al quale, dall’orlo del polso, ne penzolava un altro, metafisico impiccato». Chissà com’era Petrolini, in borghese, nelle serate del Palazzo Crivelli. Diventava moscio e triste anche lui, fuori del palcoscenico, come succede ai grandi comici?
Che spavento per gli ospiti, una sera del 1921, vedere entrare nelle sale del Palazzo Crivelli il generale Luigi Cadorna, il responsabile della disfatta di Caporetto, con tutti i nastrini delle sue medaglie sul petto. Chissà se aveva in tasca, per mostrarlo, il famoso bollettino di guerra n. 586 del 28 ottobre 1917 da lui firmato, che dava tutte le colpe di quella tragedia — un grande condottiero davvero — ai reparti della Seconda Armata «vilmente ritiratisi senza combattere e ignominiosamente arresisi al nemico»? Un falso cui seguirono fucilazioni, decimazioni di uomini innocenti rimasti senza ordini, alla ventura. Forse quattro anni dopo il generale cercava il consenso anche di quegli intellettuali mentre l’Italia, già dimentica dei suoi clamorosi errori, gli dedicava strade, piazze, lapidi, monumenti.
E quale allucinata sorpresa, una sera del 1923, vedere entrare il cavalier Benito Mussolini, capo del primo governo fascista, che fece la sua firma sull’innocente tovaglia di lino bianco, lui, l’uomo nero. Ma non era un antifascista convinto G.A. Borgese, come sarà sempre nel corso della sua vita? Perché invitare Mussolini in quel covo che non era il suo? Il futuro duce andava alla ricerca di attenzione in un mondo che sentiva ostile? Era la vigilia del delitto Matteotti.
La tovaglia di lino bianco è anche una figurazione del Secolo breve , l’idea di Eric Hobsbawm che colloca il Novecento tra il 1914 e il 1991, tra la Grande guerra e il dissolversi dell’Unione Sovietica. La tovaglia ha una storia ancora più breve: dal 1915 al 1947 quando inizia un’altra gravosa guerra, quella fredda che tiene per decenni il mondo senza respiro.
Nel 1947 muore Maria Borgese e la tovaglia diventa un corpo morto, come il taccuino dalla copertina di stoffa a fiorami dove era solita annotare via via i nomi dei suoi ospiti.
Giuseppe Antonio, quando Maria scompare, non è ancora tornato dagli Stati Uniti. Nel 1937, ha scritto, in inglese, un profetico saggio, Golia. Marcia del fascismo , tradotto in italiano nel 1946. In America ha sposato, prima della Seconda guerra mondiale, Elisabeth, la figlia minore di Thomas Mann, e questo creò lacerazione e dolore.
Sulla tovaglia si incrociano i destini di molti che posero le loro firme, vittime e, anche, carnefici: Anna Kuliscioff morì a Milano nel 1925, Filippo Turati morì invece esule a Parigi qualche anno dopo; Giovanni Amendola morì a Cannes nel 1926 dopo il massacro subìto dagli squadristi del federale di Lucca, Carlo Scorza, a Montecatini, una notte di luglio dell’anno prima; Lauro De Bosis morì nel 1931, protagonista di un’azione romantica: volando a bassa quota sui tetti di Roma, gettò da un aereo manifestini antifascisti, quasi coriandoli, poi scomparve per sempre nel mare della Corsica. Eugenio Colorni fu assassinato a Roma dagli sgherri della banda Koch pochi giorni prima della Liberazione, nel 1944; Giovanni Gentile fu ucciso in quello stesso anno dai partigiani comunisti dei Gap di Firenze; Raffaello Giolli morì nel lager di Gusen nel 1945, Aldo Carpi, prigioniero nello stesso campo, riuscì a salvarsi, con il suo libriccino di disegni fatti in segreto là dentro. Che tragiche sorti ebbero non pochi degli invitati di quelle piacevoli serate, uomini e donne protagonisti della cultura del secolo che si incontrarono nelle grandi sale del Palazzo Crivelli, sui morbidi tappeti, sotto i lampadari scintillanti. Vittime della persecuzione contro gli ebrei, sui fronti di guerra, partigiani della montagna, esiliati, fucilati, impiccati, suicidi, morti nei lager.
Molti di quegli ospiti ebbero invece una vita folgorante, sempre in sella sotto ogni regime, vezzeggiati, onorati.
Altri ancora, chiusi nelle loro torri, non si accorsero neppure dell’incendio che aveva devastato il Novecento.

Repubblica 8.12.13
Ma quanto è triste questa psicoanalisi
di Norman Mailer


PerFreud era inconcepibile che non ci fosse una civiltà — a prescindere da quanto alto fosse il prezzo da pagare in termini di sofferenza individuale, di nevrosi, di allontanamento dell’individuo dai propri istinti. L’alternativa — un ritorno alla barbarie e allo stato primitivo — era semplicemente estranea al concetto culturale di Freud della vita. Poiché apparteneva alla bassa classe media ed era un ebreo mitteleuropeo affermatosi nella società borghese, Freud non fu soltanto lo specchio, ma in definitiva l’essenza stessa della cultura tedesca. Si potrebbe sostenere che la natura degli ebrei, il significato dell’ebraismo, non consista tanto nel sentirsi un popolo, bensì nel ricreare al loro interno, quasi fossero opere d’arte, i modelli di una cultura a loro sempre estranea. È dunque possibile che soltanto un estraneo riesca ad afferrare e comprendere meglio le consuetudini, le snobberie, il potere o anche la stabilità borghese, e che egli non prenda mai per scontati questi valori, ma li debba acquisire tramite un esercizio immaginativo della volontà, del talento e del coraggio sociale. Freud non era predestinato per nascita a diventare a quarant’anni un giovane e rispettato neurologo (sic) della società medica viennese: gli occorsero l’applicazione della sua precoce ambizione e la sottomissione di buona parte dei suoi istinti più ribelli per fare suoi la formazione, gli usi e gli atteggiamenti del medico viennese. Non sorprende quindi se, al momento di dedicarsi alla sua seconda carriera, con quel lungo ardimentoso passaggio nelle correnti sommerse del sogno, al termine del quale avrebbe creato niente meno che la religione imperante del Ventesimo secolo, l’etica cupamente razionale della psicanalisi, era già molto pretendere che si adoperasse a trasformare i presupposti stessi della società occidentale in una nuova visione di matrimonio, di famiglia e di uomo. Difficilmente gli si sarebbe potuto chiedere di più: che la visione fosse rivoluzionaria e che la ricerca non si concentrasse sui presupposti, ma sulle dinamiche. Pur di salvare quel mondo, Freud fu pronto a mettere in pericolo la sua stessa incolumità nel mondo borghese (del quale era entrato a far parte). Il suo amore non dichiarato fu sempre per la classe media, ma non era semplicemente nelle possibilità di un unico intrepido provocare due sovvertimenti di pensiero. La società era ma-lata, Freud se ne rendeva conto, ma la risposta inevitabile per lui era ridefinire la natura dell’uomo in modo tale da mantenere integra la società e così pure Freud nel suo studio e nella stanza dove riceveva. Se la civiltà era troppo pesante ai vertici e quindi instabile nelle sue strutture e istituzioni, e di conseguenza l’istinto era intaccato nella sua espressione e in grado di pervenire alla bellezza (la bellezza melanconica, sia chiaro) soltanto tramite la sublimazione, così doveva essere. L’uomo, per qualsiasi ragione, e la ragione ultima era misteriosa — Freud non aveva propensione alcuna per il misticismo — , doveva accettarsi per quello che era, un essere corrotto che può diventare un po’ meno corrotto senza mai riuscire a essere perfetto — , e in cambio la sua civiltà si sarebbe probabilmente evoluta e sarebbe diventata meno tragica. Ma questa era una visione rigida. In cambio dell’austerità, e la psicanalisi pura era austera, severa, inesorabile (in contrapposizione a varietà più amabili e amichevoli che oggi abbondano in un’America che ama il piacere), all’uomo sarebbe stata concessa quanto meno la dignità di conservare la propria civiltà. Non si può certo esagerare dicendo quanto ciò sia tipicamente da classe media e profondamente ebraico. Parte dell’elemento paradossale presente nell’atteggiamento mentale di Freud è che egli fu capace delle più fini distinzioni intellettuali e delle più sottili analisi del punto di vista contrario del dibattito, e tuttavia non possedette quasi nessuna autentica capacità come filosofo. A un livello molto alto, egli è si è elevato fino a diventare la quintessenza dell’uomo d’affari ebreo (con tanto di sigaro), e la totalità della sua filosofia in uno stato depresso poteva in definitiva essere quantificata come non molto di più di un profondo lamento, del tipo: «Non ho mai vissuto un periodo particolarmente positivo in vita mia, e il mondo è tutto un lupo mangia lupo, ma io ho creato una famiglia e l’ho tirata su prendendomi cura di lei, e chissà, i figli non danno mai retta ai genitori in ogni caso, ma forse costruiranno un mondo migliore, quantunque io ne dubiti. La cosa più importante è fare il proprio dovere, perché in caso contrario tutto diventerebbe caos. Quel che intendo dire, insomma, è dove finiremmo se tutti se ne andassero in giro a fare tutto ciò che vogliono?».
Questa cupa visione riuscì ad affermarsi al tempo di Freud, quanto meno fino alla Prima guerra mondiale. In seguito la percezione freudiana del possibile si incupì maggiormente, e la sua punta speculativa si avventurò nelle nuove acque profonde del misticismo, all’Eros si aggiunse Thanatos, la pulsione di morte si impegnò dialetticamente con la libido. Ma il misticismo è il boia dell’etica della classe media. La stabilità della borghesia è sempre dipesa da una separazione schizofrenica (sic) del potere della religione intesa come istituzione dalla religione intesa come rivelazione personale di Paradiso, Inferno, Eternità, anima, Dio, e destino dellal’Uomo. Il misticismo ha la spiacevole facoltà di fondere insieme vita pubblica e privata del singolo, presenta come sua ultima minaccia la subordinazione all’istinto della ragione, anche se la società domina l’istinto con la ragione. Freud è stato l’ultimo genio della società del Ventesimo secolo, e dopo di lui ci sono stati soltanto i suoi emuli. Alla sua morte, avvenuta nel 1939, la rovina del suo mondo gli appariva ormai chiara. Proprio mentre scivolava in quell’oscura notte, sulla quale si era rifiutato di fare congetture, l’ultimo ideatore della civiltà sentì abbattere tutte le paratie.
Ed effettivamente calò una notte oscura, perché la guerra all’istinto che era stata il presupposto logico progressista del XIX secolo, il prodotto del periodo vittoriano — per così tanto tempo da sembrare vincente — , fu travolta e degenerò al punto da non essere più riconoscibile nei campi di concentramento e nella bomba atomica. La diga della civiltà esplose al cospetto dei flussi soffocati dell’istinto, e perfino quando le palizzate furono travolte dalle forti ondate, rimase una paralizzante ironia, le macerie della civiltà si dissolsero nell’istinto e ne alterarono il linguaggio; gli uomini non furono assassinati a milioni ma sterminati, le scorie atomiche non furono una lenta fatalità ma un fall-out. Forse sarebbe meglio ricorrere all’immagine di Freud del cavaliere e del cavallo, della ragione che controlla l’istinto, del super-ego che tiene le redini, dell’id che è il cavallo, e del cavaliere che è l’ego che incoraggia o reprime le diverse irruenze dell’animale. Secondo quell’immagine, selvaticità del cavallo è controllata a spese della fatica del cavaliere, ma uno va dove desidera andare, quantunque non sempre al passo desiderato. Questa era l’immagine centrale della psicologia di Freud, una civiltà che montava un nobile animale selvatico, ma con risultati imprevisti. Perché l’animale non era controllato troppo poco, ma di gran lunga un po’ troppo, e avvicinandosi alla sua morte il cavallo si imbizzarrì e si avviò verso un dirupo. Anche il cavaliere però era impazzito, la sua fatica altrettanto immane. Cavallo e cavaliere non erano mai stati fatti l’uno per l’altro, e al galoppo verso il dirupo il cavaliere utilizzò i suoi speroni, non le redini, e in questo preciso momento corrono il rischio di saltare insieme, ciascuno di essi avvelenato e folle di frustrazione. (...) Non varrebbe la pena ricordare che Freud aveva un rispetto viscerale per i significati di ansia e paura, se non fosse che i suoi seguaci hanno ridotto questi concetti a campanelli d’allarme, al segnale di un malfunzionamento della mente. Ansia e paura sono trattati da loro come dati di fatto, come uno scontro di ingranaggi in un gesto nevrotico. La comprensione primitiva della paura — da cui si era colti parlando con gli dei, i demoni e gli spiriti, così da essere naturalmente consumati dallo sgomento, dal turbamento e dal terrore — è tutt’altro che dimenticata. Ci insegnano che proviamo ansia perché siamo sollecitati da impulsi inconsci ritenuti inaccettabili a livello sociale. Ci dicono che la paura è il ripetersi di esperienze di inermità assoluta vissute nella prima infanzia. È indotta in noi da situazioni che ricordano al nostro inconscio lo svezzamento e altre privazioni nella prima parte della nostra vita. Ciò che non si esamina mai è l’eventualità che noi si possa provare ansia perché corriamo il rischio di perdere una parte o una certa qualità della nostra anima a meno di agire, e quindi agiamo pericolosamente. O anche la probabilità che noi si possa provare paura quando le minacce di morte ci ispirano un terrore spropositato, uno spavento dovuto non soltanto al fatto che moriremo, ma, al contrario, al fatto che moriremo male, patendo qualche insopportabile costrizione per l’eternità. Queste spiegazioni sono nell’insieme estranee a ciò su cui si concentrano le scienze psicologiche nel Ventesimo secolo. No, il nostro secolo, quanto meno il nostro secolo americano, è una casa di convalescenza per veterani feriti nel corso di una guerra bimillenaria, l’immane lotta all’interno del cristianesimo per affrancare o distruggere la visione dell’uomo.
Messi di fronte al nostro fallimento (perché sembrerebbe quasi che la guerra sia stata contro di noi), gli indagatori della mente umana hanno iniziato a presentarsi nelle vesti di tranquillizzatori intellettuali. A dominare la filosofia anglo-americana sono il Positivismo Logico, gli esperti di logica, gli analisti del linguaggio, non gli esistenzialisti. A predominare in psicoanalisi sono i Freudiani, non i Reichiani o gli Junghiani. E più dell’arte, è il giornalismo a dare forma alla coscienza apatica della nostra epoca. Così, parimenti, è la politica più della moralità a improntare l’attenzione morale della nostra epoca. Poi, però, la politica, come il giornalismo, è concepita per tenerci nascosto l’abisso esistenziale della paura, il terrore che sta dietro al nostro essere calmi. Oggi un politico di successo non è un uomo che lotta con l’ingiustizia, ma è al contrario uno specialista in comunicazioni di massa, che può quantificare il proprio successo in base alla pratica di un rituale e di un lessico politico che ci distoglie temporaneamente dalla paura, dall’ansia, dallo specchio del sogno, da ciascuno di quei profondi stati emotivi che la politica è progettata per nascondere.
A New York tra due membri del Junior Jet Set ho avuto modo di ascoltare la seguente conversazione: «Non so che cosa fare. L’ultima volta che ho avuto bisogno di soldi ho scritto ai miei genitori e ho detto loro che dovevo abortire. Ma sono passati soltanto tre mesi. Mi chiedo se non sia troppo presto per dire loro che ho bisogno di un altro aborto».
«Di’ loro che questa volta si tratta di un negro».
«Buona idea».
Molti anni fa, facendo visita a un amico malato, venni a conoscenza del suo passatempo. Si dà il caso che fosse un attore, ma la sua indole non era dissimile da quella di un gioielliere o di un collezionista. Raccoglieva citazioni. Ogni volta che in un libro o in un poema si imbatteva in un’espressione che gli piaceva in modo particolare, la annotava in un taccuino che teneva per questo scopo, uno splendido taccuino di ottima carta rilegata in pelle rossa. La sua idea, naturalmente, non era nuova. La maggior parte di noi ha iniziato più di una volta a tenere un taccuino di questo genere. A distinguere la sua raccolta da quella di chiunque altro è che egli la coltivò per anni, e ne fece uso...
(Traduzione di Anna Bissanti) © 2013 by the Estate of Norman Mailer

Repubblica 8.12.13
Uno scrittore senza romanzo
di Irene Bignardi


Era ebreo, nipote di un rabbino, laico, figlio di una turbolenta famiglia di Brooklyn, e a modo suo bello, di una bellezza dura, proletaria, da piccoletto che porta in giro una gran faccia, una perenne vivacità. Norman Mailer è stato l’autore di trenta libri, tra cuiIl nudo e il morto, La costa dei barbari, Un sogno americano, La canzone del boia, The Spooky Art.Ha scritto di guerra e di pugilato, dei corridoi del potere e di sesso, di Hollywood e dell’antico Egitto, della Cia e di Gesù Cristo, in un vangelo apocrifo (Il vangelo secondo il figlio)che la dice lunga sulla sua ambizione, visto che è raccontato in prima persona, da lui, Gesù/Mailer. Ha fatto del new journalism un’arte (vedi Le armate della notte).
Ha avuto sei mogli (in sequenza), nove figli e un numero imprecisato di nipoti. È sempre stato un egomaniaco in lotta con se stesso (e qui spunta Freud), un machista conclamato (vedere le sue pagine su Marilyn Monroe per intendere), un antifemminista brutale e confesso (anche se ha cercato di rimediare in zona Cesarini, lodando le “scrittrici”, tante e brave), un uomo perennemente tentato dalla violenza (lo scontro con la seconda moglie è finito a coltellate o a forbiciate, le versioni sono confuse, ma il risultato è lo stesso, la terza ha preferito il convento). Un outsider della politica che coltivava ambizioni politiche (si è candidato a sindaco di New York), ma che beveva e si faceva. Uno scrittore che ha avuto ogni riconoscimento e guadagnato soldi a palate — ma li ha dissipati con generosità. Oltre che generoso era simpaticissimo, estroverso, curioso. Ma, almeno a sentire i custodi del “canone” letterario, non ha mai scritto il romanzo che tutti si aspettavano da lui, il “grande romanzo americano”, la storia autobiografica del ragazzino geniale di Brooklyn che diventa il portavoce della sua generazione, il Bildungsroman dell’America a cavallo della guerra. Perché
Il nudo e il morto e il successo precoce che ne è derivato gli hanno lasciato un segno per tutta la vita. Perché quelle ottocento pagine scritte a venticinque anni, nel 1948, l’esperienza durissima «dell’orgia della guerra» che le ha ispirate, e il riconoscimento generale che le ha accolte hanno prodotto il paradosso di un’angoscia da secondo libro, di un blocco dello scrittore in uno scrittore che invece ha scritto, e tanto, eccome, ma senza mai concedersi la soddisfazione di ritornare aquel successo, aquei riconoscimenti.
La biografia uscita ora in America (Norman Mailer: A Double Life)si interroga sul perché Mailer, nella sua fluviale produzione di romanzi, saggi, testi, non abbia mai affrontato il tema della sua giovinezza a Brooklyn. Voleva risparmiare la sua famiglia, si chiede l’autore, J. Michael Lennon, o se stesso? C’era qualcosa che voleva nascondere o, al contrario, c’era troppo poco? A quanto pare, anche Lennon non ha trovato una risposta. Salvo alcuni dettagli autobiografici scoperchiati da Mailer stesso. Che diceva di essere stato, nella sua infanzia, fisicamente, «un codardo». È per questo che ha passato buona parte della sua vita a fare a cazzotti? Non scrisse della sua prima giovinezza perché non voleva esporre le memorie familiari o perché non lo ispiravano? Mailer confessava di non saper inventare, di saper solo raccontare le cose veramente accadute. Per questo amava il giornalismo. Per questo restano grandi, di lui, i libri dove ha messo la vita sua e altrui, dove parla di passioni vere, dove, da cronista, racconta la vita. Fossi al posto dei grandi critici americani mi accontenterei. E pazienza per Brooklyn.

Repubblica 8.12.13
E l’ebreo errante si ritrovò a destra
di Gad Lerner

Sarebbe bello poter riflettere serenamente sull’attuale presenza ebraica nelle classi dirigenti occidentali, ma questo rimane un terreno minato su cui pochi studiosi osano avventurarsi. Siamo condizionati dalla frequenza con cui sul web vengono tuttora diffuse oscene liste di proscrizione, miranti a dimostrare che gli ebrei occupano posizioni di rilievo nella finanza, nella ricerca, nell’editoria e nel cinema grazie alla loro presunta «subdola attitudine cospirativa ». Trent’anni fa venne accolta con gelo la ricerca dello storico americano William D. Rubinstein in cui si quantificava la sovrarappresentazione ebraica ai vertici delle professioni intellettuali, dopo che il proletariato ebraico era stato cancellato dal suolo europeo. Gli sopravvivevano delle élites borghesi, finalmente integrate nell’establishment e come tali orientate su posizioni conservatrici.
Ora a occuparsi di questa materia incandescente è uno studioso italiano di formazione marxista, Enzo Traverso, le cui opere sulla Germania nazista e sulla Shoah sono tradotte in una dozzina di lingue. Traverso racconta (non senza rimpianto) il passaggio storico dell’ebraismo in cui si ridimensiona la corrente del pensiero critico, se non addirittura rivoluzionario, da Spinoza a Heine, da Marx a Freud. L’esito è l’esaurimento di una felice anomalia, come recita il titolo del libro:La fine della modernità ebraica. Dalla critica al potere.
Nel mondo contemporaneo emergono altri portavoce del pensiero ebraico, legati organicamente alla cultura liberale conservatrice: da Raymond Aron a Leo Strauss, da Saul Bellow a Elie Wiesel. A simboleggiare il passaggio d’epoca Traverso assume due opposte icone novecentesche: l’ebreo russo Lev Trockij, emblema dell’internazionalismo, e l’ebreo tedesco naturalizzato americano Henry Kissinger, emblema dell’imperialismo statunitense. Naturalmente la prima edizione francese del libro ha già suscitato numerose reazioni stizzite nelle comunità ebraiche.
La nascita dello Stato d’Israele, che molti assumono come baluardo dei valori e degli interessi occidentali nel mondo, accende sentimenti forti. Ma sarebbe meglio evitare schieramenti di comodo. Gli ebrei nei secoli sono stati, anche loro malgrado, protagonisti di una globalizzazione ante-litteram. Dopo la rivoluzione francese si sono ritrovati al centro della modernità nel commercio, nella mediazione linguistica, nel diritto. Il loro cosmopolitismo ne ha fatto il nemico naturale dei nazionalismi. Dai marrani spagnoli e portoghesi fino alla forzata condizione di apolidi o paria descritta da Hannah Arendt, la loro collocazione è risultata necessariamente eccentrica rispetto agli assetti di sistema. Anche coloro che si distaccavano dalla tradizione religiosa, gli “ebrei non ebrei”, impersonavano una disperata speranza messianica (Kafka, Benjamin) — non importa se letteraria o politica — risultata indomabile dallo stesso razionalismo illuminista.
Tutto questo è venuto meno con la distruzione della presenza ebraica in Europa, con l’emigrazione di massa negli Usa e con la nascita dello Stato d’Israele? Anche Traverso riconosce che il passaggio non è così automatico. Una corrente critica persiste e talvolta entra in rotta di collisione col sionismo (si veda in proposito il saggio di Judith Butler Strade che divergono, Cortina). In Israele non manca chi manifesta fastidio per il «filoebraismo invadente», definizione di Yitzhak Laor, che contraddistingue la destra occidentale bisognosa di emendarsi dalla colpa del suo trascorso antisemitismo. Ma si tratta indubbiamente di posizioni minoritarie. Più di frequente il messianesimo ebraico è propenso ad assumere Israele come evento provvidenziale di redenzione. Ne scaturisce una nuova “religione civile” che si legittima rivendicando allo Stato ebraico il ruolo (ambiguo) di unico legittimo portavoce delle vittime della Shoah. Così, per la prima volta nella storia, ebrei e estrema destra non sono più incompatibili, essendo venuta meno la barriera dell’antisemitismo. In Francia un ebreo può votare Le Pen, in Italia può simpatizzare per La Russa. Riuniti spesso anche dal sentimento comune dell’islamofobia.

LA FINE DELLA MODERNITÀ EBRAICA di Enzo Traverso Feltrinelli pagg. 192 euro 19