giovedì 12 dicembre 2013

«Ritorna il bisogno delle grandi idee. Renzi le ha?»
l’Unità 12.12.13
Caro Matteo, il Pd non esiste senza sinistra
di Alfredo Reichlin


Prima di dire qualcosa sul risultato delle primarie io partirei dal dato che a me sembra il più impressionante. Ciò che è accaduto domenica è prima di tutto il segnale di un terremoto. Il vero terremoto che ha investito e sta investendo non solo la politica ma la società. È veramente finito il Novecento. In poche settimane accadono cambiamenti che un tempo comportavano anni. Il declassamento di poteri come quelli della secolare Curia romana. Il ciclone Renzi.
Ma fino a ieri chi immaginava l’esplosione di Grillo (otto milioni di voti)? Cerchiamo di capire. E cominciamo da noi, dalla sinistra. Prendiamo atto che da un pezzo anche la sinistra, così com’è, aveva perduto (a parte i voti) quella cosa essenziale che è l’idea di sé e del proprio ruolo storico, quel pensiero politico che consiste nel pensare al di là del proprio naso, e nel sentirsi parte e attore del cambiamento del mondo? La «botta» che abbiamo preso è forte ma non serve a nulla piangersi addosso. Tutte le strade restano aperte davanti a chi sappia vederle e voglia imboccarle.
È con questo animo che io ho guardato all’Italia che domenica ha fatto la fila per votare nei gazebo del Pd. Una larga parte (un terzo dicono i sondaggi) non erano nemmeno nostri elettori. Non sono un ingenuo. Vedo l’uso che del voto di quella gente qualcuno vuole fare. Ma ciò che mi è stato insegnato è che di fronte agli estremi pericoli che (come oggi) corre la democrazia, bisogna guardare al di là degli interessi di parte. Ed è così che ho guardato a quelle file. Erano persone che volevano affermare in qualche modo una fiducia nella politica, un «no» all’onda sovversiva che vorrebbe travolgere le istituzioni democratiche e credo anche una volontà di progresso. Sia chiaro, ho anche avvertito la critica che quella gente esprimeva verso la nostra parte. Ne concludo che non si è ristretto lo spazio che mi consente di pensare al futuro di una nuova sinistra. Però, attenzione, a certe condizioni. E la principale è che la sinistra faccia una svolta e metta in campo un nuovo pensiero molto diverso da quello del Novecento. Il punto è questo. Non si scoraggino i miei compagni. La forza della sinistra consiste nel fatto che essa non è una istituzione o l’invenzione di qualcuno. È quel fattore inseparabile dal processo storico che consiste nel sostenere la lotta degli uomini volta a liberarsi via via da paure, miti, false credenze, legami servili, sottomissioni ideologiche. La sinistra in cui io credo è il bisogno delle persone di impadronirsi delle proprie vite e dei propri pensieri, a prescindere dai soldi. È quel nuovo umanesimo laico che emerge come risposta alle logiche disumane del mercato e al fallimento del neo-liberismo. Direte che la sinistra attuale non è così? Rispondo che però così potrebbe e dovrebbe essere.
Rivolgo, quindi a Matteo Renzi, il mio saluto e l’augurio di buon lavoro. Punto non sulla sua sconfitta ma sul successo suo e del Pd. La domanda che gli rivolgo è questa, ed è molto semplice. Può esistere nell’Italia di oggi un partito come il Pd senza che la sinistra sia una sua componente essenziale? Sbaglia chi esulta per aver «asfaltato» i pronipoti del Pci. È una ossessione infantile e ridicola. Il Pci non c’è più.
Si è sciolto da oltre 22 anni e chi scrive è tra i fondatori di un partito nuovo, il Pd. Resta il problema di come governare un Paese inferocito e allo sbando. Senza la sinistra? E basta una nuova legge elettorale?
È da qui, non da una ideologia ma dalla necessità di tenere ferma la barra del Paese che si ripropone la necessità di un partito forte, organizzato, motivato anche in senso etico e ideale, e ciò in quanto strumento necessario per far fronte ai fenomeni che vediamo e che rischiano di intaccare anche la fibra morale e intellettuale del Paese. La volgarità e le violenze di un ex comico, unito alla ridicola adorazione per Berlusconi ridotto a una specie di Sultano, il Buono, il Bello, il Capo che non è sottoposto alla legge comune. Spettacoli indecenti, da Medioevo. Il tutto in presenza di una crisi che sembra senza vie di uscite e che sta mettendo alla disperazione e alla fame milioni di persone. In queste condizioni sarebbe un grave errore trasformare il partito in un semplice strumento elettorale al servizio di un uomo solo al comando. Se io fossi Renzi e avessi l’ambizione di un cambiamento veramente profondo non mi limiterei a colpire il potere di «vecchi apparati» (che non esistono) ma difenderei il ruolo del partito, e lo farei come altri prima di lui non hanno saputo fare. Questo è stato forse l’errore più grave: quello di non aver capito e fatto capire la necessità del partito moderno di rappresentare lo strumento attraverso il quale la democrazia cessa di essere un fatto astratto e si incarna in strumenti organizzati, attraverso i quali anche chi non ha potere si può difendere, può prendere la parola, può pensare autonomamente e non in base alle chiacchiere televisive, può acquistare coscienza di sé, e può eleggere i suoi rappresentanti in Parlamento (perfino un operaio, cosa che da anni non accade). Il partito è questo. È lo strumento attraverso il quale anche gli «ultimi» possono partecipare alla vita statale. Qualche parola infine sul perché le grandi riforme sono così difficili e al tempo stesso così necessarie, a fronte del fatto che è diventato incombente il rischio dell’impoverimento e del declino del Paese. Per quale ragioni? A me sembra che non si è ben capito che la novità del problema e la sua grandezza stanno nel fatto che si tratta di ben altro che di superare una fase, sia pure lunga e grave, di crisi economica. Noi siamo al centro di un grandioso passaggio storico, di un cambiamento che mette in causa e rompe tutti i vecchi equilibri della società italiana, che cambia il nostro posto in Europa e nel mondo.
Di questo si tratta. Si tratta del fatto che bisogna ridisegnare la figura stessa del Paese, la sua compagine sociale e statale, e quindi l’idea di sé come nazione. Questo è il grande compito del Pd. Il nuovo segretario ha questa ambizione? Gli ricordo che esattamente questo avvenne nel dopoguerra con l’intreccio di decisioni davvero capitali: l’elaborazione della costituzione repubblicana, la collocazione geo-politiche in Occidente, la fine dell’Italia contadina e al tempo stesso l’avvento dell’Italia industriale grazie anche a una sorta di capitalismo di Stato. L’Iri, la Cassa del Mezzogiorno, gli enti speciali.
Non è forse questa la dimensione dei problemi di oggi e non sta qui l’intreccio evidentemente inscindibile tra riforma economica, riforma dello Stato e delle istituzioni, nuovo patto sociale e territoriale? Ma è per questo che le riforme è così difficile farle. Perché si tratta di affrontare nodi politici di fondo. Perché (vogliamo dirlo chiaro?) la classe dirigente italiana così com’è non può farle senza suicidarsi. Questo è il nodo. Non basta gridare «io cambio tutto». La realtà è più radicale. Ritorna il bisogno delle grandi idee. Renzi le ha? Io spero di si.

Corriere Roma 12.12.13
Il ciclone Renzi scatena appetiti
di Maria Teresa Meli


In nome di Matteo Renzi il Partito democratico romano si fa la guerra e cerca di contendersi quello che è rimasto dell’elettorato di centrosinistra. Non solo, in nome del sindaco di Firenze, diventato segretario con un successo inaspettato, i gruppi di potere del Pd pensano di spartirsi posti, poltrone e strapuntini. Ce ne sono ancora da distribuire. Alla federazione provinciale come a quella regionale.
E l’appetito, come si sa, viene anche non mangiando. Anzi così aumenta. Soprattutto nella Capitale dove chi conta in politica deve dimostrare di essere in grado di parlare direttamente con il sindaco o, almeno, con il suo assessore più importante. Peccato che la verità sia un’altra. Che Renzi abbia deciso di spazzare via il vecchio Pci e la vecchia Dc che si erano uniti in un matrimonio di convenienza, ma che non voglia assolutamente essere coinvolto nelle beghe della Capitale. Lo ha fatto capire più che chiaramente la sera in cui il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti ha annunciato che avrebbe votato per Gianni Cuperlo. Dal Campidoglio, subito dopo, è arrivato un messaggio indirizzato a Palazzo Vecchio. Il tenore era questo: «Volete che il sindaco Marino per controbilanciare Zingaretti faccia una dichiarazione di voto a favore del sindaco di Firenze?». La risposta dal capoluogo toscano è stata quanto mai laconica: «Matteo dice di fare quello che volete». Della serie: non mi importa nulla di quello he accade a Roma.
È quasi un punto d’orgoglio, questo, per il sindaco, che con la Capitale ha avuto
spesso un rapporto complicato. È capitato più di una volta che le uniche sale che non registrassero il pienone ai suoi comizi o ai suoi interventi fossero quelle romane. L’ultima volta, al Teatro Olimpico, la folla era tantissima, è vero, ma ci si è messa gente come Angelo Rughetti, che con le beghe del Campidoglio non c’entra nulla di nulla, a darsi da fare per riempire quella sala, onde evitare l’ennesima magra figura per la Capitale. Solo che ora che il neo segretario ha stravinto anche qui c’è chi vorrebbe regolare i conti in suo nome e spazzare via la vecchia guardia. Che non si capisce bene quale sia, dal momento che il Partito democratico a Roma ha appena votato un segretario provinciale che non è esattamente un giovane virgulto: Lionello Cosentino. E che sotto le bandiere renziane l’under 40 Tobia Zevi non è che sia andato benissimo.
È il brand del sindaco di Firenze che attira voti, non c’è niente da fare. La storia è questa e non è che cambia. Ora in nome di Renzi è in atto il tentato omicidio (politico, per carità) di Goffredo Bettini, che pur votando alle primarie pr il sindaco di Firenze, non si è ufficialmente schierato. È un insolito asse dalemianrenziano che vuole la sua testa. E che intende sbarrargli il passo perché non si candidi alle Europee. Formalmente è il nuovo contro il vecchio. In realtà è lo scontro tra due gruppi che a Roma si sono fatti da sempre la guerra. Ma, come direbbe Renzi, che dalla Capitale non vuole essere fagocitato: «Not in my name».

l’Unità 12.12.13
Uomo dell’anno per Time. Quel Francesco in copertina
La forza umile che seduce il mondo
di Paolo Di Paolo


Non poteva che essere lui «uomo dell’anno». È difficile, da credenti come da laici, non essere d’accordo con la scelta del settimanale Time di dedicare a Papa Francesco la copertina di protagonista del 2013.
La rivista mette l’accento sulla velocità con cui il nuovo pontefice è riuscito a conquistare la simpatia e l’affetto di milioni di persone. È come se in pochi mesi il mondo fosse stato svegliato e scaldato dall’immediatezza dei suoi gesti e delle sue parole. Dopo un pontificato complesso e austero come quello di Benedetto XVI, l’arrivo di Bergoglio in Vaticano ha i tratti di una rivoluzione. Morbida sì, ma rivoluzione. Intanto, nell’ordine delle priorità: in un momento di sfiducia e di distanza dalle istituzioni comprese quelle ecclesiastiche Bergoglio ha, con casualità solo apparente, sommato parole nuove a gesti nuovi, parole semplici a gesti semplici e proprio per questo enormi.
L’abbiamo visto abbattere, sbriciolare velocemente gli eccessi di formalismo, cercare una vicinanza emotiva e perfino fisica con i fedeli. L’abbiamo visto toccare tutti i temi più essenziali della società contemporanea le paure, le chiusure da una prospettiva che può implicare profondamente anche chi non crede.
L’abbiamo ascoltato chiamare in causa le «periferie della vita», i margini esistenziali, il dolore degli ultimi, con una forza d’animo e intellettuale straordinaria per la sua nettezza. L’abbiamo sentito evocare la «globalizzazione dell’indifferenza» davanti ai morti di Lampedusa; richiamare i politici e i potenti in genere alle loro responsabilità, morali e civili. Ha puntato il dito contro la corruzione, contro chi fa beneficenza con soldi «sporchi». Si è battuto contro la guerra in Siria. Ha aperto un discorso molto concreto sul male della pedofilia nella Chiesa e, sempre da dentro le istituzioni ecclesiastiche, un discorso altrettanto concreto sulle ombre che investono la finanza vaticana. E al di là di tutto questo, ha aperto le braccia. Con il calore di cui può essere capace un padre fino in fondo paterno, un parroco del mondo, capace di interpretare il suo compito con una umiltà quasi imbarazzante.
Se ci ha commosso il suo abbracciare i bambini, i disabili, gli emarginati, uomini colpiti da deformità, è perché avevamo smesso di credere che fosse questo soprattutto il compito di un uomo di fede: la pietà verso le creature. In un tempo così cupo, così inquinato dal disincanto e dal cinismo, guardare a Papa Francesco è stato per tutti come guardare a una zona del mondo e dell’umano meno compromessa, meno inquinata, ancora in grado di investire tutto sulla solidarietà fra simili. È stato, in questi mesi, ed è un esempio proprio in virtù del suo non presentarsi come tale, con la normalità domestica, quotidiana, a tratti dimessa (restare in un convento con altri cardinali, rinunciare a certi eccessi del cerimoniale come a certi «privilegi» da Papa), la normalità di un uomo comune.
È la bellezza di questa francescana e umile semplicità a segnare i primi mesi di un pontificato già incredibilmente popolare. Al di là di quanto ci si possa aspettare sul piano delle aperture dottrinarie e del cambiamento strutturale della Chiesa, c’è un bilancio già ampiamente positivo la forza tutta umana con cui Francesco è riuscito a piegare anche le più radicate diffidenze. E a conquistare incredibile a dirsi i laici più incalliti, prendendo carta e penna per aprire un dialogo, o chiamandoli al telefono come amici.

La Stampa 12.12.13
«Ma la sinistra non pensi così di appropriarsi di Bergoglio»
5 domande a Michale Novak Filosofo cattolico


È una scelta magnifica ma i liberal commettono un grave errore se ritengono che Papa Francesco gli appartiene». Parola di Michael Novak, il teologo cattolico conservatore dell’«American Enterprise Institute» e dell’«Ave Maria University» che dice di aver «pensato a Giovanni Paolo II quando ho saputo della scelta di Time».
Perché ha pensato a Wojtyla?
«Durante una cerimonia a San Pietro mi venne incontro e mi strinse la mano. In quel momento, d’istinto gli dissi, semplicemente, di continuare a fare ciò che stava facendo per la Chiesa. È lo stesso augurio che rivolgo adesso a Papa Francesco».
Eppure sono molti i commentatori liberal a ritenere che questo Pontefice si allontani dai valori tradizionali della Chiesa. «Time» nelle motivazioni ne evidenzia la sfida al capitalismo...
«La nostra fede non è di destra né di sinistra. Viene da un tempo quando la destra e la sinistra non c’erano e ci sarà ancora quando la destra e la sinistra saranno scomparse».
Come spiega che il presidente Barack Obama ha citato Papa Francesco sul tema della lotta alla diseguaglianza?
«Ha fatto una cosa giusta perché questo Papa dà la priorità all’attenzione per i più deboli, vulnerabili, discriminati. Ma questo non significa essere liberal. Significa avere la fede».
Non crede che le aperture del Pontefice sui gay siano una svolta?
«Il tentativo dei liberal di tirare per la giacca il Papa è un grave errore. Sui gay come sull’aborto Papa Francesco non si distanzia dalla dottrina. L’operazione che stanno tentando di fare i liberal è di recuperare sul fronte culturale le sconfitte che hanno subito sul terreno dell’economia. I Paesi che volevano essere marxisti, dalla Russia all’India, hanno scelto l’economia di mercato. I liberal puntano sui valori, la cultura. Tentando di impossessarsi dei temi della nostra fede».
Cosa pensa della scelta compiuta da «Time»?
«Premia il fatto che questo Papa attira plausi e critiche, fa discutere, ha portato la Chiesa al centro di una conversazione globale. Anche grazie al fatto di essere un Papa del popolo, di saper entrare i sintonia, compiendo gesti semplici, con le persone comuni allontanandosi dalla gerarchia. Credo che Time lo abbia scelto perché non è un leader di tipo tradizionale».

Corriere 12.12.13
Per Time è Francesco Persona dell’Anno
«Ha cambiato la percezione della Chiesa»
Il filosofo cattolico: il suo invito a spezzare le catene della povertà
di Michael Novak


Il settimanale americano Time ha eletto papa Francesco uomo dell’anno 2013. Il «settantenne superstar», secondo l’irrituale definizione adottata nell’articolo che spiega la scelta, ha superato Edward Snowden, la «talpa» cui si devono le rivelazioni sul programma di intercettazioni dell’intelligence Usa, e l’attivista per i diritti dei gay Edith Windsor, entrambi nella lista ristretta in cui figuravano anche il presidente siriano Bashar Assad, quello iraniano Hassan Rouhani, e la popstar Miley Cyrus. «Raramente un nuovo protagonista della scena mondiale ha catturato un’attenzione così ampia e trasversale, e in così poco tempo come papa Bergoglio», ha sottolineato la direttrice della rivista Nancy Gibbs. «Nei nove mesi del suo mandato è riuscito a modificare la percezione della Chiesa presso milioni di persone». Francesco è il terzo pontefice a ottenere l’ambita nomination: il primo fu Giovanni XXIII, nel 1962, seguito nel 1994, da Giovanni Paolo II. Cornice rossa su fondo oro, la copertina di Time dedicata al Papa sembra un ritratto a olio. Ma le apparenze ingannano: l’estetica neo-rinascimentale «è il frutto di 70 ore di lavoro su uno schermo di computer Lcd da 21 pollici», ha spiegato l’autore, l’artista americano Jason Seiler, che ha realizzato l’opera disegnando e dipingendo direttamente sul display: forma coerente con lo stile di un personaggio che, come evidenzia sempre Time, «fa un uso da maestro degli strumenti del XXI secolo, per porre in atto il suo mandato del I secolo».
Leggendo la nuova esortazione apostolica di papa Francesco e rivisitandola con quella particolare sensibilità al linguaggio che può avere un orecchio americano, sono rimasto anch’io colpito, sulle prime, dalla faziosità e infondatezza di cinque o sei frasi del Pontefice.
Ma riesaminando il testo completo nella traduzione inglese attraverso lo sguardo di quel professore-vescovo-papa nato e cresciuto in Argentina, ho cominciato ad avvertire qualche simpatia per le espressioni utilizzate da papa Francesco. Chiunque voglia commentare le tematiche economiche di Evangelii gaudium dovrebbe tener presente, sin dall’inizio, che questa esortazione non intende trasmettere le opinioni del Pontefice in materia di politica economica, ma semplicemente una serie di consigli e ammonimenti pastorali. Nel brano 51 papa Francesco scrive: «Non è compito del Papa offrire un’analisi dettagliata e completa sulla realtà contemporanea, ma esorto tutte le comunità ad avere una «sempre vigile capacità di studiare i segni dei tempi»… In questa Esortazione intendo solo soffermarmi brevemente, con uno sguardo pastorale, su alcuni aspetti della società che possono arrestare o indebolire le dinamiche del rinnovamento missionario della Chiesa, sia perché riguardano la vita e la dignità del popolo di Dio, sia perché incidono anche sui soggetti che in modo più diretto fanno parte delle istituzioni ecclesiali e svolgono compiti di evangelizzazione.
Pur tuttavia, alcune delle pesanti critiche mosse da questo testo appaiono talmente appassionate e mirate da smentire la normale serenità e generosità di spirito che caratterizzano papa Francesco. E naturalmente, su queste critiche si sono avventati i media, come Reuters e il Guardian . Tra di queste ricordiamo «le teorie della ricaduta favorevole», la «tirannia invisibile», l’«idolatria del denaro», l’«inequità», e la necessità di un «ritorno dell’economia e della finanza ad un’etica in favore dell’essere umano».
Ma allora perché, si chiede Mary Anastasia O’Grady, una delle più attente osservatrici dell’America latina, «la stragrande maggioranza dei poveri e dei disperati si concentra in quei Paesi dove lo Stato si è arrogato un ruolo determinante nell’economia»? Da Max Weber in poi, il pensiero sociale cattolico è stato accusato di essere la causa della povertà in molte nazioni cattoliche. E proprio su questo versante, papa Francesco inavvertitamente rafforza le tesi di Weber.
Sarebbe auspicabile chiedere a uno storico dell’economia di inserire nel contesto appropriato ciascuna di queste accuse gravi e provocatorie, e di spiegare a che cosa voglia alludere in ciascun caso l’autore, allo scopo di controbattere l’uso strumentale che se ne fa nei mezzi di comunicazione odierni. Vorrei concentrarmi brevemente su un’unica affermazione del Pontefice: la sua superficiale allusione alle teorie della «ricaduta favorevole». In questo caso, l’equivoco potrebbe nascere dallo scarto netto che si avverte tra la traduzione ufficiale inglese fatta dal Vaticano e il testo originale spagnolo redatto dal pontefice. Scrive il Papa:
«En este contexto, algunos todavía defienden las teorías del “derrame,” que suponen que todo crecimiento económico, favorecido por la libertad de mercado, logra provocar por sí mismo mayor equidad e inclusión social en el mundo».
Leggiamo ora l’infelice versione inglese: «In this context, some people continue to defend trickle-down theories which assume that economic growth, encouraged by a free market, will inevitably succeed in bringing about greater justice and inclusiveness in the world».
La traduzione inglese di «derrame» con «trickle-down» introduce un significato nettamente diverso e conferisce un tono duro e iroso all’intero passaggio. Occorre precisare che solo coloro che osteggiavano il capitalismo, le riforme di Reagan e la politica dei repubblicani a seguito del tracollo economico degli anni di Carter, ricorrevano all’espressione dispregiativa «trickle-down» proprio per mettere in ridicolo ciò che accadde durante gli anni di Reagan, e cioè una forte mobilità sociale verso l’alto. (Vedere a questo proposito il mio articolo «I ricchi, i poveri e il governo Reagan»).
Tutti coloro che esaltano i successi del capitalismo per risollevare i poveri dalla miseria non fanno uso di questa parola, poiché definiscono il classico movimento delle economie capitalistiche proprio in termini di mobilità verso l’alto per i poveri: risalita dell’occupazione, crescita dei salari, nuovo slancio di iniziativa personale e nuove imprese, occasioni senza precedenti di sviluppo e progresso per i meno abbienti, la possibilità per gli immigrati di uscire dall’indigenza in meno di dieci anni, e il «proletariato» della classe operaia che si trasforma in una classe media in grado di comprarsi la casa e di mandare i figli all’università. Evangelii gaudium afferma che tale opinione «non è mai stata confermata dai fatti», anzi, essa «esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del potere economico imperante». In Argentina e in altri sistemi statici, privi di ogni meccanismo di mobilità sociale, questo commento sarebbe comprensibile. Laddove invece, come in America, intere generazioni dimostrano l’efficacia della mobilità sociale, l’affermazione del Papa non corrisponde affatto al vero.
La mobilità sociale promossa da alcuni sistemi capitalistici rappresenta la realtà vissuta e sperimentata da una vasta percentuale della popolazione americana, e non già una «fiducia grossolana e ingenua». «Ricaduta favorevole» non è la descrizione esatta di quanto è accaduto in questo Paese; qui abbiamo assistito piuttosto al fenomeno della «ricchezza che scaturisce dal basso». Ed è precisamente questo il fenomeno che continua ad attirare milioni di immigrati nella nostra economia.
Per di più, nella traduzione inglese di Evangelii gaudium si legge che la crescita economica produrrà «inevitabilmente» maggior giustizia e inclusione sociale (equidad e inclusión social ). Nel testo spagnolo non vi è traccia di questo avverbio. L’espressione più moderata (e accurata) in spagnolo è por si mismo , «di per sé». A differenza della versione inglese, il testo originale spagnolo vede giusto: ci vuol ben altro, al di là della crescita economica, per creare «maggior equità». Ci vogliono la legalità, la tutela dei diritti naturali, la solidarietà che la fede giudaico-cristiana ha sempre profuso a favore della vedova, dell’orfano, dell’affamato, del malato, del carcerato: in breve, ci vuole l’interessamento fattivo ed efficace per tutti i deboli e i bisognosi. Malgrado i suoi difetti più vistosi, specie nell’industria dell’intrattenimento — musica pop, immagini spinte, tendenze discutibili — il sistema americano si è dimostrato più «inclusivo» verso i poveri di qualunque altra nazione della terra. Due sono gli aspetti di Evangelii gaudium che ho apprezzato in modo particolare. L’intero cosmo, e la vita umana nel suo insieme, scaturiscono dalla vita interiore del Creatore, dalla caritas , quell’amore creatore che tutto accoglie e illumina che è Dio. Come l’erudito e brillante Benedetto XVI ha dimostrato nella sua prima enciclica, Deus caritas est , tutto ciò che è essenziale alla vita umana prende inizio nella caritas divina. Pensiamo alla nostra vita: non rappresenta forse l’amore che proviamo per il coniuge, per i figli, per gli amici intimi, l’esperienza più «divina» che conosciamo?
Per questo motivo il pensiero sociale cattolico inizia nella caritas . Ed è per questo che i poveri sono al centro dell’impegno e della pratica del cristianesimo. Il secondo aspetto che condivido con l’Evangelii gaudium è l’attenzione prestata al più grande dovere pratico della nostra generazione: spezzare le ultime catene della povertà. Nel 1776 viveva sulla terra meno di un miliardo di esseri umani. Si trattava per lo più di poveri che languivano sotto il peso della tirannide. Appena due secoli più tardi, ecco che la terra conta oltre sette miliardi di uomini. Le grandi scoperte e invenzioni mediche hanno raddoppiato in brevissimo tempo l’aspettativa media di vita, riducendo drasticamente la mortalità infantile e curando centinaia di malattie. Il progresso economico ha fatto sì che l’85 percento della grande famiglia umana sia ormai uscito dalla povertà — più di un miliardo dal 1950 ad oggi, e un altro miliardo dal 1980. Ma ancora un miliardo di esseri umani è condannato a patire le sofferenze della miseria e dell’emarginazione. È compito di tutti noi, ebrei, cristiani e uomini di buona volontà, liberarli da queste catene.
Le preghiere dei credenti durante le funzioni domenicali non hanno alcun senso se non sono convalidate dalle azioni pratiche quotidiane a favore dei poveri. Chi non aiuta i poveri non ama Dio.
(Traduzione di Rita Baldassarre )

l’Unità 12.12.13
Il sommo poeta e le sue opere
Sono in preparazione otto tomi Un corpus complesso e definitivo
Alighieri pensava alla grande politica universale, orientata verso la realizzazione della conoscenza e della felicità
di Giulio Ferroni


Molti progetti per il settimo centenario della morte di Dante, i più interessanti vengono curati dal centro Pio Rajna per Salerno Editrice. E vale la pena di citare almeno la nuova edizione di «Monarchia»

CENTENARI E RICORRENZE DI VARIO GENERE PORTANO ALLA RIBALTA SITUAZIONI DEL PASSATO, capolavori delle arti e della letteratura, che spesso, passate quelle ricorrenze, tornano nellombra: al sistema delle celebrazioni culturali si potrebbe riferire ciò che Leopardi, in una delle prime pagine dello Zibaldone, dice della sensazione data dagli anniversari. Questi danno l’illusione «che quelle tali cose che son morte per sempre né possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci l'idea della distruzione e annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla presenza di quelle cose che vorremmo presenti effettivamente».
Davvero sempre più spesso capita che certe ricorrenze offrano una piccola vita provvisoria a forme e modelli culturali sempre più lontane dall’orizzonte pubblico: cultori, eredi, concittadini di questo e di quello si danno un po’ da fare per portare sulla scena come «presenti effettivamente» nomi e opere spesso note solo a pochi specialisti. Lo sa bene chi si occupa di letteratura e nella sua vita ha avuto modo di seguire (anche partecipandovi) centenari, cinquantenari o altro...
Ci sono però pochi autori la cui presenza si impone al di là di ogni spirale celebrativa: per essi i centenari, visti e preparati da lontano, possono suscitare un particolare fervore di iniziative, capaci di dare nuova intensità a una presenza pervicacemente resistente pur nel quadro di un mondo che sembra sempre più allontanarsi dalla letteratura. Così accade per il più grande di tutti, quello che è davvero il «padre» della nostra lingua, Dante: in vista del settimo centenario della morte (2021) sono in atto vari progetti, tra cui si impongono quelli del Centro Pio Rajna, diretto da Enrico Malato, che hanno al centro una nuova edizione commentata delle Opere di Dante, che raccoglie tutto il frutto dell’immenso lavorio del precedenti commenti e offre una fitta serie di apparati, di strumenti di lettura, e anche di testi collaterali a quelli danteschi. Si tratterà di otto volumi in più tomi (Salerno editrice), il cui insieme ambisce a venire in porto appunto nel 2021 (ma c’è anche una tappa intermedia, con la ricorrenza nel 2015, dei 750 anni dalla nascita di Dante), e che ha già visto nel 2012 l’uscita del volume III (De vulgari eloquentia), del primo tomo del VII (Fiore e Detti d’amore, opere di dubbia attribuzione), e ora del IV, Monarchia, a cura di Paolo Chiesa e Andrea Tabarroni con la collaborazione di Diego Ellero (pp. CLII-594, €.49,00).
PROSA MEDIEVALE
Tra le opere di Dante la Monarchia è quella più direttamente legata ai modelli della prosa scientifica medievale, in cui si esprime nel modo più netto l’affermazione della necessità di una monarchia universale (l’impero), destinata a instaurare la pace e la giustizia, guidando l’umanità verso la felicità terrena: negando ogni subordinazione dell’autorità imperiale a quella del papato, a cui invece spetta il compito di guidare l’umanità verso la vita eterna. Questa edizione collega a un’introduzione che offre un’ampia sintesi storica, critica, filologica una fittissima annotazione del testo latino (con traduzione italiana a fronte) e una serie di altri materiali di grande interesse: da scritti polemici di parte papale del secolo XIV contro le tesi centrali dell’opera di Dante (del resto nel 1329 il libro fu fatto bruciare a Bologna e nel Cinquecento fu messo nell’Indice dei libri proibiti), al Commentarium che ad essa dedicò con fervida adesione Cola di Rienzo, al volgarizzamento che nel 1468 ne fece Marsilio Ficino.
Pur strettamente iscritta in un orizzonte tutto «medievale», la Monarchia ha alimentato nei secoli una prospettiva di tipo «laico», con la sua determinante separazione tra potere politico e autorità religiosa, nel quadro di una legittima aspirazione umana ad una «felicità» tutta terrena: essa identifica questa felicità secondo una prospettiva aristotelica, come piena attuazione di tutte le possibilità dell’intelletto umano, di una conoscenza capace di tradursi in azione e di realizzare il bene.
La sua argomentazione fa leva su di un profondo senso della responsabilità della scrittura, del suo necessario rivolgersi verso la ricerca di una «verità» rivolta al bene degli esseri umani: in una visione dell’unità del genere umano e della necessità di un potere universale, il solo capace di rendere possibile pace e giustizia. E certo se oggi siamo tanto lontani dal suo orizzonte storico, filosofico, linguistico, questo richiamo ad una grande politica universale, orientata verso la realizzazione della conoscenza, sola garanzia di felicità e di giustizia, resta determinante ancora per noi, di fronte ai pericoli di un mondo che procede ciecamente, che si affida all’esteriorità dell’apparenza e alla violenta indeterminatezza dell’economia finanziaria.
Non si deve dimenticare, d’altra parte, che con la sua poesia Dante mira ad andare «più in là» dello spazio finito dell’esistenza umana: con il suo grande poema guidato da una passione assoluta per una vita giusta e felice e nel contempo teso verso qualcosa che sfugge ad un controllo umano, fino alla visione di Dio in cui culmina il Paradiso. All’ultimo canto del Paradiso, come parziale «campione» dell’edizione commentata della Commedia prevista per il centenario del 2021, Enrico Malato dedica ora un piccolo prezioso libretto, Dante al cospetto di Dio (Salerno editrice,2013,pp.92,€.7.90), che conduce il lettore entro la sfida dantesca all’indicibile, nella vertigine di quella visione «impossibile». Vi si nota, tra l’altro, l’audacia della scelta di Dante di aggirare «il divieto biblico ed evangelico della visione di Dio», di attribuirsi il privilegio di esservi giunto «addirittura con il proprio corpo», fino a collocarsi alla fine in «coincidenza o sintonia con la ruota dell’universo, mossa dall’amor divino». In questo approdo supremo trova la sua massima manifestazione quella tensione del grande poeta verso un punto di vista “universale”, che si svolge in tutta la sua opera e che, sul più circostanziato piano politico, agisce con spregiudicatezza nella Monarchia.

«Completezza dell’informazione»?
sull’Unità di oggi - e sugli altri quotidiani che abbiamo visto - non abbiamo trovato questa notizia...
La Stampa12.12.13
Coppie gay e aborto, in Europa
I renziani fanno perdere il Pse
Cinque assenti e sei astenuti, tutti dell’area del segretario
di Marco Zatterin

qui

«Completezza dell’informazione»?
sull’Unità di oggi - e sugli altri quotidiani che abbiamo visto - non abbiamo trovato questa notizia...
il Fatto 12.12.13
I partiti salvano i rimborsi
La Finocchiaro (Pd) annuncia l’ennesimo rinvio al 2014
della legge che dovrebbe cancellare il fiunanziamento pubblico alla politica
di Marco Palombi


La commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama è un po’ come la “Orient”, la nave di La linea d’ombra di Conrad: uno ci sale, comincia il viaggio e poi si ritrova perso in una bonaccia senza fine. La nuova legge elettorale, per dire, è in mare da tempo e in porto non l’aspettano neanche più, la riforma del finanziamento pubblico ai partiti nemmeno si sa dove sia. Il capitano della nave, che poi sarebbe Anna Finocchiaro, serena certifica sul diario di bordo ogni rinvio, ogni slittamento, ogni ritardo. Solo che ieri la faccenda s’è fatta più complicata e imbarazzante.
IL BUON Enrico Letta, tra le molte promesse riversate sui parlamentari per farsi dare la fiducia, ha messo anche quella dell’abolizione del finanziamento pubblico alla politica entro il 2013, questione peraltro resa spinosa dall’eccezione di costituzionalità sul tema sollevata dalla Corte dei Conti a fine novembre (tutte le leggi da vent’anni in qua hanno violato il referendum del 1993, sostengono le toghe): “Troppo tempo è passato – ha scandito il premier – Confermo la volontà di concludere il processo per abolire il finanziamento ai partiti entro l’anno con tutti gli strumenti a disposizione”. Chiaro, conciso, determinato. Peccato che il Senato non abbia iniziato nemmeno l’esame del ddl in commissione e si sia ormai a dicembre inoltrato. Molto opportunamente, dunque, l’Ansa ha interpellato Finocchiaro. Sorpresa: niente abolizione entro l’anno. “Non credo che si riuscirà ad approvarla in Aula nel 2013”, ha messo a verbale il capitano della “Orient”. E sì che la legge che abolisce – nel 2017 – il finanziamento pubblico ai partiti sostituendolo con le contribuzioni volontarie venne approvata dal Consiglio dei ministri il 31 maggio scorso.
LA CAMERA, che ha esaminato per prima il ddl, l’ha tenuto tra le sue amorevoli braccia per quasi cinque mesi, licenziandolo il 16 ottobre. Due giorni dopo, cioè quasi due mesi fa, il testo arrivava nella commissione Affari costituzionali del Senato e, da allora, stazionava placido in quella sede: Palazzo Madama, infatti, non ha iniziato nemmeno l’esame preliminare. “Mercoledì prossimo ci sarà la relazione del senatore Pizzetti in commissione”, promette Finocchiaro: “Faremo di tutto” per un’approvazione rapida, “ma non credo che si arriverà al sì definitivo entro l’anno”. Ma perché questo ritardo? “Siamo stati impegnati in una sessione di bilancio molto lunga” e comunque prima di Natale “bisognerà approvare la legge di stabilità in terza lettura”. Insomma, se ne riparla a gennaio inoltrato per il Senato e se ci saranno modifiche, come probabile, si tornerà di nuovo alla Camera.
E QUI si torna alle promesse di Letta. Quando il premier dice che userà “tutti gli strumenti a disposizione”, infatti, si riferisce al possibile varo di un decreto che mandi immediatamente in vigore la legge. Minaccia un po’ spuntata visto che l’ha già utilizzata più volte, la prima addirittura prima ancora di approvare il ddl. Era il 25 maggio, 202 giorni fa: “Se dopo l’estate il Parlamento non avrà approvato un testo, per sbloccarlo siamo pronti a intervenire con decreto”. La via dell’intervento di forza, comunque, presenta diversa problemi. Il primo è, per così dire, procedurale: non sono chiari i requisiti di “necessità e urgenza” necessari per firmare un decreto secondo la Costituzione. Il secondo è di ordine politico: un intervento così invasivo sul lavoro del Parlamento – e su un tema così delicato – metterebbe la vita del governo a forte rischio. Ugo Sposetti, ormai quasi solitario cantore del finanziamento pubblico nel Pd, lo ha ripetuto ancora ieri: “L’ho detto tante volte: questo ddl è un errore e lisciando il pelo al populismo non si va da nessuna parte. Se poi il presidente del Consiglio pensa si possa fare un decreto, rispondo che non vedo l’urgenza”. Anche gli stessi renziani – che pure appoggiano il testo – sostengono di non vedere di buon occhio un decreto. Il problema è che un ritardo ulteriore nell’approvazione della nuova legge avrebbe anche effetti finanziari: la riforma, infatti, arriva all’abolizione definitiva del finanziamento pubblico decurtando progressivamente per il prossimo triennio l’attuale fondo da 91 milioni l’anno. Nel 2014, in buona sostanza, i partiti dovrebbero ricevere il 40 per cento in meno di quest’anno: in soldi fa 54,6 milioni di euro nelle solite due rate. Se però, la legge non sarà approvata subito, almeno la prima rata rischia di essere piena: 46 milioni nei primi mesi dell’anno prossimo invece dei previsti 27,3 milioni. Tradotto: l’eventuale slittamento di qualche mese della legge consentirà ai partiti di intascare 18 milioni e mezzo più del dovuto, al lordo però della quota del Movimento 5 Stelle, che ha deciso di non ricevere comunque fondi pubblici. Insomma, l’arrivo di Renzi non sembra aver modificato di molto la situazione. Beppe Grillo ieri l’ha incalzato: “Rinunci ai finanziamenti pubblici. È sufficiente una firma. La lettera l’ho preparata io”. La risposta del sindaco è arrivata su Twitter: “Caro Beppe, ti rispondo nei prossimi giorni con una sorpresina”

«Completezza dell’informazione»?
sull’Unità di oggi - e sugli altri quotidiani che abbiamo visto - non abbiamo trovato questa notizia...
La Stampa 12.12.13
Super-archivisti, la grande beffa
“Vi assumiamo ma a 3 euro all’ora”
Il ministero dei Beni culturali darà lavoro a 500 giovani per un anno
di Nicola Pinna

qui

Corriere 12.12.13
Il caso Renzi
La vera sfida è unire nipoti e nonni
di Mauro Magatti


Nella scelta della sua nuova segreteria, Renzi ha voluto marcare nettamente il crinale generazionale: siamo nuovi e siamo giovani. In un Paese in declino, dove i giovani o sono disoccupati o vanno all’estero, questa scelta traduce visivamente il principale conflitto sociale che spacca il Paese: l’arresto della crescita, sommandosi alla scarsa mobilità sociale tipica dell’Italia, ha determinato un vero e proprio blocco generazionale che negli anni è diventato insopportabile.
Che il punto sia proprio questo, lo confermano le mosse di Berlusconi: prima con Alfano e poi con i giovani forzisti, il leader di Forza Italia mima il processo che ha polverizzato la vecchia classe dirigente del Pd. Pur rimanendo al suo posto. Dimostrando, anche in questo caso, una scaltrezza inarrivabile a quelli che sono stati i suoi, ormai ex avversari storici. In questa situazione, occorre evitare che il confronto politico del nostro paese si radicalizzi attorno al confronto tra il «nonno» Berlusconi e i «nipotini renziani»: quando il vero problema, di fronte alla profondità dei problemi che il paese ha di fronte, è trovare un «padre» — saggio e capace — che guidi il Paese fuori non solo dalla crisi economica, ma anche dalla crisi sociale culturale in cui versa. Nella situazione di emergenza in cui ci troviamo, il segnale che arriva da Renzi è salutare. In fondo, il segretario del Pd non fa altro che raccogliere il messaggio mandato dagli elettori delle primarie: se l’Italia vuole avere un futuro, deve cambiare. E sulle ali del grande consenso raccolto, Renzi ha voluto cavalcare la rivoluzione generazionale in corso.
E tuttavia, occorre essere consapevoli che il processo avviato è esposto a molti rischi di fallimento e involuzione. Tra gli altri, ne segnalo tre. In primo luogo, il cambiamento in corso non corrisponde ai canoni dei paesi più evoluti, che sono tali perché capaci di gestire il cambiamento nella continuità. Il salto brusco da una generazione all’altra — soprattutto quando si passa dal nonno ai nipoti, saltando i padri — oltre a essere il segnale di una anomalia, comporta sempre un costo. Abbattere tutto e ricominciare da capo richiede apprendimento. Esiste nel Paese un grande patrimonio di competenze, relazioni ed esperienze che non va demonizzato: guai se il furore rivoluzionario si trasformasse in una reazione contro intere generazioni. Il paese ha bisogno di compattezza, non di nuove fratture al contrario. In secondo luogo, i momenti di cambiamento veloce, in cui una classe dirigente lascia il posto alla nuova, sono sempre l’occasione per il riposizionamento dei sistemi di potere più radicati. La storia insegna che, dietro il sacrificio di una classe dirigente, soprattutto quando le cose cominciano ad andare male, spesso si nascondono coloro che vogliono conservare la propria posizione. Chi può farlo, rinegozia con i nuovi venuti, traendo vantaggio proprio dall’inesperienza di chi, da un giorno all’altro, si trova ad occupare posizioni di grande responsabilità. Cambiare l’Italia è cosa ben diversa dal prendere il posto di un gruppo dirigente decotto: non lo si dimentichi mai, perché è questo malinteso che ha storicamente affossato tante istanze di rinnovamento.
Infine, questo tipo di cambiamento, innestandosi su un tessuto culturale e istituzionale su cui è molto difficile incidere, rischia una rapida involuzione: al di là delle buone intenzioni, c’è sempre la possibilità di tornare a ripetere gli errori del passato. Tanto più in un paese in cui il cambiamento avviene sempre nel modo in cui stiamo assistendo in questi giorni: non un avvicendamento graduale e sensato, ma di colpo, attraverso passaggi repentini. Nella storia recente, ciò è avvenuto nel dopo guerra, quando già nella assemblea costituente e poi nei governi Dc, c’erano figure per età e esperienza paragonabili ai renziani. E nel passaggio dalla prima alla seconda repubblica: quando Berlusconi portò i suoi uomini e il Pd fu preso in mano da D’Alema e Veltroni, che erano allora solo di qualche anno più vecchi di Renzi. I componenti della nuova segreteria Pd, si immaginino a 50 anni. In una nuova vita, fuori dalla politica. E questo valga anche per Renzi. Altrimenti, invece di Blair, si trasformerà, suo malgrado, in un nuovo Andreotti.

Repubblica 12.12.13
Pd, l’ira di D’Alema e Bindi su Renzi
L’ex pasionaria: non intendo candidarmi alle europee. Cuperlo vicino alla presidenza
di Giovanna Casadio


ROMA — La segreteria è una gara difficile. «Non è una maratona e neppure i 100 metri, ma un mezzofondo... ». Un Renzi mattutino spiega ai 13 della sua squadra, tutti under 40 o giù di lì, come conta di fare il segretario del Pd. Senza escludere la minoranza cuperliana - anzi, sull’ex rivale Cuperlo ieri sera l’ultimo pressing perché accetti l’incarico di presidente del partito - però certo senza retrocedere sul rinnovamento e il ricambio generazionale. Che la rottamazione continui l’ha detto anche nella riunione dei gruppi parlamentari, martedì: nessuno pensi di rivendicare rendite di posizione per essere messo in lista alle europee. Prima in tv, la stoccata a Anna Finocchiaro, Massimo D’Alema e Rosy Bindi era sembrata ancora più chiara.
D’Alema - che ha annunciato di volere restare fuori dalle beghe di partito - è però furibondo per quell’ostracismo anche sulle questioni internazionali. Bindi replica: «Non ho chiesto nulla, e il parlamentare europeo l’ho già fatto, e bene, ora sono presidente dell’Antimafia e il lavoro certo non manca». Il neo segretario punta a mantenere il massimo dell’unità, e trova in questo un inatteso assist dai “giovani turchi”, che hannosostenuto Gianni Cuperlo e tuttavia non vogliono chiudersi nella ridotta di un’opposizione tipo Correntone nei Ds. Volevano partecipare alla segreteria, come Renzi aveva offerto, e ora insistono perché Gianni accetti la presidenza. «Altre subordinate non ce ne sono - afferma Francesco Verducci - Noi lavoriamo sulla principale e anche Bersani ha invitato Cuperlo a non sottrarsi». La fase è delicata. Il Pd ha bisogno di risalire la china. Renzi nella e-news settimanale chiama alla riscossa: «I cittadini non ci hanno dato solo due euro: ci hanno dato la loro residua speranza. Guai a noi se nonsaremo all’altezza di un gesto così bello. Non tutto dipende da me, ma quello che dipende da me lo farò con tutto me stesso».
E non si chiuderà, il neo segretario, nei Palazzi del potere romano. «Io intendo continuare con gli incontri con professori, famiglie, studenti, lavorare quotidianamente a contatto con le persone e non stare nel chiuso nei palazzi del potere romano. So che qualche purista storcerà la bocca e mi considererà demagogico...». Quindi, la promessa di un cambiamento di verso: «Non sono così arrogante da pensare che chi è andato ai seggi lo abbia fatto perme, ma so per certo che il voto di domenica scorsa è stato soprattutto il simbolo di una svolta necessaria e urgente: cambiare verso al Pd per cambiare verso alla politica italiana. Ora o mai più. Ne ho la piena consapevolezza. La nostra è una responsabilità straordinaria: fallire significherebbe diventare come gli altri. Riuscire porterebbe l'Italia a proporsi come locomotiva dell'Europa. Non c'è una terza ipotesi: o il fallimento totale o il cambiamento profondo ». E perciò il Pd «spina dorsale della maggioranza» non può fallire: «Se falliremo non avremo alibi, sarà stata solo colpa nostra. Se cela faremo, invece, avremo dato un colpo decisivo al rinnovamento dell'Italia». Indicato ieri anche il tesoriere, il fiorentino Francesco Bonifazi. Grandi manovre in Transatlantico tra i “giovani turchi” per la presidenza del Pd. Pippo Civati, l’altro sfidante, discute a lungo con Cuperlo. Bersani, nome che a un certo punto circola sempre per la presidenza, si dichiara indisponibile. Un’assemblea del gruppo individua i 67 deputati membri di diritto dell’Assemblea nazionale di domenica: ci sono Bindi, Fioroni, Damiano, Bellanova, Marantelli, Boccia.

l’Unità 12.12.13
Il leader: guai se falliamo
Pressing su Cuperlo. Se rinuncia alla presidenza, la palla a Civati

(...)
Nell’immediato, prima di domenica,  precisi nodi da sciogliere. Il primo riguarda il rebus della presidenza del Pd, casella ancora da riempire visto che Gianni Cuperlo, che in prima battuta ha detto di non voler tenere per sé quel ruolo, sta ricevendo da più parti pressioni affinché accetti invece l’offerta del sindaco. Renzi ha ha chiesto all’ex avversario di assumere quell’incarico per dare un segno concreto dello «spirito unitario» che deve vivere nel Pd. Cuperlo vorrebbe lavorare per consolidare l’area che lo ha sostenuto al congresso, ma i cosiddetti giovani turchi insistono perché dica sì, Bersani gli ha suggerito di valutare un’offerta che non va considerata un «risarcimento» e D’Alema, nonostante la porta chiusa in malo modo da Renzi su una sua candidatura alle europee (cosa che ha suscitato malumori nel fronte cuperliano) non ha avuto nulla da obiettare. Renzi rimane in attesa di una risposta, che dovrebbe arrivare dopo che oggi Cuperlo riunirà nuovamente la sua area, ma se non dovesse arrivare un sì o l’indicazione di un’altra personalità da parte del deputato triestino (cosa complicata perché non c’è nel fronte cuperliano un’altra figura che metta d’accordo tutte le anime), la presidenza del Pd verrebbe offerta all’area di Pippo Civati.

l’Unità 12.12.13
Terzo giorno, i forconi diventano coltelli
In mezzo a loro, dove comanda CasaPound
Primo «assaggio» della protesta a Roma, pochi convenuti,
si distingue l’estrema destra capitolina. Obiettivi: lo Stato, gli immigrati
di Rachele Gonnelli


Minacciano di marciare sul Parlamento con i trattori e i forconi, sabato prossimo ma per il momento restano confinati in un angolo di piazza dei partigiani, all’Ostiense. Neanche la toponomastica li aiuta. Ieri sono andati su e giù fino a Piramide, circa duecento metri, tenuti d’occhio da lontano da quattro o cinque blindati tra polizia e carabinieri. «Al massimo sono duecento persone», dice un poliziotto levandosi il casco ma solo per passarsi una mano, annoiato e stanco, sulla pelata (quelli che nel pomeriggio si affacciano davanti a Montecitorio sembrano ancor meno) . I proclami però sono di fuoco. Ce l’hanno un po’ con tutti, da Napolitano a Monti, dai giornalisti «giornalista terrorista» gridano alle agenzie di rating, dalla Boldrini a Letta, sono contro l’euro ribattezzato nei comizi «moneta-debito» contro le tasse, i sindacati, i partiti «è tutta una casta, andate a casa» e anche contro Grillo di cui scimmiottano alcune parole d’ordine invocano anche loro «il referendum sull’euro, sovranità monetaria nazionale contro il signoraggio». Senza bandiere a parte il tricolore, cercano di farsi movimento.
Quando il megafono con appiccicato sopra un adesivo «Fronte europeo per la Siria» passa a Simone Di Stefano, numero due di CasaPound si fa silenzio, tutti pendono dalle sue labbra. Anche il ragazzo in tenuta verde militare coi RayBan che si dimenava in su e in giù e non vuol dire il suo nome ma si lascia scappare età e professione: 21 anni, manovale al nero. Di Stefano ribadisce gli obiettivi della piazza»: «Vogliamo lo scioglimento delle Camere, viva l’Europa dei popoli liberi, basta con quella dei banchieri, congelamento del debito, noi non lo paghiamo, vogliono mettere l’Italia in ginocchio e portarci via le nostre aziende come Finmeccanica e Eni, no alle privatizzazioni». Ma è quando grida «chiusura di Equitalia» che gli applausi della truppa intorno si fanno fragorosi.
Di Stefano, preso poi da parte, racconta che sì in effetti non sono molti in piazza ma «Roma è fatta così, è calda ma manca di mondo produttivo», che spera sabato arrivi con trattori e Tir. Quindi si affretta a precisare che CasaPound non è tra gli organizzatori delle proteste chiamate dei Forconi, ha solo aderito «al movimento», che questo «non è politico ma sociale» e addirittura che CasaPound «non è di destra perché la destra è il liberismo, di destra allora è Blair e Renzi con lui, noi non siamo né di destra né di sinistra». Nella sua versione colloquiale, Simone Di Stefano dice che vorrebbe creare un fronte vasto che vada da questa destra del Terzo millennio alla Lega e da Grillo addirittura fino a Sel. «È contro l’euro, Sel, no?», chiede in un attimo di pericoloso singulto di pensiero. No, Sel è convintamente europeista. «Ah, vabbè».
Con tutta questa «pulizia» contro «i ladri» che invoca, non lo preoccupano le infiltrazioni mafiose nel movimento dei Forconi? «Non ho idea di questo risponde Di Stefano ma essendo una protesta spontanea è chiaro che può esserci di tutto». Tra i compagni di strada, o per dir meglio i camerati di strada, quelli che riconosce sono i soliti noti: Forza Nuova e i gruppuscoli della galassia nera che stanno là attorno. Mimetizzati da divise militari o paramilitari oppure riconoscibili dal cartellino dell’organizzazione. Alessio Provaroni, con il cartellino al collo, è uno dei portavoce del Lazio. Geometra edile disoccupato capitana il centro studi Socialismo Nazionale ora ribattezzato Propaganda, che tra un convegno di Forza Nuova e l’altro, vende gadget della Repubblica sociale di Salò, della Marcia su Roma e magliette «sansepolcrine» con teschio e coltello tra i denti. La sua compagna di vita e di impegno è Barbara De Propris, altra portavoce dei Forconi romani, coordinatrice di Azione Donna del movimento Patria nostra federato al Movimento nazionale popolare a cui fanno riferimento in qualche modo anche Roberto Fiore e i reduci della Fiamma Tricolore.
In giro tra i partecipanti del mini-corteo, alla ricerca dei «cittadini semplici che sono la maggior parte» di cui dice Di Stefano, troviamo Mario, 65 anni, di Lavinio, ex ambulante con la pensione sociale, convinto che «gli egiziani dei frutta e verdura non pagano le tasse per tre anni», che gli indiani «hanno un sussidio di disoccupazione dalla loro ambasciata». Chi glielo ha detto? «Un poliziotto amico». La sua amica 36enne, disoccupata, aggiunge che «brucerebbe gli zingari». Poco più in là Silvia, è più democratica, «prima votavo radicale ora non voto», non ce con gli stranieri. «Ce l’ho con gli immigrati d’Italia, i meridionali». Da 21 anni lavora part time in un fast food a 700 euro al mese. «È un lavoro così da bestia che non riesco a fare un secondo part time per tirar su uno stipendio, così vivo al minimo e da 10 anni non faccio vacanze». La sinistra per lei, di famiglia comunista, «ormai è solo burocrazia».

l’Unità 12.12.13
A Savona il grido: «Bruciare i libri»
L’assalto alla Ubik, spazio di riflessione e critica.
di Adriana Comaschi


«Bruciare i libri!». Stupore e sgomento dilagano sul web, quando dai blocchi stradali e dai presìdi l’ampia e multiforme protesta dei forconi imbocca una strada che riecheggia immediatamente scenari più cupi, momenti della storia consegnati, appunto, ai libri.
Sarà anche stato uno degli aspetti più ‘marginali’ nell’ondata di manifestazioni messe in piedi da un capo all’altro della Penisola, un episodio di pochi minuti, senza conseguenze. Ma quell’invito al rogo, lanciato sulla soglia di una libreria simbolo di Savona, dice veramente tanto delle pulsioni profonde, più o meno nascoste nella rabbia indistinta contro la classe politica, il malgoverno, la crisi economica. Non a caso il racconto di quanto successo, postato subito dopo su Facebook dagli stessi gestori della libreria raggiunge oltre 8.600 condivisioni, rilanciato ovunque in rete.
Tutto succede nel giro di pochi minuti martedì pomeriggio alla Ubik, libreria ma anche centro di riflessione culturale in corso Italia. La sua ‘colpa’ è di trovarsi lungo il percorso del corteo dei forconi, diretti verso la sede del Comune. I manifestanti come già altrove ‘invitano’ i negozianti ad abbassare le serrande, lo urlano alcuni ragazzi. E lo urlano anche ai commessi della Ubik, si affacciano sull’uscio e aggiungono quel terribile «bruciare i libri!», che fa gelare il sangue. I giovani alle casse ribattono a tono, «leggete invece, andate a studiare». Lo ‘scontro’ si chiude così, i ‘forconi’ riprendono la loro corsa. Gli insulti però rimangono nell’aria, come quell’aggressione verbale che scrive più tardi su Fb il gestore Stefano Milano «fa venire i brividi. Riporta a periodi bui della storia. Speriamo che la protesta si affranchi da chi pare la stia strumentalizzando e orientando in modo violento e quasi eversivo, in stile fascista. Ai ragazzi che sono entrati urlando questa frase, regaliamo la foto dell’ultimo rogo del 1933, e una poesia di Brecht... Meditate...».
I libri bruciati sistematicamente dai nazisti tra maggio e giugno del 33 hanno testimoniato in modo brutale la volontà di annientare i saperi e le idee ritenuti un ostacolo all’affermazione della propria visione del mondo. Chissà con quanta consapevolezza li hanno evocati i manifestanti che se la sono presa con le saracinesche alzate della Ubik, quasi fosse un’attività commerciale qualsiasi da far chiudere come altri negozi sul proprio cammino. Come se cultura, opinioni, libera espressione non potessero essere il vero antidoto all’inazione della politica, lo spazio in cui trovare le forze per cambiare quanto si ritiene non funzioni. La solidarietà alla Ubik comunque è immediata e ‘virale’. Intanto il personale della libreria rilancia quasi un monito da «Fahrenheit 451»: «Capite ora perché i libri sono odiati e temuti? Perché rivelano i pori sulla faccia della vita. La gente comoda vuole soltanto facce di luna piena, di cera, facce senza pori, senza peli, inespressive..».

l’Unità 12.12.13
Chi soffia sul fuoco della protesta dei forconi
di Massimo Adinolfi


Ormai la protesta dei forconi, che si sta diffondendo nelle città d’Italia si è allontanata dalle rivendicazioni originarie.
E il denominatore comune in cui si saldano le rimostranze di questi giorni sembra essere offerto quasi soltanto dall’invito ad andare tutti a casa. Non è un buon segno. L’auspicio che le ragioni della protesta non vengano strumentalizzate si fa più debole.
Ieri, i titolari della libreria Ubik di Savona, che hanno subito l’assalto dei manifestanti, hanno pubblicato on line alcun versi di Bertolt Brecht: «impugna il libro / è come un’arma». Minacciare il rogo dei libri come appunto è capitato ieri vuol dire tentare di disarmare proprio coloro ai quali Brecht si rivolgeva con queste parole: «impara bambino a scuola / impara uomo in carcere / impara donna in cucina». Prendersela con i libri è prendersela con i deboli, non con i forti. Non è denunciare il superfluo, ma togliere l’essenziale (e mettere sotto tiro una categoria che certo non se la passa bene). C’è da augurarsi naturalmente che simili episodi non si ripetano, e che la protesta si mantenga ben dentro un alveo civile, ma alcuni segnali preoccupanti, come quello dell’aggressione alla libreria, non promettono nulla di buono. E per un Berlusconi che rinuncia ad incontrare i rappresentanti della protesta, in un soprassalto di ragionevolezza che speriamo duri, c’è sempre un Grillo che mantiene l’invito alle forze dell’ordine perché incrocino le braccia, augurandosi così che un’onda di piena travolga tutto e tutti.
Le analogie con altre situazioni esplosive che si sono verificate nel nostro paese, in passato, non provano nulla, se non la difficoltà di capire dove va davvero il movimento. Se però attendiamo dimostrazioni in buona forma prima di esprimere un senso di forte preoccupazione, rischiamo di ritrovarci come già altre volte, alla vigilia di una spirale crescente di disordini e violenze senza alcuna chiara idea di quel che potrà capitare, mentre si incupisce il clima sociale e la risposta politica tarda ad arrivare.
La Cgia di Mestre indica nelle difficoltà del mondo del lavoro autonomo e delle microimprese una delle ragioni più profonde delle proteste di questi giorni: «La crisi ha colpito in maniera più evidente scrive il mondo delle partite Iva rispetto a quello del lavoro dipendente». A questo mondo Berlusconi, incurante dei fallimenti dei suoi governi, prova nuovamente a lisciare il pelo; Grillo, invece, prova a rizzarlo. Le difficoltà di commercianti, piccoli imprenditori, artigiani, agricoltori, descrivono un restringimento progressivo dell'area dei ceti medi e un lento scivolamento di fasce sempre più estese della popolazione verso condizioni di marginalità sociale e fragilità economica allarmanti. Quelle persone sono oggi in piazza, del tutto legittimamente, e vi stanno insieme agli studenti, ai precari, ai lavoratori adulti che hanno perso il lavoro e non sanno come mantenere la famiglia. Ma vi stanno confusi in uno strano impasto che spinge a manifestare qualche centro sociale insieme agli estremisti di destra e agli ultras delle squadre di calcio, con obiettivi ancora indistinti, privi di una riconoscibile strategia politica e allettati dallo scontro per lo scontro.
Siamo, insomma, un passo prima che il movimento prenda una deriva anti-legalitaria e anti-costituzionale, per non dire apertamente filo-fascista. Quel passo non occorre affatto che venga compiuto, e una risposta democratica può e deve essere trovata. Quando nel 1921 Gramsci scrisse che Mussolini tentava di riorganizzare i ceti medi che resistevano contro la proletarizzazione, manteneva ancora fermo che tale esito fosse un «portato fatale del capitalismo». Quell’esito si realizzò effettivamente, ma non affatto come il portato di una fatalità. Non vi è nulla di fatale nel destino politico e sociale dell’Italia: non allora e non ora.
È vero e conviene ripeterlo: le analogie gettano più luce sull’analogante che sull’analogato. Per fortuna, non sarà l’assalto alla libreria di Savona, o certe grida di «sporco comunista» che si sono ascoltate qua e là, a farci temere un nuovo fascismo. Ma una politica irresponsabile, che lavora alla delegittimazione delle istituzioni democratiche, che asseconda un clima di discredito generalizzato per nascondere le proprie colpe e le proprie responsabilità, o che prende di mira una volta l’euro e un’altra la casta come si fa con i capri espiatori, cioè distogliendo l'attenzione dalle vere ingiustizie sociali, quella sì abbiamo qualche ragione di temerla. E l’impegno per il 2014 di Letta non può allora non consistere anzitutto nel respingerla con ogni fermezza.

La Stampa 12.12.13
Sedi sindacali sotto attacco
Cgil: “Minacciati e aggrediti”
di Roberto Giovannini

qui
 

l’Unità 12.12.13
I servizi segreti: «Infiltrati che mirano all’eversione»
Alfano assicura fermezza ma la saldatura fra le frange estremiste e la disperazione sociale preoccupa i vertici della sicurezza nazionale
di Claudia Fusani


Il movimento è infiltrato da frange estreme al limite dell’eversione». Sarà categorico questa mattina il generale Arturo Esposito direttore dell’Aisi, l’agenzia degli 007 nazionali davanti al Copasir per spiegare profili, contenuti e prospettive del Coordinamento 9 dicembre che raccoglie le varie anime dei cosiddetti Forconi. Perchè il primo punto urgente da chiarire è chi sono. Sulla carta agricoltori, pastori, pescatori, autotrasportatori, edili, allevatori stanchi, si definiscono sui social network, «del disinteresse quando non dei maltrattamenti da parte delle istituzioni». Ma nelle città e nelle strade italiane in questi giorni c’è molto di più. Soprattutto di diverso come spiegherà Esposito: «Gruppi di estrema destra riconducibili a Forza Nuova e Casa Pound e formazioni delle tifoserie che fanno riferimento sempre alla destra». I centri sociali, si spiega, «al momento stanno osservando». Il dato investigativo già assodato e non da oggi parla di «un disagio sociale molto forte ma carsico che studia e sfrutta ogni occasione offerta dalla cronaca per emergere e rompere una precaria pace sociale».
Ieri è stato il terzo giorno. Oggi sarà il quarto. E i propositi per le prossime ore sono funesti. «Nelle prossime ore valuteremo la risposta adeguata al voto di fiducia: da tutta Italia andremo a Roma e ci riprenderemo lo Stato. Stiamo mobilitando tutto il paese» ha arringato ieri Danilo Calvani uno dei presunti leader del Coordinamento. L’altro è Mariano Ferro («aspettate, bisogna ancora far bollire l’acqua» ha frenato ieri), presente con una sua lista alle comunali di Palermo, poi alle regionali siciliane e a febbraio scorso alle politiche con Forza Nuova di Morsello. Un flop dietro l’altro. Da allora è in cerca di una candidatura. E non è escluso che ammiccamenti siano in corso tanto con Berlusconi (che però ieri ha cancellato l’incontro temendo pericolose strumentalizzazioni) e con Grillo. Ieri s’è fatta avanti la Lega del neosegretario Matteo Salvini: «Quando la protesta è non violenta è sempre benvenuta. Noi della Lega abbiamo perso la pazienza: il nostro no sarà gridato dentro e fuori il palazzo perchè chi ha avuto la fiducia oggi ha la coscienza sporca. E non ci si deve stupire se forconi e altri vengano qui per prendere qualcuno».
Ecco, è questo il nervo scoperto che preoccupa la nostra intelligence interna e il Viminale: la saldatura tra formazioni politiche estreme e gruppi sociali che manifestano un giusto e disperato disagio ma facilmente infiltrabili da formazioni parapolitiche.
L’Aisi ha condiviso informazioni e analisi dieci giorni fa, con palazzo Chigi e con il Viminale. Un allarme dettagliato. Purtroppo anche fondato. Il ministro Alfano ha riunito alla vigilia delle manifestazioni il Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica.
E stamani (ore 11) spiegherà al Parlamento a che punto è la situazione. «Il fatto è spiega un analista che ha avuto modo di leggere le informative che è stato compreso che il governo è difficile vada in minoranza per dinamiche politiche mentre può essere vulnerabile se attaccato per problemi esterni». Non a caso sono Forza Italia, Grillo e Lega cioè chi vorrebbe andare al voto possono essere la sponda politica a un movimento giudicato «eversivo».
Emanuele Fiano, responsabile sicurezza del Pd e già membro del Copasir, denuncia come «la cosa più raccapricciante sia l’attività svolta nelle città prima delle manifestazioni. Mi riferisco a squadre di persone che girano nelle strade e costringono con le minacce i commercianti a chiudere per partecipare alla serrata». È successo ieri a Torino in un supermercato. E a Genova in una libreria. «Come in altri momenti della storia» aggiunge Fiano «e questo è uno di quelli con 9 milioni di poveri e 7 milioni tra precari e disoccupati, sulla rabbia sociale vera e anche giustiticabile vengono montate speculazioni politiche da parte della destra estrema».
I QUATTRO LEADER
Un momento ad altissimo rischio. Di cui la nostra intelligenge ha fornito al governo un identikit impressionante. «Abbiamo valutato riferisce un analista che in un blocco di cento persone, 40 sono lavoratori delle varie categorie, 40 sono attivisti di estrema destra e il resto cittadini arrabbiati». Una miscela pericolosissima.
Il ministro dell’Interno Angelino Alfano è stato categorico: «Non sto qui ad aggettivare le ali estreme dei movimenti che protestano ma certamente sapremo cosa fare se esagerano. Faremo di tutto per assicurare le pacifiche manifestazioni legittime ma metteremo tutta la forza dello Stato contro i violenti». Alfano è consapevole di giocarsi in questa partita la sua permanenza al dicastero dell’Interno. E sa anche che ai fratelli diversi di Forza Italia non spiacerebbe buttare già dalla torre l’ex delfino traditore.
Sono quattro, al momento, in base alle informative dell’intelligence, i leader riconosciuti del Coordinamento 9 dicembre: Mariano Ferro, il leader dei primi forconi; Augusto Zaccardelli, autotrasportatore e ultrà laziale; Danilo Calvani, ex piccolo imprenditore dell’ortofrutta e ora leader del Comitato agricoltori riuniti (candidato nel 2011 a sindaco di Latina) e Lucio Chiavegato, falegname veronese. Condividono lo stesso obiettivo: costringere il governo alla dimissioni.

l’Unità 12.12.13
Contromanifestazione
Studenti e sindacalisti a Piazza Castello: «Resistiamo ai fascisti»

Teli bianchi come ai tempi delle stragi di Falcone e Borsellino sono stati esposti in piazza Palazzo di Città a Torino, dove alcune centinaia di torinesi si sono riuniti per una contromanifestazione dopo quella dei Forconi. «Nella città medaglia d'oro alla Resistenza, bisognava dare un segnale forte contro la violenza che non è la risposta alla crisi», hanno detto gli organizzatori della manifestazione partita con un tam tam tra studenti e universitari sui social network. Gli studenti hanno sottolineato che la manifestazione è apolitica e che «tante persone che in questi giorni hanno aderito alla manifestazione dei forconi, secondo noi sono eterodiretti da movimenti di estrema destra». In piazza anche tanti esponenti del mondo sindacale torinese, gli studenti hanno rilanciato per sabato una grande manifestazione pacifica anti-forconi.

l’Unità 12.12.13
Calvani, il fascista che arringa i disperati e se ne va da Genova in Jaguar

Chissà se a Roma, dove ha promesso di ‘calare’ nel caso fosse stata votata la fiducia, ci andrà in Jaguar. Perchè così ha lasciato Genova ieri Danilo Calvani, leader del coordinamento nazionale 9 dicembre. Terminato infatti il comizio nella centralissima piazza De Ferrari Calvani è salito su una lussuosa Jaguar scura, scortato da alcuni nerboruti manifestanti. «Non è mia», ha detto poi. Poco prima aveva tuonato: «Ci stanno distruggendo», riferendosi alla mancanza di lavoro e alla povertà sempre più diffusa in Italia.

Oggi è il 12 dicembre: quarantaquattro anni fa a Milano, nel 1969, ebbe inizio la «strategia della tensione»
Non abbiamo trovato nulla sull’argomento sugli altri quotidiani che abbiamo visto
l’Unità 12.12.13
Piazza Fontana: ora niente segreti
Quasi mezzo secolo dopo si sa tutto ma non ancora abbastanza. Adesso è ora di cambiare strada
di Gigi Marcucci


Sapere che il gruppo veneto che ruotava intorno a Franco Freda e Giovanni Ventura fu responsabile, almeno sul piano storico, dei ventidue attentati che squassarono l’Italia nel 1969, ivi compresa la strage del 12 dicembre alla Banca dell’Agricoltura di Milano, conferma le intuizioni di chi non credette alla pista anarchica prefabbricata dai servizi segreti; contribuisce o almeno così si spera ad attrezzare istituzioni e opinione pubblica per il futuro; ma lascia del tutto inevasa la richiesta di giustizia.
Oltre naturalmente a suggerire riflessioni poco ottimistiche sullo stato della democrazia nel nostro Paese.
Una bomba, diciassette vittime, una novantina di feriti. Quasi mezzo secolo dopo, si sa tutto ma non si sa ancora abbastanza. Si conosce la matrice ideologica e organizzativa dei fuochi che cominciarono a divampare in quella primavera. Si sa che quattro anni prima, durante il convegno promosso dall’Istituto Pollio, strana associazione molto legata ai vertici militari dell’epoca, si cominciò a parlare di guerra psicologica. Un Ufficio governativo della Guerra Psicologica era stato caldeggiato da uomini delle Forze armate, ma la Dc, all’epoca avviata al primo esperimento di centrosinistra, aveva lasciato cadere la proposta. che lo ha spiegato il professor Aldo Giannuli, storico e consulente di molti magistrati che hanno indagato sulle stragi dei primi anni Settanta avrebbe alterato profondamente gli equilibri democratici, mettendo nelle mani dei militari parte della Presidenza del consiglio e di numerosi ministeri chiave.
Il principio proposto dall’Istituto Polio era di estrema semplicità. Von Clausevitz aveva spiegato che la guerra era la prosecuzione della politica con altri mezzi. I promotori dell’iniziativa sostenuta finanziariamente dall’Ufficio “R” del Sid, quello da cui, si sarebbe scoperto, dipendeva Gladio capovolsero la massima: era la politica a costituire un appendice, non necessariamente pacifica, della guerra. Secondo storici e magistrati, fu quel convegno a gettare le basi del conflitto “a bassa intensità”, oggi conosciuto come strategia della tensione, che cominciò a lasciare cicatrici profonde nella storia del nostro Paese. Quattro stragi tra il ‘69 e l’80: piazza Fontana, Brescia, treno Italicus, Bologna. Azioni di una guerra mai dichiarata di cui oggi bisognerebbe sapere di più. Se non altro, perché una sanguinosa appendice di quella stagione ci fu all’inizio degli anni Novanta, con le stragi di mafia, e il significativo intermezzo, nel 1984, della strage del rapido 904, per cui è stato condannato con sentenza definitiva Pippo Calò, boss mafioso legato alla Banda della Magliana e all’estrema destra romana.
In nessun processo per strage è stato posto il segreto di Stato. Lo stop del potere politico è scattato in procedimenti contigui, bloccando verità, in alcuni casi (pochi) rivelate in minima parte, molti anni dopo, dagli stessi imputati di allora. Se non fossero scattati quei semafori rossi, oggi forse avremmo le idee più chiare. Sapremmo con maggiore precisione quali strategie, ed elaborate da chi, armarono la mano degli attentatori. Oppure avremmo la certezza ma le carte processuali vanno purtroppo in un tutt’altra direzione che questi si mossero autonomamente, che non ci furono cospirazioni ma solo follia omicida. Quello del segreto di stato è un coperchio bucherellato. Difficilmente blocca del tutto la visuale su ciò che bolle in pentola, ma non permette di capire se si tratta di minestra o veleno. A metà degli anni Settanta fu Andreotti a opporre il segreto di Stato per il cosiddetto golpe bianco, su cui indagava l’allora giudice istruttore Luciano Violante. Nel 1985, il presidente del Consiglio Bettino Craxi scomodò il segreto per Augusto Cauchi, terrorista nero fatto espatriare nel 1974 dal SID, finanziato da ambienti molto vicini a Licio Gelli e sospettato per gli attentati ai treni. Ancora Craxi bloccò le indagini sul comportamento del Sismi che, dopo aver recuperato in Uruguay l'archivio di Gelli, decise di restituire alle autorità sudamericane alcuni i fascicoli. Quando, molti anni dopo, Gelli fu condannato con sentenza definitiva per aver depistato, insieme a ufficiali del Servizio segreto militare, le indagini sulla strage alla stazione di Bologna, molti pensarono che bisognava smettere di proteggere certi segreti. Ma la linea dei governi, quali che fossero i loro colori, non cambiò molto. Persino sulle rivelazioni di Carmine Schiavone, boss della camorra, è calato nel ‘97 il sudario del segreto di stato (governo Prodi). Così, per molti anni, si è fatto finta di ignorare ciò che tutti sapevano e che alcuni giornalisti avevano già raccontato: che nel suolo della Campania erano interrate tonnellate di rifiuti tossici, che molte persone potevano morire di cancro. La lezione di piazza Fontana, 44 anni dopo, potrebbe in fondo essere molto semplice: è ora di cambiare strada.

l’Unità 12.12.13
Poveri Cie, due giorni senza capire e farsi capire
di Luigi Manconi e altri


I centri di identificazione e di espulsione (Cie) in Italia, (in cui, lo ricordiamo, vengono trattenuti i migranti privi di regolare titolo di soggiorno in attesa di essere identificati ed eventualmente espulsi), sono sempre più luoghi sprovvisti degli standard minimi necessari a garantire un’accoglienza dignitosa. Le strutture attive sono, a oggi, cinque, mentre altre sette sono chiuse per ristrutturazione o per insufficienza di fondi dedicati alla gestione. Ciò è una conseguenza delle gare d’appalto indette per l'amministrazione dei Centri, il cui criterio fondamentale come è risultato ultimamente pare essere quello del massimo ribasso.
La conseguenza è che i 21 euro a persona al giorno stanziati per la gestione dei Cie determinano condizioni e problematiche insostenibili se si vogliono assicurare i servizi minimi previsti dalle linee guida del ministero dell'Interno. Problematiche evidenti anche nei casi – rari per la verità – nei quali il costo «procapite pro die» (per dirla con il linguaggio burocratico) risulti più alto. È questo, ad esempio il caso dei mediatori culturali che – come recitano gli stessi capitolati d’appalto relativi ai servizi di gestione dei centri – dovrebbero essere sempre previsti al fine di «garantire le elementari esigenze di comunicazione ed interrelazione con gli ospiti». Talvolta, ma dovremmo dire spesso, non è così.
Un’assenza, ad esempio, all’origine delle traversie e degli equivoci nei quali è incorsa una donna somala che si era presentata, qualche giorno fa, in Questura per formalizzare la richiesta di asilo. La signora – che non parla alcuna lingua, tranne la propria ed ha evidentemente bisogno di un mediatore – viene trasferita in un Cie di zona perché in precedenza non aveva ottemperato a un decreto di espulsione. Un assenza, quella del mediatore, che ha reso impossibile alla signora comprendere le informazioni di base: orari e regole; quali erano i propri diritti; a quali servizi poteva avere accesso; persino dove era capitata e come poter uscirne.E invece a causa dell’assenza di un mediatore che parlasse la sua lingua è stata due giorni, dal trattenimento all’udienza con il giudice di pace, senza poter parlare con qualcuno. La signora somala è stata dunque 48 ore senza capire nulla di ciò che le stava accadendo. Questo fatto è pesato soprattutto quando la mattina del secondo giorno è stata fatta salire su un’auto e condotta fuori dal centro. Il suo primo pensiero, rivelatosi per fortuna errato, è stato quello del rimpatrio. Quando invece si è trovata in un palazzo e non all’aeroporto, ha immaginato che quello poteva essere il tribunale dove si sarebbe tenuta l’udienza di convalida del trattenimento al Cie. Il suo avvocato, nonostante non fosse stato avvisato in tempo, è riuscito ad arrivare e a impedire la convalida, e impedire che la signora passasse un intero mese (o forse più) senza comunicare.
Capita così che una persona può rimanere per due giorni senza informazioni e in balia degli eventi e che la spiegazione che viene fornita è che i mediatori siano previsti solo quando sono presenti più ospiti di una determinata lingua e nazionalità. Come non è accaduto per una donna somala, sola e priva di qualsiasi mezzo di comunicazione.

Repubblica 12.12.13
Le rivelazioni di Brusca “Riina mi disse che il papello era arrivato a Mancino”
Il pentito: la strage di Capaci per non far eleggere Andreotti al Colle
di Salvo Palazzolo


MILANO — «Totò Riina voleva rompergli le corna ad Andreotti, perché non aveva impedito le condanne del maxiprocesso. Non è che volesse ucciderlo, voleva ostacolarlo, voleva impedirgli a tutti i costi di diventare presidente della Repubblica. E ci siamo riusciti, anticipando la strage Falcone ». Giovanni Brusca, l’ex pupillo di Riina oggi collaboratore di giustizia, racconta al processo per la trattativa il grande attivismo del capo di Cosa nostra all’inizio del ‘92. «Riina diceva che con una fava avevamo preso due piccioni». E dopo la morte di Falcone, il padrino di Corleone puntava già a un nuovo obiettivo politico. «Circa 20 giorni dopo l’attentato di Capaci — racconta Brusca — Riina mi disse: “Si sono fatti sotto, mi hanno chiesto cosa vogliamo per finirla e io gli ho consegnato un papello di richieste”. Era contentissimo. Ma non mi disse a chi aveva dato il papello ». Qualche giorno dopo, a Cosa nostra fu recapitata la risposta: «“Hanno fatto sapere che le richieste sono troppe”, spiegò Riina, che aggiunse: “Ma non è una chiusura”. Fu allora che mi fece capire che il papello era andato a finire a Mancino». Precisa il pentito, rispondendo alle domande del pm Roberto Tartaglia: «Da lì a poco, Mancino diventò ministro».
Sono i misteri del 1992, che nel processo per la trattativa ruotano attorno alla figura di Nicola Mancino, imputato di falsa testimonianza: l’ex ministro dell’Interno nega di aver mai saputo del dialogo segreto fra l’allora colonnello del Ros Mario Mori e l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, dopo la strage di Capaci. Per la Procura, quel dialogo è la trattativa di cui parla Brusca, che lui chiama «interlocuzione». Un dialogo che Riina voleva alimentare nell’ottobre 1992 con un altro «colpetto»: «L’obiettivo era Piero Grasso — spiega Brusca — volevo piazzare l’esplosivo dentro un tombino, ma poi il progetto fu rinviato ».
A Milano, con la Corte d’assise, sono arrivati il procuratore Messineo, l’aggiunto Teresi e i sostituti Del Bene e Tartaglia. È rimasto a Palermo Nino Di Matteo, per motivi di sicurezza, dopo le ultime minacce in carcere di Riina. Il capo di Cosa nostra si è spostato invece nella saletta delle videoconferenze di Opera, per ascoltare il figlioccio di un tempo («Ero il suo robottino», ricorda Brusca). Riina non si è scomposto neanche quando il pentito ha ricordato i suoi strali contro «i politici che avevano tradito», da Lima a Mannino. Per la Procura è Mannino l’origine della trattativa: avendo saputo di essere nel mirino, avrebbe attivato il Ros. Ma di questo Brusca non sa nulla. Dice di non sapere nulla anche «dell’accelerazione » della morte di Borsellino,che secondo i pm avrebbe scoperto la trattativa.
Riprende Brusca, che non nasconde la storia della sua travagliata collaborazione («Ho parlato di Dell’Utri solo dopo il commuovente incontro con Rita Borsellino, che mi chiedeva di conoscere la verità»): «Gli attentati del ‘93 erano finalizzati a fare tornare i contatti di Riina a trattare». Nel racconto del pentito fa capolino anche Bernardo Provenzano, che non è in questo processo solo perché è ammalato, ma nella ricostruzione della Procura è un altro dei registi della trattativa, quello che avrebbe venduto Riina, arrestato dal Ros il 15 gennaio 1993. «Ci vennero i primi dubbi perché il covo non veniva perquisito — dice Brusca — e avemmo il tempo di portare via le carte. Riina aveva avuto un presentimento, ci disse che in caso di arresto tutta la questione del papello la sapevano Messina Denaro e Biondino». Matteo Messina Denaro è ancora latitante.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Il pm Nino Di Matteo, non ha partecipato all’udienza

«un milione i bambini e ragazzi che vivono in condizione di povertà assoluta nel nostro Paese»
Repubblica 12.12.13
Il regalo di Natale per i figli della crisi
di Chiara Saraceno


Che cosa significa per un bambino o ragazzo essere in condizione di povertà assoluta? Significa non poter avere una alimentazione adeguata, non fare prevenzione sanitaria (con la crisi sono crollate le visite dal dentista, che in Italia non fanno parte del servizio sanitario nazionale), vivere in spazi domestici troppo affollati e in spazi esterni spesso degradati, non potersi scaldare a sufficienza, non avere libri e giocattoli, talvolta non avere l’abbigliamento adatto alla propria corporatura. Significa avere a disposizione servizi per l’infanzia e scuole in misura minore, e di più bassa qualità ambientale, della già non eccelsa media nazionale. Significa sperimentare già da piccoli, tramite l’esperienza dei genitori, che il lavoro spesso non c’è e quando c’è non dà abbastanza da vivere decentemente.
Significa anche capire molto presto di non contare nulla per chi ha potere di decidere. Sono circa un milione i bambini e ragazzi che vivono in condizione di povertà assoluta nel nostro paese di cui Save the Children nel suo ultimo “Atlante” ha tracciato, in collaborazione con i ricercatori dell’Istat, una fotografia (per noi tutti) impietosa quanto drammatica. Sono il doppio di quanti (già troppi) erano in questa condizione nel 2007. La metà vive nel Mezzogiorno, dove più di un minore su 10 vive in condizioni di povertà assoluta (in Sicilia quasi uno su cinque). Ma l’aumento è stato relativamente maggiore nelle regioni centro-settentrionali. I minori, insieme e più dei giovani, sono le grandi vittime della crisi, che li colpisce fin dentro le condizioni di crescita, di salute, di capacità e possibilità di progettare un futuro, precostituendo un percorso che porterà molti di loro ad ingrossare le fila dei Neet — giovani tra i 18 e i 24 anni che né studiano né lavorano — per i quali l’Italia ha un non invidiabile primato. Eppure la povertà dei minori non riesce ad entrare in nessuna agenda politica, in nessuna scala di priorità. Anzi, molte decisioni di politica economica hanno colpito e colpiscono particolarmente loro, ulteriormente riducendo le risorse disponibili per attività e servizi loro destinati. La drastica riduzione del fondo sociale, unitamente ai vicoli del patto di stabilità, ha comportato una riduzione dei servizi per la prima infanzia, così importanti per contrastare le disuguaglianze di partenza. La riduzione dei fondi per la scuola ha portato alla forte riduzione del tempo pieno, soprattutto nelle regioni (del Sud) dove si era meno consolidato, ma dove sarebbe più necessario per contrastare situazioni di disagio e carenza di risorse famigliari, ed anche dei servizi integrativi. Certo, accanto ai vincoli di bilancio (e al modo in cui sono definiti), c’è stata e c’è una forte carenza di programmazione e di utilizzo dei fondi, specie europei. Ma, a mio parere, ha contato e conta l’intreccio tra marginalità e frammentazione delle politiche di contrasto alla povertà da un lato, marginalità delle politiche rivolte all’infanzia e all’adolescenza dall’altro. Esse sono sempre occasionali, temporanee, nascono e muoiono con il politico e il fondo di turno, senza diventare mai misure consolidate, per quanto rivedibili, con finanziamenti certi. Ciò produce dispersione di energie e risorse ed anche sfiducia ed estraniazione, non solo tra i minori e le loro famiglie, ma tra gli operatori sociali e le comunità.
Un esempio, solo apparentemente marginale, è quanto sta succedendo a Napoli proprio in queste settimane. Da anni esiste in quella città un’attività di educativa territoriale, circa 25 laboratori che tutti i pomeriggi, dal lunedì al venerdì, accolgono ragazzi e adolescenti nei quartieri più a rischio della città, fornendo loro sostegno scolastico e arricchimento curriculare e sottraendoli alla strada e al reclutamento da parte della camorra. In quindici anni di esistenza sono stati accolti centinaia di ragazzi, riducendo il rischio di dispersione scolastica purtroppo altissimo in quella città. In tutto questo tempo non si è mai trovato il modo di finanziare queste attività in modo regolare e continuativo, e tantomeno di decidere se e in che modo sia necessario avere una politica di contrasto all’esclusione scolastica e alla marginalità sociale dei ragazzi più svantaggiati. Gli operatori, ma anche i ragazzi e le famiglie, sono stati sistematicamente lasciati in uno stato di perenne incertezza. Anche in questi giorni, il ritardo nel fare la delibera necessaria (o nel trovare una soluzione alternativa, se ritenuta migliore) provocherà la chiusura dei laboratori, lasciando circa 2mila famiglie disagiate senza una soluzione sicura per i figli dopo le vacanze di Natale. Ecco pronto il regalo di Natale ai ragazzi più poveri di Napoli (ma fenomeni simili stanno avvenendo anche in altre città).

Repubblica 12.12.13
Legge elettorale
Perché serve una riforma su misura
di Nadia Urbinati


È responsabilità della politica ridare fiducia nelle istituzioni. Mettendo fine a comportamenti che calpestano la moralità pubblica (il misuso e l’abuso delle risorse pubbliche) e all’impotenza a decidere. Quest’ultimo è il caso della mancata riforma elettorale. Non c’è più spazio per i tentennamenti; la crisi sociale che attanaglia il paese da Nord a Sud è di tale gravità da non consentire tempi supplementari. Superare l’impotenza è un dovere e una necessità. Un’impotenza della politica che è il residuo dell’erosione della fiducia che si è accumulata nel ventennio berlusconiano e che ha minato la capacità cooperativa tra avversari e perfino tra i membri di uno stesso partito. Uno stato di discordia sulle regole e quindi di impotenza a prendere decisioni che non ha precedenti nella storia repubblicana. Sembra che ci sia una resistenza programmata a non voler trovare il bandolo della matassa dal quale ripartire per ricostruire il tessuto politico della nostra democrazia. Questa mancanza di virtù politica decisionale non è ulteriormente tollerabile. La politica deve rompere questo incantesimo negativo e dare ai cittadini uno strumento elettorale che consenta loro di andare a votare con la certezza di poter usare un metodo equo e funzionale. Certo, la cancellazione del Porcellum da parte della Consulta crea problemi di legittimità decisionale di questo Parlamento come ha messo inluce Gustavo Zagrebelsky nella sua recente intervista aRepubblica. Ma una classe politica che voglia acquistare autorevolezza presso i cittadini lo fa anche dimostrando di essere in grado di uscire dall’impasse con gli strumenti che la Costituzione le dà.
Una buona legge elettorale deve conciliare le tre promesse che il sistema rappresentativo fa: che la maggioranza abbia il diritto di governare; che l’opposizione non si senta ingiustamente trattata; e che i cittadini si percepiscano come parte del gioco, coinvolti nella scelta dei candidati cosicché il loro suffragio non sia un plebiscito ma una scelta elettorale di chi dovrà far parte dell’organo (il Parlamento) che ha il potere di legiferare. Tra le virtù di un buon sistema elettorale ce n’è una particolarmente importante: far sentire a chi perde le elezioni di non avere subito ingiustizia e di continuare a fidarsi di chi ha vinto. Neutralizzare le passioni negative. Il sistema elettorale ha tra le altre cose il compito di alimentare quelle emozioni di cui la competizione politica ha bisogno, come la delusione per una sconfitta e la determinazione a rimontare la china. Lo scopo della democrazia elettorale è di minimizzare la diffidenza. L’aritmetica applicata alla politica ha la capacità di sedare la passione del risentimento e di tonificare le energie per la lotta di domani. Tenendo a mente queste condizioni virtuose si dovrebbe riflettere sul sistema elettorale migliore.
Nel presente dibattito il maggioritario sembra godere di più ampio consenso. I suoi sostenitori si suddividono in due gruppi: coloro che vogliono ancora ricorrere al premio di maggioranza (bocciato dalla Consulta nella forma abnorme in cui il Porcellum l’aveva concepito) e coloro che vogliono il doppio turno, conosciuto anche come modello francese. Indubbiamente il primo dei due ha controindicazioni evidenti in quanto lavora contro la ricostruzione della fiducia contenendo un elemento di arbitrarietà (il premio). L’altro metodo, quello del doppio turno, ha il merito di creare solide maggioranze. Dall’altro canto, però siccome esso riduce il peso dell’opposizione, se non è incastonato in un sistema politico retto su un forte senso di sovranità del corpo nazionale può non essere in grado di cementare la fiducia. Si cita la Francia come modello ma si trascura di dire che la Francia è per tutti i francesi “La France”, il popolo- re-uno-indiviso al quale presidenti e maggioranze eletti si inchinano, prima che al loro partito. Dove c’è, come in Francia, una sovranità forte e indiscussa le maggioranze sono comunque una parte rispetto alla quale il tutto ha preminenza indiscussa di riferimento e di limite, per chi vince come per chi perde. Questo non pare sia il nostro caso. Certo, noi abbiamo già una forma di maggioritario nel modo di eleggere i sindaci. Ma i sindaci operano nella sfera amministrativa nella quale la debolezza del consiglio comunale che questo sistema comporta non è un serissimo problema. Ma lo sarebbe se applicato a livello nazionale poiché il parlamento fa leggi e non è desiderabile un sistema che rende il collettivo deliberante più debole dell’esecutivo.
Un’ultima osservazione, dovuta, riguarda l’uso dei “modelli”. Noi siamo spesso troppo attratti dal seguire modelli che altri hanno creato sulla propria esperienza. Anche noi dovremmo fare altrettanto. L’Italia è plurale, spesso divisa, con un forte senso della complessità di appartenenza nazionale e quindi ha bisogno di rappresentare il pluralismo e cercare strategie per la cooperazione invece che imporre semplificazioni procustee nel tentativo di dar vita a un bipolarismo perfetto. Si deve poter trovare una mediazione tra garantire la pluralità e formare maggioranze non aleatorie. Un sistema elettorale che sia ragionevolmente rappresentativo della diversità senza consentire che la pluralità diventi frammentazione.

Repubblica 12.12.13
La culla cinese
Dopo 35 anni e 336 milioni di aborti forzati Pechino ha fatto marcia indietro sul figlio unico. Ma non si annuncia un baby-boom
di Giampaolo Visetti


La Cina non è più la fabbrica del mondo e per la sua economia ora ha bisogno di gente:
ragazzi per tenere basso il costo del lavoro, adulti per alzare i consumi. Per questo
dopo 35 anni e 336 milioni di aborti ha fatto marcia indietro sul figlio unico.
Ma il divieto di procreare per ordine di partito è ormai un’eterna condanna

PECHINO Un altro bambino? Troppo tardi. Siamo cresciuti tra figli unici, siamo abituati così. Lo Stato ha sconvolto la testa della gente: se ora il partito ha problemi, obblighi i suoi funzionari, a fare più figli ». Gu Yingnan ha 32 anni ed è capo del personale di un’azienda di Pechino che produce pannelli solari. Per dieci anni, assieme al marito Defu, ha sognato di donare una sorella al figlio Wenzhi. Ora che il suo desiderio potrebbe realizzarsi, le è passata la voglia. «Ci hanno fatto indebitare per una casa da tre — spiega seduta sul divano-letto del suo bilocale nel quartiere degli affari — abbiamo quattro genitori anziani da assistere, una macchina da pagare e mio marito lavora a Shanghai. Questa è una Cina per figli unici: ci siamo rassegnati, preferiamo avere i soldi per le vacanze, se i leader hanno nostalgia delle famiglie tradizionali, prima cambino il Paese».
Nel 1980 obbligare i cinesi ad avere meno figli è stato difficile: dal 2014 costringerli ad averne di più non sarà un’impresa facile. L’addio al figlio unico rischia così di diventare l’incubo del «sogno cinese» lanciato dal presidente Xi Jinping: le autorità restituiscono libertà, ma il popolo la rifiuta. È trascorso meno di un mese dallo storico annuncio del Plenum: con il nuovo anno basterà che uno solo dei partner sia figlio unico perché una coppia possa mettere al mondo due bambini. Dopo quasi 35 anni di divieto però, in Cina non si annuncia un baby-boom. È un’altra sfida epocale: bloccare il più grande esperimento di ingegneria sociale della storia, applicato alla popolazione più numerosa del pianeta. Chi prevedeva di assistere a masse di sposi scendere nelle piazze a brindare, è rimasto deluso. «Siamo quasi 1,4 miliardi di individui — dice Yuan Xin, demografo dell’università Nankai di Tianijin — ma il problema è che non siamo del tipo giusto. La pianificazione famigliare doveva durare una generazione. Ora siamo oltre la terza e il cinese medio è maschio, poco istruito, vecchio e solo».
Le autorità — aggiunge Yuan Xin — puntano sui giovani laureati della classe media urbanizzata. Ma per questi ormai un figlio è anche troppo». Come se il divieto temporaneo di procreare, per ordine di partito, fosse mutato in un’eterna condanna. Deng Xiaoping non conosceva la demografia e alla fine degli anni Settanta, sopravvissuto ai trenta milioni di morti di fame del “Grande balzo in avanti”, volevaassicurare ad ogni cinese «una ciotola di riso». Tagliare le bocche gli parve più rapido che moltiplicare i raccolti. Non ha previsto però nemmeno l’evoluzione dell’economia: ieri il dramma dei figli negati ha contribuito al successo della Cina, oggi minaccia di renderlo vano. Trentacinque anni fa il reddito medio equivaleva a 200 euro all’anno e ogni donna aveva in media sei figli. Oggi ogni cinese guadagna annualmente 6 mila euro e il tasso di natalità è di 1,08, il più basso del pianeta.
«Per avere una società equilibrata — dice Yang Wenzhuang, capo del dipartimento nazionale di pianificazione famigliare — ci occorrono 2,2 figli per donna, ildoppio di oggi. Altrimenti, fino al 2050, perderemo 3,25 punti di Pil». I funzionari restano abituati alle ragioni dei tecnocrati rossi: le persone sono ingranaggi di una macchina e il modello lo scelgono loro. La realtà però è che i cinesi che hanno obbedito all’ordine di fermare la vita, non sono gli stessi che dovrebbero eseguire il comando di farla ripartire. Fu Zhen, bancario di Chongqing, ricorda il giorno in cui la madre «tornò a casa con la pancia vuota». «Avevo sei anni — dice — e avevo deciso che per fare spazio a un fratello mi sarei trasferito dal letto al pavimento. Quando era tutto pronto, mia mamma si sgonfiò. I funzionari la obbligarono ad abortire al settimo mese. Sono cresciuto conil sapore della solitudine, deciso a non concepire i neonati come strumenti nelle mani del potere. Sono sposato, ma con mia moglie abbiano scelto di non avere bambini su ordinazione». Tre dei massimi demografi cinesi l’hanno battezzata «sindrome del figlio unico di ritorno». I figli unici, per protesta contro lo Stato che li ha condannati a crescere soli, optano per il «nido vuoto». «La pianificazione famigliare di Deng — hanno scritto — assieme alla Rivoluzione culturale e al Grande balzo in avanti di Mao Zedong, verrà presto aggiunta all’elenco delle peggiori tragedie della storia moderna cinese. Con una differenza: le atrocità maoiste potevano finire, la legge del figlio unicono». Gli effetti, nell’ultimo trentennio, per la Cina sono stati devastanti: 400 milioni di persone in meno, 336 milioni di aborti forzati, 200 milioni di donne e altrettanti uomini sterilizzati. Costretti alla scelta secca tra femmina e maschio, i genitori hanno scelto il secondo, per avere qualcuno che li possa mantenere da vecchi. «L’allungamento della vita — dice Zhai Zhenwu, direttore dell’istituto di sociologia dell’Università del popolo di Pechino — nel nostro paese in via di sviluppo è stato più rapido del previsto e la mancanza di un welfare moderno ha fatto il resto: abbiamo quasi 40 milioni di maschi in eccesso rispetto alle femmine e l’invecchiamento può bloccare la crescita ». I dati confermano: la Cina conta oggi 194 milioni di over 60 e nel 2050 saranno 430 milioni, più degli abitanti degli Usa. Quest’anno 13.600 scuole hanno chiuso per mancanza d’iscritti, mentre nella capitale l’attesa per un posto in casa di riposo è di cento anni. Un cinese su tre nel 2040 sarà un anziano, mentre lo squilibrio sessuale, nelle campagne, raggiunge picchi di 135 maschi ogni 100 femmine: una popolazione maschile pari a quella dell’Italia è condannata a non avere una compagna.
L’urgenza di fermare la tragedia, per i prìncipi rossi eredi dei rivoluzionari di Mao, è evidente. Ma perché solo adesso e con quali possibilità di successo? «La Cina— dice l’economista Gu Baochang — deve trasformarsi da fabbrica del mondo a primo mercato interno. Agli operai devono sostituirsi i colletti bianchi, ai villaggi rurali le metropoli del terziario. Il capitalismo, senza forza lavoro e senza consumatori, crolla. Non c’era scelta: ma deve fare figli la nuova classe media urbana, non la vecchia famiglia rurale. Il guaio è che il destinatario della riforma, stenta ad accettare ordini nella sua vita privata». La propaganda del partito però ce la mette tutta. In una notte a Pechino sono scomparsi i manifesti che ammonivano «Una culla in più significa una tomba in più», oppure «La patria è troppo stanca per sostenere più bambini». Al loro posto, mamme sorridenti che cambiano pannoloni e papà felici che tirano aquiloni con due figli per mano. Lo slogan, dopo 35 anni, in poche ore è cambiato: «La forza della Cina è la famiglia».
L’obiettivo è convincere i cinesi a mettere al mondo da 1 a 2 milioni di neonati all’anno in più, da 7 a 10 entro il 2020. «Le donne in età fertile — dice Qiao Xiaochun, ricercatore della commissione nazionale di pianificazione — sono 79 milioni e il 48%, essendo figlie uniche, potranno generare due bambini. Sono oltre 39 milioni di donne e almeno la metà si è dichiarata interessata al secondo figlio. Se solo un quarto lo farà, avremo dieci milioni di cinesi in più». Tivù e giornali di Stato, da metà novembre, martellano con storie di coppie che scelgono la data più fortunata per lo storico accoppiamento post-liberazione. Programmi in serie mostrano reparti maternità e asili in costruzione, che «si preparano al felice assalto», mentre le rubriche economiche spiegano il boom in Borsa delle aziende che producono latte in polvere, pannoloni, pappe, giocattoli e perfino pianoforti. Non mancano i documenti, fino a ieri censurati, sul dramma della legge del figlio unico: le fiere di attrezzi sessuali per single, le corriere di donne nubili nelle regioni interne, i villaggi abitati solo da vecchi. Non è ancora caduto il muro sulla verità dei bambini negati dal regime, sulla sua violenza e sul dolore che ha sconvolto tre generazioni, in particolare tre generazioni di donne, ma il “contrordine compagni” risulta inequivocabile: alla Cina, per scongiurare la destabilizzazione sociale, salvare il partito-Stato e superare gli Usa nel controllo del secolo, adesso «servono più cinesi». Ragazzi per tenere basso il costo del lavoro, adulti per alzare consumi e Pil, donne per generare altri lavoratori-consumatori. Il “Quotidiano del popolo” l’ha definito «un patto nell’interesse del mondo». «Ma la verità — dice Han Xue, maestra in una classe con 32 scolari e 7 alunne — è che ai poveri si chiede sempre un sacrificio diverso. Prima non fare bambini, ora il contrario. Per i ricchi il divieto non è mai esistito. Per gli altri, allevare ed educare un figlio oggi in Cina costa 25 anni di stipendio: per compiacere il partito, i genitori rischiano di tornare a fare la fame».
Tra un anno sapremo quanti saranno stati i «figli dell’addio alfiglio unico» di Xi Jinping, i primi bebè cinesi a non potersi fregiare del titolo di “piccoli imperatori”. «Ma già oggi — dice Long Xiaolan, designer pechinese che dopo aver tentato un parto vietato a Hong Kong ora prende acido folico per dare subito una sorella al primo figlio — sappiamo che per regolare la vita basta la natura, non serve un partito».

Repubblica 12.12.13
La scrittrice Xue Xinran: ora siamo ricchi ma senza relazioni
“Preziosi e viziati la solitudine imposta ormai ci ha cambiati”
intervista di Valeria Fraschetti


«La politica di controllo delle nascite ha stravolto così intimamente la società cinese che, proprio ora che potranno finalmente avere più figli, i cittadini non ne vogliono nemmeno uno». È questo il paradosso che vive la Cina dopo oltre trent’anni di politica del figlio unico secondo la scrittrice Xue Xinran. In pochi conoscono da vicino le profonde ferite lasciate dal programma demografico cinese quanto lei che, da giornalista radiofonica negli anni 80 e da autrice di romanzi e reportage quali “Le figlie perdute della Cina” (Longanesi), ha dato voce alle donne costrette ad abbandonare le proprie bambine per effetto dell’atavica preferenza culturale per i maschi e dellapolitica del figlio unico.
Quali effetti hanno prodotto tre decenni di questa politica?
«Le conseguenze sociali sono devastanti. La struttura tradizionale della famiglia è stata completamente sconvolta negli ultimi quindici anni. Quando la politica del figlio unico venne introdotta, fu accolta con molto ostracismo proprio perché contraria alla cultura dell’epoca, nella quale le famiglie grandi erano la norma, erano viste come una risorsa, i figli come un’assicurazione. Invece ora le famiglie somigliano a isole, a monadi. Solitarie, ricche materialmente, ma prive di quelpatrimonio immateriale offerto dalle relazioni comunitarie».
Gli effetti psicologici quali sono?
«Oltre all’indicibile dolore vissuto da milioni di donne costrette ad abortire forzatamente o ad abbandonare i figli per strada, questo programma ha trasformato l’idea stessa di figlio. Chi è nato sotto questa politica è visto come un re in famiglia, prezioso e viziato. I genitori vivono nel terrore di perderlo, sono diventati iperprotettivi, ma anche molto esigenti. Vogliono il meglio per lui e da lui. Così i ragazzi crescono sotto una pressione enorme e accentuata dalla solitudine».
Vede ricadute positive nella società cinese cinese?
«Nonostante la crudeltà insita in questa normativa, è evidente che il rallentamento demografico prodotto ha generato un’accelerazione nell’emancipazione economica dei cinesi. Senza la politica del figlio unico oggi saremmo stati 400 milioni in più. Una massa che avrebbe rallentato la lotta alla povertà e allo stesso tempo aumentato l’impatto del Paese sul riscaldamento climatico. Altro effetto positivo: il valore di una figlia femmina rispetto a un maschio è aumentato».
In che senso?
«La politica del figlio unico sommata alla pratica degli aborti di feti femminili, causata dalla preferenza per i maschietti, ha sbilanciato la forbice tra popolazione maschile e femminile. Nel 2025 ci saranno 30 milioni di uomini in più delle donne: uomini che non avranno spose a sufficienza. In questo senso, la penuria di ragazze da sposare le ha rese più preziose».
Altra distorsione generata dai figli unici è la crescente anzianità della popolazione. Proprio questo fenomeno ha spinto Pechino ad allentare la normativa sul controllo delle nascite. Che impatto avranno le nuove misure?
«Se il governo pensa di ottenere così un ringiovanimento della popolazione si sbaglia. Proprio ora che si potranno avere due figli, molte coppie non ne vogliono. La politica del figlio unico ha fatto perdere valore alla famiglia. I trentenni di oggi sono cresciuti come re e tali vogliono restare, la loro solitudine li ha resi egoisti, disinteressati alla costruzione di un nucleo familiare. Inoltre i costi per far crescere un figlio stanno crescendo e molti rinunciano per questo».
Come salvare quindi le famiglie cinesi?
«Oltre al diritto ad avere più figli, c’è bisogno di welfare: di supporto economico alle famiglie, di tutele alla maternità e, soprattutto, di rendere l’istruzione completamente gratuita».

l’Unità 12.12.13
Biografia di un secolo
Pahor: così ho vissuto
Il Novecento raccontato in prima persona dal grande scrittore sloveno
di Boris Pahor


Pagine inedite Anticipiamo alcuni stralci dedicati alla moglie durante il periodo fascista. Il volume sarà da domani in libreria
AVEVA SCRITTO DI LEI, CHE, COME SI È DETTO, ERA STATA RIBATTEZZATA ŽIVKA: «E mi sembrò di comprendere come l’amore di Živkarappresenti l’antico amore del mare per la propria costa, fedele come le volute delle doline carsiche, riempite di sole».
Radoslava Premrl è entrata nella mia letteratura. Compare soprattutto in una novella, piuttosto estesa, intitolata Primorska ljubezen, poi ristampata con il titolo modificato in Dihanje morja (Il respiro del mare). E inserita in una raccolta dall’omonimo titolo, dedicata a lei. In questa prosa si riscontra una prima esposizione delle sue vicissitudini familiari in epoca fascista, del periodo in cui tutta la famiglia finì in prigione e la loro casa fu incendiata. Sono accennati anche la morte del fratello partigiano e il bieco omicidio della sorella.

4 settembre
Al suo fianco è sempre come stare in mezzo al mare mosso, e avevo l’impressione di aver trovato la metafora giusta e anche il momento giusto per dirla. «Le persone come te», aggiunsi, «dovrebbero essere tenute sempre come riserva dell’intero universo, per essere portate sulla terra alla fine delle guerre, dei lager, dei martiri e delle carceri». E sembrava che l’atmosfera silenziosa fosse diventata mia buona complice, e non più soltanto mera osservatrice, saggia e prudente. Eppure lei disse: «Come se io non fossi stata in carcere». E mentre lo diceva le sue pupille produssero un’ombra appena visibile, una lieve ruggine sulla frangetta d’oro. (...) Finalmente si volse verso di me. «Stai parlando del carcere? Quante cimici in quelle celle! Ma devo dire che eravamo di buonumore, nonostante tutto. Una suora ci faceva da carceriere. Un giorno mi sembrava comunque troppo sciocco quel rumore che faceva con il suo mazzo di chiavi; e quando entrò nella nostra cella, sbattei la porta e lei, nonostante quelle sue chiavi, rimase intrappolata. E allora mi misi a passeggiare per i corridoi, a spiare oltre le fessure all’interno delle celle per salutare i conoscenti. Quando alla fine mi imbattei in qualcuno. “Salvate quella suora”, dissi, “l’ho rinchiusa nella cella perché è cattiva con noi!’». Nel suo racconto c’era qualcosa di fiabesco, non tanto nel modo quanto nell’essenza stessa, nella sostanza in cui la fiaba riesce ad appagare tutti i desideri umani. La osservavo attentamente. (...) Perché probabilmente nel mio stupore s’intravedeva una silenziosa umiltà che si manifesta inaspettatamente sul volto come quel sottile strato di fondo incolore che rimane dopo numerose trasformazioni chimiche. Poi le sue palpebre rimasero socchiuse. In lei il vento stava scemando, calmandosi sulla riva oltre le case, mentre le stelle marine sulle pareti erano divenute quasi vere e familiari. I cavallucci marini avevano le teste annoiate, assonnate. Tutto era di nuovo messo in ordine e colmo di piccoli oggetti, come se l’ampio fluire dei sentimenti umani si fosse ridimensionato in stretti canali scavati dalle talpe.
Era questo il motivo per cui in quella quiete sonnolenta risplendeva ancora più lucente l’immacolato biancore del suo vestito. I ricami colorati cingevano i polsi e salivano fino al collo e oltre le gambe incrociate come onde di neve ammucchiata dal vento. Sotto c’era una bianca voluta, segnata ancora da quel punto croce blu, giallo, rosso. Quando sfiorai con la mano il suo polso, ancora fremeva leggermente, tanto che la mia frase rimase incompiuta e si perse per soffermarsi sulla bellezza del suo vestito. «Me lo sono cucito durante l’internamento», arrivò lieve la sua risposta. «In Lombardia». E allora fui stizzito nei confronti di quella rigida educazione, perché sarebbe stato giusto avvicinare le labbra ai ricami di quel polso bianco.
10 settembre
Stasera saliremo sul Nanos. (...) Quando ci sedemmo in giardino lei fu di nuovo assorta e in qualche modo grata per qualcosa di cui lei soltanto sapeva cosa fosse. Ma si trattava assolutamente di una dimostrazione di benevolenza che mi permetteva di sperare nei miei desideri celati. E parlammo di matrimoni, dello standard attuale e delle esigenze femminili. E allora disse: «Se io amassi qualcuno saprei far apparire come per un incantesimo tutto l’occorrente da una scatola di fiammiferi!»
14 settembre
Siamo sul Nanos già da due giorni. Qualcosa di strano mi sta succedendo. Come se fossi senza pensieri, se i principi in cui sinora credevo fossero scemati. Probabilmente è amore; ma se così fosse, si tratta di una specie particolare di amore perché sento come se in un attimo, di cui non mi sono reso conto, le mie cellule fossero state pulite da un invisibile bagno purificante. Ancora qualche tempo fa i miei pensieri, i miei sentimenti, le mie sensazioni, le mie abitudini e i progetti erano sparpagliati in dispense segrete; ora, invece, tutto è sparito. Ora ero svuotato. Forse lo devo alla montagna che era spirata sotto le bombe e si era fusa con il nulla davanti al forno crematorio, ma ora mi si stava rivelando di nuovo. Su queste montagne così familiari mancavo da dodici anni; in mezzo vi fu la fine del mondo. Era vero. Ed era lei la causa di questa rinascita. (...) Rimasi in silenzio mentre parlava; sentii un profondo bisogno di umiltà, quell’umiltà che ci pervade davanti alla magnificenza della natura. E avrei desiderato accarezzare il suo corpo con lo stesso rispetto con cui lo accarezzava l’acqua del lago, rimanendo nascosto come gli strati dell’acqua nella notte. Mai come allora mi sentii di troppo di fronte a un corpo femminile, così inutile e goffo. E lei continuò davvero il suo dialogo con il passato come se io non ci fossi. In quei giorni arrivò la notizia che la terra aveva accolto il corpo del suo eroico fratello che l’aveva condotta attraverso questi versanti del monte Nanos, accendendo i falò in segno di rivolta.
25 settembre
Sta diluviando. (...) Živka,me ne rendo conto, mi aveva ingannato, ma non so come. Ma nel contempo, mi sto dicendo, lei mi aveva pulito come quando la corrente del fiume ripulisce un vortice torbido. Ma se e così, perché non riesco a rispettare il suo silenzio? Sono un cittadino anche in questo, un cittadino abituato alla fretta e dunque cosi impaziente? Mentre le vie cittadine non potranno mai rendere Živka del tutto cittadina; lei si sta sviluppando con pazienza, lentamente, come la linfa che con calma dalle radici della pianta raggiunge gli acini d’uva. (...) In me c’e l’inquietudine del mare...
La presenza di mia moglie si riscontra anche nel romanzo La città nel golfo: mi ispiro al Carso, a Contovello, a Prosecco, raccontando la mia fuga dai tedeschi. E descrivo una vendemmia. In realtà e un’esperienza che ho vissuto dopo il rientro dalla deportazione, ma nella finzione letteraria l’ho inserita in un’epoca storica antecedente. Questo episodio risale al dopoguerra, l’ho vissuto a liberazione avvenuta, dopo aver concluso gli studi universitari. E infatti mi godo tutta questa bellezza da uomo rinato. La vendemmia fa da sfondo alla nascita di un amore: direi che la descrizione è ben riuscita. Nello splendore di un mare luccicante di sole, nella vigna si staglia una figura di donna, una figura positiva: e mia moglie.

Così ho vissuto, Boris Pahor Tatjana Rojc Traduz. M. Clerici, M. Pockaj, T. Rojc pagine 492, euro 21,00, Bompiani

Corriere 12.12.13
Ol’ga di Leningrado, una voce nel coro dell’assedio nazista
di Dario Fertilio


Un diario sotterrato in cortile è simile a un messaggio in bottiglia: a distanza di tempo sprigiona il pathos dell’irraggiungibile. Così accade per il Diario proibito di Ol’ga Berggol’c (Marsilio, pp. 160, € 14): un nome, quello di Ol’ga, che all’inizio appare simile ai tanti inghiottiti dalla censura e dall’oblio di gulag e lager. Tuttavia questo Diario testimonia un dramma speciale: al centro della narrazione c’è l’assedio di Leningrado, e al centro dell’assedio una voce sola, quella di Ol’ga, dal bel volto di poetessa fascinosa che prende vita, pagina dopo pagina, come per evocazione.
Durò un tempo impossibile da calcolare secondo il normale metro della sofferenza, l’assedio nazista di Leningrado: dall’8 settembre del 1941 al 27 gennaio 1944; sono 900 giorni di fame, bombardamenti, allarmi aerei, avanzate e ritirate, agonie brevemente interrotte da barlumi di speranza. E il numero di morti fra gli assediati, benché un conteggio ancor oggi sia oggetto di dispute, si aggirò probabilmente intorno al milione e 250 mila fra civili, militari, donne e bambini. Al centro degli avvenimenti, qui, c’è solo l’autrice del diario: la bella Ol’ga poco più che ventenne, appassionata e indomabile quanto può esserlo una poetessa vera, convinta di dover mettere la sua arte al servizio del popolo, dei soldati che lo difendono e anche — per forza di cose — del regime bolscevico che lo rappresenta. Proprio qui cresce un dramma nel dramma, che rende unico il «messaggio nella bottiglia» spedito ai posteri da Ol’ga Berggol’c. Le sue annotazioni incominciano in realtà ben prima dell’assedio, già nel 1939. È allora che la poetessa viene liberata, dopo uno di quei classici e assurdi arresti staliniani accompagnati dall’accusa di far parte di «un’organizzazione trotzkista-zinoveviana», e in genere destinati a concludersi con la morte del detenuto. Nel suo caso, invece, la vicenda ha un apparente lieto fine. Cadute le imputazioni e ritornata a casa, Ol’ga però si scopre diversa, una donna violentata dagli agenti della polizia segreta comunista, la Nkvd. Proprio lei, militante entusiasta, romantica e fervente bolscevica, iscritta da ragazzina al Komsomol, ora è costretta a scrivere: «Mi hanno strappato l’anima, rovistandovi dentro con le loro fetide dita». Eppure la sua fede non muore del tutto: soltanto, pagina dopo pagina, cambia colore. Sotto gli occhi del lettore si trasforma in desiderio di sopravvivenza per il proprio popolo, testimoniata dagli interventi radiofonici che la rendono popolare, dalle letture di versi sotto le bombe che incoraggiano i leningradesi a lottare. E poi in amore febbrile per ciò che conta quando da un momento all’altro ci si aspetta di morire: vanità femminile e gusto di avvincere gli uomini, impegno morale a lasciare qualcosa di buono dietro di sé — sia un verso riuscito o una carezza a un bambino affamato —, pietà per i vinti e i dimenticati, fedeltà agli uomini della sua vita. Al primo marito anch’egli ingiustamente arrestato, al secondo morto fra gli stenti, al terzo che le restituisce un po’ di calore ma non riesce a prendere definitivamente posto nel suo cuore.
I giorni si succedono e chi legge respira sensazioni, euforie, spaventi e disperazioni di Ol’ga: ogni suo pensiero è come un foglietto appuntato al calendario, in balia della provvisorietà. Infine, esaurite le passioni e consumati i rimpianti, Ol’ga Berggol’c coglie la verità, o meglio la falsità di tutto ciò che la circonda. Il regime vuole «costringere i leningradesi a comportarsi da eroi», anziché da esseri umani; rifiuta che si parli, anche per accenni poetici, alla realtà vissuta; si prepara, appena il pericolo sarà passato, a stringere intorno alle esistenze dei dissidenti un nuovo giro di vite.
Così arriva la decisione di seppellire i diari in un cortile di Leningrado. L’assedio non è finito, il futuro è ancora incerto, ma Ol’ga Berggol’c comprende di non aver più nulla da aggiungere. Il messaggio in bottiglia viaggerà fino a noi.

Repubblica 12.12.13
“I voti a scuola sono scritti nel Dna” ecco perché primi della classe si nasce
Una ricerca inglese: i geni contano più degli insegnanti e dell’ambiente familiare
di Elena Dusi


IVOTI a scuola sono scritti nel Dna. Il peso dei geni nel successo sui banchi è doppio rispetto a ciò che viene da sempre valutato come essenziale per l’educazione dei ragazzi: famiglia, scuola, ambiente socioeconomico.
«LE DIFFERENZE nei risultati scolastici sono altamente ereditabili » scrivono gli psicologi del King’s College di Londra sulla rivista Plos One. «La variabilità dei voti può essere in larga parte attribuita alla genetica, che contamolto più di scuola e ambiente familiare». Un buon insegnante determina il 29 per cento delle differenze nel successo scolastico dei sedicenni inglesi giunti alla fine della scuola dell’obbligo. I geni ereditati da padre e madre pesano invece per il 58 per cento.
Sono anni ormai che si cerca di stringere il cerchio attorno a un tema tanto sfuggente quanto controverso: quanta parte del nostro destino è scritta nel Dna prima ancora della nascita? Non si rischia così di cadere nel determinismo o nell’eugenetica? «Ciò che vogliamo dimostrare — spiega lo psicologo del King’s College Robert Plomin, pioniere nella ricerca delle cause genetiche del comportamento umano — è che i sistemi educativi dovrebbero essere più attenti ad abilità e bisogni individuali degli alunni». I ricercatori stanno ben attenti a non identificare i voti a scuola con l’intelligenza (per la quale il ruolo del Dna è inferiore: 40 per cento). «Anche attitudini, fame di imparare, motivazione e impegno sono tratti influenzatidalla genetica» scrivono nel loro studio.
Se nel 2000 il sequenziamento del Dna ha promesso nuove cure con la “medicina personalizzata”, oggi le ricerche che incrociano genetica e psicologia promettono dunque anche l’“educazione personalizzata”: curriculum diversi ritagliati su forze e debolezze di ciascun alunno. E trova così finalmente risposta il rovello di un genetista vincitore del Nobel — l’inglese Paul Nurse — che si era chiesto in modo simpatico «Ma in che cosa sono diverso? », visto che i suoi tre fratelli avevano abbandonato la scuola a 15 anni. Nurse scoprì molti anni più tardi, al momento di chiedere la Green Card dopo essere stato nominato presidente della Rockefeller University di New York, di essere figlio di unpadre sconosciuto.
L’educazione personalizzata che Plomin ha tra l’altro teorizzato in un libro uscito l’estate scorsa (“G for genes: the impact of genetics on education and achievement”) si scontra però con una difficoltà pratica. Mentre sono ormai molti gli studi che legano il successo scolastico o l’entità dello stipendio all’eredità genetica, nessuno è mai riuscito a capirequale specifico frammento del Dna influenzi la capacità di apprendere in classe. Studi come quello odierno si limitano a prendere in considerazione due classi di gemelli: gli omozigoti che condividono il 100 per cento del Dna e gli eterozigoti in cui le differenze fra i geni sono la metà rispetto alle persone senza parentele. Poiché entrambi i gruppi di gemelli condividono scuola e famiglia, significative differenze nei risultati scolastici possono essere facilmente ricondotte al ruolo dei geni.
I dati del King’s College sono stati ricavati dall’esame finale della scuola dell’obbligo in Gran Bretagna: il General Certificate of Secundary Education, che ha il vantaggio di essere standard in tutto il paese. Lo studio ha dimostrato anche che l’ereditarietà dei voti scolastici è più alta per le materie scientifiche rispetto a quelle umanistiche, decresce leggermente con l’età e si fa sentire in modo più incisivo fra i maschi rispetto alle femmine.

RTV-LAEFFE Alle 13,50 su RNews (canale 50 del digitale terrestre) il servizio sugli ultimi studi che legano il Dna al rendimento scolastico

Repubblica 12.12.13
Ma il talento si coltiva con lo studio
di Marco Lodoli


DICIAMO la verità: fa abbastanza paura sentir parlare del patrimonio genetico come premessa per arrivare all’eccellenza o precipitare nell’insuccesso. È mostruoso pensare che sia già segnato dall’origine, come se ogni bambino portasse a scuola, insieme allo zaino e alla merenda, il suo irrevocabile destino segnato nei geni. È una visione terrificante, un’ipotesi crudele e vagamente nazista che rischia di cancellare ogni idea di impegno, apprendimento, sviluppo, crescita.
È chiaro che ogni insegnante si rende rapidamente conto di chi tra gli alunni appare più sveglio e chi più lento, ma allo stesso tempo l’esperienza invita ogni professore a essere prudentissimo nei giudizi iniziali e a continuare a lavorare sodo affinché tutti quanti diano il meglio. Troppe volte ho visto studenti brillanti impantanarsi nella mediocrità perché non coltivavano affatto le loro qualità: convinti di essere bravi si impigrivano miseramente e restavano al palo; e viceversa, studenti insicuri, traballanti, modesti che si rimboccavano le maniche e nel giro di un paio d’anni crescevano splendidamente. I valori di partenza sono soltanto talenti da sviluppare con l’applicazione e l’impegno, c’è chi li sfrutta e chi li seppellisce sotto metri di vuota supponenza.
Il salto di qualità può arrivare all’improvviso: ci sono studenti che per anni sembrano dormire nel loro banco defilato e in un giorno fioriscono, perché in realtà hanno assimilato molto più di quanto si credeva, sono cantieri che lavorano in silenzio e alla fine producono l’inaspettato. È meglio lasciar perdere ogni tentazione genetica, che rischia solo di creare assurde e pericolose differenze e di svilire ogni idea di trasformazione culturale. La storia è piena di grandi uomini che a scuola arrancavano, come dienfant prodige persi nel nulla. Siamo tutti creta e tornio: bisogna faticare per darsi una forma giusta, niente ci viene regalato.

Repubblica 12.12.13
Eroi
Perché il mondo ha bisogno di quegli uomini speciali
La figura di Nelson Mandela riporta d’attualità la questione dell’influenza delle singole personalità sul corso degli eventi storici
di Marco Revelli


Le loro biografie narrano delle discese agli inferi prima dell’ascesa al cielo, delle cadute nella polvere prima della salita agli altari
Personaggi che con le loro straordinarie virtù individuali mostrano l’estensione dei vizi collettivi. E finiscono così per rappresentare l’infelicità pubblica

«Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi…». Anzi, per usare l’espressione originale, «Sventurato quel popolo che ha bisogno di eroi». È la frase che Bertold Brecht, nella Vita di Galileo, fa dire al grande scienziato – uno dei padri della nostra modernità – , subito dopo l’umiliante abiura di fronte al Tribunale dell’Inquisizione, in risposta all’“ingenua” osservazione del suo interlocutore, Andrea Sarti, il quale, deluso, aveva definito «sventurata la terra che non produce eroi». E non è una semplice autodifesa. È, in fondo, una delle più ficcanti rivelazioni della natura nuova dell’“eroe moderno”. Il quale, a differenza dell’eroe antico, o dell’eroe “classico” che con l’assurgere all’eternità della gloria rivelava un pieno della storia, ne mostra invece un vuoto. Non un punto alto (di apoteosi), ma un punto basso (di caduta). Portando alla luce una doppia infelicità. O una doppia miseria.
Un’infelicità storica, in primo luogo, come rivela il senso più esplicito dell’osservazione (un po’ banale) di Andrea, che intendeva alludere, evidentemente, a una condizione quasi disperata se solo un “eroe” – una figura straordinaria – può «riscattare l’umanità umiliata ». E in effetti, disperata doveva essere la condizione del popolo nero del Sudafrica, se fu necessaria la forza morale e fisica di un Mandela per trarlo dal pozzo in cui giaceva. Così come disperata doveva essere la condizione della Roma papalina cinquecentesca, se fu necessario il rogo di Giordano Bruno – quello che, contrariamente a Galileo, non abiurò – per dare il segno di una rivoluzione mentale. E, per venire alla nostra storia nazionale, ben infelice doveva essere la condizione nell’Italia pre-risorgimentale, se furono necessari uomini che offrirono le proprie sofferenze e la propria stessa vita in “sacrificio” per disincagliare la Storia che si era arrestata (tali sono gli eroi del nostro Pantheon, da Amatore Sciesa ai Martiri di Belfiore, dai fratelli Bandiera a Carlo Pisacane, fino a Mazzini e a Garibaldi, che se non morirono comunque patirono).
L’“eroe moderno”, prima di diventare tale, è stato un reietto. La sua biografia narra di unadiscesa agli inferi prima dell’accesso al cielo. Di una caduta nella polvere prima della salita agli altari, come se appunto la Storia pretendesse non solo le proprie vittime sacrificali per emendarsi dalla propria miseria, ma anche i simboli viventi della propria mutevole (ma alla fine in qualche caso trionfante) Giustizia. Sotto questo aspetto l’esempio di Nelson Mandela è perfetto: terrorista, proscritto, galeotto, prima di diventare materia di orazione funebre dei cosiddet-ti Grandi della Terra. Figura terribilmente “divisiva”, diremmo oggi, prima di unire nel proprio nome i rappresentanti di quelle stesse Cancellerie che fino a un ventennio prima l’avevano classificato tra i peggiori nemici pubblici.
Vi è poi, però, un secondo tipo di “infelicità” pubblica che l’eroe moderno è chiamato a rivelare. Un’infelicità – meglio una “miseria” – che potremmo definire morale perché quasi sempre queste figure dell’eccezionalità finiscono per mostrare – e misurare –, con le proprie virtù solitarie, l’estensione dei vizi collettivi. Sono uomini – e donne – che marciano “in direzione ostinata e contraria” (come canta De André) rispetto ai loro compatrioti. Questa è in fondo la sciagura delle terre che “hanno bisogno di eroi”: la mediocrità morale del conformismo di massa, resa visibile dalla testimonianza delle poche mosche bianche. Ed in ciò esemplare è la nostra vicenda nazionale. Pressoché tutti gli eroi nazionali novecenteschi appartengono alla striminzita schiera dei “pochi pazzi” che devono, in modo ricorrente, rimediare ai guasti dei “troppi savi”, come scrisse Francesco Ruffini, uno dei 12professori che nel 1931 rifiutarono il giuramento di fedeltà al fascismo, salvando così almeno un brandello di dignità dell’Università italiana.
Si pensi, a questo proposito, a un titolo come L’intellettuale come eroe (di Marco Gervaso-ni), riferito a Piero Gobetti, interprete esemplare di questo ruolo rivelativo dell’“eccezione”. E a quel vero e proprio testamento precoce gobettiano che è l’Elogio della ghigliottina(1922) dove l’allora ventunenne torinese destinato alla morte in esilio scriveva: «siamo sinceri fino in fondo, io ho atteso ansiosamente che venissero le persecuzioni personali perché dalle nostre sofferenze rinascesse uno spirito». O si leggano, le pagine splendide diUn eroe borghese, l’onore reso da Corrado Stajano alla memoria dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, il silenzioso servitore dello Stato chiamato a liquidare la banca di Michele Sindona e assassinato dalla mafia politica l’11 luglio del 1979. Apparteneva alla piccola schiera di quelli che continuano testardamente a tener fermo il proprio dovere in un contesto di diffusa e prevalente corruzione, servilismo, illegalità. Come, dopo di lui, faranno (e pagheranno nello stesso modo) i giudici Falcone e Borsellino o il generale Dalla Chiesa, per fare solo i casi più ricordati.
A ben guardare, pressoché tutti gli “eroi civili” della nostra storia repubblicana sono morti in solitudine. Anzi, sono morti di solitudine. Ed è questa la ragione per cui la “figura eroica” dovrebbe, presso di noi che ci portiamo addosso questo peso, più che stucchevoli esercizi di retorica, sollecitare penosi esami di coscienza.

nell’immagine Achille ed Ercole, olio su tela di Sascha Schneider (1923).

Repubblica 12.12.13
La funzione sociale del mito nella tradizione classica
Vite sospese tra cielo e terra
di Maurizio Bettini


A essi si dedicava un culto come agli dei. Erano legati ad attività come il combattimento, la medicina, l’atletica la divinazione. Sovrintendevano al passaggio di età degli adolescenti, rappresentavano mestieri e professioni

Quando parlavano di eroi, i Greci li inserivano in una scala discendente: prima venivano gli dèi, poi gli eroi, infine gli uomini. Li definivano anche “semidei”, proprio per sottolineare questa loro posizione né divina né umana: a volte erano figli di un dio e di una donna, altre volte erano semplicemente uomini (guerrieri, fondatori) che dopo la morte erano assurti al rango di eroi per una certa comunità. Ad essi si dedicava un culto, come agli dèi, anche se ricorrendo a rituali diversi da quelli usati per onorare la divinità. Ma qual era il ruolo esercitato dagli eroi? In genere avevano connessione con una sfera particolare della cultura: erano legati al combattimento e all’atletica, si occupavano di divinazione e di medicina, sovraintendevano ai passaggi d’età degli adolescenti; oppure avevano fondato città, rappresentavano mestieri e professioni, erano capostipiti di famiglie illustri. Questa era la funzione sociale degli eroi, per dir così. Ma che genere di personaggi erano?
Si potrebbe pensare che incarnassero un ideale di assoluta perfezione – erano eroi dei Greci, i creatori della “kalogathía”, l’unione fra bellezza e bontà: che altro avrebbero potuto essere se non splendidi esempi di virtù e bellezza? Così in effetti hanno voluto vederli generazioni di studiosi e cultori dell’Ellade, e così essi continuano ad apparire nella percezione comune. Eppure già Angelo Brelich, straordinario studioso, aveva dimostrato che le cose stavano diversamente. Proviamo a prendere il più celebre fra gli eroi greci, Eracle. Egli fu certo un civilizzatore, che con le sue leggendarie fatiche ripulì il mondo dai mostri che ancora lo infestavano: ma fu anche noto per essere un mangione, un ubriacone, un violentatore di donne, e infine un pazzo che, nella sua follia, distrusse la propria famiglia. E Teseo? Anche lui uccisore di mostri e fondatore di una città come Atene, anche lui però tutt’altro che irreprensibile: visto che abbandonò su un’isola deserta Arianna, la donna che tradendo patria e famiglia lo aveva fatto uscire dal labirinto. Per non parlare di Giasone, il quale non si fece scrupolo di abbandonare Medea (anche lei sua salvatrice) semplicemente per contrarre un matrimonio migliore; o di Issione, che tentò di violentare una dea, Era, o di Tieste che violentò direttamente la propria figlia. E questo per quanto riguarda la virtù. Se si passa al piano della bellezza, poi,si scopre che gli eroi greci non sono tutti belli come Achille, ma possono essere affetti da gravi difetti fisici. Ve ne sono di giganteschi, e fin qui niente di strano, ma anche di nani. Lo stesso Eracle a volte è rappresentato alto “come un dito”. C’erano poi eroi zoppi, come Edipo, il “piede gonfio” che per giunta aveva i capelli rossi, un tratto fisico poco apprezzato dai Greci. Altri sono invece caratterizzati dall’avere membra di animali – come Cecrope, per metà serpente – oppure dal soffrire di sessualità smodata o di impotenza, così come sono esistiti eroi balbuzienti, gobbi, senza testa, perfino con il cuore peloso. Troppo spesso lontani da quei canoni di perfezione a cui spontaneamente vorremmo riferirli, gli eroi greci costituiscono una vera e propria sfida alla nostra comprensione.
Impossibile negare, infatti, che a dispetto di un’inarrestabile tendenza alla violenza – e nonostante le proprie deformità fisiche o morali – gli eroi costituiscono una presenza fondamentale all’interno della cultura greca. Essi non sono soltanto i meravigliosi personaggi dei racconti mitologici, ma stavano alle base della pratica religiosa, e quindi della vita sociale, di moltissime comunità, che attorno al proprio eroe si raccoglievano per onorarlo e chiederne la protezione. Perché dunque rappresentarlo a quel modo? Che cosa staranno a “significare” quei connotati mitici di violenza, prevaricazione, deformità? Per trovare una risposta a questa domanda occorre evitare di concentrarsi su questo o quel tratto dell’eroe, per osservare piuttosto il complesso della sua carriera. Che è marcata sì dall’omicidio o da altre azioni riprovevoli, ma anche da prove di carattere sovrumano, che egli supera accrescendo così i propri meriti e la propria gloria - salvo restarne a volte schiacciato, suscitando all’opposto dolore e compassione. Soprattutto però è sulla conclusione della sua carriera che deve cadere il nostro sguardo: una fine tragica, attraverso la quale si realizza l’effettivo passaggio alla condizione “eroica”. Ci accorgeremo così che personaggi come Eracle o Edipo ci mettono di fronte a un’esperienza ambigua e complessa, marcata da gloria e dolore, grandezza e miseria: proprio come avviene in qualsiasi vicenda umana che abbia i caratteri dell’eccezionalità. O almeno, questo sembrano aver pensato i Greci.

Repubblica 12.12.13
Eroi
di W. H. Auden


L’eroe è un individuo eccezionale che possiede un’autorità sull’uomo comune. Quest’autorità può essere di tre generi: etica, estetica e religiosa. L’eroe etico è colui che in ogni momento riesce a capire più degli altri. L’eroe estetico è l’uomo cui la fortuna ha concesso doni eccezionali. L’eroe religioso si dedica a qualcosa che per lui è la verità assoluta. L’eroe si riconosce in base all’interesse che suscita nello spettatore o nel lettore. Uno studio comparativo dei diversi tipi di individuo che scrittori di vari periodi hanno scelto come eroe offre spesso degli utili indizi sugli atteggiamenti e le preoccupazioni di ciascuna epoca. Perché l’interesse dell’uomo si focalizza sempre, consciamente o inconsciamente, su ciò che gli sembra il problema più importante e ancora irrisolto. L’eroe e la sua storia sono al tempo stesso una formulazione e una soluzione del problema.

Repubblica 12.12.13
Baviere. Il “Mein Kampf” rimane un libro proibito


MONACO DI BAVIERA — E alla fine la Baviera fece dietrofront: con una decisione a sorpresa, il governo del Land tedesco ha prorogato il divieto di pubblicazione del
Mein Kampf di Adolf Hitler. Anzi, ogni tentativo di far uscire il testo fondante del nazionalsocialismo sarà perseguito con l’accusa di istigazione all’odio razziale. Il fatto è che nel 2015 decadono i diritti del libro del Führer, finora detenuti proprio dalla Baviera: in previsione di tale data, il parlamento regionale due anni fa aveva dato il via libera ad una nuova edizione “commentata”, mettendo al lavoro un’apposita commissione di storici. La scelta veniva spiegata con la volontà di “precedere” fanatici e revisionisti, tanto da ipotizzarne addirittura un’edizione “scolastica”. L’istituto di storia contemporanea di Monaco, incaricato a tal scopo, ha però confermato che il progetto verrà portato avanti, se necessario grazie a fondi privati.