venerdì 13 dicembre 2013

La Stampa dava l'informazione già ieri, oggi anche l'Unità la segue
l’Unità 13.12.12
«Hanno vinto le posizioni clericali»
Aborto e diritti delle donne, il Pd sotto accusa a Strasburgo
Sei deputati votano in dissenso dal gruppo dei Socialisti e Democratici
Passa la risoluzione dei conservatori con le astensioni degli europarlamentari cattolici di area renziana
Swoboda: serve subito un chiarimento
I nomi sono: Silvia Costa, Franco Frigo, Mario Pirillo, Vittorio Prodi, David Sassoli e Patrizia Toia
di Umberto De Giovannangeli


Sconcerto. Imbarazzo. Richiesta di chiarimenti. Comunque, un caso. Tanto più significativo per le tematiche che ne sono al centro, per la sede in cui si è consumato, per la data, altamente simbolica, in cui è avvenuto. I chiarimenti intervenuti hanno placato, ma solo in parte, la «bufera» che ha investito il gruppo S&D al Parlamento europeo. Una «bufera» che ha visto al suo centro la delegazione dei Democratici. È il caso delle 6 astensioni. Questa la storia. Nella giornata internazionale per i diritti umani, 65° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. l’Europarlamento, in seduta plenaria a Strasburgo, doveva pronunciarsi sul Report on Sexual and Reproductive Health Rights, firmato dall’europarlamentare socialista portoghese Edite Estrela. Un parto difficile, preceduto da discussioni e ritocchi, ma alla fine approda in Aula un testo che avrebbe impegnato gli Stati membri a fare di più per la salvaguardia dei diritti riproduttivi e l’autonomia delle donne, su questioni come la contraccezione, l’accesso all’interruzione di gravidanza, la diffusione di malattie sessualmente trasmissibili e l’educazione sessuale, ma anche nella lotta contro l’omofobia.
COLPO DI MANO
Nel gruppo dei Socialisti e Democratici, una delle grandi famiglie politiche europee, si confrontano sensibilità culturali ed esperienze diverse. L’ultima stesura del «rapporto-Estrela», sembrava una sintesi soddisfacente tra le varie ispirazioni. Sembrava, perché ecco scattare il «pasticciaccio». Al suo posto, infatti, viene approvata la proposta restrittiva dei popolari, che lascia ampi margini ai singoli Stati. Il nuovo testo prevede che «la formulazione e l’applicazione delle politiche in materia di salute sessuale e riproduttiva e relativi diritti nonché in materia di educazione sessuale nelle scuole sia di competenza degli Stati membri». Lo scarto è esiguo: 334 voti a favore, 327 contrari e 35 astenuti. Per determinare questo risultato sono stati decisivi gli assenti e gli astenuti, e tra gli astenuti, finiscono per avere un peso rilevante, non solo per il dato numerico ma per la valenza politica, i sei europarlamentari italiani che fanno parte dei socialisti e democratici (S&D) e che non hanno seguito le indicazioni del gruppo, che era contrario alla mozione dei popolari poi passata: si tratta di Silvia Costa, Franco Frigo, Mario Pirillo, Vittorio Prodi, David Sassoli e Patrizia Toia. La richiesta di chiarimento scatta immediata. Tanto più che, secondo fonti bene informate, i 6 astenuti non avrebbero informato della loro scelta né il gruppo né la delegazione Pd. Di certo, il caso non è passato sotto silenzio. Il presidente del gruppo S&D, Hannes Swoboda, ha inviato una lettera molto dura per censurare la scelta compiuta. E toni accesi hanno caratterizzato anche la riunione del bureau dei Socialisti e Democratici, protrattosi per oltre un’ora.
A rendere ancora più bruciante la ferita, è la lettura che la stampa europea, a cominciare dall’autorevole Le Monde, ha dato del voto di Strasburgo: una vittoria delle destre. Una vittoria, rimarca il quotidiano francese, avvenuta su questioni di straordinaria rilevanza, come quelle al centro del rapporto-Estrela. «Hanno vinto le posizioni clericali», si lascia andare un europarlamentare francese; altri, più avvezzi alle cose interne italiane fanno notare, con un po’ di malignità, che gli astenuti sono «un po’ renziani...». Durissima la presa di posizione di Estrela: «I conservatori, unendosi con la destra estrema, hanno aperto un fronte contro i diritti fondamentali di dignità, libertà, uguaglianza e non discriminazione», rimarca l’europarlamentare socialista secondo la quale l’accesso alla contraccezione, all’educazione sessuale, alla sanità e alla pianificazione familiare aiutano concretamente le donne a scegliere quando avere un figlio, riducono le gravidanze in età adolescenziale e aumentano l’istruzione femminile. Purtroppo, le astensioni di 7 esponenti di S&D (sei gli italiani) sono risultate decisive per questo risultato. L’europarlamentare portoghese bolla come «vergogna» il voto dell’Aula, e dure sono anche le prese di posizione di molte associazioni, tra cui l’European women lobby, l’European parliamentary forum on population and development, Amnesty International. Ma l’irritazione è data soprattutto dal metodo scelto: i più critici, nella famiglia socialista, rimarcano il fatto che gli astenuti Democratici non avevano
mai espresso questa intenzione nelle riunioni di gruppo o di delegazione, facendo trovare gli altri colleghi di fronte al fatto compiuto. E c’è chi mette in evidenza come, su questioni di coscienza, era possibile eccepire su quei punti ritenuti «estremi» del rapporto-Estrela. Riflette in proposito Roberto Gualtieri, tra gli europarlamentari più attivi: «Si è trattato di un errore politico – dice a l’Unità – non solo merito ma anche nel metodo, per il modo in cui questa posizione si è espressa. Avrebbero potuto legittimamente presentare emendamenti soppressivi alla risoluzione dei progressisti, invece di contribuire all’affermazione del testo alternativo delle destre. Inoltre – aggiunge sarebbe stato opportuno discuterne nel gruppo».

l’Unità 13.12.12
Non solo F-35, i tredici progetti del riarmo
21,100 miliardi di euro entro il 2021 per gli aerei Eurofighter
5,680 miliardi per le Fregate Europee (Fremm) previste per il 2019
1,885 miliardi di euro entro il 2016 per i sommergibili U-212
1,693 miliardi di euro in tre anni per i Joint Strike Fighter (F-35)
297,6 milioni di euro per il rinnovo della tecnologia dei mezzi
di Umberto De Giovannangeli


In Italia sono aumentati gli stanziamenti. Lo documenta il Rapporto 2013 dell’Archivio Disarmo. Pesano anche sul dicastero per lo Sviluppo economico
Informare, non «demonizzare». Con una duplice avvertenza. dietro i numeri, in eccesso, vi sono persone, storie, percorsi di vita che meritano rispetto. Seconda avvertenza: ridurre le spese militari non significa smantellare uno dei pilastri della politica di un Paese, la Difesa, ma orientare, selezionare, gli investimenti in funzione del ruolo che s’intende avere sullo scenario internazionale. Un ripensamento da collocare in una chiave europea, sviluppando, ad esempio, una politica di Difesa integrata euromediterranea, «modello Unifil», la missione Onu in Sud Libano che si regge essenzialmente sul contributo di Italia, Spagna e Francia. Ed è in questa chiave, che va esercitata una «Spending review» delle spese militari. Nella chiarezza. Caccia, blindati, elicotteri, fregate: le spese militari aumentano in modo clamoroso. Grazie a un trucco: i costi non ricadono solo sulla Difesa, ma anche sullo Sviluppo economico.
F35, ma non solo. Quello dei cacciabombardieri F-35, o meglio degli Joint Strike Fighter, è il dossier più conosciuto, quello che ha sollevato più polemiche e mobilitato l’arcipelago pacifista. Ma questo progetto non è il più oneroso. A darne conto è Il Rapporto 2013 dell’Archivio Disarmo, realizzato da Fulvio Nibali con la direzione scientifica di Luigi Barbato, raccoglie una sorta di Top 13 dei programmi militari più costosi del 2013.
VELIVOLI EUROFIGHTER 2000
(22 miliardi e 194,6 milioni di euro)
Si tratta del caccia multiruolo europeo alla fine ribattezzato Typhoon, realizzato in cooperazione con Germania, Regno Unito e Spagna, ed entrato in servizio nel 2003, per l’Italia l’anno successivo a Grosseto. Il programma si concluderà nel 2021 per un costo totale di 21 miliardi e 100 milioni di euro. Per il 2013 sono di 51,6 milioni le «poste finanziarie», cioè i soldi messi sul piatto dalla Difesa, e un miliardo 143 milioni quelli che fanno capo al ministero dello Sviluppo economico.
FREGATE EUROPEE MULTI MISSIONE (FREMM) (655,3 milioni di euro)
Si tratta di un programma, in cooperazione con la Francia, per l’acquisto di dieci fregate europee multi missione, le cosiddette Fremm. Andranno a sostituire le fregate delle Classi Lupo e Maestrale. Costo totale dell’operazione: 5 miliardi 680 milioni di euro per un completamento previsto nel 2019. La prima tricolore è stata consegnata alla Marina Militare lo scorso anno. In questo caso i fondi vengono per il 2013 dal ministero dello Sviluppo economico: 655,3 milioni di euro.
VELIVOLI JOINT STRIKE FIGHTER
(500,3 milioni di euro)
Si tratta appunto degli F-35, realizzati in cooperazione con Usa, Regno Unito, Canada, Danimarca, Norvegia, Olanda, Australia, Turchia, Singapore e Israele per le fasi di sviluppo, industrializzazione e supporto. I mezzi costano ognuno fra i 99 e i 106,7 milioni di euro. Per il 2013 i fondi del ministero della Difesa ammontano a 500,3 milioni. L’anno prossimo saranno 535,4 e nel 2015 657,2. Sostituiranno Tornado, Am-x e Av-8B. Completamento previsto per il 2047.
PROGRAMMI A VALENZA INTERFORZE
(297,6 milioni di euro)
Sono programmi militari che riguardano l’ammodernamento e il rinnovamento tecnologico dei mezzi e dei sistemi operativi in inventario, oltre che dei supporti operativi e delle apparecchiature in dotazione a enti, centri e comandi interforze. Tutto quello che serve, insomma, per supportare mezzi e sistemi messi in comune fra Aeronautica, Marina ed Esercito. C’è dentro di tutto: dall’aggiornamento agli standard internazionali ai sistemi di difesa personale fino a telecomunicazioni, ricerca sanitaria, centri tecnici, poligoni, manutenzione straordinaria, ripristino dei mezzi dopo l’azione. Costo totale per il 2013: 297,6 milioni di euro della Difesa.
SOMMERGIBILI DI NUOVA GENERAZIONE U-212 1^ E 2^ S
(191,8 milioni di euro)
Anche questo è un programma in cooperazione, stavolta con la sola Germania, e prevede l’acquisto di quattro sommergibili classe U-212, logistica inclusa. I Classe Todaro ne abbiamo già due in flotta fin dal 2006/2007 sostituiranno i più vecchi Classe Sauro ancora in servizio. Costo totale: un miliardo 885 milioni di euro, di cui 970 per la prima serie da completare entro l’anno prossimo e 915 per la seconda, da chiudere entro il 2016. Per quest’anno il ministero della Difesa pagherà 191,8 milioni di euro.
VELIVOLO JAMMS/CAEW-BM&C
(132 milioni di euro)
È un programma che prevede l’acquisto di un velivolo multi-sensore/multi-missione Jamms, Joint airborne multisensor multimission system. Si tratta di un aereo-radar per supportare le operazioni delle forze nazionali e alleate impegnate in operazioni militari nel controllo e nella sorveglianza dello spazio d’azione. Non si tratta del solo aereo ma anche di un sistema più ampio che comprende piattaforma aerea, sistema di comunicazione e raccolta informazioni Signal Intelligence-Electronic Support Measures, radar di osservazione ad alta quota per l’individuazione di oggetti in movimento e dal segmento di terra per analizzare i dati. Costo totale entro il 2016: 580 milioni di euro. Per il 2013 sono 132 dalla Difesa.
VEICOLI BLINDATI MEDI 8X8 FRECCIA
(130,1 milioni di euro)
Supporto tattico, protezione e sicurezza delle unità dell’esercito nel corso delle operazioni sul campo. A questo serviranno i 249 veicoli blindati medi detti «Freccia», derivati dai Centauro, che hanno esordito nel 2010 in Afghanistan. Sono 8x8 in grado di trasportare 11 uomini completamente equipaggiati. L’operazione costa un miliardo e mezzo di euro entro il 2016. Quest’anno arriveranno 30,4 milioni di euro dalla Difesa e 99,7 dal ministero dello Sviluppo economico.
ELICOTTERI DA TRASPORTO MEDIO DELL’ESERCITO ITALIANO
(125 milioni di euro)
All’ottava piazza dei programmi militari più costosi del 2013 c’è quello per l’acquisto del nuovo elicottero Boeing CH47F da trasporto medio, cioè il mitico Chinook nella versione rilasciata nel 2001. Quindi neanche l’ultima disponibile. I nuovi apparecchi sostituiranno i CH-47C, roba di fine anni Sessanta, giunti a «fine vita tecnica». Sono i mezzi che usiamo nelle operazioni di peacekeeping. Il programma costa 974 milioni di euro entro il 2018. Per il 2013 125 milioni di euro dal bilancio della Difesa.
VELIVOLI DA PATTUGLIAMENTO MARITTIMO (122,8 milioni di euro)
Il programma costa 122,8 milioni di euro per il 2013, in carico alla Difesa, e punta a sostituire i velivoli Atlantic, cioè i Breguet Br-1150 con i nuovi ATR72MP, un paio già sostituiti l’anno scorso. Costo complessivo: 360 milioni di euro entro il 2019.
PROGRAMMI A SOSTEGNO DELLO STRUMENTO TERRESTRE
(122,1 milioni di euro)
Anche in questo caso, un po’ come per i programmi a valenza interforze, si tratta di ammodernamento e rinnovamento dei mezzi terrestri, degli aeromobili, dei supporti operativi e di molti altri capitoli legati al settore degli ammodernamenti minori, dei supporti operativi e della logistica dei mezzi di terra. Sono compresi anche la verifica ambientale e la bonifica di alcune servitù militari e l’addestramento. La cifra si decide anno per anno, nel 2013 è stata di 122,1 milioni di euro.
AMMODERNAMENTO VELIVOLI DA COMBATTIMENTO TORNADO MRCA (108,3 milioni di euro)
Va bene che intendiamo pensionarli, ma intanto bisogna ammodernarli, i vecchi Tornado sviluppati dagli anni Settanta. Ecco 108,3 milioni di euro (100 dallo Sviluppo economico e 8,3 dalla Difesa) nel 2013, per il programma dei velivoli costruiti insieme a Germania e Regno unito, per fare in modo che possano decollare fino al 2020-2025.
Costo totale: un miliardo 200 milioni di euro entro il 2015.
PROGRAMMI A SOSTEGNO DELLO STRUMENTO AEREO
(97,8 milioni di euro)
Ancora un programma di ammodernamento minore, di adeguamento tecnologico e supporto logistico della flotta aerea tricolore, oltre che dei mezzi e sistemi d’arma collegati. In questa voce rientra anche l’acquisizione di mezzi speciali, forze speciali e Centro sperimentale di volo. Si decide quanto serve anno per anno, per il 2013 97,8 milioni di euro dalla Difesa.
SISTEMA MISSILISTICO SUPERFICIE-ARIA TERRESTRE E NAVALE FSAF (95,8 milioni di euro) Chiude la Top 13 dei programmi militari più ingenti dell’anno quello in cooperazione con la Francia. Obiettivo: realizzare una famiglia di sistemi per la difesa antimissile e antiaerea a corta e media portata da usare a terra e su nave. Un programma che costerà nel complesso 1,7 miliardi di euro entro il 2020. Per quest’anno 95,8 sul bilancio del ministero della Difesa.
Questo il quadro. Il dibattito è aperto. Quali di questi programmi è davvero necessario per un nuovo, più contenuto ma non per questo meno funzionale, modello di Difesa?

l’Unità 13.12.12
I forconi preparano la marcia su Roma
«Gruppi eversivi puntano al blocco economico»
Emanuele Fiano: «Alfano ha fatto bene a evidenziare la presenza dell’estrema destra organizzata nei cortei.
«Certi movimenti ricordano il Cile o Weimar»
di Claudia Fusani


Sit in davanti a Palazzo Chigi e Montecitorio, Fiom e medici precari, gli studenti alla Sapienza. La politica sembra accerchiata. Emanuele Fiano, responsabile sicurezza del Pd e ex membro del Copasir, sfoglia report e analisi.
C’è un rischio eversione?
«È nelle cose quando si sommano una crisi economica mai conosciuta dagli anni Sessanta con un sesto della popolazione italiana coinvolta tra poveri e disoccupati; e la presenza di leader politici, Grillo ma anche Berlusconi, che lisciano il pelo di un movimento in cerca di un consenso da capitalizzare alle prossime elezioni europee».
Il ministro dell’Interno Angelino Alfano parla di “deriva ribellista”. Sottovaluta? «Un ministro in Parlamento deve usare termini più moderati per rassicurare. Ho molto apprezzato invece che Alfano abbia indicato chiaramente la presenza dell’estrema destra organizzata all’interno di questi cortei. Non ha sottaciuto nulla: una parte che protesta in modo legittimo, un’altra che sfrutta, specula ed è connotata a destra».
Cosa impressiona di più: lo spontaneismo diffuso però in modo capillare nel paese; l’odio verso la politica e le annunciate marce su Roma...
«È l’insieme che preoccupa: la rabbia e il disagio sociale che purtroppo sono veri; il cinismo di chi strumentalizza per fini politici e personali; la violenza manifesta. Fanno rabbrividire le squadre di persone che entrano nei negozi e ricattano e minacciano per ottenere la chiusura e le serrate. Tutto questo ricorda altri momenti della storia o del mondo della criminalità organizzata».
Quali periodi della storia?
«Penso al Cile del 1973 dove c’è stato il rovesciamento del regime democratico in seguito a una sofferenza sociale sfruttata da destra e dai militari».
I nostri anni Settanta?
«No, piuttosto la repubblica di Weimar, dove il nascente partito nazista sfruttò le mancate risposte della socialdemocrazia alla crisi sociale».
Analogie con il biennio rosso ’19-’20 da cui poi originarono i fasci e il fascismo? «Anche. Non credo però che quelle stagioni possano tornare. Vanno però rilette per ricordare e imparare».
Governo e apparati hanno dato l’opportuna informazione sul fenomeno?
«Per quello che mi riguarda ero informato circa i fenomeni strutturati, il Coordinamento 9 dicembre e i vari movimenti collegati. Sapevamo anche delle formazioni di destra. Non ci aspettavamo, però, così tanta adesione. Inaspettata è stata la presenza degli ultrà che ha cresciuto la massa d’impatto di queste vicende. Ha spiazzato, e preoccupa, il fenomeno delle squadre che impongono le serrate».
Quali sono le richieste?
«Non vogliono tutti la stessa cosa. Il nucleo originario delle varie categorie di autotrasportatori, coltivatori diretti e artigiani chiede risposte economiche urgenti. Si tratta di sacche poco rappresentative delle rispettive categorie. Una grossa fetta di manifestanti punta invece direttamente al rovesciamento del sistema, al blocco economico delle città. Questo è eversivo».
I gruppi più estremi di sinistra?
«Non mi pare abbiano intenzione di partecipare a manifestazioni caratterizzate dal saluto romano».
Formazioni di destra stanno scippando la piazza alla sinistra?
«Oggi in piazza ci sono i collettivi degli studenti della Sapienza. Non parlerei, quindi, di scippi... Il Coordinamento 9 dicembre però si riconosce in un disegno antieuropeista che unisce posizioni istituzionali (M5S e Lega) ad altre che interpretano un sentimento diffuso per cui le nostre tasche sono vuote per colpa dell’Europa e della Merkel. Fenomeno simile a Le Pen in Francia, Alba dorata in Grecia e la destra antieuropeista inglese».
Lei in aula ha usato un slogan caro alla destra: “Tolleranza zero”. Perché?
«C’è un rischio serio di destabilizzazione. Da uomo di sinistra conosco le scorciatoie violente della storia. E so quando serve il pugno di ferro».
Si è tanto scritto sull’episodio degli agenti che hanno levato il casco. Quale è stato il significato di quel gesto?
«È un gesto normale quando cala la tensione in una piazza. In quel momento a Torino non c’erano teppisti ma persone arrabbiate. A cui è giusto che lo stato mostri il proprio volto, che è anche quello degli uomini e delle donne delle forze dell’ordine».
Grillo ha scritto una lettera aperta invitando all’insubordinazione. Molto oltre Pasolini a valle Giulia...
«Una strumentalizzazione pericolosissima. Passibile di reato. Il leader Cinque stelle ha tentato di dire che tra le forze dell’ordine potrebbe serpeggiare un malessere tale da venire meno agli obblighi istituzionali. Detto questo, e senza scomodare Pasolini, le forze dell’ordine subiscono due volte la crisi: come cittadini con difficoltà di arrivare a fine mese; come servitori dello stato che devono contrastare la rabbia sociale che nasce dalla crisi» Berlusconi evoca una rivoluzione se sarà arrestato.
«Parole incendiare. Un altro che soffia sul fuoco».

il Fatto 13.12.13
Il rosso che avanza
“La sinistra si è fatta scippare la protesta dai Forconi”
Zimmer, leader del partito della Gauche europea, critica i movimenti italiani, superati dai populisti
di Alessandro Cisilin


Altro che populismi, manca la sinistra, soprattutto gli italiani, e non capisco perché”. Non ama i giri di parole Gabi (Gabriele all'anagrafe) Zimmer, 58 anni, di cui oltre 30 di militanza politica. La leader della sinistra europea (presiede il gruppo europarlamentare della Gauche Unitaire Européenne/Gauche Verte Nordique) è meglio nota come l'“Anti-Merkel”. “Lei è la principale responsabile della crisi sociale in tutto il continente, la sua conferma è più che deplorevole”, commentò all'indomani delle elezioni tedesche di settembre, che pur confermarono la Linke (Sinistra, ndr) come terza forza nazionale, ovvero prima opposizione alla Große Koalition, echeggiata dalle nostre “larghe intese” nonché da quelle che, tra Popolari e Socialdemocratici, da sempre dominano la scena politica a Bruxelles. Ma anziché guardare a quel che accade in Germania, la berlinese suggerisce di ripartire dai paesi mediterranei, in primis la Grecia.
IL 39NNE ATENIESE Alexis Tsipras, leader di Syriza, sarà investito dal congresso del Partito della Sinistra Europea, al via oggi a Madrid, quale uomo di punta per la campagna per le Europee del 2014, ossia come candidato alla presidenza della Commissione. “L'austerità in Grecia è un progetto pilota - spiega - se li lasciamo soli coinvolgerà tutti. E' importante anche per la Germania, dove la stampa filogovernativa lo definisce ‘l'uomo che distrugge l'Europa’”.
I conti peraltro non tornano per la Gauche europea. Fu l'unica forza democratica ad avversare (tanto da venir spesso accusata di implicita collusione con l'estrema destra) i Trattati che hanno impresso da oltre vent'anni la svolta politico-economica “monetarista”. Le obiezioni erano quantomeno pertinenti, e tuttavia i sondaggi, seppur in crescita, restano modesti. “Abbiamo perso l'Italia”, ripete, alludendo al pregresso addirittura fondativo della sinistra italiana in Europa. A Madrid approda, tra gli altri, quel che resta di Rifondazione e Comunisti. “Loro, certo, ma servirebbe di più; e a interloquire con noi, più che i partiti sono di solito altri, singoli, quali Roberto Musacchio (ex leader della delegazione italiana a Bruxelles) ”. Lo stesso Vendola non si fa più vedere, Sel punta oramai al gruppo social-democratico. “A malapena ora ci salutano”, lamentano i funzionari europei. Il problema sono appunto le divisioni. “Il mio predecessore (il connazionale Lothar Bisky, morto 4 mesi fa) diceva che la sinistra italiana è un'ameba, si spacca ogni giorno”. E mentre si fraziona spuntano forconi e anti-europeismi, fino a richiudere le frontiere nazionali.
“Alcuni movimenti, ma anche partiti e governi giocano la carta nazionalista, contro l'Europa, l'Euro, i migranti”. E cita Grillo: “Decidiamo noi - dice - ma prospetta soluzioni semplicistiche che non aiutano le persone”. Qui sta il nodo: “Basta dividere, tra paesi, popoli e anche partiti di sinistra. La resistenza all'austerità si fa con la solidarietà e la cooperazione, sennò si fa il gioco degli altri”.

Il Rettore Frati ha chiamato la polizia, il movimento ne chiede le dimissioni immediate
l’Unità 13.12.12
Incidenti alla Sapienza. La polizia carica
Era in programma un convegno con Napolitano e Letta
di Salvatore Maria Righi


Gli ultimi botti, per fortuna, li sparano i parenti e gli amici per il loro amatissimo neo dottore, con la corona di alloro in testa e le solite pernacchie goliardiche, ma quando i poliziotti sentono il rumore, hanno uno scatto e fanno per rialzare lo scudo, pronti a rimettersi a testuggine. In fondo, una laurea è quello che ci vuole, dopo una mattinata di botte, di sangue e di urla, per far tornare la Sapienza quello che è e che è sempre stata, la più grande università europea. C’è un sole fin troppo caldo, fin troppo strano a ridosso di Natale, quando fiorisce un precario armistizio tra gli agenti schierati e gli studenti davanti a loro. A metà strada di un giorno che, da queste parti, non capitava forse dai tempi di Bonifacio VIII, col suo Studium Urbis, le radici di questa città di studenti e professori che è stata travolta dall’onda di rabbia che è penetrata in questo tempio del sapere che nonostante gli austeri palazzi, le undici facoltà, i dipartimenti, nonostante le decine di biblioteche e musei, le tante cose belle che custodisce e rivela, è diventato un duro ring sociale, come una curva di uno stadio o una piazza.
Ci sono ancora tre camionette della Polizia e una fila di agenti, messi uno vicino all’altro sotto la facciata immensa del rettorato, un’immagine vagamente cilena, quando gli studenti chiudono il loro corteo cominciato alle nove per ribadire una volta di più che nemmeno loro ce la fanno più, tra tagli, sacrifici e rinunce, in questo Paese che sembra una valigia sempre più gonfia, sempre più satura, tenuta insieme con un filo di spago. Si alternano uno alla volta al microfono per ribadire più o meno lo stesso concetto: fuori la polizia da qui. «Fuori le guardie dalla Sapienza», urlavano poco prima, durante le due cariche che si sono susseguite. Guardie non è propriamente una parola che direbbe uno di questi studenti per parlare degli uomini in divisa blu che ad un certo punto hanno picchiato lo sfollagente contro lo scudo di plastica, e sono partiti alla carica. Ma non è nuovo il sospetto che ci fossero anche ospiti, tra le decine di ragazzi che hanno difeso con le unghie e coi denti la loro casa e il loro diritto a parlare, così come ci siano ospiti tra i forconi sparsi per l’Italia in questi giorni. O tra la gente della Val Susa che poco tempo fa, proprio nel cuore di Roma, a Campo dè Fiori, si è trovata spalla a spalla con tipi mascherati, alcuni come Anonymous che si sono visti anche qui, vestiti di nero e molto bravi a colpire ed arretrare, molto bravi a coprire le ali e a non lasciare indietro nessuno: si chiamano, di solito, tecniche para-militari. Non proprio le doti che ti aspetti da ragazzi che hanno lo zaino in spalla e che all’ora di pranzo cercano di fare come se fosse una qualsiasi giornata di studio e di lezioni, pranzando al sacco con amici, seduti sui muretti irradiati dal sole. «Però con quelli lì mi sento a disagio, mi sento proprio male. Mi fa impressione» sbotta una ragazza coi capelli corti che impugna il piatto di plastica con la minestra e si alza in piedi, girandosi verso gli uomini della questura che in borghese sorvegliano la situazione.
BRUTTA SORPRESA
Dietro, c’è il cortile con la targa dedicata a Marta Russo, che come loro l’ultima mattina della sua vita camminava ignara verso il suo destino. Anche loro, in fondo, si sentono un po’ così, raccontando di quando hanno varcato i cancelli, come tutte le mattine, e hanno trovato scene di guerra. E tutto gli è caduto addosso, fragorosamente. Dolorosamente, soprattutto. Come cerca di spiegare Eleonora, primo anno in questa Atlantide della conoscenza e un provvidenziale corso di primo soccorso già in saccoccia. «Erano circa le 11.40, sono uscita per l’intervallo della lezione come sempre e mi sono avvicinata al corteo che avevamo sentito arrivare. A quel punto, i celerini sono partiti e hanno caricato alle spalle. Ho visto una ragazza che andava a lezione colpita alla testa da un poliziotto. Aveva la testa spaccata, perdeva tantissimo sangue ed è svenuta. L’ho soccorsa come meglio potevo, cercando di fermare l’emorragia, poi l’hanno portata all’Umberto I°. Uno schifo, l’università è degli studenti, ma quelli sono venuti qui per farci male». «Siamo usciti dall’aula perché si sentiva un casino pazzesco, sembrava una guerra prosegue Agostino, al suo fianco c’erano gli elicotteri, i blindati. È inammissibile, ma il problema è che loro non capiscono i loro sbagli. Non capiscono cosa hanno fatto». Poco lontano il presidio continua a ripetere «fuori la polizia». Per loro, anche il rettore Luigi Frati deve fare le valigie: «È lui che ha permesso ai poliziotti di venire qui dentro a massacrarci di botte, la responsabilità è sua, cacciamolo dall’università». Li ha fatti imbestialire, soprattutto, il serafico commento del Magnifico alla loro protesta: «La situazione è sotto controllo, si tratta solo di qualche botto di saluto in vista della fine dell’anno». Erano bombe carta, per la verità, uova, fumogeni e altri oggetti scagliati contro le forze dell’ordine. Tanto che i ministri Saccomanni, Orlando e Lorenzin, intervenuti al convegno su biodiversità e green economy, sono rimasti prigionieri delle Sapienza, in attesa che si calmassero un po’ gli animi. Non pervenuti, invece, Napolitano e Letta, che da ospiti d’onore, come urlano gli studenti, sono diventati convitati di pietra di una mattina piuttosto ruvida, con due fermati, poi rilasciati, due agenti feriti e la sensazione di un’innocenza perduta che sarà molto, molto difficile da cancellare, in questo enorme e antico giardino di libri.

l’Unità 13.12.12
Alberto Campailla
Il portavoce nazionale di Link: «Come mai hanno lasciato fare quelli che hanno assalito
le camere del Lavoro mentre noi siamo stati caricati senza ragione?»
«Attaccati alle spalle, mi domando perché
di Luciana Cimino


ROMA Stavolta gli studenti la carica della polizia non l’avevano messa in conto. «È arrivata alle spalle», commentano poi in assemblea dopo una mattinata di tensione all’interno della città universitaria de La Sapienza. Alberto Campailla, portavoce nazionale di Link, la sigla che riunisce i coordinamenti di studenti in 14 città analizza la giornata di tensione. «La mobilitazione di oggi era annunciata da tempo. Erano stati invitati nella città universitaria i responsabili dello sfascio dell’istruzione. I ministri presenti sono parte di un problema generale: non a livello personale ma perché rappresentano il governo dell’austerity. Era giusto contestare oggi».
Qualcuno dice però che con il clima di tensione creato dal movimento dei forconi gli studenti potevano evitare... «Distinguiamo: è da anni che ci battiamo per il definanziamento dell’università, della ricerca, del diritto allo studio, la situazione drammatica dell’istruzione, il fatto che di fronte a un 41% di disoccupazione giovanile l’esecutivo non riesca ad affrontare la questione generazionale con un vero piano per il lavoro. È ovvio che il tema dell’occupazione ci interessi: una volta usciti dalla formazione non sapremo cosa fare. Ma non ci aspettavano questa reazione da parte delle forze dell’ordine».
Dicono che avete cercato di forzare i cordoni di sicurezza con le bombe carta. «Non è vero. C’era chi aveva fuochi d’artificio, fumogeni, petardi, uova, vernice. Ma bombe carta mai. Il corteo di oggi non aveva né scudi, né mazze. Credo che nella tensione imprevista qualche cronista si sia confuso. Noi non abbiamo fatto nulla di diverso dal solito. Non c’era scontro quando la polizia ha caricato. Tutto ciò è molto strano e ci preoccupa».
Cosa vi preoccupa?
«Non siamo nuovi agli scontri, conosciamo le dinamiche in cui succedono ma oggi è stato differente: la carica è stata fatta alle spalle. E c’è un elemento nuovo: la celere è entrata dentro l’Università, l’ultima volta è successo con Gheddafi, che era un capo di stato straniero. Oggi le condizioni erano del tutto diverse. La celere contro 300 studenti. Perché avviene questa cosa oggi? Per tutto l’autunno si sono susseguite manifestazioni di studenti ma la brutalità di stamattina non si è mai vista. Non crediamo alla fatalità».
E quindi?
«Ci chiedevamo: perché i forconi che hanno assalito le camere del lavoro, impedito ai negozi di aprire, minacciato, sono stati lasciati fare mentre gli studenti sono stati caricati? Il movimento dei forconi è una rivolta individuale e corporativa, una sofferenza sociale però di lato reazionario, noi invece facciamo una critica da sinistra al pezzo di centro sinistra che governa e veniamo repressi e isolati. Senza retroscenismo: qualcosa non quadra».
Chi sono i vostri interlocutori?
«Noi ci rivolgiamo al governo. Ma ci chiediamo quale forza politica sia in grado oggi di raccogliere i temi che poniamo da anni inascoltati».

l’Unità 13.12.12
Pippo Civati: «Sulla fiducia ho votato sì ma né Renzi né Letta mi hanno convinto
Per la presidenza dell’Assemblea serve una figura super-partes»
«Giusto l’appello all’unità, ma senza gestioni unitarie»
di Maria Zegarelli


ROMA «Io ho cambiato idea sulla fiducia? In realtà è stato Matteo Renzi ad aver cambiato linea dopo le primarie».
Pippo Civati, allora l’ha convinta Renzi? «Affatto. Né Letta, né Renzi. Mi hanno convinto i quasi tre milioni di elettori che sono andati alle primarie. Io avevo un’idea diversa ma, pur avendo avuto un buon risultato, non è stata maggioritaria. È il motivo per cui avevo detto che avrei votato la fiducia solo dopo le primarie: mi sembrava giusto capire cosa volevano i nostri elettori, che sono i miei interlocutori nel bene e nel male».
In realtà anche Renzi era piuttosto critico con il governo Letta.
«Infatti mi sembra che Letta abbia convinto Renzi a cambiare idea e non viceversa».
Ci racconta come è nata la nomina di Filippo Taddei, civatiano di ferro, nella segreteria del nuovo segretario?
«Renzi conosce Taddei da molto tempo, facemmo insieme la prima Leopolda. La sera delle primarie mi ha chiamato dicendomi “vorrei che Filippo entrasse in segreteria se non hai nulla in contrario”. Ho risposto che non c’erano problemi ma doveva essere chiaro che non si trattava di gestione unitaria del partito, Filippo è un esponente della nostra componente e questo ha un significato, ma non può intendersi come un impegno della componente stessa, che invece mantiene una sua autonomia».
Renzi chiede a tutti di superare le correnti e lavorare insieme. Lei che fa, resta all’opposizione?
«Un conto è un appello all’unità che già se viene da Renzi, un leader non propriamente unitario, è forte, altro è chiedere la gestione unitaria. Il Pd è un partito plurare nel quale il diritto di critica resta immutato. Stiamo assistendo, tra l’altro, a un mutamento singolare: durante le primarie Renzi diceva di volere andare al voto presto, oggi si dice pronto a sostenere il governo fino al 2015. Gli avevo suggerito di discutere della legge elettorale prima delle primarie e non dopo perché questo avrebbe comportato un allungamento dei tempi. È evidente che non è casuale il fatto di averne discusso dopo l’8 dicembre, è stata una precisa scelta politica».
Al netto di Taddei, come giudica la nuova segreteria?
«Aspetto di vedere come lavorerà prima di esprimermi, non sarebbe corretto da parte mia. È ovvio, però, che se avessi vinto io sarebbe stata completamente diversa, aperta sull’articolazione del partito, non composta di parlamentari e non solo di persone di mia stretta fiducia». Resta aperta la partita della presidenza dell’Assemblea. Il segretario vuole darla alla minoranza. Lei, se Cuperlo rifiutasse, accetterebbe?
«Non sono d’accordo a far ricoprire questo ruolo ad una figura espressione della minoranza. Noi abbiamo bisogno di una figura di garanzia per tutti e non di un presidente che essendo di minoranza non riuscirebbe in questo intento. Inevitabilmente sarebbe di parte».
Quindi condivide le valutazioni di Cuperlo?
«Secondo me Cuperlo, che stimo malgrado le “botte” che ci siamo dati in campagna elettorale, pone una questione reale. Noi abbiamo bisogno di una figura super partes, altrimenti non mi interessa». Lei a chi pensa?
«Mi crede se le dico che ci sto pensando ma ancora non sono riuscito a trovare la persona giusta? Bisogna sceglierla all’interno dell’Assemblea, dove sono arrivati tantissimi giovani».
Non si fa fatica a crederle. Ma entro domenica bisogna trovarlo questo nome. «Forse dovrebbe essere il nuovo segretario a farci delle proposte su nomi che secondo lui rappresentano tutto il Pd e non soltanto una parte. Non deve essere un premio di consolazione, per intenderci».
Civati, la svolta che tutti auspicavate, l‘emancipazione dei figli, è arrivata? «L’emancipazione sì, quella c’è stata senza dubbio, anche se io non ho mai avuto un “padre” politico da cui emanciparmi. Però, da qui a dire che c’è stata una svolta mi sembra esagerato, direi che c’è stata una forte spinta al cambiamento. Matteo ha ottenuto una grande affermazione, ma abbassiamo i toni della retorica. Il discorso di Letta alle Camere non mi è sembrato molto diverso da quello di tre mesi fa, forse solo più preciso in alcuni punti, per il resto ho avuto l’impressione che sia stato il Pd ad andare in sostegno di Letta più che a dare un nuovo indirizzo al governo».
Ci sono polemiche per il veto di Renzi su possibili candidature di D’Alema, Finocchiaro e Bindi alle europee. Lei che ne pensa?
«Ho sempre detto che Bruxelles non è come andare a Cannes e ritirare il premio di fine carriera, ma il luogo dove mandare le migliori competenze, le più fresche, per costruire un ceto politico europeo che non sempre abbiamo avuto. Senza arrivare ai giudizi ad personam la filosofia di liste rinnovate mi convince». Farà come Franceschini con Renzi, dopo il congresso tutti insieme?
«No, io faccio come Civati con Renzi. Pur essendo amici diciamo cose molte diverse, quindi massima collaborazione ma resta intatto il diritto di critica perché alcune sue corde sono molto diverse dalle mie».

La Stampa 13.12.13
Cuperlo valuta il sì a Matteo per salvare la sua corrente
sinistra dilaniata sulla presidenza. Si fa pure il nome di Nicola Zingaretti
di Carlo Bertini

qui

l’Unità 13.12.12
Sindacato, asse Renzi-Landini
Presidenza: Cuperlo verso il sì
Lo sfidante «apre» ma non vuole essere «ingabbiato» in un ruolo di garanzia
di Vladimiro Frulletti


«Mi siedo a destra così a sinistra ci vai tu». «Bene serve qualcuno che vigili a sinistra». Va in onda alla cinque e mezzo del pomeriggio la nuova (ma non casuale) sintonia fra il leader della Fiom Maurizio Landini e il Pd, nelle vesti del suo nuovo segretario Matteo Renzi. E che ci sia un indubbio feeling fra i due lo dicono non solo gli abbracci davanti ai fotografi («ecco ora ho rovinato anche Landini» scherza Renzi) e la presenza del sindaco (che in mattinata ha annunciato che si ricandiderà alla guida della città) tutt’altro che formale al taglio del nastro della mostra della Fiom fiorentina alla biblioteca delle Oblate. Ma anche i contenuti. A partire dalla necessità di una legge che finalmente apra alla democrazia nel sindacato. Uno storico cavallo di battaglia dei metalmeccanici della Cgil.
«Tutti i lavoratori, non solo quelli iscritti ai sindacati, devono poter scegliere non solo i propri rappresentanti, ma anche decidere dei propri contratti» è l’appello di Landini che il neo-segretario del Pd fa proprio. «Sono d’accordo con Landini sulla rappresentanza sindacale. Serve una legge puntualizza Renzi che riconosca il diritto dei lavoratori a scegliere i propri rappresentanti e ad avere una più efficace presenza nell’azienda». Un riferimento ai comitati di sorveglianza che ci sono ad esempio nelle grandi aziende tedesche come la Volkswagen e che anche Landini spiega che potrebbero funzionare «bene anche qui in Italia». Del resto lo stesso segretario della Fiom appena arrivato a Firenze spiegava che «Renzi è stato eletto segretario del Pd con un risultato straordinario». Un segnale della voglia di cambiamento che sarà contagioso. «Anche il sindacato deve cambiare» sottolinea Landini, che saluta con soddisfazione l’impegno preso «dal segretario del Pd sulla legge per la rappresentanza sindacale». Soddisfatta anche la segretaria della Cgil Susanna Camusso che via twitter fa sapere che così vengono riconosciuti «i meriti di una lunga battaglia della Cgil».
In più però per Landini questa legge potrebbe essere il punto di partenza per tornare a parlare di unità sindacale. Tema questo, va ricordato, che era uno degli obiettivi strategici che stava alla base della nascita del Pd nel 2007. E non a caso mentre Landini dice queste cose Renzi annuisce vistosamente. E il segretario-sindaco si ripete quando Landini spiega che «ricette già scritte non servono» che è il «momento del coraggio» e di «fare scelte che non si sa come finiranno» perché nei prossimi 5-6 mesi si decide il destino dell’Italia. È un invito sintonico con la necessità dell’urgenza, dei tempi stretti, lasciando da parte tentennamenti e rinvii, che Renzi sta rimarcando da domenica notte. Certo se poi a Landini o Renzi (che hanno deciso di fissare nei prossimi giorni un nuovo appuntamento a quattr’occhi) si fa notare la sintonia crescente i due gentilmente glissano. La teoria che ognuno debba fare, in piena autonomia, il proprio lavoro da sindacalista e da segretario è alla base delle loro ricette. La cinghia di trasmissione non piace tanto a Landini quanto a Renzi. E quindi è probabile che quando dai principi si entrerà nel merito delle scelte le posizioni non saranno sempre sovrapponibili. Intanto però Renzi apprezza il Landini che boccia le privatizzazioni col solo scopo di fare cassa e chiede un rilancio degli investimenti pubblici e privati citando anche il caso dei fondi pensione dei lavoratori, a cominciare da quello dei metalmeccanici, che investono in fondi stranieri invece che in Italia. E Landini segue con soddisfazione il Renzi che dice che non vuol togliere «diritti a chi li ha, ma darli a chi ora non ne ha», che cita l’Obama che investe «sul manifatturiero» creando 500mila posti di lavoro e che attacca la politica persa dietro l’Imu «specchietto per allodole utile a non parlare dei problemi reali» e che non c’è ripresa se «il Pil passa dal meno 0,1 al più 0,5% mentre la disoccupazione sale dal 12,7 al 12,9%». È ovvio quindi che serva un cambio di passo. Renzi lo annuncia per le prossime settimane quando il «Pd, che è maggioranza della maggioranza» presenterà un progetto complessivo per il lavoro. Dentro, spiega, ci saranno le misure per spendere al meglio i soldi in arrivo dalla Ue per i giovani evitando che finiscano per rimpinguare le strutture burocratiche e i «soliti noti», e la riforma del diritto del lavoro che ora conta «2160» e serve soprattutto a far lavorare gli avvocati del lavoro e non le persone. Un progetto che nelle intenzioni del segretario Pd usando «un linguaggio nuovo» dovrà far uscire la politica «dalla logica dei tavoli» e spingere il governo a varare strumenti concreti.
E sarà proprio il lavoro, assieme alle riforme e all’ Europa, il tema centrale che Renzi affronterà domenica nel suo primo discorso ufficiale da segretario all’assemblea nazionale di Milano. Appuntamento che rappresenta formalmente (verrà eletta la direzione, 120 persone, vero parlamentino del partito) l’avvio del nuovo corso democratico. Al momento resta in sospeso la questione della presidenza. Renzi vorrebbe che sia Gianni Cuperlo a ricoprirla. Il deputato triestino dopo un incontro con i parlamentari che lo sostengono ha preso 24 ore di tempo per pensarci. Ma sembra intenzionato a scciogliere positivamente la riserva ed ad accettare. Lui vuol parlare di nuovo con Renzi perché non ha intenzione di ingabbiare in un ruolo di garanzia, «istituzionale», la sua azione politica. Vuole cioè essere libero di dire la propria. In quest’ottica l’esperienza di Rosy Bindi giocherebbe per il sì. Bindi ha fatto il presidente-garante quando guidava l’assemblea ma certo non s’è mai sottratta alla battaglia politica. Ma soprattutto a spingere Cuperlo verso il sì è la montante richiesta che gli sta venendo da tutto il partito in maniera assolutamente trasversale e non solo da tutti quelli che lo hanno sostenuto alle primarie. Una situazione che rende oggettivamente «difficile dire di no» come ha spiegato ai suoi collaboratori.

il Fatto 13.12.12
Renzi e Landini, ecco la strana coppia
Intesa tra il leader Pd e il segretario Fiom: faremo la legge sulla rappresentanza
La platea applaude convinta
di Salvatore Cannavò


Landini in casa Renzi è molto familiare, essendo il cognome della moglie Agnese. Forse perché influenzato da questa coincidenza, forse perché in politica gli opposti si toccano sempre, tra il segretario del Pd e quello della Fiom ieri è scattata una scintilla. Un dialogo avviato nella biblioteca fiorentina delle Oblate in cui si tiene la mostra sulle lotte operaie e che ha ospitato l'incontro tra i due. “Caro Matteo” e “caro Maurizio” è il tono confidenziale che i segretari hanno deciso di avere gradito da una platea che li ha applauditi con analoga, forte, intensità. Il contenuto di questa possibile intesa è la legge sulla rappresentanza sindacale. La Fiom la chiede da diverso tempo, per lo meno dall’avvio della vertenza Fiat con tutto quello che ne è seguito. È tornata a chiederla con forza subito dopo il successo delle primarie Pd: “Il principio che le persone possano decidere direttamente è stato rafforzato e questo mi fa molto piacere” aveva detto in mattinata in una intervista rilasciata a Repubblica Firenze. E ieri sera Renzi ha risposto senza esitare. “Sono profondamente d’accordo con Maurizio”, ha detto il sindaco raccogliendo il giudizio “molto positivo” del segretario Fiom. Di questa legge si parla da tempo, in Commissione Lavoro alla Camera si stanno tenendo delle audizioni. Ieri, tra l’altro, c’è stata quella del responsabile per le relazioni industriali della Fiat, Paolo Rebaudengo che si è trovato di fronte il presidente della Commissione, Cesare Damiano e il deputato di Sel, Giorgio Airaudo, entrambi ex Fiom. C’è un lavoro in corso, dunque, e il dialogo avviato ieri ha l’obiettivo di raggiungere un risultato concreto.
RENZI È SEMBRATO trovarsi subito a suo agio in una platea a metà tra sindacato e partito. Battute a raffica: su Marchionne, ormai acqua passata, sullo scontro avuto con la Cgil cittadina, intervenuta con il segretario Fuso, piuttosto imbarazzato nel nuovo clima. Come sua abitudine, il sindaco fiorentino non è stato timido nel descrivere le sue idee principali. Dopo aver rilanciato il tema che più sta a cuore, in questo momento, alla Fiom, ha ribadito la necessità di riformare il mercato del lavoro, di adottare come modello positivo di privatizzazione e di sviluppo il Nuovo Pignone di Firenze e ha invitato a recepire il “coraggio del Brunelleschi” capace di coniugare il senso della bellezza con quello della solidarietà.
Renzi, in questo momento, ha la freschezza della vittoria e può permettersi di fare la lepre inseguita da tutti gli altri. E così, anche quando ribadisce che sul mercato del lavoro il suo punto di ispirazione resta il pacchetto Treu del '97, lo dice con il tono di chi non vuole far del male ma solo convincere che alla fine si farà come dice lui.
La Fiom ha raccolto la sfida del leader democratico senza rinunciare alle proprie posizioni. Su pensioni, diritti, intervento pubblico per lo sviluppo Landini è stato chiaro. E ha ricordato le cose dette in mattinata al governo nell’incontro avuto a Palazzo Chigi sulle crisi industriali in corso. Un “incontro positivo, un fatto inedito” forse anche quello frutto della nuova fase del Pd.
MA È NELLA COMUNE insistenza a “innovare”, ad “aver coraggio a intraprendere strade nuove” che risiede il succo del confronto con Renzi, avvenuto su una base di comune riconoscimento. La cultura autonomista della Fiom, eredità del pensiero di Claudio Sabattini, è del resto speculare alla volontà di Renzi di tenere il Pd del tutto separato dalle logiche e pratiche sindacali. “I due hanno un tratto in comune, spiegano nel sindacato, non sono ideologici e sono entrambi pragmatici e con Renzi, nella comune sincerità, si può lavorare con reciproco rispetto”. Il rispetto che deriva dal fare due mestieri diversi e che potrebbero trovare altri punti di contatto. Renzi, ad esempio, chiede di pensare anche ai “non garantiti”, “senza eliminare diritti ma dandoli a chi non li ha” e Landini ha già aperto al reddito minimo. Sarà un punto centrale del Job act del sindaco. E la giornata in Fiom viene vissuta come un grande successo: dai tavoli ottenuti a palazzo Chigi agli abbracci scambiati con Renzi. Si apre una fase diversa.

Corriere 13.12.13
Il segretario in campo: abbraccio a Landini e segnali per Cuperlo
Così Renzi prepara l’assemblea di domenica
di Alessandro Trocino


ROMA — Un abbraccio simbolico, che unisce una strana coppia, Matteo Renzi e Maurizio Landini. A unire il neosegretario del Pd e il leader della Fiom c’è soprattutto una parola: cambiamento. E la base del consenso, fondato sul rinnovamento: per Renzi gli elettori, per Landini i non garantiti. Restano, comunque, le distanze politiche, visto che Renzi, uscendo, dice ai suoi: «Sulla legge di rappresentanza ci può essere un terreno di confronto, ma sui temi del lavoro restiamo distanti mille miglia».
Insomma, la sintonia tra il sindaco di Firenze e il leader della Fiom è da leggere soprattutto nella chiave della rappresentanza. Come spiega lo stesso Landini: «Renzi per riformare il Pd ha usato il voto democratico degli elettori. Io vorrei fargli osservare che i lavoratori non hanno il diritto di votare i propri contratti». E così, se Renzi ha dovuto lottare contro il moloch del partito, ricorrendo agli elettori contro l’apparato, Landini vuole dare rappresentanza ai non garantiti, che storicamente fanno capo al sindacato, guidato da Susanna Camusso, avversaria di entrambi. Su questo Renzi concorda: «Non voglio eliminare i diritti per chi li ha, vorrei che ci fossero per chi non li ha». E ancora: «Dobbiamo parlare di lavoro con un linguaggio nuovo». Il linguaggio del job act , «per cambiare le regole del gioco».
Renzi deve fare i conti anche con gli equilibri interni. Che per ora sono sospesi, visto che il suo sfidante, Gianni Cuperlo, non ha ancora deciso se accettare l’incarico di presidente dell’assemblea, dando quindi un segnale di disgelo, o se giocare a mani libere. Nella riunione con i suoi ha chiesto 24 ore di tempo per decidere. Ma secondo diversi avrebbe ormai deciso di accettare.
Le ultime resistenze sono legate anche al caso D’Alema. Non è piaciuta a molti il trattamento riservato a lui e agli altri big da Renzi, che gli ha dato un pubblico annuncio di sfratto anche dalle candidature europee. Nei colloqui che Cuperlo ha chiesto al segretario parlerà di questo, ma chiederà anche un’agibilità politica. Ha paura di essere ingabbiato in un ruolo di garanzia. E qualcuno interpreta il pressing dei Giovani Turchi in questo senso. Matteo Orfini rassicura: «Ho detto a Gianni che è importante che nell’album di famiglia del Pd non ci siano solo Renzi, Letta e Franceschini. E poi gli ho ricordato che il presidente, vedi Rosy Bindi, non si muove solo con compiti di garanzia. Può essere un vero leader dell’opposizione».

il Fatto 13.12.13
La proposta
Un altro New deal è possibile
di Giorgio Airaudo


Abbiamo deciso di proporre una legge per un Green New Deal italiano che parta dalla considerazione che la disoccupazione è un male molto peggiore del debito pubblico. È l’occupazione che genera sviluppo, non il contrario. I dati relativi al tasso di disoccupazione nel nostro Paese mostrano un quadro di assoluta gravità che continuerà a peggiorare anche nel 2014 con buona pace degli illusionisti della ripresa. La nostra proposta individua una soluzione indicando lo Stato come datore di lavoro di ultima istanza attraverso la creazione di un Programma Nazionale di interventi pubblici detto Green New Deal italiano. Non vi è infatti altra possibilità di creare lavoro per i 3 milioni e 189 mila disoccupati (Istat ottobre 2013), perché, anche se per “miracolo” il quadro economico mutasse e vi fosse un boom occorrerebbero non meno di 15 anni per riportare l’occupazione a livelli fisiologici. Inoltre non si riuscirebbe comunque a tornare ai livelli precedenti anche perché la maggior parte delle imprese stanno sostituendo in misura e rapidità crescente il lavoro umano con l’applicazione di tecnologie.
Come ha scritto il professor Gallino nel suo libro Il colpo di Stato di banche e governi, esistono quattro vie per creare occupazione: le grandi invenzioni come con l’avvento dell’automobile; un aumento di spesa pubblica per la realizzazione di grandi opere o la spesa in armamenti; la creazione diretta di posti di lavoro da parte dello Stato; politiche fiscali per incentivare le assunzioni o stimolare i consumi. La prima strada nel contesto odierno non è attuale; la quarta strada, quella delle politiche fiscali non ha prodotto i benefici sperati, come serissimi studi nazionali e internazionali hanno dimostrato; la seconda strada ha dimostrato di essere efficace, ma c’è da augurarsi che vengano sempre più ridotti gli investimenti nell’industria bellica e che la realizzazione di opere pubbliche in campo civile avvenga nel rispetto massimo dell’ambiente.
La terza strada, quella che vede lo Stato come datore di lavoro di ultima istanza, ha base teoriche molto approfondite ed è in grado di creare occupazione in tempi rapidi, anche in una situazione di recessione.
Il nostro obiettivo punta ad almeno 1,5 milioni di posti di lavoro, sostenendo un’occupazione produttiva e un lavoro dignitoso. I costi economici della disoccupazione impattano direttamente sul Pil che non viene prodotto a causa di essa in misura molto maggiore del costo delle misure di sostegno a reddito dei disoccupati. Il piano, in sostanza, si ripaga da solo. I 25 milioni di disoccupati nell’Unione europea, infatti, comportano una riduzione del Pil potenziale dell’intera Unione dell’ordine del 5% l’anno, corrispondente a 800 miliardi di euro. Per l’Italia si tratta di 80 miliardi di ricchezza reale che non viene creata. Il programma si richiama apertamente al New Deal statunitense che, tra il 1933 e il 1943, riuscì a creare occupazione per circa 8,5 milioni di lavoratori.
LA CREAZIONE di occupazione, attraverso l’intervento dello Stato, dovrebbe anche perseguire l’obiettivo di contribuire a trasformare il modello produttivo ancor oggi dominante, orientando i flussi di mano d’opera sia verso settori ad alta intensità di lavoro e di immediata utilità sociale, sia verso professioni che le macchine, per motivi tecnici o per ragioni di costo difficilmente potranno sostituire. Inoltre, il Programma si chiama Green perché scommette su un modello produttivo di tutela dell’ambiente e della salute, attraverso il recupero degli ecosistemi e della biodiversità. Cosa si dovrebbe fare con queste assunzioni? Lavori che permettano di migliorare il benessere e aumentare la ricchezza sociale: interventi per prevenire e contrastare il dissesto idrogeologico; ristrutturare e valorizzare edifici scolastici, ospedali, asili nido pubblici; incrementare l’efficienza energetica e ridurre i consumi per gli uffici pubblici; recuperare e valorizzare il patrimonio storico, architettonico, museale archeologico italiano rilanciando l'industria turistica.
Per realizzare questi interventi, il programma si prefigge l’obiettivo, nel triennio 2014-2016, di occupare 1,5 milioni di lavoratori tra le persone inoccupate, disoccupate o occupate in cerca di altra occupazione, qualora il loro reddito sia al di sotto di ottomila euro.
Chi paga? In tre anni ipotizziamo di destinare circa 29 miliardi di euro recuperati dal taglio per le spesa degli F35, una tassa sulle transazioni finanziarie e un utilizzo a nostro avviso più efficace delle poche risorse destinate al cuneo Fiscale. Il governo Italiano, poi dovrebbe, secondo i nostri propositi, chiedere che non vengano considerati aiuti di stato tutti gli interventi finalizzati a combattere la disoccupazione. Un piano straordinario per il lavoro, un GreennewDeal, infatti, è una proposta anche per un altra Europa non solo garante delle banche e della finanza ma al servizio di tutti i cittadini europei.
*Deputato Sel

La Stampa 13.12.13
L’ex ministro
Barca: “Se stabilità vuol dire nessun cambiamento, no grazie”
«Renzi poco dopo la vittoria ha già prodotto una frattura generazionale. Cambio molto interessante»
Su Civati: «L’ho sostenuto perché il mio documento aveva voglia di mettere le mani nel territorio, eluilofa»
Sul governo: «Non penso debba cadere, deve fare legge elettorale e crescita. Non credo che Matteo lo indebolisca»
intervista di Paolo Festuccia

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La Stampa 13.12.13
L’impervia strada di Matteo
di Luca Ricolfi

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Corriere 13.12.13
La generazione dei bravi ragazzi
di Aldo Cazzullo


In politica — titolano tg e giornali — è l’ora dei quarantenni. Ma, a ben vedere, è un ricambio più profondo quello che si annuncia, è un’altra generazione ancora quella che si affaccia alla vita pubblica.
La generazione che si potrebbe definire dei «bravi ragazzi».
Enrico Letta non è certo un volto nuovo: nel 1998 era già ministro. Angelino Alfano ha quattro anni di meno, ma non si direbbe: le grisaglie, l’eloquio che ricorda i principi del foro siciliani, l’ormai lunga militanza politica ne fanno un veterano.
Ma alle loro spalle avanzano i veri giovani, volti più freschi di quelli — da tempo entrati nella sfera mediatica — di Matteo Renzi o di Giorgia Meloni.
La nuova segreteria del Pd, scelta un po’ frettolosamente, può senz’altro essere criticata per la sua «leggerezza». Allo stesso modo, la ricerca di nuovi talenti avviata da Berlusconi non ha ancora dato i risultati attesi.
Essere giovani non basta; la preparazione e l’esperienza saranno sempre requisiti fondamentali. Però sarebbe ingeneroso ridurre le novità che avanzano al solo dato anagrafico. I volti che andiamo scoprendo in questi giorni non sono semplicemente di bell’aspetto; dietro ci sono persone normali, di modi garbati, di buoni studi, insomma ragazze e ragazzi come quelli che vediamo festeggiare le lauree nelle città universitarie, cercare tra grandi difficoltà un lavoro, tentare di costruirsi una famiglia e un futuro.
Non figli d’arte né del Partito. Volti in cui i nonni possono riconoscere i propri nipoti, i padri i propri figli.
È importante che le nomenklature, a sinistra come a destra, avvertano la necessità di cambiare, di avviare un rinnovamento che non sia solo di facciata ma coinvolga i comportamenti, i profili, le storie, il linguag- gio. Mai il discredito della politica è stato così alto, mai il suo fascino così basso. I talenti migliori non se ne sentono attratti. Molti cittadini non ne vogliono più sapere: non a caso tutti i talk show perdono audience. I parlamentari sono visti come alieni che vivono un’altra vita e discutono di altre cose rispetto alla gente normale. In queste circostanze, investire di responsabilità giovani che hanno appena compiuto trent’anni, che hanno figli piccoli o in arrivo, significa finalmente distogliere lo sguardo dalle contrapposizioni ideologiche, e rivolgerlo a un avvenire che non sia l’eterno ritorno di cose già viste e già sentite.
Del resto, nelle aziende innovative, nelle start up, nel mondo delle nuove tecnologie è frequente (non soltanto all’estero) vedere ai posti di comando persone giovani o molto giovani. E per un ragazzo che ancora non vota, ed è tentato di non farlo mai, un trentenne al potere non è un esperimento azzardato ma un fratello maggiore che finalmente si assume le proprie responsabilità. Abituati come siamo a classi dirigenti inamovibili, distanti, talora disoneste, avvezze a cooptare figli e famigli tagliando fuori tutti gli altri, sbaglieremmo a liquidare come inadeguati i compagni di strada di Renzi — compresi quelli che non appartenevano alla sua corrente — e coloro che emergeranno dallo scouting in corso a destra.
L’importante è che, oltre a sembrare e — si spera — essere «bravi ragazzi», sappiano coltivare la profondità. Il ricambio generazionale, di cui ogni Paese ha bisogno, non è mai un fatto soltanto anagrafico, non consiste nel mettere semplicemente un giovane al posto di un anziano; significa fare cose nuove o fare le cose di ieri in modo diverso.

il Fatto 13.12.13
Emma Bonino
La traumatica scoperta del realismo


EMMA BONINO è stata vittima dell’eccesso di aspettative per il suo arrivo alla Farnesina, dopo una vita di battaglie radicali. Da ministro degli Esteri è sempre parsa ai margini: non informata e ignorata nella gestione del caso Shalabayeva, passiva (forse era difficile fare altro) sui tifosi della Lazio fermati in Polonia, poco incisiva nella crisi siriana, si è spesa molto per la mediazione sull’Iran, ma è l’Italia a rilevare poco, i marò sono sempre in India e l’unica novità è che si è tornato a parlare di una pena di morte che pareva esclusa. Forse la colpa è della perdita d’influenza dell’Italia, forse dell’eredità di Terzi di Sant’Agata, ma la Bonino non suscita entusiasmi.

il Fatto 13.12.13
Ilva, per Vendola pre vigilia di Natale dai magistrati


SARÀ INTERROGATO il prossimo 23 dicembre il governatore della Puglia Nichi Vendola, indagato per concussione nell’inchiesta “ambiente svenduto” sul disastro ambientale causato dall’Ilva di Taranto. Il presidente della Regione sarà ascoltato dal pool di magistrati che ha coordinato le indagini che in quello stesso giorno ascolteranno anche il direttore generale dell'Arpa Puglia, Giorgio Assennato, accusato di favoreggiamento nei confronti di Vendola per aver negato le pressioni che, secondo i magistrati, Vendola avrebbe compiuto per ammorbidire il direttore Arpa (Agenzia regionale protezione ambiente) nei confronti della fabbrica.
I primi interrogatori, però, cominceranno oggi. Dinanzi alla Guardia di finanza saranno ascoltati don Marco Gerardo e Roberto Primerano. Per il sacerdote l’accusa è di favoreggiamento nei confronti dell’ex dirigente Ilva Girolamo Archinà. Mentre per Primerano l’ipotesi di reato contestata dagli inquirenti è di corruzione in atti giudiziari per aver falsificato “il contenuto della consulenza tecnica avente a oggetto le emissioni di diossina e Pcb” dalla fabbrica.

il Fatto 13.12.13
Beata ignoranza
I danni postumi di Gelmini: cancellata la Storia dell’arte
Nel Paese dei monumentila materia sparisce dai programmi di molte scuole
di Tomaso Montanari


Le colpe dei Padri ricadono sui figli, si sa. Così pagheremo per generazioni l'idea scellerata di affidare l'Istruzione (che una volta era) pubblica a un ministro come Mariastella Gelmini. Tra le eredità più pesanti di quel passaggio fatale si deve contare l'ulteriore estromissione della Storia dell'arte dalla formazione dei cittadini italiani del futuro.
NONOSTANTE la raccolta di oltre 15 mila firme, nonostante l'appoggio esplicito del ministro per i Beni culturali Massimo Bray, nonostante la disponibilità di quasi 2500 precari prontissimi a insegnarla, la ministra Maria Chiara Carrozza non è per ora riuscita a rimediare al grave errore di chi l'ha, purtroppo, preceduta.
Fortemente ridotta negli Istituti tecnici, la Storia dell'arte è stata del tutto cancellata in quelli Professionali: dove è possibile diplomarsi in Moda, Grafica e Turismo senza sapere chi sono Giotto, Leonardo o Michelangelo. E nei Licei artistici non si studierà più né il restauro né la catalogazione del nostro patrimonio artistico. Inoltre si chiudono tutte le sperimentazioni che rafforzavano l'esigua presenza della Storia dell'arte negli altri licei (compresi i classici, da sempre scandalosamente a digiuno di figurativo). Numeri alla mano, più della metà dei nostri ragazzi crescerà in un radicale analfabetismo artistico.
Non si tratta di una svista, né di un caso. È stata invece una scelta consapevole, generata dal disprezzo per le scienze umanistiche in generale e da una visione profondamente distorta del ruolo del patrimonio storico artistico del Paese: che non si salverà finché gli italiani non torneranno prima a saperlo leggere. Insomma, oggi non riusciamo a trovare qualche diecina di milioni per insegnare la Storia dell'arte: domani ne dovremo spendere centinaia o migliaia per riparare ai danni prodotti dall'ignoranza generale che stiamo producendo.
Perché un italiano dovrebbe essere felice di mantenere, con le sue sudate tasse, un patrimonio culturale che sente lontano, inaccessibile, superfluo come il lusso dei ricchi? È una domanda cruciale, e se davvero si vuol cambiare lo stato presente delle cose, è da qua che bisogna partire. Per la maggior parte degli italiani di oggi, il patrimonio è come un'immensa biblioteca stampata in un alfabeto ormai sconosciuto. E non si può amare, e dunque voler salvare, ciò che non si comprende, ciò che non si sente proprio. Per non parlare della nostra classe dirigente: la più figurativamente analfabeta dell'emisfero occidentale.
LO STORICO dell'arte francese André Chastel scrisse che al Louvre gli italiani si riconoscevano dal fatto che sapevano come guardare un quadro: e lo sapevano perché, a differenza dei francesi, lo studiavano a scuola. Ma proprio ora che i francesi provano ad adottare il nostro modello, noi lo gettiamo alle ortiche.
E se non ci pensa la scuola, è illusorio pensare che lo facciano altre agenzie (potenzialmente) educative. Nei media, nei programmi televisivi, nei libri per il grande pubblico non c'è posto per una Storia dell'arte che non sia il vaniloquio da ciarlatani sull'ennesima attribuzione farlocca, o sulle mostre di un eventificio commerciale che si rivolge a clienti lobotomizzati e non a cittadini in formazione permanente.
Educare al patrimonio vuol dire far viaggiare gli italiani alla scoperta del loro Paese, indurli a dialogare con le opere nei loro contesti, e non in quelle specie di tristi giardini zoologici a pagamento che sono quasi sempre le mostre. Renderli capaci di leggere il palinsesto straordinario di natura, arte e storia che i Padri hanno lasciato loro come il più prezioso dei doni. Perché non dirottare la gran parte dei soldi pubblici spesi per far mostre (in gran parte inutili, anzi dannose) in borse di viaggio attraverso l'Italia per studenti capaci e meritevoli, di ogni ordine e grado? Ma tutto questo non si può fare se manca quel minimo di alfabetizzazione che solo la scuola può dare. E che – paradossalmente – gli insegnanti eroici della scuola dell'infanzia e della scuola primaria offrono spesso molto bene, costituendo un patrimonio di conoscenze che viene poi totalmente dissipato alle superiori.
NEL 1941, nell’ora più nera della storia europea, il grande storico dell'arte Bernard Berenson seppe distillare pagine profondissime, e sconvolgentemente profetiche, sul destino della storia dell’arte. In quei mesi, egli intravide un mondo “retto da biologi ed economisti, come guardiani platonici, dai quali non verrebbe tollerata attività o vita alcuna che non collaborasse a un fine strettamente biologico ed economico”. Egli previde anche che “la fragilità della libertà e della cultura” avrebbe potuto aprire la strada a una società in cui ci sarebbe stato spazio per “ricreazione fisiologica sotto varie forme, ma di certo non per le arti umanistiche”. Meno di un secolo dopo ci stiamo arrivando: anche se la Gelmini, nemmeno un Berenson poteva prevederla.

l’Unità 13.12.12
«Va’ pensiero»: un doc sull’Italia razzista ricordando le vittime
Storia dell’omicidio dei due senegalesi a Firenze
Proiezione stasera alla presenza della ministra Kyenge
di Flore Murard-Yovanovitch


IN UNA SCUOLA DI SESTO SAN GIOVANNI, UNA MAESTRA CANTA «FACCETTA NERA» E POI DICHIARA «IO NON SONO RAZZISTA». Un ritornello già sentito, ma forse il vero nodo della questione del razzismo italiano. Subdolo, sdoganato e raramente perseguitato come odio razziale. Quel nodo mai sciolto, lo coglie invece il regista Dagmawi Yimer in Va’ Pensiero, il suo ultimo film sulla strage razzista di Firenze, che sarà proiettato stasera al cinema Stensen di Firenze alla presenza della ministra Cécile Kyenge. Il 13 dicembre 2011, un «folle» Gianluca Casseri che si scoprirà poi dichiarato neonazista, sparò su degli ambulanti senegalesi nel cuore della città antica. Due morti: Samb Modou e Diop Mor. Fu uno choc per Firenze, per il Paese, ma ben presto il sipario è caduto. Come si vive quando sai che un uomo ha cercato di ucciderti per il colore della tua pelle?
Quali sono le cause di tale violenza razziale? Il regista etiope Yimer, pone le sue domande direttamente alle vittime. Dedicato a Moustapha Dieng, colpito alla spina dorsale e ancora ricoverato in ospedale, il documentario ritrae la sopravvivenza degli altri due superstiti Mor Sougou e Cheikh Mbengue, dopo l’eccidio del mercato di San Lorenzo. Gli incubi, la paura, la difficoltà di vivere, di fare crescere i figli, di tornare ad aprire le bancarelle, e la questione mai sciolta: com’è possibile nel 21° secolo essere colpito perché di pelle nera?
Le loro storie s’intrecciano con quella di Mohamed Ba. Un’altra vittima di un tentato omicidio razziale, ma rimasto meno conosciuto. Il 31 maggio 2009, in pieno centro di Milano, questo cinquantenne senegalese riceve una coltellata nell’addome da un uomo con la testa rasata. Alla fermata del tram, sotto gli occhi di tutti. Fu lasciato dissanguato per ore sul marciapiede, senza soccorso. E soprattutto senza mai che la Questura svolgesse un’indagine appropriata, classificando come la solita «lite tra extracomunitari». Ancora oggi, questa vittima di aggressione razziale, non ha ricevuto la cittadinanza onoraria dall’Italia (quella concessa ai tre senegalesi fiorentini). Altro sipario dell’informazione. Altro abisso. Mor Sougou e Cheikh Mbengue, gravemente feriti a Firenze il 13 dicembre 2011 in pieno giorno, in occasione dell’eccidio di Piazza Dalmazia
Perché le ferite peggiori non sono quelle fisiche, sono quelle invisibili, morali. Psichiche diremmo noi, essere vittima di questo annullamento da parte di un altro essere umano. Che si ferma all’apparenza fisica, e non vede la tua irriducibile uguaglianza. Eppure «nessun uomo nasce razzista, ma lo diventa, perdendo gli affetti», racconta Ba, il favoloso cantastorie, narratore, attore, educatore che incanta bambini e adulti. E ti porta sul suo tappeto di parole, in Senegal, dove non esiste la parole straniero, e dove l’ospite è prezioso, lo si trattiene a casa più a lungo possibile ne dipende della reputazione, perché è un valore in sé.
Va’ pensiero, scena dopo scena ti conduce piano all’interno di quella violenza, con chi l’ha inspiegabilmente subita. Provoca con questa domanda: perché persiste oggi la violenza razziale? Questa malattia del nostro tempo. Il film-domanda di Yimer è molto poetico, dolce e fluido, con lo splendido montaggio di una professionista del calibro di Lizzi Gelber. In 60 minuti, ti conduce in un crescendo drammatico nell’odierno cuore di tenebra. Per renderlo «visibile».
Intanto, l’ideale è di «passare da vu-cumprà a vu-pensà», ironizza Ba sul palcoscenico, uscire dalla condizione di mere «braccia» per contribuire alla crescita del interculturalismo. In una sala gremita a Trastevere, il griot Ba dice che il film di Dagmawi Yimer parla a quella parte «bella e sana» della società italiana, che sa «danzare con gli altri». «Quelle centinaia di cittadini che ci hanno “curato” con la lora vicinanza, perché io non chiedo compassione, voglio vicinanza».

La Stampa 13.12.13
Nuova perizia psichiatrica  per Anna Maria Franzoni
Il tribunale di sorveglianza di Bologna vuole valutare il pericolo di recidiva dopo che gli avvocati della donna condannata per aver ucciso il figlio a Cogne avevano chiesto gli arresti domiciliari

qui

Corriere 13.12.13
Il caso di Cogne, una puntata di una storia infinita
di Francesco Alberti


La mente di Annamaria Franzoni, 42 anni, sarà nuovamente scandagliata da medici ed esperti per capire se esiste il rischio di reiterazione del reato o se invece ci sono le condizioni per concederle quella detenzione domiciliare che consentirebbe alla donna di ritornare dai suoi figli, Davide, 18 anni, Gioele, 10, espiando la pena lontano dal carcere bolognese della Dozza dov’è rinchiusa dal 2008 quando la Corte d’assise d’appello la condannò a 16 anni per l’omicidio del piccolo Samuele, 3 anni, avvenuto nel 2002 a Cogne.
Già nel 2008, all’indomani della condanna in Appello, il Tribunale di sorveglianza di Bologna, dopo una perizia psichiatrica sollecitata dalla stessa Franzoni, aveva respinto la possibilità che la donna incontrasse i figli fuori dal carcere, ritenendo vi fosse un rischio di recidiva del reato. Negli anni successivi la donna è stata sottoposta ad altre perizie dagli esiti controversi tanto che nella sentenza d’appello è scritto che «la Corte non può non tenere conto del fatto che Annamaria Franzoni ha sofferto di un reale disturbo che rientra nel novero delle patologie clinicamente riconosciute, ma che nel sistema giuridico penale vigente non costituisce di per se stesso infermità che causa vizio di mente». Ciò significa che la donna è stata considerata sana di mente quando nel 2007 venne condannata in appello a 16 anni. Da allora la Franzoni ha trascorso 6 anni alla Dozza. La sua condotta, a detta di chi l’ha seguita, non ha creato problemi. Da un mese è stata ammessa al lavoro esterno (con ritorno in carcere la sera) in una sartoria. E nelle settimane scorse ha trascorso 5 giorni di permesso premio con il marito e i figli sull’Appennino bolognese. Il caso è delicato. Giusto che i giudici tentino ogni strada per capire chi è oggi Annamaria Franzoni e quali potrebbero essere le sue reazioni in un contesto familiare. Ma più che l’ennesima perizia, visti anche i precedenti, qualche risposta in più potrebbe arrivare dal suo comportamento in carcere e dalle valutazioni di chi le è vicino.

Corriere 13.12.13
La Costituzione e la signora Thatcher
di Paolo Flores D’Arcais


Caro direttore, Ernesto Galli della Loggia nel suo articolo di domenica mi accusa di «evidente contraddizione» per una interpretazione della Costituzione che ho avanzato in un trascorso numero di MicroMega («Realizzare la Costituzione», ormai non in edicola ma disponibile sul sito www.micromega.net), che sarebbe «eversiva alla radice dell’ordine repubblicano» e «premessa per una sorta di guerra civile» e le cui «forsennate conseguenze» implicherebbero la volontà di «messa al bando per decreto» per tutti coloro che non la condividano, vale a dire «la parte riottosa ai suoi — cioè miei — precetti», parte su cui «naturalmente» calerei ipso facto l’accusa di «fascismo», con cui del resto bollerei «la signora Thatcher e molti degli editorialisti di questo giornale» (per quest’ultima accusa Galli usa la formula dell’interrogativo retorico).
Questa ricca giaculatoria di anatemi, solo per aver io ricordato quanto la Costituzione solennemente pone a fondamento della nostra convivenza civile. Se con l’art. 4, ad esempio, «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto», ne deriva proprio la conseguenza logica, come ho scritto su MicroMega, che «diventerebbero estranei e nemici della Repubblica» i governi che non operassero per la piena occupazione. Se con l’art. 36 «il lavoratore ha diritto a una retribuzione… in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa», ne deriva la conseguenza logica che ostili alla Costituzione sono parlamentari e ministri che agiscano secondo politiche difformi da questo imprescindibile obiettivo (prosternandosi ai diktat di Marchionne, ad esempio). Se con l’art. 37 «le condizioni di lavoro devono… assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione», è conseguenza logica, scrivevo, che vada «contro la Costituzione ogni politica che non assicuri a tutti gli asili nido» (Galli chiosa: «A tutti i bambini, immagino». In effetti solo a loro pensavo, ma il suo articolo mi ha inoculato un dubbio). Se l’art. 42, recitando che «la proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati», pone per ben due volte la proprietà privata in una posizione subordinata a quella pubblica, aggiungendo esplicitamente che «la legge ne determina — della proprietà privata — i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale», ne consegue logicamente che sono fuori e contro la Costituzione le forze politiche ostili a perseguire il primato della «funzione sociale» rispetto al diritto proprietario dei privati (questo «terribile diritto», come lo definisce un libro di Rodotà proprio in coerenza con la Costituzione). Tanto è vero che (art. 43) è previsto anche l’esproprio «salvo indennizzo» non specificato e funzionale «a fini di utilità generale». Non riproduco gli altri esempi fatti su MicroMega. Trovo francamente curioso che agli occhi e alla «logica» di Galli tutte queste inoppugnabili conseguenze logiche appaiano costituire una «evidente contraddizione».
A meno di non tornare alla contrapposizione tra norme programmatiche e norme precettive con cui la Corte di cassazione fino a tutto il 1955, zeppa di magistrati ossequienti al regime fascista e applicando norme fasciste a go go, riuscì a impedire che la Costituzione fosse davvero vigente. La sentenza numero 1/1956 della Corte costituzionale poneva fine a questa prevaricazione giuridica e da allora, con sempre maggiore chiarezza, sentenze della Corte e dottrina pressoché unanime evidenziano come le norme programmatiche della Costituzione non siano «libri dei sogni» o innocui «castelli in aria»: non sono direttamente e immediatamente precettive in quanto da sole non possono dar luogo a sanzioni, ma sono inequivocabilmente prescrittive nei confronti del legislatore, a cui detta le coordinate cui deve uniformarsi il lavoro parlamentare, e nei confronti dei tribunali, che devono interpretare le leggi alla luce della Costituzione. Gli articoli della Costituzione non sono dunque «inapplicabili», come sentenzia Galli, costituiscono anzi la strettissima via maestra all’interno della quale devono muoversi legislativo, esecutivo e giudiziario se vogliono mantenersi fedeli al Patto che fonda la nostra convivenza, «giurato da uomini liberi» che venivano dalla prigione, dall’esilio, dalla lotta armata contro il fascismo. A cui dobbiamo una delle Costituzioni più avanzate del mondo e che la vollero rigida, cioè particolarmente ardua da modificare, proprio per impedire che ne fosse stravolto o edulcorato l’imprinting.
La nostra è infatti una Costituzione che trasuda «giustizia e libertà» quasi da ogni articolo (non l’art. 7, ovviamente). Per questo non piace a Galli. Il quale non l’avrebbe «a gran dispitto» se non comportasse le logiche conseguenze che ho richiamato. Del resto lo confessa, seppure con qualche obliquità: «Effettivamente, a motivo di una dizione perentoriamente ancorché astrattamente prescrittiva, molti degli articoli della nostra Costituzione — specie quelli del Titolo II e III — si prestano troppo facilmente a essere interpretati come un obbligatorio programma di governo». Proprio per questo l’establishment del berlusconismo e dell’inciucio, nel suo ventennio che forse si chiude, ha provato a stravolgerla: con le nomine di giudici costituzionali che sperava corrivi o con comitati di controriforma. Inutilmente, fin qui. Galli chiede polemicamente a Lorenza Carlassare, Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky cosa pensino del mio atteggiamento «ferocemente divisivo». Per certo don Luigi Ciotti, dal palco della manifestazione ricordata da Galli, ha usato l’espressione «Costituzione tradita» almeno sei o sette volte. Per questo resta un programma politico attualissimo. Purtroppo, visto che la nostra Costituzione antifascista dovrebbe essere l’orizzonte comune a tutti i cittadini e a tutti i politici. Antifascista, sì. Galli sa perfettamente che ogni norma trae legittimità da una norma di livello superiore, per cui, se si vuole evitare regresso all’infinito o legittimazione circolare, la norma fondamentale (la Grundnorm di Kelsen) che regge l’intero sistema deve avere carattere extragiuridico. Tutte le norme traggono in definitiva la loro legittimità dal fatto storico che ha dato vita a una Costituzione. Per quella americana è la rivoluzione per l’Indipendenza, per la nostra è la Resistenza antifascista e la sua vittoria il 25 aprile, che le tre partigiane in armi della copertina di MicroMega simboleggiano.
Se la Resistenza antifascista è — come inoppugnabilmente è — la Grundnorm del nostro patto di convivenza, un ovvio sillogismo ci dice che il rifiuto dell’ethos antifascista mette a repentaglio la legittimità del nostro intero ordinamento giuridico. Ma è solo nella fantasia di Galli che io dia del «fascista» a tutti coloro che si sentono estranei o ostili alla nostra Costituzione. Non mi sognerei mai di definire fascista la signora Thatcher (e neppure Ostellino o altri editorialisti di questo giornale), ma benché non fascista la politica economico-sociale della prima resta radicalmente incompatibile con la nostra Costituzione repubblicana, verso la quale del resto l’inimicizia di Ostellino è dichiarata, reiterata e perfino ostentata. Perciò da parte mia nessuna «geremiade sulla non avvenuta attuazione» della Costituzione, ma la consapevolezza che in Italia ci sono due grandi partiti trasversali, uno dei quali è nemico della Costituzione e se cerca di cambiarla aggirandone il carattere rigido è anzi nemico eversivo. Da combattere con democratica intransigenza. Perché, finché c’è lotta c’è speranza.
direttore di MicroMega

Corriere 13.12.13
Alle coppie gay i benefici di legge anche nei Paesi senza matrimoni
Lo ha stabilito una sentenza dell’Alta Corte di Giustizia europea
di Luigi Offeddu


BRUXELLES — Accadrà anche nei Paesi europei che ancora non riconoscono legalmente le unioni gay, anzi questa sentenza C-267/12 sembra tagliata su misura proprio per loro. Almeno in via di principio. Dice infatti la Corte di giustizia Ue: uomini che si sposano o convivono legalmente con uomini, e donne che si sposano o convivono legalmente con donne, hanno il diritto alla licenza matrimoniale quando si stipula la loro unione, e ad altri benefici offerti dal datore di lavoro; né più né meno come avviene alle coppie eterosessuali. Se così non fosse, rileva il supremo organismo che dirime dubbi e contrasti vegliando sulle norme fondamentali comuni a tutti i 28 Stati, allora vi sarebbe una discriminazione. Uno squilibrio di diritti umani e sociali basato sulle scelte sessuali dei cittadini. In altre parole: la norma europea — in questo caso l’uguaglianza dei benefici per tutti — prevale sulle leggi nazionali. È l’enunciazione di un principio, naturalmente, perché la Corte non usa certo i carri armati per imporre le proprie sentenze: ma quel principio viene considerato assai importante, da molti giuristi europei, come «apri-pista» di futuri sviluppi normativi. Anche perché, per esempio, proprio ieri la Croazia — nazione «neo-europea» — ha messo in pista una legge che dovrebbe accordare alle coppie gay più diritti civili (ma non più il diritto al matrimonio, bocciato in un referendum popolare). Mentre, dall’altra parte del mondo, la corte federale australiana ha bloccato con un deciso «no» le stesse nozze gay. E più o meno lo stesso è capitato in India, dove è in atto uno scontro fra la Corte Suprema (contraria alla legalizzazione) e il governo (favorevole).
Il caso da cui ora tutto è nato nella Ue ha origine in Francia, nazione che ha legalizzato il matrimonio fra persone dello stesso sesso solo dal 17 maggio 2013. In Francia, appunto, in una banca che si chiama Crédit agricole mutuel 2, lavorava il signor Fréderic Hay. La banca ha un contratto collettivo che offre un premio economico e alcuni giorni di licenza ai suoi impiegati, quando si sposano. E anche Hay, un giorno, si è sposato: o meglio, ha concluso un Pacs (patto civile di solidarietà, unione di fatto) con un altro uomo. Ma per lui, niente licenza matrimoniale e niente premio economico: il contratto collettivo, secondo i suoi dirigenti, riguardava solo i matrimoni eterosessuali. Hay si è rivolto ai giudici, fino alla Corte di cassazione francese. E quest’ultima, davanti al dubbio interpretativo, ha chiesto alla Corte di giustizia Ue se il diverso trattamento fra coppie, quelle licenze matrimoniali concesse o negate, violassero il diritto dell’Unione che proibisce la discriminazione basata sull’orientamento sessuale. La risposta è stata «sì», e così l’Europa ha avuto il parere giuridico che cercava. Altri pareri, e ben più secchi, arrivano invece dalla Russia: nel suo discorso sullo Stato dell’Unione, il presidente Vladimir Putin ha difeso la legge contro la propaganda pro-gay e definito la stessa Russia una trincea «contro la cosiddetta tolleranza, sterile e senza identificazione sessuale».

Corriere 13.12.13
Londra, sì alle nozze di Scientology
Quando la religione perde significato
di Marco Ventura

Chissà se Louisa e Alessandro, i due promessi sposi di Scientology che hanno vinto una battaglia storica davanti alla Corte suprema del Regno Unito, conoscono il romanzo Tom Jones di Henry Fielding. A metà settecento la battuta di un personaggio del libro caricaturò la Chiesa di Stato inglese: «Quando dico religione» intimava il prete anglicano Parson Thwackum «intendo la religione cristiana; e non solo la religione cristiana, ma la religione protestante; e non solo la religione protestante, ma la Chiesa d’Inghilterra». Secondo lo stesso principio, la legge del tempo delegava alla gerarchia anglicana l’amministrazione del matrimonio. I romano-cattolici, ad esempio, non potevano sposarsi validamente che in una chiesa della Chiesa d’Inghilterra. Solo un secolo dopo, a metà Ottocento, la legge riconobbe valide le nozze celebrate in un «luogo di culto religioso» autorizzato. Per un ulteriore secolo, andò sviluppandosi una società multireligiosa, sempre più lontana dall’universo del prete di Fielding. Nel 1970 Scientology, nata come chiesa da una quindicina d’anni, domandò che una propria chiesa fosse autorizzata come luogo di celebrazione di validi matrimoni. Le autorità inglesi, confortate dalla Corte d’appello, risposero di no, negando che la Scientologia potesse essere considerata una religione.
Quell’orientamento ha retto fino a mercoledì, quando la Corte suprema ha infine deciso che anche in una chiesa di Scientology si possono validamente celebrare le nozze. Quando andranno a sposarsi nella chiesa del 146 di Queen Victoria Street, a Londra, Louisa Hodkin e Alessandro Calcioli ridefiniranno i confini della fede. Già nel 2011, la legge inglese ha riconosciuto le «religioni che non credono in un Dio». Nella sentenza di mercoledì, Lord Toulson ha citato il celebre passaggio dal Tom Jones , per poi distillare una definizione di religione da cui sarà difficile lasciar fuori chiunque ambisca all’etichetta religiosa e ai relativi vantaggi. Due secoli e mezzo dopo Parson Thwackum, «quando dico religione» posso ormai intendere tutto.

l’Unità 13.12.12
Quelli che bruciano i libri
L’Ungheria brucia i poeti del ’900
di Luigi Manconi


Ci salveranno i poeti? Il dubbio è ricorrente nella storia della cultura, ma proprio per il paradosso che richiama (la fragilità della poesia/l’enormità del mondo) finisce con l’attraversare anche la vicenda sociale e politica dei nostri giorni. La conferma più inequivocabile viene dal fatto che oggi, in Europa, c’è chi brucia i libri dei poeti e che, a gettare l’allarme, siano proprio due poeti.
È successo appena qualche giorno fa, quando Edith Bruck e Nelo Risi mi hanno scritto per raccontare quanto segue.
Miklós Radnóti, uno dei più grandi poeti ungheresi del ’900, fu ucciso il 10 novembre del 1944 mentre, insieme ad altri 3000 prigionieri, veniva ricondotto in Ungheria dalla Serbia. Nato da una famiglia ebrea a Budapest, dopo gli studi in filosofia si era dedicato alla poesia, collocandosi fra i principali esponenti di una corrente letteraria di ispirazione popolare, formatasi in Ungheria negli anni 30. Dopo la morte, il suo corpo fu gettato in una fossa comune vicino al villaggio di Abda, nei pressi di Gyor. Qualche tempo dopo, tra i brandelli della sua giacca fu ritrovato un taccuino con le ultime poesie e alcuni fra i suoi versi più belli. Nello stesso taccuino furono trovate anche le istruzioni, scritte in varie lingue, da seguire nel caso di ritrovamento: consegnare al professor Gyula Ortutay. Tra i versi più intensi di Radnóti c’è la quarta strofa della poesia Razglednicák (Cartoline), nella quale il poeta descrive la fucilazione di un uomo e immagina la propria stessa morte. Sono tra i versi più emozionanti della letteratura della Shoah.
Qualche settimana fa, nell’anniversario della sua morte, che corrisponde a quello della Notte dei cristalli (tra il 9 e il 10 novembre del 1938), i suoi libri sono stati bruciati. Una settimana dopo, la notizia che la sua statua è stata distrutta. Si tratta di uno dei tanti, tantissimi segnali del clima che sembra dominare l’Ungheria contemporanea: xenofobia e manifestazioni di esplicito razzismo, persecuzione delle minoranze e antisemitismo, sciovinismo e omofobia.
Si potrebbe, in uno spericolato sforzo di ottimismo, provare a ridimensionare tutto ciò, attribuendolo all’iniziativa di gruppi minoritari, fatalmente irrobustiti dalla crisi economica e intenti a raccogliere tutta la paccottiglia delle peggiori ideologie del ’900. Ma, a preoccupare, c’è il fatto che quel clima cupo e avvelenato risulta potentemente incentivato da un apparato normativo e da politiche pubbliche che blandiscono e assecondano le pulsioni più torve. Ed è su questo che l’Europa democratica stenta a far sentire la propria voce, a battersi a viso aperto sul piano culturale, a condurre una serrata critica sociale, politica e ideologica.
Nel cuore del continente covano sentimenti e strategie che si rifanno ai totalitarismi del secolo scorso e ne vogliono rinnovare i programmi. Sono il primo a pensare che non accadrà, ma questo non è un motivo sufficiente per rassicurarci: il fatto che sia irrealizzabile in Europa un regime a qualsiasi titolo neo-nazista non significa che categorie e stereotipi, strumenti e armamentario che furono del nazismo non possano riproporsi qua e là, essere recepiti da norme e politiche, contaminare atteggiamenti e comportamenti. E tutto ciò, se pure fosse solo tutto ciò, sarebbe un autentico disastro (sempre che già così non sia). Da questo punto di vista, l’Ungheria è una minaccia per l’Ungheria ed è una minaccia per l’Europa. In altri termini, è un incubo annunciato da segni e sogni minacciosi che già gravano sulle nostre vite affaticate e sui nostri sistemi democratici sottoposti a dure prove. Dunque, l’infamia neonazista che, a distanza di quasi settant’anni, si incanaglisce ancora sulla memoria e sull’opera di Radnóti sembra rispondere alla domanda iniziale.
Sì, forse i poeti non salveranno il mondo, ma è certo che le loro opere fanno ancora paura. Tocca a noi che non abbiamo la fortuna di essere poeti, saper leggere i loro messaggi e saper ascoltare le loro grida di allarme. E saper cogliere anche le manifestazioni più minute, ma non per questo meno meschine e preoccupanti, del degrado in atto: compreso quanto è accaduto a Savona, dove un gruppo di cosiddetti «Forconi» ha intimato la chiusura di una libreria minacciando, in caso contrario, di «bruciare i libri».

il Fatto 13.12.13
L’ultima faida del Politburo
Il Presidente Xi Jinping fa fuori lo “zar della sicurezza” cinese perché “complottista”
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Pechino La notizia, pur avvolta dalle nebbie che contraddistinguono le informazioni sulla leadership cinese, è eclatante: Zhou Yongkang sarebbe in libertà vigilata. Si tratta dell'ex zar dei servizi di sicurezza cinesi, il potentissimo numero 9 della scorsa nomenclatura, fino a marzo a capo della Commissione militare e, da sempre, un protetto del grande vecchio Jiang Zemin.
Lo riporta l’agenzia Reuters che cita una fonte che chiede di essere protetta dall'anonimato.
È da tempo che si aspetta questa notizia. D'altronde Zhou proteggeva l'ex astro nascente della sinistra cinese Bo Xilai, condannato a settembre all'ergastolo per corruzione e abuso di potere. E Zhou non è uno stinco di santo.
Nelle ultime settimane alcuni siti di informazione cinese gestiti dagli esuli negli Stati Uniti avevano fatto circolare la notizia che il figlio, Zhou Bin, fosse rientrato nella Repubblica popolare per collaborare alle indagini sul padre e sul suo uomo di fiducia Jiang Jiemin, capo dell'organismo che sovrintende le grandi imprese di Stato ed ex presidente di PetroChina. Quest'ultimo è già finito nelle maglie della campagna anti-corruzione lanciata dal presidente Xi Jinping.
ALTRE NOTIZIE FILTRATE da fonti più o meno attendibili sono che l'ex zar della sicurezza avrebbe fatto uccidere la sua prima moglie dal suo autista e che avrebbe tentato per due volte di assassinare Xi Jinping prima che diventasse presidente.
In uno dei due documenti scritti da “qualcuno presente in aula” durante il processo Bo Xilai, l'imputato afferma che quando tentò di insabbiare la fuga al consolato americano del suo braccio destro Wang Lijun, avrebbe “eseguito gli ordini di un'importante agenzia di Stato”. L'agenzia in questione era diretta da Zhou Yongkang.
La notizia – che non è stata né confermata né smentita dalle agenzie cinesi – è una bomba. Dopo il periodo di purghe che ha contraddistinto la Rivoluzione culturale, nessun membro del Comitato permanente è mai stato messo sotto indagine. Xi Jinping ha rotto così un tacito accordo all'interno del Pcc. Come Mao è convinto che “una montagna non possa ospitare due tigri”.

La Stampa 13.12.13
Zar Putin vuole moralizzare il mondo Discorso-manifesto alla Duma: siamo la forza del bene contro l’Occidente “asessuato e sterile”
Difende famiglia, virilità, religione. Strizza l’occhio ai Tea Party americani nel nome del «conservatorismo»
di Lucia Sgueglia


MOSCA Putin il moralista globale, portavoce nel mondo dei valori tradizionali di cui la Russia è un bastione, una forza del bene e della pace, contro l’«internazionale amorale».
A zar Vladimir non bastano più la legge antigay, l’alleanza sempre più stretta con la Chiesa ortodossa a difesa della famiglia, l’invasione nella sfera privata dei cittadini con una serie di leggi «bigotte» varate dalla Duma dall’inizio del suo terzo mandato: ora vuole insegnare la morale al mondo, e propone la Russia come un modello di Conservatorismo per tutta l’Europa, strizzando l’occhio anche ai tea party americani. Tutto nel discorso annuale sullo stato dell’Unione, ieri al Cremlino davanti a membri del governo e del parlamento, funzionari federali e locali, il Patriarca Kirill in prima fila accanto al premier Medvedev.
Dove, senza mai nominare la contestata legge contro la «propaganda omosessuale», si è scagliato contro la «cosiddetta tolleranza, asessuata e sterile» dell’Occidente, che «equipara bene e male». Dicendosi sicuro che sempre più persone nel mondo condividono le sue idee etiche. Tema attualissimo dopo le proteste francesi contro le nozze gay, e i veti di Australia e India sulle relazioni omosessuali. «Il significato del conservatorismo non è che impedisce il movimento in avanti e verso l’alto, ma che blocca il movimento all’indietro e verso il basso, verso il buio caotico, il ritorno allo stadio primitivo», ha detto Putin citando il filosofo ortodosso Nikolai Berdiayev da Kiev, antibolscevico espulso dalla Russia dopo il 1917.
E alla nuova dottrina sarebbe da collegare, secondo i cremlinologi, anche la liquidazione clamorosa lunedì della storica agenzia di stampa statale Ria Novosti, innovativa e dinamica: addio alla propaganda soft, smart e liberal che ammicca all’Occidente progressista, il target si è rovesciato. Per dirla con Alexander Baunov, columnist del portale Slon.ru, «la sovranità sessuale è la nuova politica estera della Russia»: se nei primi 10 anni Putin proponeva ai cittadini la dittatura in cambio dello sviluppo economico, «ora la propone in cambio della difesa del posteriore dall’Occidente».
Ma gli oppositori lo deridono, ricordando che ha appena divorziato da Liudmila, con la quale, peraltro, non si è mai sposato in chiesa. «Dunque nel nostro Paese lui non potrebbe vivere?», commenta Alina su Facebook. E ha cominciato ad andare assiduamente a messa solo qualche anno fa. «In avanti e verso l’alto, all’indietro e verso il basso, Putin ha citato il KamaSutra», scrive via Twitter Ivan Kolpakov. La maggioranza dei russi però si dice d’accordo col presidente, omofobia inclusa. Anche se nella pratica, Mosca vanta un record mondiale di divorzi e aborti: un milione l’anno le interruzioni di gravidanza, a fine novembre Putin ha firmato una legge che vieta di pubblicizzarle. Sulle tv di Stato, e persino negli show al Cremlino, i cantanti pop «di sistema» come Philip Kirkorov adottano un esplicito stile gay, da travestiti, mentre il tema dell’omosessualità ora impazza in film e talk show. Più del 60% si dice credente ma solo l’1% va in chiesa. Un sacerdote di Tomsk due giorni fa ha proposto di chiamare «prostitute» le madri single. «Allora lo sono l’80% delle russe», commenta un blogger mentre alcune ong per i diritti delle donne minacciano vie legali.
Non a caso tra i successi del suo mandato Putin annuncia: «Per la prima volta dal 1991 le nascite hanno superato la mortalità», sperando di invertire la lunga crisi demografica. Politica estera in fondo. Il leader russo corteggia Kiev, auspicando «una soluzione politica» alla crisi ucraina, ma insieme agita la carota sottolineando i vantaggi economici che deriverebbero al paese dall’integrazione nell’Unione doganale con Russia, Bielorussia e Kazakhstan. Stoccate agli Usa che non hanno ancora rinunciato allo scudo spaziale: «Nessuno si illuda di poter ottenere una superiorità militare sulla Russia. Non lo permetteremo mai», e promette di rispondere anche militarmente. «Noi non pretendiamo di essere una superpotenza, non aspiriamo all’egemonia globale o regionale, né vogliamo insegnare al mondo come vivere. Ma ci sforzeremo di essere dei leader».

l’Unità 13.12.12
Che tipo Zio Vanja
Il personaggio di Cechov come non l’avete mai visto
La regia di Marco Bellocchio è una «partitura musicale» dove tutto è armonioso
e molto cinematografico Con qualche bella sorpresa
di Francesca De Sanctis


ROMA. ZIO VANJA, ZIO VANJA... È UN PERSONAGGIO TALMENTE NOTO A CHI FREQUENTA I TEATRI E AMA I TESTI DI ANTON CECHOV che potremmo considerarlo quasi «uno di famiglia». Zio Vanja è un uomo che ha lavorato per tutta la vita, ha amministrato il podere e si è preoccupato di far avere i soldi al cognato accademico finché, proprio l’arrivo del professor Serebrjakov e della sua bella moglie Elena, sconvolgono la sua quotidianità, gettando l’intero casa di campagna nella noia più tediosa... Ma stavolta, per affrontare lo spettacolo diretto da Marco Bellocchio (che ha alle sue spalle altre due regie teatrali precedenti, una delle quali di un altro testo cechoviano, Il gabbiano), bisogna dimenticarsi di tutto: di Stanislavskij, dei vari film che sono stati girati (a proposito, lo spettacolo di Bellocchio diventerà presto un film), dei tanti registi italiani che lo hanno portato in scena nel corso degli anni.
Tabula rasa, sì. E prepararsi, con la mente libera, ad affrontare questa interessante regia, limpida, cinematografica, musicale, visionaria e con belle sorprese pronte a schiudersi davanti agli occhi dello spettatore, che lentamente viene avvolto dall’atmosfera ovattata dello spettacolo. La sorpresa più bella indovinate qual è? Proprio zio Vanja, interpretato da un formidabile Sergio Rubini, che ci regala un personaggio un po’ alla Charlie Chaplin, per quel portamento da vagabondo che si porta dietro, i capelli spettinati, la cravatta larga e l’aria un po’ addormentata ma vigile, tanto da trovare il coraggio di corteggiare Elena (una Lidiya Liberman dallo spiccato accento straniero), di rivendicare al cognato professore i sacrifici di una vita e anche di ridere di se stesso. Un personaggio tragicomico, insomma, che svecchia l’immagine un po’ depressa e apatica di Vanja, rendendolo molto più simile per carattere allo stesso Rubini.
All’opposto, il professore è un personaggio autoritario, abituato a «chiacchierare» ed ad agire poco. E Michele Placido sembra calzare a pennello questo ruolo, in cui si identifica con estrema naturalezza. Ma è l’intero cast di attori che, nell’insieme, dialogano tra loro come fossero una partitura musicale, tra luci e ombre, alberi sospesi e rumori di sottofondo che contribuiscono a ricreare quell’atmosfera di campagna: Sonia (Anna della Rosa) spicca per la sua generosità e una presenza scenica d’impatto che si contrappone alla bella e fredda Elena; Astrof è l’idealista, l’amante delle foreste, l’uomo «del fare» al quale Pier Giorgio Bellocchio aggiunge un piccolo tocco di stravaganza; e poi c’è anche l’apparizione di Lucia Ragni nei panni della madre, in abiti moderni, come il resto degli attori calati tutto sommato in una situazione contemporanea, che complessivamente ci parla ancora anche molto di noi. Di temi ambientali e di una società ferma, immobile, incapace di reagire... Poco importa se Cechov parla della sua Russia, con i samovar e la vodka, quel senso di attesa e di inquietudine continua ad aleggiare. Ci vorrebbero più Astrof e ogni tanto anche la passione un po’ smodata ma sincera di Vanja.
(lo spettacolo prodotto da Federica Vincenti e Michele Placido per Goldenart resterà in scena al Teatro Quirino fino a domenica e poi proseguirà la sua tournée nelle città italiane).

Corriere 13.12.13
Una legge ferma da 10 anni e i predatori d’arte impuniti
Tutti d’accordo a inasprire le pene. Solo a parole
di Gian Antonio Stella


Neanche quello su cui sono d’accordo tutti passa ormai in Parlamento: neanche quello. È un decennio che i trafficanti di opere d’arte possono rubare, saccheggiare, esportare pezzi preziosi con la certezza di non essere ammanettati. Una svista legislativa, dicono. Eppure la modifica di quelle regole insensate non riesce neppure ad arrivare in aula. Anche se da anni tutti si dicono favorevoli. A parole.
Grida vendetta, l’impotenza delle Camere. E non c’è esempio che dimostri meglio questa impotenza quanto il modo in cui si è impantanata la decisione di cambiare il codice dei beni culturali varato nel lontano 2004 là dove è incredibilmente lassista, fin quasi alla complicità, nei confronti di quelli che Fabio Isman chiamò i Predatori dell’arte perduta. Cioè i ladri che depredano le chiese, i tombaroli che devastano le necropoli, i farabutti che fanno sparire i tesori che dopo qualche tempo ricompaiono nelle vetrine di musei di mezzo mondo che ricettano pezzi a volte di immenso valore senza alcuno scrupolo morale.
Le pene per chi trafuga un’opera d’arte sono infatti così basse (reclusione massima di tre anni) da escludere la galera fino a una sentenza definitiva. Traguardo che nella nostra storia non è mai stato raggiunto nonostante l’Italia sia in assoluto il paese più colpito da questo genere di business criminale, il quarto al mondo per volume d’affari dopo il traffico di droga, quello di armi, quello di prodotti finanziari. Su 64.323 detenuti nelle carceri della penisola sapete quanti sono i trafficanti d’arte? Nessuno, che si sappia. Neppure uno.
Che il buco nella legge vada tappato, dai e dai, l’hanno capito perfino i parlamentari. Tanto più dopo alcuni casi clamorosi. Come l’impossibilità di ammanettare il tombarolo (denunciato a piede libero) che stava per vendere all’estero lo stupendo Sarcofago delle Muse trovato nel 2008 a Ostia antica. Tombarolo beccato con un crick da carrozziere col quale voleva separare l’una dall’altra le deliziose statuette che ornavano lo scrigno tombale pensando di poterle esportare e vendere più facilmente.
Il primo a darsi una mossa, dopo essere stato messo in croce dai difensori del nostro patrimonio, era stato l’allora responsabile dei beni culturali Giancarlo Galan che nell’ottobre 2011 aveva portato in consiglio dei ministri un decreto legge semplice semplice. Che raddoppiando le pene ai trafficanti d’arte ripristinava finalmente le manette e il carcere. Macché, poche settimane e il governo Berlusconi cadeva: tutto da capo.
Ci riprovò nella primavera 2012, con Mario Monti a Palazzo Chigi, il nuovo responsabile della cultura Lorenzo Ornaghi. Che andò presto a sbattere contro il premuroso consiglio di lasciare il gravoso compitino al Parlamento. Tutto da capo. Spingi spingi, verso la fine della scorsa legislatura, il progetto di legge con dentro altri due disegni che avevano a che fare con i reati ambientali (relatore Felice Casson) arrivò finalmente nella commissione Giustizia del Senato. E tanto era dettato dal puro buon senso, al di là di ogni etichetta di destra o sinistra, che il testo base passò all’unanimità. Tutti d’accordo. Dal primo all’ultimo dei votanti.
Ma la Commissione Bilancio? Cosa avrebbe detto, la Commissione Bilancio? Voi direte che almeno in un caso come questo il parere sui soldi non era indispensabile. Macché: obbligatorio. E dopo essere stata smistata lì la leggina è sprofondata nelle sabbie mobili dell’epilogo della legislatura, dello scioglimento delle Camere, del voto anticipato. Tutto da capo. Un’altra volta.
Da allora sono passati mesi e mesi senza che quella legge su cui tutti si dicono ipocritamente d’accordo riuscisse a essere almeno esaminata. Nel frattempo il rapporto Ecomafia 2013 di Legambiente, elaborato su dati dei carabinieri, denunciava: «Nel corso del 2012 le forze dell’ordine hanno accertato 1.026 furti di opere d’arte…» Il giornale online «linkiesta.it» rilanciava: «Sono circa 11 mila i siti controllati dalle forze dell’ordine, ma anche nella dimensione più materiale delle gallerie, stando ai controlli del reparto Tutela patrimonio culturale dei carabinieri su otto opere esaminate tre risultano false. Un piatto ricco quello del mercato nero e del collezionismo dell’arte, che vede otto organizzazioni criminali operanti nel settore, a cui nel solo 2012 sono stati sequestrati poco più di 4 mila falsi. Un settore redditizio e adatto per riciclare milioni di denaro sporco, con opere d’arte che escono e rientrano dall’Italia dopo essere state all’estero, mentre, come spiegano gli investigatori "diventano conti correnti, moneta di scambio nei paradisi fiscali, società, attività imprenditoriali e beni"». Non bastasse, l’Istituto per i beni archeologici e monumentali del Cnr ammoniva che «la perdita del patrimonio culturale ci costa circa un punto percentuale del Pil, calcolando il solo valore economico e non anche quello culturale che non può essere calcolato».
Eppure, quella legge così indispensabile e così urgente in un paese come il nostro resta lì, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno, a coprirsi di polvere. Mentre alle Camere si azzuffano su tutto. Correnti e sotto-correnti e correntine. Poltrone, poltroncine, sgabelli e poggiapiedi… E la salvaguardia del patrimonio culturale? Ci penseran domani…

Repubblica 13.12.13
Una decina di atenei e centri di ricerca europei stanno lavorando al progetto “Wearhap” L’obiettivo è sviluppare sistemi robotici indossabili per trasmettere o ricevere sensazioni tattili
Il tocco della mano finisce in un file “Così archivieremo anche le carezze”
di Laura Montanari


SIENA Potremo archiviare una carezza e riviverla in infiniti rewind, a distanza di mesi e di anni. Oppure lasciare le sue «impronte» a quelli che verranno dopo di noi. Basterà sigillarla dentro il file di qualche compu-ter, nello stesso posto dove oggi memorizziamo le tracce della musica, i video, le fotografie. Sarà sufficiente un disco rigido o un dvd e un po’ di bit per mettere al sicuro l’emozione di una stretta di mano. Sarà più facile o più atroce — dipende dal peso che hanno i ricordi — , ma certo è una linea di confine che finora la scienza non ha mai varcato: registrare e inviare a distanza le sensazioni che derivano dal toccare un oggetto o una persona.
Ci provano a fare questo salto, una decina fra atenei e centri diricerca in Europa che stanno lavorando al progetto Wearhap, Wearable Haptics for humans and robots. Oltre sette milioni di euro di finanziamento da parte della Ue e un obiettivo, sviluppare sistemi robotici indossabili per trasmettere o ricevere sensazioni che derivano dal tatto: «Non solo distinguere una superficie dura da una morbida, ma anche un tipo di tessitura o la sensazione di calore» spiega il professor Domenico Prattichizzo, docente di Robotica all’università di Siena e coordinatore di questo studio internazionale in cui l’Italia è in primissima fila. Ci lavorano infatti ben quattro centri: oltre a Siena, l’Istituto italiano di tecnologia di Genova, l’università di Pisa e, sempre a Pisa, la Scuola Superiore Sant’Anna. «Stiamo sviluppando interfacce robotiche non invasive, facili da indossare» spiega il professor Antonio Frisoli della Sant’Anna. Cioè guanti, anelli, ditali e bracciali dotati di microsensori che dialogano a distanza con altri guanti, anelli e bracciali in grado di ricevere impulsi. «Il tatto è un universo ricco di sensazioni, stimoli e sfumature, siamo all’inizio dell’esplorazione — riprende Prattichizzo — riusciamo già a trasmettere a distanza alcune sensazioni, per esempio il peso,la ruvidezza di una superficie, dobbiamo invece lavorare molto sulla trasmissione della temperatura. Ma è come quando sono arrivati i primi microfoni, coglievano solo alcuni aspetti grossolani della voce e oggi invece sono in grado di catturare anche un respiro ». Il docente senese lavora al Dipartimento di Ingegneria con una quindicina di ricercatori under 30 in parte italiani, altri che provengono dall’Iran, dal Pakistan, dal Messico. «Siamo ogni giorno in videoconferenza con i centri di ricerca sparsi in Europa, da Monaco a Parigi, avanziamo insieme nella costruzione dei dispositivi ».
Il progetto sta suscitando un grande interesse perché le applicazioni sono molteplici, a cominciare da quelle in campo medico. «Immaginate una persona colpita da ictus che prova ad afferrare con la mano un oggetto — spiega il professore — : se il paziente indossa il guanto robotico può sentire come il malato muove l’arto, la combinazione delle dita che utilizza, come distribuisce le forze. O immaginate un incidente stradale e il volontario diuna ambulanza che arriva in soccorso: indossando il guanto speciale tocca il ferito e il medico dalla centrale riesce a percepire il battito cardiaco o eventuali problemi alle articolazioni». Applicazione più facile, da un punto di vista scientifico, è far sentire una stretta di mano a distanza magari per concludere una videoconferenza d’affari. Anche lo shopping online è attento alla robotica Wearhap: «Posso mandare un amico dall’altra parte del mondo a comprare un oggetto e io da qui sentire quanto pesa, oppure acquistare un tessuto e sentirne la consistenza». A Siena il team di Prattichizzo vuole organizzare un concerto speciale: «Infileremo i guanti robotici a un pianista e altri guanti con micro sensori agli spettatori: le persone sentiranno le loro mani muoversi in contemporanea a quelle del musicista sulla tastiera». Si apre un nuovo orizzonte per la musica?

Repubblica 13.12.13
Il Principe e la principessa
Così la Signora di Forlì sedusse Machiavelli
Adriano Sofri pubblica un saggio sul grande scrittore e politico
In particolare sul tema della Fortuna nelle sue opere E sull’incontro con una donna, Caterina Sforzadi Adriano Prosperi


In questo centenario machiavelliano ci sono molti incontri d’occasione con l’autore del Principe: quello di Adriano Sofri è un incontro necessitato. Il suo caso è diverso da quelli degli studiosi e delle istituzioni che accordano alle scadenze secolare i loro piani. Quasi di furia, nei luoghi e nei mesi d’estate che Machiavelli dedicò alla febbrile stesura del
Principe,a poca distanza da lui Adriano Sofri ha scritto questo libro (Machiavelli, Tupac e la Principessa, Sellerio). Uno dei suoi, inconfondibile, con un ordine sostanziale nell’apparente disordine di un pensiero liberamente divagante: un confronto, un bilancio, quasi un dialogo, ma non pacifico né distaccato, una risposta a quella lettera di Niccolò a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513, qui riportata in appendice insieme a una bibliografia aggiornata, esauriente (vi manca solo l’edizione del Principe a cura di Gennaro Sasso che la Treccani ha accuratamente pubblicato per dimenticarsela poi nei suoi magazzini).
Quella lettera è il campione più celebre delle tante altre lettere machiavelliane di negozi e di relazioni di un uomo che amava stare tra i pericoli e la fatica e al pensiero di starsene a palazzo rispondeva (nel 1509): «Io non sarei quivi buono a nulla e morrèvi disperato». Anche Adriano Sofri ha scelto di stare tra i pericoli e la fatica lasciandosi alle spalle giovanissimo l’allora tranquillo e garantito sentiero degli studi: che erano cominciati non a caso proprio da Machiavelli, il tema della sua prima prova quando diciottenne entrò alla Scuola Normale come apprendista storico. Quel che poi gli accadde è noto: e così, “post res perditas”, il dialogo mai interrotto con Machiavelli ha preso forma di libro in un’estate trascorsa nella sua casa a due passi dall’Albergaccio.
Ci si accosta a questo libro come a ogni altro di Adriano Sofri: con grande curiosità, sapendo che sarà un’occasione da non perdere, ricca delle tante cose che lui conosce per lunga esperienza di vicende e di persone, ma anche per una sua curiosità di lettore onnivoro e una raffinata cultura libresca – quasi comediceva di sé Machiavelli nella dedica del Principe: «lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antiche».
Questo dialogo con Machiavelli pone fin dall’inizio la condizione fondamentale: intendere con precisione quello che ha detto. Per esempio, il significato che aveva per lui la parola Fortuna. Era uomo di piccola fortuna, nota Adriano Sofri: nacque povero e imparò più presto a stentare che a godere. Entrò al servizio dello stato fiorentino a 29 anni, dalla porta di servizio, vi esercitò compiti minori, ne fu estromesso brutalmente al primo cambio di regime. La Fortuna la immaginava come una donna, - nuda, bellissima, inafferrabile come quella raffigurata qui in copertina. L’appello celebre del capitolo XXV incita a un corpo a corpo con la Fortuna. Uno stupro, dice Sofri: che intanto puntualizza qualcosa su cui in genere si sorvola, abbagliati dall’invito petrarchesco alla lotta tra virtù e furore. Alla fortuna Machiavelli assegnava il controllo sulla maggioranza delle azioninostre, lasciando all’arbitrio una parte minore ma quasi uguale – così almeno nella pagina più tonificante delPrincipe.
Ma quando Machiavelli ragiona della realtà effettuale sua e di altri le azioni del libero arbitrio crollano. La Fortuna, ci ricorda, ha in mano una carta decisiva in mano: la morte. Contro la Fortuna il duca Valentino aveva preparato argini robusti: ma quando muore Alessandro VI, di peste, ecco che il figlio si ammala anche lui nel momento decisivo dell’elezione del nuovo papa e tutto è perduto. Anche per Machiavelli venne la perdita di tutto e a stento salvò la vita. E la prova fu dura, tanto da richiedergli di dare a se stesso prima che ad altri la misura di sé, del suo valore nell’arte dello stato. Ecco perché nacque quell’opuscolo, secondo Sofri.
Ci sono eredi di quella Fortuna nella letteratura italiana, dominata dalla Provvidenza manzoniana? Sì, una, risponde Sofri: la Natura di Leopardi, la gigantessa impassibile che dà la morte all’islandese delle Operette morali. Ma intanto c’era stata anche una donna in carne e ossa, una donna di potere che alla fortuna teneva testa e aveva la stoffa per diventare una possibile incarnazione del Principe: era Caterina Sforza, la signora di Forlì che ai nemici che la ricattavano con la vita dei suoi figli mostrò dall’alto della rocca quali fossero gli attributi con cui poteva farsene altri di figli. Machiavelli l’aveva incontrata, ma non concepiva una principessa come liberatrice d’Italia.
Lasciamo ai lettori di scoprire chi fosse Tupac e perché entra in questa storia. Ma dobbiamo almeno segnalare la parte in cui entra la politica, quella reale di allora e quella di oggi: qui è come se Machiavelli leggesse noi prestandoci le sue parole e imponendoci di paragonare il suo orizzonte col nostro: ci si chiede per esempio cosa significhi oggi il ritorno ai princìpi, per l'Italia con la sua Costituzione e per il Vaticano col suo papa Francesco, o se sia vero che la macchina umana è sempre la stessa e cosa è accaduto quando si è cercato di modellare l'uomo – per esempio col tentativo su larga scala di Pol Pot.
Questa parte è un andirivieni tra l’allora e l’oggi, un bilancio che fa emergere la disperazione di una politica che non ha più campo, può solo nascondere dietro alti paraventi l'orizzonte vero, la realtà di una globalizzazione che ci espropria dei poteri territoriali e tradizionali: una politica che non è e non può essere ridotta a scienza e nemmeno ad arte perché di mezzo c'è sempre la scelta di chi governa (la famiglia o lo stato) e resta sempre l'imprevedibile possibilitàche la bomba venga fatta esplodere. Contraddizioni terribili, che davanti all’anonimato delle potenze globali delle finanze fanno rinascere l’appello alla sovranità nazionale anche da parte di chi ieri esaltava l’internazionalismo proletario. Si pensi allo scenario delle guerre e dei genocidi, oggi visibili da tutti dallo schermo di casa propria, per cui nessuno può dire che non sapeva e non immaginava, come accadde con Auschwitz.
E intanto, la natura, quella leopardiana così simile alla fortuna, è stata dominata, stuprata: ma questa vittoria minaccia di essere l'ultima sconfitta e la fine dell'umanità. Una fra le tante domande inquiete e inquietanti di un libro vivo, vivissimo.
IL LIBRO Machiavelli, Tupac e la Principessadi Adriano Sofri (Sellerio pagg. 360 euro 14) A destra Machiavelli ritratto da Santi di Tito e Caterina Sforza ritratta da Lorenzo di Credi