martedì 10 dicembre 2013

il Fatto 10.12.13
Renzi “Ora comando io”
di Wanda Marra


Il nuovo leader del Pd nomina subito la nuova segreteria (7 donne e 5 uomini, età media 37 anni). Poi incontra Letta e ne esce un comunicato di circostanza: “Lavoreremo bene insieme”. Questa sera vede i parlamentari e forse finalmente si capirà se i gruppi seguiranno il “nuovo corso”. Il primo scoglio: la legge elettorale. “O con questa maggioranza o con chi ci sta”

La presa del Nazareno Renzi: “Il Pd mi segua”
“FARE IL SINDACO DI FIRENZE È IL LAVORO PIÙ BELLO DEL MONDO, FARE IL SEGRETARIO UN ONORE E UNA RESPONSABILITÀ”. LO CHIAMA B: “HAI VINTO PERCHÉ NON C’ERO IO”

Il sindaco di Firenze per un fiorentino è il lavoro più bello del mondo. Fare il segretario? Un grande onore e una grande responsabilità”. Quando Matteo Renzi qualche minuto dopo le 16, con più di mezz’ora di ritardo, si siede al tavolo delle conferenze stampa del Nazareno, coperto dal muro delle telecamere, dove sembra di vedere ancora l’ombra di Bersani, l’effetto è davvero straniante. Sembra l’arrivo di un marziano, o la presa della Bastiglia. Lui, per la verità, non ha l’aria tonica di domenica sera, quando ha pronunciato un discorso della vittoria tanto duro quanto incredibilmente efficace. È insofferente (“non sono abituato alle conferenze stampa romane”), sbrigativo (ha appuntamento con il premier alle 16:30) e il messaggio che voleva mandare già l’ha mandato: da ora in poi si fa come dice lui. Al governo, come al partito. Il problema è che nonostante i proclami, la strada è stretta: e trovare l’equilibrio tra quello che non dà la spallata all’esecutivo, ma nello stesso tempo fa quello che dice, è difficile.
IL NEO SEGRETARIO “nella sostanza” (sarà incoronato domenica dall’Assemblea a Milano) parte per la Capitale da Palazzo Vecchio in macchina dopo le 10 e mezza. Tra le telefonate d’auguri in nottata gli arriva pure quella di Berlusconi (“Sei stato bravo. E t’è andata bene, perché io non posso essere in campo”). Varca la soglia di Sant’Andrea delle Fratte da “capitano” alle 13 e 45. La curiosità è spasmodica, il momento storico. Va immediatamente nella stanza di Luca Lotti: c’è da definire la segreteria. Il Nazareno sembra un fortino espugnato che si consegna al vincitore senza più anticorpi. E nella più totale incertezza sul futuro. I fiorentini dello staff del neo segretario per molti sconosciuti, ormai sono i padroni di casa. Il portavoce “ventriloquo” di Matteo, Marco Agnoletti, parla col capo ufficio stampa Roberto Seghetti. Transizioni. Nel frattempo Stefano Di Traglia e Chiara Geloni fanno gli scatoloni. Matteo riceve prima Gianni Cuperlo. Gli chiede se ci tiene ad avere qualcuno dei suoi in segreteria. Lui risponde di no: è disposto a collaborare, sa che non ha altra scelta, ma preferisce farlo da fuori. Poi arriva Roberto Speranza, capogruppo alla Camera. Gli offre la disponibilità a continuare nel suo lavoro. Come Luigi Zanda. Per Matteo va bene, se dimostreranno di portare i gruppo dove vuole lui. Dirà in conferenza stampa: “Come faccio a controllare gruppi che sono stati scelti da altri? Devono obbedire non a me ma a 2 milioni di italiani. E poi, vorrei sentire qualcuno che motiva posizioni diverse dalle mie”. Comanda lui. Dalla prima riunione di stasera si capirà se distinguo e intolleranze avranno la forza di venire fuori. Nel colloquio con Epifani si organizza il cambio della guardia. Matteo non s’è ancora portato dietro i quadri e le foto per occupare la stanza. Non c’è da stupirsi che quando si presenta davanti ai giornalisti sia piuttosto stanco. Accanto a lui c’è il segretario uscente e Seghetti dirige i lavori. Dietro il palco tutti i suoi. Dopo i ringraziamenti, enuncia la sua squadra “7 donne e 5 uomini”. Una segreteria staff. Non ha molta voglia di rispondere ai giornalisti: “Credo che la qualità delle risposte dipenda dalla qualità delle domande”. Ribadisce che “il punto non è far cadere il governo ma fargli ottenere dei risultati”. Rincara: “Non abbiamo un minuto da perdere”. L’ha ripetuto fino alla nausea nella campagna congressuale. Ora però deve andare all’incasso. E infatti, la tappa dopo il Nazareno è Palazzo Chigi. Per “dettare” le condizioni a Enrico Letta. Cosa chiede Matteo? Abolizione delle province prima di Natale, come spiega Matteo Richetti. E poi, legge elettorale maggioritaria, e abolizione del Senato. Se è così si può arrivare anche fino al 2015. Ma l’asticella è parecchio alta. Infatti, Renzi ha già la strada pronta per accorciarsi la strada della premiership: Mattarellum con chi ci sta e voto subito. Spiega Dario Nardella. “Gli italiani non amano questo governo, ma non vogliono che cada. Noi dobbiamo tenere presente entrambe le cose. E il premier nel discorso della fiducia (fissata per domani, ndr) non può far finta di nulla”. Angelo Rughetti ha in testa addirittura delle consultazioni, tipo primarie, nei gruppi sulla riforma elettorale. A ora, comunque, nessuno è in grado di fare previsioni sulla durata dell’esecutivo. Sull’incontro col premier, da Renzi non arriva nessuna comunicazione ufficiale. Per ora niente patto, solo il primo round.

Corriere 10.12.13
Il segretario e i suoi nemici
di Angelo Panebianco


Un anonimo sostenitori di Gianni Cuperlo, commentando il trionfo di Matteo Renzi, ha detto ai cronisti, mestamente: «Oggi il Pci è davvero finito. Sepolto». Beh, sepolto no, e morto nemmeno, ma forse agonizzante. Se il contesto in cui il neosegretario dovrà muoversi fosse diverso da quello che è, se non ci fosse ripiombata addosso, grazie alla Consulta, persino la proporzionale con le preferenze, anche chi scrive farebbe sua (con un diverso spirito) l’affermazione di quell’anonimo. Ma il contesto è tale, e la connessa palude è così insidiosa per Renzi, che l’agonia del vecchio partito, dichiarato morto vent’anni fa ma vissuto clandestinamente fino a oggi (perché vivo nella coscienza di tanti militanti nonché in certe istituzioni di partito arrivate, quasi inalterate, fino a noi) potrebbe prolungarsi a lungo. Così a lungo da logorare il nuovo leader carismatico. Apparentemente, sulla carta, la vittoria a valanga di Renzi nelle primarie aperte cambia la natura del Pd: da partito degli iscritti a partito degli elettori (storicamente, le due principali modalità di organizzazione partitica).
Renzi dovrebbe essere così generoso da ringraziare pubblicamente chi gli fece da battistrada: Walter Veltroni, primo segretario del Pd, colui che almeno tentò, non riuscendoci, di fare una operazione simile.
Renzi, come ha osservato Antonio Polito sul Corriere di ieri, dovrà cambiare la «macchina» e impadronirsi dei gruppi parlamentari (creature, per lo più, dell’apparato antirenziano) e dovrà farlo fronteggiando, contestualmente, le quotidiane esigenze della politica politicienne: tallonare il governo, rintuzzare gli attacchi degli avversari esterni, eccetera.
Ma condizione indispensabile perché riesca a fare politica (o almeno la politica che egli dice di voler fare) è che riduca il partito ai suoi voleri, superando e sconfiggendo sia le adesioni insincere che arrivano a valanga (l’effetto bandwagoning, saltare sul carro del vincitore) sia le resistenze più o meno passive che si manifesteranno.
Sarà interessante soprattutto vedere come Renzi affronterà una questione per lui cruciale, quella dell’«oro del Pci» (il patrimonio immobiliare del vecchio partito).
L’Italia è un curioso Paese nel quale può accadere che i beni di chi è stato dichiarato ufficialmente defunto non passino agli eredi, come ci si aspetterebbe, ma vengano invece messi «al sicuro» in qualche Fondazione, in attesa di non si sa che cosa. Renzi ha due ottime ragioni per affrontare la questione. Se non ne viene a capo non potrà sconfiggere definitivamente il vecchio partito di apparato. E non potrà tenere fede all’impegno di abolizione (vera) del finanziamento pubblico ai partiti. Si ritroverebbe al verde o quasi. Le donazioni che affluirebbero dai suoi sostenitori probabilmente non gli basterebbero. E con pochi soldi è difficile fare politica.
La difficoltà più grave, naturalmente, è data dal fatto che un partito degli elettori, per prosperare, per dispiegare davvero la «vocazione maggioritaria», ha bisogno di un contesto esterno fondato su una logica, appunto, maggioritaria, non proporzionale. Con la proporzionale sguazzano soprattutto i partiti (oligarchici) degli iscritti, quelli in cui la difesa dell’identità fa premio sulla ricerca di nuovi consensi, non i partiti (carismatici) degli elettori.
I nemici di Renzi, sia interni al partito che esterni, sanno bene cosa dovranno fare per logorarlo e, infine, batterlo: conservare gelosamente l’insperato regalo che ha fatto loro la Corte costituzionale.

Corriere 10.12.13
Uno è iscritto, 10 no Le sezioni perdono il controllo del voto
Molti «esterni» nelle regioni rosse
di Renato Benedetto


MILANO — «Portate dieci persone a votare». L’appello Matteo Renzi l’aveva lanciato in tv, quando si temeva un flop dell’affluenza e il calo della partecipazione al voto dei circoli di novembre non incoraggiava. Curiosa coincidenza: rispetto ai 297 mila tesserati che hanno partecipato alla fase del congresso riservata agli iscritti, ai gazebo sono stati 2,9 milioni a mettersi in fila e votare per la segreteria del Pd. Dieci volte tanto, appunto: dieci partecipanti alle primarie per ogni iscritto. Ma al di là della coincidenza, questo dato ha un significato: uno scarto così marcato indica «l’esistenza, intorno al partito, di un’area di elettorato di opinione in grado di mobilitarsi autonomamente, per adesione alle procedure partecipative delle primarie o per la simpatia e l’apprezzamento per un candidato», indica l’analisi di Piergiorgio Corbetta e Rinaldo Vignati dell’Istituto Cattaneo.
È il bacino di quel partito che è stato definito «aperto», «liquido», «leggero». Elettori più autonomi e meno fedeli alla linea: «Non interessati alla militanza tradizionale, né inquadrati nelle strutture di partito. E al partito non danno una delega in bianco, come una volta», spiega Vignati. Viene meno la capacità di controllo: «Non seguono certo le indicazioni del segretario. Ma milioni di elettori alle primarie sono certo una risorsa». E questa è la sfida del Pd: se si svuota l’arsenale dei militanti, bisogna pensare a riempire in altro modo il granaio dei voti. E fondamentale sarà mobilitare questo «di più» che sta intorno al partito.
Se il rapporto di 10 a 1 è già significativo, risulta ancora più elevato nelle regioni del Nord e in quelle cosiddette rosse: in Lombardia i partecipanti alle primarie sono stati 18 volte gli iscritti al voto nei circoli; in Piemonte 17. In Emilia-Romagna 15 e in Toscana 13. Al Sud, al contrario, questo voto di opinione è risultato molto più ridotto (4 in Sicilia, 5 in Campania).
Ed è soprattutto nelle regioni rosse che elettori e militanti sono meno allineati. Si pensi al successo di Renzi in Emilia-Romagna (71%) dove al voto dei circoli aveva vinto Cuperlo, oltre il 50% a Bologna. In Italia tra gli iscritti Renzi ha preso il 45,3%, nelle primarie aperte il 67,8%: uno scarto di 22,5 punti percentuali. La differenza raggiunge quota 30 punti percentuali nella fascia rossa di Umbria, Emilia-Romagna e Toscana. È soprattutto qui che gli iscritti sono sempre meno rappresentativi della più ampia fascia di elettori e simpatizzanti.
Qui dove il partito, storicamente, ha radici solide. «Pensiamo alla funzione svolta in queste regioni dal Pci negli anni 60 e 70 per i ceti popolari, nei quartieri urbani di edilizia popolare, nelle città industriali; agli immigrati che venivano dal Sud e che trovavano nel partito, dalle tombole per i bambini al liscio domenicale, un potente fattore di integrazione sociale», si legge nell’analisi del Cattaneo. E si pensi, anche, ai successi elettorali che ne son seguiti. Un successo troppo grande: gli eredi del Pci, fino al Pd, ne sono rimasti vittime. «Il partito si è chiuso in sé stesso, ha alimentato una struttura pesante, è diventato autoreferenziale». Si è chiuso: proprio dove case del popolo e sezioni sono tuttora aperte e ancora in gran numero. Ma i tempi cambiano e anche il militante invecchia: «Il partito non ha saputo intercettare i nuovi ceti». E nelle regioni rosse più che chi rivendicava la tradizione delle sezioni, ha vinto chi ha portato al voto il «di più».

Repubblica 10.12.13
La voglia di cambiare governo e la fede nella partecipazione quel mix che ha incoronato Renzi
Cuperlo più votato dagli over 65, Civati dai giovanissimi
di Ilvo Diamanti


LE PRIMARIE del Pd hanno garantito a Matteo Renzi un successo ampio e netto — quasi il 70% dei consensi. Legittimato da una mobilitazione larga quanto inattesa. Circa 3 milioni. Più o meno come nel 2009 e nel secondo turno dell’anno scorso. Quando, però, si trattava di primarie di coalizione per scegliere il candidato premier del Centrosinistra. Un’affluenza tanto ampia non era scontata.
DUE settimane fa, infatti, la quota di elettori del Pd e del Centrosinistra che dichiarava l’intenzione di partecipare alle primarie era, di circa un terzo, inferiore alle occasioni precedenti (Sondaggio Demos). Effetto, soprattutto, della delusione, in seguito al risultato delle elezioni di febbraio. Quando il centrosinistra non è riuscito a vincere, nonostante la mobilitazione e le attese alimentate dalle primarie svolte in novembre. Invece, anche in questa occasione, molti elettori hanno messo da parte disincanto e frustrazione.
Così, per una volta di più, domenica sono tornati ai seggi allestiti dal Pd. Ci hanno ripensato per diverse ragioni. Anzitutto, il vizio della partecipazione. La convinzione democratica. La convinzione che la “volontà popolare” sia importante. E vada sostenuta comunque. Nonostante tutto. Tanto più se avviene “di persona”. E permette di incontrare — e, prima ancora, discutere con — altre persone. In tempi nei quali la “partecipazione” è stata sostituita dalla televisione. Oppure dalla rete. A cui, però, molti non accedono. Mentre quelli che sono “connessi” — in numero, peraltro, crescente — comunicano senza incontrarsi “di persona”. Così, alla fine, molti “delusi” hanno ceduto alla convinzione “democratica”. In entrambi i sensi: alla partecipazione democratica — offline — promossa dal Partito Democratico. Al quale è stata concessa un’altra occasione. Per realizzare, davvero, il cambiamento. E per cambiare — esso stesso. Come ha sottolineato Romano Prodi, per spiegare la sua “sofferta” decisione di votare, dopo aver annunciato, in precedenza, che non l’avrebbe fatto (con molte ragionevoli ragioni).
Ad alimentare la partecipazione ha contribuito, in misura importante, la competizione tra i candidati. Accesa,malgrado l’esito apparisse largamente scontato. Nell’insieme, ha dato l’idea di un “cambio di generazione”. La diversa storia politica personale dei due “sfidanti” di Renzi ha, infatti, integrato e allargato l’offerta politica proposta agli elettori. All’interno e all’esterno del Pd. Come emerge, in modo particolarmente chiaro, dai dati dell’indagine condotta da C&LS. Circa 3600 interviste effettuate (e coordinate dalle Università di Cagliari e Milano) durante le primarie, fuori dai seggi, presso un campione nazionale significativo. Mettono in evidenza, anzitutto, le differenze generazionali degli elettori dei tre candidati. Pippo Civati, infatti, raccoglie i suoi consensi soprattutto fra i più giovani (circa il 30% fra 16 e 34 anni), Gianni Cuperlo fra i più anziani (35% oltre i 65 anni). Matteo Renzi, invece, attinge, in modo trasversale, da tutti gli strati d’età. Non a caso, visto che rappresenta la larga maggioranza della base del Pd — coinvolta e potenziale.
Per questo, però, il contributo di Cuperlo e Civati è utile a Renzi e al Pd. Perché i due sfidanti intercettano componenti, per quanto delimitate, molto diverse e lontane fra loro; difficili, soprattutto, da saldare insieme. Cuperlo: il retroterra dei partiti tradizionali. Civati: gli elettori insoddisfatti della politica, che guardano “oltre” il Pd.
D’altra parte, quasi metà degli elettori di Cuperlo (il 48%) è composta da iscritti al Pd, mentre più di tre quarti di quelli di Renzi e di Civati si dichiarano non-iscritti.
Le differenze fra i candidati appaiono evidenti dagli orientamenti politici. Gli elettori di Cuperlo sono concentrati a centrosinistra e a sinistra (90%, distribuiti quasi equamente tra le due aree dello spazio politico), quelli di Civati soprattutto a sinistra (57%). Dove si colloca una componente significativa di elettori di Sel. Renzi, invece, è saldamente ancorato a centrosinistra (50% dei voti), maattinge consensi anche al centro (18%). Nella sua base, non per caso, appare ampia (31%) la quota dei cattolici praticanti.
Gli elettori delle primarie si differenziano anche negli atteggiamenti verso il governo guidato da Letta. Coerentemente con l’orientamento dei candidati. Oltre il 60% degli elettori di Cuperlo esprime un giudizio “favorevole”. La stessa quota di “contrari” che si osserva tra quelli di Civati. Mentre la base di Renzi appare, di nuovo, equamente divisa. Ciò significa, però, che quasi metà dei suoi elettori valuta negativamente l’azione del governo. Il che costituisce un segnale significativo — e preoccupante — per Letta e per la sua maggioranza.
D’altronde, per gli elettori del Pd che hanno votato alle primarie, la scelta di Renzi appare un investimento esplicito in vista delle elezioni. Non a caso, il 94% dei partecipanti al voto delle primarie si dicono convinti che Renzi sia in grado, più di ogni altro candidato, di battere il Centrodestra alle prossime elezioni. Lo pensano, in larghissima maggioranza, anche gli elettori di Cuperlo (80%) e, ancor più, di Civati (90%).
Ciò chiarisce il significato di un’affluenza tanto estesa. E di un consenso così ampio a favore di Renzi. A sinistra e a centrosinistra. Vincere e durare. Senza governi tecnici. Senza larghe intese. Ma, piuttosto, con una maggioranza larga. Perché partecipare, stare con gli altri, insieme ad altre persone: fa bene. Fa stare bene. Ma, almeno ogni tanto, bisogna vincere. E governare. Per la stessa ragione, c’è da credere che questo risultato renda Matteo Renzi più impaziente. Determinato a marcare la sua volontà di “cambiamento”, com’è apparso chiaro fin dalla composizione della sua segreteria. Ma, al tempo stesso, reso inquieto dal dubbio — e dal timore — che, in tempi incerti come questi, il tempo — anche il suotempo — passi in fretta.

il Fatto 10.12.13
La nuova squadra
Ecco il governo ombra: 7 donne e un civatiano Cancellati i dalemiani


Fedele al ruolino di marcia stabilito prima delle primarie Matteo Renzi arriva al Nazareno poco prima delle 14 con (quasi) tutta la segreteria in tasca. Qualche trattativa, qualche colloquio, qualche telefonata e poi l’annuncio: 5 uomini e 7 donne. Più Lorenzo Guerini, nella veste ufficiale di portavoce della segreteria (“the Voice” lo soprannomina subito Pier Luigi Bersani alla Camera), in realtà con il compito politico di gestire un organismo, che per il resto ha più le caratteristiche di uno staff, che di una sede davvero politica. Guerini, ex sindaco di Lodi, è riuscito ad evitare l’incarico di tesoriere (che sarà nominato domenica), ma ha avuto quello di una sorta di vice segretario ombra. La squadra dunque. Luca Lotti, l’uomo di fiducia del neo segretario, al-l’Organizzazione. Stefano Bonaccini, ex bersaniano segretario in Emilia Romagna, agli enti locali. In un ruolo chiave Maria Elena Boschi, responsabile riforme. Tra i nomi “forti”, quello di Davide Faraone, welfare e scuola, l’avamposto renziano al sud (è stato pure candidato alle primarie di Palermo). Da notare che in squadra non c’è nessun campano (o “de luchiano”), nonostante l’apporto. C’è poi la carica delle donne provenienti da Area Dem: Pina Picierno, già in segreteria, con delega a legalità e sud, Federica Mogherini agli esteri, Chiara Braga, ambiente. Riconfermata anche Deborah Serracchiani. All’economia, l’uomo di Civati, Jacopo Taddei, professore alla Johns Hopkins. Tra le sorprese, Marianna Madia, in origine veltroniana, poi dalemiana, ora renziana. Con delega al lavoro: “Un segnale importante - si spende Renzi - visto che ha un figlio piccolo e uno in arrivo”. E poi Alessia Morani, avvocato agguerrito di Pesaro, alla giustizia. Coinquilina della Moretti, già nota per i suoi tatuaggi, in realtà è in rappresentanza dei “40 senza corrente” che alla fine si sono schierati per Matteo. L’esigenza era quella di fare una segreteria giovane (media 35 anni), non solo fiorentina. Infine, Francesco Nicodemo alla comunicazione. Twittatore indefesso. Per fargli posto rimane fuori Antonio Funiciello, provenienza l’area di Veltroni. Un’esclusione che ha lasciato perplessi molti.
wa. ma.

il Fatto 10.12.13
All’economia Pd l’anti-Fassina, Ma la sfida è il piano sul lavoro
di Stefano Feltri


Prima la legge di Stabilità, poi il lavoro: Matteo Renzi dice che non vuole perdere “neppure un minuto” e comincerà lavorare sui due temi più urgenti, anche se questo potrà complicare il rapporto con il governo Letta. O meglio, farà lavorare i suoi collaboratori: come Filippo Taddei, l’economista chiamato nella segreteria Pd come responsabile economico, arriva in quota Pippo Civati. Taddei eredita la poltrona che di Matteo Colaninno che fu del-l’attuale viceministro dell’Economia Stefano Fassina. Dovendo immaginare i due estremi dello spettro ideologico democratico, da una parte c’è Fassina e dall’altra Taddei, uno che in questi anni ha frequentato più spesso i liberisti di Noise from Amerika che i convegni della Cgil.
RICERCATORE al collegio Carlo Alberto di Torino, professore all’Università americana John Hopkins a Bologna, Taddei ha già alcune idee su come migliorare la Renzinomics che è “interessante ma non ambiziosa”, come ha scritto in un articolo su linkiesta.it   in cui commentava le proposte di Yoram Gutgeld, il consigliere economico di Renzi che in questi mesi ha cercato di elaborare una piattaforma coerente di politica economica. Taddei non condivide l’idea di Gutgeld di fare una patrimoniale, vendere le case popolari e di coinvolgere la Cassa depositi e prestiti per tagliare le tasse sui lavoratori, “non è mai una buona idea finanziare spese o ridurre entrate ordinarie liberandosi di pezzi del proprio patrimonio”. Nel 2012, in un articolo sul Fatto, Taddei proponeva invece di creare una patrimoniale strutturale: prelievo dello 0,5 per cento sulle ricchezze delle famiglie più abbienti che genererebbe 5 miliardi all’anno, soldi da destinare alle grandi riforme (un anno quella dell’Università, l’anno dopo la messa a norma degli edifici pubblici...).
Al lavoro va Marianna Madia, formazione in Scienze politiche, matrice culturale lettiana, quando non è deputata lavora all’Arel, il centro studi fondato da Nino Andreatta e poi guidato da Enrico Letta, in Parlamento la Madia si è impegnata per combattere le “dimissioni in bianco” delle donne (lettere precompilate da usare quando la dipendente resta incinta, per esempio). Ma la persona con cui Renzi discute di lavoro da anni non è la Madia, ma un avvocato fiorentino che si chiama Guido Ferradini, esperto proprio di diritto del lavoro: “Conosco Renzi dal 2006, ho fatto con lui la campagna delle primarie a sindaco di Firenze, ero tra quelli che hanno lavorato al programma”, spiega al Fatto. È lui ad aver presentato a Renzi Yoram Gutgeld.
LE IDEE DI FERRADINI, riassunte anche nel sito dell’associazione Officine Democratiche (che ha organizzato eventi anche per queste primarie), sono diventate un documento scritto per Renzi, 20 pagine che sono un punto di partenza per il “Job Act”, il piano per il lavoro che Renzi ha promesso di presentare entro il primo maggio (ma i tempi stanno accelerando molto): “La flessibilità del mercato del lavoro non ha una diretta conseguenza sull'occupazione. I dati Ocse dimostrano che negli ultimi vent'anni il mercato del lavoro in Italia è diventato molto più flessibile, più di Germania e Francia, ma la Germania è cresciuta più di noi”, dice Ferradini al Fatto. L’obiettivo: “Creare un mercato del lavoro che renda il trattamento riservato a tutti i lavoratori il più equo possibile”. Il metodo: “Serve un contratto unico, subordinato e a tempo indeterminato. In Germania è così. Giusta l'idea della Fornero di rendere più difficili i contratti a progetto e parasubordinati. Il ricorso al tempo determinato deve essere reso più fluido”. In un contesto così, con un contratto con tutele progressive come quello che auspica Pietro Ichino ( a lungo vicino a Renzi, prima di passare con Mario Monti), si può rimettere mano all’articolo 18, “sostituendo un risarcimento economico rilevante alla reintegrazione”.
Ma prima di arrivare all’eterno tabù della sinistra, cioè i licenziamenti, si possono fare molte cose concrete, spiega Ferradini: dalla riforma dei centri per l’impiego, per reinserire i disoccupati, a nuove regole per le direzioni territoriali del lavoro, “meno persone a occuparsi di contenziosi, così ci sono più risorse per fare ispezioni”. E poca importa se i sindacati non saranno d’accordo: “Ne ho discusso con Matteo qualche tempo fa: lui si disse contrario alla concertazione, io avevo una visione più moderata. Ma ha ragione lui: se provi a accontentare tutti non si fa nulla”. Vedremo quante delle idee di Ferradini supereranno il filtro del partito e finiranno nel “piano per il lavoro” di Renzi.

La Stampa 10.12.13
Un civatiano all’economia
“Liberista? Basta etichette” Arriva Taddei, fece le pulci alla Renzinomics
di Alessandro Barbera


ROMA La vita è una lotteria, ma capita che il biglietto giusto non sia quello del primo premio. Fino a ieri mattina Filippo Taddei era la spalla di Pippo Civati. L’uno filosofo, ma che all’università ha preferito la politica a tempo pieno, l’altro giovane professore alla Johns Hopkins di Bologna. Poi arriva la telefonata che non ti aspetti. «Filippo, ci stai a darmi una mano?». «Ho esitato, ma è durato lo spazio di un attimo». Tutti erano convinti che il posto di responsabile economia della squadra il più delicato dopo l’organizzazione andasse al più noto Yoram Gutgeld. Invece Renzi, spiccio e imprevedibile, ha deciso per una squadra giovane, aperta alle minoranze interne. Così quel posto si è ritagliato da solo sulle spalle di Taddei. Trentasette anni, bolognese di nascita e di carattere, dottorato alla Columbia di New York, un periodo al collegio Carlo Alberto di Torino con cui collabora ancora una moglie (la fidanzata dal liceo, Alessandra) e tre figlie femmine, Taddei è in realtà un renziano ante litteram. O almeno lo è tanto quanto lo fu Civati fino a che le strade dei due non si divisero. Alla prima Leopolda qualcuno l’avrà dimenticato Matteo e Pippo sembravano due fratelli di sangue. Il successo della kermesse fu il detonatore della rottura: l’uno non sopportava l’eccesso di protagonismo dell’altro. Allora, fra i due, Filippo scelse Giuseppe.
La parabola del giovane professore aiuta a capire bene il carattere del neosegretario Pd. Perché se c’è qualcuno che ha fatto le pulci alla Renzinomics, quello è Taddei. Quando Gutgeld ha presentato le sue ricette, Taddei le ha giudicate poco ambiziose dalle pagine de Linkiesta e lavoce.info. «Il tema non è mai stato criticare le idee altrui, quanto mostrare una proposta politica coerente con l’identità del Partito democratico e i bisogni di questo Paese». Ha attaccato sin dall’inizio la manovra sull’Imu, prevedendo quel che è puntualmente accaduto: «Arriveranno altre tasse». Ha lanciato l’idea di una minipatrimoniale dello 0,5%, «solo se fosse vincolata ad una grande riforma: un anno l’Università, un anno l’edilizia scolastica». Oggi ci tiene a sottolineare che il problema numero uno sono le tasse sul lavoro «il vero divario fra noi e il resto del mondo» e il dualismo del mercato: «Trovo sorprendente come in un Paese in cui si contano il doppio delle partite Iva della Germania il tema sia passato in secondo piano. In una nazione seria i lavoratori si sostengono quando lavorano e quando non lavorano, giovani e anziani». In passato ha sostenuto l’idea del contratto unico Boeri-Garibaldi, quello che prevede una tutela progressiva dal licenziamento. Eppure se si cerca di ingabbiarlo in uno schieramento lui sbuffa. Come quelli
Chiamato a sorpresa Era consulente economico di Civati che lo vorrebbero liberista di sinistra: «Parlare di categorie astratte senza mai metterle in pratica è uno dei grandi drammi del Pd e dell’Italia. Quel che conta sono le proposte politiche, non le etichette». Sembra di sentir parlare Renzi. O forse Civati.

Corriere 10.12.13
Da Boschi a Madia, la carica delle donne
E Civati «presta» l’economista Taddei
di Alessandro Capponi


ROMA — Gianni Cuperlo aveva inizialmente accettato, al pari di Pippo Civati, di mettere un uomo della sua componente nella segreteria di Renzi: ma raccontano che poi sia arrivato il «no» all’operazione di Massimo D’Alema, gelido, di poche parole, sull’aria del «mandiamolo a sbattere da solo». Civati invece reagisce diversamente, incassa l’incarico per l’economista Filippo Taddei, docente alla Johns Hopkins, e commenta con un sorriso: «Renzi ha fatto di testa sua e io sono felice per Filippo, che è il migliore in circolazione». Stessa offerta ai rivali, reazioni diverse: se anche a Renzi era rimasto un dubbio sugli equilibri interni, ora se non ne ha più.
All’annuncio dei nomi della nuova segreteria, nel pomeriggio al quartier generale Pd — al «Nazareno liberato», come dice un renziano della prima ora — all’annuncio dei dodici che compongono la squadra di Renzi, qualcuno grida al «manuale Cencelli»: ma nell’elenco non c’è neanche uno dei sostenitori di Cuperlo. «Non ho trattato con nessuno», taglia corto il neosegretario, che sceglie sei suoi (fidatissimi) e sei di provenienza sparsa, due franceschiniane, una vicina a Fassino (Braga, Picerno, Mogherini), un civatiano appunto, e poi Marianna Madia («veltroniana, dalemiana, mah...», sorride lei) e il governatore del Friuli, Debora Serracchiani. Dodici di un’età che (solamente) in Italia viene definita giovane: «La media — sorride Renzi — è di trentacinque anni». Soprattutto, sette su dodici sono donne. E, tutti, competenti dei temi affidati loro.
A una, Marianna Madia, che fra tre mesi partorirà il suo secondo figlio, Renzi affida il Lavoro: «Perché in Italia alle ragazze incinta viene fatta firmare la lettera di dimissioni in bianco...». La telefonata è del mattino: «Non me l’aspettavo — racconta lei — ed è una grande responsabilità perché è il tema dei temi, per il partito, per il Paese e per l’Europa». Alle Infrastrutture Debora Serracchiani: «Sarò nella squadra di Renzi e con tutto il Pd per aiutare il Paese a risorgere, questo ricambio generazionale è fondamentale: adesso tocca davvero a noi e dovremo dare prova di esserne capaci». Della cerchia più ristretta del sindaco fa parte certamente Luca Lotti, 31 anni, responsabile Organizzazione, da anni il braccio destro di Renzi con spiccate attitudini alla mediazione interna. Il coordinatore della campagna per le primarie, il quarantaseienne Stefano Bonaccini — nel 2009 segretario regionale dell’Emilia Romagna — andrà agli Enti locali. È un classe ‘75 il siciliano Davide Faraone (Welfare e scuola) dopo una lunga esperienza nel sociale, comprese le battaglie contro le «classi ghetto» per i bambini autistici. Un’altra renziana doc è Maria Elena Boschi, 32 anni, destinata alle Riforme: organizzatrice della Leopolda, è al fianco di Renzi fin dal primo mandato del sindaco. Nel gruppo dei sei renziani c’è Francesco Nicodemo, napoletano, 35 anni: già consigliere comunale (bassoliniano) ha un blog (paNico Democratico) e all’annuncio dell’incarico alla Comunicazione scrive sui Twitter due parole, «Oh Gesù...». Lorenzo Guerini — due volte sindaco di Lodi prima di diventare deputato — sarà il portavoce alla segreteria del Pd.
Renziani a parte, l’area più rappresentata è quella Dem, con deputate che comunque avevano scelto di appoggiare Renzi. Federica Mogherini si occuperà di Europa, Chiara Braga di Ambiente, Pina Picierno continuerà il suo lavoro sulla Legalità avviato con la segreteria di Guglielmo Epifani. Il delicato dossier giustizia è di Alessia Morani, ex bersaniana, che all’inizio della legislatura è stata tra le animatrici del gruppo dei 40 parlamentari «non allineati» e, anche lei, alle primarie ha appoggiato Renzi.
Motivi di dissenso, in passato, non sono mancati con alcuni dei prescelti: per fare un esempio, Filippo Taddei — classe 1976 — mesi fa aveva criticato le ricette economiche di Renzi perché «nel programma mancano idee condivisibili su riforma fiscale e mercato del lavoro». Ma adesso non è più tempo delle polemiche: «Non c’è un minuto da perdere», ripete Renzi.

Corriere 10.12.13
Il panico nelle stanze del partito: i nostri conti in ordine
Al Nazareno dipendenti preoccupati durante la «prima» del sindaco «Ma se taglia i fondi alla politica...»
di Fabrizio Roncone


ROMA — Matteo Renzi, stavolta, non ha preparato un discorso. Parla a braccio.
Conferenza stampa affollata, i lampi dei fotografi, Guglielmo Epifani che non muove un muscolo.
Io sto qui, pensa Chiara Geloni, direttore di You-Dem , la televisione del Pd, e tu, Matteo, prima o poi qualcosa dovrai venirmela per forza a dire.
Intanto, però, è venuta lei, ad ascoltare (sorriso fisso con rossetto vermiglio, per l’ultima bionda sacerdotessa bersaniana). Quasi tutti i funzionari e i dipendenti del partito non ce l’hanno invece fatta e sono rimasti giù, nella pancia grande e antica di questa sede, l’ex Collegio Nazareno dei padri Scolopi, un palazzone con le volte del Seicento e le finestre che affacciano su un panorama di cupule e tetti, tegole rosse di un rosso che sarà comunque impossibile far sparire.
I funzionari e i dipendenti sono nelle stanze — spesso ciascuno di loro ne occupa una, singolarmente — e tutti aspettano di capire cosa accadrà, adesso che Renzi è su che parla da segretario e che da segretario, perciò, davvero potrebbe procedere come promesso: raschiare via le parti dell’enorme apparato che a lui paiono secche, polverose, vecchie, inutili.
Alla luce giallastra dei neon, dietro porte socchiuse, i volti di molti assumono tratti distratti e collerici, sembrano creature manzoniane: rassegnate, ma furbe.
Frammenti di frasi. «È determinato e deciso, capace di tutto». «Voglio vedere come lo gestisce un partito senza di noi». «Il guaio è che mi sa che lui pensa a un partito che non è un partito».
La stanza di Antonio Misiani, il tesoriere del Pd in carica ancora per pochi giorni, è davanti a quella che, tra qualche ora, sarà occupata dal sindaco di Firenze.
«Lì, finora, si sono sistemati tutti i segretari. Ma Renzi, magari, ha altri progetti».
Ecco, appunto.
«Leggo sui giornali, sì. Ma io sono l’uomo dei numeri, e di quelli posso parlare».
Parliamone.
«Al 31 ottobre, lavorano nel Pd, per lo più con contratti a tempo indeterminato, 183 dipendenti e 18 giornalisti. Ma poiché 38 di questi sono in aspettativa e altri 12 distaccati, in carico al partito ne restano 151».
Un costo comunque elevato da sopportare.
«Con la legislazione vigente, il partito, nel 2014, dovrebbe andare in pareggio. Abbiamo tagliato e risparmiato tanto, in questi anni. Purtroppo...».
Purtroppo?
«L’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti apre uno scenario diverso. Senza quei soldi cambia tutto: e il problema, automaticamente, finirà sul tavolo del nuovo segretario».
Il corridoio è lungo. Accanto a ogni porta, una targhetta plastificata. Ecco la stanza di un colonnello (ex?) Beppe Fioroni; ecco quella di Paolo Gentiloni (senza ex, è renziano della prim’ora); ecco le segreterie, e poi, ancora: il dipartimento Logistica, il dipartimento Cultura, la segreteria Forum Welfare. Questa dei Forum fu una trovata di Pier Luigi Bersani. Ne creò 17, e spesso con sotto-strutture. Esempio: Politiche ambientali con presidente Laura Puppato; coordinatore: Sergio Gentili; Green economy e Qualità italiana: coordinatore Ermete Realacci; Politiche per la famiglia: coordinatore Tiziano Treu. Ci fu il caso di Livia Turco che, non potendo essere rieletta in Parlamento, ottenne la presidenza del Forum Immigrazione.
Quasi che la Balena Bianca (cit. Giampaolo Pansa) e la formidabile macchina burocratica del Pci, con la fusione tra Margherita e Ds, abbiano subito una mostruosa mutazione genetica, fino a diventare un gigantesco animale mai visto.
Da un angolo sbuca Rita Borione, vice responsabile del dipartimento Cultura.
«So che il nuovo segretario vuole snellire, alleggerire la struttura del partito... E lo capisco, certo: qui, con il trascorrere degli anni, e il susseguirsi dei segretari, l’apparato è diventato pachidermico... Detto questo...».
Detto ciò?
«Ci sono dipendenti con straordinarie competenze e poi... Beh, poi non tutti sono assunti a tempo indeterminato».
Lei?
«No, io ho un contratto di collaborazione».
Posso chiederle pagato quanto?
«Ho un semplice rimborso spese».
Quello della Geloni non era esattamente un rimborso spese ma un contratto a termine piuttosto importante (scatenò ire e invidie varie): però, adesso, è scaduto.
«Aspetto, come tantissimi altri, di parlare con Matteo. Punto, nient’altro».
Renzi è convinto che il partito sia imbolsito e gonfio di sprechi.
«Mah. Non mi sembra che qui si sprechi tanto».
Lui dice di sì.
«E io ti dico che You-Dem costa circa un quarto di quanto costava quattro anni fa. Ma gratis è chiaro che non puoi farla una televisione...».
(Poi arriva un uomo della sicurezza.
Il leggendario servizio d’ordine del Pci è ora composto da giovanotti stanchi e annoiati.
Uno fuma, uno sospira: «Sei giornalista? Daje, famme vedé er tesserino...» ).

Corriere 10.12.13
«Così il bambino si è mangiato i comunisti»
L’ultimo atto del Pci (e del vecchio Pd)
Macaluso: il partito morì già nel 1984 con Berlinguer Domenica, semmai, sono finiti i democratici
di Aldo Cazzullo


Intervistato da Alfonso Signorini (il che è già un segno) sul testo di Bandiera Rossa, Matteo Renzi ha detto di sapere «solo l’inizio»: «Comincia così, Bandiera rossa la trionferà…». Era invece la fine. Domenica scorsa, il Corriere Fiorentino ha chiesto agli elettori delle primarie di cantarla: con tutta la buona volontà, non la sapeva o non la ricordava quasi nessuno.
Una bandiera rossa del vecchio Pci si è vista sotto il palco dell’ultimo comizio di Renzi, a Empoli. L’ha portata il compagno Rolando Terreni di Sovigliana, 78 anni, in memoria del padre partigiano: «Matteo mi garba e io lo voto, ma prima deve baciare la bandiera!». Lui si è un po’ infastidito, non quando ha visto il drappo rosso ma quando ha visto la fotografia on line.
Ieri mattina, tra i pensionati della Spi-Cgil in fila al mercato di San Lorenzo per fare colazione con un panino al lampredotto, infuriava una gara di motteggi che avrebbe fatto impallidire il battutista Civati. Si faceva notare che «il bambino ha mangiato i comunisti» e che «il Pd ora cambierà nome. Siccome Forza Italia è già preso, si chiamerà Forza Eataly».
La scomparsa dei «comunisti» è la notizia del giorno, non solo nella rossa Toscana. La sconfitta di Cuperlo, ultimo capo della Fgci e intellettuale del dalemismo, segna la fine dell’egemonia rossa su un partito che aveva visto Veltroni travolgere la Bindi ed Enrico Letta, quindi Bersani battere senza troppi problemi prima Franceschini e poi lo stesso Renzi. E sembra dissolversi una volta per tutte il mito del comunismo italiano, per cui un’ideologia criminale o comunque sbagliata da Cuba alla Siberia diventava per l’élite culturale della penisola giusta o comunque nobile.
«Sì, vedo che molti giornali e siti Internet titolano sulla fine del Pci. Ma è una notizia vecchia» sorride Emanuele Macaluso, uno degli ultimi grandi vecchi del partito. «Il Pci non esiste più dal 1991, quando fu travolto dalle macerie del Muro crollato due anni prima. Ma, a mio giudizio, il Pci era morto già nell’estate del 1984, insieme con Enrico Berlinguer, sul palco del comizio in piazza delle Erbe a Padova. Domenica semmai è morto il Pd, almeno così come era nato. Io mi sono sempre rifiutato di chiamarlo partito. Era un aggregato di diessini che si erano illusi di poter governare il Paese aggregando un pezzo di Dc. Non poteva che finire miseramente».
Lo stesso Renzi rifiuta di usare le categorie del passato. Nega di essere mai stato democristiano, di appartenere allo stesso ceppo di Enrico Letta e Franceschini. Rivendica di essersi affacciato alla politica nel 1995, quando fondò il comitato per l’Ulivo di Rignano, il suo paese. Ha avuto amici comunisti, nella stanza da segretario in largo del Nazareno a Roma porterà la foto di Emanuele Auzzi detto Meme, segretario dei Ds fiorentini: «Gli ho voluto bene. Era un uomo splendido, all’antica, di cui ho un bel ricordo». Ma del «manipolo di pazzi», come nella notte della vittoria ha definito la sua squadra, solo due vengono dai Ds: Dario Nardella, il più strutturato politicamente, e Francesco Bonifazi, che Renzi considera «uomo da spogliatoio», il più adatto a stemperare le tensioni create da un temperamento nervoso come il suo. Gli altri sono quasi tutti di formazione cattolica, o semplicemente devoti a lui. Ma l’obiettivo del sindaco è dar vita a «un partito che non sia ex di nulla». La stessa formula usata da Veltroni al Lingotto; il quale però, per quanto negasse di essere mai stato «comunista in senso sovietico», agli occhi dell’Italia moderata era un ex pure lui. Poi è toccato a Pierluigi Bersani evocare il Pci emiliano, il riformismo pragmatico, la «ditta» affidata a vecchi compagni come Errani e Migliavacca, che hanno giocato in difesa una disastrosa campagna elettorale conclusa nel teatro del cabaret «de sinistra» romano, mentre Berlusconi andava nella tana di Santoro e Grillo si prendeva piazza San Giovanni. Sono state proprio le sconfitte, culminate con il voto che ha affossato prima Marini e poi Prodi, a travolgere «la vecchia classe dirigente», come l’ha liquidata Renzi domenica sera. Né si intravede un futuro a sinistra del Pd: dopo l’eclissi di Rifondazione comunista, anche Vendola appare avviato al declino; sponde per una scissione non ce ne sono.
«Sono storie finite o mai incominciate — dice Macaluso —. Ricordo un editoriale di Eugenio Scalfari: siccome i Ds erano al capolinea e la Margherita pure, non restava altro che la fusione. Ma la somma di due fallimenti non fanno un successo. Il nuovo partito è nato senza fondamenta politiche e culturali, come coacervo di gruppetti che ora si sono divisi. Toscani ed emiliani sono andati un po’ di qua e un po’ di là. Con Renzi ci sono uomini che hanno avuto un ruolo nel Pci: Fassino, Veltroni, gli stessi Chiamparino e De Luca. E il sindaco di Firenze ha potuto “scalare” il partito proprio per l’inconsistenza degli avversari. Un partito degno di questo nome non è “scalabile”».
Il grande sconfitto, D’Alema, ha evocato Craxi, senza nominarlo, con toni vagamente iettatori: «Abbiamo radici profonde. Uomini con più attributi di Renzi hanno provato a tagliarle, e hanno fatto una brutta fine. Farà una brutta fine pure lui». Ieri Pasquale Laurito, giornalista dalemiano e quindi esemplare di una specie più introvabile del liocorno, si è abbandonato sulla sua Velina Rossa a un’invettiva tipo catilinaria: «Caimano rosso, taverniere fiorentino, nuovo Benito…». I vecchi comunisti hanno per Renzi una diffidenza quasi antropologica, tanto da essere indotti in errori di valutazione, sostiene Macaluso: «Parlare del nuovo segretario come di un altro Berlusconi è una sciocchezza. Renzi non ha interessi privati, è una persona rispettabile. Ma appartiene a un’era politica del tutto nuova, in cui il livello culturale è drasticamente crollato. La sinistra storica era fatta di personaggi complessi. Togliatti era un intellettuale di livello europeo, un uomo che teneva testa a Stalin; ora i politici di sinistra si giudicano da come affrontano i grillini nei talk show e anche dall’aspetto fisico. Riccardo Lombardi era capace di parlare due ore. Pippo Civati spara battute a raffica da pochi secondi l’una, ed è pure caruccio. La cultura è considerata un handicap: aver letto qualche libro per Cuperlo si è rivelato un difetto imperdonabile. Mi fa tenerezza Mario Tronti, che Bersani ha portato in Parlamento: si aggira spaesato come in una landa deserta. Ogni tanto lo trovo in qualche convegno, dove può finalmente sfogarsi: prende la parola, cita Gramsci, ne disserta…».

La Stampa 10.12.13
Bersani: “Adesso Renzi ci dica che Pd vuole fare”
“È il suo turno perché altri gli hanno aperto la strada”
Leaderismo. Se si affida il senso di un’esperienza a un leader, sparito lui sparisce anche il senso
Cuperlo. Non era un candidato sbagliato. L’unica sua colpa è di essere una persona troppo perbene
di Andrea Malaguti


Onorevole Bersani, la sinistra è finita?
«No, la sinistra esiste in natura. È il lievito del Partito Democratico».
Dunque ha ragione Renzi a dire: «non è la fine della sinistra ma di un gruppo dirigente della sinistra?».
«Guardi che la vita è una ruota. Adesso è il turno di Renzi. Ma se lui è lì èsolo perché qualcuno gli ha aperto la strada portando la fiaccola. Il rinnovamento va bene, ma senza dimenticare chi ha esperienza. Non mi pare che sia il caso di usare la clava. E comunque i tre milioni di persone (splendide) che si sono presentate alle primarie dimostrano che il confronto è nel nostro dna».
L’esito di questo «confronto» può mettere fine all’esperienza del governo Letta?
«Non credo».
E che cosa crede?
«Tre cose. La prima: la vittoria di Renzi è stata netta. E per questo gli faccio i complimenti. La seconda: tutti noi siamo a disposizione del partito, a cominciare da me. Nessuno gli metterà i bastoni tra le ruote. La terza: adesso il nuovo segretario dovrà spiegarci qual è la sua idea di Pd. Cosa pensa del governo. Della legge elettorale. Del welfare. E così via».
E se le spiegazioni non la convinceranno?
«Farò sentire la mia voce».
Renzi ha vinto col 70%.
«Avesse vinto anche con il 99% nel Pd al dibattito non ci si può sottrarre. Altra cosa è la disciplina di partito. Alla quale ci atterremo. E ci mancherebbe».
Qual è il cuore del dibattito secondo lei?
«Uso il bersanese: affidarsi a un partito leaderistico sarebbe come non vedere una mucca nel corridoio».
Bello. Traducendo?
«Un partito normale è quello che è in grado di cambiare segretario ogni quattro anni. In Germania la Cdu non è schiava della Merkel. Peccato che da noi, a differenza di quello che è successo in Spagna o in Francia, dopo la caduta del muro di Berlino la parola partito è diventata sinonimo di vergogna. E Berlusconi si è fatto profeta di questa nuova era».
La fregatura è che domenica i vostri elettori sembravano convinti che il Pd fosse ancora schiavo di D’Alema. Di un mondo che non esiste più.
«Non c’è dubbio che lo spirito del tempo richieda il cambiamento. Io l’avevo portato. Basta guardare la composizione dei nostri gruppi. E quando dico che il segretario deve cambiare non penso solo al futuro. Rifletto anche sul passato».
Qual è il sistema elettorale che immagina per uscire dal caos?
«Ho sempre amato il mattarellum, ma con questo quadro politico di sicuro non garantirebbe la stabilità. Penso a un doppio turno di collegio. Mi sembra il sistema più utile».
Bersani, Grillo, Renzi. Senza un leader in Italia non si vince.
«Bisogna intendersi. Un partito è uno spazio aperto, in cui ognuno può entrare o un soggetto con una propria personalità? Chi ha vinto le primarie deve tenere presente che il nostro elettore è un anarchico-cooperativista. Un ossimoro, lo so. Ma la componente anarchica è forte in buona parte dei nostri elettori. E va tenuta presente».
Le due cose (spazio aperto ma con personalità autonoma) non sono possibili?
«Se si affida il senso di un’esperienza a un leader, sparito il leader sparisce il senso. Un sistema non si tiene senza partiti. È anche grazie a questo se io, nella mia esperienza di questi anni, non ho mai dovuto sottostare alle telefonate di qualche potere forte».
I poteri forti condizioneranno Renzi?
«Sarà lui a dovere dimostrare il contrario».
Ci dice una cosa che le piace del suo nuovo segretario?
«Ha forza, energia, vivacità. È immediato. Credo che non gli manchino le risorse per fare valere la propria autonomia di pensiero anche davanti a pressioni forti».
Se sbaglia anche Renzi il Pd è morto?
«No. Un domani c’è sempre. Vedrete che nasceranno altri fiori. E anche altri leader che oggi non immaginiamo».
Con Cuperlo avete sbagliato candidato?
«Il candidato non si sbaglia mai».
Diciamo che non l’avete indovinato.
«A Cuperlo l’unica cosa che posso rimproverare è di essere una persona troppo perbene. Erano tre anni che gli chiedevo in ginocchio di andare in tv. Ma lui non voleva. È fatto così. Un grande. Va rispettato. Certo che il pensiero qualche volta è una fregatura».
Che cosa la divide da Civati?
«Ma, molte cose che dice sono condivisibili. Se però sta nel Pd e non vota la fiducia al governo magari faccio fatica a capire».
Onorevole Bersani, nella prossima legislatura lei sarà ancora qui?
«Io sono a disposizione del partito. Come sempre».

Repubblica 10.12.13
La trincea di D’Alema “Cercano di distruggermi ma nessuno mi cancellerà”
“Ora però la sfida tocca ai nuovi”
di Goffredo De Marchis


ROMA — La rabbia e il realismo. Lo cercano in tanti mentre sta chiuso nella sede di Italianieuropei, a Piazza Farnese, uno dei pochi angoli di Roma dove non arriva il frastuono della città. Ma la sconfitta, quella sì, è arrivata. Una botta fortissima. Massimo D’Alema la compulsa alla vecchia maniera. Cercando di rimanere freddo. Studia i dati. Guarda i flussi. Riceve le ultime nuove da Casarano, paesone della Puglia, secondo lo stile di un esperto politico del territorio. Osserva che «Gianni ha recuperato 10 punti a Foggia». Come dire: grazie a me. Legge i giornali e vede che il grande sconfitto è lui. Lo sapeva, certo. «Sono anni che provano a distruggerci. A distruggermi». È la rabbia. Ci sono riusciti? Questa èla domanda che gli fanno al telefono i suoi fedelissimi. C’è un mondo disorientato, furioso e contemporaneamente allo sbando che continua a chiedergli aiuto, che lo considera la zattera alla quale aggrapparsi. È il mondo della sinistra ex comunista. Un mondo, a giudicare dalle primarie, che non esiste quasi più.
D’Alema dice che «la lotta politica » gli piace. «E quella con Renzi è lotta politica, i rapporti personali non c’entrano. Anzi,sono persino buoni». Oggi però prende atto, realisticamente, di un passaggio. «La mia battaglia l’ho fatta. Adesso tocca ad altri», ripete ai suoi interlocutori. È il momento che una nuova classe dirigente accetti la sfida. Cuperlo, prima degli altri. «È una fase nuova, anche per me. C’è Gianni, c’è una generazione più giovane. Si prenderanno le loro responsabilità ». Fa intendere che in pubblico osserverà un lungo silenzio. Domenica andrà all’assemblea nazionale di Milano. Poi, la prossima settimana ricominceranno i viaggi per il mondo, quelli da presidente della Fondazione del socialismo europeo. Un disimpegno? Un addio? Glielo chiedono, quelli della corrente. «Ma no», tranquillizza lui. Ritrova il tono della battaglia: «Nessuno mi cancellerà con un tratto di penna. Io faccio politica. Per passione, perché ci credo». E il silenzio? «Adesso tocca ad altri», ripete.
Tocca soprattutto a Renzi. «Hai preso un risultato clamoroso, ha vinto trionfando, giusto? Adesso ti metti alla prova. Diritti e doveri di un vincitore», dice D’Alema. Per questo ha condiviso la scelta di Cuperlo (altri sospettano ispirato, etero-diretto...) di rifiutare le offerte del neosegretario. Un posto in segreteria e la presidenza del partito per Gianni. «Non si costruiscono accordi politici in mezza giornata». Sarà scissione, allora? Per il momento, appare impossibile. Non ci sono le condizioni, anche volendo. La riscossa avrà bisogno di tempo. Si è capito bene in una riunione convocata ieri da Cuperlo. I giovani turchi volevano entrare nella segreteria, non considerano Renzi «il barbaro che distrugge il partito» come dice Matteo Orfini. E sperano di uscire dal cono di Bersani e D’Alema. Anzi, Cuperlo avrebbe dovuto farlo già nella campagna delle primarie.
Sono divisi e quindi non c’è ancora una linea chiara, figuriamoci l’organizzazione di una rottura. Traumatizzati. spiazzati. Renzi è arrivato a Roma. Ce l’ha fatta. Ugo Sposetti, il tesoriere dei Ds che continua a gestire un patrimonio immobiliare di centinaia di milioni di euro (forse un miliardo), è uno che ama lo scontro. «Sono preoccupato per le sorti della sinistra? Un po’ ma non da oggi. Stanno cercando di eliminarci da 8 anni. La vicenda Unipol-Consorte. Ci hanno messo in croce e ora tutti assolti. La Procura di Milano, i giornali, i partiti...». Il complotto però non è una buona linea politica da sostenere. Non è quella di D’Alema, per capirci. Adesso è necessario rimanere calmi. Ed eccolo D’Alema uscire dal portone della sede di Italianieuropei con un lungo cappotto blu e i guanti. Sono le sei di pomeriggio di un giorno da dimenticare. Per fortuna, c’è il sorriso della moglie Linda ad accoglierlo a piazza Farnese.

La Stampa 10.12.13
Berlusconi spinge il neo-segretario a togliere il sostegno al governo
Il leader FI gli telefona: vai subito all’incasso per non bruciare il consenso
di Ugo Magri


Se fosse al posto di Renzi, Berlusconi si comporterebbe da caimano: sbranerebbe Letta e andrebbe di corsa alle urne. «Uno che ha stravinto le primarie», non ha dubbi il Cavaliere, «dovrebbe passare all’incasso senza rischiare che il capitale di simpatie vada in fumo... ». Gliel’ha pure detto, a Renzi, per telefono domenica a mezzanotte, con tanto di congratulazioni: «Bravissimo, anche se vincere contro Cuperlo era come se il Milan avesse giocato col Cittadella» (paragone infelice perché i rossoneri, di questi tempi, potrebbero buscarle da chiunque). Con una postilla: «Sei anche fortunato, caro Matteo, perché io non potrò candidarmi contro di te» causa le note disavventure con la giustizia... Chiaro l’intento di ingolosire Renzi, di fare leva sull’autostima dell’avversario per spingerlo a ciò che Berlusconi maggiormente desidera: una bella crisi di governo dettata dall’avidità, catastrofica per la sinistra.
Se il Cavaliere nutre un rimpianto, è proprio quello di non poterla innescare lui stesso. Aveva una cartuccia e se l’è già sparata precocemente con il passaggio all’opposizione dopo la decadenza. Pazientando altre due settimane, invece, avrebbe potuto far leva sulla sentenza della Corte contro il «Porcellum», che riversa sul Palazzo un sospetto di illegalità. E comunque, tentando la crisi oggi anziché farsi prendere dalla frenesia, sarebbe stato nelle condizioni di offrire un assist a Renzi, casomai il neo-segretario Pd davvero volesse sgambettare il governo. Ma ormai è troppo tardi per rientrare nei giochi... Qualcuno, come il capogruppo «azzurro» Brunetta, coglie il lato positivo. «Renzi è un ossimoro vivente», spiega, «finché sostiene il governo non può dare il segno di cambiamento promesso. Per lui Letta sarà il bacio della morte». Insomma, se non staccherà la spina, perfino il Rottamatore finirà omologato al sistema. Ma come Brunetta, o come Minzolini che sostiene le stesse teorie, può ragionare solo chi guarda al futuro e dunque non teme di attraversare il deserto. Invece Berlusconi ha fretta, non può girarsi i pollici. Lo raccontano già stufo delle manifestazioni di affetto, delle pantomime protestatarie, delle assimilazioni a Grillo. Sente incombere su di sé le tre «i»: isolamento, irrilevanza, impotenza. Oltre, si capisce, alla morsa delle sentenze. I suoi avvocati hanno presentato giorni fa ricorso contro i due anni di interdizione dai pubblici uffici fissati dalla Corte d’Appello. Non si sa quando arriverà il verdetto della Cassazione, né è chiaro il destino del condannato Berlusconi: il «percorso rieducativo» con gli assistenti sociali è ancora tutto da definire.
Questo destino precario lo inquieta. E si sussurra che Silvio, consapevole di essere finito in fuorigioco, come capita ai grandi strateghi voglia adesso scaricarne la colpa sugli attendenti, specialmente su quelli che gli hanno fatto cacciare Alfano. Eccezion fatta per Verdini (che in quanto fiorentino conosce i punti deboli di Renzi), tutti i «falchi» sono virtualmente in disgrazia. Aspettano con ansia che il Capo convochi una riunione per distribuire gli incarichi di partito, ma non è chiaro se e a chi li darà. Vengono avanti figure nuove come Fiori, ex Protezione civile, e Toti, comunicatore Mediaset. Con le fedeli «amazzoni», che premevano per ottenere i coordinamenti regionali, Berlusconi è stato poco Cavaliere: anche loro saranno messe da parte. Corre voce che altri 3-4 senatori delusi dalla piega degli eventi possano mollare Forza Italia e chiedere asilo nel Nuovo centrodestra, che già fa razzia tra i sindaci con radici sul territorio.

La Stampa 10.12.13
Alfano teme l’asse Cavaliere-Renzi sulla legge elettorale
Lo scopo sarebbe il voto a primavera
di Amedeo La Mattina


ROMA Il Nuovo Centrodestra teme che la vittoria netta di Renzi complichi molto la vita del governo. Al di là dei messaggi distensivi emersi dall’incontro tra il premier Letta e il nuovo leader del Pd, il partito di Alfano ha la netta sensazione che adesso si comincerà ballare la rumba. In settimana Renzi potrebbe incontrare il vicepremier per un chiarimento diretto e altrettanto «costruttivo». Beatrice Lorenzin si augura che questo cambio generazionale alla guida dei Democratici «segni anche un cambio di metodo». «Ci aspettiamo da un segretario del Pd così giovane dice il ministro della Salute che non faccia gli stessi errori di chi lo ha preceduto e che ci sia un confronto chiaro e aperto su come rimettere in piedi questo Paese». Allora è meglio mettere subito le carte in tavola e stringere un patto dentro la maggioranza, a partire dalle riforma elettorale e istituzionale, per poi aprire un confronto a tutto campo. Anche con le opposizioni. Con Berlusconi, che invece vorrebbe bypassare il Nuovo Centrodestra per scrivere insieme a Renzi le nuove regole elettorali e affrettarsi al voto in primavera. E’ quello che vogliono scongiurare Letta e Alfano. Il leader di Ncd propone «un contratto di governo per il 2014». «I nostri obiettivi sono il taglio alla spesa pubblica, una riforma serissima del mercato del lavoro che consenta di facilitare le assunzioni e di incentivare la produttività, una legge elettorale bipolare che consenta ai cittadini di scegliere il deputato o il senatore, smettendola con un sistema di regole che prevede due Camere pagate il doppio per fare lo stesso lavoro».
Alfano, che propone di rinnovare il centrodestra con le primarie come ha fatto il Pd, chiarisce che l’attuale coalizione di governo non è un matrimonio d’amore, ma di interessi per evitare di portare nel baratro dell’ingovernabilità il Paese.
Dove gli «sposi» non sono i partiti e i loro interessi, bensì gli italiani. Il Nuovo Centrodestra accetta la sfida che viene da Renzi e gira la carta di una riforma elettorale sul modello del Sindaco d’Italia diverse volte indicato dallo stesso Renzi. Il Sindaco d’Italia, ovvero una figura istituzionale forte, osserva il capogruppo del Senato Sacconi, perché eletta direttamente come nei comuni, «dotata di poteri di governo». Ma questa proposta porta con sè una modifica costituzionale sulla forma di governo, che si aggiungerebbe alla fine del bicameralismo perfetto e alla riduzione del numero dei parlamentari. Un obiettivo che complica il confronto in Parlamento e dentro la stessa maggioranza.
E’ un modo da parte di Alfano di dimostrare di non essere secondo a nessuno, nemmeno a Renzi quanto a volontà di cambiamento. E’ anche un modo per prolungare la vita del governo. Su questo terreno, come primo avversario il Nuovo Centrodestra dovrà vedersela con i cugini di Forza Italia, un partito tutto all’attacco del governo e delle massime istituzioni. E che porta il capogruppo alla Camera Enrico Costa a notare la strana evoluzione di chi aveva voluto le larghe intese e salutato con entusiasmo la rielezione di Napolitano, mentre oggi ne valuta l’impeachment, vuole la fine delle larghe intese perché «non si può governare con i propri carnefici. Salvo poi auspicare un governo con tutti dentro, compresi “i carnefici” di Sel e M5S per fare la riforma elettorale».

il Fatto 10.12.13
La prima volta della Cgil senza partito
di Salvatore Cannavò


Il rapporto tra Matteo Renzi e la Cgil non sarà di quelli che annoierà gli osservatori. A dimostrarlo due piccoli casi: mentre nei discorsi pubblici il neo-segretario del Pd invia segnali di guerra al primo sindacato italiano, nei rapporti interni sta pensando di offrire la presidenza dell’Assemblea nazionale a Guglielmo Epifani, già segretario della Cgil dove conserva ancora una grande influenza. L’indiscrezione la si può raccogliere nelle stanze di Corso Italia, detta a mezza voce e costituirebbe l’ultima operazione dell’ex segretario cigiellino prima di lasciare il timone democratico a Renzi. Epifani non conferma, ovviamente, e nemmeno Renzi. Vedremo se sarà così. Resta il fatto che se ne parla nella Cgil e, dicono alcuni che conoscono a fondo l’apparato, avrebbe condizionato anche la campagna delle primarie con il sindacato non troppo esposto, a parte il caso dello Spi, la sigla dei pensionati, nello scontro con Renzi. Non era stato così in passato. Alle primarie del 2009 l’allora segretario Epifani si schierò apertamente con Pier Luigi Bersani e lo scorso anno, nello scontro Bersani-Renzi, il peso di Camusso fu scagliato, a urne aperte, contro quest’ultimo.
L’ALTRO EPISODIO riguarda quello che avverrà giovedì: il primo incontro pubblico di Renzi segretario con un sindacalista avverrà nella sua città e riguarderà il “duro e combattivo” segretario della Fiom, Maurizio Landini. Forse quello più lontano da lui e con il quale si è già registrata una certa sintonia a proposito del rinnovamento del sindacato. Un altro esponente della sinistra interna, Mimmo Pantaleo, della Flc, ieri sera preferiva sottolineare “la grande voglia di rinnovamento” che l’elezione di Renzi ha rappresentato
Finora il sindaco fiorentino non ha risparmiato nessun attacco alla Cgil, dal costo degli apparati ai fondi pubblici fino al ben più rilevante tema del mercato del lavoro, cioè l’articolo 18. Susanna Ca-musso gli ha inviato delle congratulazioni double-face: da un lato gli auguri per “il delicato compito che stai per assumere”. Dall’altro l’orgogliosa rivendicazione della Cgil: “Se vorrai e se saprai rispettarne il ruolo, troverai un interlocutore forte, autonomo, propositivo che saprà dialogare ed esprimere sempre con trasparenza e chiarezza”. Al di là delle dichiarazioni ufficiali, come quella di Carla Cantone, segretaria Spi-Cgil che rivendica l’essersi schierata, e candidata, con Cuperlo, in Cgil si raccoglie soprattutto preoccupazione. Nell’entourage del segretario generale si fa notare che attacchi come quello di Renzi li hanno già fatti “Sacconi, Salvini, Alfano, Grillo” e rappresentano una “tendenza pericolosa”. La richiesta, quindi, è di mostrare “maggiore rispetto” anche perché, come fa notare la stessa Camusso nella sua nota di congratulazioni, “si tratta ora di mettersi a lavorare per risolvere i problemi del Paese”. C’è chi preferisce alzare i toni, come l’esponente della segreteria, Nicola Nicolosi, che si colloca a sinistra di Camusso: “Renzi sappia che non darà ordini alla Cgil, perché la comune internità al movimento operaio è venuta meno”. Ma una strategia di fondo del sindacato, quella di lavorare anche sul fronte politico con una relazione privilegiata con il “partito amico”, viene meno. “La Cgil ha una grande riserva organizzativa - dice Fabrizio Burattini della minoranza capeggiata da Giorgio Cremaschi - ma la difficoltà ad agire per via politica oggi è più evidente”.
LA SVOLTA è chiara. Per la prima volta, la sintonia di fondo tra sindacato e guida del partito viene meno e come se ne uscirà è tutto da vedere. È anche vero che agli scontri con i segretari di partito il sindacato si è abituato. “Quello che sta facendo Renzi, dicono in Corso Italia, lo ha fatto già D’Alema alla fine degli anni 90 e non gli è andata bene”. Allora la vittima fu Sergio Cofferati che, però, alla fine ebbe la meglio. Lo scontro fu ricomposto. La Cgil lo ricorda perché ritiene di avere ancora la forza di farsi ascoltare e rispettare. Anche se questo ne dovrà accentuare il grado di autonomia. “Renzi ci pensi bene - è il messaggio del sindacato - senza di noi il conflitto esplode. Senza di noi, per dirla meglio, avrebbero solo i Forconi”.

il Fatto 10.12.13
Inglesi nostalgici: “È il nuovo Blair”
La stampa mondiale esalta il sindaco
Ma “The Times” avverte “ A molti ricorda Berlusconi”
di Giampiero Gramaglia


A chi gli chiedeva, ieri, un parere su Matteo Renzi, il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso rispondeva, con consumata abilità democristiana, che lui il sindaco di Firenze lo conosce bene, ma che ha pure “un’eccellente relazione” con Enrico Letta. Che rapporto c’è – vien da chiedersi – tra l’una cosa e l’altra? Il fatto è che il messaggio recepito dai media esteri suona contrapposizione tra Matteo ed Enrico: una sorta di equazione “più Renzi uguale meno Letta”. La vittoria più ampia delle previsioni del sindaco segretario innesca, quindi, pronostici incerti - e contraddittori - sulla sorte del governo: il premier può durare “sotto schiaffo” del leader del partito o potrebbe cedere il passo alle elezioni. Barroso, pure lui scuola politica centrista, proprio come i due giovani leoni della “sinistra” italiana, innestatisi con successo nel Pd, fiuta l’aria e cerca una posizione d’equilibrio: né contro l’uno, né contro l’altro. Renzi lo conosce perché, da anni, va alla Festa dell’Europa a Firenze il 9 maggio: gli ha pure consigliato di fare della città uno “hub della cultura europea” che, a ben guardare, lo è già. Con Letta, la frequentazione è intensa e l’intesa è forte, come lo era, del resto, con Mario Monti.
LA VITTORIA di Renzi appare all’Europa come presagio d’instabilità. Le reazioni ufficiali sono trite e scontate: la disponibilità a lavorare con qualsiasi leader il popolo italiano si dia; la certezza che quale che sia il governo l’Italia manterrà il cammino europeo; la non ingerenza nelle vicende politiche interne di un Paese membro, a parte le congratulazioni di prammatica dal gruppo S&D, dove siedono gli eurodeputati pd. Il risultato delle primarie conquista spazio un po’ ovunque sui media, in Europa e in America. Il Wall Street Journal, in un richiamo in homepage, scrive che il nuovo capo del Pd può destabilizzare il governo Letta.
MOLTO SPESSO, cronache e commenti sovrappongono l’immagine e le scelte del sindaco segretario. Libérationparla di Renzi come “del volto nuovo della sinistra italiana”, mentre Le Monde lo riduce a un “golden boy”, “un estraneo nella casa del Pd”, pronto a sfidare Letta. La stampa britannica è quasi monotona nel proporre il paragone che torna da giorni con Tony Blair. Quella spagnola, più che dai programmi di Renzi, pare attratta dal “carisma mediatico” (El Mundo, Abc, etc.), avvertendo che Matteo “deve ancora dimostrare di essere un leader”. El Pais ha meno dubbi: il trionfo di Renzi “rappresenta un cambiamento generazionale e rivitalizza il centrosinistra”. The Times e la stampa anglosassone notano le contraddizioni del fenomeno: “L’appeal populista e la verve inducono qualcuno a sinistra a denunciarlo come un ‘mini Berlusconi’ e il suo approccio polemico lo mette in conflitto” coi capi del Pd storici. Pure il WSJ parte dal “carisma e dalla capacità di comunicazione tali da rivaleggiare potenzialmente con quelle di Berlusconi”. Poi vira sul politico: la piattaforma renziana “mira a spingere i comunisti – proprio così, ndr – via dalla base tradizionale della classe operaia verso una classe media, centrista e pro-mercato”. Per il Financial Times, l’esito delle primarie “solleva il morale del Pd”, ma aumenta il “senso d’incertezza” sul governo. Bbc e The Guardian credono che Matteo punti a vincere “portando il Pd al centro”.

il Fatto 10.12.13
Le Primarie seppelliscono il mito delle Regioni rosse
Cuperlo scompare in Toscana, Emilia e Umbria: Nei Circoli era gara alla pari
di Tommaso Rodano


Lo schiaffo più violento è arrivato dove fa più male: nelle “regioni rosse”, dove la tradizione degli eredi del Pci sembrava aver retto almeno fino all’altro ieri. E dove invece la slavina Renzi ha seppellito quel che rimaneva della “sinistra” del partito. In Emilia Romagna, Toscana e Umbria, la differenza tra i risultati del voto tra gli iscritti (tre settimane fa) e quello delle primarie di domenica è impressionante. I ricercatori dell’Istituto Cattaneo – che hanno pubblicato un’analisi dei numeri delle elezioni del segretario – lo hanno definito “il paradosso del successo” del sindaco di Firenze: nelle regioni in cui la sinistra è più forte, è arrivata la richiesta di cambiamento più fragorosa.
In Toscana domenica Renzi ha raggiunto una cifra quasi plebiscitaria, superando il muro del 78 per cento, in Emilia Romagna ha ottenuto il 71%, nelle Marche il 76. In queste roccaforti della sinistra storica, Cuperlo ha subìto le sconfitte più nette e dolorose. In nessuna delle tre regioni è riuscito a raggiungere la soglia del 15 per cento (14 in Emilia, 11,5 in Toscana, 14,6 in Umbria; una media del 13,3%).
In queste regioni, anche il secondo posto del candidato triestino è stato insidiato da Pippo Civati (che lo ha sconfitto nelle Marche, altra zona rossa per eccellenza, oltre che al nord: in Piemonte, Lombardia, Veneto, Val d’Aosta e Trentino Alto-Adige ).
Numeri tanto più significativi se confrontati con quelli usciti dai circoli del Pd solo tre settimane fa. Nel voto riservato agli iscritti, Cuperlo aveva insidiato e talvolta superato il rottamatore toscano. Almeno nelle partite “in casa”. Nei circoli in Emilia Romagna, per esempio, il candidato appoggiato da Bersani e D’Alema si era issato fino al 43,6, vincendo la sfida con Renzi di un punto percentuale abbondante. In Umbria i due sfidanti avevano impattato al 45%. In Toscana, dove Renzi è ovviamente più forte, Cuperlo aveva comunque portato a casa un dignitoso 38,1 per cento.
UN ALTRO scenario, rispetto al dominio renziano assoluto che si è materializzato gradualmente domenica sera. Ovunque, e ancora più clamorosamente in Emilia Romagna, Toscana e Umbria. A livello nazionale, nel voto degli iscritti (297 mila), Renzi aveva ottenuto il 47,5.
Nella platea allargata degli elettori delle primarie, ha chiuso con il 67,8. La differenza è di 22 punti. Isolando i risultati di Emilia Romagna, Toscana e Umbria, la stessa differenza è di quasi 30 punti percentuali. “Com’è possibile – si chiede l’Istituto Cattaneo – che nelle ‘regioni rosse’, quelle dove il partito è più ricco, radicato e organizzato, dove spesso può vantare amministrazioni locali apprezzate, ci siano stati anche i picchi di gradimento più alti per il candidato che ha costruito il suo successo anche sul tema di un radicale ricambio della classe dirigente? ”.
Il Pd – secondo i ricercatori – è stato “rottamato” dalle primarie perché invece di crescere è diventato vecchio, dimostrando di non essere in grado di interpretare le richieste di una società in trasformazione. Fatto ancora più evidente, a giudicare dal voto, nelle aree in cui il Pci aveva costruito un modello di successo: “Nel tempo questo modello di apertura-integrazione – scrive l’istituto Cattaneo – si è trasformato in chiusura: le persone sono invecchiate, il partito non è stato capace di mostrare la stessa accoglienza e la stessa sintonia verso i nuovi ceti sociali. La struttura organizzativa si è come isolata dalla società e dai suoi mutamenti, diventando in qualche modo vittima del suo stesso successo”.

La Stampa 10.12.13
Nelle “regioni rosse” gli sconfitti sono gli iscritti
Toscana, Emilia e Umbria: cresce il divario tra i voti nei circoli e nei gazebo
Gli analisti: «Il partito in quelle aree è rimasto isolato dalla società e dai suoi mutamenti»
di Marco Bresolin


Primo in tutte le regioni, primo in tutte le province (fatta eccezione per «il caso Enna»). E il successo è ancor più largo nelle regioni «rosse». Toscana, Emilia, Umbria: nelle storiche roccaforti della sinistra c’è stato un vero e proprio plebiscito. La nuova mappa dell’elettorato del Pd ha un unico colore, quello di Matteo Renzi. Avanti pop.
C’era una volta il Partito
Eppure in quelle aree non era andata poi così male per Cuperlo ai congressi nei circoli, quelli in cui avevano votato soltanto gli iscritti. Primo in Emilia Romagna, secondo per pochi decimali in Umbria e percentuali comunque consistenti in Toscana (38%). Domenica il verso è cambiato davvero e il divario più ampio tra circoli e gazebo, da cui emerge con chiarezza la differenza tra il voto degli iscritti al partito e quello dei «simpatizzanti», è risultato proprio lì. Dal 43,5% al 15% in Emilia Romagna,
dal 45,1% al 14,6% in Umbria, dal 38% all’11,5% in Toscana: più che una Waterloo, una «Cuperloo», ironizzava domenica sera il deputato Sandro Gozi. Come si spiega questa débâcle? «In queste aree il partito è sempre stato particolarmente forte – spiegano Piergiorgio Corbetta e Rinaldo Vignati dell’Istituto Cattaneo, autori di una ricerca sulle primarie –, ma il modello di apertura-integrazione che ha funzionato in passato, ora si è trasformato in chiusura. Il partito non è stato capace di mostrare la stessa accoglienza e la stessa sintonia verso i nuovi ceti sociali. La struttura organizzativa si è come isolata dalla società e dai suoi mutamenti, diventando in qualche modo vittima del suo stesso successo».
Marche antisistema
Tra le regioni feudo della «vecchia» sinistra, anche le Marche. Che ora sembra essere quella più stanca della vecchia politica e la più aperta al cambiamento, forse anche a causa della crisi economica che sta smantellanto il tessuto industriale. A febbraio, da queste parti, Grillo era arrivato al 32%, davanti all’intero centrosinistra. Domenica Matteo Renzi ha toccato quota 76%, superando Pippo Civati e Gianni Cuperlo, ultimo con il 10%. Un voto antipolitico? Tutt’altro: l’8 dicembre sono corsi ai gazebo 93 mila marchigiani, duemila in più delle primarie (di coalizione) del 2012, settemila in più delle primarie del 2009. La voglia di partecipare è tanta, quella di
voltare pagina pure.
Giù l’affluenza al Sud
Ma scorrendo l’elenco dell’affluenza regionale, spicca anche il Veneto. Hanno votato in 167 mila, addirittura tremila in più di un anno fa (e c’era in palio la premiership, lo ribadiamo). In Piemonte la partecipazione (165 mila) è stata più massiccia rispetto alle primarie del 2009 (155 mila), così come in Lombardia: 380 mila contro i 354 mila della sfida Bersani-Franceschini-Marino. Discorso completamente opposto al Sud, dove c’è stato un netto crollo rispetto al 2009 in Puglia (meno 45 mila votanti), Sicilia (-85 mila), Calabria (-60 mila), Basilicata (-31 mila) e Sardegna (-50 mila).
Civati a Statuto Speciale
Quei pochi sardi che hanno votato, hanno dimostrato di non amare molto Matteo Renzi: pur arrivando primo, si è dovuto accontentare del 56,4% (il suo peggior risultato regionale), al contrario di Pippo Civati che ha sfiorato il 20%. E sono proprio le regioni a statuto speciale ad aver premiato l’outsider (21,3% in Valle d’Aosta e 20,2% in Trentino), che è arrivato secondo pure nella «Macroregione padana» fatta da Lombardia, Piemonte e Veneto. Senza dimenticare il successo ottenuto a Pomigliano d’Arco: 787 voti contro i 600 di Renzi e i 157 di Cuperlo.
Bettola è rimasta a casa
Cuperlo ha vinto a Bettola, il paese di Bersani. Ma rispetto a quando «Pigi» era il candidato, la differenza l’ha fatta l’affluenza: nel 2012 votarono più di 260 persone (di cui 222 per Bersani), quest’anno solo 94. A Cuperlo resta quindi la consolazione di aver messo l’unica bandierina rossa sulla provincia di Enna (61,2% contro il 34,4% di Renzi) e aver «recuperato» a Salerno: nella roccaforte di De Luca, Renzi si è fermato al 73%, dopo che aveva vinto ai congressi dei circoli con un clamoroso 97,1%. Ma quella, forse, è tutta un’altra storia.

il Fatto 10.12.13
Avere 40 anni e l’Italia in pugno
di Antonello Caporale


A chi gli chiedeva, ieri, un parere su Matteo Renzi, il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso rispondeva, con consumata abilità democristiana, che lui il sindaco di Firenze lo conosce bene, ma che ha pure “un’eccellente relazione” con Enrico Letta. Che rapporto c’è – vien da chiedersi – tra l’una cosa e l’altra? Il fatto è che il messaggio recepito dai media esteri suona contrapposizione tra Matteo ed Enrico: una sorta di equazione “più Renzi uguale meno Letta”. La vittoria più ampia delle previsioni del sindaco segretario innesca, quindi, pronostici incerti - e contraddittori - sulla sorte del governo: il premier può durare “sotto schiaffo” del leader del partito o potrebbe cedere il passo alle elezioni. Barroso, pure lui scuola politica centrista, proprio come i due giovani leoni della “sinistra” italiana, innestatisi con successo nel Pd, fiuta l’aria e cerca una posizione d’equilibrio: né contro l’uno, né contro l’altro. Renzi lo conosce perché, da anni, va alla Festa dell’Europa a Firenze il 9 maggio: gli ha pure consigliato di fare della città uno “hub della cultura europea” che, a ben guardare, lo è già. Con Letta, la frequentazione è intensa e l’intesa è forte, come lo era, del resto, con Mario Monti.
LA VITTORIA di Renzi appare all’Europa come presagio d’instabilità. Le reazioni ufficiali sono trite e scontate: la disponibilità a lavorare con qualsiasi leader il popolo italiano si dia; la certezza che quale che sia il governo l’Italia manterrà il cammino europeo; la non ingerenza nelle vicende politiche interne di un Paese membro, a parte le congratulazioni di prammatica dal gruppo S&D, dove siedono gli eurodeputati pd. Il risultato delle primarie conquista spazio un po’ ovunque sui media, in Europa e in America. Il Wall Street Journal, in un richiamo in homepage, scrive che il nuovo capo del Pd può destabilizzare il governo Letta.
MOLTO SPESSO, cronache e commenti sovrappongono l’immagine e le scelte del sindaco segretario. Libérationparla di Renzi come “del volto nuovo della sinistra italiana”, mentre Le Monde lo riduce a un “golden boy”, “un estraneo nella casa del Pd”, pronto a sfidare Letta. La stampa britannica è quasi monotona nel proporre il paragone che torna da giorni con Tony Blair. Quella spagnola, più che dai programmi di Renzi, pare attratta dal “carisma mediatico” (El Mundo, Abc, etc.), avvertendo che Matteo “deve ancora dimostrare di essere un leader”. El Pais ha meno dubbi: il trionfo di Renzi “rappresenta un cambiamento generazionale e rivitalizza il centrosinistra”. The Times e la stampa anglosassone notano le contraddizioni del fenomeno: “L’appeal populista e la verve inducono qualcuno a sinistra a denunciarlo come un ‘mini Berlusconi’ e il suo approccio polemico lo mette in conflitto” coi capi del Pd storici. Pure il WSJ parte dal “carisma e dalla capacità di comunicazione tali da rivaleggiare potenzialmente con quelle di Berlusconi”. Poi vira sul politico: la piattaforma renziana “mira a spingere i comunisti – proprio così, ndr – via dalla base tradizionale della classe operaia verso una classe media, centrista e pro-mercato”. Per il Financial Times, l’esito delle primarie “solleva il morale del Pd”, ma aumenta il “senso d’incertezza” sul governo. Bbc e The Guardian credono che Matteo punti a vincere “portando il Pd al centro”.

il Fatto 10.12.13
Asfalto, esilio e Sudafrica Il day after degli sconfitti
di Paola Zanca


BERSANI SCHERZA IN TRANSATLANTICO, CUPERLO DICE NO ALLE OFFERTE DI RENZI E I GIOVANI TURCHI ABBOZZANO: “AVEVAMO SOLO UN’ORA E MEZZA PER DECIDERE”

Ha appena trangugiato un tramezzino, in piedi alla buvette di Montecitorio. Paga anche un bicchiere di vino. Poi, incrocia Antonio Misiani, fino a ieri tesoriere del Pd. Gli spolvera la spalla, come se ci fossero delle briciole: “Scusa, ti è rimasto un po’ d’asfalto addosso”. Eccolo, Pier Luigi Bersani, un anno dopo. L’ultimo segretario eletto, l’uomo che Renzi l’ha sconfitto, oggi tutto sembra tranne che acciaccato.
SCHERZA, circondato da alcuni dei collaboratori più stretti della sua segreteria. C’è Misiani, appunto, fresco di decadenza. Lo sfottono perché (finalmente, diranno) la poltrona da ultimo dei bersaniani è caduta anche per lui. C’è Nico Stumpo, già responsabile organizzazione (il “Viminale” delle scorse primarie) anche lui tra il rassegnato e il profetico: “Ho scommesso che avrebbero votato in tre milioni e ho vinto. Queste cose si sentono: io ho fatto le telefonate ai miei ex compagni di università. Gente laureata, di sinistra. Chiedevo di votare Cuperlo e loro: ‘Ma dai, fammi dare una chance a Renzi, vediamo che combina’... ”. E adesso, che si fa? “La minoranza, leale”, dice Stumpo. “Nessuno metterà bastoni tra le ruote”, ha già dichiarato Bersani, ricordando però a Renzi che “se è qua è perché qualcuno gliel’ha permesso”.
Arriva Dario Franceschini, il ministro del governo Letta, previdentemente salito sul carro di Renzi a corsa ancora aperta. Anche lui appoggia una mano sulla spalla, stavolta è quella di Bersani. Dice “buongiornooo”, con l’aria preoccupata di chi non sa che risposta lo attende. Invece l’ex segretario lo gela con il sorriso sulle labbra: “Enrico dov’è? Ha già chiesto asilo politico in Sudafrica? ”. Ridono del premier, in partenza per i funerali di Mandela proprio nel giorno in cui l’avversario canta vittoria: “Ma alla Camera quando parla? (mercoledì c’è il voto di fiducia, ndr) - insiste Bersani - Arriverà tutto nero in faccia! ”, scherzando sull’analogia tra l’eroe anti-apartheid e il colore dell’asfalto che ha travolto anche Letta. C’è chi non si rassegna. Ugo Sposetti, l’altra sera, tuonava ancora: “Non è tutto finito”. Altri, più rabbiosi, cercano colpevoli del risultato: atteso sì, ma non con un catastrofico 18 per cento. “È la Cgil che non ha portato un voto”, ringhiano. “È D’Alema che Renzi se l’è inventato.. quando decise di mettergli contro Ventura e ha indebolito Pi-stelli! ”, rimuginano sulle primarie da sindaco del 2009. “È Bersani che non doveva permettere di modificare lo statuto! ”, si disperano sulla deroga concessa a Renzi che, un anno fa, potè correre per la leadership di coalizione nonostante Bersani fosse il candidato naturale.
PREISTORIA. Adesso, mentre Bersani scherza e altri, sottovoce, rimestano nel torbido, Renzi ha già pronta la nuova segreteria. Non c’è nessuno della guardia Cuperlo. Il vincitore ha offerto un posto allo sconfitto. Ma la risposta è stata no. Raccontano che i giovani turchi fossero più propensi ad accettare. Conferma Matteo Or-fini: “Nessuno era pregiudizialmente ostile, più che altro c’era la difficoltà ad accettare in tempi così brevi, non avremmo fatto in tempo a discuterne in modo largo tra di noi... ”. L’incontro tra Renzi e Cuperlo alle 14, la conferenza stampa di presentazione della squadra alle 15.30. Dallo staff del candidato sconfitto smentiscono che ci siano state richieste di procrastinare la decisione, ne fanno una questione di principio: “La segreteria è un incarico operativo, non era il caso... in direzione saremo rappresentati”. E lo stesso Cuperlo promette: “Mi impegno affinché la nuova fase avvenga in un clima di unità, nella chiarezza delle posizioni e del confronto tra noi”. Lascia il Nazareno subito dopo l’incontro. Va alla Camera. Nessuno ha osato levargli l’asfalto di dosso, nemmeno per scherzo.

il Fatto 10.12.13
Risorse o problemi?
I dinosauri di Matteo Fassino: “Ma iniziai io a smontare l’a pparato”
di Giampiero Calapà


Disastro e vicedisastro. Matteo Renzi, allora candidato alle primarie ma nella sfida per diventare il sindaco di Firenze, chiamava così Walter Veltroni ed Dario Franceschini. Spazzata via dal voto di domenica l’area dalemiana si porrà presto il problema di come utilizzare i “dinosauri” che sostenendo Renzi sono scampati alla rottamazione, insomma quelli che hanno avuto più fiuto nel salire sul carro del vincitore, si direbbe a pensar male. A cominciare da Veltroni e Franceschini, appunto, per continuare con il sindaco di Torino Piero Fassino, ultimo segretario dei Democratici di sinistra, che da tempo ha scelto Renzi: “Si chiude un ciclo di vent’anni, l’apparato di partito ho cominciato a smantellarlo io quando ero segretario dei Ds”. Pensare che Fassino chiuse il congresso di scioglimento dei Ds, 2006, sulle note de “Il cielo è sempre più blu” di Rino Gaetano, brano scelto da Gianni Cuperlo. Tra i “dinosauri” ma in questo caso sostenitori della prima ora si può annoverare invece Paolo Gentiloni, già ministro alle Telecomunicazioni e già candidato renziano, sconfitto da Ignazio Marino, alle primarie per il candidato a sindaco di Roma. Scendendo lungo lo Stivale in Campania ci sono due pezzi grossi di quello che fu il Partito comunista. Antonio Bassolino, già sindaco prima amato e poi odiato di Napoli, già governatore, ha appoggiato il boy scout forse per vendetta contro i suoi ex compagni da cui si è sentito abbandonato nei momenti più difficili. Sindaco di Salerno da una vita e viceministro Vincenzo De Luca non ha avuto timore a scegliere Renzi e ieri si è rivolto così ai giornalisti: “Ha vinto Matteo? Buon per lui. Pensate alla salute”. Enzo Bianco, tre volte sindaco di Catania, è pronto: “Comincia il futuro”.

il Fatto 10.12.13
Conflitto continuo
All’assalto senza avere un perché, l’ultima frontiera della rabbia


È l’onda lunga della protesta. Quella dei forconi. Un’onda così lunga che, diramandosi ovunque indistintamente, corre il rischio di sfociare in una rabbia livida pressoché indistinta.
L’Italia è un paese assai pigro nell’indignarsi. Per questo, spesso, ogni protesta democratica è quasi da benedire, perché testimonia un’esigenza di giustizia, oltre che una vitalità (nonostante tutto) indomita. Quanto accaduto ieri stimola però anche altre riflessioni. La protesta, organizzata dal movimento di agricoltori e pastori protagonisti nel 2012 delle manifestazioni in Sicilia assieme a varie sigle di camionisti, ha trovato proseliti anche altrove. Dal Veneto alla Campania, da Milano a Palermo, dalle Marche alla Sardegna.
Ce l’hanno con l’austerità, ieri griffata Monti e oggi Letta. È una rabbia che ha trovato sponda in semplici cittadini, che chiedono le dimissioni dell’esecutivo e un referendum per l’abolizione dell’euro. Il blog di Beppe Grillo ha dato risalto a una scena inusuale: la polizia che, di fronte ai manifestanti a Torino, si toglie il casco. Forse per solidarizzare, forse per riportare alla calma. “Siete come noi”, ha gridato la folla alle forze dell’ordine, in un rovesciamento dei ruoli che testimonia ulteriormente come l’ideologia non c’entri nulla: come, ormai, sia questione di nervi. Di frustrazione. Di dolore, di ingiustizia. E di violenza, perché più una protesta è ideologicamente labile e più il corteo (dai princìpi spesso condivisibili) si espone al virus dell’infiltrazione: pochi esterni che si confondono all’interno del gruppo e distruggono tutto. Proteste e intenti. Il caso più evidente si è verificato proprio a Torino. Un assalto al Palazzo della Regione, obiettivo il presidente della Regione Cota, indagato per peculato insieme a 42 consiglieri. I manifestanti più ambiziosi gridavano “Rivoluzione, rivoluzione! ”. Quelli più espliciti urlavano ben altro, e le parole più delicate erano “ladro” e “facci vedere gli scontrini”.
ACCANTO AI PROTESTATARI
della prima ora, ultrà della Juventus (i gruppi Drughi, Bravi ragazzi e Tradizione), del Toro, del Milan. Incappucciati e con caschi. Bastoni, mazze da baseball, bottiglie. La piazza ridotta a campo di battaglia, le transenne divelte. Lancio di sassi e rissa, perfino tra gli stessi ultrà. É anche questa la variabile impazzita. Che la protesta si dimentichi il perché della protesta. Che la rabbia diventi fine a se stessa. Che l’unico obiettivo sia il caos, la guerriglia, lo spaccare tutto. E che la violenza, alimentata da una frustrazione generalizzata e da una congiuntura economica spietata, chiami altra violenza. Fino a diventare non più occasionale, ma addirittura rituale. Quasi un’abitudine, quasi una costante.
Proteste di questo tipo, trasversali e inizialmente spontanee, individuano genericamente nello Stato la fonte di tutti i mali. Uno Stato peraltro assente, oltre che svilito e illegittimo, ridicolizzato anzitutto da chi detiene il potere e dunque incentiva involontariamente qualsiasi pulsione antagonista. Se lo Stato è di per sé antipolitico, la protesta di piazza (e di pancia) non può non avere analoga attitudine. Se il cittadino non si sente ascoltato, prima urla contro il cielo e poi abbassa il tiro. Oltre che il livello di pazienza. Generalizza e colpisce.
LA DEBOLEZZA delle istituzioni fa sì che la violenza trovi breccia e venga in qualche modo tollerata. Diventano “normali” il blocco delle strade, lo scontro fisico: l’arrabbiatura che neanche più si ricorda il motivo originario della rabbia. Ieri molti italiani hanno protestato, perché c’è tanto da protestare. Tutto, però, ha via via assunto i connotati dello scontro per lo scontro. E quel che oggi sembra un’esplosione sporadica di frustrazione, e che in paesi ancora più deboli è ormai norma, potrebbe divenire domani uno stato permanente di emergenza. Da una parte chi si incazza, dall’altra chi non ha risposte e neanche le cerca. Un non-dialogo tra sordi. Più che un paese, una polveriera.
a. sca.

La Stampa 10.12.13
Estrema destra, squatter e ultrà
Le larghe intese della violenza
Nel capoluogo piemontese in piazza insieme granata e juventini oltre ai gruppi organizzati di CasaPound e Forza Nuova
di Beppe Minello


TORINO Gli organizzatori, quelli dei forconi, hanno provato in tutti i modi a tenere a bada i più esagitati. Sia quelli che davanti a Palazzo Civico lanciavano mandarini e uova, sia quelli che, un’ora dopo e duecento metri più in là, tiravano mattoni e pezzi di marmo contro la facciata della Regione in piazza Castello e, di rimbalzo, sulla teste dei poliziotti schierati in strada. Ma come si fa a tenere insieme l’ambulante strozzato dalla Tares da pagare entro metà mese, il tassista e il negoziante messi in ginocchio dalla crisi che taglia stipendio e incassi, l’autista della Gtt furibondo come e più dei colleghi genovesi perché il Comune vuole cedere il 49% dell’azienda di trasporto pubblico in cui lavora a un socio privato? Come si fa a far capire a giovanotti calati dalle periferie, che in strada ritmano, gesticolano e saltellano come sanno fare allo stadio, che è sbagliato prendersela con poliziotti, carabinieri e finanzieri «lavoratori come noi». Avercelo un lavoro. E allora, ecco che la protesta dei forconi è riuscita a mettere insieme anche il diavolo e l’acqua santa, i granata dell’Olimpico con i bianconeri dello Stadium. Evento eccezionale, ma che ieri ha travalicato la fede sportiva affratellando giovani la cui unica dimensione di vita sociale è quella sugli spalti dello stadio: ogni domenica divisi, ieri insieme. Giovani che sono scesi in strada sull’onda di Facebook dove almeno in diecimila si sono iscritti ai tanti gruppi nati per sostenere la protesta dei forconi. E qualche migliaio di essi, va da sé, non s’è limitato alla dimensione digitale e ha voluto cimentarsi con la realtà. Se poi su questo gran ribollire di malumori, su questa sorta di armata Brancaleone, ci gettate una manciata di violenti «professionisti», un po’ di destra Forza nuova, CasaPound et similia aderivano alla protesta e qualcuno di più di sinistra, cioè antagonisti e anarchici spuntati al momento buono, cioè quando la polizia ha caricato per disperdere chi stava distruggendo a sassate un’auto, ecco che il caos è servito. Insomma, raccontare chi, ieri, è sceso in strada a Torino è come fare un riassunto di tutti i problemi, di tutte le tensioni che hanno scandito e continuano a scandire la vita della città negli ultimi mesi. E i più «caldi», va da sé, sono gli ambulanti che si sono organizzati ai tempi della protesta contro la Bolkestein e sono nuovamente scesi in strada qualche settimana fa nella lotta contro le nuove tariffe della tassa raccolta rifiuti che, pur con tutti i correttivi introdotti dal Comune, ha sfornato un conguaglio pesantissimo. E non a caso, sia davanti a Palazzo Civico, sia davanti al Palazzo della Regione in piazza Castello, a guidare ma anche a tentare di tenere a bada la folla c’erano le stesse persone di allora. Ad esempio quel Cesare Di Termini, battitore nei mercati e ancora aderente all’associazione che fa capo all’Ascom della Confcommercio, il quale, megafono alla bocca, tentava la difficile impresa di ammiccare agli slogan più beceri per non essere scavalcato dai più esagitati cercando, nel contempo, di arginare la voglia di spaccare tutto. E insieme agli ambulanti, ecco gli autotrasportatori e i dipendenti Gtt reduci da uno sciopero di 24 ore appena venerdì scorso, riuscito alla grande e senza un incidente, che puntavano a entrare a Palazzo Civico dove il Consiglio comunale, convocato per il pomeriggio, aveva all’ordine del giorno proprio l’iscrizione della delibera con la quale partirà l’iter per la vendita dell’azienda in cui lavorano. Davanti al Municipio, alla fine, è andata bene. A parte la valanga d’insulti rovesciata sul sindaco Fassino e ai consiglieri e impiegati che avevano l’ardire di affacciarsi. A parte il tricolore con 4 stelle dorate fatto sventolare dal balcone del municipio da Maurizio Marrone, capogruppo di Fratelli d’Italia sceso in piazza con i manifestanti. Partito che alla luce delle violenze di piazza Castello e della valanga di slogan contro l’alleato governatore leghista Cota ha poi preso le distanze dalla «condotta inaccettabile» dando solidarietà a forze dell’ordine e giornalisti malmenati.

Corriere 10.12.13
Gruppi diversi senza un’anima comune
Un miscuglio di collera e disagio
di Dario Di Vico


Il logo dei Forconi, movimento nato in Sicilia, si è imposto in tutta Italia come un franchising del disagio e della collera.
Insieme, in forme varie, le rivendicazioni di trasportatori, studenti, disoccupati
In un lungo lunedì che ha conosciuto momenti di ordinaria follia il logo dei Forconi è riuscito a imporsi lungo tutta la penisola come un franchising del disagio e della collera. Alle varie manifestazioni che si sono tenute in tante città italiane con le forme più varie (blocchi stradali e ferroviari più o meno temporanei, cortei, volantinaggi, presidii) hanno partecipato padroncini dei Tir, ambulanti, cassaintegrati, studenti e disoccupati. È capitato persino che a Brindisi la protesta abbia incontrato il favore attivo dei commercianti mentre a Torino sono stati proprio i negozianti a chiudere le saracinesche per paura dei tafferugli scatenati dai manifestanti.
Di tutto di più. E del resto l’obiettivo dei Forconi, movimento nato in Sicilia, era proprio questo: dare voce ai soggetti sociali più disparati vittime della recessione e privi di una rappresentanza stabile. A Bologna la protesta si è indirizzata direttamente contro Equitalia, ad Ancona contro la sede Rai e in Sicilia ha partecipato ai cortei anche l’Associazione pro stamina. A Perugia si è sfilato contro l’austerità e a Genova si sono sentiti slogan contro le privatizzazioni. Il motivo scatenante della protesta — la legge di Stabilità che colpirebbe i piccoli autotrasportatori — è passato decisamente in secondo piano in una giornata in cui Marcello Longo, leader di Trasportounito, ha emesso una raffica di comunicati un po’ su tutto: ha denunciato che i suoi erano stati manganellati, ha messo in guardia minacciosamente il premier Enrico Letta, ha chiesto le dimissioni del ministro Maurizio Lupi e, infine, ha incitato i manifestanti a proseguire nella lotta.
Dal punto di vista sindacale alcune tra le maggiori organizzazioni di categoria dei camionisti — quelle che fanno capo a Confartigianato e Cna — sostengono che i Forconi hanno solo bucato l’acqua, la stragrande maggioranza dei Tir in Italia ha girato, non ci sono stati blocchi alle forniture industriali e ai rifornimenti commerciali. Insomma, a sentir loro, non si può fare nessun paragone con i fermi dei camion che in tante precedenti occasioni — e con quasi tutti i governi — avevano bloccato davvero il Paese e avevano messo in ginocchio l’economia. Proprio l’adozione di una forma di lotta da guerriglia urbana come a Torino e di blocco della circolazione ferroviaria come in Liguria dimostrerebbe la mancata adesione della categoria e i Forconi, alla stregua del famoso esercito di Franceschiello, avrebbero fatto ammuina proprio perché non sarebbero riusciti a dare una vera battaglia sul fronte dei Tir. È chiaro che occorre procedere con molta cautela nelle valutazioni, le grandi e medie organizzazioni di categoria che erano state le prime a indire il fermo dal 9 al 13 dicembre hanno nel frattempo strappato al governo Letta un accordo sul rimborso delle accise che giudicano vantaggioso e che di conseguenza difendono, ma la giornata di protesta si è articolata e sminuzzata in tanti episodi che è pressoché impossibile stilare un bilancio credibile.
E poi siamo ancora all’inizio, non è dato sapere se già oggi la protesta scemerà o al contrario si allargherà ad altre situazioni. Non sappiamo se le intimidazioni rivolte a diversi piccoli autotrasportatori produrranno o meno un effetto paura. Vedremo. Secondo Mino Giachino, ex sottosegretario ai Trasporti con il governo Berlusconi, il governo avrebbe dovuto evitare per tempo la saldatura tra Trasportounito e i Forconi, calibrando meglio l’accordo sulle accise e allargandolo ad altri capitoli che interessano di più quei camionisti proprietari anche di un solo camion.
Dal punto di vista politico ieri è stata comunque una giornata di transizione: i Forconi hanno incassato il plauso esplicito del neo-segretario della Lega Nord, Matteo Salvini e sono stati però appoggiati sul campo da diversi militanti dell’estrema destra. A Roma l’inedita alleanza ha incontrato qualche intoppo: i militanti di Forza Nuova non sono riusciti a trovare il presidio dei Tir e trovati a passeggiare sul Grande Raccordo Anulare sono stati sanzionati dalla polizia per «attraversamento pedonale di area autostradale».

il Fatto 10.12.13
Stefano Delle Chiaie L’ombra nera
“Italia serva delle banche, ora tocca ai camerati”
di Andrea Scanzi


Er Caccola è ancora in tournée. Stefano Delle Chiaie, 77 anni, presenta ancora il suo libro e le sue verità, L’aquila e il condor. Su e giù per l’Italia. “Racconto una vicenda politica da cui ormai sono distante. Contestarmi è un fenomeno sciocco. Sul mio conto non dovrebbero esserci dubbi”.
Piazza Fontana, strage di Bologna, Borghese, Franco, Pinochet, Italicus. Come diceva Andrea Barbato: “Lei è un imputato particolare. O è un colpevole molto fortunato, o è un innocente molto sfortunato”.
Sono stato assolto da tutto e l’accusa di stragismo mi ha segnato profondamente. Mai avuto rapporti con i servizi segreti. Le stragi sono un’idea lontana dalla mia mente. Mi hanno massacrato.
Un martire. Pure lei.
Queste conversazioni sono inutili. Lei, come tanti, è cresciuto con idee sganciate dal vero e non cambierà mai idea. Vivo in un deserto politico, frequento pochi amici che la pensano come me. Credevo in un mondo più serio. Ho agito non per i miei interessi, ma per il bene del mio paese.
Su Facebook le dedicano gruppi estasiati.
Molti camerati mi hanno assicurato profondo affetto, difendendomi dalle ingiurie subite. Sono legato a loro spiritualmente, anche se ho fatto un passo indietro. L’Italia è sottomessa alle banche, alla finanza, ai poteri forti. Ora tocca a loro.
Loro chi? A destra c’è il nulla.
Io non sono di destra, ma nazional-rivoluzionario.
Sognava una destra estrema e adesso si ritrova Alfano. Un successone.
Di Alfano non me ne frega niente, è irrilevante e non mi riguarda.
Berlusconi?
Ripeto, non me ne frega niente.
Renzi?
È uguale ai ragazzi del Msi che frequentavo negli anni Cinquanta. Dicevano tutto e il contrario di tutto, per piacere e compiacere. Come Renzi. Quando mi capita di vederlo in tivù, so già in anticipo cosa risponderà.
Grillo?
Dice quello che dicevamo noi nei ‘50-‘60, solo che a noi non ci ascoltavano. Eravamo ghettizzati in un campo di concentramento ideologico. A Grillo invece lo votano: incarna la protesta, ma non ha alcuna visione politica. Gli manca la prospettiva, la sintesi ideologica.
Che lei invece aveva. Per esempio idolatrando Junio Valerio
Borghese.
Un punto di riferimento assoluto. Su di lui hanno scritto cose terribili, basandosi su chiacchiere di personaggi da salotto del tutto contrarie alla verità.
Le atrocità compiute dalla Decima Mas sono un’invenzione? Il golpe fu chiacchiera da salotto?
Gli eventi storici vanno contestualizzati. Borghese non era un criminale, ma una figura di grande acume e cultura. Un esempio.
Come Pinochet, altro suo vecchio amico.
Pinochet è stato un elemento valido, molto valido. Una grande novità politica, ingiustamente semplificata in Europa come figura filo-americana. Purtroppo dal ‘77 ha preso una strada diversa da quella originaria e mi sono staccato da lui.
Pinochet la coinvolse nell’Operazione Condor per l’azzeramento dei dissidenti?
Ha letto libri sbagliati.
Ha nostalgia della latitanza in Sudamerica?
Lo vede? Già sbaglia a definirla “latitanza”. Ero all’estero perché l’Italia non mi permetteva di essere libero. In Sudamerica ho aiutato i poveri e gli ultimi. Ho fatto del bene. Poi in Italia mi hanno trattato da assassino.
Nel suo libro dà la sensazione di raccontare verità parziali.
Lei è prevenuto. Nei miei confronti è stata costantemente travisata la verità. Durante il processo di Piazza Fontana, tra una velina e l’altra, a un certo punto l’unico imputato ero diventato io: prima falsa testimonianza, poi stragismo. Una grande amarezza. Essere ritenuto l’assassino di tanti innocenti è poco piacevole.
Chi è stato Benito Mussolini?
Un grande uomo. Grandissimo. Il collante del paese, capace di tenere insieme tutte quelle contraddizioni poi esplose dal ‘45 in poi. Il fascismo purtroppo non è ripetibile, inutile quindi avere un approccio sentimentale e nostalgico. Una dittatura simile non tornerà.
Che sfortuna.
Di Mussolini mi ha sempre attratto il forte principio di libertà. Nei Sessanta però non si poteva dire, perché eravamo relegati nel solito campo di concentramento ideologico. Trattati da criminali. Allucinante.
È allucinante anche non condannare i campi di concentramento.
Quelli veri.
Non c’erano solo quelli nazisti. Perché non parlate mai di quelli stalinisti, di quelli del socialismo reale? I campi di concentramento non erano piacevoli, ma vanno inseriti nel contesto di quel particolare periodo storico.
“Non erano piacevoli”? È stato un Olocausto.
Lei deve contestualizzare. Arrivederci.

l’Unità 10.12.13
Coppie di fatto boom
E l’affare è solo per notai
Un milione di famiglie, il doppio rispetto a sei mesi fa
Il 60% è di nuova generazione
Si tutelano stipulando contratti di convivenza
di Mariagrazia Gerina


Istantanee di coppia. Francesco e Marco vivono insieme da anni e si sentono vittime di un paradosso: «Gli altri si scambiano una promessa per la vita, noi per ora possiamo solo nominarci nel testamento». Cosa che hanno fatto da tempo. Poi è arrivata la bimba, che nella vita di tutti i giorni li chiama papà ma all’anagrafe è figlia di uno solo dei due. E di nuovo sono stati costretti a celebrare l’evento cambiando il testamento. Giovanna e Fabrizio sono una giovane coppia, vivono insieme da due anni, dividendo spese di affitto e bollette, senza troppi problemi. Però vogliono essere sicuri di potersi prendere cura l’uno dell’altro, anche in caso di malattia o di un incidente. Valeria è già rimasta scottata una volta: lavorava al negozio del marito, ma senza contratto. Ora convive con un nuovo compagno che vuole rassicurarla, garantendole nero su bianco un sostegno economico anche se si dovessero lasciare. Desideri e paure quotidiane delle coppie di fatto. Erano 500mila nel 2007, sono diventate quasi un milione. Nel 2007 erano soprattutto famiglie ricostituite, con un matrimonio alle spalle (55%), ora la maggior parte sono famiglie di nuova generazione (60%). Un popolo che avanza, anche senza l’aiuto del parlamento italiano, che da venticinque anni promette unioni civili, Pacs, Dico, matrimoni gay, senza riuscire a battere un colpo. Solo in questa legislatura sono state presentate 16 proposte di legge: per le unioni civili, per l’eguaglianza di accesso al matrimonio, per i diritti e doveri dei conviventi, contro la discriminazione matrimoniale. Nessuna, per ora, è stata calendarizzata in aula. E l’intera matassa è in questo momento all’esame della commissione giustizia del senato. Anche i Registri delle unioni civili, istituiti in molti Comuni d’Italia sono a una empasse. Dovevano aprire le porte a una nuova stagione legislativa. Rischiano di rimanere, per lo più, uno strumento spuntato. Soprattutto se le amministrazioni locali, invece di andare avanti, si fermano ad aspettare la politica nazionale.
Tradite dalla politica, le coppie di fatto però sono diventate oggetto di grande attenzione da parte dei liberi professionisti. I notai, in particolare, fiutata l’aria, hanno lanciato nelle ultime settimane una campagna di comunicazione senza precedenti.
Open day, battage informativo, «porte aperte» ai cittadini in 93 Comuni d’Italia. E la promesa che «dal 2 dicembre» le coppie che convivono avrebbero potuto veder tutelati i propri interessi rivolgendosi a un notaio. «Due cuori e una capanna», ma «noi vi diciamo a chi spetta la capanna se i cuori si infrangono».
In tanti sono andati a informarsi. Circa un migliaio, secondo una stima non ancora ufficiale. «Persone con cultura medio-alta, già molto informate», spiega il presidente del Consiglio notarile di Milano, Arrigo Roveda: «La domanda più frequente: come farò a garantire il mio convivente quando non ci sarò più?». In realtà, chi sperava che fosse cambiato qualcosa nell’ordinamento italiano è rimasto deluso. Tutto è rimasto come prima. Quello che i notai ripropongono sono i contratti di convivenza, la possibilità di stabilire come dividere spese e beni in comune, quella di fare testamento, con i limiti imposti dalla legge. Strumenti che esistevano già. La novità è un vademecum per addetti ai lavori che il notariato ha distribuito a tutti i suoi iscritti. Da lunedì scorso, quindi, gli studi notarili di tutta Italia dovrebbero essere più preparati ad andare incontro alle esigenze delle coppie di fatto. Ovviamente, a pagamento.
Sulle tariffe, la categoria è un po’ abbottonata. «Non sentirà mai da me una cifra, non posso: l’antitrust mi sanzionerebbe», avverte Roveda: «In Italia, le tariffe sono state abolite». Nel resto d’Europa no. Ma, pazienza: con l’ausilio di qualche professionista volenteroso, tentiamo una stima a spanne. Una giovane coppia, senza grandi proprietà può cavarsela con qualche centinaio di euro. Molto più salato il conto per chi ha una storia patrimoniale più articolata, magari con alle spalle un matrimonio e dei figli. «Si può andare da mille euro a qualche migliaia di euro», dice Domenico Cambareri, del Consiglio nazionale notai.
«Una iniziativa commerciale», replica Laura Logli, avvocato matrimonialista che per conto del Comune di Milano alcuni mesi fa ha redatto un vademecum per le coppie di fatto, scaricabile dal sito di Palazzo Marino. Gli strumenti indicati sono gli stessi a cui rimanda il Consiglio nazionale dei notai. Con una differenza. Che alcune cose si possono mettere in chiaro anche gratis. Quelli patrimoniali sono gli unici interessi tutelati in via esclusiva dai notai, spiega Logli. Tentativo di andare oltre la semplice istituzione del Registro delle Unioni civili. Non a caso, a Milano le iscrizioni sono state più alte che nel resto d’Italia: 750 coppie registrate. Contro le 157 di Torino, che pure ha alle spalle più anni di vita.
A Roma, invece, il Registro non c’è.
Il passo successivo per Milano doveva essere l’apertura di sportelli gratuiti rivolti alle coppie di fatto. «Ci stiamo ragionando», spiega l’assessore alle Politiche sociali Pierfrancesco Majorino. Ma c’è il problema delle risorse. Quindi l’idea resta nel cassetto. E intanto proprio da Palazzo Marino sabato scorso i notai hanno lanciato la loro campagna.

l’Unità 10.12.13
L’avvocato: «Ma una scrittura privata può bastare. E costa molto meno»
di Laura Logli


«Sarebbe come se noi matrimonialisti dicessimo: al via i divorzi». Laura Logli, avvocato, è piuttosto contrariata dalla campagna sui contratti di convivenza lanciata dal notariato nazionale. Da autrice del vademecum per le coppie di atto diffuso dal Comune di Milano teme si faccia confusione.
Quale è la confusione?
«Non c’è nessuna novità giuridica, non è stata approvata nessuna legge. I contratti di convivenza esistevano già. I notai vogliono proporsi per redigerli? Bene, ma promuovere come qualcosa di rivoluzionario un’iniziativa commerciale non mi piace e far passare il messaggio che bisogna per forza andare dal notaio non è dalla parte del cittadino».
Perché?
«L’atto redatto dal notaio è richiesto solo se si vogliono trasferire delle proprietà o stabilire un diritto di usufrutto. Mentre i contratti di convivenza possono redigerli gli avvocati che da più tempo si occupano di famiglie. Ma soprattutto possono farlo le parti personalmente, con una loro scrittura privata». Difende la categoria?
«No, mi preme dire le cose come stanno e far sapere che in molti casi, per esempio per indicare l’amministratore di sostegno, è sufficiente ricorrere a una scrittura privata. Meglio se con firma autenticata o almeno con timbro postale che ne provi la data. Si spende meno e vale lo stesso. L’obiettivo del vademecum era proprio questo: fornire un servizio gratuito alle coppie di fatto».
Ma è possibile tutelare tutto attraverso i contratti?
«No, per esempio, la pensione di reversibilità spetta solo ai coniugi. Ma si possono stipulare delle polizze». Nel suo vademecum ci sono anche dei possibili modelli di contratto.
«Sì, era una traccia poi andava personalizzata».
Magari istituendo degli sportelli dedicati.
«Ne abbiamo ragionato con l’assessore Majorino, persona molto sensibile a questi temi».
E che fine ha fatto l’idea?
«Spero si realizzerà».

l'ex leader di Rifondazione si affianca a Claudio Sardo come "nuovo" editorialista-catecumeno?
l’Unità 10.12.13
Il tabù della riduzione dell’orario di lavoro
di Fausto Bertinotti


SE NON FOSSE PER «L’ARIA DEL TEMPO» CHE SOFFOCA OGNI SPIRITO DI RIFORMA SOCIALE SAREBBE INCOMPRENSIBILE CHE, NEL TEMPO IN CUI LA DISOCCUPAZIONE, in Europa, è diventata strutturale e di massa, non entri, né nel dibattito pubblico, né nelle relazioni sociali, né, tanto meno, nell’agenda dei governi, il tema della riduzione dell’orario di lavoro. Si dirà che una sorte non molto diversa tocca ad altri temi di riforma sociale, per tutti il reddito di cittadinanza. Ma l’osservazione piuttosto che giustificare la coltre di silenzio, la rende ancor più pesante. Perciò andrebbero dedicate le attenzioni che meritano ai tentativi di bucare il muro di silenzio eretto nei confronti dei temi di riforma sociale e a protezione delle politiche di autenticità. Su questo giornale Nicola Cacace ha dedicato al tema un interessante articolo e Pierre Carniti si è impegnato ancora recentemente con un libro prezioso, La risacca. Il lavoro senza lavoro. Claudio Gnesutta ha recentemente riflettuto in termini assai interessanti su un intervento finalizzato alla redistribuzione del lavoro tra occupati e inattivi. Alle ragioni storiche che dovrebbero indurre a considerare la riduzione dell’orario di lavoro come una componente necessaria di una qualsiasi politica di pieno e buon impiego, se ne aggiungono altre di natura congiunturale e più direttamente connesse alla coppia crisi-crescita, coppia che domina la fase e le politiche dei nostri giorni. Se le politiche di austerità, nella crisi, hanno indiscutibilmente aggravato drammaticamente la disoccupazione, la precarietà e la sottrazione del tempo di lavoro alla determinazione e al controllo dei lavoratori interessati, si viene facendo strada ora la convinzione che anche la ripresa che si prevede vedrà, nei paesi europei, una crescita assai modesta e, in ogni caso, nessuna conseguenza significativa sull’occupazione. La tesi secondo la quale bisognerebbe guadagnare la crescita per rispondere al dramma sociale della disoccupazione è già falsificata prima ancora che cominci la ripresa. Del resto, anche analizzando le tendenze di medio periodo si evince che la relazione tra crescita e impiego si è fatta assai controversa. In ogni caso, per restare al tempo presente, non si sfugge all’interrogativo su come si possa creare occupazione in un periodo di sostanziale stagnazione economica. Allora prende forza, direttamente, l’esigenza di rovesciare la relazione tra la crescita e la creazione di impiego e si afferma, oggettivamente, la necessità di mettere mano direttamente a quest’ultima. La distribuzione del tempo di lavoro sarebbe una parte importante di questa operazione economico-sociale, per altro reso possibile dai guadagni di produttività realizzati e realizzabili con l’invenzione e l’applicazione dell’informatica, da un lato, e con la messa al lavoro delle conoscenze diffuse incorporate dalla popolazione lavorativa, anche attraverso le nuove forme di apprendimento non formalizzato. Bisogna, inoltre, tenere conto che nella realtà già avviene una riduzione dell’orario di lavoro medio settimanale, seppure in forma subdola e socialmente penalizzante il lavoro. Secondo l’Ufficio internazionale del lavoro, contro le 35 ore medie della Francia, in Germania la durata setimanale del lavoro è scesa a 30,3 ore per la diffusione enorme dei piccoli lavori, i cosiddetti mini e midijobs, spesso della durata di meno di 10 ore. Dunque ci sono, oltreché ragioni sociali, di giustizia sociale, di eguaglianza, ragioni di fattibilità tecnica della messa all’ordine del giorno della riduzione dell’orario.
Le sue conseguenze sull’occupazione sono facilmente immaginabili, largamente prevedibili e persino quantificabili. Pierre Larrouturon, autorevole economista francese e presidente del collettivo Roosevelt 2012 ha scritto: «In Francia quattrocento aziende sono già passate a quattro gironi utilizzando la legge Robien. Un movimento generale verso la settimana di quattro giorni potrebbe creare 1,6 milioni di posti di lavoro». Non è necessario condividere la previsione, né aderire al modello dei quattro giorni lavorativi a settimana; quel che è necessario è riaprire la grande questione della riduzione dell’orario di lavoro. C’è una tendenza rilevante tra coloro che prospettano la necessità di organizzare la riduzione della durata del lavoro a proporre l’obiettivo delle 32 ore settimanali. Anche questa quantificazione dell’obiettivo è, certo, come altre discutibile. Come lo sarebbe la modalità della sua realizzazione, il mix tra legge e contratto, tra centralità e articolazione, come il diverso peso specifico da attribuire all’ora lavorata a seconda delle caratteristiche del lavoro svolto, dove e quando. È noto che quando il tema della riduzione dell’orario di lavoro è stato d’attualità, quando ha investito la pratica sociale e la politica, esso ha sollevato la riflessione sui temi più generali di organizzazione della società, del rapporto tra produzione e riproduzione sociale, tra economia, lavoro e natura, sul rapporto tra quantità e qualità del lavoro.
La mia generazione politica è stata attraversata dalla temperie promossa dal «lavorare meno, lavorare tutti» e affascinato da una straordinaria ricerca come quella di Andrè Gorz. Si può capire che nel tempo del capitalismo finanziario globale e di questa Europa reale, questi orizzonti possono apparire lontani, sommersi come sono dal vincolo esterno della compatibilità. Ma se non vi si oppone il vincolo interno dei bisogni democratici, a partire da quello del pieno e buon impiego, non c’è alcuna possibilità di uscire dalla crisi attuale drammatica della coesione sociale. La riduzione dell’orario di lavoro è parte di questa contesa.

il Fatto 10.12.13
Pompei
Al posto giusto
Nulla di eroico, è questa la normalità
di Tomaso Montanari


Le nomine di Pompei sono la prima buona notizia sul patrimonio culturale da molti anni a questa parte. Perché Giovanni Nistri e Fabrizio Magani, diversi e complementari, possono garantire legalità ed efficienza negli appalti.
E, se il prossimo soprintendente archeologo di Pompei sarà all’altezza, formeranno la squadra giusta. Una squadra all’insegna della competenza, espressione del meglio del Ministero per i Beni culturali.
Non sono un testimone neutrale: negli ultimi mesi ho fatto parte della commissione che ha proposto al ministro un piano di riforma del Mibac. E ho visto da vicino gli sforzi di Massimo Bray per cambiare lo stato presente delle cose. È un'impresa titanica, su due fronti: perché il quartier generale del Ministero è refrattario ad ogni novità, e perché i poteri che contano terrebbero i Beni culturali in un eterno sfascio, per fare come se non ci fossero.
Nonostante tutto, Bray ci prova: e, almeno a Pompei, alla fine ci riesce.
SE AL COLLEGIO Romano ci fosse
stato il solito non-ministro il direttore l’avremmo avuto in due giorni: ma sarebbe stato o un diplomatico prestato a fare il vicepresidente di Unicredit, o un prefetto già due volte sindaco di Angri con la Margherita. Su tutti i giornali – a partire dal Mattino di Caltagirone, che ha attaccato Bray ogni giorno, impallinandone ogni candidato – si è letto che questi nomi erano voluti fortemente da una parte del Pd campano, legato alla Fondazione Pompei.
E si è letto anche che questa linea aveva un’importante sponda all'interno della Presidenza del Consiglio, cui spettava fare la nomina.
Ma Bray ha tenuto duro, esponendosi a critiche feroci per un ritardo che non si doveva a lui, e arrivando a far capire che piuttosto che accettare una decisione ‘politica’, si sarebbe dimesso. Nulla di eroico: pura normalità. Quella che mancava.

Repubblica 10.12.13
Scelta elegante ma imperfetta
Ora serve un archeologo
di Salvatore Settis


CON la norma “Valore cultura” il governo Letta ha assegnato a se stesso un compito impossibile: trovare per Pompei un “direttore generale di progetto” preposto non solo all’area archeologica (compresi gliappalti).
MA ANCHE al rilancio economico- sociale e alla riqualificazione ambientale e urbanistica di un’enorme area «Grande Pompei», con relativo piano strategico, turistico e di gestione. Cucito questo vestito troppo grande per chiunque, era press’a poco impossibile trovare chi vi stesse dentro: donde la girandola di candidature dei giorni scorsi. Può far scalpore che le sorti di Pompei siano affidate ad un carabiniere: ma in terra di grande criminalità organizzata in realtà è una scelta che non deve stupire. La soluzione trovata è elegante, anche se ancora imperfetta. L’accoppiata del generale dei Carabinieri Giovani Nistri e del Direttore generale ai beni culturali per l’Abruzzo Fabrizio Magani ha l’indubbio vantaggio di riportare Pompei nell’ambito dovuto (il ministero dei Beni Culturali, che ha ora competenza anche sul turismo). Magani sta dirigendo assai bene in Abruzzo la difficilissima situazione post-terremoto, ed è riuscito con grande tenacia e competenza a far partire i cantieri per la ricostruzione del centro storico dell’Aquila. Quanto al generale Nistri, il suo lavoro per la tutela del patrimonio culturale, è stato di prim’ordine. Insomma, se Nistri e Magani sapranno coordinarsi e dividersi bene i compiti, legalità, sicurezza, efficienza e tempistica dei lavori di Pompei dovrebbero essere assicurate.
Per essere ottimisti però manca qualcosa. Il ministro Bray ha dichiarato che è imminente la nomina di unnuovo Soprintendente: il fatto che né il direttore di progetto né il suo vice siano archeologi impone di fare una scelta di alto profilo, per competenza e capacità decisionale. Solo quando l’accoppiata Nistri-Magani si sarà arricchita di questo terzo, cruciale tassello si potrà giudicare della bontà ed efficacia del disegno istituzionale complessivo. Infine: mentre si apre qualche speranza per Pompei, non dimentichiamo l’Abruzzo: chi sarà il successore di Magani all’Aquila? Insomma: predicando bene e razzolando male, il governo ha sbandierato l’estrema urgenza del problema Pompei, ma ha perso quattro mesi (dall’8 agosto ad oggi) per decidere se il direttore generale dovesse essere un diplomatico, un archeologo, un banchiere, un magistrato, un architetto, con evidenti contrasti fra la soluzione tecnica voluta da Bray e le opzioni politiche della Presidenza del Consiglio. Per fortuna ha vinto Bray; ma ora davvero non si può perdere più nemmeno un minuto.


l’Unità 10.12.13
«Il Principe» in esilio
Cinquecento anni fa Machiavelli scrive la più famosa delle sue lettere
Il filosofo inaugura una stagione in cui la politica ha saputo interpretare, indirizzare e governare processi e conflitti economici e sociali
Quanto siamo lontani da lui oggi?
di Luca Baccelli


CINQUECENTO ANNI FA, IL 10 DICEMBRE 1513, NICCOLÒ MACHIAVELLI SCRIVE LA PIÙ FAMOSA DELLE SUE LETTERE. Racconta a Francesco Vettori la sua condizione di esiliato che passa le giornate a seguire il suo podere e a «ingaglioffarsi» all’osteria e le serate a leggere i classici e parlare con loro». E soprattutto annuncia di aver completato Il principe e la sua intenzione di donarlo a Giuliano de’ Medici, nella speranza che i nuovi signori di Firenze gli affidino un qualche incarico, «dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso».
Machiavelli ha passato gli anni dal 1498 al 1512 al servizio della repubblica di Firenze, ha svolto incarichi diplomatici di grande responsabilità e organizzato la milizia popolare. Caduto in disgrazia, si rivolge ai signori che lo hanno fatto incarcerare, torturare e poi esiliare rivendicando la sua competenza nell’«arte dello stato». Secondo molti si presenterebbe così come un puro tecnico della politica, disponibile a mettere la sua professionalità al servizio dei governanti di turno. È per questo scopo che avrebbe scritto un libretto che rientra nel genere letterario rinascimentale dei «consigli ai principi», avendo cura di introdurre strabilianti novità per attirare su di sé l’attenzione. Questa sorta di abiura, oltre che inutile per i destini personali di Machiavelli, si rivelerà temporanea: di lì a qualche anno Machiavelli tornerà a frequentare gli ambienti repubblicani, in particolare il circolo degli Orti Oricellari ai cui esponenti dedicherà i Discorsi.
Ma se Il principe è un esercizio letterario per ingraziarsi i Medici e ottenere un incarico, come spiegare l’impatto che questo libretto e poi le grandi opere teoriche e storiche hanno avuto sul pensiero politico occidentale? Lo stesso Machiavelli ci offre un indizio. Non voglio, scrive nella lettera dedicatoria, venire considerato presuntuoso perché, essendo «di basso ed infimo stato» mi metto a «discorrere e regolare e’ governi de’ principi». Per disegnare le pianure bisogna salire sui rilievi, e per disegnare le montagne guardarle dalla pianura; «similmente, a conoscere bene la natura de’ populi, bisogna essere principe, e a conoscere bene quella de’ principi, bisogna essere populare». È una dichiarazione di appartenenza, e sul bisogno che il principe, in particolare il «principe nuovo», il fondatore di un nuovo Stato, ha del popolo il testo ritornerà più volte.
NICCOLÒ E ANTONIO
Machiavelli, come è noto, dichiara «più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa». Fonda il realismo politico, e questo, secondo molti, significherebbe che la teoria politica deve essere «avalutativa», limitarsi a descrivere oggettivamente la realtà. Eppure Il principe si conclude con un’esortazione ai Medici a impegnarsi per la liberazione dell’Italia dal dominio straniero. Machiavelli adotta toni epici, evoca Ciro e Teseo e i miracoli che accompagnano la liberazione degli Ebrei guidata dal «principe nuovo» Mosè. Gli interpreti hanno discusso a lungo sull’effettivo significato dell’esortazione finale e molti hanno sostenuto che è un’aggiunta estrinseca.
Antonio Gramsci, recluso nel carcere di Turi, non aveva molti strumenti filologici a disposizione e viveva un isolamento assai più drammatico di quello sofferto da Machiavelli. In comune c’era la percezione di una triplice crisi: dell’Italia, di Firenze, personale per Machiavelli. Personale, dell’Italia, del movimento operaio, nel caso di Gramsci. Egli scrive che mentre «la trattazione è condotta con rigore logico, con distacco scientifico», nell’invocazione finale di un principe nuovo che nella realtà storica non esisteva Machiavelli «si fa popolo, si confonde con il popolo».
Machiavelli prende le distanze dalla tradizione giusnaturalistica, per non dire dall’idea di un fondamento divino del potere, e introduce nuove categorie per una situazione nuova. Il suo realismo non è l’esclusione di principi e valori dalla politica; è la capacità creativa di individuare gli spazi di possibilità offerti dalla fortuna nel corso
delle cose governato dalla necessità. Gramsci lo interpreta come una forma di educazione politica dei subalterni, perché chi appartiene ai gruppi dirigenti tradizionali il realismo politico lo acquisisce automaticamente.
Machiavelli critica l’immaginazione astratta degli stati che «non si sono mai visti né conosciuti essere in vero» ma risponde alla crisi con un sovrappiù di innovazione creativa. Inaugura così la politica moderna, la lunga stagione in cui la politica è stata capace di interpretare, indirizzare e governare i processi e i conflitti economici e sociali. Quanto siamo lontani da Machiavelli? È possibile oggi una tale immaginazione o la decadenza della politica è senza alternative, le decisioni vere si prendono altrove, sullo sfondo di una universale corruzione? Gramsci, da parte sua, insisteva sulla necessità dell’intervento politico consapevole per dare forma e indirizzo ai movimenti della società, per definire la volontà collettiva. E, come è noto, affidava questo compito al partito politico, incarnazione moderna del principe machiavelliano, «intellettuale collettivo». Ma qui, davvero, viviamo in un’altra epoca.

Repubblica 10.12.13
Perché la politica è vita (e viceversa)
Machiavelli e la lezione del “Principe” cinque secoli dopo
di Roberto Esposito


L’elemento che forse più colpisce il lettore moderno di Machiavelli è la relazione indissolubile che egli istituisce tra politica e vita. Ad essa si può guardare da entrambi i versanti. Da una parte la vita ha sempre una connotazione in senso lato politica. Non esiste zona della vita umana sottratta alla necessità della politica. Senza di essa né gli individui né i gruppi resisterebbero al turbine di accidenti che ininterrottamente li percuote. Ma la relazione tra vita e politica non si ferma qui – alla protezione che la politica fornisce alla vita. Essa va guardata anche dall’altro lato: se è vero che la politica è necessaria alla vita, la vita è a sua volta la materia stessa della politica.
Quando Machiavelli parla del “vivere libero” o sostiene che «una repubblica ha maggior vita» del principato, bisogna prendere queste espressioni nel loro significato più intensamente letterale: esistono dei regimi politici più di altri ca-paci di restare vivi perché fin dall’inizio commisti con la vita, con i suoi bisogni, i suoi impulsi, i suoi desideri. Tra potere e vita non si dà mai distanza assoluta, scarto radicale. Come non esiste vita priva di una qualche configurazione politica, così non esiste un potere talmente assoluto da rapportarsi alla vita solamente dall’alto e dall’esterno. Per quanto isolato o puntuale, ogni potere affonda le proprie radici in un mondo istintivo e naturale non diverso, nella sua consistenza, da quello animale.
Per fornirne una esemplificazione testuale, si prendano le famose paginedel VII capitolo delPrincipe, dedicato alle vicende di Cesare Borgia. Esso si apre, come diversi altri brani machiavelliani, su una doppia possibilità alternativa – quella tra coloro che acquistano il dominio di un dato territorio per virtù e coloro che lo acquisiscono per fortuna. Machiavelli, come è caratteristico del suo metodo, tende a intrecciare tra loro le due tipologie. Il caso di Cesare Borgia, infatti, per quanto riconducibile all’ambito della fortuna per il ruolo giocato dal padre, il papa Alessandro VI, vede il Valentino mettere in campo una straordinaria virtù politica, naturalmente nel senso laico e spregiudicato che Machiavelli conferiva a questa parola. Cesare fece tutto ciò che dipendeva da lui per fondare e consolidare il proprio potere – un insieme di decisioni politiche, di opzioni strategiche, di azioni energiche quanto delittuose. E tuttavia ciò non gli bastò. Giunto all’apice del successo, egli è colpito, e distrutto, da quella stessa contingenza che ne aveva favorito la crescita impetuosa.
Ma l’elemento che in questo caso appare ancora più nuovo, rispetto a ricostruzioni più classiche, è il fatto chegli eventi che mutano catastroficamente i rapporti di forza a sfavore del Valentino si riferiscano soprattutto alla sfera della vita biologica e del suo rovescio mortale. A far perdere Cesare Borgia, nonostante la sua straordinaria virtù politica, è prima la morte del padre e poi la sua stessa malattia. In tutta la seconda parte del capitolo Machiavelli insiste con la massima intensità su questo scenario “biopolitico”: la «brevità della vita di Alessandro e la malattia» del Valentino occupano interamente la scena, imponendosi su tutti gli altri elementi del quadro.
Ciò che Machiavelli sottolinea è l’intreccio – appunto sfortunato – tra i due accadimenti. Se papa non fosse morto mentre il figlio si ammalava; o se Cesare fosse stato in buona salute alla morte del padre, si sarebbe potuto salvare. Ciò che lo condanna è la simultaneità dei due fatti. L’uno viene a caricare di un peso insostenibile l’altro. La vita – e la morte – dell’uno determina la vita e la morte dell’altro. Mai, prima di Machiavelli, questi termini – vita, morte, salute, malattia – erano penetrati con tanta forza nel lessico della politica. Mai prima di allora la politica era stata saldata con un nodo altrettanto stretto alla biologia. Perciò tutto il lessico di Machiavelli è pervaso da metafore, termini, immagini biologiche e mediche. Non solo il destino degli uomini politici, ma anche quello degli Stati è legato alle vicende, agli umori e alle peripeziedel corpo.
In occasione dell’uscita dell’edizione del cinquecentenario del Principe (Donzelli) si terrà stasera alle ore 18,30 alla Casa delle Letterature (Piazza dell’Orologio) di Roma la “Serata Machiavelli”. Parteciperanno all’evento - condotto da Maria Ida Gaeta e Carmine Donzelli Roberto Esposito (di cui qui anticipiamo parte dell’intervento), Antonio Funiciello, Armando Massarenti e Gabriele Pedullà


l’Unità 10.12.13
Vita di Chiara Lo splendore del supplizio
Dacia Maraini compone un ritratto della santa e dei sacrifici fatti per ritrovare l’innocenza
di Angelo Guglielmi

CHIARA DI ASSISI di Dacia Maraini, pagine 247 euro 17.50 Rizzoli

DACIA MARAINI SCRIVE UN ROMANZO PER RACCONTARCI LA VITA DI CHIARA DI ASSISI CHE SEGUÌ FRANCESCO NELLA SCELTA DI VIVERE POVERAMENTE E ALL’ADDIACCIO. È un romanzo scritto in pochi mesi e consegnato all’editore solo nell’agosto scorso e dunque dobbiamo pensare che sia nato sulla suggestione dell’investitura di Papa Francesco (e delle sue prime rivoluzionarie parole )... Ne ho letti altri due che nascono sullo stesso pretesto (Michele Mari e Andrea Carraro) e devo concludere (ma ho anche altre prove al riguardo) che la forza (di proselitismo intellettuale) di questo Papa è davvero straordinaria.
Dacia Maraini è una scrittrice seria e racconta la vita (meglio, la personalità) di Chiara di Assisi certificandola su una quantità di documenti (saggi e testimonianze d’epoca ) rigorosi e di sicuro affidamento. In realtà gli eventi raccontati sono pochi e quei pochi come dati per conosciuti (mi riferisco alla scelta di Chiara di abbandonare tutti i privilegi che l’appartenenza a una famiglia aristocratica le garantiva e consegnarsi alla povertà più estrema dove incontrare Gesù). Il racconto è per intero raccolto sulla santità di Chiara, le sofferenze che decide di patire vestita di un semplice saio e male (spesso niente) nutrita, dedita alla preghiere e al sostegno e conforto delle altre sorelle (che avevano fatto la sua stessa scelta e meno capaci di sopportare la vita dura intrapresa). Ne viene un ritratto davvero notevole, di nessuna concessione pietistica e marcato da segni stilistici severi. Un ritratto che non chiama il lettore alla commozione e lo convoca allo spettacolo (per evitar equivoci meglio alla visione) di una pratica di vita (assunzione di comportamenti) disumana e insostenibile. Cilici, lacerazioni, ferite imposte al proprio corpo ma non per punirsi (come volgarmente si sostiene) ma per raggiungere lo stato di innocenza. E l’innocenza è una condizione gioiosa, di vita piena. È riconquistare lo stato di natura, già posseduto e ora perduto. E allora e qui comincio a allontanarmi dalla lettura della Maraini mi pare del tutto superfluo e improprio questa sua continua interrogazione sul come Chiara e le sue sorelle riuscissero e sopportare tanto dolore e la penosa (forse impossibile) condizione di vita cui si erano condannate. Qui l’autrice rivela l’incapacità di uscire dalla propria condizione di vivente oggi, eleggendola a paradigma su cui misurare la credibilità (la possibilità di comprendere) tutti gli eventi anche i più antichi che ricorrono nel passato (e magari incombono sul futuro).
È che la Maraini non riesce a trattenere (controllare) la sua soggettività cui pure in altri situazioni del romanzo (o capi d’opera) sa rinunciare come quando a proposito della verginità (che a quei tempi nella cultura medioevale era un tabù forse più inviolabile dell’incesto) sapeva tenere a freno preferendole l’occhio oggettivo (della mente) e scriveva che «la verginità era una garanzia di trasmissione dell’eredità. Che nasce con la proprietà della terra. Il bisogno di controllare la fertilità della propria compagna di vita, il bisogno di garantire anche biologicamente i beni famigliari».
L’irruzione della soggettività, al contrario, sfoca (mette fuori foco) il ritratto di Chiara, scolorando la forte definizione, di marca grottesca, cui ha assolutamente diritto. E che consente al lettore di ricavare la commozione che attende da un’opera d’arte (pittorica o letteraria che sia). La forza di Chiara è recuperare la sua condizione primigenia, sottraendola alla corruzione che la socializzazione inevitabilmente comporta e riconsegnarsi al suo stato originario in cui religione e materialità, spirito e corpo sono una cosa sola (la stessa cosa). E se l’una è alta anche l’altro deve essere alto. E l’altezza del corpo in Chiara è le piaghe che si infligge.
La Maraini replicherà che non faccio altro che ripetere la vecchia solfa della riduzione dell’io cui da sempre io delego la possibilità di fare arte (scrittura) oggi. E mi dirà che per questa strada non è possibile sfornare che prodotti secchi anzi in sostanza già bruciati (e immangiabili). Forse (anzi mi auguro) che abbia ragione ma prima dovrà convincermi (dimostrarmi di sapere) che i sentimenti sono idee e non gli umori (il bagnato) delle idee.
Ma c’è un altro aspetto nella Chiara della Maraini che mi ha davvero incantato. È il linguaggio delle testimonianze che le sorelle di Chiara recitano in occasione del processo di beatificazione. «Disse epsa testimonia che la beata Chiara una volta se fece fare una certa veste de coio de porcho e portava li peli e le setole tondite verso la carne. E questa portava nascostamente socto la tonicha de latso». E ancora: «Et ancho ce aggiunse sora Cecilia che con le mane suoie lavava le sedie de le sore inferme, nella quali alcuna volta erano li vermini». Sono soltanto due delle numerose testimonianze rese dalla sorelle nel corso del processo e tutte evidenziano un linguaggio straordinario di concreta asciuttezza che scolpisce più che descrivere nel senso che traccia i contorni delle parole come fossero cose senza privarle del carico di ispirazione che le fa vibrare. E ci conferma la base materiale della cultura medioevale. Sono disegni e fregi incisi con mani ferme immuni da ogni distrazione e pur possibile indugio. Assomigliano a quei memorabili monconi di affreschi che ci sorprendono in alcune decadute chiese colpite dalla erosione del tempo. E che ci fa dire insieme a Dacia: «Quanta letteratura femminile trascurata, nascosta, obliata! Un giorno, ne sono certa, comporremo un’altra storia delle letteratura in cui gli scritti delle donne, cominciando dalle mistiche, saranno messe accanto ai grandi autori considerati oggi i soli classici degni di lettura».

La Stampa 10.12.13
Cromwell, cinque anni per creare un impero
Nel racconto di Newbury, l’uomo che fondò la potenza britannica e le fornì i pilastri su cui si è retta per tre secoli: Esercito e Marina
Dopo la Restaurazione, nel 1661 fu esumato, condannato a morte e decapitato: la testa è murata in un luogo segreto
di Vittorio Sabadin


Migliaia di libri sono stati scritti su Oliver Cromwell, senza arrivare a una conclusione certa sulla sua complessa personalità. Per molto tempo, nell’Europa monarchica, è stato considerato un apostolo di violenza e autocrazia. Un mostro pronto persino a uccidere un re, Carlo I d’Inghilterra, per assumere poi lo stesso potere arbitrario del monarca appena decapitato. In tempi più recenti, le biografie lo hanno invece santificato come l’angelo della democrazia, della rappresentanza parlamentare e del diritto opposto alla prevaricazione. Entrambe le interpretazioni hanno un fondo di verità.
Nel suo Oliver Cromwell (Editrice Claudiana, pp. 232, € 17,50) lo scrittore inglese Richard Newbury non sta né da una parte né dall’altra. Newbury è uno storico e sa bene quanto sia inutile appiccicare etichette ai grandi personaggi per portarli dalla propria parte. E sa anche che molto spesso la storia è stata fatta da persone che avevano loro malgrado un pesante destino sulle spalle, del quale avrebbero volentieri fatto a meno, se avessero potuto.
Meglio quindi giudicare Cromwell semplicemente valutando come stavano le cose prima e dopo di lui. Nel 1640, ricorda Newbury, l’Inghilterra era così insignificante che a Londra c’erano solo tre ambasciatori stranieri. Nel 1658, dopo cinque anni di pote-
re militare e navale di Cromwell, nella Repubblica britannica ce n’erano 20. La politica estera era brillantemente sostenuta da 200 navi da guerra e da 20 mila marinai, con flotte permanenti nel Mediterraneo e nei Caraibi, una base strategica a Dunkerque e una presenza così minacciosa da non temere confronti.
Fu Cromwell a fondare l’impero britannico e a fornirgli i pilastri su cui si è retto per 300 anni: la Marina e l’Esercito. La sua più utile riforma, che gli ha consentito di annientare le truppe del re e di conservare il potere nei confronti di un parlamento spesso ostile, è stata quella dell’esercito. La New Model Army per la prima volta era composta da soldati professionisti, che potevano operare ovunque e non più solo su base locale. Ma soprattutto Cromwell volle che i soldati fossero sempre informati della ragione per la quale combattevano, fossero ben pagati e guidati da ufficiali che provenivano non più dalle famiglie nobili, ma dai ranghi del popolo. La sua cavalleria, della quale mantenne sempre il comando, era leggera e versatile, pronta a serrare i ranghi per una seconda carica. Prevaleva sempre sulle cavallerie nemiche, ancora appesantite da bardature, scudi e armature, e in grado di sparare, come rileva Newbury, un solo micidiale proiettile al giorno, una carica massiccia e indisciplinata dopo la quale se ne tornavano tutti all’accampamento.
La paga ai soldati avrebbe inoltre dovuto evitare saccheggi e inutili massacri, come avvenne dovunque meno che nell’Irlanda cattolica, dove di Cromwell si ricordano ancora adesso. Finché furono pagati, i soldati garantirono al loro comandante lo strumento che gli consentì di creare il Commonwealth con Scozia e Irlanda, sconfiggere i realisti nelle guerre civili e varare le riforme che fecero della Gran Bretagna un moderno Stato parlamentare e una potenza globale.
Cromwell, protestante puritano, si riteneva ispirato da Dio ed era convinto che ogni azione dell’uomo avesse un’origine divina. Lo pensava davvero, e se le citazioni bibliche con le quali infarciva ogni suo discorso oggi ci sembrano un po’ plateali e retoriche, bisogna comunque leggerle con attenzione per capire le ragioni dei suoi comportamenti. Gli errori e i delitti che commise furono animati da sincero patriottismo, larghezza di vedute e profondità di motivi religiosi. Al punto da correre in soccorso anche dei Valdesi perseguitati dai Savoia, come Newbury, che vive tra Cambridge e Torre Pellice, non poteva non rimarcare.
Nonostante le feroci repressioni contro i cattolici dovute solo al loro peso politico e all’appoggio al principale nemico, la Spagna Cromwell incoraggiò la tolleranza tra le confessioni, invitò gli ebrei a tornare, abolì la Camera dei Lord, favorì le arti e le scienze, e soppresse i vescovi anglicani, perché di loro non c’è traccia nella Bibbia. Quanto peso abbia avuto la sua figura nel mondo moderno lo si è potuto apprezzare dopo la sua morte, quando la Gran Bretagna si diede un nuovo ordinamento costituzionale e confessionale che Newbury esemplifica con la consueta ironia: «Il monarca divenne un presidente non esecutivo, il primo ministro un amministratore delegato, il gabinetto un consiglio di amministrazione, i parlamentari agenti di borsa e gli elettori, sempre più numerosi, gli azionisti».
Nel 1661, dopo la Restaurazione, il suo corpo venne esumato, condannato a morte e decapitato. La testa passò nei secoli di mano in mano, fino a quando nel 1960 venne donata al Sidney Sussex College di Cambridge, dove Cromwell aveva studiato. A conferma di quanto controverso sia ancora il giudizio sulla sua opera, la testa è stata murata nella Cappella: solo il Master del college sa in quale punto esatto, e lo tramanda, nel segreto più assoluto, al suo successore.
 
Corriere 10.12.13
Galileo «giullare» umanista L’altra faccia di una vittima
Brillante cortigiano dei Medici, amava filosofia e poesia
di Paolo Mieli


È assai riduttivo dipingerlo come un eroe o l’eroe della rivoluzione scientifica. Galileo Galilei, scrive John L. Heilbron in Galileo. Scienziato e umanista , che Einaudi pubblica in un’edizione magnificamente curata da Stefano Gattei, non fu semplicemente un matematico. O meglio non lo fu «più (o meno!) di quanto non fosse un musicista (come suo padre e suo fratello, Michelangelo, ndr ), un artista, uno scrittore, un filosofo o una persona che si dilettava a costruire arnesi». Alla filosofia, volle precisare lui stesso, dedicò più anni dei mesi in cui si era impegnato con la matematica. Nel suo studio della Luna, del Sole e dei pianeti negli anni 1609-10, «quando era l’unico uomo sulla Terra a scrutare minuziosamente il volto della Luna e i satelliti di Giove», si giovò del poter fare ricorso «alle proprie capacità di osservatore e di disegnatore, alla propria abilità manuale di artigiano e alla propria conoscenza della prospettiva e dell’ombreggiatura, assai più che alle proprie capacità come matematico». I suoi libri devono tutto ad «anni passati a leggere i poeti e a sperimentare varie forme letterarie che gli permisero di scrivere in modo chiaro e plausibile delle cose più implausibili».
Avrebbe potuto essere «un uomo di lettere, il segretario confidenziale di un duca o di un cardinale, e perfino di un granduca o di un Papa». Suo padre lo aveva avviato alla medicina, disciplina alla quale non si sentiva portato; scelse la matematica unicamente per sottrarsi ai progetti paterni. Spesso «metteva da parte le buone maniere», in particolare quando entrava in una disputa con qualcuno che non era d’accordo con lui. Questa «debolezza», insieme «ad un originale senso dell’umorismo e al piacere adolescenziale, che non perse mai, di battere le persone, gli procurò nemici potenti persino tra quanti rispettavano le sue doti».
Questo per dire, sostiene Heilbron, che «Galileo non somigliava molto al tormentato inventore della scienza moderna descritto dalle storie abituali». I suoi conoscenti mai «si sarebbero aspettati che divenisse il nemico giurato di Aristotele, il paladino di Copernico, l’alfiere della matematica, la bestia nera dei gesuiti, o il più famoso di tutti i martiri della libertà accademica»: Galileo «non sarebbe diventato alcuna di queste cose se non avesse dovuto lavorare per vivere». I biografi di Galileo sono accusati da Heilbron di avere ceduto alla tentazione «di spingere troppo presto il loro gladiatore in un’arena immaginaria piena di filosofi testardi e di preti che sputano fuoco». È sì vero che egli «ha passato del tempo a discutere con persone del genere, soffrendone le conseguenze», ma «il Galileo gladiatore e martire della scienza iniziò come Galileo l’umanista patrizio». Ed è a descrivere questo secondo personaggio che si impegna Heilbron. A colui che, «armatosi del telescopio, disse apertamente tutto quello che conosceva e anche di più»; all’uomo che, sorprendendo i suoi colleghi e senza tener conto dei loro consigli, attaccò filosofi, teologi e matematici, derise i gesuiti e duellò con chiunque contestasse la sua supremazia o le sue opinioni. Divenendo «un cavaliere errante, donchisciottesco e senza paura», come uno dei paladini del suo poema preferito, l’Orlando furioso di Ariosto. Questo suo comportamento, «che gli conquistò una sempre più numerosa schiera di nemici, rese comprensibile e perfino inevitabile il suo disastroso scontro con un Papa (Urbano VIII, al secolo Maffeo Barberini) che per moltissimi anni era stato suo amico e ammiratore».
Il nostro scienziato, ricostruisce Heilbron, nacque lo stesso giorno, quasi alla stessa ora, della morte di Michelangelo, il 9 febbraio 1564 (ma la madre ne ritardò la dichiarazione di nascita al 16 dello stesso mese); poi visse 78 anni, «molti dei quali nell’occhio di un ciclone». Gli ultimi, dal 1610 in poi, in preda a «una forma avanzata di malinconia». Da giovane il suo libro preferito fu, come s’è detto, l’Orlando furioso ; si fece beffe, invece, della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso (1581) che, data alle stampe dieci anni dopo la battaglia di Lepanto (1571), era divenuta uno dei componimenti preferiti dai gesuiti e il «poema ufficiale» della Controriforma. Per Galileo, Tasso era «gretto, povero e miserabile» tanto quanto Ariosto era «magnifico, ricco e mirabile». Ironizzava sul verso della Gerusalemme in cui, riferendosi al viso di Rinaldo, Tasso scriveva «fan biancheggiando i bei sudor più vivo»: «Non ho mai visto biancheggiare i sudori, se non intorno a i testicoli dei cavalli», fu la sferzante chiosa galileiana. Heilbron, grande estimatore per parte sua della Gerusalemme liberata , prende le distanze da questi giudizi di Galileo, imputandoli a «conservatorismo» e a «insensibilità alla profondità psicologica del Tasso».
Maestro di Galileo a Pisa fu Girolamo Borro, autore di Del flusso e reflusso del mare , elogiato da Michel de Montaigne, un testo molto irriverente nei confronti del potere ecclesiastico. Quando la Chiesa gli ordinò di inserire un paradiso cristiano nel suo firmamento, Borro rispose: «Ho sostenuto e dimostrato che non esiste nulla al di là della sfera (le stelle); mi è stato detto di ritrattare; vi assicuro che se c’è qualcosa, può essere solo un piatto di tagliatelle per l’inquisitore». Dopodiché fu immediatamente mandato in prigione.
Altro maestro pisano di Galileo fu il professore di filosofia Francesco Buonamici. Anche lui anticlericale, introdusse i «frati» nella classificazione aristotelica della vita senziente, come anello di congiunzione tra l’uomo e le bestie. In nessuno di questi esseri Buonamici ammetteva la presenza di un’anima immortale. Una volta gli chiesero se conosceva l’opera di san Tommaso e lui rispose che non leggeva «libri di frati». Era però protetto dal granduca di Firenze Cosimo I e questo valse ad evitargli guai seri. Nemico della Chiesa era anche Gianfrancesco Sagredo, il più caro amico di Galileo nel periodo successivo alla formazione, quello in cui soggiornò a Venezia. Quel Sagredo di cui è rimasta una lunga corrispondenza con un gesuita, nel corso della quale, a stuzzicare l’interlocutore, aveva finto di essere una vedova colta da dubbi teologici e con una gran quantità di denaro a disposizione.
Galileo stesso era un buontempone: «Si sbellicava dalle risate davanti all’umorismo di bassa lega di Ruzzante nonché al rude ed espressivo dialetto dei suoi personaggi». Teneva allegri i propri amici fiorentini con le sue letture in «lingua padovana». Uno dei modi con cui Galileo si guadagnava da vivere (probabilmente il più redditizio) era quello di fare oroscopi. Li faceva anche Keplero, che previde la morte del comandante boemo Albrecht von Wallenstein (1634), al servizio dell’imperatore Ferdinando II nella guerra dei Trent’anni. Ma quest’«arte» per Galileo era anche (se non soprattutto) un diletto: «Il fatto che si dedicasse a questa attività anche quando non era pagato per farlo», scrive l’autore, «suggerisce che egli vi attribuisse un qualche valore».
Fu Cristina, granduchessa di Toscana, che invitò Galileo alla villa Medici sulle colline di Pratolino, dove, qualche tempo dopo, sarebbe divenuto maestro privato di Cosimo. E fu sotto la protezione di quella famiglia che, lasciata la Repubblica di Venezia, nel 1609 alzò il telescopio verso il cielo dove scoprì i segreti della Luna e intuì che la Via Lattea non era «il prodotto di una complessa esalazione terrestre» (come si riteneva fino ad allora), bensì un complesso di stelle fino al momento non identificate come tali. A Firenze Galileo intraprese la sua nuova carriera da «cortigiano». Da professore di basso livello «era arrivato a diventare un giullare di alta classe, da cui ci si aspettava che mitigasse la monotona e formale routine di corte sfornando di tanto in tanto qualche meraviglia». Ad esempio con alcune «gare» che andavano di gran moda.
Cosimo spinse un professore di filosofia pisano, Flaminio Papazzoni, a rappresentare la posizione opposta a quella di Galileo in un dibattito che si sarebbe tenuto alla presenza della famiglia del granduca. Di norma questo tipo di spettacoli andava in scena dopo pranzo («un surrogato della televisione») e Galileo, quando gli veniva chiesto di farlo, era obbligato da contratto a parteciparvi. Fece dunque «la propria parte di giullare» (ma «molto potente»), rispondendo alle domande che gli venivano rivolte e difendendosi nel modo più arguto possibile. E anche se, in quanto momenti ricreativi, «le dispute postprandiali non richiedevano una dichiarazione di vittoria o un’ammissione di sconfitta», nel caso in questione, Galileo vinse con facilità. Non perché Papazzoni fosse incompetente, ma perché, dovendo la propria cattedra a una raccomandazione di Galileo stesso, non aveva alcun interesse a impegnarsi più di tanto.
A volte Galileo doveva confrontarsi con più sapienti in una stessa serata. Il metodo di Galileo era quello di parlare e parlare, in continuazione e in modo brillante, affrontando contemporaneamente tutti coloro che si presentavano a lui, come un campione di scacchi che gioca simultaneamente contro una dozzina di avversari. La sua specialità era far proprie le posizioni dell’interlocutore, per poi umiliarlo all’improvviso. Giocava con «le sue vittime raffinando le loro argomentazioni fino a dare l’impressione di renderle invincibili, per poi annichilirle». Lo spettacolo era garantito da questo colpo di scena finale.
La corte, in cambio di queste prestazioni, gli avrebbe coperto le spalle per ogni sua attività speculativa. Tant’è che a Firenze Galileo, forte di questa protezione, provò (e riuscì) ad avere un rapporto proficuo con matematici e filosofi della Compagnia di Gesù. E quando diede alle stampe il Sidereus Nuncius , i Medici sollecitarono poemi di encomio da premettere alla successiva edizione in italiano (che non vide mai la luce). Ne rimane ancora una raccolta: quaranta esametri, dieci odi saffiche, due epigrammi e quattro distici, tutti scritti da gesuiti. I quali, secondo Heilbron, «avrebbero dovuto fare a Galileo il medesimo servizio che fanno oggi i giornali nei confronti degli scienziati, cioè promuovere e celebrare le scoperte prima che gli esperti si pronuncino su di esse».
La vicenda galileiana ebbe una svolta il 24 febbraio del 1616, quando undici teologi, selezionati dal Sant’Uffizio per valutare la teoria di Copernico sul «Sole centro del mondo e del tutto privo di moto locale», la giudicarono «formalmente eretica», perché in contrasto con le Sacre Scritture. Cosa che creò grande imbarazzo dal momento che il De revolutionibus di Copernico era stato pubblicato settant’anni prima, non era mai stato censurato e molti scienziati si erano rifatti a quel testo per dare basi alle loro teorie. Compreso Galileo. Il Papa ordinò al cardinal Bellarmino di ammonire Galileo ad abbandonare le opinioni «copernicane». E Galileo, che all’epoca aveva già pubblicato il Sidereus Nuncius , Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua , obbedì come se si trattasse di una formalità.
I guai più seri per lui sarebbero venuti da due nuovi libri: Il Saggiatore e il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo . Il nuovo Papa, Urbano VIII, salito al soglio nel 1623, amava dissipare ricchezze ma soprattutto comporre versi. E in questo campo non voleva rivali. Fece addirittura mettere all’Indice l’Adone di Giambattista Marino, per disfarsi di un poeta che avrebbe potuto dargli ombra. Di Galileo apprezzava poco che fosse stato amico dell’autore della Istoria del Concilio Tridentino , di forte impronta antiromana, Paolo Sarpi (scomparso nel gennaio di quello stesso 1623). Ma apprezzò le frecciate ai gesuiti contenute nel Saggiatore , che si era affrettato a leggere. Il Papa trattò Galileo alla stregua di un pari grado. Gli concesse sei udienze private, due medaglie, la promessa di una pensione per il figlio e l’imprimatur per il Dialogo , a patto che presentasse le teorie copernicane come ipotesi. E perché tutti capissero che aria tirava sulla «questione Copernico», alla fine del 1624 il Papa fece dare alle fiamme, in Campo de’ Fiori, l’arcivescovo Antonio De Dominis (o meglio il suo corpo: era morto da tre mesi, dopo essere stato imprigionato a Castel Sant’Angelo) assieme ai suoi libri.
E venne l’epoca dei supposti complotti. Urbano VIII vedeva nemici ovunque e si era fatto di giorno in giorno più sospettoso. Per dare un’idea del clima dell’epoca, Giovanni Ciampoli, che era stato suo segretario, quando nel 1632 fu costretto a lasciare l’incarico, diede questi «consigli» al suo successore: «Cerca la protezione tra funzionari e ciambellani perché sono loro e non i cardinali ad avere il potere; ma non mirare troppo in alto». «Non fidarti di nessuno, non credere a nessuno; non incontrarti con altri uomini della corte nelle tue stanze, se non vuoi che qualcuno sparga la notizia di un complotto». «Evita l’ostentazione; non parlare del principe o di uno scandalo a corte; non parlare in modo saggio; cerca anzi di non parlare affatto». «Non criticare mai i preti e i monaci in pubblico; non mostrare alcuna preferenza per un qualsiasi particolare ordine; dai l’impressione di essere religioso, devoto e zelante, perché gli ipocriti hanno sempre successo». «Vieni spiato? Onora la spia; la simulazione è l’anima della corte». «Vuoi distruggere un rivale? Rendi pubblico il suo amore per le donne e per il denaro». «Evita di sembrare intelligente, e ricorda che la pazienza, per un uomo di corte, è ciò che la castità, la povertà e l’obbedienza sono per un monaco». «Se fai tutto questo potresti avere successo… prima di cadere». Suggerimenti che ben descrivono il contesto in cui Galileo si trovò a giocare la sua ultima partita.
Contesto che, però, poteva anche offrire delle opportunità. Il pontefice nel 1626 fece liberare Tommaso Campanella (imprigionato per eresia nel 1599) dopo che questi aveva lodato i suoi versi. E lo promosse consigliere astrologico nel momento in cui Campanella smentì la profezia secondo cui Papa Barberini sarebbe morto nel 1628 o nel 1630. Nel contempo Urbano VIII fece arrestare un grande amico di Galileo, Orazio Morandi, direttore del convento vallombrosano di Santa Prassede, perché si era prestato a calcolare quale probabilità, secondo gli astri, aveva questo o quel cardinale di succedergli. Morandi morì in prigione.
Nel 1631 il capo della Chiesa promulgò una bolla, Inscrutabilis , contro la divinazione, in particolare contro la previsione della morte dei papi o dei membri delle loro famiglie. E Urbano VIII che non solo non era morto nelle date previste dagli astrologi, ma aveva visto, nel 1632, cadere sul campo di battaglia il campione dei protestanti Gustavo Adolfo (era in corso la guerra dei Trent’anni) ed era stato ringraziato pubblicamente dalla sua cittadinanza per aver tenuto la peste lontano da Roma (1633), colse quel momento di forza per disfarsi di persone che avevano alzato troppo la testa. Fino ad infastidirlo. Il primo, come si è detto, fu Ciampoli. Il secondo, Galileo.
Questi fu convocato a Roma dall’Inquisizione. Recalcitrò. Ma poi fu costretto al viaggio dell’umiliazione. A Roma fu ospite dell’ambasciatore di Firenze, Francesco Niccolini. A questo punto il libro di Heilbron dedica alcune pagine molto interessanti a smontare l’accusa tradizionale secondo cui le disgrazie di Galileo sono da ricondurre all’ordine dei gesuiti. Galileo accettò la ritrattazione chiesta da Bellarmino: «Ho ceduto a quella natural compiacenza», disse, «che ciascheduno ha delle proprie sottigliezze e del mostrarsi più arguto del comune de gli huomini in trovare, anco per le propositioni false, ingegnosi et apparenti discorsi di probabilità». In ginocchio davanti all’Inquisizione, Galileo giurò di non dire o scrivere nulla sulla Terra in movimento o sul Sole fisso, a pena di essere nuovamente sospettato di eresia. Anche se non pronunciò mai, riferendosi alla Terra, la frase che, per riscattarlo, gli è stata attribuita per secoli: «Eppur si muove!».
Da quel momento Galileo invecchiò rapidamente tra amarezze e malanni. Il poeta inglese John Milton, che gli fece visita nel 1638, lo trovò piegato dalle sofferenze. L’inquisitore Giovanni Muzzarelli, che doveva accertare se davvero fosse malato, scoprì che dal 1637, a causa di un glaucoma, era diventato totalmente cieco. In seguito furono un lancinante dolore artritico, una strana febbre, il delirio. Morì l’8 gennaio del 1642. Urbano VIII scoraggiò il granduca Ferdinando dal proposito di erigergli un monumento, anzi gli negò il diritto di sepoltura a Firenze, così come aveva fatto per Paolo Sarpi a Venezia. Poi fu il silenzio. O quasi.
La vicenda di Galileo Galilei ebbe un svolta duecento anni (circa) dopo la sua condanna. All’inizio dell’Ottocento, in epoca postnapoleonica, un professore di matematica dell’Università di Roma, Giuseppe Settele, scrisse un libro di astronomia eliocentrico e lo inviò alla censura pontificia perché ne autorizzasse la pubblicazione. Il maestro del Sacro Palazzo, Filippo Anfossi, lo definì eretico e rifiutò di autorizzarne la divulgazione. Settele fece appello al Papa, Pio VII (Luigi Barnaba Chiaramonti), che girò il caso alla Congregazione dell’Indice e al Sant’Uffizio i quali, a sorpresa, decretarono che gli inquisitori di due secoli prima, quando avevano definito la teoria copernicana «contraria alle Scritture», non intendevano «contraria alla fede», bensì «opposta alla lettura tradizionale delle Scritture». Fu così che i testi copernicani, compresi quelli di Galileo, uscirono alla chetichella dall’Indice dei libri proibiti. A ridosso del 1815, in un’epoca — e la circostanza colpisce — di piena Restaurazione.
A dire il vero, qualcosa aveva cominciato a muoversi già nel Seicento. Heilbron suddivide in quattro fasi l’evoluzione che portò dalla condanna di Galileo al riscatto di Settele. La prima ha il suo «punto di non ritorno» nel 1651, allorché il gesuita Giovambattista Riccioli pubblicò l’Almagestum novum, in cui erano esposte 126 argomentazioni filosofiche, matematiche e teologiche pro e contro il copernicanesimo (49 a favore, 77 contrarie). Riccioli riprodusse i termini della discussione a vantaggio quantitativo dei nemici di Copernico, ma consentendo al lettore di farsi un’idea appropriata ed esauriente dei termini della disputa. Scrisse poi che lui respingeva le teorie copernicane «per obbedienza verso Roma» e non «perché la fede cattolica lo obbligasse a farlo». In altre parole, fu autorizzato a dire «che il Sant’Uffizio da solo non aveva l’autorità di dichiarare alcunché un’eresia o un articolo di fede». Solo il Papa (o il Concilio, con l’approvazione del Papa stesso) poteva «vincolare in questo modo la Chiesa».
«Non è una questione di fede che il Sole si muova e che la Terra rimanga ferma in forza del decreto della congregazione», scriveva; «al massimo, lo è in forza delle Sacre Scritture, per coloro per i quali è moralmente evidente che questo è quanto Dio ha rivelato». Dopodiché definiva Galileo «un matematico di immense capacità e incredibilmente abile in astronomia», che «sarebbe stato ancor più grande se avesse avanzato l’opinione di Copernico come una semplice ipotesi». Quel che gli aveva chiesto Urbano VIII.
Nella seconda fase, tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento, racconta Heilbron, gli astronomi cattolici «si guadagnarono il diritto di insegnare e perfino di sviluppare la teoria copernicana, se vi si riferivano esplicitamente e ripetutamente come ad un’ipotesi». Nel 1685 il Sant’Uffizio accolse la richiesta di scrivere «ipotesi erronea» sul frontespizio di un libro sul sistema copernicano. Al testo andava poi aggiunta la frase: «Dato che la Chiesa ha dichiarato che le Sacre Scritture insegnano espressamente il contrario, questo sistema non può essere difeso in alcun modo». Ma la novità era che di fatto si autorizzavano — pur con le cautele di cui si è detto — la pubblicazione e la diffusione del libro. Nello stesso modo in cui, osserva Heilbron, «le società moderne consentono la vendita di sigarette con l’indicazione che sono dannose». Fu così che gli inquisitori di Clemente XI chiusero un occhio, nel 1710, in occasione della pubblicazione «clandestina» del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo , ad opera di uno stampatore napoletano di libri proibiti.
La terza fase della riabilitazione sottotraccia di Copernico e Galileo andò dal 1710 al 1760. Un caso anticipatore di quello di Settele si ebbe già nel 1744, quando Giuseppe Toaldo pubblicò un’edizione, opportunamente emendata, delle Opere di Galileo. Anche qui fu un pontefice, Benedetto XIV, a vincere le resistenze all’interno della Chiesa. Benedetto XIV, però, non autorizzò l’uscita del Dialogo dall’Indice. Successivamente la Chiesa attribuì ai seguaci della Compagnia di Gesù — fu soprattutto il padre barnabita Paolo Frisi — l’intera colpa dell’accaduto a danno di Galileo. Il che fu reso più agevole dalla circostanza che, nel 1773, Papa Clemente XIV aveva soppresso l’ordine dei gesuiti stesso.
La quarta fase fu quella che precedette (e rese possibile) la vicenda Settele. Dopo la vittoria di Settele, però, si dovettero attendere alcuni decenni prima del passo successivo. Che fu ad opera di Leone XIII, il quale, con l’enciclica Providentissimus Deus (1893), pur senza nominare Galileo, stabilì, in un contesto di difesa delle Sacre Scritture, che Dio non aveva inteso insegnare la fisica per tramite di Mosè. Ne discendeva che Galileo non si era macchiato di nessuna colpa. Poi, nel 1942, fu la volta di Pio XII, che il nome di Galileo lo pronunciò. E addirittura affidò a monsignor Pio Paschini il compito di scriverne una biografia di sostanziale riabilitazione. Ma i gesuiti (ricostituiti in ordine dal 1814) si opposero alla pubblicazione e il manoscritto, in due volumi, sparì. Per ricomparire dopo il Concilio Vaticano II, per intercessione di Paolo VI, in linea con un suggerimento che era stato già di Giovanni XXIII. Nel corso del Concilio il nome dello scienziato era riapparso, il 30 aprile 1964, nella consulta di preparazione allo schema 13 su La chiesa e il mondo d’oggi , la volta che il cardinale belga Leo Josef Suenens prese posizione sul problema della regolazione delle nascite dicendo: «Seguiamo il progresso della scienza! Vi scongiuro, fratelli miei, evitiamo un nuovo “processo Galilei”. Ne basta uno solo per la Chiesa!».
Giovanni Paolo II nel 1979 fece il resto, con la celebre allocuzione in cui esaltò la figura di Galileo e riconobbe apertamente che lo scienziato aveva dovuto «soffrire moltissimo nelle mani degli uomini e degli organismi della Chiesa». Dopodiché il Papa polacco istituì una commissione che riesaminasse il caso e nel maggio del 1983 rese omaggio al grande scienziato, organizzando un congresso internazionale in Vaticano. Ma i lavori della commissione andarono poi a rilento («tra letargo e apatia», scrive Heilbron), finché il pontefice fu costretto ad intervenire sul presidente del Pontificio consiglio per la cultura, il cardinale Paul Poupard, il quale finalmente (nel 1992) rese noti i risultati. Risultati assai ambigui. Essi tenevano conto delle osservazioni del gesuita Walter Brandmüller: Galileo, secondo la Commissione, «aveva proceduto correttamente lungo la difficile strada dell’esegesi delle Scritture; i cardinali avevano negoziato con pari abilità l’altrettanto difficile strada dell’epistemologia».
Una formulazione che tendeva a dar ragione sia a Galileo sia a coloro che lo avevano condannato e che Heilbron definisce, in alcuni passaggi, «perfino comica». Ma il recupero di Galileo era ormai in prossimità del traguardo fissato da Giovanni Paolo II: quello della definitiva riammissione dello scienziato nel recinto della comunità cristiana. In seguito è perfino accaduto che «reliquie» di Galileo siano state esposte in chiese, a suo tempo da lui frequentate, di Venezia, Padova, Firenze e Roma. Si potrebbe pensare che sia iniziato un processo di beatificazione. Qualcuno potrebbe obiettare che Galileo non fece miracoli. Ma — ribatte Heilbron — neanche Tommaso d’Aquino ne aveva fatti.
In sostanza, scrive Heilbron, «Galileo fece un miracolo stupendo: distrusse l’antica distinzione tra regni terrestre e celeste, sollevò la Terra in cielo, rese i pianeti tante Terre e rivelò che la nostra Luna non è unica nell’universo… Secondo la meccanica di Galileo, la più piccola forza può muovere il più grande peso, in un tempo sufficiente; la direzione del moto è chiara: chi può dubitare che entro i prossimi quattrocento anni la Chiesa riconoscerà i doni divini di Galileo, riparerà alle sue sofferenze, ignorerà la sua arroganza e lo farà santo?». Conclusione paradossale. Ma fino a un certo punto.

Corriere 10.12.13
Berlino 1989, i documenti segreti, C’era l’ordine di sparare sulla folla
I sette giorni che cambiarono la Germania negli archivi della Stasi
di Luigi Offeddu


I documenti segreti, provenienti dagli archivi della Stasi, la polizia segreta della Germania Est, che accompagnarono la caduta del Muro di Berlino, 24 anni fa, mentre l’Europa dei blocchi cambiava volto. Il Corriere ha avuto accesso ai telegrammi che, in quei giorni concitati del 1989, si scambiarono militari e organi della sicurezza. Risulta che c’era l’ordine di sparare sulla folla e la possibilità di una guerra europea, forse mondiale, non era un’ipotesi campata per aria

BERLINO — Più di quanto abbiamo mai pensato, molto più di quanto abbiamo mai temuto, il dottor Stranamore stava a cavalcioni del Muro di Berlino, 24 anni fa. E ci spingeva verso una guerra europea, forse mondiale. Telegramma cifrato numero 091189, diramato il 9 novembre 1989, a poche ore dall’apertura del Muro, dal vertice del ministero della difesa della Germania Est, l’«Esercito del popolo»: «Dall’8 novembre pende sull’Esercito nazionale del popolo una spada di Damocle, a causa del presunto ordine di intervento contro i dimostranti di Lipsia che avrebbe comportato l’azione armata. La conseguenza di ciò sarebbe stata la guerra in Europa. Si chiede ora che venga reso pubblico il contenuto di quest’ordine: ma la risposta è negativa».
A Lipsia sfilavano tutte le settimane centinaia di migliaia di persone. Da chi veniva quel «presunto ordine» di «intervento armato» che qualcuno ora voleva far filtrare? E di quali armi si parlava? E chi voleva ancora conservare il silenzio? L’esercito era spaccato in due, i servizi segreti pure. Il partito unico non esisteva più. E tre milioni di uomini e donne, in quelle stesse ore, varcavano o stavano per varcare il Muro piangendo di gioia. Gorbaciov aveva avvertito i compagni di Pankow: l’Armata Rossa non permetterà che spariate su questa gente. Eppure le voci sulla strage minacciata, sulla guerra sfiorata nel continente, circolavano ancora. Anzi sono ancora lì, a Berlino, verbalizzate e protocollate negli archivi della Stasi o Staatssichereit, il servizio segreto dell’ex Germania Est. Nel palazzo a otto piani della Bstu («Commissione federale per le documentazioni dei servizi di sicurezza dell’ex Germania») si possono esaminare quei documenti con un’autorizzazione speciale, sotto strette misure di sicurezza, e con la presenza costante di un addetto nella stessa stanza. Sui nomi e cognomi che rivivono in quei fogli, c’è ancora il divieto di pubblicazione per esteso quando non riguardino una persona con una carica ufficiale e già pubblica: perché il divieto cada, dovranno essere passati almeno 50 anni dagli eventi (il Corriere ha scelto perciò di «schermare» quegli stessi nomi, anche se ne possiede in ogni caso la versione esatta).
L’uomo che il 9 novembre 1989 rievoca la «spada di Damocle» e l’ombra di Stranamore è il tenente colonnello P., commissario capo della segreteria politica delle forze armate. Ma altri diranno anche di più. Messaggio segreto numero 008985, alla vigilia della manifestazione che il 4 novembre riunirà a Berlino un milione di persone. Parla, anzi scrive, il generale Erich Mielke, allora capo della Stasi: «Dovranno essere usati mezzi speciali per proteggere l’ordine, e altri ancora se verranno minacciate persone, oggetti e altro». Anche se il comandante delle truppe di confine lo smentisce poco dopo: «L’uso delle armi è fondamentalmente vietato». I «mezzi speciali», lo si era già visto nell’insurrezione di Berlino Est del 17 giugno 1953, erano nel gergo sovietico carri armati, aviazione, artiglieria. E forse anche altro. Proprio in quei giorni dell’autunno 1989 circola ripetutamente, nei telegrammi cifrati della Stasi, l’accenno a un misterioso «protocollo N.3/82 Vvs-0008», risalente al 22 dicembre 1982. Dietro il codice, un titolo da brivido: «Disciplina dell’utilizzo delle armi radiologiche o atomiche, di veleni, esplosivi vari e materiale radioattivo». È un caso, se se ne parla tanto proprio mentre i cortei marciano verso il Muro? Ed è casuale se ancora il 10 novembre, a Muro caduto, il generale Peter Koch della Stasi ringhia nell’ennesimo messaggio segreto: «Gli attacchi contro l’ordine dello Stato si possono ripagare solo con la nostra moneta: quindi alcuni mezzi o misure che sono ancora in nostro possesso devono restare segreti».
Eppure, alla fine, nessuno sparò. Perché? Per quattro motivi, forse. Perché c’era Gorbaciov. Perché tutta la protesta partì dalle chiese, con lo slogan «niente violenza» (anche se questo non avrebbe certo frenato un Mielke). Perché resisteva una qualche forma di senso morale: alcuni disertarono con le armi, altri scrissero «non sparerò sul mio popolo» finendo poi in cella; 4 capi della Stasi si suicidarono. E poi, c’è la ragione che un informatore della Stasi (rapporto MfS-HA1, telegramma cifrato 13335) rubò alle labbra di un ufficiale delle truppe di confine: «Se ci avessero chiesto di intervenire all’interno del Paese, una parte dei soldati con le armi in mano sarebbe passata dall’altro lato, e i comandanti non avrebbero ubbidito».
La Stasi, però, fu anche il grande occhio che per primo vide e denunciò (anche perché ne condivideva gli agi) la corruzione del regime. «Privilegi senza vergogna», stigmatizzava già da settimane, chiedendo «l’apertura delle spiagge riservate, la riduzione delle pensioni privilegiate, la chiusura (messaggio cifrato del 6 novembre, ndr ) degli odiosi negozi per funzionari di partito, l’abolizione dell’uso di mezzi militari per scopi privati, dei weekend in Spagna, di tutto ciò che ci ha fatto perdere la fiducia del popolo». A Francoforte sull’Oder, 2,2 tonnellate di ambitissima marmellata erano divenuti pasto per i maiali a causa di una pianificazione sballata: «E davvero abbiamo pagato le vacanze in Australia del compagno C., capo-distretto del Partito?». In due parole, una Tangentopoli con falce e martello, non molto diversa dalle nostre: per la quale «c’è da attendersi il collasso politico e sociale della Germania Est», scriveva la Stasi due giorni prima del tonfo.
Ma l’ultimo allarme, se possibile, ebbe anche qualcosa di grottesco. Rapporto cifrato Stasi numero 1707/89, ore 12,10 del 7 novembre, a 48 ore dal crollo del Muro e in zona vicina al confine: «Il pensionato M.S., 55 anni, denuncia che tre sconosciuti hanno sparato alle anatre, ma hanno sbagliato mira: hanno ammazzato una pecora, e ne hanno ferita un’altra. Portata la pecora morta in un nostro laboratorio, nel corpo è stato reperito un proiettile calibro 8. E nei pressi, alcuni bossoli con impresse delle lettere cirilliche». Conclusione del verbale: avevano sparato soldati sovietici, che però non erano di guarnigione in quella stessa zona dove si attendevano presto altre manifestazioni di popolo; fu ordinata un’inchiesta perché si temeva una «provocazione».
Poi, fu la fine di tutto, in poche ore. Anche questa certificata dai dispacci segreti della Stasi. Il 13 novembre, giunse l’ordine di ritirare i cani lupo che per 28 anni avevano fatto la guardia al Muro: 250, «molto ben educati», trovarono dei compratori; ma altri, che forse non avevano capito i tempi nuovi e ancora pensavano di servire il loro popolo a morsi e ringhiate, finirono al macello, senza neppure un grazie.

Repubblica 10.12.13
La fine dell’economia
Così siamo entrati nell’era della crescita zero
di Maurizio Ricci


Sboom! E la crescita non c’è più. No, non perché c’è la recessione. Ma perché la crescita è finita: il lungo boom che ha accompagnato due secoli e mezzo di rivoluzione industriale si è esaurito e si torna allo sviluppo zero o poco più della storia precedente. O, magari, va un po’ meglio, ma neanche troppo e bisogna accontentarsi di una “stagnazione secolare”: o quella o le bolle, come l’ultima dei subprime. In un caso o nell’altro, a far venire i brividi è che l’allarme non arriva dalla stanca Europa, sull’orlo della deflazione, o dal vecchio Giappone che, in quella spirale è caduto da vent’anni, ma dal paese che, da sempre, si autodefinisce “la terra delle opportunità illimitate”, animata dalla fede incrollabile in una robusta crescita economica che continuerà per sempre. Gli americani, a quanto pare, cominciano a dubitare anche di loro stessi. E non aiuta che, alla stessa conclusione di un destino di ristagno, almeno per i paesi avanzati, arrivino, con percorsi diversi, economisti che partono da posizioni teoriche opposte.
Perché questa non è una provocazione di oscuri studiosi. Ad accendere la miccia del dibattito è stato uno degli economisti più autorevoli del paese, ex ministro del Tesoro e il vero candidato di Obama alla guida della Fed: Larry Summers. E, sullo stesso treno è immediatamente saltato, con una punta di invidia («da un po’ andavo dicendo le stesse cose, ma Larry, accidenti a lui, le ha dette meglio», ha scritto sul suo blog) un personaggio altrettanto autorevole, come il premio Nobel Paul Krugman. Il punto di partenza è che, a quattro anni dalla fine della crisi dei subprime, l’economia americana non riesce a decollare. Peggio, dice Summers, questo era vero anche prima della crisi: nonostante l’enorme bolla di debiti e liquidità dei subprime, non c’era nessun segno di surriscaldamento dell’economia, di un impennarsidell’inflazione. Il motivo? Secondo Summers questo è avvenuto, perché il tasso di interesse teorico che può mettere in equilibrio risparmi ed investimenti, in un contesto di piena occupazione, si è abbassato in via permanente. Anzi, è diventato (al netto dell’inflazione) negativo. Fuori dal linguaggio in codice: per convincere un’azienda a prendere i soldi in prestito e investire, bisognerebbe che non pagasse nessun interesse su quel credito, anzi, che le si regalassero soldi in più. E i risparmiatori dovrebbero pagare per tenere i loro soldi in banca. Una situazione estrema, che non si può reggere a lungo. Esagera Summers? Niente affatto, dice Krugman. Di fatto, è la situazione che l’America vive da trent’anni. L’economia sarebbe rimasta ferma se non ci fosse stata una bolla dietro l’altra, a sostenere i consumi. Prima quella delle casse di risparmio con Reagan. Poi quella delle dot.com, con Clinton. Infine, quella dei subprime, con Bush. Tutte a drogare l’economia e i consumi, ma senza che partisse l’inflazione.
Dietro, sottolinea Martin Wolf, c’è uno squilibrio di base: non ci sono abbastanza investimenti per assorbire una mole crescente di risparmi. E le radici di questo squilibrio sono profonde e durature. Anzitutto, l’impennarsi dell’ineguaglianza nella società americana. I benefici della crescita degli ultimi decenni sono stati sequestrati dall’1% più ricco. Dal dopoguerra al 1973 il reddito tipico di una famiglia americana è più che raddoppiato. Nei trent’anni successivi è cresciuto solo del 22%. Nell’ultimo decennio è, di fatto, diminuito. Ma i ricchi risparmiano molto e consumano poco. Per il resto, solo le bolle e i debiti hanno consentito al consumatore medio dicontinuare a spendere ed hanno così invogliato le imprese ad investire. Ma c’è un trend ancor più di fondo: la demografia. L’Europa invecchia, ma, un po’, anche l’America: nei prossimi dieci anni, la forza lavoro, negli Usa, aumenterà solo dello 0,2% l’anno. Significa meno famiglie nuove, meno case, meno elettrodomestici, meno auto. Così, anche quando investono, le imprese non hanno la stessa funzione di traino di una volta. Perchéinvestono soprattutto in informatica e, poiché i prezzi della tecnologia dell’informazione scendono del 20% l’anno, anche lo stesso volume di investimenti comporta meno soldi di prima nell’economia.
Troppa tecnologia, insomma. O, invece, troppo poca? Perché se keynesiani come Summers e Krugman interpretano il ristagno presente e futuro come una carenza strutturale di domanda, altri economisti erano già arrivati alla stessa pessimistica conclusione partendo dai difetti dell’offerta. Non c’è abbastanza innovazione, dice Tyler Cowen, per spingere la produttività e, quindi, i redditi. È il tema di un saggio di un anno fa di Robert Gordon. La seconda rivoluzione industriale — quella dell’elettricità, dell’auto e del trattore, anche della toilette dentro casa — quella sì che ha rivoluzionato il nostro modo di vivere e il nostro modo diprodurre. I suoi benefici sull’economia si sono protratti per quasi un secolo. La terza, quella del computer e di Internet, ha esaurito, invece, la sua spinta sulla produttività già negli anni ‘90. Le innovazioni continuano, ma non rivoluzionano l’economia. L’auto senza guidatore è una meraviglia, ma, una volta che sei dentro, poco importa chi guida. Gli smartphone o gli occhiali di Google sono un modo per divertirsi, più che per produrre meglio e di più. Se alla marginalità di queste innovazioni aggiungiamo le tendenze demografiche, il ristagno è inevitabile. Gordon prevede che il tasso di sviluppo a lungo termine americano si dimezzi in questo secolo, dal 2 all’1% l’anno. Considerata l’ineguaglianza dei redditi, significa che il 99% degli americani dovrà accontentarsi di migliorare il proprio tenore di vita dello 0,5% l’anno. Non siamo lontani dallo 0,2% che ha segnato i secoli fino al ‘700: la “nuova normalità” è il mondo prima della macchina a vapore. Poi, magari, come osserva Krugman, domani esce un’invenzione paragonabile alla lampadina e tutto questo pessimismo va in fumo. Fino a quel momento, però, se considerate il vostro iPhone la porta ad un mondo nuovo, siete degli ottimisti.

RTV-LAEFFE Alle 13.50 su Rnews (canale 50 del digitale terrestre) Maurizio Ricci interviene sull’era della crescita zero