lunedì 9 dicembre 2013

SIMONA MAGGIORELLI A PAGINA 3

l’Unità 9.12.13
Civati è deluso: «Ma sarò leale, anche con Letta»
Puntava almeno al secondo posto, il deputato lombardo che resta invece «terzo incomodo»
«Io e Matteo come Veltroni e D'Alema? Loro erano più simili di quanto lo siamo noi»
Pronto a collaborare, ma avverte: in un anno di governo con Alfano anche Matteo si logorerà
di Andrea Carugati


ROMA I primi dati che arrivano intorno alle 21 non sorridono a Pippo Civati: 13%, una cifra che lo inchioda al terzo posto, a una distanza di 5 punti da Cuperlo, che sta al 18%. La rimonta sognata nelle ultime due settimane dall'outsider resta un sogno. Il successo della campagna sui social network, e la buona performance al confronto su Sky, non sono bastate. Eppure il deputato di Monza, classe 1975 come Renzi, una laurea in filosofia e una carriera universitaria interrotta per la politica, ci aveva sperato. Non tanto nella vittoria di cui parlava a raffica negli ultimi giorni, ma in un exploit che lo proiettasse dietro al «gemello diverso» Matteo Renzi.
E invece no. Al comitato allestito in via dei Frentani, una struttura della Cgil a pochi metri dalla stazione, la delusione è palpabile. Per tutto il pomeriggio i ragazzi dello staff guidati da Paolo Cosseddu sfoggiano sorrisi, compulsano Twitter e Facebook dove, in effetti, i trend topic lanciati da Civati (come #vincecivati e #civado) hanno funzionato alla grande. «Vedrete, ci saranno dei risultati sorprendenti», assicurano. Ma la rimonta non c'è. Certo, Civati supera il 9% raggiunto tra gli iscritti, ma negli ultimi giorni il «terzo incomodo» si era convinto di poter fare molto di più. Soprattutto dopo gli endorsment di Fabrizio Barca e Stefano Rodotà, e la decisione di Romano Prodi di andare alle urne. «Renzi ha stravinto», è il commento laconico che arriva dallo staff quando ormai le proiezioni inchiodano Civati tra il 13 e il 15%.
Il candidato arriva a Roma poco prima delle 20, a bordo di un Frecciarossa partito da Milano, subito dopo il voto nella sua Monza. Due tappe, prima della Capitale: un seggio della Bolognina, e uno a Firenze, Varlungo, a pochi metri dal teatro dove è stato allestito il quartier generale di Renzi. Per tutta la giornata non perde il tono scanzonato della sua campagna, fatta nei panni abbastanza comodi dell'outsider che non ha nulla da perdere e si concede una battuta dietro l'altra.. Con due obiettivi chiari: presentarsi come il candidato che riunisce in sé due caratteristiche, «novità» e «sinistra». «Renzi è nuovo, anche se molto meno dell'anno scorso. Cuperlo è di sinistra ma innova poco. Io racchiudo entrambe le caratteristiche».
La buona campagna condotta in questi mesi lo mette al riparo dai rimpianti: «È stata un'esperienza bellissima, di più non si poteva fare». «L'affluenza alta è un bene per me, e soprattutto che sia stata alta al Nord», confida poco prima che i seggi chiudano. Meno positivo aver visto alle urne moltissimi anziani. «Io non ho incontrato nessuno più giovane dei miei genitori. Questo può penalizzarmi».
BENE SU TWITTER
La campagna #vincecivati su twitter ha spopolato negli ultimi giorni. Lui non ha mai fatto mistero di puntare sui un elettorato under 40, molto digitale ma anche tendenzialmente diffidente verso la politica. L'outsider, sceso dal treno, spiega che «quel vinciamo era un modo per smuovere le acque». L'obiettivo vero era il del secondo posto dietro a Renzi, con la speranza di poter essere decisivo nella futura governance del partito. L'altro rammarico riguarda il voto di fiducia previsto mercoledì in Parlamento: «È troppo a ridosso delle primarie. Ci voleva più tempo per discuterne, non si mette un voto di fiducia tre giorni dopo il congresso del Pd». Civati però si dice disponibile a rientrare nei ranghi anche rispetto al governo Letta: «Io ho sottoposto agli elettori la mia proposta che prevede le elezioni al più presto. Se la proposta non passa mi adeguerò alle decisioni del partito».
Anche nel giorno del voto Civati ricorda la vicenda di Prodi e dei 101. «Da lui un gesto di generosità straordinaria. Lui se che è un “grande elettore”, a differenza di quelli che l'hanno tradito per il Quirinale». Prodi e l'Ulivo sono stati uno dei pilastri della campagna di Civati. Il tema dei 101, ormai accantonato nei palazzi, ma ancora molto vivo tra gli elettori, è stato un leit motiv nelle decine di incontri, dal Friuli fino a Taranto passando per i distretti di eccellenza delle Marche ora in crisi. Con lui si sono schierati tre fedelissimi del Professore come Sandra Zampa, Giulio Santagata e Albertina Soliana. E a Bologna i civatiani hanno utilizzato i vecchi manifesti dell'Ulivo del 1996, per segnare un filo di continuità tra quella stagione e la proposta del deputato di Monza. Tra i ragazzi dello staff del Frentani, moltissimi sono convinti che «il Prof ha votato per noi». A Bologna, sul treno del candidato sale anche Elly Schlein, giovane protagonista di OccupyPd e ora candidata nelle sue liste per l'assemblea nazionale. È stata uno dei volti giovani di questa campagna, insieme all'economista bolognese Filippo Taddei, e alla piccola truppa di parlamentari guidata da Laura Puppato, Walter Tocci, Felice Casson, Veronica Tentori e Luca Pastorino. Alla fine Civati ha superato la quota di 100mila nella raccolta fondi, superando di poco anche Matteo Renzi, con oltre mille donatori. «Lei e Renzi sarete i D'Alema e Veltroni del futuro?», gli chiedono. «Detta così mi pare inquietante, forse mi ritiro», scherza Civati. «Veltroni e D'Alema, in realtà erano molto più simili tra loro di quanto lo siamo io e Renzi». Lui ora si mette sulla riva ad aspettare: «In un anno di governo con Letta e Alfano anche Matteo si logorerà».

l’Unità 9.12.13
Sandra Zampa
«Ho scelto Civati perché con lui non c’è neanche un pezzo di nomenclatura In Cuperlo non c’era Ulivo Renzi perfetto su le legge elettorale e bipolarismo»
«Un buon risultato Pippo meglio di Bindi»
di Osvaldo Sabato


«Quello di Pippo Civati è un buon risultato, ricordo che Rosy Bindi prese l’11% ed Enrico Letta il 9%. Lui è uno che si è sudato tutto centimetro per centimetro, senza media, senza soldi e senza nomenclatura», commenta a caldo Sandra Zampa, parlamentare bolognese e portavoce di Romano Prodi. «Di Pippo mi è piaciuta la sua capacità di trasmettere entusiasmo ai giovani», aggiunge Zampa, spinta anche dai suoi nipoti a sostenere Civati. «Zia, devi stare con lui perché è bravo davvero» è stato l’input di famiglia. Oltre due milioni di persone si sono presentate ieri ai circoli e gazebo del Pd, che ha mantenuto in basso al suo simbolo un ramoscello d’Ulivo. Numeri inattesi di questi tempi. Forse ogni oltre previsione. Ora con Renzi segretario cosa cambia per il Pd? «Mi sembra tutto, mi sembra che da questa fotografia esca un Pd completamente nuovo e migliore, perché prevale la scelta del nuovo».
Prodi prima ha detto che non avrebbe votato e poi ha cambiato idea. È rimasta sorpresa?
«Sì. Perché è forse la prima volta che lo vedo ripensare una decisione annunciata pubblicamente, normalmente lui è sempre molto tenace nelle sue scelte. Ma gli ha fatto cambiare idea quanto è successo in questi giorni: il timore di una presunta bassa partecipazione, la sentenza della Consulta sul Porcellum e la conseguente violenta delegittimazione delle istituzioni e della democrazia. Fatti che lo hanno veramente molto preoccupato».
Ora il Professore raccomanda a tutti nel Pd di fare squadra.
«Una squadra, che vinca e che sia unita. Perché questo partito resta pur sempre l’unica speranza di questo Paese». Lei ha appoggiato Civati, perché non Renzi o Cuperlo?
«Le ragioni sono diverse. Una è che Civati lavora in una zona di confine, che è la più difficile e scomoda, ed è quella fra i delusi e fra quelli che hanno anche deciso di cambiare partito, votando, per esempio, il movimento di Grillo alle ultime elezioni. Credo che questa sia la più grande delle colpe che noi ci dobbiamo rimproverare e chi lavora per riconquistare questa gente meriterebbe un premio, perché se noi non riconquistiamo questi elettori le prossime elezioni non le vinciamo più. Poi mi piace la sua idea di partito partecipato e leale, l’ho scelto perché è coraggioso e non si è nascosto dietro ai capibastone e ho scelto Pippo perché con lui non c’è neanche un pezzettino della nomenclatura. Bisogna rimettersi a disposizione del partito, queste cose le ho viste fare da Prodi e l’ho visto vincere perché è un uomo generoso».
Civati iniziò a fare politica con l’esperienza dell’Ulivo. In Renzi e Cuperlo quanto Ulivo c’è?
«In Cuperlo non ci ho visto nulla di Ulivo. In Renzi, mi sembra che ci sia un pezzo di storia che coincide, in lui c’è l’idea del bipolarismo e dell’alternanza secca, che per noi sono discriminanti, per noi non può andare bene una legge elettorale qualunque, non può andare bene che rinunciamo alla democrazia competitiva perché si può fare in un altro modo, mi pare che Renzi queste cose le abbia chiare. Quando ha parlato di bipolarismo e di legge elettorale, riconosco che obiettivamente corrisponde esattamente all’idea originaria dell’Ulivo».
Sul governo lei la pensa come Civati? Più volte ha detto che bisogna tornare presto alle urne.
«Io ho sempre pensato che noi avremmo dovuto scegliere un governo di scopo e se avessimo fatto così Letta avrebbe avuto una vita più facile. E aggiungo che sia bene che la democrazia torni presto alla sua normalità, perché è molto tempo che gli italiani non sono governati da un governo che hanno scelto. Quindi si faccia velocemente la legge elettorale, poi andare presto a votare dovrebbe essere un obiettivo di tutti».

il Fatto 9.12.13
La sorpresa
Civati via sms: “Vabbè Matteo, così non vale!”
di Alessandro Madron


Pippo Civati è rimasto chiuso a lungo in una stanza del centro Frentani di Roma, quartier generale del suo comitato elettorale. Chiuso dietro una porta assieme ai suoi collaboratori in attesa del risultato definitivo delle primarie del Pd. Il risultato aveva già preso forma quando, dopo le 22, il Pierino democratico, un po’ scosso, ha deciso di aprire quella porta.
UN SILENZIO prolungato, quello di Civati, che la dice lunga sulla delusione per un risultato parecchio al di sotto delle aspettative e delle speranze. Nel pomeriggio di domenica, in un moto di entusiasmo, aveva confessato di sperare in un risultato al di sopra del 20%, di volersi lasciare alle spalle Gianni Cuperlo e arrivare secondo in questa folle corsa alla segreteria del Pd. Alla fine la dimensione romantica dell’armata artigianale e movimentista che lo ha accompagnato in questa avventura non è bastata a convincere l’elettorato democratico.
“Va beh, così però non vale…”.
Questo il testo dell’sms che Pippo Civati ha detto di aver inviato a Renzi: “la sua è una vittoria piena, è stato più bravo di noi e bisogna riconoscerlo”. Poi ha ribadito che i temi proposti durante le primarie non vengono chiusi in un cassetto ma rimangono attuali: “Io non so cosa farà il Pd mercoledì con la fiducia a Letta, ma la questione della durata delle larghe intese rimane e la prossima dirigenza del partito dovrà affrontare la questione”. Al di là delle dichiarazioni rilasciate a caldo, cosa succederà veramente nello spumeggiante mondo di Pippo Civati, il Pierino del Pd, lo si scoprirà solo vivendo. Certo. È arrivato terzo, ma il distacco da Gianni Cuperlo è minimo. “Sono arrivato terzo, ma a poca distanza dal secondo” e poi, ancora: “Io voglio leggere questo dato come un cambianto radicale della sinistra italiana”. Il lavoro di Civati dunque continua e riparte dalla provincia italiana “che dobbiamo saper riconquistare”.
Stando accanto all’outsider della competizione durante il suo viaggio a tappe verso Roma, da Monza alla Bolognina e poi a Firenze, le divisioni del Partito Democratico sono emerse in tutta la loro lacerante profondità. A vederlo da vicino Pippo Ci-vati, il filosofo che non si vergogna a dirsi di sinistra, un po’ vanesio e un po’ sognatore, sembra ancora più distante dalla figura ingessata di Gianni Cuperlo. “Io se avessi tra i miei uno come D’Alema gli suggerirei di andare in vacanza” dice ai suoi durante il trasferimento verso la stazione di Firenze, dimenticandosi forse per un attimo di avere un giornalista al seguito: “Ma avete sentito cosa ha detto? Ha detto che siamo un pericolo per il paese. Noi, un pericolo per il paese. Ma come si fa a dire una cosa del genere?”.
E di Cuperlo Civati si dice sorpreso. “Mi ha appena mandato un messaggio del cavolo – ha raccontato mentre a 300 km orari sfreccia nella nebbia della Pianura Padana -. Ho scritto sia a lui che a Renzi per fare gli auguri, ma Cuperlo mi ha risposto in maniera molto fredda e distaccata… dopo tutto quello che mi ha detto fa anche l’offeso, non capisco”.
POI, NELL’ATTESA che prenda forma il nuovo gruppo dirigente targato Matteo Renzi, con le lacrime agli occhi e la voce rotta dall’emozione Civati ha chiuso ringraziando tutti, facendo intendere che continuerà a combattere assieme ai suoi: “Avremmo sperato in proporzioni diverse, è inutile negarlo, vorrei che il Pd trovasse un po’ di orgoglio e un po’ di coraggio. Con questo gruppo dirigente possiamo vincere le elezioni, possiamo immaginare che settimana prossima ci sarà un nuovo sistema elettorale”.

La Stampa 9.12.13
Civati
La sfida (mancata) del movimentista: essere il Renzi di Renzi
Pippo è deluso, ma può fare il pungolo del segretario
di Michele Brambilla


ROMA Si presenta alle ventidue e cinque con gli occhi lucidi ma con la consueta voglia di scherzare: «Ho mandato un sms a Renzi con scritto: “Va be’, così non vale...”». Il suo discorso è breve e un po’ dimesso, anche se rivendica con orgoglio di essere stato Davide contro Golia: «Abbiamo fatto una corsa difficile, gli opinionisti dicevano che non avremmo passato il 5 per cento. Invece abbiamo trecentomila voti, che sono un nuovo inizio per noi. La nostra campagna non finisce qui».
Civati ripeteva che avrebbe vinto, ma non ci credeva neppure lui. Aveva però un obiettivo realistico: ottenere un risultato che gli permettesse di diventare il Renzi di Renzi: cioè il pungolo del rinnovamento, colui che avrebbe fatto apparire già vecchio il nuovo. Per ottenere tutto ciò, aveva impostato tutta la sua campagna elettorale su un punto: dimostrare che c’è sempre qualcuno più giovane.
Insomma la stessa storica arma di battaglia di Matteo Renzi. Solo dodici mesi fa, la gioventù al potere era il sindaco di Firenze. Il quale proprio sull’anagrafe aveva puntato tutto il suo appeal. Alle primarie contro Bersani iniziava sempre così i suoi comizi: facendo vedere le immagini di venticinque anni prima, con il mondo ancora diviso dal Muro di Berlino, con Baggio e Maradona, con la Prima Repubblica. Renzi faceva vedere tutto questo e diceva «ricordate? Non c’erano ancora i telefonini eppure in Parlamento c’erano già Bersani D’Alema e Veltroni». Era perfino andato in tv da Maria De Filippi con il giubbetto di Fonzie. Insomma Renzi era il vento nuovo che batteva alla porta.
Ma siamo in un mondo che divora tutto rapidamente, e così è bastato un anno per pensare che Renzi potesse passare, nell’immaginario degli elettori Pd, dalla parte dell’establishment e il suo ex sodale diventato sfidante, Pippo Civati, in quella movimentista. Di fronte a un Renzi che sarebbe comunque diventato segretario, Civati ha cercato così di porsi come un’opzione per il futuro. Non per una questione di data di nascita: ci sono solo sette mesi di differenza, a favore di Pippo. Non era neppure questione di contenuti politici, perché in fondo la visione della sinistra di Civati è più tradizionalista di quella di Renzi. È questione di un’altra cosa, una cosa che ormai da molto tempo in politica è quasi tutto: l’immagine.
Il confronto su Sky aveva dato buone speranze a Civati, che era parso più efficace, più nuovo e più giovane appunto.
Era sembrato il coronamento di tutta una campagna elettorale che aveva avuto, rispetto a quella di Renzi, l’immagine di un qualcosa di più povero e artigianale, e quindi di più spontaneo, immacolato. Soprattutto, Civati aveva dato l’impressione di essere più avanti proprio nel campo sul quale tanto aveva giocato il sindaco di Firenze: quello della rete. Il cammino dello sconosciuto Civati verso la notorietà era stato costellato di trovate come #civoti, come #civado, come il Civacalendar, come la geniale autointervista a un voto per me», ha detto ieri mattina entrando nel comitato elettorale di via Lecco a Monza, «anche perché l’unica volta che non mi sono votato, alle elezioni del liceo, ho perso, quindi porta male». Ha scherzato sui rivali: «Cuperlo ha annunciato che non vota per sé, e allora gli ho detto “Ma dai, già arrivi terzo, almeno votati tu”». Su Renzi: «Nel segreto dell’urna, Matteo vota Civati». Poi è partito in treno per Roma, facendo tappa, per salutare i volontari nei seggi, a Bologna (dove, alla Bolognina, ha finto «Che tempo che fa». Il recupero («recuperlo», altra battuta efficace) è cominciato da lì, dalla rete, per poi continuare con i metodi classici: la campagna porta a porta, il passaparola, il Salamella Tour.
Certo in questa rincorsa Civati non ha avuto un grande appoggio dal partito. Anzi. Siccome nessuno è mai profeta in patria, nemmeno nella sua città gli hanno dato una mano: il sindaco di Monza Roberto Scanagatti, del Pd, ha comunicato pubblicamente la sua scelta per Cuperlo. Ma in fondo pure la solitudine rispetto all’apparato poteva trasformarsi in un vantaggio: «avete visto? Io non ho niente a che fare con il Palazzo». Di certo Civati è uno che sa rendersi simpatico: «Io
avuto un piccolo battibecco con un anziano elettore renziano, e anche questa è una notizia: che ci siano anziani
elettori renziani a Bologna) e a Firenze. Sul treno da Firenze a Roma, esausto, ha dormito.
Con l’espressione un po’ tesa è arrivato a Roma, al suo comitato elettorale di via dei Frentani, dieci minuti prima della chiusura dei seggi. Quando sono arrivati i primi dati, è rimasto chiuso nella sala dello staff. La delusione dev’essere stata grande. Anche Renzi, un anno fa, aveva perso: ma era stata una battuta d’arresto che faceva presagire una rapida rivincita. Questa, per Civati, sembra una sconfitta più dura. Forse, una delle lezioni di questa storia è che non basta fare a gara a chi è più giovane.

Repubblica 9.12.13
Civati
Pippo si arrende all’ultimo posto “Renzi molto più bravo di noi la cosa migliore è il ritorno di Prodi”
E insiste per le urne: con questo gruppo possiamo vincere
di Mauro Favale


ROMA — «A commentare i dati scende Massimo D’Alema». Il senso per la battuta non lo perde nemmeno alla fine, quando ormai è chiaro che il suo #vinceCivati resterà solo uno dei tanti indovinati hashtag su Twitter. Pippo è partito terzo e terzo è arrivato, seppure non lontano dall’avversario su cui ha fatto la rincorsa, quel Gianni Cuperlo che sperava di superare all’ultima curva. E invece si deve accontentare del 14% e a nulla vale il mantra ripetuto per tutta la giornata: «Non pongo limiti alla provvidenza, vediamo se qualche soddisfazione ce la togliamo, se ci mettiamo davanti a qualcuno».
La speranza, però, naufragapoco dopo le 21, quando arrivano i risultati dei primi seggi: «Avremmo potuto fare molto di più, negli ultimi giorni confidavamo in un risultato migliore — confessa — siamo arrivati tuttimolto stanchi». Per dire, soltanto nelle ultime 36 ore, Civati è saltato dagli ultimi comizi in Sardegna a Monza per votare (nel seggio in cui sua mamma fa la scrutatrice) e poi, ieri, è passato da Bologna e Firenze, prima di arrivare a Roma alle 8 di sera. Quando scende dal treno, alla stazione Termini, però, c’è solo una telecamera ad attenderlo e nessun supporter. Non un buon segno, interpreta il suo staff. Fila via veloce verso il quartiere San Lorenzo e il centro Frentani, a due passi dall’università La Sapienza, dove una volta c’era la federazione provinciale del Pci. È qui che ha deciso di allestire il suo comitato elettorale ed è da qui che tende una mano a Matteo Renzi: «Con questo gruppo dirigentepossiamo vincere le elezioni e possiamo soprattutto farle, le elezioni», dice Civati confermando gli ultimatum lanciati al governo Letta durante tutta la sua campagna per le primarie.
Ora offre una sponda al sindaco di Firenze, «un ragazzo del ‘75 come me». E a chi gli chiede se tra i due nascerà una rivalità simile a quella che per anni è andata in scena tra D’Alema e Walter Veltroni, Civati risponde con una battuta: «Non so, detta così è inquietante, devo pensarci un po’: forse mi ritiro». Poi si fa serio e spiega: «Veltroni e D’Alema erano in realtà molto più simili tra loro di quanto lo siamo io e Renzi ». Lui, per ora, si candida a interloquire, da sinistra, col nuovo segretario. D’altronde, spiega, «questo è il vero momento di fondazione del partito». E dopo aver fatto una campagna da “vendicatore” di Romano Prodi contro i 101 franchi tiratori non dimentica di ringraziare il Professore per essere andato a votare: «È la cosa più bella di queste primarie », dice.
Prima di presentarsi alle telecamere, si chiude in una stanza insieme al suo giovanissimo staff, mangia qualcosa, esce ogni tanto a fumare una sigaretta, armeggia col telefonino. Niente Twitter, però. Manda invece un sms a Renzi appena capisce le dimensioni del distacco: «Vabbè, così non vale», gli scrive. Poi racconta: «La sua è una vittoria pienissima. Bisogna riconoscerlo: è stato più bravo di noi». A Cuperlo «rinnova la stima». E non si fa mancare ancora una stoccata a D’Alema: «Non mi è piaciuto molto e lo dico, perché sono sincero ».
Si consola guardando ai voti presi al nord, alla sua Lombardia dove sfiora il 19%, al Trentino dove arriva anche al 20 alla Valle d’Aosta, dove supera quota 21%, e al Veneto, al Piemonte e alle Marche le 6 regioni dove gli riesce il sorpasso su Cuperlo. Con l’incognita di Roma dove il testa a testa per la seconda posizione va avanti per tutta la notte. L’ultimo pensiero, però, va a merco-ledì, al voto di fiducia su Letta, alla sua posizione «non negoziabile » sull’esecutivo. Con un nuovo strattone al governo: «Rimane la questione della durata delle larghe intese: sarà compito della nuova dirigenza affrontarlo». E sul suo futuro dentro al partito non ha dubbi: «Abbiamo ritagliato uno spazio in cui all’inizio forse non si riconoscevano in molti, abbiamo posto temi ineludibili e così continueremo. Il Pd è un grande partito e deve trovare un po’ di orgoglio e di coraggio».

Repubblica 9.12.13
E ora la partita con la Cgil avversaria di sempre
di R. Ma.


ROMA — Non c’è nemmeno un renziano nel Direttivo della Cgil. Ed è la prima volta che il leader del partito erede anche della tradizione comunista non abbia alcun riferimento tra i dirigenti del più grande sindacato italiano (circa sei milioni di iscritti), casa comune da sempre di tutta la sinistra. Ora è quasi un sindacato senza più partito. «A suo modo una svolta epocale. Uno scenario inedito per il sindacato italiano che è vissuto di sinergie con la politica», sostiene Marco Revelli, politologo, studioso della crisi dei partiti. Cosa cambierà lo si potrebbe già capire oggi, dalle parole che Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, utilizzerà nel messaggio di congratulazioni che invierà al nuovo segretario del Pd. Perché la Cgil non ama Renzi. E Renzi non ama la Cgil. Però già ieri sera Camusso commenta: «Se ci rispetta, la Cgil sarà il suo interlocutore forte».
Nelle ultime riunioni del parlamentino di Corso d’Italia si è alzata solo una vocetendenzialmente simpatizzante verso il sindaco, quella di Beniamino Lapadula, ex responsabile del Welfare, ora consigliere del Cnel. Lapadula non si è schierato apertamente con Renzi ma è tra i firmatari del documento di Goffredo Bettini, l’ex coordinatore della segreteria Veltroni, regista dell’elezione di Ignazio Marino a sindaco di Roma che ieri ha votato per Renzi. Un documento, quello di Bettini, con un’accusa durissima al gruppo dirigente del Pd definito «oligarchico». «Renzi — dice Lapadula — può rappresentare una svolta per la prospettiva di governo del Paese. C’è bisogno di innovazioni profonde. Serve anche al sindacato. In Cgil ho voluto dire che non mi convinceva l’attacco a Renzi». Attacco capeggiato dal capo dei pensionati, Carla Cantone, e da quello dei bancari Agostino Megale.
Ora gli uomini dello staff della Camusso sostengono che nell’ultimo libro dell’economista renziano Yoram Gutgeld ci siano molte proposte della Cgil, finanche quella della patrimoniale. Ma è sul mercato del lavoro che Renzi la pensa come il giuslavorista ex pd Pietro Ichino. E allora quando quelle proposte arriveranno sul tavolo del partito lo scontro sarà probabilmente senza precedenti.
(r. ma.)

La Stampa 9.12.13
Cosa resta della sinistra?
una pagina con gli articoli di Sorgi, Riotta, Barenghi, Feltri

qui

l’Unità 9.12.13
Roma, Marino: «Ho votato il sindaco di Firenze»


«Ho votato Renzi perché ritengo che servano scelte chiare e nette». Lo ha detto il sindaco di Roma, Ignazio Marino, uscendo dallo storico circolo del Pd di via dei Giubbonari. «Matteo ha detto con chiarezza che vuole un sistema bipolare, una legge elettorale maggioritaria, che è ciò che ho sempre affermato anche in passato», ha spiegato.
«Il Paese vive la crisi ormai da anni, servono scelte nette, quei sì è quei no di cui anche io, tante volte, ho parlato fin da quando nel 2009 partecipai alle primarie per la segreteria. Speriamo che questa sia una giornata di festa per tutti, non solo per il Pd, ma anche per l’Italia, che ha bisogno di uscire dalla conflittualità sterile ed entrare nella fase in cui la politica si occupa di fare il proprio mestiere».

Corriere 9.12.13
Vince Ferrero: avanti da soli

Archiviata la fallimentare alleanza con Di Pietro e Ingroia, il IX congresso di Rifondazione comunista che si è chiuso ieri a Perugia ha tracciato la strada per il futuro: cercare di far maturare i consensi elettorali dei neocomunisti (oggi intorno all’1%) aggregando tutta la sinistra antiliberista che non si riconosce nel Pd e nelle larghe intese. Passato lo choc della sconfitta alle Politiche di febbraio che, a detta dello stesso segretario, aveva annichilito il partito, Paolo Ferrero ha ricompattato il Prc sul suo progetto di fare da calamita per coloro che vogliono una sinistra radicale. Sulla sua linea ha raccolto il 75% dei voti, che gli consentiranno di essere rieletto alla segreteria a gennaio, quando si riunirà il nuovo comitato politico nazionale. «Prima di costruire alleanze ci sono fasi in cui bisogna tenere la spina dorsale dritta e andare avanti da soli — ha detto Ferrero nelle sue conclusioni —. Perché io penso che siamo alternativi al centrosinistra».

Repubblica 9.12.13
Sorpresa: in Italia si uccide sempre meno il tasso di omicidi più basso da 150 anni
Inchiesta del sociologo Barbagli: delitti in linea con la media del Nord Europa
di Vladimiro Polchi


L’ITALIA può dire addio a un altro suo record, ma stavolta c’è da rallegrarsi: nel 2013 il nostro Paese registra il tasso di omicidi più basso degli ultimi 150 anni. Per le strade di casa nostra non si spara più come una volta: oggi l’Italia ha meno morti ammazzati di Gran Bretagna, Francia, Danimarcae Belgio.
A UCCIDERE di meno sono gli immigrati e gli uomini della criminalità organizzata. «Se guardiamo agli oltre 1.770 omicidi del 1990 — spiega il sociologo Marzio Barbagli, che sta conducendo una ricerca sulla criminalità con dati inediti — ci accorgiamo che è in corso una rivoluzione straordinaria». In effetti gli omicidi nel 2012 sono stati 528 e quest’anno saranno ancora meno. La notizia cozza contro il senso comune. Ma i numeri non mentono: «Nell’ultimo trentennio del Novecento — ricorda Barbagli — il numero degli omicidi consumati e tentati è cresciuto, raggiungendo il picco nel 1991 (1.773 consumati e 1.959 tentati). Da allora però ha preso a diminuire». E cosa è successo negli anni della crisi? Il calo degli omicidi è proseguito. Nel 2011 quelli consumati si sono fermati a 553 e i tentati sono stati 1.401. L’anno scorso la diminuzione è continuata: 528 omicidi effettivi e 1.327 tentati.
Per il 2013 disponiamo dei dati dei primi nove mesi: 353 consumati e 939 tentati, meno di quelli commessi nello stesso periodo del 2012. «Sulla base di questi numeri — scrive Barbagli — si può stimare che il dato degli omicidi consumati nel 2013 sarà di circa 480 e quello degli omicidi tentati di 1.207. Diversamente da quello che si poteva ipotizzare, partendo dall’idea che la crisi economica abbia provocato in Italia una forte crisi sociale, il numero degli omicidi non solo non è aumentato, ma ha subito un’ulteriore flessione».
A fare impressione è lo sguardo indietro negli anni. Nel 2012 e ancora più nel 2013, l’Italia ha raggiunto un tasso diomicidi inferiore allo 0,9 per 100mila abitanti (più precisamente 0,85): il più basso della sua storia, non solo di quella post-unitaria, ma anche di quella assai più lunga dei precedenti quattro secoli, nei quali il tasso di omicidi raggiungeva valori 70 volte più elevati. «Curiosamente — sostiene Barbagli — non esiste nel nostro Paese la minima consapevolezza di questa tendenza. Va ricordato che per oltre cinque secoli l’Italia ha avuto tassi di omicidi molto più alti degli altri Paesi europei». Nell’ultimo ventennio, e ancor più durante gli anni della crisi, l’Italia ha invece raggiunto gli altri Stati del Vecchio continente. Non solo: sorprende che il Paese abbia oggi un tasso di omicidi più basso di Belgio, Regno Unito, Danimarca, Francia e vicino a quello di Svezia e Germania.
Come si spiega questa inversione di tendenza? Una causa ha a che fare con l’immigrazione: «Dal 1988 al 2008 — fa sapere Barbagli — la quota di stranieri sul totale delle persone denunciate per aver commesso un omicidio è continuamente aumentata, passando dal 6 al 36%. Ma dopo di allora è diminuita e oggi è del 23%». Omicidi di solito commessi all’interno dello stesso gruppo (in altri termini, gli immigrati uccidono altri immigrati) e che sono dovuti o a conflitti per attività illecite (traffico e spaccio di sostanze stupefacenti o sfruttamento della prostituzione) o a conflitti domestici. «La diminuzione degli ultimi anni — afferma Barbagli — dipende dal raggiungimento di un maggiore equilibrio fra gli immigrati che esercitano attività illecite e da una maggiore integrazione sociale delle frange più aggressive».
Non è tutto. «Nell’ultimo ventennio anche il numero di omicidi dovuti alla criminalità organizzata ha subito una fortissima flessione. Tra la popolazione italiana — conclude Barbagli — si è rafforzata la convinzione che il monopolio nell’uso della forza spetti allo Stato ed è diminuita la tendenzaa farsi giustizia da soli».

Repubblica 9.12.13
“Ma il calo degli assassini è anche un segno della pax mafiosa”
di Caterina Pasolini


«IN Italia si uccide sempre meno? I romanzi noir lo dicono da tempo, visto che sanno anticipare e leggere la società meglio di altri. Ma purtroppo non è la buona notizia che pare a prima vista ». Massimo Carlotto, autore di noir di cui è uscito il quarto volume della serie Le Vendicatrici, scritta con Marco Videtta, non è stupito.
Non è un buon segno il calo degli omicidi?
«No. Il calo dei morti ammazzati è solo il frutto di una pax mafiosa, di accordi tra bande di malavita a livello internazionale, di patti per la spartizione ditraffici, territorio, manovalanza. È questo lo sfondo dei miei ultimi quattro romanzi ambientati in una Roma corrotta, dove, come nel resto del Paese, la criminalità organizzata si è fusa con i colletti bianchi ed è diventata sistema».
Il sangue disturba gli affari?
«Sì, attira giornalisti e inquirenti. Per questo le piccole bande sono state fatte fuori, incorporate dalle holding internazionali del crimine e obbligate ad andare d’accordo. I grossi trafficanti, di droga e rifiuti, o capaci di infiltrarsi nel territorio, hanno bisogno di ordine e tranquillità per riciclare».
Meno killer più colletti bianchi?
«E’ cambiato l’approccio, la criminalità ora vuole contare di più nella società e quindi ha dato l’assalto al sapere, alle università per gestire al meglio i suoi imperi. Magari un forte cambiamento politico potrebbe incrinare il sistema».

l’Unità 9.12.13
Adolfo Pèrez Esquivel
Per il premio Nobel per la Pace argentino l’impegno del leader africano per una giustizia senza odio è esempio per l’umanità intera
«Il sogno di Mandela deve essere il nostro»
intervista di Umberto De Giovannangeli


«Nelson Mandela è un uomo che ci ha lasciati, ma che non se ne andrà mai. Ciò che resta, e resterà indelebile nel tempo, è la sua testimonianza di vita e la forza dei principi che guidarono la sua lotta per la vita e la dignità dei popoli, di tutti i popoli, non solo di quello sudafricano. Mandela vive nel ricordo di tutti gli uomini e le donne che hanno a cuore libertà, giustizia, eguaglianza, e che non si arrenderanno mai alla legge del più forte. La sua figura trascende i confini ed entra a pieno titolo tra le grandi figure dell’umanità». Questo è Nelson Mandela nel ricordo di Adolfo Pèrez Esquivel, premio Nobel per la Pace nel 1980, riconoscimento attribuitogli per la sua lotta contro la giunta militare in Argentina durante la dittatura (1876-1983). L’Unità lo ha intervistato alla vigilia della commemorazione solenne del leader africano domani a Johannesburg.
Cosa è stato nel profondo Nelson Mandela?
«Un leader eccezionale, irripetibile. Ha sofferto la tortura di 27 anni di carcere inflitta da una minoranza dominatrice che ha praticato con sistematica ferocia quella mentalità razzista e coloniale europea che aveva ereditato. Se c’era un uomo che avrebbe avuto tutte le ragioni per vendicarsi, beh, quest’uomo era Nelson Mandela. Ma è proprio nell’aver scelto una strada diversa che risiede la sua grandezza. Lui, vittima dell’intolleranza come la gente di colore sudafricana, ha mantenuto ferma la convinzione che tutti gli esseri umani hanno gli stessi diritti, indipendentemente dal coloro della loro pelle o dal loro status sociale. Nelson Mandela si è battuto contro uno dei più ripugnanti regimi che sono esistiti al mondo: quello dell’apartheid. Ma, una volta vinta questa battaglia di civiltà, non ha instaurato in Sudafrica, nel suo Sudafrica, una dittatura della maggioranza di colore. Ha unito laddove altri, per decenni, avevano lacerato. Questa è stata la sua più grande vittoria» Un insegnamento che va oltre il suo Paese?
«Certo. Va ben oltre i confini del Sudafrica. Per ciò che ha rappresentato, per la vita che ha vissuto, per i principi che l’hanno ispirato, Nelson Mandela è il più grande leader globale che la storia abbia conosciuto. Il mondo ha conosciuto e celebrato Mandela soprattutto che l’eroe della lotta anti-apartheid. Ma non meno significativo è stato il Mandela presidente. Perché negli anni in cui ha guidato il Sudafrica ha incarnato la necessità e l’urgenza di migliorare le condizioni di vita di una popolazione che per il 60% era analfabeta e che, nella sua stragrande maggioranza, viveva in condizioni di estrema povertà. Ha combattuto l’analfabetismo, la malnutrizione, la mancanza di un sistema sanitario. Era un uomo molto coerente che aveva obiettivi molto chiari. Mandela ha combattuto per la libertà e il diritto del suo popolo. Non solo contro l’apartheid, ma anche contro il saccheggio delle risorse naturali del suo popolo. Certo, oggi il Sudafrica non ha raggiunto tutti gli obiettivi che Mandela si era prefissato, l’ingiustizia e la povertà non sono state debellate, ma Mandela ha indicato e praticato la strada giusta. Ed è ciò che lascia al popolo del Sudafrica».
E al mondo cosa ha lasciato?
«La lezione di un uomo che ha sempre cercato giustizia e mai vendetta. Una lezione che travalica ogni confine nazionale, per diventare davvero “patrimonio dell’umanità”. Mi lasci aggiungere che Mandela è stato uno dei Premi Nobel che più hanno fatto onore a ciò che significa pace nel mondo. La grandezza di Mandela è quella di aver ridato un senso forte, ideale e insieme concreto, all’affermazione della dignità dell’uomo. Una dignità calpestata in mille modi. Morali e materiali. E su questi ultimi vale la pena ricordare un aspetto della lotta di Mandela, prima da leader in carcere e poi da presidente».
Qual è questo aspetto?
«Nelson Mandela si è battuto contro la violenza predatrice delle grandi multinazionali che sfruttavano le miniere di oro e di diamanti; una pratica che non riguardava solo il Sudafrica, ma si proiettava e in parte continua, su molta parte del Continente africano: in questo, “Madiba” è stato un punto di riferimento fondamentale per i movimenti di liberazione e di riscatto dell’Africa. Nel farlo, Mandela ha ricordato a tutti noi che non esiste liberazione nello sfruttamento, che i diritti sociali non sono meno importanti di quelli civili. L’opera di Mandela, nella sua grandezza e nell’importanza storica che ha avuto, è comparabile a quella, non violenta, del Mahatma Gandhi. Come Gandhi, Mandela ha anteposto i diritti del proprio popolo, il destino del popolo a quello personale. È stato un uomo che ha lottato senza odio, senza rancore per l’unità del popolo sudafricano, per la convivenza. La sua lotta ha sempre avuto un carattere globale, e non si è mai limitata ad un problema razziale. È stato un uomo coerente: una virtù rara, specie in coloro che detengono il potere e che fanno di tutto per mantenerlo. Mandela è stato, e sarà per sempre, un esempio per l’umanità».
Qual è il suo lascito ai leader mondiali?
«Devono imparare dal suo esempio. Mandela non ha mai fatto appello alla vendetta, ma ha sempre lavorato per l’integrazione della società e ha dato un valore alto, nobile, concreto alle parole riconciliazione ed uguaglianza». Mandela, l’uomo del perdono...
«Il perdono come elemento di forza e non di debolezza. Un perdono che non cancella le responsabilità, ma che non ingabbia il futuro di un popolo nell’odio e nel desiderio di vendetta. Madiba è stato grande anche in questo».

Repubblica 9.12.13
Quel comunista che usò il potere del compromesso
di Bill Keller


NEL 2011, lo storico britannico Stephen Ellis sostenne che Nelson Mandela era stato iscritto al Partito comunista sudafricano, anzi, aveva fatto parte del Comitato centrale del partito, il suo organo direttivo. Anche se l’African National Congress di Mandela era stretto alleato del Partito comunista nella lotta contro l’apartheid, Mandela e l’Anc hanno sempre negato che l’eroe della liberazione del Sudafrica fosse membro del movimento. Ma Ellis, attingendo a testimonianze di ex iscritti al partito e al materiale d’archivio da poco accessibile, sosteneva la tesi che Mandela aderì al partito attorno al 1960. Vera o falsa che sia, questa notizia ha davvero importanza?
La rivelazione di Ellis infiammò alcuni critici e revisionisti, che la considerarono dimostrazione del carattere di fronte stalinista dell’Anc. Probabilmente suscitò un senso di rivalsa tra gli americani che erano stati favorevoli al sostegno del loro governo al regime dell’Apartheid — ferocemente anticomunista — negli anni della Guerra fredda. Di fatto, quella del professor Ellis non è un’apologia del governo dei bianchi: la sua tesi è che l’associazione con i comunisti improntò l’ideologia dell’Anc al punto da esercitare ancora oggi di esso una profonda e infausta influenza. «Oggi l’Anc dichiara di essere alla prima fase di una rivoluzione a due fasi» mi ha scritto Ellis in un’email. «Questa è una teoria che deriva direttamente dalpensiero sovietico». Effettivamente nel programma e nell’atteggiamento del partito sudafricano oggi al governo sono ancora vivi i codici e il gergo comunisti.
Da giornalista mi sono occupato dell’Unione Sovietica dal 1986 al 1991 e del Sudafrica dal 1992 al 1995 e il mio punto di vista, alla luce di queste esperienze, rispetta gli accademici ma ne riconosce anche i limiti. Sia nella Russia di Gorbaciov che nel Sudafrica della transizione mi sono reso conto che i concetti espressi nelle riunioni di partito e codificati nei verbali non sono sempre indicazioni affidabili sulle azioni future o addirittura sulle reali convinzioni della dirigenza del partito. Ma l’adesione di Mandela al Partito comunista non è un dettaglio trascurabile: non giustifica chi gongola nel dare la caccia al rosso e certo non sminuisce il valore eroico del suo esempio. Ma sotto alcuni aspetti ha un peso.
In primo luogo la breve adesione di Mandela al Partito comunista sudafricano e la sua alleanza a lungo termine con comunisti più ferventi sono segno del suo pragmatismo più che della sua posizione ideologica. Mandela fu in fasi diverse un nazionalista nero e un anti-razzista, si dichiarò contrario alla lotta armata e giustificò la violenza, fu una testa calda e diede prova di calma olimpica, fu divoratore di opuscoli marxisti e ammiratore della democrazia occidentale, stretto alleato dei comunisti e, durante la sua presidenza, partner dei potenti capitalisti sudafricani.
L’iniziale collaborazione dell’Anc con i comunisti si configurò come un matrimonio di convenienza per un movimento che aveva ben pochi amici. Il Partito comunista sudafricano e i suoi patroni in Russia e in Cina erano fonte di denaro ed armi per la lotta armata priva di mezzi. L’ideologia comunista indubbiamente si insinuò nell’Anc, ma solo come ingrediente di un cocktail al cento per cento sudafricano composto anche dal nazionalismo africano, dalla consapevolezza nera, dal liberalismo religioso e da altre rabbie, rancori e desideri in fieri.Quando però si arrivò ai momenti critici, la fazione dei paladini della nazionalizzazione e degli assetati di vendetta fu sconfitta dai fautori del compromesso. Vinsero le tesi utili a portare avanti la causa di un Sudafrica governato da sudafricani. Fu così per Mandela e per il suo successore, Thabo Mbeki. L’attuale presidente, Jacob Zuma, sembra non avere altro ideale che l’auto-arricchimento.
In uno dei processi in cui fu imputato, chiesero a Mandela se fosse comunista. «Se per comunista intendete un iscritto al Partito comunista e una persona che crede nella teoria di Marx, Engels, Lenin e Stalin, e che si conforma rigidamente alla disciplina del partito, non sono diventato comunista», disse. Una risposta al contempo evasiva e precisissima.
Forse l’influsso più importante e duraturo esercitato del Partito comunista sudafricano su Mandela si riscontra nel suo impegno antirazzista. L’Anc agli esordi ammetteva solo neri. Per un lungo periodo il Partito comunista fu l’unico partner del movimento che includesse bianchi, indiani e meticci.
In terzo luogo l’affiliazione con il Partito comunista ha un peso anche perché contribuisce a spiegare come mai il Sud Africa non abbia compiuto molti passi avanti nel migliorare le condizioni di vita delle classi più basse della popolazione. I numerosi insuccessi collezionati dall’Anc in 19 anni al potere si spiegano col fatto che non ha mai completato il processo di transizione da movimento a partito politico, ancor meno a partito di governo. Il motivo della sua incapacità non è la dottrina stalinista, né una dottrina in sé. È qualcosa di insito nella natura, nella cultura dei movimenti di liberazione: uniti da ciò contro cui si oppongono, tendono avere carattere cospiratorio, a scoraggiare il dissenso, a privilegiare i fini rispetto ai mezzi.
In fin dei conti ovviamente il comunismo fece a Mandela e all’Anc il maggior favore nel momento in cui crollò. Con la disintegrazione del blocco sovietico e l’apertura della Cina al capitalismo, gli ultimi bianchi al potere in Sudafrica non poterono più atteggiarsi ad alleati imprescindibili dalla parte giusta della Guerra fredda. Capirono che i giochi erano finiti.
(© 2013 New York Times News Service Traduzione di Emilia Benghi)

l’Unità 9.12.13
Kiev, spallata pro Ue Mezzo milione in piazza
Una folla enorme blocca la capitale ucraina
Chieste l’adesione all’Unione e le dimissioni del governo
Nel centro della città i manifestanti hanno abbattuto la statua di Lenin
di Marco Mongiello


BRUXELLES A Kiev una statua di Lenin è stata abbattuta dalla folla e distrutta a martellate, mentre una fotografia enorme dell’incarcerata leader dell’opposizione Yulia Timoshenko è stata issata sull’albero di Natale situato nella centrale piazza dell’Indipendenza, dove ieri si è tenuta la più grande manifestazione pro-europea dalla «rivoluzione arancione» del 2004. Nonostante la neve e il termometro sotto zero oltre mezzo milione di persone sono scese in strada per dire al governo e al presidente Viktor Yanukovich di dimettersi.
La scena di certo non deve essere piaciuta al presidente russo Vladimir Putin, che con aggressiva politica di ricatti economici non vuole perdere l’influenza sull’Ucraina a favore di Bruxelles. La storia però non torna indietro e i tempi dell’Unione sovietica sono finiti per sempre. Glielo hanno voluto ricordare con determinazione i manifestanti che hanno preso a martellate la statua di Lenin.
Un monito anche per le autorità del Paese che lo scorso 29 novembre al summit Ue sul Partenariato Orientale hanno deciso di non firmare l’accordo di associazione con l’Unione europea, scatenando un crescendo di proteste che sono culminate ieri nel grande raduno di piazza Maidan (Indipendenza).
Venerdì Yanukovich aveva incontrato Putin a Sochi, in Russia, per discutere l’avvio di un «partenariato strategico» con Mosca, che potrebbe preludere all’entrata nell’Unione doganale dei Paesi satellite dell’ex Urss voluta dal Cremlino.
IL MESSAGGIO DELL’EX PREMIER
Come nei giorni passati anche ieri Yulia Timoshenko ha fatto arrivare il suo sostegno alla folla attraverso un messaggio letto dalla figlia. «Siamo sul filo del rasoio tra una caduta finale in una dittatura crudele e il ritorno a casa nella comunità europea», ha detto ai manifestanti l’ex premier. «Non un passo indietro, non mollate, il futuro dell’Ucraina è nelle vostre mani». Le sue parole sono state accolte dagli applausi della folla, che per tutto il giorno ha ballato, cantato e ascoltato i discorsi dei leader dei tre partiti di opposizione.
Con la manifestazione di ieri è crollata la speranza delle autorità che con il tempo e con generiche promesse sul proseguimento del negoziato con Bruxelles, la protesta avrebbe perso vigore. «Questo è un momento decisivo in cui tutti gli ucraini si sono riuniti qui perché non vogliono vivere in un Paese dove la corruzione regna e dove non c’è giustizia», ha detto Vitaly Klitschko, l’imponente ex campione del mondo dei pesi massimi che guida uno dei partiti di opposizione, l’Alleanza Democratica Ucraina per la Riforma, e sta emergendo come il leader principale delle proteste di questi giorni. Klitschko ha chiesto il rilascio dei prigionieri politici, un’inchiesta sugli abusi delle forze dell’ordine, le dimissioni del governo e delle elezioni presidenziali e parlamentari anticipate.
I palazzi governativi restano bloccati dalle barricate erette dai manifestanti. Non si sono ripetuti gli scontri della polizia dei giorni scorsi. Dopo il brutale intervento delle forze speciali della settimana scorsa le forze dell’ordine sono sotto accusa e anche il governo ha promesso un’inchiesta per punire i responsabili dei pestaggi.
Una «contro protesta» a favore del governo di poche migliaia di persone, 15.000 secondo gli organizzatori, si è tenuta nel non lontano parco Mariinskij.
La sicurezza dell’iniziativa, organizzata dal Partito delle Regioni di Yanukovich, è stata garantita dalle forze dell’ordine. Resta però il rischio di un’improvvisa repressione violenta.
Dopo l’invito dei giorni scorsi di Mosca a «ristabilire l’ordine», ieri un altro segnale sinistro è stato l’annuncio da parte di un portavoce dei servizi segreti ucraini che le autorità hanno aperto un’inchiesta sul presunto tentativo di alcuni politici di «sovvertire l’ordinamento e di prendersi il potere». Il portavoce non ha precisato i nomi degli indagati, ma è probabile che si tratti dei leader dell’opposizione.
LA TELEFONATA DI BARROSO
Per scongiurare il peggio, ieri, il presidente della Commissione europea Barroso ha telefonato a Yanukovich. In una nota l’esecutivo comunitario riferisce
che il presidente della Commissione Ue «ha ribadito la necessità di una soluzione politica alle tensioni attuali, attraverso il dialogo con l’opposizione e la società civile», chiedendo inoltre «il rispetto delle libertà civili e l’esercizio della massima moderazione». Barroso ha anche annunciato la prossima visita dell’Alto rappresentante per la politica estera Ue, Catherine Ashton. Sarà in Ucraina per «facilitare una via d’uscita alla crisi».

l’Unità 9.12.13
Peres apre all’Iran e Israele si divide
«Vogliamo che i nostri nemici diventino amici Così Teheran non sarà una minaccia nucleare»
Mentre il premier israeliano Netanyahu considera un nemico Rohani
il capo dello Stato ebraico è pronto a dialogare con il leader iraniano
di Umberto De Giovannangeli


«Whynot?» (Perché no?). In Israele c’è chi non la pensa come il premier Benjamin Netanyahu, per il quale il presidente iraniano Hassan Rohani, altro non è che «un lupo travestito d’agnello». A pensarla in maniera opposta è un premio Nobel per la Pace, che d’Israele è il presidente: Shimon Peres. Il Capo dello Stato ebraico si è detto disponibile a incontrare il presidente iraniano. «Perché no?», ha detto ieri il presidente israeliano rispondendo ad una domanda ad hoc in un forum di economia. «Non ho nemici e non è una questione personale, ma di politiche. Noi vogliamo fare in modo che i nostri nemici diventino amici, e c’è stato un tempo in cui non ci incontravamo, ad esempio, con Arafat», ma «dobbiamo concentrare i nostri sforzi per assicurarci che l’Iran non diventi una minaccia nucleare al resto del mondo». Così Peres ha espresso la speranza che nei prossimi mesi di colloqui le potenze mondiali riescano pacificamente a evitare che l’Iran sviluppi l’arma nucleare. Poi, alla domanda se fosse disponibile a incontrare Rohani, ha risposto così: «Perché no? Io non ho nemici». Ma ha subito dopo aggiunto che l’influenza di Rohani è «limitata» e che ci sono altre «strutture» radicali in Iran che potrebbero non sostenere la sua apertura all’Occidente.
I FALCHI CONTRARI
Le parole di Peres non fanno certo piacere ai falchi di Gerusalemme. Come il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, che dalla stessa tribuna un forum economico in cui il presidente israeliano ha affermato il suo «Why not?», Lieberman ha rilanciato l’aut aut: sanzioni o attacco militare all’Iran. Dietro le aperture di Shimon Peres, c’è la presa d’atto che l’Iran è divenuto un soggetto imprescindibile per una politica di stabilizzazione nel Grande Medio Oriente: dallo scenario afghano a quello siriano. Non è un caso che Teheran stia diventando il crocevia della diplomazia regionale.
Un esempio? Ieri nella capitale iraniana è sbarcato il presidente afghano Hamid Karzai, subito dopo la tappa a Kabul del segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Chuck Hagel. Per il crescente disappunto di Washington, Karzai si rifiuta di firmare un accordo che consenta alle truppe Nato di restare in Afghanistan oltre il prossimo anno, posizione appoggiata con forza dall’Iran. Karzai avvia la sua missione a Teheran nello stesso giorno in cui sono cominciate le visite degli ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) al reattore di acqua pesante di Arak. Si tratta della prima ispezione dalla firma dell’accordo tra l’Iran e il 5+1.
«L’Aiea ha iniziato ad Arak questa mattina (ieri,ndr)», ha riferito all’agenzia Fars il portavoce dell’Agenzia atomica della repubblica islamica, Behrouz Kamalvandi. L’Aiea monitora regolarmente il reattore di Arak, che nel corso delle consultazioni di Ginevra era diventato uno dei nodi più difficili da scioglie-
re perché potrebbe produrre plutonio, ma Teheran non fornisce i disegni delle nuove modifiche dal 2006. Con l’intesa raggiunta a Ginevra tra il 5+1 e la Repubblica Islamica si avvia una nuova fase di sei mesi, che sarà un arco di tempo entro cui la comunità internazionale verificherà se sono stati fatti i passi avanti previsti dall’accordo. Un accordo che indubbiamente contribuisce a rilanciare il ruolo di Teheran nei tavoli negoziali mediorientali. A cominciare da quello che riguarda la guerra civile siriana. Una guerra giunta ieri al suo millesimo giorno.
MILLE GIORNI
Mille giorni di sangue, così come mille sono le tonnellate di agenti chimici in mano al regime di Damasco, pronti ad essere smaltiti dai tecnici dell'Opac. Oltre 120 mila morti secondo le ultime stime dell’Osservatorio per i diritti umani con base a Londra. Sette milioni di persone colpite, secondo l'Unicef e più della metà bambini, molti dei quali costretti ad abbandonare le loro abitazioni e varcare il confine senza il supporto dei propri genitori per fuggire da 2 anni, 8 mesi, 3 settimane e 2 giorni di terrore. Gran parte del Paese oggi è in macerie, spartito tra gruppi ribelli supportati da cellule qaediste e da forze paramilitari fedeli al regime. Entrambe le parti sono state accusate più volte da diverse organizzazioni internazionali di aver commesso crimini di guerra e contro l'umanità. Si spera nella prossima conferenza di pace, la cosiddetta «Ginevra 2» del 22 gennaio. Una pace che passe anche da Teheran.

il Fatto 9.12.13
Belfast dopo l’incubo
Il cielo d’Irlanda del Nord è azzurro da vent’anni
Il bilancio della guerra è di 3.168 morti
Oggi i “troubles” sono finiti, ma liberarsi dal trauma e dai ricordi è difficile
I suicidi sono raddoppiati
di Michele Concina


Qualche volta, a Belfast si riusciva a vivere come in un posto normale. Camminando in centro, per esempio, fra il teatro lirico appena restaurato e Castle Court, il centro commerciale nuovo di zecca. Costeggiando il McDonald e il Marks & Spencer di ogni altra media, rispettabile città britannica. Piluccando le librerie e i caffè del quartiere di stradine che circonda la Queen’s University. O affacciandosi nel Golden Mile, il quartiere degli yuppies, tutto Bmw e negozi di lusso.
Era anche un posto sicuro, in un certo senso, con un tasso di criminalità fra i più bassi dell’Occidente. Sicuro come Roma durante il sequestro Moro, quando scippi e furti in appartamento precipitarono a zero. Sicuro come una città in stato d’assedio, nel bel mezzo di un Paese in guerra. Guerra fra poverissimi e quasi poveri, prima che fra cristiani di diversa appartenenza. L’Irlanda del Nord avevano poco da offrire; e la casta dominante si aggrappava a quel poco con il furibondo egoismo di un naufrago che ha messo le mani sull’unico salvagente disponibile.
LA RAPPRESENTANZA politico-amministrativa era fortemente sbilanciata, grazie al gerrymandering, l’aggiustamento dei collegi elettorali. Grandi e quindi poco numerosi quelli delle aree nazionaliste-cattoliche, piccoli e frazionati quelli delle zone unioniste-protestanti. Il caso più clamoroso era Derry, Londonderry per i filo-britannici: l’87% dei cattolici era concentrato in un’unica circoscrizione che eleggeva otto rappresentanti, l’87% dei protestanti era spartito in due distretti, che insieme ne eleggevano dodici.
Ai cattolici toccava una quota ancora più bassa di quella risorsa scarsissima che era il lavoro. Nel 1990 qualcuno si prese la briga di cercare il quartiere con la più alta disoccupazione in Europa. Risultò largamente in testa, con l’88%, Ballymurphy, Belfast occidentale, area nazionalista. Gli impieghi pubblici erano terreno di caccia riservato: quelli di Belfast, cattolica per oltre un quarto, andavano per il 97,5% ai protestanti; nella contea di Fermanagh, a maggioranza cattolica, su 75 autisti di scuolabus 68 erano protestanti.
Cattolici affamati, protestanti chiusi in una mentalità da ultima trincea: la guerra civile era quasi scritta nel destino. E la normalità non poteva essere che un’illusione, una svista, al massimo una pausa.
I quartieri fuori dal centro erano un paesaggio di condomini cadenti e mucchi di rifiuti, così squallidi che i lugubri murales militanti, affollati di passamontagna e mitra spianati, apportavano un tocco di vitalità. Il forestiero veniva di rado in contatto con la violenza, ma la respirava ovunque. Nei capannelli di giovani dagli occhi vuoti che stazionavano agli angoli per ore. Nello sguardo congelato delle casalinghe che spingevano passeggini e carrelli della spesa, ignorando ostentatamente i nervosi soldati inglesi in assetto di guerra. Nel soprassalto che ti coglieva accorgendoti che un militare, da una torretta, ti puntava addosso il fucile; stava solo usando il mirino telescopico per vederti meglio, ma vallo a spiegare a te stesso. Nel sussurro di un amico che t’indicava un uomo zoppicante e ti spiegava: è stata l’Ira a gambizzarlo. Non per tradimento o collaborazionismo, per quelle colpe si uccide. Probabilmente è stato beccato a rubare; oppure andava a letto con la moglie di un prigioniero politico.
Gli stranieri, che in quegli anni erano giornalisti, spie e rari, avventurosi uomini d’affari, abitavano quasi tutti all’hotel Europa. Ideale per calarsi subito nell’atmosfera giusta: l’ingresso era (ed è) una torretta di cemento di lampante ispirazione carceraria. Comodo, anche, perché spesso l’attentato di giornata veniva servito a domicilio: con 28 esplosioni, l’Europa è l’albergo più bombardato d’Europa, e contende il titolo mondiale al Beirut Hilton.
All’Europa tutti dormivano, ma nessuno mangiava o beveva, perché bastava attraversare la strada per entrare al Crown Bar, il pub più bello del pianeta. Un paradiso vittoriano di legni antichi, ottone lucidissimo, cuoio, marmi, vetri istoriati. Sulla soglia, un grande mosaico rappresenta la corona britannica; e nessuno ancora è riuscito a capire se è stata messa lì per celebrarla, o per costringere ogni avventore a calpestarla. Erano stati accolti a braccia aperte, i soldati di quella corona, nell’agosto del 1969. Sfilavano a Belfast occidentale distribuendo ai bambini caramelle e monete, accettando dagli adulti fiori e cartocci di pesce fritto. Dovevano fare da arbitri, portare pace e giustizia. Fu strage, invece. Il bilancio finale elenca 3.168 morti, di cui 648 militari, 296 poliziotti del Royal Ulster Constabulary, e 2.224 conteggiati come “civili”. Un’etichetta, quest’ultima, che butta nello stesso mucchio militanti dell’Ira caduti con le armi in pugno e vittime perfettamente innocenti, donne, bambini.
QUELLI STERMINATI a caso dalle bombe: dai 21 della prima, nel 1974 a Birmingham, ai dieci del-l’ultima, il 23 ottobre 1993 a Belfast. Gli scolari uccisi dalle pallottole, magari di gomma o plastica: per esempio Seamus Duffy, un proiettile nella schiena a 15 anni, nell’agosto dell’89; o Carol Ann Kelly, uccisa a 12 anni mentre tornava a casa portando la bottiglia del latte. I parenti delle vittime, ammazzati perché partecipavano ai funerali: nel 1988 Michael Stone divenne un eroe nei murales protestanti quando fece irruzione in corteo funebre con mitra e bombe a mano, uccidendo tre persone e ferendone più di 50. Ai poliziotti che lo bloccarono chiese per prima cosa: “Quanti ne ho fatti fuori?”. Il peggio di quell’Ulster non c’è più. Dopo la “dichiarazione di Downing Street” del dicembre 1993, la violenza è lentamente calata, fin quasi a sparire. C’è un po’ più di ricchezza da spartire, anche perché la prosperità del Sud si riflette sulle sei contee; e l’equa rappresentanza politica ottenuta dai cattolici-nazionalisti fa sì che sia distribuita in modo meno ingiusto. Ma la normalità è ancora lontana: a Belfast e Derry chilometri di peace walls, barriere alte quasi dieci metri, separano i quartieri delle due tribù. Gli inglesi ogni tanto, propongono di smantellarle, ma gli abitanti dall’uno e dall’altro lato obiettano che per ora si sentono più sicuri così.
Dal suo malessere, l’Irlanda del Nord è convalescente, non guarita. Nei dieci anni che hanno seguito l’accordo di pace definitivo l’incidenza dei suicidi è raddoppiata, da 8,6 ogni centomila nel 1998 a 16 nel 2008. Secondo Mike Tomlinson, il sociologo della Queen’s University che ha condotto la ricerca, sono persone che sfogano contro se stesse l’aggressività che non hanno più occasione di scatenare sugli altri.

il Fatto 9.12.13
Il racconto dei familiari
“Impegnarsi per la pace, ma senza dimenticare Mary”
di Martina Castigliani


Se Mary oggi fosse ancora viva, sua sorella Ann la porterebbe fuori a pranzo. “Sceglierei un buon ristorante e poi passeremmo la giornata a chiacchierare. Forse le parlerei dei miei cinque figli. O forse l’abbraccerei in silenzio”. Mary era una maestra cattolica di 22 anni il giorno che è stata uccisa dall’Ira (Irish Repubblican Army) nel sud di Belfast, aggredita insieme al padre, il giudice Tom, e la madre. “Io ero in cucina”, racconta Ann Travers al Fatto Quotidiano, “ad aspettare che la mia famiglia tornasse dalla messa nella Chiesa di St Brigid. Ricordo che non facevo che guardare alla finestra”.
La storia Ann l’ha ripetuta tante volte quanti giorni sono passati da quella domenica dell’8 aprile 1984, e ancora la voce trema quando è il momento di raccontare l’odore degli spari. “Due uomini hanno fermato la mia famiglia sulla strada verso casa. Avevano le pistole in mano, che tenevano nascoste sotto un giornale. Hanno sparato sei colpi a mio padre. L’arma puntata contro mia madre si è inceppata per due volte. Poi mentre mia sorella voltava la testa, è partito il corpo mortale che l’ha uccisa. L'hanno presa da dietro, la morte per lei è arrivata a tradimento. Del resto ricordo io seduta su una sedia in cucina e un poliziotto gridare ‘resta dove sei, tua sorella ce la farà’”. Ma così non è stato. L’obiettivo dell’agguato era Tom Travers, magistrato accusato dall’Ira per il suo ruolo nel sistema giudiziario britannico. Ma per una colpa inspiegabile anche agli adulti, a morire è stata la ragazza. Proprio come avviene quando i terroristi uccidono perché l’obiettivo è solo quello di seminare sangue. É il colore rosso da lasciare alla polizia scientifica l’importante. Il giudice sopravvissuto ha portato nel cuore, fino al giorno del suo addio per malattia, lo sguardo terrorizzato della figlia pochi istanti prima di chiudere gli occhi per sempre.
QUELLO AI TRAVERS è stato un tragico agguato, uno dei tanti che ebbero luogo tra la fine degli anni Sessanta e il 1998 in Irlanda del Nord, durante i Troubles, la “guerra” che ha visto contrapposti i nazionalisti del-l’Ira e il governo inglese. Sullo sfondo anche i problemi dovuti alla religione: i cattolici erano la minoranza discriminata in una terra di protestanti. Nei quasi trent’anni di scontri e attentati sono morte circa 3000 persone. E così la giovane Mary. “Non posso farmene ancora una ragione”, continua la sorella, “Non riesco a capire come sia possibile che qualcuno creda così tanto in qualcosa da poter uccidere un essere umano. Hanno detto che volevano eliminare mio padre, ma se così fosse perché due pistole e non una? Perché è partito quel colpo che ha ucciso Mary?”. Una famiglia normale, come la definisce Ann, due fratelli e due sorelle. Una vita negli anni degli scontri in Irlanda del Nord che cercava di andare avanti nella quotidianità. “Quel giorno, mentre tornavano a casa da messa, mia sorella parlava del suo matrimonio . Stava scegliendo i canti per la messa e si chiedeva ad alta voce quali sarebbero stati i più adatti. Suonava il piano Mary. Amava la musica. Mi manca così tanto. Se n’è andata via una parte di me”. Ora la questione più difficile è quella del tirare una linea e andare avanti. “É vero il passato non c’è più, ma è parte di noi. Non possiamo dimenticarlo, non è possibile. Io e i miei fratelli non parliamo mai di Mary. Il dolore è troppo forte che il ricordo vaga nei pensieri solitari. Nostra sorella e la morte scampata dei nostri genitori sono i fantasmi che ci porteremo dentro per sempre. Io da quando ho quattordici anni chiudo a chiave tutte le porte. Prima quella di casa, poi quella della camera. Ho sotto la pelle la paura di morire”.
MARY MCARDLE è stata la prima ad essere arrestata per il coinvolgimento nell’assassinio Travers. Liberata poi dopo quattordici anni di prigione, in occasione del Goodfriday Agreement nel 1998, nel 2010 diventa consulente per la ministra della cultura Caral Ni Chuilin, già membro del-l’Ira. Una delle battaglie di Ann è stata quella di chiedere che venisse rimossa dal ruolo pubblico. “Sono d’accordo che i detenuti”, continua, “abbiano la possibilità di lavorare una volta scontata la loro pena. Ma non è giusto che ricoprano posizioni pubbliche, pagati con le nostre tasse. Mi sembra una richiesta normale”. McArdle, all’improvviso di nuovo nella bufera, ha detto pubblicamente che la sua partecipazione all’omicidio Travers, “è stata un tragico errore”. “Quella parola è stato un nuovo pugno nello stomaco” ha commentato Ann. “Non può essere un errore sparare alle spalle di una ragazzina di ventidue anni. Per questo la nomina di un assassino come consulente di un ministro è stato un duro colpo per il nostro lungo processo di pace”. Nel 2012 McArdle ha lasciato la posizione di consulente, ma il partito Sinn Fein ha fatto sapere che si è trattato di normale rotazione dello staff.
Non piange Ann Travers. Le lacrime ha imparato a ingoiarle per i propri figli, per la vita, per il sole che ogni giorno si affaccia alla finestra e la costringe alla più dolorosa delle morti: svegliarsi la mattina senza una sorella al fianco e avere una vita a metà. “La vorrei qui accanto a me. Vorrei chiederle qualche consiglio. Parlare del suo ragazzo, quello che avrebbe voluto sposare. Passeggiare insieme. Vorrei bere una tazza di caffè con lei. Istanti di normalità che mi sono stati rubati”.
COME ANN, SONO tante le vittime e i sopravvissuti di anni di dolore e fuoco. Per questo il governo ha creato un organo apposito. Si chiama Commission for Victims and Survivors: si occupa di rappresentare legalmente chi ha sofferto durante i “Troubles” e di fornire assistenza. “Lavoriamo”, ha spiegato la presidente Cathryn Stone, “per far sì che le persone abbiano una voce e possano sentirsi ascoltate dallo Stato. E questo sia da un punto di vista psicologico con forum e gruppi di incontro, sia dal punto di vista legale e finanziario”. Dopo tanti anni da quei giorni di paura continuano ad esserci tracce di sofferenza, in una società che cerca di fare i conti con il proprio passato. Ann Travers lavora come volontaria per la Commission e gestisce i gruppi di incontro: “Io sono positiva per il futuro. So che la nostra società saprà vivere in pace. Ma anche per questo non dobbiamo dimenticare. La memoria è parte di noi stessi. I figli dei nostri figli dovranno sapere. E’ una ferita che non può rimarginarsi da sola”. Tante le associazioni sul territorio che si offrono di sostenere a livello psicologico le vittime. Sia tra i cattolici che i protestanti. Per esempio l’organizzazione “Survivors of trauma”. “Ogni anno vediamo aumentare i nostri iscritti”, spiega Gary, “per noi è importante poter parlare di quello che è successo. Perché non siamo guariti. Celebriamo periodicamente un giorno della memoria per i nostri cari e poi ci sosteniamo per poter andare avanti”. Un aiuto che riguarda anche i più giovani: “La disoccupazione, l’alcolismo e la depressione sono un problema molto serio nella nostra comunità. La causa naturalmente non possiamo dire che sia stata solo quella degli scontri. Ma diciamo che hanno contribuito. L’Irlanda del Nord un giorno starà meglio, ma solo se sputiamo fuori tutto il dolore che abbiamo dovuto ingoiare”.

il Fatto 9.12.13
Ulster, il cammino della pace
Troppo dolore fa del cuore una pietra
di John Hume*


IL NOBEL È DELLA GENTE
Voglio per prima cosa ringraziare il Comitato per il Nobel per l’onore che mi ha fatto oggi. Sono sicuro che tutti condividono con me la consapevolezza che noi in fondo dobbiamo la pace alla gente comune dell’Irlanda del Nord che ha vissuto e sofferto il conflitto... Negli ultimi trent’anni ci sono stati momenti di grande depressione e vero orrore. Tanta gente si è chiesta se le parole del poeta Yeats, non fossero vere: “Un sacrificio troppo lungo può fare di un cuore una pietra”.
La nostra gente ha raccolto le proprie forze senza fine per incoraggiare i propri leader a risolvere la situazione, perché finalmente i nostri bambini possano guardare il futuro con un sorriso di speranza. Questo, perciò, è il loro premio... Nel mio lavoro per la pace io sono stato fortemente ispirato dalla mia esperienza come parlamentare europeo. Ricordo la mia prima visita a Strasburgo, nel 1979, feci una passeggiata sul ponte che collega la città a Kehl. Strasburgo è in Francia, Kehl è Germania. Sono così vicine . Mi fermai nel mezzo e pensai: c’è la Germania. C’è la Francia. Se trent’anni prima - alla fine della Guerra che uccise milioni di persone per la seconda volta in un secolo - avessi detto: non abbiate paura, entro trent’anni saremo tutti insieme in una nuova Europa mi avrebbero portato dallo psichiatra. Ma così è stato ed è chiaro come l’Unione Europa sia il migliore esempio nella storia di risoluzione dei conflitti... tutti i conflitti nascono da una differenza. Che sia di razza, religione o nazionalità. I visionari dell’Europa hanno deciso che la differenza non deve essere una minaccia. Che la differenza è naturale. Che è l’essenza dell’umanità. La risposta alla differenza è il rispetto. Questo è il principio fondamentale per raggiungere la pace: rispetta le differenze”.
*politico cattolico, discorso pronunciato in occasione della consegna del premio Nobel per la Pace

il Fatto 9.12.13
Simbolo dell’Ira
Il carcere di Maze. Memoria e affari
di Stefano Citati


Era chiamato Maze, il “labirinto”, composto da grigi blocchi di costruzioni a forma di H (e infatti era famoso anche come “blocco H”). Era il carcere di “quelli dell’Ira”, costruito appositamente agli inizi degli anni ‘70 per incarcerare i tanti arrestati e condannati dalle truppe britanniche. 140 ettari a una quindicina di chilometri da Belfast, località di Long Kesh: il carcere passato alla storia per la detenzione e lo sciopero della fame fino alla morte di Bobby Sands - il simbolo della lotta dell’Irish republican army - il 5 maggio 1981 dopo 66 giorni di strenuo e fatale rifiuto di assumere cibo. Adesso quel luogo infausto della memoria sarà trasformato con un progetto faraonico in un “Centro per la Pace e la Risoluzione dei Conflitti”. Dal 2000 il carcere è stato chiuso, e pochi mesi fa il governo nordirlandese ha infine deciso di affidare la riqualificazione dell’area all’archistar Daniel Libeskind, famoso per aver progettato il Museo ebraico di Berlino e curato il progetto di riqualificazione dell’area di Ground Zero a New York (nonché autore del recupero della vecchia stazione di polizia di Andersonstown, nel cuore del ghetto repubblicano di Belfast ovest). Un investimento di oltre 300 milioni di sterline, ovvero 350 milioni di euro, che dovrebbe creare un museo della memoria (nonché 5mila posti di lavoro) della lunga e sanguinosa storia dell’indipendentismo cattolico, ma che ha già creato delle polemiche per il timore che si incentivi il “turismo del terrore”, come avvertito dal New York Times.
Per i politici unionisti si rischia di “fare un monumento celebrativo dell’Ira; questo è il posto più controverso e pericoloso che si potesse scegliere. È chiaro che ci sarà un ingiustificato interesse nei confronti dei prigionieri piuttosto che per le loro vittime”. Ma i responsabili del progetto hanno detto che “per i nordirlandesi, in questi tempi così difficili, è un’opportunità che non possiamo permetterci di ignorare”.

l’Unità 9.12.13
Il convegno
Chi ha paura della scienza?
Ecco perché non bisogna diffidare della ricerca
La conoscenza ci permette di realizzare pienamente la nostra natura umana
Anticipiamo l’intervento di Nicla Vassallo, previsto in un incontro domani in Senato
di Nicla Vassallo

Professore Ordinario di Filosofia Teoretica

DATO CHE SI EVIDENZIANO SPESSO I PERICOLI DELLA SCIENZA, CONFONDENDO LA RICERCA SCIENTIFICA CON LE APPLICAZIONI CUI DÀ ADITO, occorre ricordare che la prima in sé consiste, per lo più, in ricerca pura, motivata dall’esigenza di comprendere, mentre sono le applicazioni scientifiche a sollevare, per lo più, effettivi problemi di ordine etico. Certo, alcuni pericoli vengono ben rimarcati dai critici della scienza: c’è chi sostiene che la nostra società sarebbe migliore senza la bomba atomica, chi sottolinea che la scienza conduce in alcuni campi alla disumanizzazione del lavoro, chi incrimina la scienza per il fatto di minacciare la fede religiosa, chi vede nella scienza una manifestazione del solo pensiero occidentale e uno strumento deplorevole della dominio occidentale sulle culture “altre”, chi è convinto che la scienza venga confutata da troppi pregiudizi maschilisti che contiene. Non intendo tentare qui di capire se questi siano demeriti effettivi della scienza, o letture viziate di essa. Anche perché ritengo che ogni individuo colto e ragionevole non abbia difficoltà a riconoscere che la scienza spicca tra le imprese umane. Non è forse la scienza ad aver trasformato in modo radicale la nostra esistenza quotidiana? E non è forse la scienza a modificare costantemente la nostra visione del mondo e di noi stessi, conducendoci a nutrire credenze e ad acquisire conoscenze cui non saremmo altrimenti approdati?
In effetti, la scienza esercita uno straordinario influsso sul nostro quotidiano – basti, per esempio, immaginare a che ne sarebbe di noi senza le tante scoperte e applicazioni scientifiche, su cui facciamo conto in quasi ogni comune attività. Meno banale è, invece, il fatto che nella cultura contemporanea non vi sia altra disciplina prestigiosa e poco controversa quanto la scienza: viene allora spontaneo chiedersi «cos’è la scienza?». Oggi, specie nel nostro paese, è frequente la tendenza a rispondere crudamente: la scienza è «qualcosa» di cui dobbiamo diffidare. Tuttavia, quel «qualcosa» che la risposta contiene, e si rifiuta di precisare, è proprio quanto ci proponiamo di chiarire con «cos’è la scienza?», cosicché la risposta evade la domanda e non possiamo ritenerci soddisfatti da quanto afferma: prima di giungere a diffidare di qualcosa, dobbiamo sapere che cos’è di cui occorre diffidare.
Coloro che sollevano perplessità etiche contro la tecnologia si trovano in una posizione quasi contraddittoria: intendono proibire alcune ricerche scientifiche perché ne temono le future applicazioni tecnologiche e, al contempo, non rinunciano alla maggior parte delle applicazioni passate, che hanno alle loro spalle la scienza e che sono ormai intrinseche al nostro modo di modo di vivere contemporaneo: si pensi (solo per fare alcuni esempi) alle automobili, agli aerei, alle tecnologie audio-visive, al computer, all’elettricità, alla penicillina.
Ancorché ordinaria, la confusione tra scienza e tecnologia, al pari di ogni altra confusione, risulta poco giustificata. Una cosa è, infatti, la conoscenza scientifica, che è conoscenza proposizionale (sapere che una proposizione è vera), un’altra è la conoscenza tecnologica (sapere come fare certe cose). Certo, sussistono connessioni tra questi due tipi di conoscenza. Ma non è legittimo far collassare l’una nell’altra, né sostenere che la scienza si propone il «saper fare», quale principale obiettivo. Per di più, credere che l’obiettivo della ricerca scientifica consista nel saper fare serve solo a coloro che si propongono di arrestare (per ragioni a me incomprensibili, sempre che di ragioni si tratti) il progresso scientifico.
Per quanto risulti arduo negare che la conoscenza scientifica venga utilizzata per scopi tecnologici antitetici occorre aver ben presente che da ciò non segue che la conoscenza scientifica in sé sia eticamente obiettabile. Lo è solo l’impiego che la società fa di tale conoscenza. La domanda allora è: nell’ipotesi che occorrano considerazioni di tipo etico nei confronti della tecnologia (o meglio della società che utilizza una certa tecnologia, o che non la utilizza), ha qualche senso applicare l’etica alla scienza? Molti filosofi sostengono che non ha senso, dato che scopo della scienza consiste nel fornirci conoscenza a proposito del mondo fisico. Altra questione è il come la società decida di servirsi di questa conoscenza. Possiamo appellarci all’etica per valutare le decisioni della società (a favore o contro una qualche applicazione tecnologia. Non, però, con lo scopo di sbarrare la strada alla scienza, scienza che è, infatti e per lo più, neutrale rispetto alla sfera dei valori. Altri filosofi la pensano diversamente. Contro la neutralità oppongono ovvie constatazioni, la seguente per esempio: dato che i medesimi dati scientifici risultano spiegabili in diversi modi, le scelte teoriche degli scienziati non sono determinate solo dai dati, bensì anche da influenze politiche, interessi economici e morali, fedi religiose, aspirazioni personali. Per questi filosofi la scienza è «carica di valori» e che, come tale, deve chiamare in causa l’etica.
Da parte mia, ritengo che occorra isolare la scienza dalle influenze politiche, economiche, morali, religiose e personali. E che questo possa avvenire tenendo salda la classica distinzione tra «contesto della scoperta» e «contesto della giustificazione»: cioè tra il modo in cui si giunge di fatto a una scoperta scientifica e il modo in cui si dovrebbe giungere ad essa. A livello di contesto della scoperta, quando lo scienziato seleziona problemi e genera ipotesi, accade che alcune influenze culturali giochino un ruolo più o meno rilevante. Esse però vengono a cadere al momento della giustificazione, ove a contare sono i metodi scientifici e le verifiche empiriche. Dato che è a livello della giustificazione, non della scoperta, che è lecito parlare di scienza, quest’ultima risulta allora impregnata di valori (non conoscitivi) solo in un senso assai debole, non rilevante. Rimangono i fatti del mondo fisico. Fatti che non sono né giusti, né sbagliati, né etici, né antietici, e che la scienza continua a consentirci di conoscere. Permettendoci così (non è poco) di realizzare pienamente la nostra natura umana: «Tutti gli esseri umani aspirano per natura al sapere», afferma Aristotele.

IL PROGRAMMA
Da Napolitano a Grasso, da Barroso a De Biasi

Domani, a partire dalle ore 9, presso il Senato della Repubblica Palazzo Madama, Sala Koch, alla presenza del Presidente della Repubblica si svolgerà l’«Incontro su scienza, innovazione e salute», organizzato da Elena Cattaneo, scienziata, accademica, senatrice a vita. Coordinato da Marco Cattaneo e Armando Massarenti, parteciperanno fra gli altri Pietro Grasso, Josè Manuel Barroso, Emilia Grazia De Biasi, Nicla Vassallo.

l’Unità 9.12.13
Giuseppe Fiori dieci anni dopo: oggi convegno a Roma


«Il coraggio della verità. L'Italia civile di Giuseppe Fiori» . Oggi alle ore 18, alla Biblioteca del Senato, in piazza della Minerva 38, sarà presentato il libro edito dalla Cuec e curato da Jacopo Onnis che contiene una ricca raccolta di testimonianze sul giornalista e scrittore scomparso 10 anni fa. Fra le altre quelle di Corrado Stajano, Stefano Rodotà, Roberto Cerati, Rossana Rossanda, Nello Ajello, Carlo Lizzani, Furio Colombo. Al dibattito interverranno gli storici Giovanni De Luna e Guido Melis, oltra al curatore del volume.
Giuseppe Fiori è stato vicedirettore del Tg2, direttore di Paese Sera e senatore della Sinistra Indipendente eletto nelle liste del Pci per tre legislature.
Autore di importanti opere di narrativa (Sonetàula), reportage (Baroni in laguna) e biografie, a cominciare dalla «Vita di Antonio Gramsci».

il Fatto 9.12.13
I tormenti del perdono in Adriano Prosperi
di Furio Colombo


Ripensate per un momento i grandi eventi di cronaca nera che sono stati portati all’attenzione popolare dalla Tv, ovvero al primo strumento di comunicazione interattivo (perchè una quantità di spettatori parla al televisiore, interroga, nega, approva, si sfoga). Questo tipo di programmi ha portato a tre eventi difficili da evitare e difficili da tollerare. Uno sono gli applausi alla bara, quasi qualunque bara. Un altro è la domanda più vergognosa, che però sopravvive ancora in non pochi telegiornali: chiedere a moglie, madre, figlio della persona che ha patito morte improvvisa e violenta “che cosa prova?”. La terza prova di tanti nostri colleghi (parlo di giornalisti) è la domanda: “Lei perdona chi ha commesso questo delitto?”. È una domanda atroce. Ma attenzione: a differenza delle due prime domande, che sono radicate nel vuoto di molta cultura giornalistica, qui ci sono precedenti culturali che segnano secoli di vita e costumi italiani, e occidentali. Una prova, allo stesso tempo popolare e scientifica, di livello accademico e di lettura da romanzo è nel libro Delitto e perdono di Adriano Prosperi, edito da Einaudi . Non lasciatevi spaventare dalle 558 pagine di quello che sembra un inaccessibile testo scientifico. Prosperi è uno storico che è in grado di usare e controllare e interpretare un vasto flusso di documenti, attraverso un lungo periodo e una quantità di eventi. Ma segue e tiene con forza il filo di un argomento essenziale per interpretare praticamente tutti gli eventi della vita italiana: il perdono.
Il riferimento chiave è al Cristianesimo. Non esiste il perdono nel diritto e nella cultura romana, come in quella ateniese. Il perdono è il dono che coglie il mondo di sorpresa con il Cristianesimo. Ma porta con se un trucco terribile: distinguere (contrapporre, se necessario) anima e corpo. E poichè la vita eterna è un privilegio dell’anima, mentre il corpo “era polvere e tornerà polvere” (sia pure per risorgere a tempo debito) ed è, comunque, la protesi terrestre dell’anima e il prestanome fisico del ruolo da giocare nella vita, al corpo si possono dedicare tormenti che assolutamente vanno risparmiati all’anima.
QUI VA CONCENTRATA la misericordia. Ovvero, per il bene dei figli di Dio, tormentare, se necessario, i corpi, nella loro breve vita terrena, e salvare l’anima eterna. Adriano Prosperi ha dedicato il suo studio a questa clamorosa diversificazione fra pietà e crudeltà, fra salvezza e dannazione, costruendo una sfasatura che non ha scrupoli nel punire la carne, ma non risparmia sforzi per mettere le anime al sicuro. Crudeltà, cinismo, spietatezza, vi renderete conto seguendo il percorso di Prosperi, sono parole senza senso. Ma descrivono bene i secoli della cultura che ha formato questo mondo cristiano,occidentale, ricco di giustizia che ha dato radici all’Occidente.

La Stampa 9.12.13
Chi dà voce agli altri
La vita agra dei traduttori editoriali
In maggioranza donne, quasi tutti laureati
Amano il loro impiego anche se sottopagati
Più di metà svolge anche un altro lavoro
Quasi tutti vedono un futuro precario
di Walter Passerini


Quattro su cinque sono donne, quasi tutti hanno una laurea, spesso arricchita con master o dottorati di ricerca. Anche se pagati poco, continuano ad amare il proprio lavoro, ma hanno del futuro una visione incerta e del tutto precaria. E’ il destino di molte professioni intellettuali, e in particolare di quelle che operano nel mondo dell’editoria, come racconta l’inchiesta realizzata da Editoria invisibile, Ires, Slc, Rete dei redattori precari e Strade, il sindacato dei traduttori editoriali. E’ uno spaccato di una delle professioni più amate dai giovani, costruito raccogliendo sull’intero territorio nazionale 1.073 testimonianze di vita editoriale, di cui un terzo traduttori editoriali.
Le donne sono l’81,5%. I livelli di occupazione femminile sono molto superiori rispetto all’occupazionale italiana dove la quota delle donne non arriva al 50%. Il 91,4% possiede una laurea spesso integrata con master e dottorati, mentre a livello nazionale solo un italiano su cinque presenta questi livelli di istruzione. L’età prevalente è compresa tra 30 e 45 anni. Circa un terzo lavora con la formula della cessione dei diritti d’autore (32,5%), pagata però in misura forfettaria, seguita da contratti di collaborazione occasionale (26%), contratti a progetto (13,5%) e partita Iva. Tre traduttori su quattro lavorano con più committenti, mentre uno su cinque confessa di aver dovuto accettare il lavoro nero negli ultimi due anni. L’84% afferma di non vedere alcuna prospettiva di sviluppo di carriera. Un intervistato su tre (33,6%) considera il lavoro nell’editoria imprevedibile e il 36,9% lo considera pieno di rischi ed incognite. Per questo il 54,8% dichiara di svolgere almeno un altro lavoro, oltre a quello nell’editoria, e contemporaneamente esprime un grado di soddisfazione molto basso (con un giudizio espresso pari a 3,3) riguardo al livello del reddito percepito rispetto sia all’attività svolta che alla possibilità di condurre una vita dignitosa.
Le retribuzioni? Il 59,3% dichiara di percepire una retribuzione lorda annuale inferiore ai 15mila euro, il 16% dichiara meno di 5mila euro all’anno. Il 19% afferma di poter contare su un reddito lordo annuale compreso tra 15mila e 20mila euro, poco più di un decimo del campione si colloca nella fascia di reddito 20-30mila euro e solo tre intervistati su cento percepiscono una retribuzione superiore ai 30mila euro annui. Anche in questa professione appaiono forti differenziali retributivi di genere. Più di sei donne su dieci (il 64,4%) percepiscono una retribuzione lorda annuale inferiore ai 15mila euro contro il 36,7% dei maschi nella stessa condizione (quasi ventotto punti percentuali di differenza a svantaggio della componente femminile), con una diminuzione della presenza femminile nelle fasce di reddito più alte. Il focus mostra inoltre concentrazioni di lavoratori più giovani, under 35, nelle fasce di reddito più basse: più del 68% di questi percepisce redditi inferiori ai 15mila euro.
I lavoratori che operano in regime di monocommittenza ricevono retribuzioni più basse rispetto ai soggetti che svolgono la loro attività con più committenti. Il 90% dei traduttori confessa di dover integrare i redditi con altre attività. La quasi totalità dichiara di essere retribuito con un compenso a cartella (86,2%).
Quasi tutti (90,1%) affermano che il loro lavoro si svolge in casa propria o in uno studio privato. L’autonomia nel lavoro è considerata una compensazione a tante insoddisfazioni. Scelta sulle pause, sugli orari o sui metodi di lavoro sono apprezzate, mentre lo stress, i ritmi o la possibilità di andare in ferie sono voci più critiche. Più di sei su dieci intervistati dichiarano di dover fare formazione a proprie spese.
Ciononostante forte rimane il legame con la propria professione, che per la maggioranza resta un modo per realizzare se stessi (quasi otto su un punteggio di dieci), per essere indipendenti (quasi sette) e per essere socialmente utili (quasi sei). Sette traduttori su dieci prevedono nei prossimi tre anni un futuro lavorativo incerto, il 15% lo prevede uguale, solo il 14,6% lo intravvede, invece, pieno di possibilità e di occasioni.

La Stampa 9.12.13
Carlo Martello e l’enigma di Poitiers
Evento che ha cambiato la storia del mondo o scontro minore,
la battaglia che nel 732 fermò l’Islam è divenuta un momento fondante dell’identità europea
di Alessandro Barbero


L’ESORDIO DEGLI «EUROPENSES» La parola , in latino, viene usata per la prima volta nella cronaca di un annalista cristiano andaluso

Il grande storico tedesco Hans Delbrück, uno dei creatori della moderna storia militare, affermò a proposito della battaglia di Poitiers che non c’era «nessuna battaglia più importante nella storia del mondo». Lì, infatti, s’interruppe l’avanzata dell’Islam che dopo il Vicino Oriente e il Nordafrica aveva inghiottito la Spagna e minacciava di dilagare in Europa. Eppure, le cose che non sappiamo su questa battaglia così importante sono molte di più di quelle che sappiamo. Perfino il nome è incerto: nel mondo anglosassone si preferisce chiamarla la battaglia di Tours. Sulla data, oggi un certo consenso la colloca nel 732, o forse nel 733, ma in passato la si datava al 725. È confortante sapere che perlomeno non c’è dubbio su chi ha vinto e chi ha perso: i Franchi al comando del maestro di palazzo Carlo Martello, nonno di Carlo Magno, sconfissero un esercito arabo al comando del wali di al-Andalus, il governatore della Spagna araba, Abd el-Rahman, che trovò la morte sul campo di battaglia.
Al di là di questo dato di fatto, il disaccordo regna sovrano: una battaglia che ha cambiato per sempre la storia del mondo, oppure uno scontro minore che non ha avuto alcuna importanza, dato che l’espansione araba era già arrivata ai suoi limiti naturali? I cronisti dell’epoca non ci aiutano a decidere, perché le loro descrizioni non corrispondono a nessuna di queste due visioni estreme. Gli autori franchi ne parlano come di una vittoria, ma non l’unica: Eginardo, il biografo di Carlo Magno, accredita a Carlo Martello due grandi vittorie, a Poitiers e a Narbona, grazie alle quali gli arabi vennero ricacciati al di là dei Pirenei. La raccolta di biografie dei Papi nota come Liber Pontificalis si entusiasma per il trionfo sulla «nefanda gente» degli Arabi, e avanza cifre che verranno poi ripetute dagli storici senza farsi troppi problemi fino a tempi vicini a noi: il nemico ebbe 375.000 morti, i Franchi appena 1500. A un’analisi più accurata, però, si scopre che il cronista pontificio parlava di un’altra battaglia, quella vinta nel 721 dal duca Odone d’Aquitania presso Tolosa!
I cronisti arabi, da parte loro, ammettono la gravità della disfatta, in cui tanti guerrieri si guadagnarono il paradiso, tanto che la battaglia venne soprannominata «la strada dei Martiri». Siccome il termine usato, balat, indica le strade selciate, gli studiosi ne hanno dedotto che lo scontro si combatté sull’antica via romana
che collegava Poitiers a Tours, ma in realtà anche la battaglia di Tolosa è indicata dai cronisti arabi con la stessa formula stereotipata.
C’è però un cronista dell’epoca che più di tutti ha contribuito a creare il mito di Poitiers. È un annalista anonimo, cristiano, che scriveva in latino nella Spagna governata dagli Arabi. È l’unico a raccontare in dettaglio lo scontro, coniando un’immagine rimasta famosa: gli uomini del Nord, «gentes Septentrionales», respinsero l’assalto restando immobili come un muro, impenetrabili come i ghiacci polari. Da quando il testo è stato riscoperto, nel Cinquecento, l’immagine dei Franchi fermi come un «muro di ghiaccio», che al cronista andaluso doveva evocare la nordica alterità di quel popolo lontano, è stata adottata dagli storici alla ricerca disperata di particolari con cui arricchire il racconto, altrimenti aridissimo, di questa battaglia decisiva. Non meno sorprendente è il termine usato ben due volte dal cronista spagnolo per indicare i vincitori: sono gli «Europenses» ed è la prima volta che questo aggettivo compare, in latino, per indicare gli abitanti dell’Occidente.
Ma è solo dal XVIII secolo che Poitiers è diventata un momento fondante per l’identità europea. Edward Gibbon osservò che senza Carlo Martello «forse oggi l’interpretazione del Corano sarebbe insegnata nelle scuole di Oxford, e i suoi pulpiti dimostrerebbero a un popolo circonciso la santità e verità della rivelazione di Maometto». Da allora è un crescendo di entusiasmo: «coi saraceni vittoriosi, il mondo era maomettano» (Chateaubriand); la vittoria di Carlo Martello ha salvato «la civiltà mondiale» (Guizot); uno storico americano dell’Ottocento definì la battaglia «una di quelle straordinarie liberazioni che hanno influenzato per secoli la felicità del genere umano». L’ex presidente americano Theodore Roosevelt, in un libro dal titolo rivelatore (Temi Dio e prenditi la tua parte) tuonava: «senza il martello di Carlo, l’Europa oggi sarebbe maomettana e la religione cristiana sarebbe stata sterminata».
Come stupirsi se Poitiers appare ancor oggi un grido di guerra a chi per mestiere combatte l’Islam? Recentemente negli Usa il deputato Allen West, repubblicano della Florida, a un giornalista che gli chiedeva perché mai una religione intera dovrebbe essere considerata come un nemico, ha dichiarato che l’Islam dei terroristi non è una religione, ma un sistema aggressivo sempre uguale nei secoli, e non c’è bisogno di spiegare perché occorre combatterlo. «Volete riesumare Carlo Martello e chiedergli perché ha combattuto l’esercito musulmano alla battaglia di Tours nel 732?».
Il deputato West, che fra parentesi è un afro-americano, se ne intende: ufficiale dell’esercito, ha combattuto in Iraq prima di essere costretto a dimettersi per aver maltrattato un prigioniero. Se non altro, ha il merito di parlar chiaro; a lui non sarebbe sfuggita una frase come quella di Oriana Fallaci nella Forza della ragione, che è probabilmente il commento più superfluo mai sentito sull’argomento: «Se nel 732 Carlo Martello non avesse vinto la battaglia di Poitiers-Tours oggi anche i francesi
ballerebbero il flamenco».

Corriere 9.12.13
Un enigma di nome Costantino
Esaltato o denigrato, è l’imperatore romano più discusso
di Armando Torno


Costantino il Grande, esaltato dai cristiani e al tempo stesso divinizzato dai pagani, fu qualcosa di più di un imperatore romano. In lui si riflette un uomo epocale che cambia la storia, che lascia tracce indelebili nella «nuova» religione, che sottomette l’arte e costringe la stessa letteratura a ristudiarlo continuamente. Ogni epoca sarà quasi obbligata a esprimere un giudizio su di lui. Eusebio di Cesarea, che gli dedica una biografia, scrive addirittura che al Concilio di Nicea del 325, convocato e presieduto dallo stesso imperatore, «la sua veste splendente lanciava bagliori pari a quelli della luce ed egli appariva tutto rilucente dei raggi fiammeggianti della porpora»; un anonimo panegirista bizantino, nel tessere un encomio risalente al XII secolo, lo definisce «il più beato e più santo tra gli imperatori». Montesquieu al contrario, dopo avergli rimproverato le debolezze personali (Voltaire elencava con piacere i suoi delitti), lo ritiene responsabile anche del declino dell’impero romano. In termini di nuovo diversi si esprime Dorothy Sayers, nota oggi soprattutto per i suoi romanzi polizieschi, nel dramma The Emperor Constantine. A chronicle (scritto per il Colchester Festival del 1951): «È poi diventato di moda incolpare Costantino per la corruzione implicita in ogni alleanza tra potere spirituale e potere temporale... ma simili critiche sono inutili». Lev Tolstoj, per chiudere una controversa e infinita serie di giudizi ancora in corso, in un articolo del 1902, Lettera a un sergente , non fa sconti e lo chiama «quel mascalzone di Costantino il Grande».
Che dire? Non è facile rispondere a questa domanda e ad altre riguardanti l’imperatore più controverso — ora esaltato, sovente insultato — della storia occidentale. Costantino non era gradito a Dante per la Donazione, che poi si scoprirà falsa, con cui si suggellava il potere temporale del Papa (nel XIX canto dell’Inferno : «Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,/ non la tua conversion, ma quella dote/ che da te prese il primo ricco patre») e ancora oggi l’argomento non è esaurito del tutto. Costantino cambia la storia del cristianesimo e, tra le molte sue opere, fonda Costantinopoli. Costantino è arte, letteratura, cinema, teatro, storiografia; senza la conoscenza del suo operato è addirittura difficile comprendere taluni miti imperiali, dalla Russia pre o post sovietica all’Italia di Mussolini. Costantino entra nei dibattiti sulla tolleranza religiosa, anche se a volte potrebbe starsene fuori. Insomma, questo imperatore ha fatto scrivere intere biblioteche, nelle quali il saggio di Jacob Burckhardt Costantino e il suo tempo si può considerare uno spartiacque. In questo 2013, a 1.700 anni dall’editto di Milano che rendeva la libertà di culto ai cristiani, è tempo di bilanci.
E, come si suol dire, non ne mancano di corposi: l’Istituto della Treccani pubblica un’enciclopedia internazionale in tre volumi dal titolo Costantino I . Tratta della figura e del mito (che sovente ha sostituito il personaggio reale), offre uno status quaestionis amplissimo della critica cominciata nel IV secolo e ancora in corso, ne analizza il ruolo storico dal mondo romano a quello bizantino sino ai nostri giorni. L’enciclopedia costantiniana è stata diretta da Alberto Melloni, e il suo nome figura anche nella direzione scientifica. Tra le molte indicazioni che egli offre nell’introduzione, ne scegliamo una per mostrare la ricerca vastissima che informa la nuova impresa della Treccani e le prospettive che in essa si colgono: «Sono rimasti inesplorati anche nella storiografia americana quegli adattamenti che facevano presentire a uno statista italiano, Nino Andreatta, una nuova “era costantiniana” dopo l’elezione alla presidenza degli Stati Uniti di Ronald Reagan, quando stava per calare il sipario sull’illusione che il mondo si fosse “secolarizzato”».
Costantino, insomma, è più presente di quanto comunemente si creda.

Corriere 9.12.13
La psichiatra Rossella Valdrè analizza trentatrè film dell’ultimo decennio
Al cinema con Freud e Jung in sala
Per lasciarsi sorprendere dai sogni
di Paolo Beltramin


Perché l’anziana madre di Norman Bates, la spietata assassina di Psycho , è proprio così cattiva? Perché in Manhattan le coppie si fanno e si disfano, attraversando le strade più romantiche del mondo, senza trovare mai un equilibrio? E perché Jeb Rand, il cowboy protagonista di Notte senza fine , sogna ossessivamente un paio di speroni che vanno e vengono davanti ai suoi occhi? Anche i più fieri avversari della psicoanalisi devono riconoscere la sua utilità fondamentale, almeno nella storia del cinema. Da Ingmar Bergman e Federico Fellini fino agli sceneggiatori pagati a cottimo per inventarsi film di serie B nell’epoca d’oro di Hollywood, schiere di artisti e artigiani hanno scopiazzato a piene mani dalle pagine di Sigmund Freud. E il più delle volte lo hanno fatto, come era inevitabile, del tutto inconsciamente.
Nel saggio La lingua sognata della realtà (Antigone edizioni), la psichiatra Rossella Valdrè in fondo compie il percorso inverso: parte dal cinema per arrivare alla psicoanalisi del reale. Trentatré film dell’ultimo decennio vengono idealmente proiettati sul lettino dell’analista, per indagare «l’uomo di oggi, il soggetto della contemporaneità». Sempre mettendosi «di fianco allo spettatore e non al di sopra», come osserva Stefano Bolognini nella prefazione. Senza mai cedere alla recensione valutativa, ma senza nemmeno nascondere una passione sconfinata per l’oggetto del suo studio.
Opere come Il nastro bianco e Funny Games di Michael Haneke, Match Point e Sogni e delitti del suo adorato Woody Allen ci raccontano l’evoluzione della perversione umana: viviamo «non un’età della follia, come fu, se si vuole, l’epoca dell’isteria di Freud, ma un periodo storico dove il tratto psichico dominante è, da parte di molti soggetti, la manipolazione psicopatica di ansie psicotiche». Perduto ogni possibile senso di colpa, i protagonisti compiono il male come una cosa assolutamente naturale, come una delle tante opzioni possibili.
Un altro gruppo di film, dalla Solitudine dei numeri primi a Revolutionary Road , indaga invece il mutamento del rapporto tra maschile e femminile, sempre più ambiguo, minato dalla tentazione dell’onnipotenza e insieme da uno strano senso di fragilità: «Una fragilità particolare, tutta moderna, che si palesa nella richiesta continua di conferme amorose, nel bisogno assoluto di corrispondere all’ideale, di assecondare le aspettative altrui e il conformismo sociale per non provare il dolore della differenza, dell’unicità, della separatezza».
In un tempo di visioni sempre più frammentate, di scene cliccate su YouTube e subito cancellate da altre scene, fermarsi a ragionare su un film accanto a una psicanalista può avere effetti imprevisti. Forse può perfino svelare qualcosa di nascosto, nell’opera e in chi la sta guardando. «I film sono come i sogni, soggetti alla stessa, incontrollabile dinamica — ha scritto David Cronenberg —. E viceversa, i sogni sono come i nostri film. Oggi forse il cinema ha cambiato il modo di sognare. I nostri sogni sono debitori delle componenti oniriche del grande schermo: montaggi, effetti speciali… Il mio? È di sognare una sceneggiatura perfetta, pari pari, una volta sveglio, in un film». Il cinema come un passaggio segreto, tra il sogno e la realtà. «Questo stato mentale fortunato, così prezioso, così raro, che la contemporaneità fa di tutto per svilire», aggiunge la Valdrè. «Come quando in seduta col mio paziente si crea l’ambiente giusto, di ascolto empatico ma non saturante, di partecipazione senza intrusione, di libertà associativa, di comprensione umana, senza pedagogia: allora, come nel buio della sala, tutte le porticine aperte, apribili, dentro di me, mi lascio sorprendere». Torna alla mente il titolo del film di David Cronenberg su Freud e Jung, A Dangerous Method . Un metodo pericoloso, certo, ma estremamente affascinante.

Il libro di Rossella Valdrè «La lingua sognata della realtà» , Antigone, pagine 224, e 24

Repubblica 9.12.13
Un saggio di Ginsborg racconta la vita quotidiana tra rivolte e regimi, inclusa quella degli stessi tiranni
Novecento
La famiglia che resiste ai cataclismi di un secolo
di Simonetta Fiori


Per Marinetti era un’istituzione “assurda” e “preistorica”. Quasi sempre un carcere. Una “grottesca pigiatura di anime e nervi”, di cui liberarsi al più presto. La moglie, però, andò a cercarsela nella buona borghesia piemontese, le chiese la mano alla maniera di un signorotto dell’Ottocento — invocando tutti i suoi avi più lontani — mandò le figliole dalle suore a Trinità dei Monti e impedì loro di frequentare artisti bohémien. Un caso isolato, quello dell’inventore del futurismo?
Proviamo ad affacciarci in Spagna, più o meno negli stessi anni. Ecco la bella Margarita Nelken, teorica della rivoluzione nella vita pubblica e privata. Credeva nel libero amore e fino alla fine gridò il suo furore contro “l’ipocrita farsa” della famiglia borghese: quella stessa che faticosamente aveva messo in piedi e poi tanto le sarebbe mancata, in uno dei quartieri più eleganti di Madrid. E la povera Inessa Armand, protagonista dell’emancipazione femminile nella Russia infuocata dalla rivoluzione? Alla fine s’adattò al ruolo dell’amante, molto compianta da Lenin dopo la prematura morte, ma pur sempre subalterna nella convenzionale triangolazione con la paziente moglie Krupskaja.
La famiglia? Difficile abbatterla o scioglierla in una forma di vita sociale superiore, ancora più complicato invaderne i confini fagocitando segretezza, amore, amicizia. Non ci riuscirono le più grandi rivoluzioni del Novecento né i totalitarismi che in qualche caso ne scaturirono. Fallirono dittatori e leader carismatici, splendide amazzoni della libertà sessuale e ardenti teoriche di nuove relazioni sentimentali. Ne furono sconfitti anche i movimenti libertari, sperimentando presto a proprie spese che un ambiente affettivamente senza legami aggrava le pene d’amore anziché curarle. Se dovessimo trovare un filo conduttore per le quasi settecento documentatissime pagine che Paul Ginsborg dedica all’istituzione famigliare nella prima metà del Novecento, uno potrebbe essere proprio questo: qualsiasi utopia anarchica, progetto sovversivo o ideologia rivoluzionaria sono destinati ad arrestarsi sulla soglia di casa. Perché a smentirli interviene o la realtà storica realizzata, oppure — più banalmente — gli stessi comportamenti personali dei protagonisti, quasi tutti obbedienti a una inesorabile legge: rovesciatori d’altari in pubblico, tradizionalisti nel privato (Famiglia Novecento, Vita familiare, rivoluzione e dittature 1900-1950, traduzione di Emilia Benghi, Einaudi).
È un affascinante racconto storico, denso di paradossi e contraddizioni tra legislazione e vita reale, quello che affiora da decennali studi sul campo di Paul Ginsborg. Un ampio affresco che copre popoli e culture assai variegate - Russia, Turchia, Italia, Spagna, Germania - colti sempre in un momento di drammatica transizione, tra rivoluzione e dittature del secolo scorso. Un lavoro innovativo che riporta in primo piano un soggetto ingiustamente escluso dalla storia. Gli esiti di questo sguardo capovolto? La conclusione dello storico inglese — e non mancherà certo discussione — è che nessuno dei regimi novecenteschi, neppure il più terribile, può essere definito totalitario, proprio perché non riuscì mai a essere così “onnicomprensivo” e “distruttivo” nei confronti delle famiglie. Nessuno, insiste Ginsborg, eguagliò il livello di controllo fisico e mentale descritto da George Orwell. Ci si avvicinarono i nazisti e Stalin, più distanti Mussolini e Franco, ma c’è sempre una zona che resiste. Momenti di “privacy e intimità”, “codici segreti”, “strategie e solidarietà” che sfuggono al controllo del tiranno.
E a proposito di tiranni, il merito dello studioso è anche quello di aver tuffato il naso nelle loro complicate vicende familiari. Dietro ogni dittatore si nasconde sempre un figlio unico di padre assente e madre iperprotettiva, condannato a un destino di orfano precoce. Da qui l’invocazione costante di una stabilità familiare, che è innanzitutto funzionale al nuovo ordine imposto, ma anche il riflesso di una fragilità patita in gioventù. Una corrispondenza che spaventa nel caso di Stalin, tra tutti il bambino più sfortunato, traumatizzato da un padre alcolista e dalla reclusione penitenziale in un collegio ortodosso russo. Il modello distruttivo sarebbe stato poi trasferito dalla famiglia di origine a quella procreativa e ancora all’intera società sovietica. Ma se Stalin è «il più terribile dei patriarchi», Hitler è quello che riuscì a esercitare sulla vita famigliare la maggiore capacità di controllo, essendo la Germania la più moderna tra le nazioni analizzate. Per le “buone famiglie tedesche” non ci furono particolari problemi, almeno fino alla guerra. Ma per tutte le altre, liquidate come “estranee” o “inferiori”, era pronta la macchina dell’orrore.
La palma del tradizionalismo spetta al Generalissimo Franco, per cinquantadue anni marito fedele, l’unico che possa fregiarsi del titolo di buon padre di famiglia. Della sua, naturalmente. Nonostante l’aspetto flemmatico, “quel bel tomo del Caudillo” — così lo sfotteva Galeazzo Ciano, che però sarebbe durato assai meno di lui — fu uno dei più spietati nei confronti degli avversari e delle loro famiglie, a cui fu impedito perfino di seppellire i cadaveri dei loro cari. Il caso spagnolo è tra i più interessanti anche per il contrasto tra fervore rivoluzionario e mentalità machista. LaCostituzione repubblicana del 1931 introdusse il divorzio assai prima che in Gran Bretagna e in Francia (per non dire dell’Italia), un atto rivoluzionario nella cattolicissima Spagna. Ma poi, quando si trattò di dare il voto alle donne, anche da sinistra qualcuno suggerì che sarebbe stato meglio concederlo solo a quelle in menopausa.
Studiare la famiglia significa studiare i rapporti di genere, costantemente soggetti a una doppia marcia: da un lato le norme dei vari codici, dall’altra la vita famigliare reale, che molto spesso contraddice le disposizioni più illuminate. Difficile che le due velocità possano coincidere. Non accadde in Spagna, ma neppure nella Russia bolscevica. Aleksandra Kollontaj, l’unica donna che sedette nel governo di Lenin, fu anche la sola a riconoscere nella sessualità una tematica rivoluzionaria. “Eros alato”,lo chiamava, tra i sorrisi sarcastici dei compagni. Lo stesso Lenin non ne assecondava il libertarismo sentimentale, anche perché i rivoluzionari marxisti — ad eccezione di Antonio Gramsci — raramente si sono posti tante domande sulla famiglia. Però le idee della Kollontaj avrebbero influenzato nel 1918 la nuova legislazione sulla parità femminile, ben più avanti dei codici occidentali ma più tardi smentita clamorosamente dalla storia.
E l’Italia del fascismo? Più delle confuse politiche di Mussolini — sintetizzate da Gadda nell’ossimoro della “virile vulva” — agì sulla società italiana il rassicurante magistero della Chiesa cattolica. Il nuovo codice civile fu partorito in ritardo, soltanto nel 1942, distinguendosi non certo per eguaglianza tra coniugi ma per gli articoli antisemiti. Più dirompente al confronto la legislazione di Atatürk, che ruppe nel 1926 con le prassi ottomane e islamiche garantendo alle donne alcuni rivoluzionari diritti, almeno dentro il matrimonio. Ma il grande fautore dell’emancipazione femminile nella vita privata preferiva amanti remissive. E alla domanda su cosa apprezzasse di più nelle sue compagne, il padre della patria turca era solito rispondere: «La loro disponibilità».

IL LIBRO Famiglia Novecento di Paul Ginsborg Einaudi pagg. 684 euro 35

Repubblica 9.12.13
Il Principe di Machiavelli compie cinquecento anni


FIRENZE — Il 10 dicembre 1513 Niccolò Machiavelli scriveva a Francesco Vettori di avere «composto uno opuscolo De principatibus», l’opera poi passata alla storia con il titolo Il Principe.
A cinquecento anni di distanza Firenze ricorda quell’avvenimento. Il Comitato fiorentino per le celebrazioni, presieduto da Valdo Spini, ha organizzato infatti per domani, 10 dicembre, una serie di manifestazioni. La giornata celebrativa de “Il Principe” inizia alla 9,30 nel Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio con il sindaco Matteo Renzi e il presidente del Comitato fiorentino per le celebrazioni, Valdo Spini. Adriano Prosperi terrà la prolusione ufficiale sul tema “Rileggere Machiavelli oggi”.
Alle 12 nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze verrà inaugurata la Mostra “La via al Principe. Niccolò Machiavelli da Firenze a San Casciano” organizzata con la stessa Biblioteca Nazionale Centrale, il Polo Museale Fiorentino e l’Archivio di Stato di Firenze. Alle 16,15 comincerà nel Salone dei Duecento di Palazzo Vecchio il convegno “Il significato delle celebrazioni de Il Principe di Niccolò Machiavelli”. Tra i relatori: Michele Ciliberto, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento; Francesco Bruni, Accademia della Crusca.

La Stampa 9.12.13
Il classico di Cechov riletto da Bellocchio senza sentimentalismi
Zio Vanja dramma di seduzione che crolla se la bella è scialba
Piacciono Michele Placido e l’esagitato protagonista di Rubini
di Masolino D’Amico

qui