mercoledì 11 dicembre 2013

«Quelli che vengono dal ceppo Pci hanno votato in massa per Renzi. Se non ripiegherà e distruggerà il peggio di Dc e Pci trasferitisi nel Pd la dolorosa scelta della Bolognina sarà compiuta»
«C’erano due candidati, Renzi e Civati, che hanno attaccato le larghe intese. La gente che ha votato per loro l’ha fatto soprattutto per questo»
«Altro che commissione dei saggi, ci vorrebbe un’équipe di psichiatri»
il Mattino 11.12.13
Occhetto: ora con Renzi la mia svolta può compiersi
«La sinistra è con lui, i detentori di ideali si rassegnino»
«Ero per Civati, anche lui vuole rinnovare: i suoi voti da sommare a quelli ottenuti dal vincitore»
Pci e Dc. «Il peggio è stato trasferito nel Pd: la sfida è annullare tutto ciò»
intervista di Pietro Perone


Il comunismo «a livello internazionale è morto quando l’ultima bandiera rossa è stata ammainata dal Cremlino». La svolta in Italia, invece, c’è già stata e «non certo le svoltine degli anni successivi». Achille Occhetto, ultimo segretario del Pci e artefice dei pds-ds, si sottrae al dibattito sulla presunta fine della sinistra determinata dalla schiacciante vittoria di Matteo Renzi, anzi va oltre: «Quelli che vengono dal ceppo Pci hanno votato in massa per Renzi. Se non ripiegherà e distruggerà il peggio di Dc e Pci trasferitisi nel Pd la dolorosa scelta della Bolognina sarà compiuta».
Il comunismo «a livello internazionale è morto quando l’ultima bandiera rossa è stata ammainata dal Cremlino». La svolta in Italia, invece, c’è già stata e «non certo le svoltine degli anni successivi». Achille Occhetto, l’ultimo segretario del Pci e artefice dei pds-ds, si sottrae al dibattito sulla presunta fine della sinistra determinata dalla schiacciante vittoria di Matteo Renzi, anzi va oltre. «Se Renzi dice non ripiegherà e riuscirà a distruggere il peggio della Dc e del Pci trasferitisi nel Pd potrò finalmente dire che la dolorosa scelta della Bolognina sarà compiuta».
Era il 12 novembre 1989 quando Occhetto, all’epoca segretario del Partito comunista italiano, prese atto della caduta del muro di Berlino e della crisi dei regimi comunisti dell’Est europeo lanciando un appello ai progressisti per creare un nuovo partito di sinistra allargato a energie cattoliche, ecologiste e radicali. Sono trascorsi 24 anni e diversi partiti di sinistra, come di centro, sono nati e repentinamente hanno chiuso i battenti. Dalle ceneri di quelle sigle è sorto il Pd ma il percorso immaginato da Occhetto è rimasto incompiuto, tanto che tra i democratici la parola scissione è continuata a circolare per mesi mentre oggi si discute animatamente della fine o meno della sinistra, così come di una possibile rinascita della Dc.
Come ha vissuto le primarie, e poi il trionfo di Renzi, lei che è stato il segretario il protagonista del processo politico che portò alla fine del Pci?
«Innanzitutto con piacere perché siano andati in molti a votare indipendente da chi poi è stato scelto. Un fatto importante per la democrazia: questo tipo di partecipazione, al di là delle interpretazioni sofisticate, indica non solo una voglia di cambiamento ma è anche un’educata critica, pur se profonda, allo stato delle cose, in particolare alle larghe intese.
Chi vive con il magone di vedere il proprio partito assestato su posizioni di centrismo moderato ha espresso con il voto il proprio malessere».
Coloro che hanno votato il sindaco di Firenze hanno quindi voluto bocciare l’attuale maggioranza?
«C’erano due candidati, Renzi e Civati, che hanno attaccato le larghe intese. La gente che ha votato per loro l’ha fatto soprattutto per questo».
Se l’aspettava un successo di tali dimensioni da parte di Renzi?
«La vittoria era scontata e diventa di dimensioni maggiori se ai suoi voti sommiamo quelli di Civati. Entrambi si muovevano sulla linea del rinnovamento. I due vengono dalla Leopolda e hanno insistito su tema centrale usando una parola che non vorrei neanche pronunciare, la rottamazione. Direi piuttosto che hanno posto il problema di scardinare un sistema di potere all’interno del partito per fare in modo che una classe dirigente possa aprirsi a esperienze nuove. Naturalmente Civati ha rappresentato questa esigenza con temi più vicini alla sinistra europea e per questo ho guardato con favore alla sua candidatura e l’ho votato». Come giudica invece la scelta di Cuperlo di non entrare in segreteria: è come se un pezzo del partito, quello che viene dalla sua stessa storia, abbia deciso di sedersi sulla riva del fiume per vedere il cadavere del ”nemico” passare? «Guardi, quelli che vengono dal ceppo del Pci hanno votato in massa per Renzi, lo dimostra il successo che ha ottenuto in Emilia Romagna, Toscana, Umbria, quelle che un tempo venivano definite le regioni rosse».
Bersani e D’Alema però sostenevano Cuperlo. «Distinguerei tra i cosiddetti detentori della continuità e il popolo della sinistra. Cuperlo è andato meglio dove una nuova nomenclatura si è sostituita a quelli che erano i gruppi di potere all’interno dei vecchi partiti».
Ora si dibatte sulla presunta morte della sinistra determinata dalla schiacciante vittoria di un ex ragazzo nato boy scout e che in politica ha mosso i suoi primi passi nel Ppi e poi Margherita.
«Si tratta di commenti viziati da amnesia storica. In tutte le narrazioni che ascolto pare che coloro che vengono dalla tradizione comunista siano passati da Berlinguer a Renzi, come se in mezzo non fosse accaduto nulla. Un’analisi di questo tipo diventa purtroppo un caso da psicanalisi collettiva. Altro che commissione dei saggi, ci vorrebbe un’équipe di psichiatri. E da qui la damnatio memoriae che fa dire ad alcuni giornali che Renzi ha abrogato il comunismo. A livello internazionale, il comunismo in quanto Stato e sistema di potere fondato sul collettivismo burocratico è morto quando l’ultima bandiera è stata ammainata dal Cremlino. In Italia invece la vera svolta è stata compiuta alla Bolognina, niente a che vedere con le svoltine successive. Si è trattato di un passaggio drammatico, che ha coinvolto e diviso le famiglie. Dire che quella storia finisce con Renzi significa dare ragione a Berlusconi che ancora combatte i comunisti e nello stesso tempo si compie un’operazione condizionata da un profondo strabismo perché il Pd, invece di dare vita a una contaminazione nuova della migliore tradizione del riformismo italiano, è il prodotto di una fusione fredda tra due vecchi apparati. Insomma, per dirla in modo polemico si è unificato il peggio del Pci e il peggio della Dc». Quali i mali ereditari?
«Per quanto riguarda il Pci si è mantenuta l'ottusa visione salvifica del partito in quanto tale; dalla Dc è stato ereditato il sistema correntizio e una visione politicista proiettata unicamente alla conquista del governo. La vera sfida era unificare le grandi idealità della tradizione comunista, quelle che perfino Bobbio aveva esaltato, con le esperienze più vive del cattolicesimo sociale di sinistra».
Pensa che Renzi possa riuscire nel percorso da lei avviato?
«Cosa accadrà non lo so. Renzi è piaciuto perché ha messo in movimento il partito, ma bisognerà vedere in direzione. Rimane ancora un mistero cosa vorrà fare sulle questioni economiche e sociali. E ancora se ripiegherà rispetto alle cose che ha detto: se attuerà solo un ricambio di dirigenti, rifarà la Democrazia cristiana. Se invece distruggerà il peggio del Pci e della Dc porterà a compimento il processo da me cominciato alla Bolognina».

l’Unità 11.12.13
Matteo Orfini: «Gianni dica sì all’apertura unitaria del segretario»
«Non faremo correntoni di opposizione, faremo vivere le nostre idee
Renzi ha vinto e non è un barbaro che saccheggia la nostra città»
intervista di Simone Collini


ROMA «Dobbiamo contribuire con le nostre idee a ricostruire il Pd, non dar vita a un correntone di opposizione a Matteo Renzi». Anche per questo, dice Matteo Orfini, sarebbe giusto che all’«apertura unitaria» del nuovo segretario, Gianni Cuperlo rispondesse accettando il ruolo di presidente del Pd.
Partiamo dal risultato che avete ottenuto alle primarie, onorevole Orfini: come definirebbe il 18% incassato ai gazebo? «Una sconfitta molto dura, un dato decisamente al di sotto delle aspettative». La ragione principale, secondo lei?
«La dissonanza percepita tra il contenuto del nostro messaggio congressuale, radicalmente alternativo all’ultimo ventennio, e l’allargamento delle truppe attorno alla candidatura di Cuperlo. Sul terreno economico e sociale noi abbiamo detto le cose più innovative, però poi attorno alla mozione si è costruita una compagine formata non da tutti quelli che la condividevano, ma da tutti quelli che erano contro Renzi. Questo ci ha fatto perdere voti, non ce ne ha fatti guadagnare perché ha portato persone simbolo di stagioni passate, e il nostro messaggio è stato percepito come poco credibile».
E ora che atteggiamento avrete con il nuovo segretario?
«Intanto, non dobbiamo cedere a un’idea che circola tra chi non ha votato Renzi, quella cioè di considerarlo un barbaro che è venuto a saccheggiare la nostra città. Renzi è un nostro compagno di partito, che ha vinto il congresso e che ora si trova di fronte a una sfida complicata: ricostruire il Pd. Il compito e la missione che ci hanno affidato quanti hanno votato Cuperlo, allora, è contribuire con le nostre idee alla ricostruzione del partito, non dar vita a un correntone di opposizione».
È stato offerto a Cuperlo di ricoprire l’incarico di presidente del Pd, ma lui sostiene che sarebbe più opportuno indicare una figura di garanzia: condivide?
«Io penso che non si possa immaginare un presidente più autorevole e apprezzato di Cuperlo. E se la nostra missione è far vivere le nostre idee nell’ottica di ricostruire il Pd, sarebbe giusto che non facesse cadere nel vuoto l’apertura unitaria di Renzi».
Un primo passo verso la maggioranza?
«No, non ci sono le condizioni politiche per entrare in maggioranza, su troppe questioni non siamo d’accordo. Sarebbe invece un modo per partecipare in modo costruttivo, partendo dalle nostre posizioni, alla ricostruzione del Pd. Cosa tanto più necessaria in un momento in cui in Italia ci dono gruppi poco trasparenti che stanno strumentalizzando il disagio che c’è nel Paese». Si riferisce al movimento dei Forconi? «A quello, ma non solo. Molti elementi ci dicono che la situazione si fa sempre più pericolosa e noi dobbiamo dare una risposta sia sul terreno dell’azione di governo che sul fronte della ricostruzione del partito».
È quello che vuole fare anche Renzi, no?
«Sì, ma a Renzi voglio dire che una simile situazione non si affronta e tantomeno si risolve con gli slogan o con colpi
ad effetto, come l’idea di convocare la segreteria alle sette di mattina».
E come, allora?
«Aiutando Letta a produrre una svolta radicale, ora che non c’è più Berlusconi, lavorando sull’efficacia dell’azione di governo facendo attenzione al disagio sociale, facendo del Pd lo strumento a disposizione per questa battaglia. Noi dobbiamo sfidare Renzi su questo terreno, incalzandolo sul fatto che non si possono riproporre dopo venti anni ricette che non hanno funzionato, che vanno infranti determinati tabù. E lo dobbiamo fare con l’orgoglio di chi sa che sta combattendo una battaglia difficile ma più giusta».
C’è chi dice, anche nel suo partito, che è più giusto far cadere questo governo e andare a nuove elezioni.
«Io non ho incontrato disoccupati, precari, cassintegrati che mi chiedevano di far cadere il governo. Ne ho incontrati, e tanti, che mi chiedevano di farlo funzionare, di aiutarlo a interpretare i bisogni di chi sta peggio, di dare le risposte prima che sia troppo tardi».

La Stampa 11.12.13
Fassina: Cuperlo ci ripensi, accetti la presidenza Pd
intervista di Alessandro Barbera


ROMA Fassina, che ne pensa della decisione di Cuperlo di non condividere l’indicazione di nomi per la segreteria?
«È un organismo esecutivo ed esprime la linea del segretario. Noi abbiamo un’altra linea».
I maligni dicono: la minoranza resta fuori per  meglio Renzi. Non è così?
«Chi vince con un risultato così netto ha il diritto-dovere di governare il partito. Daremo il nostro contributo nelle sedi politiche».
E il rifiuto di Cuperlo a diventare persino presidente dell’Assemblea nazionale? Quello è un ruolo di garanzia.
«In quel caso è importante che venga assegnato alla minoranza. Posso capire le motivazioni personali, ma penso ancora che Gianni possa essere la persona giusta. Ci ripensi».
E che ne pensa dell’annuncio di Renzi di non candidare alle europee D’Alema e la Bindi?
«Il messaggio delle primarie è stato chiaro, ed è una domanda di forte discontinuità. Ciò detto, se D’Alema fosse disponibile, una personalità come la sua darebbe lustro all’Italia».
È davvero possibile un patto Letta-Renzi che duri per l’intero 2014?
«Perché il Pd vinca le prossime elezioni bisogna prima dire sì ad un pacchetto minimale di riforme su bicameralismo e legge elettorale. E se dovesse essere impossibile farle, dobbiamo essere in grado di additare quelli che stanno giocando allo sfascio, ovvero Grillo e Berlusconi».
E se nel frattempo il governo non fosse in grado di procedere?
«Il semestre europeo è un’occasione troppo vicina e importante per essere persa. L’Europa è sulla rotta del Titanic. È un’illusione credere che a Palazzo Chigi ci siano bottoni pronti per essere spinti dalle persone giuste».
L’argomento del semestre europeo è debole. Non sarebbe un dramma se si andasse a votare in autunno, è già capitato in passato.
«In quel caso sarebbe una presidenza notarile, non saremmo in grado di incidere. Per essere incisivi il semestre va preparato e gestito».
Insomma lei sta dicendo che conviene anche a Renzi sostenere il governo Letta. È così?
«Se non c’è una radicale correzione di rotta, e in fretta, proteste come quelle dei forconi possono dilagare e trovare terreno fertile nei peggiori populismi».
Questa legge di Stabilità però non segna una radicale correzione di rotta.
«Il fondo taglia-tasse è una novità importantissima».
In passato ne sono stati introdotti due, inutilmente.
«In entrambi i casi si trattava di esperimenti che imponevano di definire la quantità di maggiori entrate strutturali che potevano essere portate a riduzione delle tasse. Questa volta il fondo è quasi automatico, verrà alimentato con i risparmi della spending review e dei fondi rinvenienti dall’accordo con la Svizzera».
Secondo lei cosa rappresentano i forconi?
«C’è un disagio profondo nel Paese, ma in questo caso non vedo un obiettivo specifico se non quello di sfasciare tutto. E per quanto riguarda gli autotrasportatori, ricordo che il governo ha appena stanziato 330 milioni a loro favore».
Che ne pensa del suo successore al partito Filippo Taddei? Non la pensa come lei sulle ricette economiche per uscire dalla crisi.
«Lo stimo, è competente, penso possiamo trovare delle convergenze. In questi anni il Pd è andato controcorrente rispetto alle mode liberiste, spero si possa proseguire su quella strada».

il Fatto 11.12.13
Il piano per rottamarli. Renzi già pensa alle urne
Ai gruppi democratici propone: legge elettorale entro Maggio
di Wanda Marra


Matteo Renzi viaggia in quinta e se serve mette pure il turbo. Talmente spregiudicato e sicuro di sè da farsi portare a via Teulada negli studi di Ballarò da un taxi così grillino da esporre un adesivo con la scritta “né a sinistra, né a destra, M5S”. Da “capitano” del Pd gioca da punta di sfondamento, pronto a non fermarsi davanti a nulla. Due tappe “nazionali”: la registrazione di un’intervista per il programma di Floris e poi la riunione con i gruppi parlamentari del Pd in serata. “Il gioco di squadra? Se significa rimanere nelle sabbie mobili delle politica romana, allora no”, dice in tv. Un programma di vita. Obiettivo numero uno, la legge elettorale. Da fare subito. Ai gruppi del Pd sostanzialmente ieri sera ha detto: “Qui ci sono 400 persone che possono cambiare l’Italia”. In modo meno aulico si può anche tradurre: “O siete con me o siete morti”. Forte di questo, l’obiettivo è spostare la legge elettorale alla Camera (in barba ai veti espressi dalla Finocchiaro e forte dell’appoggio dichiarato di Letta) portare a casa rapidamente un modello il più bipolarista possibile (doppio turno alla francese o Mattarellum corretto in senso maggioritario) e a quel punto andare in Senato, sfidando tutti a bocciargliela. Pena la gogna mediatica.
SE LA INCASSA, potrebbe anche decidere di chiudere con quello che lui stesso definisce “il governo dei rinvii” e andare al voto il prima possibile. Se non la incassa, l’obiettivo è tornare al Mattarellum corretto con Forza Italia e Movimento 5 Stelle. E magari votare ad aprile o maggio. La strada che ai renziani più informati sembra ancora la più probabile. Nonostante “il capo” ci tenga a ribadire pubblicamente che il governo può durare, dando le tappe della sua road map. Condizione unica e imprescindibile: Enrico Letta deve seguirlo su tutto. Il premier “domani (oggi, ndr) farà un discorso generale, poi ha un mese per concretizzare”, dice a Ballarò. Una fiducia “pro-forma” la definiscono i suoi, e a gennaio si fanno i veri giochi. Tradotto dallo stesso Renzi: “Votando ora la fiducia dobbiamo prenderci il tempo per dire cosa faremo nel 2014”. Poi corregge, addolcisce: “Letta ha l’occasione di andare avanti un anno”. Ragiona Matteo Richetti: “Matteo potrebbe scegliere di presentarsi da capolista ovunque alle europee, portare il Pd oltre il 30% e a quel punto far terminare il semestre europeo a quest’esecutivo e poi andare al voto”. Con accordo preventivo sulla data del voto. E dunque evidente definizione dei rapporti di potere.
CON LA SPREGIUDICATEZZA
che gli è propria, Renzi sta parlando con tutti. Nell’immediato vedrà (o almeno sentirà) Berlusconi. Per conto di Alfano, i suoi parlano con Cicchitto. E in Parlamento i renziani trattano già anche con i grillini. D’altra parte lo stesso Matteo ieri l’ha detto negli studi Rai: “Grillo ha 160 deputati, se votano la proposta del Pd sul Senato si fa”. A breve il neo segretario salirà pure al Colle per un incontro con Napolitano che s’annuncia dialettico. Il Pd per ora volente o nolente ce l’ha in pugno: il partito che non sta con lui è triste, diviso e pure poco organizzato.
Non a caso Renzi viene accolto alla riunione dei gruppi da trionfatore, con tanto di omaggio collettivo e abbraccio con Bersani. Lui affonda, sfruttando tutto il vantaggio senza mezzi termini: “La palla ce l’abbiamo noi”. Vediamoci in modo costante”. Poi, detta le tappe del suo percorso: “Entro il 25 maggio la legge elettorale e anche la prima lettura sull’abolizione del Senato”. La prima, però, se c’è accordo politico si fa in 20 giorni, ci tiene a dire. È più dialettico, più possibilista che in tv. Scherza: “Se tra noi c’è chi sogna soluzioni inciuciste, vedo Fioroni che ride, deve rassegnarsi”. Aveva già chiarito di non avere alcuna intenzione di presentare Bindi e D’Alema alle europee. Poi le rassicurazioni: “Sono pronto a siglare un patto con Letta dopo la legge di stabilità”. Disponibilità massima a parole. Nei fatti è tutto da dimostrare. Il Pd comunque non sembra in grado di nuocergli. Per ora.
I cuperliani ieri hanno fatto una riunione post-sconfitta. Cuperlo si è offerto di guidare una “area politica” (volgarmente detta corrente). Quindi aspetta indicazioni sulla presidenza dell’Assemblea: Renzi l’ha offerta a lui medesimo, ma lui ha risposto che preferisce evitare. Gli pare un premio di consolazione. E allora, si cerca un nome concordato. Racconta Alfredo D’Attorre: “I turchi sarebbero già voluti entrare in segreteria con uno dei loro, ma noi abbiamo preferito evitare. Il che non vuol dire tirarsi fuori, ma collaborare in altro modo. Per la presidenza ci andrebbe bene Cuperlo se lui volesse, se lui non vuole invece siamo per dare un mandato a lui per trattare direttamente con Renzi su un nome”. La riunione è stata aggiornata a oggi. “Forse”. O a domani.

il Mattino 11.12.13
Gli auguri
Tony Blair: «Speranza per l’Italia»


Renzi «rappresenta uno spirito di ottimismo e speranza per l’Italia e l’Europa». Così l’ex premier britannico Tony Blair commenta l’elezione del sindaco di Firenze a leader del Pd. «A Matteo vanno le mie più calorose congratulazioni», dice Blair, cui Renzi è stato più volte paragonato in questi giorni. Secondo l’ex premier britannico, il nuovo segretario del Pd «combina anche questo spirito di ottimismo alla capacità che è richiesta a tutti i politici in questa era, l’abilità di analizzare i temi e comprendere le sfide per quello che esse sono realmente».

il Fatto 11.12.13
La Ditta lascia Renzi in rosso
Il sindaco trova un Pd forte ma senza soldi
Sposetti (Tesoriere Ds) “Non avrete la nostra cassa”
di Carlo Tecce


Ormai dismessa, e sconfitta, la “ditta” che fu di Pier Luigi Bersani lascia a Matteo Renzi un partito in rosso, ultima impronta cromatica che rimanda al passato. Il tesoriere Antonio Misiani, in carica ancora per pochi giorni, mollerà la cassa in virtuale salute, ma fragile, molto fragile: 4 milioni di euro di passivo a dicembre, almeno 7-8 per l’anno prossimo, se passa la legge sui rimborsi elettorali, pronta a Palazzo Madama per l’estremo timbro. Eppure il Partito democratico, pensato liquido e scoperto ben solido con 207 dipendenti, avrebbe parenti, non proprio lontani, estremamente ricchi: i Democratici di Sinistra, cancellati e milionari, che controllano un patrimonio valutato mezzo miliardo di euro. Circa 60 fondazioni locali, decentrate e autonome per non perire col debito di 200 milioni di euro verso le banche, gestiscono 2400 immobili e un centinaio di cimeli, libroni, reliquie, documenti, fotografie: cinquant’anni di sinistra e comunismo italiano.
I dirigenti che hanno perso e la cassaforte blindata
Il guardiano, tesoriere a vita, è il senatore Ugo Sposetti, mai convertito al renzismo: il contrario esatto. Il giovane Pd, concepito da Democratici di Sinistra e Margherita di Rutelli, fu la conseguenza di un matrimonio con separazione dei beni. E non sorprende, allora, ascoltare Sposetti pungente come sempre, definitivo come non mai: “Usano le sedi del Pci, nessuno li caccia: o mi sbaglio? Non possiamo toccare le vecchie proprietà perché abbiamo dei creditori e 23 stipendi da pagare. Se vendiamo è per ristrutturare”.
Sposetti-pensiero tradotto: non li sfrattiamo, ci dicano grazie. Con precisione chirurgica, aggiunge, e diventa serissimo: “I soggetti giuridici sono diversi. Non possiamo dare nulla a Renzi: il sottoscritto, però, il primo gennaio vuole la tessera”.
Con drammatica lungimiranza, in via del Nazareno, dove s’installa la macchina democratica, già s’intravedono i primi scatoloni. Non le prime rassegnazioni. Il rosso nei bilanci non pare spaventare il segretario: ma la nuova gestione, la ditta fiorentina, dovrà trovare una soluzione. Il promesso tesoriere, successore di Misiani, puntuale a far quadrare entrate e uscite (a ottobre liquidità di 12,5 milioni), era Lorenzo Guerini, ex sindaco di Lodi, ora portavoce di Renzi.
Guerini ha preferito sottoporsi alle torture dei giornalisti pur di non impazzire con la calcolatrice. La deputata Maria Elena Boschi, nominata per le riforme fra i 12 in segreteria, annuncia cure dimagranti: addio consulenze, meno impiegati, zero sprechi. Non semplice. Perché soltanto le spese per il personale superano i dieci milioni di euro e la piccola Youdem di Chiara Geloni, devota a Bersani sino al patibolo, s’è ridotta per non sforare i 2 milioni. Il destino di Youdem pare deciso: il segnale sarà staccato, o giù di lì. I renziani vogliono cambiare verso, dicono. Hanno pensato, presto, di traslocare dal Nazareno, troppi i 600.000 euro d’affitto. Poi Renzi s’è accorto che il mercato romano non offre di meglio per 3.000 metri quadri, compresa la terrazza panoramica e l’attico per la sala stampa.
La nuova legge sui rimborsi e le donazioni dei privati
Il 2014 non sarà, forse, il momento per la volata a Palazzo Chigi. Più facile che sia l’anno, stavolta giusto, per il (finto) arrivederci ai rimborsi elettorali, scarnificati fino a scomparire nel 2017: -25% ogni anno rispetto ai 24,8 milioni pubblici incassati da Misiani lo scorso luglio. I partiti dovranno sopravvivere con i contributi di società e privati sino a 300.000 euro e donazioni tramite Irpef (tassa sui redditi) del 2x1000. Questa è la legge che ha sostenuto Enrico Letta e che Matteo Renzi voleva ancora più netta. Vuol dire che il segretario s’immagina un partito più leggero, più legato ai capitali privati, ai propri militanti. Senza scomodare l’immaginazione, però, adesso ci sono 207 dipendenti che aspettano risposte e un po’ di milioni da coprire. Ma non chiedete una mano a Sposetti. La vecchia ditta un po’ di rosso lo vuole mantenere.

il Fatto 11.12.13
Misteri
I debiti della Quercia e la busta di Fassino


Il dalemiano Ugo Sposetti, tuttora tesoriere dei Ds (non scomparsi), elabora il lutto per la vittoria di Renzi con sibilline rivelazioni all’Aria che tira, trasmissione di La7 condotta da Myrta Merlino. Racconta: “Quando Fassino (ex segretario dei Ds oggi con Renzi, ndr) mi chiese di fare questo lavoro mi consegnò una busta con delle tabelline. Quelle tabelline non rappresentavano la verità e non le ho mai fatte vedere a casa. Oggi penso di averle dimenticate. Feci fare una due diligence e vennero fuori 580 milioni di euro di debiti”. Oggi Sposetti amministra ancora il tesoretto dei Ds e vive “tragedie notturne” perché non riesce a dormire. Continua: “Devo pagare lo stipendio a 23 persone e chiedo all’editore del Corriere della Sera (che ieri si è occupato dei soldi del Pd, ndr) di assumerle”.

il Fatto 11.12.13
Il responsabile Scuola e Welfare
Faraone, tra l’arsenale e il mafioso
di Giuseppe Lo Bianco


Palermo Davide Faraone l’ho allevato io, difendendolo nella lunga serie di minchiate che ha combinato’’, aveva detto, allargandosi un poco, Mirello Crisafulli. E una di queste l’hanno tirata fuori ieri i grillini per dargli il benvenuto nella segreteria renziana. Sul sito del gruppo M5S alla Camera hanno citato Martin Scorsese e il suo film Quei bravi ragazzi per disegnare il profilo di Faraone: 38 anni, una figlia di nove, neo-responsabile del welfare del Pd e fan di Renzi della prima ora. “Ecco il nuovo che avanza – recita il sito sotto un titolo che richiama il film di Scorsese – ha incontrato persone poi condannate per mafia mentre raccattava voti per la città per la campagna elettorale per le regionali del 2008”. Il riferimento è a una storia di cinque anni fa, quando, scrivono i grillini, “il 10 marzo 2008 (Faraone, ndr) si accomoda nel salotto di Agostino Pizzuto, custode dell’arsenale della famiglia del quartiere San Lorenzo-Resuttana. E si parla di voti”. Tutti gli ospiti sono incensurati, ma in quel momento sotto indagine dei carabinieri che, appostati fuori, registrano l’arrivo del futuro deputato che Pizzuto chiama per nome, “Davide”.
E quattro giorni dopo una microspia piazzata nell’auto di Pizzuto, ufficialmente giardiniere del Comune a Villa Malfitano, dove custodiva le armi della cosca, capta un colloquio con un altro degli indagati, Antonino Caruso, anch’esso pubblicato sul sito dei grillini: “Allora hanno chiesto qualche cortesia... qualche cosa si matura... noi altri abbiamo fatto la campagna elettorale per Faraone... ”, dice Caruso. Che aggiunge: “Faraone ci dice... non ce l’abbiamo fatta, mi è dispiaciuto, mi devo ricandidare al Comune... ”.
LA STORIA FINISCE in un’informativa dei carabinieri depositata al processo contro il deputato regionale Antonello Antinoro, imputato per voto di scambio, e in quell’occasione Faraone reagisce denunciando nei suoi confronti “una campagna di fango costruita ad arte da poteri forti che in questi 10 anni hanno gestito la città attraverso un sistema politico-affaristico-mafioso”. Concetti analoghi, ma parole attenuate, quattro anni dopo, durante le primarie del Pd per il Comune di Palermo. Stefania Petix, l’inviata di Striscia la notizia, e il suo fedele bassotto sorprendono Faraone mentre rassicura il membro di una cooperativa di disoccupati, Palermo Migliore, che poco prima avevano indetto una riunione per invitare i soci a votare per lui. “Sono caduto in un trappolone ordito dai personaggi coinvolti in queste primarie – replica
– sto cercando di scoprire, con delle indagini personali, chi siano e perché hanno agito ai miei danni”. Incidenti in un percorso cominciato nelle file del Pds a Palermo, tra borgate e periferie urbane, che hanno scaricato sulle spalle del giovane quasi quarantenne una responsabilità pesante: prima di lui, a parte una breve parentesi di Giuseppe Lupo, l’ultimo palermitano a sedere nella segreteria del più forte partito della sinistra italiana si chiamava Pio La Torre.
Su di lui Matteo Renzi scommise senza esitazione. Eppure lo stesso Faraone, che giurava di finanziarsi con le cene elettorali, lo aveva messo in guardia: “Stai alla larga che forse perdo”. Mantenne, invece, la posizione accanto al suo leader, smarcandosi da Crisafulli con il blocco dei seggi a Enna (Mirello lo definì “il capo degli infami”) e mostrando l’estate scorsa una grinta e un linguaggio nuovi, quando demolì le norme sul lavoro giovanile varate da Letta, definendole “una presa per i fondelli” partorita “da persone fuori dal mondo”.

il Fatto 11.12.13
La fronda interna
“Matteo il Superbo” e l’odio liquido degli sconfitti
D’alema si defila: De Micheli ricorda Prodi: “A spoglio in corso Renzi disse: la candidatura è ritirata”
di Antonello Caporale


Ora sono i bambini a mangiare i comunisti. É terribile ma bisogna dirlo anche a Sposetti, l’uomo dei soldi del Pci in soffitta o in banca, comunque fuori dalla portata del tipetto di Firenze. Sposetti ha subito interrogato l’anima di Lenin: Che fare? Era e forse resta, lui e tantissimi altri militanti rossi, in attesa di un minimo atto di resistenza belligerante, un segno visibile di una guerra che pur si deve combattere, di una dignità da difendere, non solo della storia o degli immobili che pure sono importanti. Perchè a Largo del Nazareno è parso, nelle prime ore della disgrazia, che Matteo il Superbo non desse scampo nemmeno alla resa. Il corridoio al secondo piano ieri l’altro era un lungo e innocente scivolo di benvenuto. Le porte aperte in segno di abbandono di ogni resistenza e gli occhi dei funzionari fissi al computer, come a dimnostrare abnegazione e fiducia nella fatica. Tutti al lavoro, insomma.
Solo “il reggente” rimane per assistere al trapasso
Solo il mite e attempato Epifani, in camicia e a braccia conserte, ad attendere l’ospite e firmare il trapasso. Si vedevano insomma i segni di una volontà dialogante. E invece, tempo due ore, e una delle nuove valchirie renziane, la deputatessa Maria Elena Boschi, ha spiegato in televisione che saranno fucilati tutti i consulenti (un milione e mezzo di euro risparmiati) e si darà via a una crudelissima spendig review che delibererà l’abbandono di largo del Nazareno, sede troppo sfarzosa.
Perciò Sposetti, e con lui la vasta planimetria comunista, ha inchiodato di botto. E nell’aria, complici anche i forconi in piazza, si è sentito odore di polvere da sparo. “Spero che si rinuncerà alle vecchie abitudini e nessuno remerà conto”, ha detto subito Michele Emiliano, il sindaco di Bari oggi renziano. Ma un vincitore non pensa mai alle impellenze degli sconfitti, alle necessità di un conflitto, alla vitalità di un pugno sotto la cintura. In fondo, visto da questa parte, Bersani si era comportato bene e aveva già garantito: “Io ci sono”. Se bisogna difendere largo del Nazareno dall’assalitore chiamatemi, per quel che posso sono a disposizione della ditta. E infatti anche la più fidata e vicina deputata di Enrico Letta, Paola De Micheli, aveva inaugurato il nuovo spazio di confronto: chi ha tradito chi. Nella lista dei traditori, del Pd, di Prodi e di tutta la storia della sinistra, lui, Matteo Renzi. “La prima dichiarazione che Prodi fosse oramai fuori dal Quirinale prima ancora che lo spoglio delle schede a Montecitorio terminasse di chi fu? Andate e leggete”, diceva la Paola ai compagni piacentini accorsi a riflettere sul grande imbroglio. Sbugiardare il re, insomma. Ed era parso che Massimo D’Alema avesse davvero voglia di aprire il fuoco: “Daremo battaglia nel partito”, aveva comunicato davanti a Penelope, la sua amatissima cagna meticcia, appena conosciuti i numeri della debacle. Né Sposetti, né Bersani, né D’Alema né tantomeno la cagnetta avevano, però, misurato lo stato di profondo degrado emotivo in cui versa la truppa degli sconfitti. Se nelle case del popolo emiliane il clima è di assoluta depressione, il livello del confronto tra Gianni Cuperlo, intestatario incolpevole di questa cocente sconfitta, e i suoi sostenitori, l’assetto di comando della resistenza, è ieri piegato, dopo i primi interventi, verso orizzonti spiritualisti e meditativi.
La Bindi presa in giro e i cacicchi spaesati
I giovani turchi, diventati nel frattempo vecchissimi, hanno chiesto di riflettere prima di impugnare l’ascia, e quegli altri, i componenti della corrente bastonata e delusa, hanno iniziato a dar legnate a D’Alema. Risultato: il lider maximo si è fatto improvvisamente indietro, e ha dichiarato: “Largo alla nuova generazione”. Intanto Walter Veltroni è scomparso ai radar, Rosy Bindi ha colloquiato con Matteo (“Mi ha divertito di più Berlusconi”), e dalla provincia italiana ogni luogotenente ha prestato giuramento al nuovo corso. Facce pulite e anche un pochetto no, carriere specchiate e militanze opache. Brava gente e cacicchi del largo sommerso. Vedremo nel prosieguo se la quiete precederà la tempesta. Certo che si avverte un bel sentimento di rancore, un denso profumo di terrore accompagna la lunga passeggiata della cangiante schiera dei vincitori. I pronostici della vigilia assicurano che qualcosa accadrà. “Io sento che nella mia Emilia mi guardano come marziano, come uno che sta espropriando il loro passato, la loro vita. Sono un estraneo che sta occupando la casa non sua”, dice Matteo Richetti, da Sassuolo. Nel mondo fragile e caotico del Pd l’avvento del sindaco fiorentino produce questo clima di odio liquido. Ciascuno a combattere la partita della vita. Chi resta fuori è perduto.

il Fatto 11.12.13
Nel Pd Lazio, spese per cene al tartufo e suore


CONVENTI E CASE di riposo furono beneficiati nel 2011 dal gruppo Pd della Regione Lazio, oggetto di un’inchiesta che vede indagati a Rieti quattro ex consiglieri tra cui Esterino Montino, l’attuale capo segreteria del sindaco di Roma Enzo Foschi e l’ex tesoriere Mario Perilli, accusati a vario titolo di peculato, falso e illecito finanziamento insieme a 10 imprenditori e commercianti. A una missionaria bastò chiedere un aiuto per ottenere 800 euro quale “contributo occasionale”. In procura si registra un’insolita processione di suore e vecchietti per ricostruire come furono spesi 2 milioni di finanziamento pubblico. E così un capitolo sono i 26 mila euro concessi al nuovo “Paese sera”, testata storica del Pci che ha chiuso i battenti: si è scoperto che la somma proveniva da 100 abbonamenti intestati a residence per anziani. Al vaglio 60 contratti per portaborse: nessuno dei 16 interrogati ha saputo spiegare quali compiti svolgesse e ci sono 4.500 euro per spese enogastronomiche per un ignoto convegno e altri 9 mila per un pranzo a Rocca di Papa.
R.D.G.

«Bisogna essere assolutamente moderni, abbiamo capito. Ma qualcuno sa spiegare perché? E soprattutto: qual è la visione della società, quali sono i valori che ispirano l’operare politico?»
il Fatto 11.12.13
I quarantenni del Pd
Ci vuol tempo a diventar giovani
di Silvia Truzzi


Ora tocca a noi. Il rottamatore è stato chiaro: non ci saranno appelli, rinvii, dilazioni. È il nostro turno. Dove “nostro” sta per una generazione – i quarantenni – che fino a oggi è rimasta al palo, anche perché uccidere i padri è compito oneroso. Ci vuole coraggio, le rivoluzioni non sono confortevoli. Individuarsi costa fatica, necessita di creatività, ambizione, molta forza per sostenere il conflitto. Merito di Renzi aver capito il tempo giusto per mettere in scena e vincere questa battaglia. Per ora, esclusivamente anagrafica.
Bisogna chiarire innanzitutto – Civati l’ha sottolineato più volte – che a quarant’anni si è giovani solo perché non ci si può ancora definire vecchi: ma è l’unica ragione. Possono dirsi giovani nel senso di innocenti, vergini. Nuovi, certo più di una classe politica che si è accomodata per decenni nei palazzi del potere, scavalcando senza fare una piega le Repubbliche (e perfino epocali scandali giudiziari). Su questo giornale, ieri, Antonello Caporale ha scritto: “Avevamo bisogno solo di tanta gioventù. Non di un’idea, né di un pensiero”. E qui sta il punto: può il “patto generazionale” fondarsi esclusivamente sulla carta d’identità? No, pur dovendo riconoscere l’ineludibile necessità di un ricambio. Al quale non ci si può sottrarre per diverse ragioni: il fallimento dei predecessori, un’ormai eversiva lontananza tra rappresentati e rappresentanti, soprattutto la sempre più diffusa sofferenza nel paese. Non diciamo giovani, però: giovani sono i ventenni che hanno di fronte la disperazione dell’incertezza (ma almeno hanno un patrimonio ancora intatto: “La giovinezza è un insieme di possibilità”, scrive Camus.
SI È PARLATO ANCHE – con insopportabile enfasi – della rivoluzione rosa nella segreteria politica del nuovo leader. Ora, deve essere chiaro che una parità autentica è quella che non ha bisogno di numeri sbandierati (7 donne 5 uomini). Non ha senso dirsi felici perché la segreteria è giovane e rosa: sono due meri fatti, non necessariamente portatori di progetti. Per adesso possiamo solo aspettare di vedere quel che faranno, quale azione politica metteranno in campo, quali idee nuove (nel senso dell’innovazione) porteranno. Altrimenti non basterà una classe politica di “giovani, carini e occupati”, non basteranno gli slogan, le “convention”, gli “staff”, le “start up”, gli eventi “cool”, le atmosfere pop, i lustrini, la musica martellante. “I don’ t care”. Davvero, chi se ne importa dell’apparato scenico? Nel caos si nasconde il vuoto, nel rumore – e in questa fase del nuovo Pd c’è fin troppo – non si distinguono le parole. Si sono evocate, spesso a sproposito, due categorie – destra e sinistra – nel tentativo di collocare la svolta renziana. Ma è difficile, perché non ci sono più punti di riferimento, né in termini ideali né di contrapposizione.
NE È UNA PROVA il lapsus della neo responsabile giustizia di Renzi, l’onorevole Alessia Morani, che a Otto e mezzo ha chiamato il partito di Alfano “Nuovo centro democratico”. Di sicuro si sono sentite poco parole come “uguaglianza”, “legalità”, “solidarietà” che hanno fatto parte del lessico della sinistra. I pantheon non vanno di moda (oltretutto è parola greca e non inglese) e senza dubbio è più “cool” Mandela di Berlinguer: rottamare il Pci – estinto da tempo, non certo dal sindaco di Firenze – significa anche dimenticare che ruolo ha avuto quel partito nella storia d’Italia del secondo Dopoguerra. E se oggi la più grande formazione politica della sinistra tornasse a interessarsi davvero di lavoro e salari forse tamponerebbe l’emorragia di consensi.
Bisogna essere assolutamente moderni, abbiamo capito. Ma qualcuno sa spiegare perché? E soprattutto: qual è la visione della società, quali sono i valori che ispirano l’operare politico? Attorno a questo si stringono alleanze, altrimenti è solo una sostituzione nei centri del potere. Matteo Renzi ha detto che con Letta “lavorerà bene”: per adesso – ovviamente è prestissimo sembrano esserci all’orizzonte rotture con quei “professionisti dell’inciucio” evocati nel discorso di domenica. Dunque, rivoluzione o conformismo? Tra questi due poli – di solito appaiati a giovinezza e maturità – si giocherà tutto. Picasso diceva che a 12 anni dipingeva come Raffaello, ma che aveva impiegato tutta una vita per imparare a dipingere come un bambino. Ci si mette molto tempo a diventare giovani.

il Fatto 11.12.13
Quanto durerà la polizza Renzi?
di Oliviero Beha


LO SCENEGGIATORE è stato all’altezza, guarnendo il trionfo renziano di un tocco di grottesco: la corona di fiori destinata all’ambasciata sudafricana per Mandela e invece tornata al mittente, alla “Bodeguita del Medio” del Nazareno. Una festa, per àuguri e aruspici. Ma già domenica m’era capitato qualcosa di analogo. In un popoloso quartiere di Roma, in una sezioncina sedicente giovanile del Pd c’era una fila sorprendentemente nutrita per le primarie: in ballo la curiosità per vedere di che qualità sarebbe stata la ramazza di Renzi, tanto temuta soprattutto nel suo partito. Ma sulla vetrata d’ingresso della palazzina, evidentemente teatro di un lutto, era ben visibile la scritta “La famiglia xy ringrazia per la partecipazione”. Bravo davvero, questo sceneggiatore. La fila scorreva, tra iscritti e non, senza un giovane manco a pagarlo e con la difficoltà di molta terza e quarta età a strizzare gli occhi per leggere la scritta propiziatoria. Quella dei giovani è questione cruciale, come è evidente dal grande spolvero del nuovo segretario, del suo sfidante più interessante, Civati, della sua segreteria luccicante più all’anagrafe che per titoli, e più in generale di un bisogno di rinnovamento della politica e della società italiana affondata nella gerontocrazia. E probabilmente una delle domande politicamente più sensate che può farsi e fare Renzi è: perché oggi un giovane, in una società devastata dalle fondamenta, dovrebbe partecipare alla vita politica di un partito che è stato corresponsabile quando non correo? Domanda in realtà buona anche per un elettore agée, che infatti per lo più vota Renzi “versus” il Pd e la sua struttura stile inciuci. Se il Paese è malato, e tu non lo hai saputo curare o addirittura ne hai favorito la malattia, forse devi cominciare dai tuoi errori, dalle cure sbagliate, dalle “truffe alla sanità” (leggasi il sintagma come metafora, declinabile nelle procure). Difficile per Renzi dire “io non c’e ro e non c’entro”, perché non sarebbe del tutto vero e comunque è un modo vecchio di fare il giovane. Ed è da questo dilemma che deve uscire in gran fretta il nuovo leader del Pd, di cui è stato detto e scritto così tanto negli ultimi tre anni che a molti sembra d’averlo già metabolizzato e a qualcuno persino espulso organicamente: se è giovane e vuol fare il giovane, deve ripartire da un’ammissione di colpa che sia la piattaforma per rigenerare un’offerta politica plausibile e immediata, soprattutto per i giovani. Un’offerta che vada oltre queste spoglie di Pd che le primarie hanno ridimensionato quanto ad apparato classico di partito.
Cuperlo è un dirigente di mezza età perbene e di buone letture, interpretato a ragione come prestanome di una struttura che ha perso: che ha perso nel Paese e ha perso il Paese, e solo dopo le elezioni.
AL NETTO degli eccessi di comunicazione di Grillo, che meritano però tutt’altro approfondimento (dov’era la nostra meravigliosa categoria/corporazione giornalistica mentre l’Italia affondava? Non avranno fatto carriera come succedanei di questa politica? Non giudicano quasi tutti aprioristicamente il M5S un fastidio non richiesto? ecc.) per essere se non giustificati almeno spiegati e motivati, la protesta per un Paese sbagliato guidato da una classe dirigente deficitaria passa per le moltitudini fisiche e virtuali “giovani” di Grillo. Andrebbe fatto tutto il possibile per creare un terreno democratico comune con chi non è tarato sul passato, consapevole della disperazione (cfr. i forconi) e della fretta (se Renzi agisce di conserva con i soliti noti, se lo divora la realtà del Paese, se non fa abbastanza e abbastanza in fretta se lo mangia persino Letta). La polizza d’assicurazione di Renzi al potere è tutta qui. Ma quanto durerà?

Corriere 11.12.13
Taddei, l’economista del nuovo team: «Rimettere l’Imu per ridurre l’Irpef»
di Alessandro Trocino


ROMA — «Se vogliamo parlare di patrimoniale, dobbiamo concentrarci prima di tutto sul ripristino dell’Imu sulla prima casa. Poi vedremo». Ha le idee chiare Filippo Taddei, macroeconomista e docente della Johns Hopkins University, che Renzi ha nominato responsabile economico della sua segreteria, nonostante sia stato candidato con Pippo Civati.
Se lo aspettava?
«Una sorpresa assoluta. Ho ricevuto un messaggio alle 7.20 del mattino, mentre accompagnavo i figli a scuola, come faccio tutti i giorni».
L’ha scelta Renzi? In quanto civatiano?
«Mi ha scelto lui, certo, ci mancherebbe. E spero e credo che l’abbia fatto non per riempire una casella ma perché mi stima».
Lei ha scritto per Civati il programma economico, spesso critico con il governo. Non entrerà in conflitto con Renzi e Letta?
«Non la metterei in questi termini. Quando accetti, porti le cose che hai da offrire. E se mi hanno scelto è anche per la fiducia che hanno nella mia capacità di fare sintesi».
Quale sarà la sua priorità?
«Ripristinare la centralità del lavoro nella società italiana. Il lavoro non conta più come un tempo».
E come si fa a ridargli centralità?
«Innanzitutto riducendo le imposte sul reddito da lavoro. E siccome bisogna essere responsabili e concreti, se vogliamo parlare di riduzione di imposte, dobbiamo parlare anche di riduzione della spesa pubblica».
Non è facile.
«Un contributo importante arriva dalla spending review. È un tema sul quale abbiamo puntato molto nella campagna con Civati. La riduzione di spesa degli organi esecutivi, legislativi e affari esteri, che in Italia è dell’un per cento di Pil più alta della Gran Bretagna, dello 0,7% della Germania e dello 0,8% della Spagna. Sta lavorando bene su questi temi l’economista Roberto Perrotti. Serve una drastica riduzione dell’imposta sul reddito, una riduzione fiscale nell’ordine del 7-10 per cento».
Un programma ambizioso.
«Non è una cosa che si può realizzare in due mesi. È un programma di legislatura. Ma è la direzione da seguire».
Finora il dibattito è stato monopolizzato dall’abolizione dell’Imu.
«Una discussione incredibile, una battaglia ideologica. Era evidente a tutti che si trattava di tempo perso, visto che parliamo di un’imposta pari, in media, a 250 euro a famiglia all’anno e che quasi il 30 per cento della popolazione ne era già esente. Come si fa a fermarsi a parlare tutto questo tempo di questo tema, quando se un datore di lavoro vuole aumentare di 100 euro lo stipendio di un lavoratore, nella sua busta paga ci finiscono solo 40 euro?».
Il Pd si è piegato, sono le larghe intese. Per ripristinare l’Imu bisogna però convincere il Nuovo centrodestra.
«La mia responsabilità è fare in modo che il Pd abbia una proposta coerente e concreta e orientata a correggere gli errori del passato. Prima correggiamo le storture, poi andiamo avanti. Naturalmente bisogna vedere se si creano le condizioni politiche, ma questa è una cosa che non è di mia competenza. Sarà il segretario a stabilire modi e tempi del cambio di rotta».

Corriere 11.12.13
Geloni contro Madia: trasformismo democratico


Chiara Geloni, direttrice di Youdem, la tv del Pd, attacca frontalmente sull’Huffington Post Marianna Madia, appena nominata responsabile del Lavoro nella segreteria di Matteo Renzi. La giornalista, nota per più di un duello sui social media, scrive una lettera aperta alla giovane deputata, rivolgendosi a lei in quanto elettrice: «Cara Marianna, alle primarie per i parlamentari ho votato per te. Non ritieni per caso di dovermi spiegare qualcosa?». Per capire il senso politico dell’attacco, bisogna ricordare come la Geloni — già apprezzata da Fassino, a lungo vicina a Marini e Franceschini e ora bersaniana di ferro — ripercorre, a suo modo, la (breve) storia politica di Madia: scelta da Veltroni alle elezioni quando frequentava l’Arel di Enrico Letta, «da veltroniana ti sei detta estimatrice di D’Alema», «hai votato alle primarie per Bersani» e «qualcuno dice di averti visto a riunioni dei Giovani Turchi, ma leggo che neghi». E ancora: «Hai capeggiato le elezioni contro Marini». Infine, «eri a Roma per Cosentino e poi sei andata alla Leopolda e ti sei detta renziana». Insomma, l’accusa alla Madia è di trasformismo politico. La Geloni spiega: «Tutti abbiamo diritto di cambiare idea. Ma non senza spiegare perché». La Madia, che oggi non vuole replicare, spiegò proprio all’Huffington Post le ragioni del suo abbandono di Bersani, causato da «una stagione ipocrita e confusa», dai «troppi errori», e dal «killeraggio di Prodi». «Non posso stare — spiegava il 21 novembre — con chi difende la giustezza di quelle scelte». E sulla svolta: «Renzi è l’unico per carattere, storia, inclinazioni a poter sfidare questo stato di cose che impedisce il cambiamento. È l’unico che ha la dimensione umana di battere il “mostro” che ha “ucciso” Veltroni e Bersani».

Corriere 11.12.13
Via i santini, il Pantheon ora è mobile Il mosaico del sindaco pensiona il rituale degli «antenati culturali»
di Pierluigi Battista


Matteo Renzi non ha il suo Pantheon di antenati culturali da indicare alla venerazione dei seguaci. E perciò chi è abituato all’imponenza totalizzante dei Pantheon di una volta ne conclude che Renzi, non disponendo di Pantheon, non ha nemmeno cultura. Che leggerezza, che superficialità, che evanescenza postmoderna, questo Renzi. Nemmeno una statua da idolatrare, nemmeno un busto della Tradizione da indicare ad esempio. Nemmeno un poster del Novecento che fu, un santino del Pci che fu, del passato che non vuole passare. Che strafottenza. E che mancanza di cultura.
Che tempi, senza Pantheon. Esaurita la tradizione del Gramsci-Togliatti-Longo-Berlinguer, c’era l’ansia di dare alla sinistra una nuova galleria di riferimenti illustri e venne l’epopea di Kennedy e di don Milani. Del socialismo sì, ma di Turati e Pertini, non di Craxi. Della sinistra non comunista sì, ma solo di quella azionista di Norberto Bobbio, che il neo-segretario Veltroni volle omaggiare come legame tra il presente e un glorioso passato. Oggi Renzi spiazza tutti, e al posto del Pantheon propone un mosaico di tessere mobili. I sacerdoti del passato, nella loro ansia compulsiva di catalogazione, nella loro ossessione di vedere il presente come una diramazione del passato mai veramente passato, attribuiscono a Renzi ascendenze Dc, partito scomparso nel 1993 quando Renzi aveva solo 18 anni. E per la verità Renzi ha voluto citare Alcide De Gasperi, ma solo per accostarlo agli U2. Che commistione blasfema. Perché il gioco della contaminazione tra il pesante e il leggero si considera lecito solo se hai un bagaglio imponente da dichiarare. Allora sì: allora si può accostare Jovanotti al «Che» Guevara. Se invece non vieni da una storia consacrata, vidimata sul passaporto della rispettabilità culturale, allora non sei «di sinistra», non hai un Pantheon, sei leggero e inconsistente.
E certo, l’applauso scatta se il cattolico Renzi cita don Primo Mazzolari, ma qualche refolo di perplessità si diffonde se viene anche menzionato Baden-Powell, il fondatore dello scoutismo cattolico, che avrà pure una sua grandezza con i milioni di giovani che ne hanno seguito gli insegnamenti, ma certo mica può essere paragonato all’epopea dei Giovani Pionieri, del Komsomol e della Fgci. Nelson Mandela, citato da Renzi come faro politico e culturale già un anno fa, quindi in tempi di non sospetto unanimismo, va bene. Un po’ meno se Steve Jobs è il riferimento renziano di tendenza. Ci cadde anche Vendola, prima che partisse la denuncia sulle condizioni dei lavoratori nei capannoni della Apple in Cina. Lui se ne pentì, ma per il non-Pantheon di Renzi, Steve Jobs resta una figura insostituibile. Come lo è, in panni e sapori italiani, Oscar Farinetti, che con il suo marchio Eataly incarna la figura dell’imprenditore di successo, ma che non disdegna la dimensione del gusto, del paesaggio italiano impregnato di cultura e di memoria. Tale è la diffidenza nei confronti degli incerti contorni culturali di Renzi che un anno vollero attribuirgli anche la parentela ideologica con i Righeira (i due di «Vamos a la playa»), anche a costo di capovolgere il senso di una paradossale citazione. Renzi voleva dire: ci sono esponenti del Pd in divisa da parlamentare dai tempi dei Righeira, cioé un’era geologica fa. E invece, il giorno dopo: Renzi colloca i Righeira, nel suo Pantheon. Nel suo Pantheon immaginario, allora ci sarebbe anche Mary Poppins, citazione vintage che effettivamente sembra lasciar trapelare nella figura di Renzi un desiderio di sognante protezione. E c’è di diritto anche l’atleta Fosbury che rivoluzionò, decollando di schiena anziché frontalmente, le modalità del salto in alto, e che Renzi lascia ammirare dai suoi seguaci come l’esempio di una novità pazzesca, di una rottura degli schemi e dei canoni che consente performance sportive, e dunque umane, prima impensabili.
Nei sacerdoti della tradizione, queste fugaci citazioni dovrebbero comporre il Pantheon di Renzi composto dalla triade Mary Poppins-Righeira-Fosbury. Ma è solo nostalgia di un pensiero forte che diffida del pensiero debole, frammentario, veloce, spregiudicatamente predatorio di cui Renzi è anagraficamente e politicamente il campione. Gli scrittori nemici di Alessandro Baricco dicono: vedete, non fidatevi di Renzi che ha Baricco nel suo Pantheon. E gli orfani della cultura voluminosa, tipo le Opere Complete di Marx ed Engels dicono: guardate, ha messo la blogger tunisina Lina nel suo Pantheon, il solito fighetto di Twitter.
E non dicono che se esiste un padre spirituale veramente idolatrato da Renzi, è alla figura di Giorgio La Pira che bisogna pensare. A La Pira Renzi ha dedicato la sua tesi di laurea, di La Pira è successore come sindaco di Firenze, nei suoi discorsi ricorre spesso il Nuovo Pignone come esempio (raro) di privatizzazione ben riuscita, e la storia di La Pira è inestricabilmente intrecciata con quella degli stabilimenti del Nuovo Pignone. Non è una storia della sinistra di quelli che si ritengono depositari unici dei valori della sinistra, e quindi è poco amata. Perciò: fuori dal Pantheon.

Corriere 11.12.13
L’«asse populista» spinge alla cautela il Pd di Renzi
di Massimo Franco


Per ora, il patto prevede una convivenza affidata a due percorsi paralleli: a Matteo Renzi il compito di rifare il Pd e a Enrico Letta quello di governare. Fino a quando rimarranno distinti, o almeno non conflittuali, la legislatura andrà avanti. Il traguardo che avrebbero concordato presidente del Consiglio e segretario del partito sarebbe il 2015. Ma se la caduta del Pil si è davvero fermata, come annuncia l’Istat, e la situazione economica migliorerà, sarà difficile ipotecare il futuro. Il pericolo che forse è stato messo tra parentesi sono le elezioni anticipate nel 2014. Ieri il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, lo ha ribadito con una chiarezza che frustrerà i fautori di una crisi ravvicinata.
«Le elezioni», ha detto, «non sono dietro l’angolo, per quanto sia molto di moda invocarle». Non significa escludere imprevisti. La leadership di Renzi ha avuto la consacrazione delle primarie con il mandato chiaro a modificare anche l’agenda governativa. Le parole del presidente della Repubblica vanno dunque lette soprattutto come la conferma di un impegno a evitare lo scivolamento verso le urne; e a non permettere che la coalizione guidata da Enrico Letta sia destabilizzata dall’interno. Quando il ministro Mario Mauro avverte che «nessuno può pensare di tenere in ostaggio il governo», allude a questo.
D’altronde, sono gli stessi renziani a mostrare un volto meno bellicoso nei confronti di palazzo Chigi. Quando si ha davanti un Beppe Grillo che con parole irresponsabili chiede alla polizia di non proteggere più «questi politici» e incita a una sorta di insurrezione delle forze dell’ordine, mentre lievita la rabbia dei cosiddetti «forconi», l’allarme cresce. Tanto più perché una Forza Italia «di lotta» usa strumentalmente ogni vagito antigovernativo contro gli ex ministri del Pdl.
Silvio Berlusconi oggi incontrerà una delegazione degli autotrasportatori in sciopero nella sede del partito. La premessa è che le manifestazioni non sono solo un problema di ordine pubblico. Ma in realtà Grillo e Berlusconi «sono populisti che lisciano il pelo alla protesta», li bolla il renziano Angelo Rughetti. D’altronde, se a uno schieramento antigovernativo così agguerrito si aggiungesse la voce dei nuovi vertici del Pd, Letta sarebbe sull’orlo della crisi. Per questo Renzi si mostra cauto e responsabile. Il sindaco di Firenze comincia a rendersi conto di avere di fronte una realtà precaria, da non aggravare. E, intercettando resistenze nelle stesse file del Pd dopo la vittoria di domenica, capisce che non può forzare.
Per paradosso, l’«asse populista» Fi-M5S cementa il governo. E Renzi deve assumere il controllo come minimo dei gruppi parlamentari del partito, prima di occuparsi di palazzo Chigi. Già spuntano le ironie sulla fine delle correnti, annunciata dal segretario. L’accusa di esponenti della vecchia guardia come Rosi Bindi è di avere privilegiato nelle prime scelte solo i fedelissimi. Sono i contraccolpi di una competizione dura. Resta da capire come si svilupperà la metamorfosi del Pd evitando scossoni al governo, che oggi chiederà la fiducia del Parlamento. La riforma elettorale sarà un banco di prova. Senato e Camera se la contendono, ma la vera contesa è dentro i partiti.

Corriere 11.12.13
Nascita e vittoria di un nuovo leader
Ma ora arrivano i conti con la realtà
di Michele Salvati


Caro Matteo, concludevo un articolo a te dedicato (Corriere, 22 ottobre) con un verso del tuo grande concittadino: «Qui si parrà la tua nobilitate». In realtà di nobilitate, come politico puro, ne hai già dimostrata molta, e la vittoria nelle primarie lo conferma.
Non hai seguito consigli interessati («Non presentarti alle primarie per la segreteria del partito, presentati solo a quelle per la candidatura a capo del governo… quando sarà il momento»).E non hai seguito consigli sbagliati, come quello che ti avevo dato io in occasione delle ultime elezioni («presentati come Lista Renzi alleata al Pd, proprio come fa Sel sul lato sinistro: svuoterai il Pd di Bersani, certo, ma avrai un grande successo e l’insieme risulterà vincente»). Era un consiglio che ti davo a malincuore, ma avevo perso ogni speranza che il Pd, nelle mani di un sindacato di controllo iper conservatore, potesse mai diventare il partito di sinistra moderna per il quale mi ero speso.
Anch’io avevo creduto nel Pd, come intellettuale prestato alla politica. E, da bravo intellettuale, avevo tenuto nota delle mie battaglie. Quelle dentro il Pds, i Ds e l’Ulivo dal 1996 al 2001 — in sintonia con Andreatta, Prodi e Parisi sul versante cattolico — le ho raccontate in un libro:
Il partito Democratico: all’origine di una idea politica , Il Mulino, 2003. Finito il prestito alla politica e ripreso il mio mestiere, sono tornato più volte a ribadire la mia idea di Partito democratico. Ad esempio nel libro Il partito democratico per la rivoluzione liberale , Feltrinelli, 2007, nonché in un lungo articolo che fece scalpore, soprattutto perché pubblicato
su Il Foglio , «Appello per il partito democratico» (10/4/2003): è qui che
sono andato vicino alla tua idea di rottamazione, quando consigliavo a D’Alema e Marini, che dall’interno dei Ds  e dei Popolari remavano contro, a fare un passo indietro. Ma gli avversari politici, quando sono tosti, non si consigliano, si sconfiggono, ed è questo che hai fatto, caro Matteo, da vero politico. Io, dopo l’ultima battaglia per Veltroni, mi ero scoraggiato e solo ora sta tornando un po’ di speranza.
Adesso però viene la parte difficile del tuo lavoro, quella in cui dovrai mostrare una «nobilitate» ancor maggiore. Nobilitate  da politico oggi, già nelle prossime settimane. Nobilitate da statista dopo, se riuscirai ad arrivare alle elezioni e le vincerai. Non mi soffermo sulle difficoltà dell’oggi, aggravate da una sentenza della Corte che sembra tracciare una via facile per un sistema elettorale proporzionale:
i giornali te le ricordano un giorno sì e l’altro pure. Come può reagire un politico che si è sempre speso per un sistema maggioritario? Al cui progetto un sistema maggioritario è essenziale? La via di un’alleanza con Berlusconi e Grillo è impercorribile: spaccherebbe il partito che hai appena conquistato e lo metterebbe in balia di soggetti inaffidabili. Ma riuscirai ad ottenere da Napolitano e Letta, e soprattutto da Alfano, un impegno serio e in tempi rapidissimi per un maggioritario decente, e un impegno altrettanto serio per avviare il lungo processo necessario alla riforma costituzionale del Senato? Riuscirai a ottenerlo in questo Parlamento, del quale dubito che i leader appena menzionati, e tu stesso, abbiate il controllo?
Se riuscirai a trovare una via d’uscita, ad arrivare alle elezioni con un sistema maggioritario, i problemi più duri verranno dopo e riguarderanno il programma elettorale e poi, se vincerai, la tua attività di governo. Troppo lontano e incerto quel momento? Non credo. In realtà, oltre all’impegno a voltar pagina nel partito, tu hai parlato quasi solo di questo nel tuo discorso di Firenze: sembrava l’inizio di una campagna elettorale, contro Grillo e le destre. Sembrava di sentire parlare un leader americano o inglese, che al loro partito o all’intero Paese rivolgono lo stesso discorso. Il tuo era di entusiasmo e di speranza, simile a quello di Veltroni nel 2008. Ma allora la crisi finanziaria americana era appena scoppiata e non se ne misuravano le conseguenze. Né si aveva idea di quanto profonde, e difficili da rimediare, siano le debolezze del nostro Paese. Oggi tener insieme realismo e speranza, proposte adeguate alla gravità della crisi ed il continuo consenso necessario a sostenerle, è ancor più difficile di allora. Predicare sudore e lacrime, invocare sacrifici, non è mai stato un buon modo per vincere le elezioni, ed in particolare per entusiasmare cittadini animati da disprezzo e rancore contro i politici. A meno che un gran numero di loro siano disposti a fare eccezione per te
e tu riesca a convincerli che le promesse altrui sono ingannevoli, che tu sei diverso dagli altri, le tue possibilità di successo sono scarse.
Ma non voglio fasciarmi la testa pensando alle difficoltà del domani, del domani immediato e del domani futuro e possibile, e voglio restare ancora per un poco nello stato d’animo che ieri ha suscitato in me la notizia della tua vittoria nelle primarie. Una vittoria della politica — di destra, centro o sinistra che sia — e non solo del Partito democratico.

Repubblica 11.12.13
Il simbolo dell’apparato Ugo Sposetti viene consolato al Senato
“La scissione? In giro non vedo nessun Bordiga”
“Condannati a perdere, io però non me ne vado”
intervista di Concetto Vecchio


ROMA — Nessuno vuole mancare al rito della grande consolazione. Pacche sulle spalle, buffetti, «stamattina ti ho letto», frasi sussurrate nell’orecchio, passa come una marescialla Linda Lanzillotta e senza fermarsi gli dice: «Ugo, non te la prendere». Il compagno Sposetti, uno dei dirigenti dell’Apparato sconfitto domenica, si liscia i baffi, accomodato in una poltrona al Senato. Deve pensare che anche la sconfitta ha il suo miele.
In molti sostengono che finirà con una scissione.
«Sarà, ma non vedo in giro nessun Bordiga».
Lei che farà?
«E dove vuole che vada? Il Pd è il mio partito. Guardi qui, questa è la tessera, ce l’ho sempre con me da 45 anni, la prima la feci nel ‘68, c’era Longo segretario».
E adesso, per uno come lei, è tutto finito?
«Eh, non mi faccia passare per uno che ha delle malinconie. A gennaio voglio la tessera nuova, firmata dal segretario. Non solo ma a quel giovane dell’Organizzazione...».
Lotti?
«Lui. Mi sta simpatico. Vorrei dirgli che la tessera non può costare venti euro per me, che prendo l’indennità da senatore, e il pensionato con la minima. Io devo versare molto di più. La tessera deve costare quanto una giornata di lavoro. Solo così si finanzia il partito. A meno di voler considerare l’iscritto un marginale, un incidente ».
Come spiega il naufragio della sinistra?
«Non poteva che finire così. Un anno fa, dopo le primarie, eravamo i padroni d’Italia, solo che poi abbiamo scoperto che gli italiani non la pensavano così. Quindi abbiamo gestito in quel modo la partita del Quirinale, costretti ad andare in ginocchio da Napolitano. Lunga vita a Napolitano, eh! Infine, le larghe intese».
Per Renzi non è la fine della sinistra, ma del vecchio gruppo dirigente. Le ha fatto male?
«Ma io non sono mica classe dirigente».
Come no?
«Renzi mi fa male quando attacca i sindacati, o quelli che hanno lavorato duramente per 45 anni, mala sinistra è qualcosa che sta nella testa della gente. Si ricordi: un partito forte ha bisogno della sinistra».
Blair dice che è una speranza per l’Italia e l’Europa.
«Ma Blair, a differenza sua, a suo tempo venne eletto solo dagli iscritti, e tra gli iscritti Renzi ha preso il 45 per cento, non il 68. Siamo gli unici che eleggiamo un segretario in questo modo, ma tant’è».
Cosa non le piace di Renzi?
«È il mio segretario».
Non sia diplomatico.
«Mica ci devo andare in vacanza. Comunque una cosa c’è che ci lega, ed è bellissima: la Fiorentina ».
La convince la nuova segreteria?
«Bene la maggioranza di donne, ma non li conosco tutti: ad ogni modo, buon lavoro».
Renzi l’ha convocata alle sette del mattino.
«Sì, ma le risposte vere bisogna darle sulla legge di stabilità, ai pensionati, ai giovani, sulla scuola, cominciando col bocciare quella legge sugli stadi-cemento. Quello è il primo cimento. E poi la legge elettorale, che per fortuna non si fa con un comizio, ma trovando una maggioranza larga in Parlamento ».
È soprattutto la sconfitta finale di D’Alema?
«Con D’Alema voi giornalisti siete volgari. Resta un leader apprezzato, in Italia e all’estero. Nel ‘96 Prodi vinse grazie a un capolavoro di D’Alema. Ma nessuno ricorda niente, siamo un Paese senza memoria».
Lei, da tesoriere, gestisce ancora il patrimonio dei Ds: vale un miliardo.
«Non è un miliardo, è il frutto delle fatiche di generazioni di militanti del Pci, del Pds, dei Ds. Ed è in queste sedi oggi il Pd svolge la sua attività».
Non ha paura di perdere la Fondazione con tutti i beni?
«Ho ancora 22 dipendenti, e sono il mio primo pensiero. Dopodiché chi la vuole deve prendersi anche i debiti».
Senatore Sposetti, per finire: che consigli dà a Renzi?
«(Ci pensa). Forse un proverbio cinese che Macaluso cita nel libro su Togliatti: quando bevi l’acqua dal pozzo ricordati sempre di chi l’ha scavato».

Repubblica 11.12.13
Mercato del lavoro, precari e articolo 18 dietro al fair play è già sfida tra Renzi e Cgil
Gutgeld rilancia il contratto senza reintegro. L’asse sindaco-Landini
di Roberto Mania


ROMA — «Siamo sopravvissuti a Berlusconi, sopravviveremo anche a Renzi se dovesse decidere di esacerbare il confronto», dice Vincenzo Scudiere, segretario organizzativo della Cgil, il braccio destro di Susanna Camusso. Già, ma Berlusconi era il capo del centrodestra, Matteo Renzi è il nuovo segretario del Pd, cioè del partito del centrosinistra, nato soprattutto dalle ceneri del Pci. Questa è la novità. Un inedito per i rapporti tra politica e sindacato. Tanto che per la prima volta da quando si tengono le primarie il segretario generale della Cgil, cioè Susanna Camusso, non è andata a votare, nonostante la tessera del Pd in tasca. È rimasta a casa per mantenere le distanze, per marcare l’indipendenza. Ma anche perché ben sapeva che quel voto avrebbe comunque segnato una frattura con il passato. Uno spartiacque. Per questo ha evitato di schierare la confederazione, diversamente dai pensionati Cgil che hanno scelto Cuperlo. Anche se — va da sé — molti iscritti alla Cgil hanno votato per Renzi, altrimenti non si spiegherebbe il clamoroso successo del sindaco di Firenze nelle regioni rosse, proprio dove è più capillare la presenza del sindacato. E ieri la Camusso ha detto: «Lo sciopero generale forse non basta più, non può più essere l’unica modalità in cui si determina il conflitto».
Renziani e cigiellini, ora, si studiano da lontano con apparente fair play. Con dichiarazioni concilianti, di disponibilità e interesse al confronto. Ma dietro le quinte ci siprepara alla sfida. Su un terreno delicatissimo: quello del lavoro e dei diritti. Perché il Pd renziano — anche ieri con il responsabile dell’economia Filippo Taddei — ha già indicato una priorità: superare il dualismo nel mercato del lavoro. Dice Yoram Gutgeld, matematico- economista, molto ascoltato da Renzi: «Finora c’è stata una specie di alleanza tra imprese e sindacati che ha lasciato fuori i giovani. Ora bisogna rompere questo schema ». Come? Per i giovani Gutgeld propone un contratto unico a tempo indeterminato ma senza l’articolo 18, cioè senza il diritto al reintegro. Il superamento della precarietà sarà centrale nella strategia di Renzi. E questo spiega la scelta di Marianna Madia come responsabile del lavoro. Finora le politiche per il lavoro del Pd sono state ispirate da Cesare Damiano, ex sindacalista della Fiom. Significativamente Damiano ha sostenuto Cuperlo rompendo l’antico sodaliziopolitico che lo legava a Piero Fassino che invece ha scelto Renzi. La Madia è giovane e si è occupata sempre di precarietà. In una posizione mediana tra le ricette del giuslavorista Pietro Ichino e gli ortodossi di sinistra. Il suo buon rapporto con la Cgil fa pensare che non si intenda cercare lo scontro. Per quanto alla Camera un renziano di ferro come Dario Nardella, già vicesindaco di Firenze, ha presentato un emendamento alla legge di Stabilità che prevede il taglio del 90% dei distacchi e dei permessi sindacali retribuiti nel pubblico impiego per dirottare le risorse al fondo per la non autosufficienza e ai malati di Sla. Non proprio un gesto d’amore per i sindacati.
«Il rapporto con la Cgil e questo Pd — sostiene Gutgeld — è ancora tutto da scoprire». Anche se c’è l’esperienza di Firenze. «Dal punto di vista delle relazioni sindacali i rapporti con Renzi non sono stati per nulla buoni», dice Mauro Fuso, segretario della Camera del lavoro fiorentina. «Renzi ci ha detto che lui non concertava niente e che piuttosto i concerti li avrebbe organizzati a piazza del Duomo. Cosa che poi ha fatto». La concertazione, comunque, è finita con il governo Monti. E tra chi non ha rimpianti per la triangolazione governo- sindacati-imprese c’è di certo Maurizio Landini, leader della Fiom. Così che c’è chi pensa che Renzi possa immaginare di costruire un asse privilegiato proprio con Landini, per schiacciare la Camusso. Tattica. Certo domani Landini e Renzi saranno insieme a Firenze a un convegno promosso dalla Fiom, mentre oggi il segretario del Pd non ci sarà alla presentazione di un libro sulla precarietà alla quale la Camusso l’aveva invitato. Coincidenze, probabilmente. Di Landini Gutgeld dice che «nel suo mondo rappresenta una rottura». Il Renzi della Cgil, insomma. Tant’è che è stato Renzi a rilanciare le critiche del segretario della Fiom allo stesso sindacato: «Se non cambia, muore», disse. Dall’Obihall di Firenze, il neosegretario ha proposto al sindacato di «cambiare insieme». Ma «la verità — secondo Giorgio Cremaschi, capo della minoranza Cgil “Rete 28 aprile” — è che questa Cgil ha paura di Renzi. Il quale, se solo volesse, potrebbe affondare il coltello nella crisi della Cgil come nel burro. È una Cgil senza identità che va avanti solo per inerzia burocratica ». E Landini? «È un Renzi che rinuncia a fare le primarie. Infatti ha fatto l’accordo con la Camusso ».

Yoram Gutgeld, 54 anni, israeliano naturalizzato italiano, è il consigliere di Renzi per l’economia.
Eletto deputato, ha criticato tra l’altro la scelta del governo di abolire l’Imu

Repubblica 11.12.13
Il vizio dell’8 settembre
di Barbara Spinelli


PRIMA ancora che Matteo Renzi vincesse le primarie, era chiaro che la stabilità intesa come valore assoluto era una cornice vuota, senz’alcun dipinto dentro. Giaceva a terra, come il potere dei vecchi regimi che i rivoluzionari raccattano facilmente. Il nuovo segretario del Pd gli ha assestato il colpo di grazia, domenica a Firenze («ai teorici dell’inciucio diciamo: v’è andata male») e in un baleno il mondo di ieri è apparso ingrigito, obsoleto.
È così anche se Renzi non sarà che schiuma delle cose. Già da tempo in Europa son fallite le strategie anticrisi che come fondamento hanno scelto la sospensione della democrazia e dell’idea stessa di conflitto, sociale o politico. Anziché spegnersi, la crisi s’è acuita. Perfino ilWall Street Journal,in nome dei mercati, ha scritto il 24 novembre che i toni sempre bassi, i compromessi tra oligarchi, la pacificazione come dogma, prefigurano la «stabilità dei cimiteri». Continueranno a prefigurarla se Renzi non oserà un’autentica resa dei conti con Letta, e si consumerà in trattative, rinvii presto sgualciti, fiducie concesse avaramente, ma pur sempre concesse.
Il suo tempo è brevissimo, perché enorme è la forza d’inerzia dei vecchi regimi, anche se incartapecoriti. Possiedono l’energia del corpo che non cessa di gorgogliare anche dopo morto, come nell’Illustre
Estintodi Pirandello: sottosegretari deputati e curiosi s’affollano nella camera ardente, e nel silenzio quasi sacro della scena può accadere l’inatteso: «Un improvviso borboglìo lugubre, squacquerato, nel ventre del cadavere, che intronò e atterrì tutti gli astanti. Che era stato? —Digestio post mortem,— sospirò, dignitosamente in latino, uno di essi, ch’era medico, appena poté rimettersi un po’ di fiato in corpo».
Il che vuol dire: nel ventre d’Italia tutto è ancora possibile, anche il borboglìo squacquerato che inneggia alla stabilità degli inciuci, e questo per il semplice fatto che il Paese vi sta rannicchiato da anni. Dante avrebbe detto, con i suoi magnifici neologismi: s’è in-ventrato nella stabilità oligarchica. Con linguaggio più moderno l’ultimo rapporto del Censis — presentato il 6 dicembre — usa metafore identiche. Narra un’Italia imbozzolata, senza «sale alchemico»: «sciapa, infelice », cerca riparo nella Reinfetazione.
Reinfetazione è quando ti rifai feto: torni nella pancia, il cordone ombelicale ti tiene al guinzaglio.
Finché non nasci, resti stabile tu e anche chi comanda: «Con annunci drammatici, decreti salvifici, complicate manovre, la classe dirigente si presenta come l’unica legittima titolare della gestione della crisi» (Censis). È il dispositivo, al tempo stesso disciplinatore e rasserenante, che il pacificatore Napolitano coltiva da anni. Nella reinfetazione, scrive De Rita nel suo 47° rapporto, tutti i soggetti politici, i rappresentanti, le forze sociali, vivono «in stato di sospensione nelle responsabilità del Presidente della Repubblica». Vogliose, ma incapaci di «tornare a respirare».
Questo teorema avvizzisce d’un colpo: in realtà la reinfetazione «riduce la liberazione delle energie vitali. Implica il sottrarsi alle proprie responsabilità dei soggetti». Usa crisi e paure per salvaguardare il potere di poche, chiuse cerchie. Riduce e demonizza il conflitto, quando dovrebbe invece considerarlo sale della rinascita. Tradisce le speranze in Rodotà o Prodi. È probabile che gran parte degli elettori, votando Renzi e anche Civati (82%, insieme), più che un nuovo capopopolo abbia cercato precisamente questo: uscire dal ventre, chiudere l’era fetale, e fatale, cara a Napolitano. Riabilitare il conflitto, a cominciare da quello contro le larghe, strette, o larvate intese. Non sappiamo fino a che punto Renzi ne sia conscio. Se non lo è non gli basterà la veduta lunga consigliata da Fabrizio Barca. Entro un anno sarà sfinito.
Il rapporto del Censis non è stato il solo segno precursore. Non avremmo i sussulti odierni, senza la scossa di 5 Stelle. E anche la Corte costituzionale ci ha messo del suo, il 4 dicembre, abolendo un
Porcellum carezzato per 8 anni dalla classe politica. È vero, nel gennaio 2012 proprio la Consulta bocciò il referendum col ritorno al Mattarellum chiesto da 1,2 milioni di cittadini. È innegabile, essa ci restituisce il grado zero della democrazia (la proporzionale). Ma mette i politici davanti alla verità e dice: volutamente avete preferito regole che hanno promosso i rappresentanti dei partiti anziché dei cittadini, allargando la faglia tra voi e loro, e questo lo dichiariamo illegittimo. Se non vi date da fare, avrete il proporzionale come nella Repubblica di Weimar. Una iattura? La questione è controversa, tra gli storici tedeschi: se Hitler vinse, sostengono molti, la colpa non fu solo del proporzionale.
Zagrebelsky ricorda giustamente che lo Stato continua, dopo la sentenza. Ma Stato non è sinonimo di governo. E il Parlamento attuale, pur non annullato, di fatto è «delegittimato dal punto di vista democratico »(Repubblica 8-12). Si è delegittimato lasciando che il gong, ogni volta, venisse suonato da fuori: da outsider come Grillo, i magistrati della Consulta, gli elettori dei referendum. Anche qui il Censis parla chiaro: la salvezza, anche economica, verrà dagli esterni. Dagli immigrati che si fanno imprenditori con più lena degli italiani, dalle donne che fondano aziende, persino dai giovani che fuggono all’estero e si riveleranno una risorsa. Tutti costoro, e tutti i movimenti cittadini di protesta, sono come un esercito straniero di liberazione: pronti ad approdare in Italia come le truppe anglo-americane in Sicilia e Calabria nel luglio e settembre ’43.
È uno sbarco generalizzato — Grillo ha dato il via, poi son venute la Consulta, le parole del Censis, le euforiche primarie — e per forza il popolo è «allo sbando», come l’8 settembre ’43 all’armistizio. Colpisce che l’espressione — Paese sbandato— appaia in tanti commenti di questi giorni. L’aveva usata Elena Aga Rossi, nel bel libro sulla fine della guerra (Una nazione allo sbando,2003). Furono anni di viltà, doppiezze furbesche: così affini agli anni presenti. Il governo Badoglio ordinò la resa agli alleati, ma senza rompere l’inciucio col socio nazista. Il giorno dopo fuggì col Re consegnando ai tedeschi due terzi dell’Italia, Roma compresa.
Seguì una reazione disperata del Paese, caotica. I più tornarono a casa senza battersi, e però la patria non morì: il 9 settembre nacque il Comitato di liberazione, e furono tanti i militari che rifiutando la doppiezza combatterono Hitler. Tuttavia il caos poteva esser risparmiato, se la rottura con il fascismo fosse stata netta. Se non fosse perdurata l’abitudine a restare nel suo ventre, areinfetarsi.Ne nacquero film come Tutti a casa di Luigi Comencini, o ancor piùVita difficiledi Dino Risi. Il protagonista di quest’ultimo — impersonato da Sordi — senza fine narra il nostro sperare e disperare, credere e sbandare. I suoi urli d’ira sulla litoranea di Viareggio, contro il Paese che ha tradito lui e la Resistenza, esplodono tali e quali in questi anni, questi giorni. Il voto a Renzi è l’ultimo della serie.
È una vittoria che molti (Renzi stesso, magari) vorrebbero usare a piacimento: per emarginare e silenziare le grida di cui è figlia. Troppo presto forse Enrico Letta ha detto: «Non è un voto contro di noi. È un argine contro il populismo e la deriva distruttiva, estremista» di Grillo, più che di Berlusconi. Il senso del voto è in mano a Renzi. Non mente quando dice: l’urlo dei Vday è altro dalle primarie. Ma nella sostanza è simile quel che muove ambedue: la rabbia, la sete di rigenerazione. Ignorarlo è rischioso, non solo per lui.
È rischioso anche per l’Europa, bisognosa di scosse simili. Non per scaricarla (lo Stato del tutto sovrano è imbroglio) ma per edificare, questo sì, una vera Comunità.

l’Unità 11.12.13
Camusso: «Lo sciopero generale non basta più»
di Felicia Masocco


ROMA È cambiato il lavoro, è cambiato il mercato del lavoro, anche le forme di conflitto possono cambiare. Soprattutto con la crisi che c’è. È Susanna Camusso, leader del maggiore sindacato, a dire che lo sciopero generale non può più essere considerata «l’unica modalità in cui si determina il conflitto sul tema del lavoro». «In una stagione complicata come questa, dove la Cgil di scioperi generali ne ha fatti molti» (anche da sola) è ora di «sperimentare», afferma, per identificare nuove «forme altrettanto efficaci e non esclusive che abbiano la capacità di identificare l’elemento di unificazione del mondo del lavoro».
Esclusività, segmentazione: la prima viene invocata da chi ama contrapporre garantiti (sempre di meno) a non garantiti (sempre di più), la seconda descrive un mondo del lavoro che di monolitico non ha più nulla, anzi. La progressiva precarizzazione, la parcellizzazione anche dei luoghi dove si svolge l’attività, impongono al sindacato di ripensare gli strumenti di rappresentanza e anche quelli di lotta perché solo per fare un esempio chi ha un lavoro con un contratto non standard non è poi così libero di rispondere alla chiamata di uno sciopero, l’incertezza pesa. Lo sciopero generale, attualmente «è considerato uno strumento solo dei lavoratori tradizionalmente organizzati», spiega Camusso. Per questo non può più essere considerata come unica forma di protesta.
INTANTO SI PROTESTA
Non solo. La crisi ha prodotto eserciti di cassintegrati e ha espulso dal mercato centinaia di migliaia di persone. È di ieri la notizia dell’Inps dell’aumento del 31% delle domande di disoccupazione nei primi dieci mesi dell’anno. La maggior parte proprio in aziende più strutturate e, appunto, «organizzate». «Bisogna fare i conti con la difficoltà economica dei lavoratori, con le tante differenze tra chi ha il lavoro, chi è in cassa integrazione e chi è disoccupato. Quindi l’idea di una forma» di protesta «che riguarda solo una parte del mondo del lavoro non è sufficiente».
Il segretario della Cgil ha parlato ieri a Bologna, in un seminario promosso dalla Fondazione Claudio Sabattini, storico leader della Fiom. Ci si interroga, infatti, anche in casa dei metalmeccanici, la categoria più combattiva, quella che più e più volte ha incalzato la confederazione spesso in contrasto con essa a mettere in campo uno sciopero generale.
Si parla già di «svolta»: di certo c’è l’avvio di una riflessione, ma nessuno in Cgil o in Fiom ha in mente di archiviare lo sciopero come forma di lotta, né quello generale, né quelli di categoria. Basta dare un’occhiata alle proteste (unitarie) dei prossimi giorni: gli edili si fermano dopodomani, per il nuovo contratto visto che il vecchio è scaduto da un anno. Per il 16 dicembre è stato confermato lo sciopero del trasporto locale: anche qui il contratto è scaduto e il settore attraversato da molte fibrillazioni e da una voglia matta di privatizzare richiede una profonda riorganizzazione. Si sciopera ancora nelle singole fabbriche e distretti: insomma lo sciopero non è vinto, ma ha bisogno di validi alleati.

l’Unità 11.12.13
A Torino la Fiom blocca la protesta: «Solo nichilisti. La nostra crisi è reale»
Il segretario Fiom di Torino «È un movimento variegato, non va semplificato. Vedo sì teste rasate e fascisti, ma c’è di tutto»
Il movimento dei forconi, un’analisi
di Carlo Guassone


Vedendo il dibattito acceso, e mosso da più parti da valide ragioni, volevo porre l’attenzione su alcuni punti particolari: voi da chi avete saputo di questa mobilitazione? Sapete che inizialmente tutto era partito da un annunciato sciopero degli autotrasportatori, sciopero revocato 7 giorni fa in quanto il governo ha accolto tutte le richieste dei suddetti autotrasportatori? Benissimo, questo è un punto importante. Quanti di voi sanno con precisione che cos’è e da chi è composto il movimento dei forconi? Siete al corrente dei casi violenti occorsi due anni fa, all’emergere del suddetto movimento? Siete al corrente delle ingerenze di Casapound e forza nuova su tutte in quel che sta accadendo in questi giorni? .... Qualcuno poi s’è preso la briga di pensare alle persone che magari hanno un lavoro precario che serve loro, e che non possono permettersi né di mancare al lavoro, né di arrivare in ritardo? Che poi i violenti siano stati pochi, a me non interessa: una pretesa rivolta che si pone come obiettivo le dimissioni dell’intera casta politica per ricominciare da zero in nome della Costituzione è lampante quanto sia campata in aria e concepita da cerebrolesi. L’affermazione seguente che tira in ballo un ipotetico governo «istituzionale» (ignoranti, come sarebbe un governo «non istituzionale», scusate?) retto da un leader delle forze dell’ordine non vi mette neanche una briciola di paura? Non tiriamo in ballo gli aumenti dei trasporti, che sono avvenuti in Piemonte. Perché se questa è una rivolta del «popolo italiano» non è una rivolta del Piemonte.
La democrazia ha regole precise, concede il diritto a manifestare il dissenso, stando però all’interno dell’ordine, delle leggi, e del rispetto del prossimo; molto bene, pure io sono molto dubbioso circa la bontà di questa forma di Stato, tuttavia il mio dissenso allora lo esprimo in maniera netta e radicale e riferito al concetto politico, non ad una casta di politici (che sono individui, non sono istituzioni). Se invece io attacco le Istituzioni, non posso farlo in nome dei diritti dei cittadini e in nome della Costituzione. Questo è successo oggi: un gran pandemonio basato su tante idee confuse che si sono mischiate tra loro: nazionalismo, campanilismo, xenofobia, antipolitica. In ultima istanza, questi signori del coordinamento 9 dicembre hanno definito l’Anpi come «pretendente al monopolio del dissenso organizzato». L’Anpi, come tutti sappiamo, è l’associazione nazionale partigiani italiani, la quale si occupa di tenere viva la memoria della resistenza e della vittoria sul fascismo, per evitare il ritorno di regimi dispotici e totalitari.... Il disordine e la non chiarezza, la disorganizzazione e la non identificazione di mobilitazioni di massa sono storicamente preludio perfetto per evoluzioni sempre poco gradevoli.

il Fatto 11.12.13
Giuseppe Roma Il direttore del Censis
“L’onda lunga della crisi unisce chi è diverso”
di Chiara Paolin


Capire i Forconi, stabilire identità e forze in campo, è mestiere duro anche per un sociologo. Giuseppe Roma, direttore del Censis, un aiutino ce l’ha: nel Rapporto sulla società italiana appena stilato c’è la fotografia dell’Italia sbriciolata, frustrata dalla crisi e pronta a seguire un filo nuovo di connessione alla realtà.
É l’Italia dei forconi?
É l’Italia di chi ha tenuto duro fin qui, ma adesso si sente solo davvero. In pericolo.
C’è una matrice politica, di Destra?
É un sistema complesso in cui i movimenti politici possono ottenere un ruolo guida, ma la spinta vera è personale, intima. Non si tratta di populismo nè di qualunquismo: stavolta lo scenario è originale. Stavolta c’è una crisi economica che ha esaurito la sua corsa al ribasso mentre una variegata componente sociale si rende conto delle conseguenze dirette sulla propria esistenza.
Incertezza, paura del futuro.
Andiamo sul concreto: gli autotrasportatori avevano avanzato una serie di richieste e sono stati ricevuti dal ministro, hanno ottenuto alcuni risultati immediati e un’attenzione non così comune in passato. Eppure i tir continuano a bloccare le tangenziali e le aree industriali.
Cosa vogliono davvero quelli che manifestano?
Scaricare la rabbia, innanzitutto. Dimostrare a tutti che esistono, e che la politica li ha insultati a lungo. Per il resto le richieste restano vaghe, le proteste pure: dalla finanza globale a Equitalia, dai cinesi che espropriano le attività commerciali alle mancate politiche su industria e agricoltura il mescolone frulla tutto. E il problema è proprio questo: un gruppo così eterogeneo non può darsi un obiettivo comune.
Durerà molto o poco?
Nessuno può dire ora come evolverà la situazione, chi avrà voglia di cavalcare la protesta e con quale scopo. Quando parte un movimento come questo, le strade sono tante. La piazza in un certo senso si genera da sè, si riproduce secondo logiche emulative ed emotive: può degenerare e diventare un problema molto serio, o morire un po’ alla volta per aspettare il prossimo exploit.
Il governo è in grado di dire o fare qualcosa per incidere?
Gli ultimi due governi hanno licenziato un provvedimento al giorno, quindi in teoria sono stati attivissimi nel reagire all’emergenza. In pratica, solo una minima parte di quel lavoro è andata a buon fine perchè i decreti attuativi non arrivano a fine corsa. Risultato finale: la mole enorme di interventi ha avuto un effetto irrisorio sulle condizioni sociali.
Grillo o Renzi sono interlocutori possibili?
Difficile incanalare tutta questa rabbia in un contenitore tradizionalmente politico. Sono forze che entrano ed escono da aree d’influenza in modo instabile. E poi consideriamo che il mondo della politica non è l’orizzone comune a tutti i cittadini. Il 56 per cento degli italiani non pratica alcun tipo di partecipazione civica.
Eppure ci sono anche fasce colte tra i manifestanti.
Vero. Per esempio chi sta idealmente dalle parti di Grillo esprime un timore ben preciso: sono insegnanti, ricercatori, giovani professionisti senza prospettive chiare sul lavoro, la casa, la famiglia. Una upper class della middle class che non va per strada a lanciare fumogeni ma condivide il messaggio generale: cambiamento radicale della scena pubblica, pulizia nella politica, lotta agli sprechi e nuova giustizia sociale.
Dai pastori agli ingegneri il passo è breve.
Il tema è la globalizzazione, i suoi costi, la durezza di un mondo che dovendo allargare geografie e diritti sacrifica tutele fin qui scontate nel mondo occidentale. Adesso che la rete familiare cede, che la cassa integrazione finisce, che le istituzioni traballano, trovare un appiglio diventa un’esigenza disperata.

il Fatto 11.12.13
Cinzia Franchini (Fita)
“Troppi in piazza. Impossibile senza soldi e una regia politica”


“DIETRO AI FORCONI ci deve essere una regia politica”. Parla Cinzia Franchini, presidente degli autotrasportatori della Fita. Dal movimento dei Forconi, lei e la sua associazione si sono smarcati subito. A costo di subire pressioni e minacce. “Le prime sono arrivate in occasione della protesta dello scorso anno. Lettere anonime via posta ordinaria. Lo scorso aprile nella busta c’erano tre proiettili. Mi scrivono di stare attenta ai miei familiari. E in fondo, la firma: Viva i forconi, viva la mafia”. Cinzia Franchini è convinta che dietro le proteste di questi giorni ci sia una struttura politica: “È impossibile portare in piazza tanta gente dal nulla, senza denaro. Qualcuno, interessato al disordine, ha finanziato i Forconi. Chi appoggia politicamente questo movimento compie un’azione molto grave”. Ma chi sono davvero i Forconi, chi c’è nei loro cortei? “In piazza scende tanta gente comune, persone che manifestano sofferenze condivisibili. Di loro, però, si approfittano alcuni individui che non hanno alcuna sensibilità sociale o progetto politico: i leader del movimento mi sembrano persone in cerca di visibilità. Chi legittima questi personaggi (che sono una minoranza) distrugge il lavoro di chi prova a cambiare le cose nel rispetto delle regole. La mia associazione, per esempio, rappresenta il 25/30 per cento degli autotrasportatori. Se volessimo davvero bloccare il Paese, basterebbe un attimo”.
(To.Ro.)

il Fatto 11.12.13
B. e il fascino del forcone
Oggi alle 17 il cavaliere riceve una delegazione del movimento
Grillo scrive alle forze dell’ordine: “State dalla parte dei manifestanti”
Mentre Alfano promette fermezza
di Tommaso Rodano


Se danno la fiducia a Letta, a Roma ci sarà un’azione eclatante”. La minacciosa promessa è di Danilo Calvani, agricoltore di Latina, uno dei volti televisivi dell’eterogenea galassia dei Forconi. Oggi, dunque, la protesta potrebbe avvicinarsi ai palazzi delle istituzioni. Nel frattempo, la politica ha risposto.
Qualcuno è già sul punto di salire sull’(auto) carro dei Forconi. Silvio Berlusconi non ha perso tempo per attaccare l’esecutivo: “Il governo ha sottovalutato la protesta. Ora deve ricevere subito gli autotrasportatori. Tra una settimana sarà troppo tardi”.
Lui, nel suo piccolo, lo farà già questo pomeriggio. Nel giorno della fiducia al governo, il Cavaliere ha accettato di ricevere una delegazione di Forconi. L’incontro è fissato per le 17, nella nuova sede di Forza Italia a San Lorenzo in Lucina. A chiedere e ottenere l’incontro con Berlusconi è un altro leader della protesta, Augusto Zaccardelli, capo del Movimento autonomo degli autotrasportatori, ex ultras della Lazio.
La prima risposta ufficiale del governo Letta è affidata al vicepremier, Angelino Alfano. E significa una nuova nuova frattura tra Berlusconi e il suo ex delfino. Mentre il leader di Forza Italia arringava sulle ragioni della protesta, il ministro dell’Interno prometteva fermezza. “La linea è quella del rispetto della legge e della democrazia – ha dichiarato Alfano al Tg 3 –. Non consentiremo che le città vengano messe a ferro e fuoco. E le minacce ai negozianti per tenere chiuse le attività commerciali sono inaccettabili”.
LA LUNGA SERIE di dichiarazioni, interviste e comunicati stampa sui Forconi era iniziata in mattinata sul blog di Beppe Grillo. Il leader del Movimento 5 stelle ha pubblicato una lettera aperta indirizzata ai vertici delle forze dell’ordine: “La protesta può essere l’inizio di un incendio o l’annuncio di future rivolte forse incontrollabili – scrive Grillo –. Alcuni agenti di Polizia e della Guardia di Finanza a Torino si sono tolti il casco, si sono fatti riconoscere, hanno guardato negli occhi i loro fratelli (...). Vi chiedo di non proteggere più questa classe politica che ha portato l’Italia allo sfacelo”. Gelida, per usare un eufemismo, la risposta dei sindacati degli agenti. Siulp e Sap hanno respinto l’invito, chiedendo di evitare strumentalizzazioni: “È un appello ridicolo – ha dichiarato il segretario del sindacato autonomo di polizia, Nicola Tanzi –. Può servire solo ad aumentare il disagio che in questi giorni stanno vivendo le forze dell’ordine”. Ancora più dura la replica di Franco Maccari, segretario generale del Coisp: “Quella di Grillo è un’idiozia. Questi appelli sono un esercizio di populismo puro. Non siamo burattini nelle sue mani e se ci togliamo il casco non è certo perché ce lo dice lui”.
A fine serata, è intervenuto anche il nuovo segretario del Partito democratico. Matteo Renzi è rimasto a metà strada. Ha attaccato Beppe Grillo, ma – come lui – ha parlato a favore della polizia. Non ha contestato esplicitamente il governo, ma lo ha invitato a sostenere le forze dell’ordine con più convinzione. “L’atteggiamento di Grillo è demagogico e strumentale – secondo il sindaco di Firenze – specie da parte di chi invitava i manifestanti No Tav a picchiare i poliziotti”. Renzi si riferisce a un intervento del 2011 del leader del M5s. Dopo gli scontri in Val di Susa, Grillo accusò le forze dell’ordine per l’utilizzo dei lacrimogeni (“armi da guerra cancerogene”) e definì “eroi” i No Tav.
Il secondo pensiero del segretario del Pd è per il governo: “Spero che domani Letta annunci maggiore attenzione verso le forze di polizia, perché gli agenti sono stressati”.

il Fatto 11.12.13
Sono molto preoccupato: nessuno ha citato Pasolini
di Alessandro Robecchi


Gente incazzata più che un po’, più certi ultras del pallone, più certi fascisti (quelli non mancano mai, maledizione!), più la gggente, più gli agricoltori, più i trasportatori, più la misura è colma, più la situazione è insostenibile, più quelli che vogliono solo far casino, più quelli che non riescono a mettere insieme il pranzo con la cena, più alcuni furbetti. Della “rivolta” (ci tengo, a ‘ste virgolette, eh!) dei forconi non si capisce ancora molto. Cioè: si capisce la solita solfa che c’è chi ci vorrà mettere il cappello come già sembra fare Grillo (errore), chi l’accetta entusiasta (errore), chi pensa solo a criminalizzarla (errore). Eccetera, eccetera. E un’altra cosa, si capisce: che c’è in giro una rabbia consistente, cosa che si poteva intuire anche senza forconi, comunque. Ecco, la faccenda è complessa e forse è presto per addentrarsi in analisi definitive. E però sia concessa qualche notazione in margine non del tutto marginale. Già: di tutte le categorie, gruppi, infiltrati, organizzatori, urlatori sparsi, incazzati veri, nemici della sintassi, portatori sani e meno sani di forconi, manca uno solo: Pasolini.
Sì, proprio lui, il vecchio caro Pier Paolo Pasolini, quello che tutti tirano per la giacchetta di qua e di là, quello che non manca mai (mai!) quando si parla di poliziotti, per esempio. Succede infatti (malamente smentito dai vertici, ma confermato da alcuni agenti sui giornali) che qualche poliziotto si sia tolto il casco in segno di solidarietà con i manifestanti. Ora, vero, non vero, esagerato, ognuno la pensi come vuole. Però... Però è bizzarro che nessuno, per una volta (grazie! Finalmente!) non abbia citato quel famoso Pasolini del poliziotto che è proletario, mentre gli studenti che lo sfidano sono fighetti figli di papà. Un argomento tanto caro alle destre perbene e non, ai benpensanti, alla retorica law and order e ai manuali di conversazione da party o da redazione. Bella cravatta. E anche Pasolini, però!...
INSOMMA: quando i poliziotti menano come fabbri (perché non dirlo? anche a sproposito e troppo) ecco che sono proletari che hanno ragione. Se invece fanno il gesto inconsulto e sconsiderato di solidarizzare, puf! Pasolini scompare e viene per una volta dimenticato. È seccante per vari motivi. Perché da un lato c’è il potere che usa la parola “proletario” un po’ a senso unico (solo i poliziotti, non gli esodati, i disoccupati, gli studenti), e dall’altro perché l’uso strumentale delle parole di un grande intellettuale, specie se usate a man bassa con faciloneria, è assai fastidioso. Dunque, nel mio piccolo, intendo rimediare con le parole di un poliziotto: “Speravo solo che se ne andassero, gli anfibi mi facevano un male boia”. Ecco. Scarpe strette, lavoro di merda, in piedi dall’alba, per 1.300 euro, gli straordinari bloccati e magari la famiglia messa come sono messi quelli lì davanti, esasperati e incazzati, stufi marci, impoveriti, senza lavoro. Anche loro, i poliziotti, capiscono, alla fine, che chi cita sempre Pasolini per difenderli, mica vuol difendere loro. Dopotutto, se si avessero così a cuore i poliziotti – nel senso pasoliniano – gli si raddoppierebbe lo stipendio, non gli si citerebbe un po’ a vanvera un grande poeta. Ma ieri, evidentemente, tutti i pasoliniani a tassametro, quelli del poliziotto-povero-e-contestatori-ricchi, erano in vacanza, o in permesso, o in letargo. Chissà, forse se ti levi il casco, se sei più uomo che poliziotto, Pasolini non va più bene, non è trendy, non usa più.

Corriere 11.12.13
«Roba nostra», «tutti operai»
Neri e rossi nella stessa piazza
Militanti della sinistra antagonista e della destra radicale tenuti insieme dall’effetto calamita degli autotrasportatori
di Marco Imarisio


TORINO — Una mattina si son svegliati. E hanno capito che stare insieme è difficile, nonostante il richiamo della rivolta.
Quando gli studenti del collettivo universitario autonomo e i metalmeccanici della Fiom intonano le prime strofe di «Bella ciao» la via Alfieri piena zeppa di gente si apre come il Mar Rosso davanti a Mosè. Da una parte loro, con le bandiere rosse e il canto dei partigiani. Dall’altra decine di mani tese nel saluto romano, molte teste rasate e altrettanti cori di «vergogna, vergogna». I tarallucci e il vino che fanno dissolvere la tensione li porta Federico Bellono, segretario regionale delle tute blu. «Siamo tutti operai» dice, e strappa alla controparte un timido applauso. Rossi e neri possono dirigersi verso la sede del Consiglio regionale. La destinazione finale e la strada sono le stesse, ma l’incidente ha fatto ricordare il disprezzo e le differenze reciproche. A ognuno il suo marciapiede, e poi il suo angolo di piazza, molto vicini e distanti al tempo stesso.
«Sono cresciuto con sette fratelli e si cambiava macchina ogni due anni, invece io ho la stessa da undici, ma vi rendete conto?» «Cota e Fassino si arrendano e diano le chiavi di Regione e città al prefetto». «Tutti a Roma, per mandare a casa Napolitano e cancellare la politica dalla faccia della Terra». «Non dobbiamo andare a Roma ma restare qui, torinesi a Torino, perché i grandi cambiamenti italiani passano sempre per la nostra città».
Il palchetto degli ambulanti in fondo a piazza Castello è diventato l’angolo del flusso di coscienza, di qualunque rivendicazione anche in contrasto con quella appena ascoltata. Il microfono passa di mano in mano, fino a quando il disc jockey ambulante che ha portato gli amplificatori si arrabbia e decide si spegnere tutto. Ma ormai anche le parole non hanno più importanza, quel che doveva essere è stato. Andrea Zunino, il portavoce mistico del movimento dei forconi, riconosce che il meglio sta per passare. «Abbiamo saputo portare in piazza la gente della quale nessuno parla. Da adesso in poi sarà dura, ma ignorarci diventa molto difficile». L’imprenditore agricolo biellese, esperto di camminata sul fuoco, meditazione e respiro consapevole, dice una cosa giusta.
Anche in una città dove l’occupazione a giorni alterni del centro è quasi fisiologica, sono tanti quelli che hanno preso nota dell’accaduto. La piazza di ieri era diversa da quella del giorno prima, e non solo perché a un movimento eterogeneo nei fini corrisponde una platea poco coesa. Ambulanti e autotrasportatori svolgono funzione di calamita. Non importa più quel che dicono, ma quel che fanno. La protesta non è la stessa, ma l’interesse è identico, la situazione di caos che i forconi sono stati capaci di creare, non importa con quale metodo. Il pulmino bardato di tricolore in mezzo a piazza Castello rappresenta la coccarda sul trofeo. La manovalanza della destra più radicale, tra Forza Nuova e Casa Pound, si è sempre mossa con discrezione e in ordine sparso, senza ufficialità. Ieri si è mostrata in pubblico con una certa fierezza, con una specie di presidio, quasi a rivendicare il lavoro svolto in precedenza, e per questo pomeriggio è annunciato l’arrivo di Danilo Calvani, uno dei promotori più vicini a Forza Nuova, quasi a mettere un sigillo.
I cromosomi e la base dei forconi appartengono all’area di destra, magari non così virulenta. «Roba nostra. Partite Iva, commercianti, ambulanti, erano il serbatoio della vecchia Alleanza nazionale, quella più ruspante». Maurizio Marrone, trentenne consigliere comunale di Fratelli d’Italia, è considerato il referente, se non il mandante politico della protesta. Nell’estrema destra da quando aveva 14 anni, proprietario di un pastore tedesco che si chiama Scipio. Ha ottenuto una certa notorietà con la proposta di seppellire Erich Priebke a Torino. «Adesso arriveranno i tentativi di imitazione» dice all’uscita dell’esame di Stato da avvocato. «Prima demonizzano, poi vedono la partecipazione popolare e si buttano».
Anche nel settore del conflitto sociale esiste la concorrenza. «Mai con i fascisti» era stata la premessa dei centri sociali autonomi che da molti anni costituiscono la spina dorsale del movimento No Tav. Lunedì mattina, alcuni militanti della sinistra antagonista si aggiravano incuriositi in un panorama umano che non riconoscevano. Dopo gli scontri davanti al palazzo della Regione, sui loro siti sono apparse cronache che elogiavano la spontaneità dei forconi, con parole ammirate per i risultati ottenuti. «Siamo andati a vedere» ammette Lele Rizzo, portavoce ormai storico del centro sociale Askatasuna, libertà in basco. «Nel salotto buono di Torino c’era il mondo della periferia al quale nessuno guarda mai. Quelli ai margini, senza certezze, colpiti dalla crisi, che solo in Italia vengono lasciati in mano ai fascisti». Hanno subito dismesso i panni degli osservatori per manifestare davanti al Comune, quasi un debutto nella promiscuità, con gli ambulanti che hanno compreso il dilemma antagonista e si sono ritirati in buon ordine. Ieri c’erano, con i loro universitari e le bandiere. «Abbiamo visto gente che è tornata dopo il primo giorno, con tanta voglia di alzare la voce». La rincorsa degli opposti estremismi ai forconi sta per cominciare. Comunque vada a finire, è stato un successo.

Corriere 11.12.13
Non è un monito
La Consulta ha ripristinato la legalità
di Piero Alberto Capotosti


Caro Direttore,
sono rimasto un poco stupito, ma anche divertito, che Michele Ainis sia salito in cattedra e mi abbia impartito, nell’articolo che ha scritto sul Corriere della Sera del 9 dicembre, una severa lezione su un argomento che pure, per le mie precedenti esperienze, ritenevo ingenuamente di conoscere abbastanza, cioè quello degli effetti della nota decisione della Corte costituzionale sul Porcellum. Mostra però di non avere letto, o, peggio, di avere stravolto le mie opinioni sul tema, poiché mi accusa di «terrorismo giuridico», avendo io sostenuto — secondo lui — che la sentenza riscrive il passato e che l’invalidità della legge elettorale travolgerebbe ogni decisione parlamentare dal 2005 in poi, con il risultato, per esempio, che ci toccherebbe pagare l’Imu, che sarebbe nulla l’elezione di Napolitano e tutte le nomine da lui effettuare, comprese quelle dei giudici costituzionali, e via discorrendo. Se così fosse, forse potrei accettare anche l’ulteriore accusa di avere applicato la fantascienza al diritto. Ma non è affatto così. In questi giorni ho testualmente affermato su diversi giornali, rispondendo a domande se questa sentenza travolga il passato: «Sicuramente no, tutte queste sono situazioni giuridicamente chiuse e dunque non più riesaminabili. Esistono nell’ordinamento alcuni principi, in particolare il principio della certezza giuridica, che mitigano la portata retroattiva della sentenza. Dunque, i Parlamentari eletti dal 2006, le leggi e il capo dello Stato sono situazioni che non si possono cancellare, “irretrattabili” (L’Unità , 6 dicembre)». Ed ancora: «Il passato si salva applicando i principi sulle situazioni giuridiche esaurite (La Nazione , 5 dicembre)». Ed anche nella sintesi delle varie tesi dei giuristi, che il Corriere della Sera del 7 dicembre riporta, viene citata la mia opinione, secondo cui «i Parlamenti eletti dal 2006, le leggi e il capo dello Stato sono situazioni irretrattabili, che non si possono cancellare». Queste citazioni non bastano a rivelare il mio pensiero? Evidentemente no, perché il mio censore mi sottolinea — bontà sua — concetti che «nei corsi di giurisprudenza si insegnano al primo anno» e, in particolare, che in materia vale il principio del «tempus regit actum», che naturalmente dovrebbe — secondo la sua opinione — valere anche per i 148 deputati eletti grazie al premio di maggioranza. Ma, a proposito della loro convalida da parte della Giunta delle elezioni della Camera, Ainis testualmente scrive che: «Certo, sarebbe stato meglio che quest’ultima avesse già provveduto. Sarebbe ancora meglio, molto meglio se vi provvederà, prima che la Consulta depositi la propria decisione». Ma come, in questa occasione non si applica il benedetto principio del «tempus regit actum»? Ed il Parlamento, dopo la pubblicazione della sentenza è forse in qualche modo dimidiato? Per me, che non conosco neppure le nozioni del primo anno di giurisprudenza, questo resta un mistero nel pensiero giuridico di Ainis, o forse anche lui è divenuto uno scrittore di fantascienza giuridica? Ma de hoc satis! Torniamo ai problemi seri, perché dispiace veramente che le polemiche che s’intrecciano sugli effetti di questa pronuncia rischiano in qualche modo di fare dimenticare al mondo delle istituzioni e della politica l’insegnamento profondo che proviene dal Giudice delle leggi. La verità è che la sentenza della Corte, al di là di tutte le questioni sulla sua decorrenza, ha un fondamentale valore di restaurazione del principio di legalità costituzionale, vulnerato in uno degli aspetti di fondo del nostro sistema istituzionale, appunto quello che regola i principi della rappresentanza parlamentare, contribuendo così a quella crisi della rappresentanza, che è una delle prime cause di distacco dei cittadini dalla politica. D’altra parte, si tratta di una sentenza costituzionale di annullamento, che, in quanto tale, modifica l’ordinamento giuridico ed alla quale pertanto tutti debbono dare esecuzione. È sbagliato pertanto il tentativo, più o meno sotterraneo, di trasformarla in una sorta di sentenza d’infondatezza con «monito» al legislatore di modificare il Porcellum. Questa volta è stato ufficialmente dichiarato incostituzionale quel sistema elettorale, che da molti anni consente quello che comunemente definiamo il Parlamento dei «nominati». Felicitiamoci dunque con la Corte e prepariamoci a voltare pagina, il prima possibile.
Piero Alberto Capotosti
presidente emerito della Corte costituzionale

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Ipse dixit, «L’ha detto Lui». Nel Medioevo questa formula chiudeva qualsivoglia discussione, appellandosi alla suprema autorità di Aristotele. E certamente il professor Capotosti ha tutto il diritto di ricordare le sue «precedenti esperienze» di presidente della Corte costituzionale, per corroborare le proprie opinioni. Ma se Ipse legit il mio fondo del 9 dicembre, scoprirà che non gli ho mai attribuito la tesi secondo cui sarebbe invalida l’attività parlamentare anteriore alla sentenza sul Porcellum (questa, semmai, è la tesi di Brunetta), bensì quella futura. Come Ipse dixit, per l’appunto (Huffington Post , 5 dicembre): «Dal giorno dopo la pubblicazione della sentenza questo Parlamento è esautorato perché eletto in base a una legge dichiarata incostituzionale. Quindi non potrà più fare niente». Nemmeno la legge elettorale, per dirne una. Difficile «voltare pagina» (Ipse scripsit), se non c’è più la pagina.
Michele Ainis

Corriere 11.12.13
Il presidente dell’Anpi
«Sulla strage di piazza Fontana non si smetta di cercare la verità»
Smuraglia: scuola, istituzioni e media attualizzino la memoria
di Luigi Ferrarella


«Chi è nato dopo il 12 dicembre 1969 non sa praticamente niente della strage di piazza Fontana, e i meno giovani hanno la tendenza a dimenticare o a ritenere che sia qualcosa che appartiene solo al passato. Invece — avverte il professor Carlo Smuraglia, ex senatore, ex Csm, presidente dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia — tenere viva la memoria di cosa questa strage abbia significato nella vita del Paese è un compito che sarà sempre attuale finché non avremo raggiunto, se non la giustizia, almeno la verità sulla strage. Ogni anno noi abbiamo questo dovere».
«Noi» chi?
«I mezzi di informazione, per cominciare. Poi soprattutto la scuola, per evitare che accada che alla domanda su piazza Fontana capiti di ascoltare dai ragazzi le risposte più astruse. E le istituzioni, che devono sottrarre all’oblio la memoria viva di fatti di questa gravità, anche per garantire che lo Stato venga sottratto a rinnovati rischi antidemocratici che può correre in taluni frangenti».
Altrimenti?
«Altrimenti resta una cosa giusta ma non basta il semplice ricordo: portare la corona di fiori o fare la manifestazione e il corteo sono iniziative preziose, che vanno però accompagnate da qualcosa che attualizzi la memoria della madre di tutte le stragi».
È stata appena archiviata l’ultima indagine, che ha escluso la fondatezza di taluni spunti (come la teoria della doppia bomba) molto gettonati nella pubblicistica. È come se si dimenticasse sempre che in realtà una verità processuale, pur nel travaglio di tanti filoni, esiste già.
«Almeno in Cassazione, seppure non si è potuti giungere (anche per tutta una serie di questioni giuridiche) a condanne di responsabilità individuali, i giudici hanno affermato che la matrice fascista della strage è inequivocabile. Ma nel corso dei processi sono emersi anche tanti comportamenti di parti dello Stato che si collocarono, se facessimo riferimento al confronto tra “guardie e ladri”, dalla parte non certo delle guardie: spostamenti di competenze che complicarono gli accertamenti, depistaggi, atteggiamenti di questori e persino ministri per orientare le indagini verso piste infondate, e poi l’intero caso Pinelli... E tutto questo va tenuto vivo, in maniera tutt’altro che retorica ma attualizzata, anche con elementi nuovi provenienti magari in futuro da studi e ricerche».
Tocca un nervo scoperto: è ormai dagli storici o è ancora dai magistrati che ci si deve aspettare qualche ulteriore frammento di verità? L’ex giudice istruttore Salvini da tempo accusa i pm milanesi di «non aver fatto» o di «aver fatto poco e con la mano sinistra». Ma la recente minuziosa archiviazione del giudice D’Arcangelo documenta che gli strumenti giudiziari hanno ormai setacciato tutto il possibile.
«Non voglio entrare nel merito di queste polemiche. Dico però che è importante attualizzare il ricordo e scavare sempre perché non c’è mai un momento in cui si possa dire la parola “fine” alla ricerca della verità. Con l’aiuto di tutti quelli che hanno buona volontà potranno magari emergere anche fatti nuovi o elementi per rivalutare quelli vecchi».


La Stampa 11.12.13
Infanzia, diritti a rischio
Povertà assoluta in Italia per un milione di bambini
Allarme di Save The Children: in un anno aumentati del 30%
di Flavia Amabile


Sono figli di disoccupati o di famiglie monoreddito. Vivono in case fatiscenti e sovraffollate

ROMA Più di un milione di minori vivono in povertà assoluta, vuol dire un minore su 10, una cifra che corrisponde al 30% in più rispetto al 2012. Sono alcune delle drammatiche cifre contenute nel rapporto «L’Italia SottoSopra» di Save The Children, frutto della crisi economica e dei ripetuti tagli agli enti locali e dell’effetto combinato di entrambe che sta strozzando soprattutto le fasce più deboli della popolazione.
Per la precisione si tratta di un milione e 344 mila minori che abitano in condizioni difficili. Rappresentano il 12% della popolazione di riferimento, vivono in alloggi sovraffollati, privi di alcuni servizi e con problemi strutturali e sono il 25% rispetto al 2007.
È un esercito formato dai figli di genitori disoccupati (è aumentato dell’8,5% il tasso di povertà assoluta nelle famiglie senza occupati), oppure monoreddito (+3,1%), o ancora bambini nati da genitori con un livello d’istruzione basso. Fra i nuclei familiari con capo-famiglia privo di titolo di studio, l’incidenza della povertà assoluta è stata del 3,1%.
Per la prima volta è di segno negativo anche la percentuale di bambini presi in carico dagli asili pubblici, scesa dello 0,5%. Il 22,2% di ragazzini è in sovrappeso e il 10,6% in condizioni di obesità. Non è una contraddizione, mangiare cibo che nutra in modo sano costa, molte famiglie con figli hanno dovuto ridurre i consumi di cibo più caro. Nel 2012 il 66% di famiglie con figli si tratta di 4 milioni 400 mila nuclei familiari con prole ha ridotto la qualità/quantità della spesa per almeno un genere alimentare.
Si spendono 138 euro in meno in media al mese. Si risparmia su tutto: un bambino su 3 non può permettersi un apparecchio per i denti, per i libri e la scuola le famiglie in difficoltà economiche spendono 11 euro al mese, venti volte in meno di chi ha maggiori possibilità. Dei 24 paesi Ocse, l’Italia è ultima per competenze linguistiche e matematiche nella popolazione 16-64 anni e per investimenti in istruzione: +0,5% a fronte di un aumento medio del 62% negli altri paesi europei (Ocse). Sono 758mila quelli che abbandonano la scuola prima dei tempi previsti dalla legge (5 punti in più rispetto alla media europea) e oltre 1 milione i giovani disoccupati.
Tra il 2017 e il 2012, la spesa media mensile dei nuclei con bambini si ridotta quasi il doppio rispetto a quanto è accaduto al totale delle famiglie. I tagli hanno colpito soprattutto l’abbigliamento, i mobili e elettrodomestici, la cultura, il tempo libero e i giochi. E hanno colpito soprattutto Sud e Centro dove il calo è stato del 2,56 e dell’1,82% nei vestiti, il Nord per la sanità (-0,66%) e ancora il Mezzogiorno per il tempo libero e la cultura (-0,9).
Nel 2012, i minori in condizioni di povertà assoluta sono aumentati del 30% rispetto al 2011. L’aumento maggiore è stato al Nord (+ 166 mila minori, per un incremento del 43% rispetto al 2011) e al Centro (+41%). Il Sud era già povero, crisi e tagli non potevano colpire chi già non ha molto, l’aumento si è fermato al 20%.

l’Unità 11.12.13
Rigoberta Menchù. Premio Nobel per la pace, pacifista guatemalteca:
«La lezione che ci lascia è che non esiste liberazione senza riscatto sociale»
«Madiba ci ha insegnato cosa significhi dignità e giustizia»
intervista di Umberto De Giovannangeli


«Per la sua lotta contro ogni forma di sfruttamento, per essere stato ogni giorno della sua vita dalla parte dei più deboli, degli esclusi, Nelson Mandela è stato un punto di riferimento, una inesauribile fonte di speranza e di coraggio per i popoli oppressi dell’America latina». Ad affermarlo è Rigoberta Menchù Tum, 54 anni, pacifista guatemalteca, premio Nobel per la Pace 1992, assegnatole «in riconoscimento dei suoi sforzi per la giustizia sociale e la riconciliazione». Giustizia e riconciliazione: valori che, rimarca la Nobel, «hanno accompagnato “Madiba” per tutta la sua lunga, straordinaria vita».
I grandi della Terra hanno dato ieri l’ultimo saluto a Nelson Mandela. Cosa ha rappresentato Mandela per le lotte di liberazione dei popoli latinoamericani?
«Ha rappresentato uno straordinario punto di riferimento, un moltiplicatore di coraggio e di speranza. Nelson Mandela è stato un leader che ha saputo dare voce ai tanti a cui veniva impedito. “Madiba” non ha lottato solo contro l’odiosa discriminazione razziale, ma si è sempre speso, con intelligenza, determinazione e generosità, contro tutte le forme di apartheid che segnano quella gran parte del mondo in cui la giustizia non è di casa. I popoli dell’America latina hanno conosciuto sulla loro pelle le varie forme di apartheid...».
A cosa si riferisce in particolare?
«Alle popolazioni indigene espropriate dei loro territori da regimi corrotti e dispotici al servizio delle grandi multinazionali; lo sfruttamento brutale del lavoro minorile... Mandela ha lottato contro queste pratiche di sfruttamento, contro questo saccheggio di ricchezze e di libertà, tanto quanto si è battuto contro il razzismo, comunque mascherato. Per i popoli latinoamericani, Mandela ha rappresentato un eroe vero, un simbolo che è entrato nell’immaginario collettivo di milioni e milioni di persone, come in pochi sono riusciti a fare. Per molti di noi è stato un modello, un punto di riferimento prezioso perché ci ha mostrato come lottare contro il razzismo e il neocolonialismo. “Madiba” ci ha dimostrato che vi sono degli uomini che non hanno un momento della propria vita, anche se sono incarcerati per 27 anni, anche se sono perseguitati per le loro idee».
Cosa ha provato all’annuncio che «Madiba» era morto?
«Grande tristezza, certamente, ma una tristezza in parte mitigata dal pensiero che nessuno ha potuto sconfiggerlo in vita. Nelson Mandela vivrà per sempre per le sue lotte».
Qual è stato, a sua avviso, il tratto distintivo della leadership di Nelson Mandela? «La sua leadership è stata improntata alla pazienza e alla tolleranza. Mandela non ha mai fatto la vittima ma è sempre stato un protagonista: si è sempre impegnato per favorire la riconciliazione, il dialogo, e per raggiungere la pace. Una pace non di facciata ma densa di contenuti sociali. E per questo, una pace vera. Mandela è stato un leader inclusivo, che ha fatto della riconciliazione un faro della sua azione politica. Ed è riuscito a farlo perché forte delle idee, dei principi che lo hanno ispirato».
Barack Obama ha ricordato Nelson Mandela come «l’ultimo grande liberatore del XX secolo».
«Mandela è stato questo ma anche di più. Perché non ha liberato solo il suo popolo da uno dei più odiosi regimi, quello dell’apartheid. Mandela ha indicato ad altri popoli le vie della liberazione da praticare. In questo, è stato il più grande leader globale che il mondo ha conosciuto e amato. E lo ha fatto con la forza delle idee che ha praticato e non certo con le armate che non ha mai posseduto. Mandela è stato un combattente per le libertà, ma un combattente che non ha mai preteso di imporre un suo modello ideologico, una sua visione politica. Sta anche in questa la sua inarrivabile grandezza. E per questo la sua lotta resterà impressa nella nostra memoria collettiva. Mandela è stato un sognatore che ha saputo realizzare il sogno della sua vita: liberare la sua gente dalle catene dell’apartheid».
Anche lei è una «sognatrice»...
«Il “sogno” che i popoli indigeni non debbano essere più considerati manodopera a basso costo, oggetti di studio, nativi da catechizzare, soldati costretti ad assassinare la propria gente, cittadini di seconda classe. Non sono padrona della mia vita, e ho deciso di offrirla per una causa. Mi possono ammazzare in qualsiasi momento, purché sia a causa di qualcosa per cui so che il mio sangue non sarà inutile, ma sarà anzi di esempio per gli altri. La mia causa ha le radici nella miseria in cui vive il mio popolo. Nelson Mandela mi è stato buon insegnante».

il Fatto 11.12.13
L’ultimo miracolo di Mandela Obama stringe la mano a Castro
Il presidente Usa a Soweto ricorda l’insegnamento di pace del Madiba e saluta il Lìder cubano.
Alla cerimonia tanti leader (e qualche impresentabile)
di Stefano Citati


Il cielo sopra Soweto piange e i sudafricani ballano nella commozione del ricordo di Madiba. Tutto il mondo era riunito ieri nello stadio della township nera simbolo dell’apartheid e del riscatto sudafricano. Un centinaio di capi di Stato, di governo, e di vip all’asciutto nelle tribune, e gente comune con gli ombrelli aperti sulle gradinate in rappresentanza del popolo orfano del padre della loro nuova patria. Lo spirito di riconciliazione aleggia sullo stadio, si condensa nelle parole di Obama il più incitato dalla folla: il più fischiato è stato il presidente padrone di casa Zuma che parla dell’“ultimo gigante della Storia dal quale prendere esempio” e, passando dalle parole ai fatti, arriva spedito in tribuna e stinge la mano a Raul Castro, il presidente cubano. Mezzo secolo di crisi, scaramucce e incomprensioni, una cortina di astio reciproco ultimo arnese ideologico della Guerra fredda distesa nel tratto di mare che separa Stati Uniti e Cuba sollevata da un gesto di distensione.
DAVANTI A UNA PLATEA che più internazionale non si può presidenti ed ex presidenti uno accanto all’altro, imbarazzanti impresentabili nel consesso mondiale con lasciapassare una tantum vista l’eccezionalità del-l’evento: c’era anche l’ottuagenario dittatore dello Zimbabwe Mugabe Obama rende storica, ma allo stesso tempo offusca, la cerimonia per Mandela, rubando la scena al Madiba con una stretta di mano in suo nome, e dando anche un bacio a Dilma Rousseff, la presidenta brasiliana arrabbiata con la casa Bianca per lo spionaggio compiuto contro di lei dall’Nsa di Washington. Poi, quasi ebbro per il momento storico di gloria, Obama fotografa con l’autoscatto del cellulare il suo largo sorriso accanto alla premier danese e a quello britannico Cameron, sotto lo sguardo severo della moglie Michelle e poi quello scandalizzato di mezzo mondo che su Internet vede l’immagine del presidente ridanciano.
Tutt’intorno a quell’evento che fa dell’ovale di Soweto (dove avvenne l’ultima apparizione tra la folla di Mandela nel 2010) l’ombelico del mondo, il popolo sudafricano balla e canta il ricordo del suo uomo-simbolo. Preso talmente a esempio che anche il presidente del Consiglio italiano si lascia contagiare dalla retorica globale da utilizzare la figura e le gesta di Mandela come lezione per l’Europa: “Venendo qui si capisce che o l’Europa si unisce o l’Europa non conta niente. È un’impressione che da qui oggi rimando a casa in Europa. Una impressione sulla quale dobbiamo assolutamente riflettere”.
Le esequie di Mandela proseguiranno fino al fine settimana, quando ci sarà il funerale e la sepoltura; intanto i leader mondiali ripartono verso le loro capitali, e il Sudafrica s’inebria del momento di visibilità mondiale, prima di tornare ai problemi che, grazie a Mandela, non sono più la segregazione razziale, ma la segregazione economica tra ricchi (anche neri) e poveri (tanti neri).

il Fatto 11.12.13
I momenti perfetti della Storia. Quando un gesto è per sempre
Dopo 53 anni atto di disgelo nella guerra fredda tra Avana e Washington
di Maurizio Chierici


Quando Obama sale le scale di Soweto con lo slancio di un ragazzo è davvero per caso se la prima mano che stringe è quella di Raul Castro? Sempre per caso accanto a Raul bacia Dilma Rousseff presidente del Brasile arrabbiata per i telefoni del suo governo che la Nsa del Pentagono spiava? Le diplomazie non sono mai distratte. Pentagono e ambasciata Usa devono aver programmato il cammino del presidente nel parterre che raccoglie i protagonisti del mondo. E qualcuno ha deciso che doveva essere Castro a dargli il benvenuto: due parole di convenienza ma sono le prime parole che dopo 53 anni un inquilino della Casa Bianca rivolge sorridendo all’anticristo di Cuba. Facile immaginare lo scoramento degli ultras di Mia-mi e dei conservatori di partito all’Avana quando il vecchio signore ingessato dall’età veneranda conferma il gradimento. Invidia, forse sfumata di rabbia nel Fidel rimasto a Cuba in carrozzella. Da mezzo secolo immaginava un incontro così.
SENZA CODICILLI e protocolli l’importante è cominciare: filosofia pratica di chi ha deciso l’incontro tra due uomini che arrivano da storie separate da intrighi e ripicche che attraversano stancamente le generazioni. Non si saprà mai se la sorpresa è una trama predisposta dagli uomini ponte tra l’Avana e Washington. Ormai l’isolamento formale imposto ai cubani è l’ultima eredità fastidiosa della Guerra fredda. I superstiti del-l’ortodossia la difendono con un orgoglio fuori dalla realtà.
Non pare uno slancio venuto per caso. Da due anni la “diploaccademia” sfuma i dogmi inconciliabili del socialismo reale e del capitalismo liberista che Obama prova ad annacquare. Gli intellettuali di Castro insegnano nelle università Usa mentre i magistrati di Chicago discutono sulla giustizia del loro paese sotto i portici del Nacional, hotel monumento dell’Avana. Mezzo milione di americani vanno e vengono ogni anno. Sei voli al giorno da Miami, uno da Los Angeles e New York.
Ed ecco la stretta di mano a Soweto. Cortesia di un presidente beneducato o dopo le elezioni di mid term negli Usa (novembre prossimo) le mani si ritroveranno per disegnare assieme qualcosa? La prima fila di Raul nella sfilata dei potenti è dovuta a una riconoscenza perduta nel tempo: quella battaglia di Cuito Cuanavale, confine Sudafrica-Angola, 23 marzo 1988. Liberati dal colonialismo portoghese, gli angolani volevano riprendersi le regioni meridionali del paese occupate dal Sudafrica. E gli Usa di Reagan li incoraggiano a non mollare: arrivano armi pesanti e leggere per “scoraggiare ogni rivendicazione”. Arriva anche il consiglio di un blitz preventivo che svapori le guerriglie. La macchina da guerra di Pretoria attraversa il confine e assedia Cutio Cuanavale. Angola che trema: entrano in scena i cubani. 55 mila uomini e Mig che rimandano a casa i generali afrikaners. La più sanguinosa battaglia negli ultimi quarant’anni del continente.
MANDELA la definisce dal carcere “la Stalingrado africana, punto d’inflessione del regime razzista. Ha cambiato la storia di ogni paese attorno”. Pretoria tratta la pace. E quando diventa presidente Mandela ricorda in parlamento “che i cubani sono venuti ad aiutare l’indipendenza e sconfiggere l’apartheid. Non per colonizzare ma come medici, maestri, esperti agricoli e anche soldati. Dobbiamo a loro l’inizio del cambiamento”. Sciamani e santeros racconteranno che ieri Mandela ha restituito il miracolo, ma la realtà è sempre più complicata. Complicata anche per i nervi di Fìdel mentre osserva Raul che si prende le sue medaglie.

il Fatto 11.12.13
Sorride anche l’Obamacare
Dopo i blackout on line, la riforma sanitaria Usa funziona a pieno regime
di Angela Vitaliano


New York Da quando, il 1° ottobre, l’Affordable Care Act, meglio conosciuto come Obamacare, è entrato ufficialmente in vigore, dando la possibilità a tutti gli americani di acquistare nuovi piani assicurativi, a prezzi più contenuti, quella che doveva essere una pietra miliare nella storia dell’assistenza sanitaria nel paese, si è trasformata, nel giro di pochissimi giorni, in un vero e proprio incubo per il presidente che, ad essa, ha legato gran parte del-l’impatto della sua amministrazione. I primi problemi sono venuti dal sito: lento, incapace di reggere il numero di contatti e sostanzialmente, fallimentare. Soprattutto negli Stati dove i governatori non avevano attivato siti “locali” più efficienti, come quello di New York che ha dato una risposta migliore sin dai primi giorni.
Il fatto che fosse disponibile un numero verde al quale chiamare per completare la procedura di iscrizione al programma, non ha placato minimamente la frustrazione che per settimane ha caratterizzato l’esordio dell’Aca: negli Usa lo shopping online è un’abitudine ormai consolidata e non poter fare acquisti usando il web è considerato un fallimento. Questo, però, era solo l’inizio. Sono bastate un paio di settimane perché molti assicurati, che basandosi su quanto garantito personalmente dal presidente, avevano deciso di non cambiare piano assicurativo, si vedessero recapitare dalle proprie compagnie, lettere di sospensione del servizio.
Questo perché, in base all’Aca, le assicurazioni devono garantire degli standard, di copertura e di costi, ben precisi, e molte hanno preferito “tagliare” la loro offerta, addirittura ritirandosi da stati dove il numero dei clienti era limitato, pur di non veder diminuire le loro entrate. Una situazione “prevedibile” ma che, tuttavia, nessuno dell’amministrazione aveva messo in conto e che ha costretto il presidente a chiedere personalmente scusa, prima di spingere il Congresso a passare un decreto per consentire alle assicurazioni di mantenere i vecchi clienti alle stesse condizioni.
NELLE ULTIME SETTIMANE, tuttavia, risolti gran parte dei problemi tecnici legati al sito, l’Obamacare ha, finalmente, cominciato a mostrare i segni di quel successo che molti si aspettano sulla lunga distanza. Tanto che nella prima settimana di dicembre le iscrizioni all’Aca, via sito, sono state superiori a quelle registrate in tutto il mese di ottobre. Questo, non solo per il fatto che ora il sito funziona, ma anche perché la scadenza per acquistare un piano assicurativo che parta il 1 gennaio 2014, è il 23 dicembre. Essere “iscritti” all’Obamacare, dunque, e vedersi riconosciuto il contributo governativo in caso di redditi bassi, non significa in automatico essere assicurati: bisogna scegliere una compagnia, un piano e, soprattutto, pagare la rata del primo mese, entro il 31 dicembre. Il trend, comunque, confermato in questi giorni, è che sempre più persone stanno sottoscrivendo un piano assicurativo e molti stanno decidendo di passare all’Obamacare, assicurandosi così, in media, un risparmio mensile tra 200 e 300 dollari.

l’Unità 11.12.13
Nome di battaglia «Santiago»
ll giovane Calvino partigiano nei racconti di alcuni compagni
Dall’archivio dell’Anpi spuntano documenti che ricostruiscono il periodo della montagna e della Resistenza
di Wladimiro Settimelli


E UN BEL GIORNO ITALO POSÒ LA PENNA E PRESE IL FUCILE. PER ANDARE IN MONTAGNA CON I PARTIGIANI E FARE LA COSA CHE RITENEVA GIUSTA. Lui, Calvino, ha sempre parlato poco di questa durissima esperienza perché odiava la retorica e soprattutto la retorica della Resistenza, in un periodo in cui tutti raccontavano di averla fatta e spiegavano, centellinavano dettagli e storie, spesso messe insieme subito dopo la Liberazione.
Il grande scrittore era orgoglioso di quei giorni e dei suoi compagni di lotta. Con molti era rimasto in contatto fino alla fine della vita. Con uno in particolare: Giovanni Nicosia, “Sam” originario di Caltanissetta, un severo caposquadra sui monti, che diventerà poi correttore di bozze per la Einaudi e dunque vicinissimo ad Italo nel lavoro quotidiano.
Sì, appunto, Italo Calvino in qualche articolo e in qualcuno dei suoi libri, farà affiorare il periodo resistenziale, ma senza dettagli e particolari, in modo schivo e quasi sottovoce e il perché lo abbiamo detto.
Ero all’ospedale della Scala, di Siena, il giorno della morte dello scrittore. Per il giornale, ovviamente. La bara era stata sistemata in uno stanzone enorme e non c’era nessuno. Era uno stanzone carico di affreschi, stemmi e orpelli quasi gioiosi, che rendevano ancora più desolata e solitaria quella bara e quella morte. Stavo ascoltando, in una stanzetta, alcuni colleghi che chiedevano notizie alla moglie di Calvino sul periodo della montagna, ma anche lei sapeva pochissimo. Qualche passo più in là, forse un avvocato o uno dei dirigenti della Einaudi, già parlava dei diritti d’autore per i tanti libri dello scrittore di fama mondiale, ma io sentivo quelle parole come una specie d’insulto a Calvino, abbandonato, solo, nello stanzone rinascimentale senza un fiore, una corona, una rosa. Ovviamente, sciocchi sentimentalismi i miei, in quel momento. Ma non riuscivo, comunque, a metter via i pensieri, angosciosi, che mi si affollavano in testa.
Del periodo della montagna e della Resistenza, invece, volli sapere tutto e non seppi niente. Ho dovuto aspettare qualche anno e leggere e rileggere i racconti di alcuni dei compagni di Calvino pubblicati da Patria indipendente, la rivista dei partigiani, per sapere dettagli e particolari.
Italo Calvino era nato a Santiago de Las Vegas (Cuba) il 15 ottobre 1923 da Mario Calvino e da Eva Mameli. La famiglia, ad un certo momento, era tornata in Italia e si era stabilita a Sanremo. Con la guerra, la tragedia incombeva.
Ed eccola la storia di lui. Calvino è un giovane sveglio, già entrato in contatto con alcuni antifascisti. Poi arriva l’8 settembre del 1943 e il colonnello Lodovig, che comanda il 178° fanteria tedesca con sede a Savona, scatta all’attacco con i suoi e occupa Sanremo il 9 settembre. L’esercito italiano, anche in tutta la Liguria, si è ormai dissolto.
Nasce la repubblichina di Salò e subito vengono affissi i manifesti per il richiamo alle armi della classe 1923: proprio quella di Calvino. Per i disertori, come si sa, è prevista la fucilazione.
Il giovane, per non essere arrestato, prende la via delle colline e si rifugia in boschi e boschetti, nelle terre di proprietà del padre. Poi, con un gruppo di amici, Aldo Baggioli, Massimo Porre, Renzo Barbieri e altri, decide di salire in montagna. Viene accolto nella formazione partigiana «Brigata Alpina» presso Beulla.
È una brigata, la sua, che si muove tra Baiardo e Ceriana ed è comandata da Candido Bertassi, conosciuto come Capitano Umberto. È una prima esperienza molto, molto difficile. Calvino è ormai conosciuto da tutti con il nome di battaglia di «Santiago». Il primo grande scontro con i nazisti avviene in località Carpenosa il 15 giugno 1944 ed è una vittoria. Poi la formazione si scioglie. Lo scrittore entra allora a far parte della «IX Brigata Garibaldi», comandata da Bruno Luppi, «Erven» e partecipa alla battaglia di Sella Carpe. «Erven» rimane ferito gravemente e molti partigiani ci lasciano la pelle. A luglio, i nazisti incendiano i paesi di Molini di Triora e Triora e lo scontro, in tutta la zona, si fa ancora più duro. Calvino, intanto, è passato alla Divisione d’assalto Garibaldi «Felice Cascione» e partecipa alla difesa di Baiardo. Durante un rastrellamento «Santiago» viene arrestato, ma si salva. Deve però arruolarsi, per un breve periodo, tra i repubblichini come scritturale. Poco dopo riesce a fuggire e torna in montagna con tanto di armamento individuale. A lui si unisce il fratello Floriano che ha appena sedici anni. Ora, i fratelli, sono in una formazione diversa. L’inverno del 1944-’45 è terribile: freddo, gelo, fame, rastrellamenti, arresti e torture. Italo Calvino partecipa a tantissimi scontri: a Ciabaudo, a Gerbonte, a Bregalla e ancora a Baiardo a Triora e nella Valle Argentina. Il 25 aprile arriva la Liberazione e anche lui sfila per le strade di Sanremo con la sua formazione. Durante la lotta in montagna non ha mai smesso di scrivere per Il Garibaldino, La nostra lotta e l’Unità, stampata localmente. Il 25 maggio 1945 torna a casa e si laurea. Poi, si iscrive al Pci che rimarrà il suo partito per una decina di anni. Riceve anche il diploma Alexander numero 165545 ed e riconosciuto partigiano combattente. Poco dopo, dal Distretto militare di Savona, riceverà lire 6.687: è la paga da soldato per tutto il tempo della montagna.

La Stampa TuttoScienze 11.12.13
Giovanni Berlucchi Neuroscienziato
“Perché non siamo nient’altro che il nostro cervello”
Oltre gli stereotipi della psicologia: “Insensato contrapporre biologia e cultura”
intervista di Nicla Panciera


È PROFESSORE EMERITO DI FISIOLOGIA ALL’UNIVERSITÀ DI VERONA IL LIBRO: «NEUROFOBIA. CHI HA PAURA DEL CERVELLO?» (CON S. AGLIOTI) CORTINA EDITORE

Potrebbe sembrare una questione per accademici e, invece, l’accusa di neuromania rivolta ai cultori delle neuroscienze riguarda tutti, per la specifica visione dell’uomo che implica. Per questo c’è chi ha sentito il bisogno di intervenire, rispondendo nel dettaglio ad argomentazioni che sembrerebbero nascondere una pericolosa neurofobia, patina di un antiscientismo d’altri tempi.
«Grazie agli avanzamenti delle conoscenze è andato diminuendo il divario tra meccanismi nervosi e processi mentali. Questi ultimi non possono essere appannaggio degli psicologi e sbaglia chi ritiene che un neurofisiologo debba limitarsi a studiare i movimenti. Le neuroscienze, infatti, superano i confini tradizionali per la complessità dei loro oggetti di studio», spiega Giovanni Berlucchi, professore emerito dell’Università di Verona, grande nome della neurofisiologia italiana e protagonista della nascita delle neuroscienze. «Il dibattito, esattamente come ai tempi di Darwin, nasce dall’aver riportato l’uomo in natura. Esistono cervelli senza mente, ma sostenere l’opposto significa essere fuori dalla scienza e dal tempo, perché la mente è attività cerebrale. Le neuroscienze rendono evidente che siamo il nostro cervello, al di fuori del quale non c’è nulla».
Professore, perché opponiamo tanta resistenza a questa idea, mentre accettiamo serenamente l’influenza dei geni su aspetti fondamentali di noi stessi?
«Ponendo l’attenzione sui processi mentali, il cognitivismo ha trasmesso l’idea tanto diffusa quanto errata della mente come un software, unico elemento degno di essere studiato. Ha quindi dipinto il cervello come un organo fisso. Si è detto che la pelle, il sangue, tutto si rigenera, tranne i neuroni. E, invece, il cervello è l’organo più mutevole e plastico, in constante cambiamento. Tutto lo modifica: le sostanze che assumiamo, l’alcool, le droghe e i farmaci, le stimolazioni elettriche dirette a scopo clinico, ma anche la “moral suasion”, il convincimento razionale e retorico oppure la capacità di persuasione e di fascinazione delle parole di un dittatore. Tutto questo modifica il nostro cervello  e ci cambia. Stiamo parlando di modificazioni biologiche. E’ una sciocchezza equiparare biologico a genetico e contrapporlo a culturale e sociale».
Cambierà quindi il modo di vedere noi stessi?
«Per la conoscenza dell’uomo le neuroscienze sono fondamentali. Pensiamo all’identità personale e a come il cervello crei la mitica figura dell’Io, che non svanisce nemmeno nei più gravi pazienti amnesici, ma soltanto in qualche caso grave di demenza.
La percezione di essere sempre noi stessi è, perciò, il nostro baricentro e una certezza. In modo simile a quanto è accaduto con l’empatia, che lungi dall’essere un fluido immateriale oppure telecinetico, si basa su sguardi, posture, mosse che sono percepiti e poi elaborati dalla materia cerebrale. Oggi l’osserviamo anche nel mondo animale e ne studiamo le basi neurali».
Azzarda una previsione per il futuro sui rapporti tra neuroscienze e psicologia?
«Posso dirvi che cosa non sarà. Non sarà la fine del nostro convincimento di avere pensieri, credenze e desideri: tutti oggetti di studio della psicologia classica che non spariranno, come è stato, ad esempio, per il flogisto in termodinamica. Nasciamo con un cervello che non ha la capacità di percepire il proprio funzionamento e che conosciamo tramite il suo comportamento. Sappiamo di avere un cuore dopo essere stati esposti a nozioni di anatomia e, infatti, chi nasce con il cuore a destra non se ne accorge certo dal battito. Così è e sarà anche per il cervello: non ci dice niente del suo stesso funzionamento e per questo motivo è necessario studiarlo per gettare luce su tutti i nostri comportamenti, inclusi quelli di alto livello».
C’è chi sostiene che una visione «cerebrocentrica» finisce per sminuire l’essere umano.
«Come accadde con il darwinismo l’accusa che ci viene mossa è di vedere nell’uomo solo le sue caratteristiche animali. Al contrario, i mirabili prodotti del suo cervello lo rendono unico. Siamo i soli animali consapevoli della morte ed è stato proprio questo pensiero ad ispirare l’idea dell’aldilà e, quindi, la spiritualità e le religioni, che in quanto manifestazioni della nostra mente vengono studiate dalle neuroscienze. Ciò non toglie nulla all’unicità dell’uomo. Dove sta la de-umanizzazione o il turbamento? L’idea che la scienza sia sostanzialmente pericolosa è ancora oggi un problema della nostra società».

La Stampa 11.12.13
Edgar Reizt: “Racconto la Germania dimenticata quando eravamo poveri”
intervista di Fulvia Caprara


ROMA. Una storia di emozioni ricambiate lega il regista tedesco Edgar Reitz, ospite oggi a Torino del Sottodiciotto Filmfestival, al pubblico italiano e, in particolare alla Mostra di Venezia, che ha sempre accolto le sue opere con attenzione, dal ’67, quando con Mahlzeiten vinse il Leone d’argento per la migliore opera prima, all’84, anno del successo internazionale di Heimat, vincitore del premio Fipresci. Nel ‘92 fu la volta di Heimat 2, mentre in settembre Reitz ha presentato al Lido la sua ultima opera Die andere Heimat Chronik einer Sehnsucht, stasera in programma al Sottodiciotto: «E’ vero dice l’autore un rapporto particolare mi lega all’Italia. Heimat 2 ha avuto più successo qui che nel mio Paese. Si è aperto, intorno al film, un dibattito che in Germania non c’è stato, e per me questa partecipazione è stata importantissima, mi ha dato un enorme incoraggiamento». Al centro del nuovo dramma familiare, una sorta di prequel del monumentale affresco di Heimat, la vicenda, ambientata a metà del secolo XIX nel poverissimo villaggio o di Schabbach, di due fratelli
diversi per indole e aspirazioni: il più giovane, Jacob, amante della lettura e deciso ad abbandonare il villaggio, e Gustav, determinato e bellicoso, in mezzo Henriette, amata da ambedue, e sullo sfondo «una Germania diversissima e quasi totalmente dimenticata», in preda alla tragedia della povertà che spingeva il suo popolo a emigrare in America del Sud. In questo senso, spiega l’autore, il film, pur riferendosi ad avvenimenti di 160 anni fa, parla d’attualità, spingendoci a osservare, come in uno specchio, le somiglianze tra gli immigrati di ieri, che eravamo noi, e quelli di oggi che approdano con ogni mezzo nei nostri territori: «In Germania, come in Italia osserva Reitz il fenomeno migratorio è stato in quel periodo fortissimo. Il che dovrebbe farci riconsiderare una situazione che oggi viviamo al contrario. Solo poco tempo fa eravamo uguali alla gente che ora arriva qui, dall’Asia, dall’Africa, sognando una vita migliore». Progetto risalente a «circa 20 anni fa», Die andere Heimat, pensato per il grande schermo, a differenza della precedente saga, nasce dall’esigenza di mettere in scena i due protagonisti: «Era importante, per me, raccontare due diversi modi di essere, due possibilità di scelta umana, seguire i sogni o adeguarsi alla realtà». Inevitabile pensare che Jacob e Gustav siano, almeno in parte, frutto di ispirazione autobiografica: «Certo, in ogni opera c’è qualcosa dell’autore. Parte della vicenda è autobiografica, e non solo simbolica». Il film è una coproduzione franco-tedesca: «Solo così è stato possibile girarlo. Mi ha impegnato per 4 anni, un sacco di tempo, non solo per trovare i finanziamenti, ma anche per le ricerche. In genere i film in costume costano di più degli altri, questo ha un budget contenuto».
Per il cinema, anche in Germania, non è un periodo facile: «Ci sono molti nuovi registi, il fatto è che, oggi, i film non possono essere realizzati senza il sostegno della tv. Ma la centralità della tv è pericolosa, grande e piccolo schermo sono differenti e la creatività cinematografica rischia di essere influenzata dall’estetica tv che è fondamentalmente giornalistica». In passato era diverso: «La mia generazione ha aperto le porte a un nuovo cinema. E’ stato difficile, ma allora non tutto era concentrato nelle mani del potere e il pubblico era meno preparato e curioso di oggi». Nel futuro di Reitz ancora mille idee da sviluppare: «Quando si è registi da tanto tempo, è normale avere molti progetti immaginati e non concretizzati. Spero di poterne realizzare presto qualcuno».

Corriere 11.12.13
Le Società di filosofia contro l’impoverimento degli studi umanistici
di Antonio Carioti


«Il crescente impoverimento degli studi umanistici rischia di consumare una delle risorse fondamentali della cultura italiana». Lo affermano le principali associazioni di studi filosofici, aderendo all’appello in difesa della cultura umanistica di Alberto Asor Rosa, Roberto Esposito ed Ernesto Galli della Loggia, uscito sulla rivista «il Mulino». Il comunicato, che denuncia anche «i criteri di valutazione adottati dal sistema universitario» come «del tutto inadeguati, perché orientati ad una logica quantitativa e aziendalistica», è sottoscritto dalla Società italiana di estetica, dalla Società italiana di filosofia morale, dalla Società italiana di filosofia teoretica e dalla Società italiana di storia della filosofia. La «dequalificazione» in corso, a loro avviso, sta producendo danni molto gravi, che rischiano di compromettere la «stessa identità culturale del nostro Paese». Ma il testo uscito sul «Mulino» ha suscitato anche rilievi critici, specie in campo cattolico. Adriano Fabris, su «Avvenire» del 7 dicembre, e Antonio Socci, su «Libero» dell’8 dicembre, hanno rilevato che l’intervento di Asor Rosa, Esposito e Galli della Loggia trascura l’apporto della tradizione ebraico-cristiana alla definizione dell’umanesimo. Da segnalare anche un appello al governo, in difesa della cultura classica, promosso dal gruppo Prisma (Progetto per la rivalutazione dell’insegnamento e dello studio del mondo antico).

Corriere 11.12.13
Brutti e cattivi, o forse fratelli
L’immaginario «scientificamente fondato» sugli alieni
di Carlo Baroni


La risposta (ancora) non c’è. Per questo continuiamo a farci domande. Ci sono, chi sono, dove sono? I marziani qualcuno li ha visti o, magari, solo, immaginati. Che, a pensarci bene, forse è la stessa cosa. Potrebbero, dovrebbero essere in qualche galassia lontana. C’è chi è convinto che siano già venuti a farci visita. E in pochi se ne sono accorti. O, addirittura, che si trovino ancora tra noi.
Il bello è che hanno ragione tutti. Basta crederci. Come se la scienza potesse sconfinare nella «fede». C’è qualcuno là fuori? è il titolo azzeccato del libro scritto a quattro mani da Margherita Hack e Viviano Domenici (edito dalla Sperling & Kupfer, pagine 244, e 18). L’ultimo contributo dell’astronoma che ha passato sessant’anni ad osservare il cielo.
Gli uomini sollevano la testa da quando sono apparsi sulla Terra. Sperano di trovare la soluzione alle domande ultime, quelle dalle quali non puoi sfuggire. Guardando con gli occhi o dietro un telescopio ultima generazione. Sapere se abbiamo «fratelli» nello spazio un po’ ci inquieta e molto ci incuriosisce. Il libro di Domenici è pieno delle testimonianze di chi ha raccontato di aver visto tracce di astronavi, trovato reperti che fanno pensare a mondi lontani, parlato con emissari dai corpi asimmetrici e lingue incomprensibili. Un viaggio tra il probabile, il possibile e l’inverosimile. Raccontando tutto, ma fornendo gli strumenti per non farsi abbindolare dai ciarlatani.
La Hack, da buona scienziata, si attiene ai fatti. E questi dicono che non si può escludere nulla. Neanche che su un pianeta sconosciuto viva gente con la pelle verde, le orecchie a punta e le dita ossute come E.T. Solo che non li incontreremo mai: «Le distanze non ce lo consentono e il massimo che possiamo sperare è un contatto radio. Insomma siamo destinati alla solitudine». Ma non è detto che in un futuro lontano si possa trovare compagnia. Chissà perché, chi descrive gli extraterrestri li immagina bruttissimi. Un esempio è il ritratto che ne fece il disegnatore americano Frank R. Paul nel 1939. Testa con la forma improbabile, naso a proboscide, antenne dappertutto, orecchie a guisa di conchiglia, torace ipertrofico e piedi che sembrano dischi. Brutti e cattivi come quelli di Wells. Per la vecchia legge che quello che non si conosce fa sempre paura.
Qualcun altro ha pensato invece a civiltà più evolute che avrebbero portato pace e serenità al nostro mondo lacerato dalle guerre. Esseri superiori con un’intelligenza senza pari. O ancora i marziani dei fumetti, evoluzione in peggio, di insetti giganteschi e orribili. E persino l’evocativa copertina della «Domenica del Corriere» datata 1962 con una tavola di Walter Molino che riproduceva un’astronave che sorvolava un antico villaggio, la gente terrorizzata sotto un titolo che diceva tanto: «Furono già tra noi?» e si basava sugli studi archeologici di uno scienziato sovietico. Nasceva l’ipotesi degli «antichi astronauti». Del resto già Lucrezio nel 70 avanti Cristo scriveva: «Dobbiamo capire che esistono altri mondi in altre parti dell’Universo con tipi differenti di uomini e animali». Cos’era, un presagio, un’intuizione, una speranza?
Il buon senso dice che, poiché le galassie sono milioni, è più probabile lo sviluppo di qualche forma di vita piuttosto che l’esistenza di un deserto stellare. Ma che cosa sappiamo veramente? Nei libri di fantascienza si parla di dossier segreti con sbarchi documentati di alieni e persino di battaglie tra l’aviazione terrestre e le astronavi venute da altrove. Come si lasciò scappare in un fuori onda il primo ministro russo Medvedev che parlò di documenti top secret sugli extraterrestri. I tanti misteri fino al caso Roswell e all’esplodere di programmi tv di fantarcheologia che spacciano per verità scientifiche leggende e dicerie. Il confine, talvolta, è labile.
Viviano Domenici sottolinea come già non più di due secoli fa ci fossero studi che tendevano a dimostrare la presenza di tracce umane anche sulla Luna. Insieme a una flora più lussureggiante di quella che si trova sul nostro pianeta. Poi andò di moda Marte, abbastanza lontano perché fosse possibile fantasticare di alieni. Le sonde spaziali erano di là da venire. Insomma è più bello crederci che no. E allora valgono anche gli indizi nei quadri di autori rinascimentali che sembrano disegnare, nascosto dietro un anfratto, quella che è senz’altro un’astronave. Intanto continuiamo a guardare il cielo. Curiosi e spauriti. In attesa di vedere qualcosa. Un’invasione di alieni che ci porterà via o l’arrivo dei salvatori di un nuovo mondo.
Un esempio della «Fantastic Art of Frank R. Paul» del 1939

Corriere 11.12.13
Il Professore delle Br e la Luce divina
Meglio una Pentecoste di Silenzio
di Francesco Cevasco


Che per spiegare la storia delle Brigate rosse sia proprio necessario (o piuttosto strumentale?) citare la Pentecoste del Manzoni, uno dei mille allievi del professor Enrico Fenzi non se lo sarebbe mai aspettato.
Fenzi non era il classico cattivo maestro, anzi. A suo tempo è stato il miglior professore di letteratura italiana all’Università di Genova. Dante, Petrarca, Boccaccio, e appunto Manzoni. È stato spesso indicato come l’unico intellettuale che sia mai passato al terrorismo. E poi, molto dopo tutti i crimini dei quali si è macchiato, ha anche scritto un libro importante sull’orribile storia delle Brigate rosse, che furono anche sue, dal titolo «Armi e bagagli».
La condanna definitiva a diciotto anni di carcere, un pentimento che non è mai arrivato, e molto silenzio, interrotto dalle polemiche per il documentario che gli ha dedicato il regista Pippo Delbono non cambiano la sostanza delle cose: Fenzi era un brigatista che ha fatto notevoli danni al Paese e anche a qualche giovane intellettuale che subiva il suo ascendente.
Tutto questo preambolo per dire, citando Fabrizio De Andrè: e adesso vecchio professore cosa vai cercando in quel portone? Il portone è quello nobilissimo di Palazzo Ducale a Genova, dove, presentando il libro di Andrea Casazza, «Gli imprendibili», dedicato proprio alla colonna genovese delle Br, il professore, alla sua prima volta in pubblico da quel 17 maggio 1979 in cui lo arrestarono, produce nuvole di fumo. Tipo: «Per capire le Br serve una luce che viene dall’alto, come quella della manzoniana Pentecoste». A cosa si riferisce? Chi lo sa. E poi: «Le cose vere sono ancora tutte da dire». E ancora: «Una barca carica di armi ce l’ha data l’Olp». E ancora: «Ci furono pressioni dei servizi perché io incastrassi l’onorevole Mancini». Scusi, professore, ma lei che ci spiegava così bene il Petrarca, non ci può spiegare in maniera un poco piu’ chiara anche questa storia «alternativa» delle Br che lei conosce bene quanto conosce bene il Poeta? Altrimenti, forse, sarebbe più dignitoso un bel silenzio .

Corriere 11.12.13
Clara Schumann, la musicista che fece grande il marito
di Alessandro Cannavò


La forza. Fisica e psichica. E un misto di bellezza e lungimiranza, di dolcezza e determinazione. Di Clara Wieck Schumann i ritratti ufficiali e la storia della musica hanno detto (quasi) tutto. Eppure di fronte a questa donna dell’Ottocento straordinaria pianista, ma anche compositrice di talento, insegnante innovativa, e dal lato familiare, madre di sette figli e compagna di uno dei più geniali compositori, sofferente di sindrome maniacale depressiva; di fronte a tutto ciò, resta lo stupore. Ma come ha fatto?
E invece è il caso di togliere Clara Schumann dall’aura mitica e proiettarla nella quotidianità, anche delle artiste di oggi. Clara musicista, mamma, moglie: esempio perfetto dal quale partire per il nuovo incontro, venerdì 13, di «Il tempo delle donne», la serie ideata dal blog La 27esima Ora del Corriere della Sera che si svolge al teatro Franco Parenti di Milano. Ne parlano il violinista Salvatore Accardo, la compositrice Isidora Zebeljan, le musiciste Laura Gorna, Cecilia Radic e Laura Manzini dell’EsTrio, con Laura Marzadori, talento in ascesa del violino. Incontro al quale seguirà il concerto-spettacolo «Pochi avvenimenti, felicità assoluta» di Maria Grazia Calandrone per la regia di Antonella Agati con l’attrice Sonia Bergamasco e l’EsTrio. «Una pièce che crea un dialogo tra le parole di Clara e la musica del marito Robert Schumann — spiega Bergamasco —. Calandrone si è ispirata ai diari. La coppia si scambiava pensieri e considerazioni sulla musica e su cose minute, pratiche. Sorprendente come un testo poetico ricostruisca la maglia di un quotidiano vorticoso e denso simile a quello di tante famiglie».
Nello spettacolo si eseguono anche episodi del trio op. 17 composto da Clara. «Un pezzo con momenti di grandissima ispirazione — spiega Laura Gorna, violinista che è anche moglie di Accardo —. Dispiace che si sia dedicata alla composizione non quanto avrebbe voluto. D’altronde era impegnatissima con le tournée, lei teneva economicamente in piedi la famiglia; il marito Robert non era capito all’epoca: troppo avanguardista. Ma Clara si mostrava ostinata a promuovere la sua musica, come fece peraltro con Brahms. Di lei mi colpisce l’empatia, quella capacità molto femminile di capire e far comprendere agli altri la grandezza delle persone che ti stanno accanto».
C’è un momento topico della vita complicata degli Schumann. Ed è la tournée in Russia di Clara nel 1844. Fu lì che presentò tra l’altro il quintetto per archi e pianoforte di Robert. Che la seguì come accompagnatore, principe consorte. «Mi immagino la fatica dell’organizzazione della trasferta e del viaggio, con i mezzi del tempo — dice Accardo —. Clara si portava dietro anche i figli. Vedo che cosa vuol dire anche oggi per me e mia moglie andare in giro con le nostre due gemelline di cinque anni».
Accardo ha l’età e l’esperienza per testimoniare la grande avanzata delle donne nella musica. «Nella mia giovinezza c’era un’unica straordinaria violinista italiana, Gioconda De Vito; decise di ritirarsi a poco piu di 50 anni perché riteneva di aver dato il massimo. Poi, dopo il caso di Anne Sophie Mutter scoperta adolescente da Karajan, ecco l’esplosione. Oggi nella mia scuola per violinisti di Cremona le donne sono la maggioranza. E sono le più brave». Ma certi ruoli di prestigio o di «comando» come la direzione d’orchestra o la composizione, sembrano ancora sostanzialmente di dominio maschile: «È questo il punto — concorda Accardo, che si ricorda delle ironie di alcuni orchestrali verso una direttrice durante un concerto da lui tenuto un po’ di anni fa a Saint Louis —. Il caso di Zhang Xian alla guida della Verdi di Milano resta raro».
Sonia Bergamasco ritiene invece che la donna nella musica si sia ormai pienamente affermata in ogni campo, ad altissimi livelli. «Certo, in una lotta continua, perché per chi non vuole rinunciarci, il ruolo di madre resta insostituibile. È scritto nelle cose». Come le note sullo spartito.

Corriere 11.12.13
Le smorfie vincenti dell’ospite Cacciari
di Aldo Grasso


Nel grigiore dei talk show politici, c’è un lampo di espressività. Succede quando viene invitato Massimo Cacciari, e succede non poche volte visto che l’ex sindaco di Venezia ha preso a frequentare i salotti televisivi, anche i meno bazzicabili, con una certa regolarità.
Da un filosofo, sui cui libri abbiamo consumato ore matte e disperatissime, si attendono aforismi brucianti, ragionamenti di una logicità ineccepibile, la ricerca di un filo di razionalità nel magma brutale del politichese.
Succede anche questo, gli interventi di Cacciari non sono mai banali e un giorno il Pd dovrà pur spiegare perché si è tenuto D’Alema e ha fatto fuori lui.
Ma sono le facce che contano, le facce di Cacciari, con quella barba un po’ così. L’altra sera, per esempio, era ospite di Lilli Gruber su La7: in studio c’era Alessia Morani, responsabile della giustizia della neosquadra di Matteo Renzi, e, in collegamento da Venezia, ovviamente la faccia più connotativa del video.
Cacciari ha saputo trasformare una posizione svantaggiosa (chi è in collegamento non riesce mai a entrare nel vivo del dibattito) in un momento critico privilegiato. Ormai i registi lo hanno sgamato e come qualcuno inizia a parlare, subito inquadrano il volto del filosofo. Che sbuffa, storce la bocca, si gratta la barba, si spazientisce, bofonchia, mostra insofferenza, strabuzza gli occhi, mugugna. La povera Morani sembrava una studentessa agli esami di maturità, intimidita dallo sguardo se- vero del professore e del «commediante» nietzschiano, da una faccia che era tutto un commento.
P.S. Mi piacerebbe chiedere a Matteo Renzi in cosa consiste il cambiamento epocale («l’Italia cambia verso»), la svolta, persino la «rottamazione» se, alla prima occasione, Maria Elena Boschi si presenta nel salotto di Bruno Vespa e già sembra avvinta da quella spirale vischiosa di ziolettismo.

Repubblica 11.12.13
Stato o non Stato
La crisi, la globalizzazione gli equilibri geopolitici
Di questo si parla in occasione dei vent’anni della rivista “Limes”
di Lucio Caracciolo


C’era una volta una città italiana che dominava la finanza europea e irradiava la sua influenza nel mondo attraverso la gestione dei commerci transoceanici e dei flussi di argento americano nelle casse del re di Spagna. Al nome di questa città verrà poi associato il primo ciclo sistemico di accumulazione capitalistica, cui seguiranno l’olandese, il britannico, lo statunitense, domani forse il cinese. Questa città mondiale si chiama Genova.
Sono trascorsi quasi quattro secoli dalla fine della “età dei genovesi” (1557-1627) studiata da Fernand Braudel e ripensata da Giovanni Arrighi nella sua interpretazione delle grandi fasi di espansione finanziaria come preannuncio di un cambio di paradigma geoeconomico e geopolitico su scala globale. Dell’egemonia dei banchieri genovesi la pedagogia nazionale – a cominciare dai manuali scolastici – ha perso le tracce, fors’anche perché, come notava Braudel, essa venne esercitata in modo «così discreto e sofisticato che per molto tempo gli storici non se ne accorsero». Oggi che pensare il mondo dall’Italia, a partire da quale sia la nostra funzione in esso, non è esercizio corrente, provare a farlo da Genova può aiutarci a ricordare chi fossimo. Archeologia inevitabile per chi voglia tracciare rotte future. Contro il compianto che avvelena l’aria del tempo vale riscoprire storie e geografie dimenticate, senza di cui non ha senso progettarne di nuove.
Capire dove siamo e come ci siamo arrivati per stabilire dove andare e come muoverci è in democrazia affare di ogni cittadino, non privilegio di soli tecnici e decisori. In questo spirito, per il suo ventennale e in occasione della pubblicazione del suo ultimo volume –Che mondo fa– la rivista italiana di geopolitica Limes ha allestito, in collaborazione con la Fondazione per la Cultura Genova Palazzo Ducale e con il Comune di Genova, un “Giro del mondo in tre giorni”. Da venerdì 13 a domenica 15 dicembre gli spazi del Palazzo Ducale saranno aperti al pubblico interessato ad alcuni dei temi strategici della nostra vita quotidiana, ovvero della geopolitica planetaria, trattati da una variegata comunità di studiosi, analisti e protagonisti.
L’obiettivo non è trovare la chiave universale che ci schiuda i segreti del mondo. Semmai di individuare gli angoli prospettici che ci permettano di scandagliarne qualche porzione. E rimettere in moto la nostra curiosità per il pianeta, piuttosto appassita da quando abbiamo stabilito di vivere l’era della globalizzazione.
Un tema su tutti: in questa fase, la partita decisiva su scala mondiale riguarda la capacità degli Stati di cogestire l’ordine internazionale. Sperabilmente per via di un consenso da ricercare attraverso il compromesso fra i diversi interessi nazionali. L’alternativa è il caos dei poteri informali, opachi, in molti casi criminali, che tendono a estendere il proprio spazio di manovra, a espandersi in nuovi territori, profittando della debole legittimazione delle istituzioni statuali. Dove non esistono governi responsabili, o ne esistono solo sulla carta, a prevalere sono inevitabilmente i rapporti di forza allo stato puro. Bruto. E parlare di politica non fa più senso.
Questa storia parla anzitutto di noi e del nostro posto nel mondo. Vista da Genova, e dal resto dell’Italia, la questione geopolitica centrale è dunque la seguente: come può un paese a statualità debole (eufemismo) affrontare la crisi della statualità nel proprio “estero vicino”, che sempre più s’intreccia con l’instabilità nostrana? La deliquescenza delle istituzioni autoritarie sulle sponde mediterranee (prima balcaniche, negli anni Novanta, poi nordafricane e levantine, di questi tempi), insieme alla crescente delegittimazione dell’Europa comunitaria – accentuata dalla crisi strutturale del sistema euro e allo spostamento del baricentro geopolitico americano dal nostro continente all’Asia-Pacifico – incrociano e acutizzano le deficienze storiche dello Stato italiano.
Si prenda solo il caso della Libia, paese di fondamentale rilievo per la nostra sicurezza e per il nostro approvvigionamento petrolifero. Qui eravamo abituati a trattare con il padrone unico. Liquidato il dittatore Gheddafi, non si vede ancora la fine dello scontro fra le varie fazioni armate che si contendono il territorio e le sue risorse. Un contesto nel quale è impossibile individuare interlocutori davvero rappresentativi non solo della Libia – uno Stato che non esiste se non negli atlanti – ma persino delle sue principali regioni.
A complicare la partita dell’Italia, il crescente provincialismo della nostra classe dirigente e dell’opinione pubblica in generale. Se i riflessi mediatici della presenza italiana nel mondo si riducono ai marò prigionieri in India o ai tifosi laziali fermati in Polonia, è difficile dare respiro alla nostra politica estera. In questa logica, quando tentiamo di strutturare una strategia geopolitica finiamo per reinterpretarla in chiave domestica. Non siamo certo gli unici a farlo. Ma se a inclinare verso il primato dell’agenda interna – o più banalmente della cronaca – è un paese nel quale politica e istituzioni soffrono di una gravissima crisi di legittimazione, in un clima quasi da 8 settembre, i danni rischiano di diventare irreparabili.
Imperativo è dunque riprofilare il nostro Stato nel contesto che cambia. O rinunciare allo Stato nazionale per costruirne uno europeo. Non scegliendo, si slitta verso un caos difficilmente creativo. Perché l’inerzia spinge allo svuotamento di ciò che resta del nostro apparato politico-istituzionale. Qualche filosofo della storia ci spiegherà che così va il mondo (ma davvero?) e tanto vale adattarci a esso. In attesa dei verdetti futuri, un punto converrà tenere a mente: chi auspica la fine dello Stato, auspica la finedella democrazia e il trionfo dei poteri informali – ossia della legge della giungla o della mafia. Non tutti gli Stati sono democratici e di diritto, ma democrazia e legalità non esistono senza Stato. Quando le relazioni fra noi umani sono affidate ai puri rapporti di forza, prima perdono i deboli e poi perdiamo tutti.
Ha quindi senso avviare il “Giro del mondo”, venerdì pomeriggio, chiedendoci se l’euro ci salvi o ci distrugga. Perché non si è mai trattato, e meno che mai si tratta oggi, di questione unicamente monetaria e nemmeno solo economica, ma di una leva geopolitica che nelle intenzioni di alcuni fra i suoi più illuminati promotori avrebbe dovuto promuovere lo Stato europeo. Che ne è oggi di tale promessa? Ha ancora senso aspirarvi? Se sì come? Se no, quali le alternative? Domande radicali, corrispondenti alla radicalità della crisi. Dalle risposte che daremo dipende il nostro posto nel mondo. Se non le daremo, altri lo faranno per noi. Assegnandoci lo strapuntino che ci saremo meritato.

Repubblica 11.12.13
Higgs: “La fisica? è un lungo puzzle senza soluzione”
Parla lo scienziato che ha ottenuto il riconoscimento per la “particella di Dio”
intervista di José Edelstein


Il 4 luglio del 2012 il Cern annunciò la scoperta del bosone di Higgs, l’ultimo pezzo mancante del Modello standard della fisica delle particelle, dopo quasi mezzo secolo dalla sua teoria. Nell’era della comunicazione globale, tutto il mondo poté vedere in diretta un uomo dall’aria bonaria, con occhi piccoli e vivaci dietro ai suoi grandi occhiali, che non poteva trattenere le lacrime di fronte all’annuncio che aveva atteso per tutta la vita. Era Peter Higgs, il padre della creatura. Da quando si è ritirato, passa la maggior parte del tempo in casa e va regolarmente ai musei, ai concerti e al teatro. È un sostenitore entusiasta del Festival di Edimburgo.
Il suo premio Nobel è stata la cronaca di un riconoscimento annunciato?
«Ho saputo per la prima volta di essere stato proposto per il Nobel nel 1980. Dunque, è stata una possibilità aperta per molto tempo».
Quando iniziò la ricerca del bosone di Higgs?
«Le nostre ricerche sono del 1964, ma non fecero parte di una teoria consistente fino ai lavori di Abdus Salam e Steven Weinberg (1967) e Gerard ‘t Hooft (1971). A mettere in primo piano la ricerca del bosone fu John Ellis, nel ’76. Nell’autunno di quell’anno trascorsi due mesi al Cern, dove si stava progettando un nuovo acceleratore, il LEP, che finì per confermare la validità del Modello standard, ma fu insufficiente per trovarlo».
Il bosone di Higgs è una particella elementare?
«Non ne sono convinto. Abbiamo bisogno di un qualcosa che produca il meccanismo di rottura spontanea della simmetria. Il bosone di Higgs potrebbe essere una particella composta. Sono incline a pensare a una particella fondamentale che faccia parte di una simmetria più ampia, la super simmetria, ma non ho alcuna ragione per sostenere che questo sia lo scenario più plausibile».
C’era una certa discussione su chi avrebbe ottenuto il Nobel.
«Ovviamente Englert! È davvero un peccato che Robert Brout sia morto prima della scoperta sperimentale. Strettamente parlando, loro hanno la priorità e François Englert è quello che è sopravvissuto. Anche se non lo hanno detto esplicitamente, il loro lavoro predice il bosone ».
Parlando di altri fisici, ce n’è qualcuno che ammira in modo particolare?
«È una domanda difficile. Indubbiamente, ho subito l’influenza di Paul Dirac. Abbiamo studiato nello stesso liceo.Uno dei miei eroi è stato sicuramente Freeman Dyson. Anche lui ha avuto un ruolo importante nel diffondere quello che ho fatto, invitandomi all’Istituto di studi avanzati di Princeton nel 1966».
Nel suo dottorato si trovò a un passo dal lavorare sulla struttura del Dna?
«Maurice Wilkins e Rosalind Fraklin lavoravano nel mio stesso corridoio. Io studiavo delle molecole elicoidali, ma non avevano niente a che vedere con il Dna. La motivazione veniva da un lavoro di Linus Pauling su questo tipo di strutture nelle proteine. I biofisici erano molto delusi dal fatto che noi fisici teorici ci interessassimoa molecole così piccole (ride)».
Che cos’è la fisica teorica?
«La vedo come un puzzle perpetuo del quale non conosciamo la soluzione. Non abbiamo il modello finale da poter comparare. Lo dobbiamo scoprire via via, mentre avanziamo a tentoni».
Che cosa è successo il giorno dell’annuncio?
«L’anno scorso i giornalisti si erano appostati sulla porta di casa mia. Non volevo ripetere l’esperienza. Quest’anno era molto probabile che ricevessi il premio. Sono andato a pranzo fuori nella zona del porto di Leith».
È vero che lo ha saputo da una vicina?
«Mentre tornavo a casa, nel pomeriggio, una donna sui 65 anni, che si è identificata come una mia vecchia vicina, ha fermato la macchina e ha attraversato la strada per dirmi: “Congratulazioni per la notizia!”. E io le ho risposto: “Quale notizia?”. Mi ha detto che sua figlia l’aveva chiamata da Londra per comunicarle che avevo vinto quel premio».
La sua passione per la scienza ha un erede?
«Mio nipote ha 14 anni e comincia a interessarsi alla scienza. Probabilmente una certa influenza l’avrà avuta il fatto che, il primo giorno di liceo, alla prima lezione di Scienze, in fondo all’aula c’era un poster con una mia foto al Cern (ride).
L’ultima volta che abbiamo pranzato insieme mi ha chiesto come funziona questa cosa della relatività. È un buon inizio... ».
Quali sono i suoi progetti per il futuro?
«Il 29 maggio del 2014 compirò 85 anni. Significherà il mio ritiro. Spero che con quella data finiscano i viaggi e la fama, che fa piacere, certo, ma attira su di te un’attenzione spossante. Mi opprime. Non posso far fronte a tutte le richieste che ricevo ».
Traduzione di Luis E. Moriones