domenica 15 dicembre 2013

l’Unità 15.12.13
Sindacati in piazza contro la Stabilità
Camusso: «Non è così che si riparte. Aspettiamo risposte»
Cgil Cisl e Uil: «Basta galleggiamenti, la manovra deve cambiare»
È urgente redistribuire reddito
di Massimo Franchi


ROMA In piazza ancora. In tutta Italia per chiedere che la legge di Stabilità migliori veramente le condizioni dei più deboli: lavoratori dipendenti e pensionati. Dopo lo sciopero di 4 ore a metà novembre, la mobilitazione è proseguita ieri con manifestazioni ancora di carattere regionale. E andrà avanti se, verosimilmente, le modifiche strappate ieri nell’incontro di prima mattina fra i tre leader confederali e il viceministro all’Economia Stefano Fassina non basteranno a quel «cambio di passo» richiesto da Cgil, Cisl e Uil.
Davanti a Montecitorio come a San Felice sul Panaro, al centro del cratere sismico che ha colpito l’Emilia. Come a Bari a difesa della Camere del lavoro minacciate dai forconi. E in tutte le altre Regioni con piazze fanno sapere i sindacati «ovunque piene». A Torino, Palermo, Milano, Ancona, Pescara, Lamezia, Cagliari, Firenze, Trieste, Potenza, Trento, Genova, Napoli, Campobasso e altrove. Sotto lo slogan «Per il lavoro la legge di Stabilità deve cambiare».
I tre segretari generali scelgono di concentrarsi a Roma per la manifestazione davanti alla Camera. Il luogo in cui si stanno giocando le ultime febbrili trattative, specie sugli emendamenti governativi al testo (deludente, per i sindacati) votato al Senato.
La differenza tra le piazze di ieri mattina è quelle dei forconi e simili è siderale. Da qui parte Susanna Camusso nel suo intervento. «Penso che il disagio di questo Paese sia evidente, però bisogna trasformarlo in proposte concrete e noi ne facciamo di precise. Vedo invece in quel movimento un grande rancore e troppi slogan che hanno un’inclinazione autoritaria e repressiva. Non possiamo continuare a stare in un gioco generico. Bisogna ricostruire un gioco chiaro. Vorremmo ha continuato Camusso che il governo si rendesse conto che c'è un punto limite per tutto e che in questo caso il punto limite è vicino. Va bene il decreto sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, ma se si fa solo questo è difficile che l’economia riprenda. Basta far galleggiare il Paese, così va alla rovina. Ci sono poche ore per cambiare la legge di Stabilità, ci vuole uno sforzo straordinario. Non bisogna dire «faremo», bisogna fare ora. Servono risposte e servono adesso ha avvertito il segretario generale Cgil e se non ci saranno torneremo presto nelle piazze». Ha poi riservato una stoccata a Renzi: «Duole che il segretario del Pd non dica nulla sulla legge di Stabilità e sulle emergenze che riguardano milioni di lavoratori. Noi siamo concentrati su questo».
La richiesta principale al governo è quella già avanzata durante gli esecutivi unitari del 26 novembre: prevedere nella legge di Stabilità un fondo che sistematicamente faccia tramutare i proventi di Spending review, recupero dell’evasione fiscale, dei proventi dei capitali portati all’estero e dell’aumento della tassazione sulla rendite finanziarie a tagliare il cuneo fiscale, dando più soldi in busta paga a lavoratori e pensionati. Il primo a formularla e a chiedere a Letta di farla propria è stato il leader della Cisl Raffaele Bonanni. «La legge di Stabilità non va bene, finché non vedremo questo provvedimento e finché non vedremo un’azione ferma sulle spese inutili e inefficienti della pubblica amministrazione. Letta abbia coraggio, sia coerente e faccia l’unica cosa sensata: dare un segnale a lavoratori e pensionati. Se non lo farà, perderà il loro consenso e darà il fianco ai populisti. Se lo farà, invece, avrà il nostro appoggio. La questione delle tasse è centrale perché abbiamo famiglie e un’economia abbandonate a se stesse», ha concluso Bonanni.
Il segretario generale della Uil Luigi Angeletti è stato come al solito il più duro con la classe politica. Rivolgendosi a parlamentari ha intimato: «Fatela finita, fate quello che la gente vi chiede di fare. La legge di Stabilità non ha nulla per sostenere la crescita economica e l’occupazione, non abbiamo bisogno di una Stabilità fine a se stessa, occorre una legge che inneschi la ripresa: anche la Bce ha detto che la crescita sarà invisibile e che crescerà la disoccupazione».
Come detto tra le altre manifestazioni, grande valenza aveva quella emiliana. Oltre duemila persone a San Felice sul Panaro, nel modenese, tra i Comuni più colpiti dal sisma del 2012. Il sindaco Alberto Silvestri, dal palco ha denunciato come la ricostruzione sia «rallentata perché manca una normativa nazionale sulle calamità naturali».

il Fatto 15.12.13
La voce degli studenti
“In Italia è tutto in nero il futuro come l’affitto”
di Marcello Longo e Tommaso Rodano


Il viaggio del Fatto nelle Università w Stanze a prezzi impossibili, rigorosamente senza contratto. Alloggi inesistenti. Piccoli lavori di ogni tipo per mantenersi, come alternativa alla paghetta dei genitori. Tasse in aumento, servizi scadenti, borse di studio tagliate. È la vita di ogni giorno dentro e fuori gli atenei italiani

Sacrifici, spirito di adattamento, budget da gestire con prudenza. La vita dello studente fuori sede è dura: affitti gonfiati e senza contratto, lavori occasionali per arrotondare, alloggi universitari insufficienti. Lasciare casa dopo il liceo e trasferirsi in un’altra città ha certo il suo fascino, ma si rivela un investimento impegnativo, quasi sempre impossibile senza l’aiuto dei genitori. Queste sono alcune delle storie di ordinaria sopravvivenza dentro e fuori le università italiane, raccontate dai lettori sul sito del Fatto Quotidiano.
Roberta | Roma
Ho studiato Scienze e tecnologia per i media a Roma Tor Vergata, sono originaria della provincia di Avellino. Per la mia stanza singola, in un appartamento con altre tre ragazze, pago 350 euro escluse tutte le altre spese. Tutto in nero. A circa trenta minuti dall'Università. Ho provato a chiedere un contratto. Risultato? Diciamo che abbiamo raggiunto un “piccolo compromesso”. Per pagare la rata mensile mi aiutavano i genitori, ma di soldi per me ne restavano pochi. Così mi arrangiavo con la mia attività da musicista: suonavo nei locali, così potevo concedermi qualcosa in più.
Dario | Milano
Ho lasciato la Sicilia per andare a studiare Ingegneria Aerospaziale a Milano. Assieme a dei conoscenti ho preso in affitto un appartamento e ci siamo divisi le stanze. Vivo a trenta minuti dalla Facoltà. Ho un contratto regolare, ma pago ben 400 euro. Mi mantiene ancora mio padre. Una volta pagati affitto e bollette, mi restano circa 300 euro. Un’alternativa? Qui a Milano vivere negli studentati costa 500-600 euro per una singola, a meno che non si abbia una borsa di studio.
Davide | Bologna
Da Pesaro mi sono spostato a Bologna per studiare Giurisprudenza. Abito a mezz’ora dall’Università, spendo quasi 300 euro di affitto, ma le utenze sono escluse. Quando, quest'estate, ho girato Bologna in cerca di una casa i proprietari mi guardavano sbalorditi quando chiedevo il contratto e si rifiutavano. Mi sono informato per gli studentati universitari, ma li ho trovati ancora più costosi della stanza che poi ho preso.
Nicolò | Bologna
Da Venezia a Bologna per studiare Giurisprudenza, ho trovato un posto letto in una camera doppia a 270 euro in nero. Quando ho chiesto un contratto regolare alla proprietaria di casa sono cominciati i problemi. La signora era disposta a farlo, ma a patto di aumentare il canone di 60 euro al mese. Con i miei lavori occasionali non riesco a essere indipendente.
Nicola | Pisa
Ho frequentato il corso di laurea in Scienze per la pace a Pisa. Per una stanza singola, in centro, pago 300 euro, con il contratto. I miei genitori mi sostengono, ma devo sempre stare attento a non spendere troppo. Col reddito familiare supero la fascia per l'accesso agli alloggi universitari, ma qui a Pisa anche diversi studenti che ne avrebbero diritto rimangono esclusi per carenza di strutture.
Gabriele | Catania
Sono uno specializzando in Medicina, fuorisede. Ho preso una stanza singola a 15 minuti dall’Università. Spendo 180 euro, tutto in nero. E non vi dico cosa mi ha risposto il proprietario quando gli ho chiesto il contratto. Mio padre spende più di metà del suo stipendio per mantenermi a Catania. Non ho altre entrate. Per il tirocinio che a volte mi impegna tutta la giornata, non ho un rimborso. Anzi: pago le tasse per farlo. Non ho mai sentito parlare di alloggi universitari.
Domenico | Napoli
Studio Giurisprudenza a Napoli, abito in provincia di Caserta: sono un pendolare. Nessuna agevolazione: né per il treno né per il bus. L’anno scorso sono risultato idoneo sia per merito che per reddito al bando per le borse di studio, ma non ho visto un euro: “non assegnatario”, a causa della mancanza di fondi. Le tasse sono sempre più alte, eppure siamo costretti a seguire lezioni in circa 300 persone in un’aula dove siamo fortunati se c’è la lavagna con il gesso (il videoproiettore è fantascienza!). Per mantenermi lavoro come addetto vendite con pagamento a provvigione, ma sono comunque costretto a chiedere aiuto a genitori e parenti.
Carla | Parma
Sono una studentessa di Scienze ambientali a Parma, nata in provincia di Brescia. Condivido una piccola camera da letto senza nemmeno l'armadio con un'altra ragazza. La padrona di casa ha deciso arbitrariamente di aumentarci il canone di affitto. Ognuna di noi paga 155 euro in stanza doppia, più circa 50 euro per il condominio. I miei genitori sostengono tutte le mie spese. Sapendo che per loro è un sacrificio enorme mantenermi, cerco lavoretti nei weekend.

il Fatto 15.12.13
Tirocinio ai Beni culturali
Laureati con 110 pagati 400 euro e senza ferie
di Emmanuele Lentini


NON AVRANNO ferie e buoni pasto, ma devono essersi laureati almeno con 110. Al ministero dei Beni culturali vogliono i migliori. Anche se pagano poco più di 400 euro al mese. Lordi. Per un anno dovranno occuparsi della digitalizzazione e della catalogazione del patrimonio culturale italiano. Massimo Gramellini, su La Stampa, l’ha ribattezzato “C Factor”, ma, parodia per parodia, va bene anche “Saranno formati”. Perché per il ministero questa non è un’occupazione: è un “programma formativo”. E non c’è alcun obbligo di assunzione. Il 2 agosto il premier Enrico Letta annunciò trionfante: “Diamo lavoro a 500 giovani per la cultura” in giro per tutta Italia. Ora gli aspiranti “digitalizzatori” e “catalogatori” hanno scoperto di che si tratta. Il bando del ministero spiega tutto. Non è un vero lavoro, come disse Letta. C’è scritto nero su bianco, nel bando: “Il presente avviso di selezione non costituisce e non dà luogo alla costituzione di un rapporto di lavoro subordinato”. Non sarà un impiego, ma la selezione è dura: voto di laurea non inferiore a 110/110 in materie umanistiche e buon inglese (B2). I vincitori del bando avranno molto da fare, per 5 mila euro lordi l’anno: dovranno lavorare (pardon, essere formati) almeno per 30 ore a settimana, al massimo per 35. Niente buoni pasto. E che non si sognino di battere la fiacca. Potranno assentarsi non più di 20 giorni per motivi personali. Poi ci sono tre giorni liberi, per gravi motivi familiari. E se si dona il sangue si ha diritto a un giorno. Ma negli ultimi due casi bisogna documentare debitamente l’assenza. Segue, nel bando, una lista delle 13 festività in cui “non è consentito lo svolgimento del programma formativo”. Con un tocco d’ironia involontaria, c’è anche la Festa del lavoro.

La Stampa 15.12.13
Soldi ai partiti: un’altra beffa
di Lorenzo Mondo

qui

l’Unità 15.12.13
Partiti, Barca boccia il governo Il Pd bolognese fa colletta
Sui rimborsi stoccata dell’ex ministro: «Una legge per dare qualcosa in pasto alla rabbia dei cittadini»
Il segretario provinciale Donini lancia il «crowdfunding»
di Gigi Marcucci


Norme che indeboliscono la possibilità che hanno le fasce meno ricche dell’elettorato di essere adeguatamente rappresentate nelle istituzioni. Fabrizio Barca boccia la legge che abolisce il finanziamento pubblico ai partiti. Ci sono due modi, spiega, per recuperare la fiducia degli italiani. Il primo «è un modo alla Nerone. Si portano tutti gli italiani al Colosseo e gli di si dà in pasto qualcosa». Il secondo è invece «dimostrare di essere in grado di migliorare le condizioni di vita» dei cittadini.
Per l’ex ministro del governo Monti, neo-iscritto al Pd, la legge varata due giorni fa dal governo Letta è «una brutta legge» e rientra a pieno titolo nella prima categoria. Non farebbe infatti che «soddisfare la rabbia dei cittadini italiani verso la politica dando loro in pasto qualcosa da mangiare. Dopo di che stiamo un po’ peggio». Barca ieri era a Bologna per presentare i «luoghi ideali» del Pd, un progetto che si propone di riformare la politica dal basso, ancorandola ai territori. Nella stessa sede, Raffaele Donini, segretario provinciale del Pd, lancia il crowdfunding, un sistema di collette per finanziare il partito. Un canale parallelo alle Feste dell’Unità, che rendono il bilancio della Federazione di Bologna autonomo per il 97%. «Entro febbraio ha anticipato il segretario sperimenteremo la raccolta di fondi con il nuovo sistema. Sono lieto che Barca stia sperimentando questa innovativa modalità di raccolta di fondi attraverso il Web. Non è solo una modalità di autofinanziamento, è uno strumento di riorganizzazione politica, di comunicazione e di rendicontazione delle attività svolte in cui si legano i contributi alla realizzazione di cause sociali». Barca ha infatti raccolto fondi sul web per il suo progetto sui «luoghi ideali» del Pd. «L’idea racconta Donini dopo l’incontro è quella di usare la rete per la richiesta di contributi specifici, con una causale definita, su questioni mirate. Noi poi dovremo rendicontare, non solo rispetto all’impiego delle risorse ma anche sull’utilità del progetto».
Proprio a margine del convegno Barca spiega cosa cambierebbe della legge che cancella il contributo pubblico ai partiti. Un sistema, sostiene, che finirà per penalizzare le fasce più povere dell’elettorato.
«Prima di tutto dice Barca eliminerei i meccanismi che riducono la capacità di rappresentanza di persone che hanno poco reddito. Questa legge favorisce persone con molto reddito e questo lo fa pagare a noi, perché la decontribuzione di una donazione la paghiamo noi». Un’alternativa ragionevole, aggiunge, sarebbe il sistema di cofinanziamento alla tedesca, in cui si lega il contributo pubblico all’entità del finanziamento proveniente dagli iscritti. Si tratta in sostanza di «dare di più a chi ha saputo raccogliere di più». Naturalmente per fare questo occorrono partiti saldamente radicati nei territori, in grado di intercettare dal basso la fiducia e il consenso. Non è un caso che il secondo tempo del viaggio di Barca nei circoli del Pd sia partito proprio dall’Emilia-Romagna e da Bologna, dove quel modello ha sostanzialmente tenuto, resistendo alle trasformazioni della società e della stessa organizzazione. Quello che Barca, Donini e molti giovani dei circoli che hanno lavorato con loro lungo la penisola propongono è in sostanza una rivoluzione copernicana. «La politica amministrativa deve essere sottoposta a verifica dal basso», spiega Jonathan Marsella, del coordinamento comunale di La Spezia. E prova a smontare il principio che pone la governabilità al primo posto, il riflesso d’ordine che fa dire agli eletti: «Tu cittadino intanto mi eleggi, tra cinque anni mi darai la pagella». Siccome nessuno vuole prendere «brutti voti», argomenta Marsella, il più delle volte la situazione degenera in un immobilismo che certo non giova al rapporto di fiducia tra elettori e istituzioni. Per cambiare la politica non basta aprire i circoli, occorre che rappresentanze e vertici istituzionali siano permeabili a domande e aspettative che vengono dalla gente. Condizione necessaria ma non sufficiente. Pasquale Squillace, universitario di Catanzaro, ne ricorda un altra: dove si vive nel bisogno, la libertà viene sostituita dalla fedeltà. E se non si interviene su questo, a cominciare dal partito e dalle modalità con cui si eleggono i suo vertici, la democrazia non può avere un grande futuro.

il Fatto 15.12.13
L’ex ministro Fabrizio Barca

“Come Nerone, lo stop ai rimborsi soffia sulla rabbia”
intervista di Paola Zanca


“Chiariamo subito un punto, perché in questo Paese che ha perso l’abitudine al dibattito, c’è subito la corsa ad appiccicare la patacca del conservatore: il finanziamento pubblico ai partiti andava tenuto in vita così com’é? No”.
Fabrizio Barca è a Bologna per un incontro pubblico. È lì che l’ex ministro del governo Monti, ala sinistra del Pd, ha attaccato quel modo di fare politica come “Nerone”, “gettando cose in pasto ai leoni nel Colosseo”. Ce l’ha con chi ha “frettolosamente” celebrato la fantomatica abolizione dei rimborsi elettorali: “Una brutta legge”, dice. E pure “pericolosa”.
Professor Barca, cosa c’è di sbagliato?
Il meccanismo dei rimborsi andava riformato perchè i contributi erano troppo alti e perché non si sapeva che uso facessero i partiti di quei fondi. Il decreto - evviva! - obbliga alla certificazione dei bilanci. Ma non basta: primo perché la soglia massima dei finanziamenti privati è molto, molto alta (300 mila euro, ndr) ; secondo perché le minori imposte che derivano dalla deducibilità dei contributi le paghiamo tutti; terzo perché il meccanismo del 2 per mille tende a favorire i partiti che hanno come sostenitori persone appartenenti alle fasce di reddito più alte.
La politica finisce in mano ai ricchi?
Ci sono milioni di persone che non hanno mezzi per sostenere i partiti. E con la de-contribuzione dei finanziamenti, finisce che tutti diamo soldi non al partito che scegliamo, ma al partito che è stato scelto da chi ha più soldi. È una brutta legge, piena di scelte improprie. E io credo che questa frettolosità non possa essere motivata se non dalla voglia di dare in pasto alla ggente qualcosa che la sazi un po’. Si parla a un Paese infuriato: poco importa spiegare, basta dire: ‘Vedete che abbiamo risposto alla vostra rabbia? ’
Non dovrebbe essere questo il compito delle istituzioni.
Non siamo ancora in un regime: il Parlamento può ancora correggere questa deriva. Deputati e senatori devono sentire questa responsabilità. Il governo, dal punto di vista metodologico, ha ben fatto: l’intervento d’urgenza è giustificato dall’inerzia delle Camere.
E dalla sorpresina di Renzi in arrivo. Gli elettori del Pd devono rassegnarsi alla gara “a
destra”?
Non sono affatto preoccupato, non è affatto detto che la ipersemplificazione che si è vista in questa legge debba replicarsi in altre decisioni. Sulla legge elettorale, per esempio, l’accelerazione impressa da Renzi è stata positiva. Ci sono alcune cose molto di sinistra anche nella segreteria di Renzi.
Per esempio?
L’enfasi che ha messo sui temi della scuola, sui servizi all’infanzia e agli anziani. Sono temi assolutamente di sinistra. Il segretario ne ha parlato praticamente in ogni incontro della sua campagna per le primarie. Mi auguro che riuscirà a dar loro seguito con la stessa forza che ha dimostrato sulla legge elettorale.

Repubblica 15.12.13
Barca critica la legge del governo: “Così si favoriscono i partiti sostenuti dai ricchi”
“Decreto alla Nerone che sazia la folla Renzi conti fino a 10 prima di tagliare”
I contributi ai partiti vanno ridotti ma ci sono altri modi per farlo, in Germania si ripartiscono quote di iscritti e elettori
intervista di Silvia Bignami


BOLOGNA — «Una legge non buona». Anzi, «brutta». Ma soprattutto, «un provvedimento “alla Nerone”, per cui si portano gli italiani al Colosseo e gli si dà in pasto qualcosa per placare la loro rabbia». A Fabrizio Barca non piace il decreto del governo sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. A Bologna per lanciare il suo nuovo viaggio nei circoli, a caccia dei “Luoghi Idea(li)” del Pd, l’ex ministro di Monti, sostenitore di Pippo Civati, ammette la necessità di una «riduzione drastica» dei fondi ai partiti, ma definisce «iniquo» il meccanismo della nuova legge. E dà un consiglio anche al neosegretario Pd Matteo Renzi, che oggi all’assemblea nazionale potrebbe rinunciare ai rimborsi elettorali: «Conti fino a dieci, servono scelte meditate».
Barca, lei ha lanciato un crowdfunding per finanziare il suo tour nei circoli. Perché non le piace la legge che abolisce i fondi ai partiti?
«In questa legge c’è una cosa sacrosanta e importantissima: l’obbligo di certificazione dei bilanci. Quello che non va sono le modalità del finanziamento ai partiti».
In che senso?
«Si rischia di avvantaggiare i partiti che sono supportati da persone con un maggior reddito. Primo, il livello di contribuzione massima, fino a 300mila per le persone fisiche, è troppo alto. Secondo, le detrazioni tra il 37% e il 75% fanno sì che una parte della contribuzione sia a carico di tutti, non solo di chi fa la donazione. Infine, il 2xmille consentirà di far arrivare più fondi a chi ha sostenitori ricchi. Tutto questo ne fa un meccanismo iniquo, non ragionevole».
In questi anni però c’è stato un abuso del finanziamento pubblico.
«Certo, infatti la premessa è che il finanziamento ai partiti va assolutamente ridotto, drasticamente. Ma ci sono altri modi: in Germania c’è una ripartizione tra quote degli iscritti e dei simpatizzanti. Con questa legge invece si rischia di fare una cosa più eclatante che giusta, per saziare la folla. Saziandola, però, male».
In assemblea il segretario Pd Renzi potrebbe annunciare la sua «sorpresina» a Grillo: la rinuncia da subito ai rimborsi elettorali. Un altro atto “alla Nerone”?
«Non commento quella che per ora è solo un’ipotesi. Il mio consiglio è che qualunque proposta sia meditata. I 3 milioni delleprimarie hanno votato per un partito che lavori meglio. Ma pur sempre per un “partito”: organizzato, solido, l’unico. Poi può funzionare bene anche col crowdfounding, ma con progetti convincenti. Competiamo su questo con Grillo».
Cioè?
«Si faccia una gara a rialzo, su chi raccoglie più fondi per una buona proposta. Non una corsa a ribasso, a chi taglia di più i soldi pubblici».
Anche il blitz di Letta sul taglio del finanziamento è stata una corsa per arrivare prima di Renzi?
«Non ci leggo una mossa anti-Renzi. Letta ha mantenuto una promessa. E poi Renzi oggi è in una posizione tale per cui qualunque cosa faccia il governo di buono, lui può rivendicarne una parte di merito».

l’Unità 15.12.13
Quelle astensioni indeboliscono una battaglia di civiltà
La forzatura a Strasburgo sulla risoluzione sui diritti sessuali e riproduttivi
viene da quei democratici ancora una volta schierati con i conservatori
di Sergio Del Giudice


Ha un sapore amaro che il 10 dicembre, Giornata dei diritti umani, sia stato segnato dalla bocciatura a Strasburgo della attesa risoluzione Estrela sui diritti sessuali e riproduttivi oggetto di forti pressioni da parte di gruppi antiabortisti e antigay. Il conteggio ricorretto mostra uno scarto di un solo voto. Risultano così determinanti le sei astensioni Pd sulla risoluzione Ppe che ha affossato il rapporto steso dalla socialista portoghese e sostenuto dal gruppo S&D di cui il Pd fa parte. Sassoli, Costa e Toia hanno spiegato sull’Unità quella scelta con motivazioni francamente non convincenti.
Sassoli accusa il «rapporto Estrela» di avere voluto forzare un ambito di competenza nazionale. Ma una risoluzione non è vincolante, rappresenta solo una piattaforma di obiettivi comuni. La forzatura sembra farla Sassoli quando legge come una legittimazione dell’aborto clandestino l’invito a non punire i professionisti che praticano aborti, esplicitamente legato al divieto vigente in Irlanda Malta e Polonia. O come quando vede un attacco alla 194 nell’invito a rendere compatibile il ricorso all’obiezione di coscienza con l’accesso ai servizi.
Ognuno potrà individuare delle criticità in quel testo. Il tema della maternità surrogata, ad esempio, a mio giudizio viene liquidato troppo sbrigativamente . Ma il quadro generale è di un impegno a garantire soprattutto ai più giovani gli strumenti per una sessualità consapevole, informata e più sicura.
Le persone LGBTI (lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e intersessuali) vi erano più volte prese in considerazione come destinatarie di informazioni specifiche e di servizi per la salute ma anche come oggetto di discriminazioni, violenze e «rappresentazioni non obiettive della loro sessualità e identità di genere». Questo aspetto aveva fatto insorgere il fronte tradizionalista, insieme al «diritto di decidere liberamente e responsabilmente il numero, il momento e l’intervallo tra le gravidanze».
La richiesta di impedire le pratiche di sterilizzazione obbligatoria delle persone transessuali riguarda certo anche l’Italia, ma nel senso di ampliare, non di restringere, le possibilità della legge 164 del 1982 sulla riattribuzione anagrafica del sesso. Quella norma produce la mutilazione genitale anche a chi, per accedere ad una modifica anagrafica che restituisca una dimensione esistenziale serena, non giungerebbe all’intervento chirurgico se non fosse una condizione imposta. In Parlamento è depositato un disegno di legge in questo senso che aspetta di essere discusso.
Di fatto, ancora una volta, sui diritti civili una parte dei democratici italiani si schiera in Europa coi conservatori. A me non importa che i sei parlamentari del Pd siano renziani, se non perché questo getta un’ombra sul taglio del nostro impegno nelle prossime elezioni europee. Mi preoccupa che il Pd in Europa rappresenti un freno ad un avanzamento sul piano delle libertà e dei diritti civili. Perché ne va dell’Europa e del Pd.
*Senatore del Partito Democratico

La Stampa 15.12.13
Sassoli: “Mozione Pse inaccettabile. L’aborto non è competenza Ue”
di Marco Zatterin

qui

l’Unità 15.12.13
L’Assemblea nazionale proclama oggi l’elezione del nuovo segretario
Il giorno di Renzi: «La linea vincola tutti»
L’Assemblea nazionale del Pd proclama oggi a Milano l’elezione del nuovo segretario
Nella relazione sfiderà Grillo sui costi della politica e insisterà su riforme, lavoro e Europa
Il leader annuncerà la rinuncia ai rimborsi e tagli per un miliardo ai costi della politica
di Simone Collini e Maria Zegarelli


Forte del risultato delle primarie e delle due vittorie incassate in pochi giorni (passaggio dal Senato alla Camera della legge elettorale e accelerazione sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti) oggi Matteo Renzi verrà formalmente proclamato nuovo segretario del Pd. E di fronte agli oltre mille membri dell’Assemblea nazionale convocata a Milano, metterà in chiaro che gli impegni di cui parlerà nel suo intervento saranno «vincolanti per l’intero Pd». La sua relazione sarà messa ai voti, ma non sarà una pura formalità, considerando che alla vigilia di questo appuntamento il vincitore del congresso ha anticipato di voler far «ratificare gli impegni annunciati».
Renzi ascolterà il discorso del segretario uscente Guglielmo Epifani, a cui dovrebbe seguire un breve saluto del premier Enrico Letta, e poi farà un intervento tutto all’attacco, sfidando Beppe Grillo sul terreno dei soldi ai partiti (il leader democratico dovrebbe annunciare la rinuncia alla quota di finanziamento pubblico ora spettante al Pd e misure per ridurre di un miliardo i costi della politica) e sui temi della legge elettorale e delle riforme istituzionali (nel merito, doppio turno, sostituzione del Senato con una Camera delle autonomie, diminuzione del numero dei parlamentari, cancellazione delle Province), e alzerà l’asticella anche nei confronti di Palazzo Chigi, incalzando il governo sulle misure economiche necessarie al Paese (partirà dal cosiddetto Job act e dal miliardo e mezzo di euro dell’Ue per la Youth guarantee, per quel che riguarda il tema occupazione) e sull’atteggiamento da tenere in Europa (meno spazio a banche e burocrazia e più attenzione a diritti, cultura, scuola).
Alla Fiera di Milano saranno seduti in prima fila il presidente del Consiglio Letta (che ieri incontrando il contingente Unifil di stanza nel Sud del Libano ha ironizzato con gli sminatori sulla necessità di un loro intervento anche in Parlamento), pochi dei cosiddetti big (nell’Assemblea nazionale entrano di diritto gli ex segretari Walter Veltroni, Dario Franceschini, Pier Luigi Bersani ed Epifani, mentre Massimo D’Alema anche se è un ex premier ci è entrato dopo aver partecipato alle primarie a Foggia) e molti volti nuovi. Renzi insisterà sulla necessità di portare un cambiamento nel partito per poter cambiare il Paese, e risponderà positivamente anche all’appello che gli hanno rivolto 73 parlamentari, quello cioè di «fugare ogni dubbio sulla volontà di introdurre nella prossima legge elettorale il principio, già contenuto nello Statuto del Pd, del limite massimo dei tre mandati parlamentari».
Renzi, che tra gli appuntamenti messi in agenda per la settimana che si apre domani ha una visita alla Terra dei fuochi, proporrà anche all’Assemblea di votare come presidente Gianni Cuperlo (che interverrà e spiegherà i motivi che lo hanno spinto ad accettare l’offerta che gli ha fatto il segretario) e come tesoriere del partito Francesco Bonifazi (che dovrà subito fare i conti con la «sorpresina» a Grillo sul finanziamento pubblico). Ma oggi verranno annunciati anche i circa 200 membri della Direzione del Pd.
LA PARTITA DELLA DIREZIONE
L’elenco dei nomi che faranno parte dell’organismo è ancora al centro di un braccio di ferro. Cuperlo vedrà la sua area stamattina alle 8.45 a Milano per mettere a punto la lista che fornirà a Luca Lotti, ma i 22 posti che gli toccano sulla base dei risultati del congresso sono davvero pochi per accontentare le varie microcomponenti che lo hanno sostenuto. Ancora ieri sera Cuperlo ha rinnovato a Renzi la richiesta di allargare il numero di coloro che potrebbero entrare in virtù dei ruoli istituzionali che rivestono, dai ministri (Andrea Orlando e Stefano Fassina rientrerebbero tra questi) e presidenti di Regione. E dal segretario è arrivata la disponibilità ad aprire sugli invitati permanenti (con diritto di parola ma non di voto) e sui membri di diritto. Il pressing che arriva al leader di minoranza è fortissimo: Beppe Fioroni ha inviato la sua “rosa” (ci sarebbero Franco Marini, Gero Grassi, lo stesso Fioroni, mentre Enrico Gasbarra entrerebbe di diritto in quanto segretario del Pd laziale); nessuna apertura ai bindiani (molto infastiditi ma resta ancora questa mattina), mentre per i bersaniani i nomi sicuri sono quelli di Nico Stumpo, Ettore D’Attorre e Stefano Fassina. Dentro anche i giovani turchi, da Matteo Orfini a Francesco Verducci a Andrea Orlando.
Renzi intanto sta lavorando ai venti di sua esclusiva pertinenza (quasi certo l’ingresso di Oscar Farinetti e Alessandro Baricco), mentre i fidatissimi Lotti e Guerini si occupano degli altri 81, tra cui diversi sindaci. Poi c’è la vicepresidenza, che dovrebbe andare ad un civatiano (in pole position ci sono Sandra Zampa, Laura Puppato e Maria Carmela Lanzetta) e ad un renziano. Il vicepresidente uscente, Ivan Scalfarotto, dice che per quanto lo riguarda, «quattro anni bastano», quindi si tira fuori da questa partita, entrando però a far parte della Direzione.
Sarà interessante capire quanti big saranno scelti dal nuovo segretario, pescando da Areadem, che fa capo a Franceschini, dall’area che fa capo a Letta (Francesco Boccia lo ha apertamente sostenuto durante le primarie), e a quella dei veltroniani. I collaboratori del segretario fanno sapere che anche in questo caso il messaggio che Renzi vuole mandare è lo stesso di sempre: ricambio. A costo anche di scontentare più d’uno. Stando attento, però, a non creare troppi malumori.

l’Unità 15.12.13
Nichi Vendola
«Il salto generazionale obbliga tutti a cambiare schema: dobbiamo costruire insieme un nuovo centrosinistra senza vecchie ideologie»
«Spero sia leader non solo del Pd ma di una grande speranza»
intervista di Andrea Carugati


ROMA «A Renzi auguro di essere non solo il leader di un partito, ma di una grande speranza di cui c’è bisogno come dell’ossigeno. L’Italia è un Paese disperato, il lessico della politica è apparso incapace di agganciare i valori e le speranze, soprattutto dei giovani. Ora siamo in un nuovo terreno di gioco, il salto generazionale del Pd obbliga tutti a cambiare schema». Nichi Vendola, leader di Sel, sembra quasi sollevato dal cambio della guardia nel Pd. «Si sono chiusi gli ultimi congressi del Pci e della Dc, c’è una cesura netta con tante vecchie storie, anche nobili, ma che si erano avvitate nella spirale dei risentimenti personali».
Eppure lei alle primarie 2012 è stato un fiero avversario della piattaforma di Renzi. «Vedo che molti dei miei argomenti sono stati utilizzati quest’anno da Cuperlo e Civati... i punti di dissenso con Matteo restano. Sel non confluirà nel Pd, resterà un soggetto autonomo, ma apprezzo che si sia fatta chiarezza. Questo consente a tutti di esprimersi nitidamente sui programmi, non più sui vecchi album di famiglia».
E dunque su cosa intende confrontarsi con il nuovo leader Pd?
«Non certo su vecchi sistemi ideologici. Spero che insieme intraprenderemo una ricerca nuova, che parta dal tema dei diritti e dal confronto con i pezzi vivi della società italiana. C’è una critica alla politica per la sua mediocrità e per la sua astinenza dalla dimensione dell’alternativa. C’è una penuria di diritti, e penso alla povertà, a un ceto medio sempre più vulnerabile, a una protezione sociale sempre più inadeguata a coprire una platea sterminata di bisogni. Il governo ha cestinato con sciatteria il tema di un reddito di cittadinanza. I temi dell’innovazione tecnologica e sociale si legano a priorità come l’assetto idrogeologico e la cura del paesaggio che possono rilanciare lo sviluppo. A questo aggiungo il nodo dei diritti civili, il fine vita, le coppie di fatto, gli immigrati, sui cui il nostro Paese è gravemente arretrato. Su questi diritti possiamo e dobbiamo tessere la tela del dialogo e di una possibile alleanza. Senza guardare all’indietro, né alla vecchia socialdemocrazia europea e neppure alla parabola di Blair».
Dunque lei vuole insistere sui temi sociali piuttosto che sul finanziamento ai partiti o la legge elettorale? Le sembra un modo migliore per contrastare i populismi?
«Le piazze di Grillo e dei forconi sono sovraccariche di risentimento e rancore sociale, e tuttavia sono un indicatore preciso del deficit di alternativa che c’è. O si alza la bandiera della giustizia sociale, o altrimenti qualcuno innalza i forconi. Se la sinistra non occupa lo spazio della speranza, la destra occupa quello della paura. E dentro la destra metto non solo il lessico eversivo di Berlusconi ma anche il vocabolario di Grillo e della Casaleggio e associati. Non a caso sono due miliardari che giocano con la fame violenta degli altri. Al governo dovrebbero capire che suona paradossale e irritante parlare, come fa il ministro Saccomanni, di uscita dalla crisi se la disoccupazione aumenta. Il rischio è che si apra un varco che può consentire all’onda melmosa del populismo di travolgere le istituzioni. Se non lo capisce, vuol dire che questa classe dirigente non ha il know how per capire il pericolo che corriamo».
Crede che la nuova leadership del Pd abbia il giusto know how?
«La contraddizione più incandescente per Renzi è il governo Letta. Questo esecutivo non è un ostacolo alle ambizioni personali di Matteo, ma un impedimento allo sviluppo del suo discorso innovativo».
Anche lei chiede elezioni subito...
«L’arroccamento nel palazzo è un alimento per la spinta reazionaria».
Nel merito come valuta le nuove norme sul finanziamento della politica?
«È doveroso avere maggiore sobrietà, ma bisogna stare attenti: la privatizzazione della politica per ragioni di consenso è un rischio grave. Il finanziamento privato va regolato in modo molto più serio, sul modello francese. E se non c’è contemporaneamente una seria norma sul conflitto di interessi non si esce dall’ipoteca del ventennio berlusconiano».
Sulla legge elettorale come vi muoverete? Siete d’accordo con l’ipotesi di un doppio turno?
«Sono d’accordo con l’idea di favorire le coalizioni e uno schema bipolare, non bipartitico. Le nostalgie per il proporzionale vanno archiviate: oggi quel sistema sarebbe solo un supporto alla paralisi e all’agonia della politica rappresentata dalle larghe intese».
Lei chiede il voto e una proposta di alternativa. Ma le elezioni ci sono già state nel 2013, con una coalizione di cui lei era protagonista.
«I rischi democratici di oggi sono frutto della sottovalutazione della radicalità della crisi sociale. La politica che nel 2011 ha delegato ai tecnici e ha rimosso il conflitto in nome dell’emergenza ha aperto la strada ai germogli di squadrismo che vediamo oggi. Solo un nuovo centrosinistra pieno di idee e passioni può sconfiggere le piazze degli urlatori e dei forconi».
Anche nel 2012 il centrosinistra ha vissuto una stagione di entusiasmo con le primarie...
«Poi c’è stata la morta gora di una campagna elettorale in cui ci si è quasi impegnati per perdere. In questa triste parabola c’è una lezione da tenere a memoria. Se le speranze vengono disattese poi arrivano il disincanto e i forconi». Dopo Landini anche lei sembra aprire un forte credito a Renzi.
«Non è un dialogo innaturale. In questa fase gli schemi ideologici sono finiti, non ci sono più rendite di posizione per nessuno a sinistra. Serve un radicalismo di governo che renda il nostro riformismo non una foto ingiallita, ma la ricetta per un cambiamento possibile».

Repubblica 15.12.13
Funzionario di partito addio così lo stop al finanziamento cancella il mito dell’apparato
Tra crisi e gazebo scompaiono i resti di Pci e Dc
di Filippo Ceccarelli


TRA gazebi e forconi si consuma la fine ultima degli apparati di partito. Erano ormai poco meno di una parvenza, 3-400 persone, ma il decreto Letta contro il finanziamento pubblico glitoglie pure la speranza.
OLTRE all’occupazione. E degradato al rango di mero problema economico, secondo l'ameno triduo licenziamenti-cassa integrazione-solidarietà, come altre professioni che richiamavano una comunità di destino, ciò che resta del funzionariato nemmeno trova un degno canto funebre che ne ricordi l'antica gloria e l'anonimo, indispensabile vigore.
In realtà, rispetto al prevedibile, ma proditorio colpo di grazia, ben gli si adatterebbero quei versi di Kavafis che in un paio di libri uno dei maggiori studiosi di politica, Mauro Calise, ha evocato a proposito dei partiti della Prima Repubblica: “Onore a quanti in vita/ si ergono a difesa delle Termopili/ (…) E un onore più grande gli è dovuto/ se prevedono (e molti lo prevedono)/ che spunterà da ultimo un Efialte/ e che i Medi finiranno per passare”.
Niente poesia, ora, per impiegati, segretarie, autisti, addetti e commessi di partito. Il tempo delle tensostrutture smontabili e delle rivolte caotiche offre loro semmai, a portata di mouse e di schermo, una specie di malinconica caricatura, una pagina di Facebook, oltre 23 mila “mi piace”,che all'insegna del vintage e dell'ironia celebra, riadattandoli o rovesciandoli nel presente, i grigi stilemi, le automatiche fissazioni e i burocratici appelli dell'Apparato comunista: «La gente ci chiede più stanze fumose, meno trasparenza»; e si postano foto di suppellettili bolsceviche, pure reclamizzando Il libretto grigio che l'Apparato ha di recente pubblicato con gli Editori Internazionali Riuniti.
E il gioco un po' fa ridere, un po' mette anche tristezza, ma certo rende più difficile adesso far capire, in un'Italia irriconoscibile, qual è stato il vero ruolo svolto per magri stipendi da questi oscuri lavoratori anche altrove votati alla causa. Della democrazia, si sarebbe detto un tempo, ma oggi?
In un libro molto bello, Botteghe Oscure addio (Mondadori, 1996) Miriam Mafai finisce spesso per descrivere l'apparato come un corpo vivo. Scrive che si trattava dello “scheletro” e del “sistema nervoso” del Pci; poi del “cuore” e del “cervello”; quindi, sempre a proposito di quella macchina da cui dipendevano la trasmissione della “giusta linea” e il suo controllo, arriva a concludere che «tutto in quel palazzone scorreva con la stessa placida regolarità con la quale il sangue circola nelle vene».
Alle Botteghe Oscure c'erano la mensa e le sirene per dare l'allarme, la Vigilanza era al pianterreno, come del resto l'ambulatorio del dottor Pedicino, mentre nel grande salone con i banchi di formica del quarto, oltre alle riunioni del Comitato centrale, si organizzavano le festicciole per Natale o i compleanni dei dirigenti. L'Ufficio Quadri fungeva da Confessionale tipo Grande Fratello. Per qualsiasi necessità, i funzionari smistavano ai compagni sarti, elettricisti, donne di servizio. Fino allo scioglimento del Pci (1989) c'era un addetto alle onoranze pubbliche e ai cimiteri (passato a Rifondazione).
Nei primi anni 50 Fanfani provò a copiare quel modello per competere meglio con i comunisti. Fece costruire il grande palazzone dell'Eur, lo riempì di personale e nelle fondamenta insediò un frammento della roccia presso cui San Francesco aveva ricevuto le stimmate. Contro l'apparatchik del Pci volle anche creare la figura professionale di “Addetto ZD”, che stava per “Zona Depressa”, anche dal punto di vista elettorale. Nel 1975, durante un drammatico, ma interminabile Consiglio nazionale, gli autisti democristiani si ribellarono e cominciarono a suonare il clacsonper protesta.
Nel Psi fu sempre tutto più lasco. A via del Corso segretarie e funzionari, in seguito come i loro colleghi dei vari partiti riconosciuti e aiutati dalla “legge Mosca” (da Giovanni, che fu il vice di De Martino), vivevano in cellette dislocate nel palazzo di travertino a seconda delle stratificazioni etniche e correntizie dei vari leader. Dapprima detestarono Craxi, ampiamente ricambiati; in seguito ne riconobbero l'autorità; infine, dopo il suo disastro, persero anche il lavoro.
E tuttavia, insieme con la Prima Repubblica, per ogni partito venne meno anche quel ruolo, quell'ordine,quella specie di prolungamento della militanza. Arrivarono comunque, come i Medi di Kavafis, gli staff, i consulenti, i pubblicitari, i guru della comunicazione, e la demoscopia, il casting, la ripresa di un potere, in definitiva, che tornava ad essere al tempo stesso carismatico e patrimoniale.
Troppo facile, ma forse ancora troppo presto per raccontare lo smantellamento e la decomposizione degli apparati, infine ridotti a minimi simulacri di loro stessi. Così scomodi, per giunta, da potersi sacrificare ai nuovi idoli, tra gazebi e forconi, rottamandi e buffoni.
 
l’Unità 15.12.13
Roma, San Lorenzo: il corteo dei No Tav assalta la sede del Pd


“Presentato” come un presidio e poi trasformato in «un piccolo corteo di solidarietà» di una cinquantina di militanti No Tav, e partito da Piazzale Tiburtino, con lo striscione «Claudio, Nico, Chiara e Mattia liberi/e», per i «compagni» perquisiti e arrestati a Torino e Milano il 9 dicembre dopo un’azione di maggio contro il cantiere Tav in Clarea, si è poi consumato in un raid contro la sezione del Pd di San Lorenzo. «Questi arresti non bloccheranno la nostra lotta contro il cantiere dell’ingiustizia e la militarizzazione della Val di Susa», ha proclamato al megafono un esponente del Movimento, prima di cominciare la marcia (non prevista, doveva essere un presidio).
E già da subito il corteo è sembrato avere altre intenzioni. Al grido di «la Val Susa paura non ne ha, tutti liberi», i manifestanti hanno creato una “trincea” a piazza di porta Maggiore: dal corteo è partito un petardo e sono stati accesi fumogeni. Traffico bloccato sulla piazza dove i dimostranti hanno imbrattato il muro di un cavalcavia con la scritta «No Tav liberi». E una scritta rossa per ricordare i nomi dei quattro in manette. Ma la tappa più violenta è stata quella di fronte il circolo Pd di San Lorenzo: «Fate schifo. Il Pd è responsabile, ve lo meritate Renzi», hanno gridato i manifestanti al partito, ribaltando un cassonetto della spazzatura e gettandone i sacchetti di immondizia contro la porta vetrata. Un dirigente è stato colpito sulla fronte da una bottiglia e sporcato con la vernice: è rimasto lievemente ferito.
Due blindati della polizia e un cordone di agenti in tenuta antisommossa hanno poi sbarrato via dei Volsci, disperdendo i dimostranti. Tre settimane fa sempre i No tav avevano fatto irruzione nella storica sezione Pd di via dei Giubbonari. «Ancora un attacco alla sede del Pd. esprimo agli iscritti la mia solidarietà», ha subito detto il sindaco di Roma Ignazio Marino, e sullo stesso tono è intervenuto il capogruppo Pd in comune, Francesco D’Ausilio: «Un attacco vergognoso».
stenuto. Ancora ieri sera Cuperlo ha rinnovato a Renzi la richiesta di allargare il numero di coloro che potrebbero entrare in virtù dei ruoli istituzionali che rivestono, dai ministri (Andrea Orlando e Stefano Fassina rientrerebbero tra questi) e presidenti di Regione. E dal segretario è arrivata la disponibilità ad aprire sugli invitati permanenti (con diritto di parola ma non di voto) e sui membri di diritto. Il pressing che arriva al leader di minoranza è fortissimo: Beppe Fioroni ha inviato la sua “rosa” (ci sarebbero Franco Marini, Gero Grassi, lo stesso Fioroni, mentre Enrico Gasbarra entrerebbe di diritto in quanto segretario del Pd laziale); nessuna apertura ai bindiani (molto infastiditi ma resta ancora questa mattina), mentre per i bersaniani i nomi sicuri sono quelli di Nico Stumpo, Ettore D’Attorre e Stefano Fassina. Dentro anche i giovani turchi, da Matteo Orfini a Francesco Verducci a Andrea Orlando.
Renzi intanto sta lavorando ai venti di sua esclusiva pertinenza (quasi certo l’ingresso di Oscar Farinetti e Alessandro Baricco), mentre i fidatissimi Lotti e Guerini si occupano degli altri 81, tra cui diversi sindaci. Poi c’è la vicepresidenza, che dovrebbe andare ad un civatiano (in pole position ci sono Sandra Zampa, Laura Puppato e Maria Carmela Lanzetta) e ad un renziano. Il vicepresidente uscente, Ivan Scalfarotto, dice che per quanto lo riguarda, «quattro anni bastano», quindi si tira fuori da questa partita, entrando però a far parte della Direzione.
Sarà interessante capire quanti big saranno scelti dal nuovo segretario, pescando da Areadem, che fa capo a Franceschini, dall’area che fa capo a Letta (Francesco Boccia lo ha apertamente sostenuto durante le primarie), e a quella dei veltroniani. I collaboratori del segretario fanno sapere che anche in questo caso il messaggio che Renzi vuole mandare è lo stesso di sempre: ricambio. A costo anche di scontentare più d’uno. Stando attento, però, a non creare troppi malumori.

il Fatto 15.12.13
Calabria, la caduta delle stelle dell’opportunismo antimafia
di Silvia Truzzi


CADONO come foglie i simboli dell’antimafia calabrese. E non si tratta di una “questione d'immagine”. Il 3 dicembre è toccato a Carolina Girasole, ex sindaco di Isola Caporizzuto (cui la 'ndrangheta addirittura incendiò la casa al mare) finita in un'operazione della Guardia di finanza che la accosta ai suoi supposti nemici. È agli arresti domiciliari con l’accusa di essere stata eletta grazie a voti sporchi, in cambio dei quali avrebbe garantito favori alla ‘ndrina Arena. Con lei è ai domiciliari anche il marito (che avrebbe chiesto esplicitamente appoggio alla cosca Arena per l'elezione a sindaco della moglie nel 2008). Giovedì, invece, è stata la volta di Rosy Canale: scrittrice, attrice e fondatrice del movimento “Donne di San Luca”. Un’icona della lotta alla criminalità organizzata. L’operazione si chiama “Inganno”. Secondo la Procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria i soldi del ministero della Gioventù, del Consiglio regionale, della Prefettura e della Fondazione “Enel Cuore”, da utilizzare per la gestione di un bene confiscato al clan Pelle, sarebbero stati invece usati a “fini personali”: per comprare una Smart e una 500, anziché per aprire una ludoteca. La prefettura le aveva assegnato 40 mila euro per il progetto “Botteghe artigianali”, che avrebbe dovuto promuovere l’attività manifatturiera del sapone. La Canale acquistava direttamente il sapone da rivendere con il logo della sua associazione, anziché coinvolgere le donne di San Luca.
ULTIMA circostanza: insieme al baluardo dell'antimafia è stato arrestato anche Sebastiano Giorgi, ex sindaco di San Luca, il cui Comune è stato sciolto per infiltrazioni mafiose. Secondo l’acc usa sarebbe stato eletto grazie ai voti della ‘ndrangheta e avrebbe favorito le cosche, tramite l’affidamento di appalti. Anche lui, dopo lo scioglimento del Comune, si era dichiarato fieramente contro le organizzazioni criminali. Quest’inchiesta sembra dirci che c'è un problema ulteriore in Calabria, ed è proprio l'antidoto a quella vecchia, terribile, malattia del Sud, ormai dilagata anche al Nord. Il procuratore aggiunto, Nicola Gratteri, ha detto: “Da tanti anni dico di stare attenti a chi si erge a paladino dell’antimafia senza avere alle spalle una storia. Non è tollerabile: c’è gente che è morta per la lotta alla mafia. C’è gente che lucra con l’antimafia e ne fa un mestiere. Dobbiamo vigilare su queste condotte: non sono solo illecite dal punto di vista penale, ma anche eticamente riprovevoli”. E il punto è qui. Non solo non si onorano i magistrati, i poliziotti, i carabinieri e i cittadini comuni caduti per mano della mafia. Ma s'inducono i cittadini alla diffidenza, alla rassegnazione, a mettere una battaglia sacrosanta e necessaria nel calderone del “sono tutti uguali”.
È un falso: l’antimafia esiste nelle tantissime persone che lottano e resistono, nonostante i comportamenti di chi ha scelto per mestiere e per palcoscenico un’idea.

il Fatto 15.12.13
L’analisi
La paralisi democratica che genera “fo rconi”
di Furio Colombo


Forconi, chi siete? In ogni momento potrei imbattermi in un vostro posto di blocco senza sapere se devo avere paura o capire, se siamo dalla stessa parte del mondo (difendersi o aggredire), se la vostra è rivendicazione o vendetta, se ci unisce il desiderio che questa brutta giornata finisca, o il desiderio di prolungarla dentro una notte di compensazione violenta del debito. So benissimo che la parola “Forconi” serve solo per la cronaca giornalistica, che un movimento con quel nome avventuroso è solo una piccola parte, che c’è una aggregazione “9 dicembre” che ha persino un portavoce di nome Zunino, che – sento alla radio – è molto professionale e molto espressivo (benché alcune cose che dice mi spaventino, non come cittadino che ha paura di andare in strada, ma come persona che ha visto il passato e ha già incontrato quelle frasi e ha già visto le paurose conseguenze).
C’è un’altra via d’uscita: tentare di buttare tutto sul ridicolo. Infatti un certo Galvani, che parla come un leader e dice di non esserlo, arriva sul posto in Jaguar. Può darsi che si tratti di una provocazione calcolata, come quelle dada o futuriste, che infatti si esibiscono un po’ prima delle vere rivoluzioni. Troppo facile, però, acciuffare pretesti e incongruenze, mentre intorno tutto è incongruo, illogico, presentato come logico e vero da tutti i potenti media, ma privo di riscontro nel reale. Non fa scandalo se qui o là ci sono i Casa Pound. Nessuno ha diramato inviti o messo barriere, e se ci sono i fascisti non è una ragione per dire subito che la loro presenza contamini tutto. Certo non è una bella compagnia, ma sento dire che voi non cercate nessuno, non vi fidate di nessuno e ripetete in un coro tempestoso, ma (finora) nonviolento “tutti a casa”. Le volte (non tante) che i media vi consentono di parlare, spiegate che fuori vuol dire fuori, via tutti dal palazzo. Le poche volte che vi domandano chi è il leader rispondete “Nessuno”, una buona idea, non so se, inconsapevolmente, tratta dallo scherzo giocato a Polifemo da Ulisse nel racconto di Omero. Quello scherzo come sapete, funziona. Vi immaginano disperati e sprovveduti e invece forse siete pronti al momento giusto. Ma pronti a che cosa? Mi arrampico in su, sospettando un grave pericolo. Poi scivolo giù, al livello del come stanno le cose, e mi rendo conto che non poteva andare diversamente. Il Paese è bloccato, il governo è fermo, ogni atto politico è una finta, c’è una grande sosta inspiegata e inspiegabile, da quando è stato interrotto il voto per il nuovo presidente della Repubblica.
TUTTO si è immobilizzato di colpo, come in uno strano presepio, tranne la perdita di lavoro, di case, di paghe, di partita Iva e la scomparsa di centinaia di migliaia di piccoli lavori e di aiuto dei meno poveri ai più poveri adesso altrettanto poveri. Un angoscioso spostarsi verso il basso che continua anche adesso. E allora, poiché è scomodo muoversi nel fango, che potrebbe essere – cominciate a temere – sabbia mobile, siete scesi in piazza da tante strade come dopo una inondazione. E noi ci domandiamo: chi sono? Vi siete accorti che sto parlando di “voi” e “noi”? È un discorso di classe, ma la classe non è sociale, alla vecchia maniera, è nella testa. Cioè alcuni (“noi”) continuiamo a vedere cose che non ci sono (organizzazioni, partiti, elezioni, leader) e ad aspettarne altre che forse non accadranno. Evidentemente abbiamo torto perché siamo redarguiti con durezza dal capo dello Stato perché parliamo – pensate – “dannatamente ” di elezioni. Voi vedete il vuoto. E per esorcizzare la paura, ci entrate dentro. Qui però accade qualcosa di strano e di inspiegabile. Marco Revelli, in un bell’articolo su il manifesto scrive “L’unico volantino che mi mostravano (in Piazza Castello, a Torino, ndr) diceva: siamo italiani, a caratteri cubitali”. Sì, però, subito dopo, ai vari microfoni uno con quel manifesto in mano diceva: “I soldi e le case non li date a noi italiani li date agli zingari”. Un altro: “Siamo qui perché siamo italiani e abbandonati. Tutti gli aiuti sono per gli immigrati, che ci portano via il lavoro”. Sono molte le voci che si distaccano dal vasto gridare della piazza, mentre gli agenti si tolgono i caschi, e sentite ripetere ancora e ancora la storia degli zingari. Siamo al livello un po’ animale di Borghezio il leghista, che di suo, molto prima dei forconi, incendiava i giacigli di immigrati che dormivano sotto i ponti a Torino.
COME in una strana fiaba, c’è il rischio di precipitare a un livello più basso di cattiveria contro gli ancora più poveri. Purtroppo non è tutto. Spiega Andrea Zunino, il portavoce (che poi nega, ma nega male) nell’intervista di Radio 3: “Siamo ridotti così perché l’Italia è schiava dei banchieri ebrei” E fa il nome di Rothschild, che avrà pescato in rete, negli angoli in cui sopravvivono i resti di un profondo antisemitismo sempre in agguato, di un vetero-fascismo che credevamo morto e sepolto. Queste povere e squallide dichiarazioni vanno messe sul conto di chi ha fermato la democrazia e tagliato fuori i cittadini da ogni partecipazione politica.
Ma quando il presidente delle Comunità ebraiche italiane Gattegna dice che “quelle parole appartengono a un periodo storico di morte, violenza, negazione di ogni diritto” lancia un grido di indignazione, condanna, dolore che devo condividere per illudermi di vivere in un mondo normale e civile. Mi rendo conto che c’è un solo modo per sapere chi siete e dove andate: con tanta rabbia e un buio profondo, movimenti 9 dicembre e forconi: rompere l’incantesimo della grande fermata e rimettere in moto la democrazia. Se Renzi fosse davvero nuovo, dopo il rito di famiglia detto “segreteria” alle 7 del mattino, sarebbe in strada alle 8, rompendo e rifiutando subito la gelida separazione fra cittadini e palazzo che spinge alla disperazione. O a brutte, umilianti allucinazioni.

Repubblica 15.12.13
Un Paese che perde il senso delle parole
di Eugenio Scalfari

IL VANGELO di Giovanni comincia in un modo che neppure un non credente può dimenticarlo. Dice: «All’inizio c’è la Parola e la Parola è presso Dio, la Parola è Dio e tutte le cose che esistono è la Parola ad averle create».
Nel mondo di oggi c’è grande confusione perché siamo al passaggio di un’epoca e la Parola ha smarrito il senso e gli uomini hanno smarrito il senso, il senso del limite, dei diritti, dei doveri. Alcuni lottano per recuperarli, altri per distruggerli dalle fondamenta. Nel Gargantua di Rabelais le parole si erano intirizzite dal freddo ma appena l’uomo ne afferrava una subito si scioglieva e nella mano gli restava soltanto una goccia d’acqua. Piaccia o no, noi siamo a questo punto. Perciò dobbiamo rieducarci e capire. Ha scritto ieri in questo giornale Giovanni Valentini, citando dal libro Una generazione in panchina
di Andrea Scanzi, «prima di rottamare gli altri ognuno dovrebbe fare un esame di coscienza per riparare i propri errori». Sono pienamente d’accordo, vale per me, vale per te, vale per tutti.
***
I problemi sul tavolo sono molti. Direi che il primo riguarda la cosiddetta rivolta di piazza dei forconi, dove per fortuna i forconi sono soltanto un simbolo. La rivolta però c’è, coinvolge studenti, contadini, pensionati, ambulanti, camionisti. Salvo pochissimi, non vogliono trattare, vogliono abolire i partiti, il Parlamento, il governo, i sindacati.
In molte cose ricalcano il programma di Grillo ma neanche con lui vogliono avere rapporti. Vorrebbero insediare un governo provvisorio ma non sanno come fare e chi metterci. Hanno una vaga ispirazione fascista e infatti sono visti con simpatia da Casapound e da Forza Nuova; alcuni hanno anche sentimenti razzisti e antiebraici ma sono pochi. Nel frattempo ingombrano strade e città con centinaia di Tir. Gli spostamenti dei Tir sono costosi ma non si sa chi siano i finanziatori.
Questa è la situazione. Grillo comunque li osserva con interesse e Berlusconi con simpatia. Li avrebbe volentieri ricevuti ma poi l’incontro non c’è stato.
I Tir sono comunque il centro di queste manifestazioni. Ricordiamoci che fu la loro rivolta in Cile a mettere in ginocchio Allende aprendo la strada alla dittatura militare di Pinochet.
Da quanto par di capire oggi sembra però che i Tir siano disposti a trattare con il governo, anche se i capi della rivolta negano ogni possibilità di negoziato. Quanto ai disoccupati, i pensionati, i precari, si può fare ben poco finché la situazione economica non presenti miglioramenti sostanziali il che dovrebbe avvenire entro il prossimo semestre del 2014.
Intanto c’è un punto fermo e certificato: la recessione è finita. Il Pil negativo è aumentato di mezzo punto nello scorso trimestre e di un altro mezzo punto in questo, tornando in positivo; la produzione industriale è anch’essa in aumento. Il lavoro e i consumi non ancora. L’esportazione è largamente attiva. In altri tempi queste notizie avrebbero avuto ampia menzione nei telegiornali e sulla stampa, oggi sono ridotte al minimo e le cattive notizie hanno la meglio. Lo spread è a un minino di 226 e le aste dei titoli di Stato hanno rendimenti da minimo storico, ma nessuno se ne accorge.*** Le elezioni europee di primavera sono un appuntamento inquietante non solo per l’Italia ma per l’Europa intera, Germania compresa. I movimenti populisti, come quelli guidati dalla Le Pen, da Grillo e dalla Lega, sono presenti anche in Germania, in Grecia, in Irlanda, in Olanda, in Austria. Alcuni puntano su un nazionalismo vecchio stampo, naturalmente da loro guidato; altri su un Parlamento europeo ridotto all’impotenza dalla loro presenza minoritaria ma paralizzante; quasi tutti all’uscita dall’euro e al ritorno alla moneta nazionale. Su quest’ultimo punto i 5Stelle sono in testa a tutti gli altri.
In un paese normale basterebbe essere consapevoli di che cosa avverrebbe di una lira fuori dall’euro per far sì che il Movimento 5Stelle scomparisse dalla scena politica; invece viaggia tra il 21 e il 22 per cento con tendenza al rialzo. Come si spiega? Si spiega così: molti italiani pensano che le elezioni europee non contino niente e quindi possono servire a sfogare la rabbia che hanno in corpo e, siccome di rabbia ce n’è molta, sono molti quelli che voteranno Grillo.
La controprova sembra paradossale ma non lo è: molti elettori del Pd con sentimenti di sinistra non se la sono sentita di votare per Grillo e sapete che cosa hanno fatto? Hanno votato Renzi. Il maggior numero di votanti alle primarie che hanno scelto il sindaco di Firenze sono di sinistra. Questo governo non gli piace, Alfano non gli piace, il Nuovo centrodestra non gli piace. Vogliono un monocolore Pd e se necessario si tratti con Grillo; quanto ad Alfano, cammini a pecorone.
Ora parliamoci chiaro: Alfano non è certo Orlando a Roncisvalle e Renzi ha ragione quando contrappone i trecento deputati Pd ai trenta del Ncd, ma forse ignora che cosa sia l’utilità marginale. I trenta di Alfano rappresentano appunto l’utilità marginale. Se escono dall’alleanza la maggioranza non c’è più. E allora, caro neosegretario, che facciamo? Mi piacerebbe conoscere la risposta. So bene che molti non amano la parola “stabilità” applicata al governo. Vogliono che il governo faccia, non che sia stabile.
Rabelais aveva proprio ragione quando diceva che le parole si squagliano nelle mani di chi le prende e diventano gocce d’acqua. La parola stabilità è preliminare, solo se si è stabili si fa, se non si è stabili si cade per terra. Possibile che questo mi tocchi spiegarlo? È umiliante per chi lo spiega e soprattutto per chi da solo non ci arriva.
***
Il rapporto Letta-Renzi è già evidente da quanto fin quiho scritto e soprattutto da quanto vediamo da tempo e in particolare dalle primarie in poi. Oggi Renzi si presenta all’Assemblea del Pd per l’investitura ufficiale. Parlerà. Ascolteremo. Lui sa bene che il padre guardiano di Letta è Napolitano, a parte il fatto che Letta può fare anche a meno di padri guardiani.
La vera battaglia dell’Italia in questo momento è in Europa e per l’Europa e nessuno meglio di Letta può condurla.
Renzi nel frattempo dovrebbe occuparsi del partito. Se posso dargli un consiglio disinteressato si consulti con Fabrizio Barca. Una nuova generazione alla guida del partito è necessaria ma bisogna educarla. Non riesco a vedere nessuno adatto a questo compito. Renzi di partiti ne sa poco, ha talento ma poca esperienza. Comunque la fortuna aiuta gli audaci.
Intanto il fuoco dei cannoni da strapazzo si concentra su Napolitano. Spara Grillo, spara Travaglio, spara perfinoBarbara Spinelli. Que-st’ultimo nome mi addolora profondamente. Sento da tempo un profondo affetto per Barbara e stima per la sua conoscenza dei classici, della filosofia, delle scritture d’ogni tempo e luogo. Ma conosce poco o nulla la storia d’Italia quando pensa e scrive che la decadenza cominciò negli anni Settanta del secolo scorso e perdura tuttora.
Questo, cara Barbara, è un Paese dove parte del popolo è incline e succube di demagoghi di ogni risma. Cominciò – pensa un po’ – da Cola di Rienzo; ha sempre odiato lo Stato e le istituzioni; Mussolini non fu un incidente della nostra storia come pensava Croce, ma un fenomeno con caratteristiche antropologiche prima ancora che politiche, come disse Ferruccio Parri.
Ho letto nel tuo ultimo articolo che forse il grillismo potrebbe essere sperimentato. E ho anche ascoltato l’altro giorno i tuoi appunti su Napolitano affidati alla “recitazione” di Travaglio.
Ti assicuro che da questo momento in poi cancello dalla mia memoria quanto ho ora ricordato. Voglio solo pensare il meglio di te a cominciare dal fatto che sei la figlia di Altiero Spinelli. Ricordalo sempre anche tu e sarà il tuo maggior bene.

Repubblica 15.12.13
L’ideale che manca nell’Europa in crisi
di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini


Nell’attesa angosciosa di una improbabile ripresa di cui non si vede traccia, la situazione economica continua a precipitare. In Europa si è aggravata una condizione di progressivo contrasto tra paesi forti e paesi deboli, detto in termini più chiari tra la Germania e i paesi del Sud Europa. Ciò potrebbe portare a una crisi violenta non soltanto dell’Unione europea ma della stessa democrazia. L’alternativa a un esito così drammatico è rappresentata da un accordo immediato per cambiare radicalmente la strategia economica del Vecchio Continente. Si tratta di chiudere la stagione del rigore e di lanciare un grande piano di investimenti che permetta di rovesciare la linea di “attesa” scellerata che sta conducendo l’Europa al disastro. Che la Germania sia ancora una volta il soggetto responsabile della tragedia europea è una circostanza che sfida la convinzione secondo cui la storia non può ripetersi. Questa convinzione è una triste sciocchezza poiché la storia spesso si ripete sia pure con varianti. Occorre dunque lavorare per un accordo immediato tra i paesi europei al fine di superare questa situazione insostenibile. Se non sarà messo rapidamente in moto un nuovo ciclo di sviluppo, i contrasti all’interno dei paesi e tra le diverse aree economiche potrebbero evolvere verso un vero e proprio conflitto dalle conseguenze ora inimmaginabili.
Ma perché siamo arrivati a questo punto? Crediamo che uno dei motivi sia da attribuire alla scomparsa del socialismo liberale dal panorama della politica europea. Il socialismo liberale era l’unico ideale con un respiro continentale e universalista, che avrebbe potuto contrapporsi non solo all’Europa dei localismi, delle comunità omogenee e dei razzismi, ma anche al predominio del capitalismo finanziario. Il libero movimento dei capitali su scala globale non ha trovato ostacoli compromettendo la capacità dei governi di realizzare politiche economiche per lo sviluppo, indebolendo i lavoratori che sono stati messi sotto il ricatto delle delocalizzazioni produttive e arrivando a svuotare i sistemi democratici della loro capacità di rappresentanza.
Oggi stanno prevalendo il cinismo e l’aridità delle tecnocrazie e stanno riemergendo le pulsioni dei movimenti nazionalisti, mentre la rabbia, la protesta e la disperazione continuano a crescere di pari passo con la sfiducia nella politica e nelle istituzioni. L’incertezza che avvolge la storia attuale paralizza le decisioni e impedisce un’intesa socialista che promuova sviluppo e eguaglianza sociale. I partiti che si professano socialisti non sono stati capaci di realizzare gli ideali a cui dicono di ispirarsi.
L’Italia è un caso a parte poiché oggi non possiede un grande partito di massa di ispirazione socialista. Storicamente, il partito socialista, in altri paesi contrapposto ai partiti liberali o democristiani, è stato dapprima in posizione di sudditanza di un partito comunista anomalo e poi in una posizione di “alleanza competitiva” con la democrazia cristiana. Non era dunque una socialdemocrazia alternativa ai partiti conservatori, ma alleata con questi in un contesto concorrenziale. Il Partito Socialista Italiano ebbe un ruolo centrale nella politica italiana all’inizio degli anni Sessanta nei primi governi di centrosinistra con la stagione della programmazione economica. Il tentativo della sinistra “riformista”, che rappresentò il progetto di cambiamento più concreto del dopoguerra, fu stritolato in una morsa tra il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana. All’inizio degli anni ‘80 il Partito Socialista conquistò una posizione rilevante con la leadership di Craxi. Questa posizione purtroppo fu spesa in una politica di perseguimento puro e semplice del potere. In seguito al crollo dell’alleanza tra la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista, fu realizzato un imponente piano di privatizzazioni delle imprese e delle banche pubbliche. Tale piano rappresenta uno dei fattori all’origine del progressivo declino dell’economia italiana.
In conclusione, sarebbe quanto mai necessario riproporre gli ideali del socialismo liberale per fronteggiare la debolezza del capitalismo privato e per combattere la disoccupazione e il divario crescente nella distribuzione del reddito al fine di promuovere una riforma radicale dell’architettura politica europea.

il Fatto 15.12.13
L’intervista Emanuele Severino
Ecco perché la giovane Italia sta andando in malora
Gianni Cuperlo mi ha mandato il suo programma
Gli ho scritto che mi sembrava interessante e poi ho aggiunto che era il modo migliore per preservare il sistema capitalistico
Non mi ha risposto ma vorrei dirgli che non ero per nulla ironico
di Silvia Truzzi


PENSATORE PRECOCE
A 18 anni il primo libro, a 22 la libera docenza
Nel 1970 gli Acta Apostolica sanciscono l’inconciliabilità del suo pensiero con la Chiesa e lui lascia la Cattolica

EMANUELE SEVERINO è nato a Brescia il 26 febbraio 1929. Alunno del Collegio Borromeo, si laurea a Pavia nel 1950, discutendo una tesi su Heidegger e la metafisica con il suo maestro, Gustavo Bontadini. L’anno successivo, a 22 anni, ottiene la libera docenza in Filosofia teoretica. Dal 1954 al 1970 insegna Filosofia all’Università Cattolica di Milano (diventando ordinario nel ‘62). Le pubblicazioni di quegli anni entrano in forte conflitto con la dottrina ufficiale della Chiesa, suscitando discussioni nel mondo cattolico e nell'ex Sant'Uffizio. Nel 1970 la Chiesa proclama – negli Acta apostolica – l’insanabile opposizione tra il pensiero di Severino e il Cristianesimo. Viene chiamato all’Università Ca’ Foscari di Venezia dove è tra i fondatori della Facoltà di Lettere e Filosofia e dove ha diretto l’Istituto di Filosofia fino al 1989. Ha insegnato anche Logica, Storia della filosofia moderna e contemporanea e Sociologia. Nel 2005 l’ateneo veneziano l’ha proclamato Professore emerito. Insegna Ontologia fondamentale presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. È accademico dei Lincei e Cavaliere di Gran Croce. Da oltre trent’anni collabora con il Corriere della Sera.
L’umanità è molto vecchia, l’eredità, gli incroci hanno dato una forza insuperabile alle cattive abitudini, ai riflessi viziosi”, ammonisce Proust ne La prigioniera. Il taxi attraversa Brescia, gelida. L'indicazione stradale è precisa e, nel finale, perfino letteraria: “La via è lunga, io abito in quel tratto di strada dove amava passeggiare Foscolo”. Giunti nei pressi dei luoghi cari al poeta – che a Brescia, oltre ad amare appassionatamente una gentildonna, diede alle stampe i Sepolcri- si apre la porta di casa di Emanuele Severino. Entriamo non senza timori (ben riposti: il primo scivolone arriva al minuto tre, su un frammento de La gaia scienza di Nietzsche), in un soggiorno che ospita mille libri, un pianoforte a coda e un'imponente scultura del figlio Federico. È un Orfeo che ha perduto Euridice: “È così, testa a terra e piedi in aria”, spiega il professore, “e getta in faccia lo sconvolgimento del cuore”. Per capire qual è lo sguardo di un filosofo sull’Italia (e se Proust – di cui il professore si occupa ne La filosofia futura – aveva ragione), partiamo da Leopardi, perché al piano di sotto c’è uno studio “riservato” dove il professore ha scritto i due libri dedicati al poeta di Recanati.
Professore, quel “Piangi, che ben hai donde, Italia mia” è un grido di dolore sempre valido?
Sì, ma dobbiamo dire che le spiegazioni della crisi del nostro tempo rimangono molto in superficie anche quando vogliono andare in profondità. Il fenomeno di fondo, che non viene adeguatamente affrontato, è l’abbandono, nel mondo, dei valori della tradizione occidentale; e questo mentre le forme della modernità dell’Occidente si sono affermate dovunque. Un abbandono che si porta via ogni forma di assoluto – e innanzitutto Dio. Dio è morto...
... come la canzone...
Il professor Severino scoppia a ridere: Veramente come Nietzsche! Poi lui aggiunge: “E noi l’abbiamo ucciso”. Muore, dicevo, ogni forma di assolutezza e di assolutismo, dunque anche quella forma di assoluto che è lo Stato moderno, che detiene – dice Weber – “il monopolio legittimo della violenza”. Questo grande turbine che si porta via tutte le forme della tradizione è guidato dalla tecnica moderna – ed è irresistibile nella misura in cui ascolta la voce che proviene dal sottosuolo del pensiero filosofico del nostro tempo. Il turbine travolge anche le strutture statuali. Investe innanzitutto le forme più deboli di Stato.
Cosa pensa dei movimenti di piazza di queste settimane?
La trasformazione epocale di cui parlo non è indolore: il vecchio ordine non intende morire, ma è sempre più incapace di funzionare, soprattutto in Paesi come l’Italia. E il nuovo ordine non ha ancora preso le redini. È la fase più pericolosa (non solo per l’Italia).
La disperazione sociale è evidente e molto preoccupante.
Per quel che prima ho detto, la vita sociale, anche in Italia, non è più adeguatamente garantita. La protesta è inevitabile e la situazione potrebbe peggiorare. La “politica” autentica del nostro tempo consiste nel capire la radicalità della trasformazione in atto sul Pianeta, cioè deve lasciare la guida alla razionalità scientifico-tecnologica, destinata a imporsi con la morte del vecchio mondo.
Tra le forme più deboli di Stato c’è l’Italia?
L’Italia è uno Stato acerbo. Ha 150 anni su per giù. Ma soprattutto ha alle proprie spalle una storia di frazionamento politico-economico-sociale, dove si sono imposte forze che hanno avuto nel mondo un peso ben maggiore di quello dell’Italia unita. Pensi, ad esempio, allo Stato pontificio. La sua storia attraversa l’intera storia europea: qualcosa di molto più consistente e visibile che non l’Italia. Non mi sembra un caso che Putin venendo in Italia vada prima dal Papa, nel centro mondiale della cattolicità, e solo dopo da tutti gli altri… Un secondo esempio? La Repubblica di Venezia. A suo tempo era l’equivalente dell’Inghilterra del XIX secolo. Potenze, dunque che non solo sono state al centro della vita mondiale, ma hanno organizzato la società in modo che lo Stato italiano sarebbe poi stato avvertito come un corpo estraneo da gran parte della popolazione della Penisola. Di qui il marcato individualismo degli Italiani.
È questo il motivo per cui non abbiamo un senso dello Stato consolidato come in altri Paesi?
Sì, la “novità” del nostro Stato è tra i principali. Ma un secondo motivo – ce ne sono molti: parlo di quelli che qui mi vengono in mente – è che durante la Guerra fredda l’Italia ha avuto il più forte partito comunista dell’Occidente: il Pci è arrivato quasi al potere e in un modo democratico. Si verificarono due processi, diciamo concorrenti: il Pci andava progressivamente social-democratizzandosi e il consenso aumentava. Il problema era fare in modo che il primo processo fosse più veloce del secondo. Altrimenti sarebbero stati guai, nel senso di una reazione violenta del mondo occidentale che non avrebbe consentito all'Italia di entrare nella sfera di influenza sovietica. La marcia del comunismo verso la socialdemocrazia è uno degli esempi rilevanti di quello che chiamo “il tramonto degli immutabili” (cioè degli “dèi”). Il Pci era radicato nel marxismo, cioè, innanzitutto, in una filosofia. La cui crisi è iniziata quando la sinistra europea – si pensi ad esempio a Rudolf Hilferding – ha incominciato a spingere il comunismo da una gestione filosofica a una scientifica del movimento rivoluzionario, trasformandolo, appunto, in socialdemocrazia.
Però lei ha scritto un libro intitolato Capitalismo senza futuro.
Anche il capitalismo, infatti, ha alle spalle una visione filosofica prevalentemente assolutistica, del mondo (individuo e proprietà come valori assoluti). Gli si fa torto quando lo si tratta come un semplice mezzo per aumentare il profitto. In Italia è più debole; ma la presenza dell’assolutismo cattolico e, fino a ieri, di quello comunista fa si che l’abbandono della tradizione abbia da noi un maggiore effetto traumatico rispetto ad altri Paesi. Ma poi – ritornando al tema della mancanza di senso dello Stato – essa porta con sé individualismo esasperato e corruzione. E, in proposito, sembra che la Guerra fredda sia stata già dimenticata. È finita da pochissimo. In Occidente il comunismo è finito, ma è come se avessimo davanti un gigante morto. È in putrefazione, ma dà luogo a forme biologiche diverse e ingombranti. La contrapposizione tra il blocco sovietico e quello occidentale è stata una situazione di mors tua, vita mea. Ognuno ha adottato qualsiasi mezzo per contrastare l’avversario...
Per esempio?
Penso alla sostanziale “alleanza” tra Stati Uniti e mafia: meglio stare con i delinquenti non comunisti che con i comunisti. Ora, il denaro americano arrivava soprattutto per aiutare i partiti anticomunisti; ma la gestione politica di questo denaro non poteva essere un fatto pubblico; inevitabile, allora, la collusione tra Stato e illegalità. Che è sopravvissuta anche dopo la fine dell’Urss. D’altra parte la magistratura è stata ingenua nel voler assumere un atteggiamento all’insegna del fiat iustitia et pereat mundo.
Qual è stata l’ingenuità?
Pensare di poter spingere fino in fondo le indagini sulle responsabilità e illegalità prodottesi dalla inevitabile collusione tra Stato e criminalità .
Sta parlando di Tangentopoli?
Un esempio potrebbe essere questo. Ma vado anche più in là: mi riferisco al mondo capitalistico. La magistratura ha voluto fare qualcosa che non era accaduto nemmeno con la fine del fascismo. Togliatti non ha incriminato
correità. E nel nostro sistema l’azione penale è obbligatoria.
E questo produce un dramma! Non sto dicendo che si sarebbe potuto evitare. Il giudice è ovviamente obbligato a indagare e a dare sanzioni, ma è anche ovvio che il vincitore – il capitalismo – non accetta di essere punito per aver usato mezzi che gli hanno consentito di vincere il nemico mortale.
La lunga gestazione della decadenza di Berlusconi è la prova che non esiste una sanzione sociale per alcuni comportamenti. E questo determina che alla fine i giudici selezionano la classe politica, nel senso che se uno non è stato condannato può fare tutto quello che vuole. Se il presidente degli Stati Uniti dice una bugia si deve dimettere.
Ma certo! Aggiungo che 25 anni fa scrivevo, nel libro da lei richiamato, che era meglio che la Fininvest scendesse in campo politicamente, piuttosto che trattenere del tutto nell’ombra il proprio operare.
Lo sottoscrive?
Sì, meglio questo di una destra che agisce con lo stile della P2. Meglio, per l’Italia, che esprima pubblicamente i propri progetti, almeno in parte.
Anche se si fanno le leggi ad personam? Non è pericoloso dire certe cose in un Paese dove i magistrati vengono tacciati di essere un cancro?
Condivido il senso della domanda. Ma proprio perché ho scritto libri come Il declino del capitalismo e Capitalismo senza futuro, quanto le sto dicendo non può passare per un’apologia del capitalismo e delle sue degenerazioni. (Non è nemmeno un’apologia del marxismo). È la constatazione di alcuni dei fattori per i quali la destinazione della tecnica al dominio del mondo produce in Italia una crisi più grave che altrove. E non dimentichiamo le tragedie e gli scompensi determinati dalla dittatura fascista.
Che ricordi ha dell’Italia fascista?
Rispetto ai nostri temi sono irrilevanti. Il più terribile, per me, è un ricordo personale, legato alla morte di mio fratello Giuseppe nel 1942, ventunenne. Un giovane straordinario. Aveva otto anni più di me. Studente alla Normale di Pisa, era stato obbligato, per legge, a diventare volontario del Regio Esercito Italiano, nel Corpo degli Alpini, sul fronte francese: la sua morte mi ha segnato. Non posso dire di aver respirato, da ragazzino, l’esecrazione per quanto, in seguito, ho saputo e capito essere il fascismo. Ho studiato dai Gesuiti: ricordo il saluto fascista all’uscita della scuola. Lì ho incontrato padre Auer, che aveva conosciuto Hitler da vicino. Andavo a lezione da lui perché volevo imparare il tedesco. Era stato intimo del giovane Hitler e mi raccontava di un uomo assolutamente disturbato, che se le cose non andavano come lui voleva, aveva incredibili accessi d’ira, si rotolava per terra. Un matto. Nelle mie conversazioni con padre Auer, ripensandoci ora, davo per scontato che i nazisti fossero dei matti.
Si evoca, con una certa frequenza, un’incapacità dell’Italia di fare i conti con il passato. Cosa ne pensa?
Le rispondo parlando di un filosofo, Giovanni Gentile, che mio fratello ascoltava a Pisa, perché è stato la figura più profonda del fascismo. Amo dire che non era Gentile a essere fascista, ma il fascismo a tentar di essere gentiliano. Gentile è stato uno dei grandi gestori del “grande turbine” di cui parlavamo all’inizio: il suo pensiero è profondamente antiassolutista e antitotalitario, Mussolini non lo capiva. Da vecchio liberale aveva visto nel fascismo l’occasione per realizzare la sua riforma della scuola. Un’ottima riforma, per quell’Italia. Oggi – anche qui, per la debolezza delle nostre strutture statali – si fanno tra l’altro concorsi universitari dove si applicano retroattivamente disposizioni pateticamente dipendenti dalla cultura inglese e americana. Anche l’idea di studiare la filosofia da un punto di vista storico è sua: un’idea purtroppo rovinata dai manuali che non hanno capito che cosa sia un storia filosofica della filosofia. Comunque, gli scritti politici di Gentile considerano il fascismo come un “esperimento”, non certo come un assetto assoluto e immodificabile.
Evasione fiscale e corruzione: sono una nostra “tara genetica”?
Una tara storica, come prima le dicevo. L’evasione fiscale è un furto ai danni di tutti. Se c’è da costruire una strada io devo metterci anche la parte degli evasori. Certo, molti artigiani e piccoli imprenditori, se non evadessero, fallirebbero. Tutti sanno queste cose. Però conosco anche tanti cattolici ai quali molti uomini di Chiesa facevano capire che se non avessero ritenuto “giusto” pagare le tasse dello Stato, avrebbero fatto bene a non pagarle. Questo Papa, da buon pastore, sta cercando di cambiare le cose. Ma non vorrei che si perdesse di vista che la “corruzione” di fondo è l’“evasione” del mondo dal passato dell’Occidente. Vorrei dire che il processo in cui le strutture del passato stanno andando in malora è come la febbre: se non la si avesse non si potrebbe guarire. Stiamo andando verso un mondo gestito dalla razionalità tecnologica; ed è probabile che l’Italia, proprio perché ha avuto gli inconvenienti di cui abbiamo parlato, anticipi i tempi rispetto agli altri popoli meno febbricitanti. (Mi lasci dire anche, molto sottovoce, che nonostante la sua destinazione al dominio del mondo, la civiltà della tecnica è ciò che chiamo “la forma più rigorosa della Follia estrema”. Ancora più sottovoce: la Follia estrema è credere nel carattere effimero, temporale, contingente, casuale, dell’uomo e della realtà: è la convinzione che ogni cosa venga dal nulla e vi ritorni. Però la difesa suprema dall'angoscia suscitata da questa convinzione – la difesa che nella tradizione è costituita, in ultimo, da Dio – è diventata la tecnica. Ovunque, la tecnica sta diventando la forma più radicale di salvezza, che oggi ha soppiantato qualsiasi altra forma di rimedio contro la morte. Mi affretto a lasciare questo tema, tanto più importante quanto più a sottovoce ne parliamo).
Anche in politica ci si affida alla tecnica come extrema ratio. Si è trattato, nel caso del governo Monti, del disvelamento di una bugia?
Rispondo ad alta voce. Una quindicina d’anni fa avevo criticato sia Monti sia Abete quando promuovevano l’unione di “solidarietà” ed “efficienza” (capitalistica). Abete, allora presidente di Confindustria, declinava tale unione, mi sembra, sul piano di una solidarietà più laica che cattolica; Monti la intendeva come solidarietà cattolica. Ma l’“efficienza” capitalistica è incompatibile con la “solidarietà” in senso cristiano. Quando Monti divenne premier, scrissi un articolo sul Corriere della Sera in cui dicevo che l’affacciarsi del suo governo “tecnico” aveva ben poco a che vedere con la destinazione della tecnica al dominio, quale viene intesa nei miei scritti. Proprio perché Monti dichiarava di voler coniugare l’efficienza capitalistica con la solidarietà in senso cattolico, quel governo “tecnico” – era prettamente politico, un po’ mascherato. Ancora, l’economia comanda la politica e quindi un economista può essere più politicizzato (cioè “ideologizzato”) di un politico. Data la tendenza di fondo del corso storico ritengo tuttavia che ci si debbano aspettare governi che, sempre più, guidino le società sulla base dell'efficienza tecno-scientifica piuttosto che di quella capitalistica, e che a questa forma di efficienza resti sempre più subordinata l’istanza solidaristica.
Le ideologie sono morte ma forse sono scomparse anche le idee. Destra e sinistra esistono ancora?
In ogni gruppo sociale ci sono quelli soddisfatti del proprio tenore di vita e tendono alla conservazione – la “destra” – e quelli che invece soddisfatti non sono e tendono al cambiamento – la “sinistra”.
Qual è la visione del mondo dello schieramento “progressista”?
Guardi: l’onorevole Gianni Cuperlo mi ha mandato un’email con il suo programma, chiedendomi cosa ne pensassi. Gli ho risposto che era un programma interessante, anche per il suo intento di collegarsi alla sinistra europea. Poi ho aggiunto che il suo progetto era il modo migliore per salvaguardare il capitalismo. Non mi ha più risposto. Ma vorrei dirgli che in quella mia aggiunta non c’era ombra di ironia.
Perché il modo migliore per salvaguardare il capitalismo?
Ormai la sinistra, non solo italiana, non è più nemmeno socialdemocrazia, che mirava all’abolizione delle classi e del capitalismo per via democratica. Ormai anche il Pd è lontanissimo da queste aspirazioni, immerso com’è nella fede, peraltro diffusissima, della validità dell’organizzazione capitalista della società.
Curiosità mondana: guarda la televisione?
Quando c’è un buon film e, quasi sempre, il telegiornale.
E i talk show?
All’inizio i litigi dei politici erano abbastanza divertenti; adesso annoiano. Ma se vogliamo parlare di televisione non possiamo lasciar da parte Internet. C’è contesa per la “conquista dello spazio”; nemmeno il “cyberspazio” ha un unico padrone e i grandi gruppi economici se lo contendono. Chi vuole imporsi sul mercato, deve utilizzare televisione e Internet e tutti i mezzi telematici. Lo strumento (il mezzo) però è destinato a prevalere sugli scopi economico-ideologici. Anche perché ciò che più colpisce lo spettatore non è tanto il messaggio quanto piuttosto la capacità di Internet e televisione di comunicare qualsiasi messaggio. (Un esempio, questo – e torno a parlare sottovoce – del processo, inevitabile, nel quale la tecnica è destinata al dominio, cioè a servirsi, essa, delle grandi forze che ancora s’illudono di poter continuare, loro, a servirsi di essa. Ma nemmeno la tecnica ha l’ultima parola).


Severino ha scritto una sessantina di libri, da “La struttura originaria” a “Essenza del nichilismo”, da “Il destino della necessità” a “La gloria”, dai saggi dedicati a Eschilo a quelli che riguardano Leopardi e Nietzsche. I suoi editori sono Rizzoli – che nel 2011 ha pubblicato un volume autobiografico, “Il mio ricordo degli eterni” – e Adelphi, che dedica una collana agli scritti del filosofo. In basso da sinistra, Mario Monti, Silvio Berlusconi e Gianni Cuperlo Fotogramma / Dlm

L’Italia è storicamente allergica alle epurazioni?
Intendo dire che il capitalismo ha vinto la Guerra fredda; ed è ingenuo credere di poter trattare dal puro punto di vista giudiziario un fenomeno storico di questa portata.

l’Unità 15.12.13
Fernando L. Aguilar, europarlamentare socialista spagnolo:
«Si lasciano i candidati in mano agli interessi privati
Il Trattato di Lisbona va nella direzione opposta
Pericoloso lasciare il dominio alle lobby»
«Senza finanziamento pubblico la democrazia arretra»
Intervista di Marco Mongiello


L’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti è un passo indietro che lascia i candidati in mano agli interessi dei privati. È questa l’opinione capo delegazione dei socialisti spagnoli al Parlamento europeo, Juan Fernando López Aguilar, ex ministro della Giustizia di Zapatero ed ex segretario del Psoe. Oggi, ha spiegato l’eurodeputato a l’Unità, parlando al telefono in perfetto italiano, a Bruxelles si inizia a riconoscere il ruolo dei partititi politici europei ed è anche in discussione una proposta per assicurarne il finanziamento pubblico.
Cosa pensa della scelta del governo italiano di abolire il finanziamento pubblico ai partiti?
«Dal punto di vista costituzionale e politico non c’è dubbio che il finanziamento pubblico dei partiti politici è stato un grande progresso perché altrimenti l’unica alternativa è che i finanziamenti vengano dal potere privato e questo vuol dire diseguaglianza delle opportunità nei confronti dell’elettorato e dei cittadini e nella competizione elettorale. Nel secondo dopo guerra è stato un grande progresso la costituzionalizzazione del ruolo dei partiti politici e quindi del loro finanziamento pubblico».
Oggi però è proprio questo ruolo che viene messo in discussione...
«I poteri pubblici finanziano già altre organizzazioni private che hanno qualche ruolo pubblico che viene riconosciuto, come nel caso delle chiese, delle fondazioni, delle comunità culturali o delle organizzazioni umanitarie. Qualche sostegno pubblico ci deve essere. Si può discutere di che tipo, ma sopprimere completamente il sostegno pubblico significa annullare i progressi fatti dal secondo dopoguerra e aumentare la disparità delle opportunità nella competizione elettorale e quindi democratica».
In Spagna i partiti ricevono finanziamento pubblici?
«Si, in Spagna la materia è disciplinata dalla legge sul finanziamento dei partiti politici che garantisce almeno tre fonti di finanziamento pubblico. Il primo è il finanziamento dei partiti che abbiano ottenuto una qualche rappresentanza nei diversi livelli della competizione elettorale: locale, provinciale, regionale e nazionale. Il finanziamento pubblico è regolato in base al numero di seggi ottenuti. La seconda componente è una quantità minima nel bilancio statale riconosciuta a quei partiti che abbiano ottenuto una rappresentanza nelle elezioni nazionali. Questo
è un finanziamento permanente. Terzo, c’è un rimborso delle spese elettorali ogni volta che ci sono delle elezioni, sempre in proporzione dei consensi ricevuti, ma soltanto nell’anno in cui si tengono le elezioni, di qualunque tipo».
Il problema è che sia in Italia che in Spagna ci sono stati molti abusi... «Senz’altro questo è un aspetto a cui bisogna dare la massima attenzione. Bisogna contrastare non soltanto tutti i tipi di corruzione, ma anche gli sprechi di denaro pubblico e l’utilizzo non rendicontato. Su queste cose le critiche ci sono sempre, ma secondo me le critiche non possono condurre alla soppressione di qualsiasi tipo di finanziamento pubblico. Perché, insisto, questo sarebbe un passo indietro del progresso democratico. Come si può partecipare ad un elezione se non c’è un minimo di finanziamento pubblico dei partiti? L’unica alternativa resta la corruzione o la sottomissione dei singoli candidati a interessi specifici, cioè lo sponsor nella pratica può comprare il candidato. Questo significherebbe ridefinire da capo le regole del gioco come le abbiamo conosciute fino ad ora dal secondo dopoguerra»
A livello europeo ci sono delle normative o delle indicazioni su questi principi? «Si, in questa legislatura del Parlamento europeo è stata discussa un’iniziativa proprio sui partiti politici europei e sul finanziamento delle candidature al Parlamento europeo. La proposta non è stata ancora approvata, ma questo sarebbe coerente con il rilievo costituzionale dei partiti politici europei che è stato riconosciuto dal Trattato di Lisbona. Da questo punto di vista le novità introdotte dal Trattato di Lisbona sono le più importanti di tutta la storia dell’Europa. Oggi abbiamo il Parlamento europeo più potente della storia europea e, aggiungo io, il Parlamento più potente d’Europa. Si tratta di un’assemblea legislativa organizzata in base ai diversi gruppi parlamentari che va verso una politicizzazione delle elezioni facendo in modo che il Consiglio europeo debba scegliere come presidente della Commissione il capolista delle lista che ha ottenuto più consensi nelle elezioni europee. Per questo una conseguenza naturale del Trattato di Lisbona è quella di stimolare la conformazione di grandi strutture trasversali che possano essere chiamati propriamente partiti politici europei. È quello senz’altro l’orizzonte verso cui lavora il Partito Socialista Europeo, che a fine febbraio a Roma ufficializzerà la candidatura per la Commissione, probabilmente nella persona di Martin Schulz».

l’Unità 15.12.13
Grosse koalition, la Spd dice sì
Il referendum interno al partito approva con il 75,9% l’alleanza di governo con Cdu-Csu
Gabriel a Energia e Economia, Schäuble resterà alle Finanze
di Paolo Soldini


La grosse Koalition a Berlino è cosa fatta. Oggi dovrebbero essere resi noti i nomi dei ministri e forse martedì Angela Merkel potrà presentare il nuovo governo al Bundestag ed essere rieletta cancelliera, a quasi tre mesi dal voto che l’ha vista trionfare e al termine di un negoziato sul programma che è stato molto serrato e che si è protratto oltre le previsioni.
L’ultima incertezza è caduta ieri intorno all’ora di pranzo, quando i media on line hanno diffuso le prime indiscrezioni sui risultati del referendum con il quale i dirigenti della Spd hanno sondato la base del partito. Più di tre quarti dei 369.680 militanti che hanno partecipato al voto su 474.820 iscritti si sono espressi a favore dell’alleanza con la Cdu e la Csu: il sì ha raccolto il 75,96%, il no il 23,95. Quasi inesistenti voti nulli e astensioni, pur se circa 30mila schede in un primo momento erano state cassate nello spoglio preliminare a Lipsia, perché non erano accompagnate dalla dichiarazione sull’onore prescritta per evitare confusioni e doppi voti. Le schede valide poi sono state portate a Berlino per essere scrutinate ufficialmente. Una così larga consultazione alla base di un partito costituisce una novità assoluta nella Repubblica federale. Una significativa prova di democrazia, come hanno sottolineato i commentatori politici senza distinzione tra sinistra e destra.
UNA DONNA ALLA DIFESA
Scontata la soddisfazione espressa da Sigmar Gabriel già prima della conferenza stampa ufficiale sui risultati. Il presidente socialdemocratico sul sì del partito alla scelta dei vertici per la grosse Koalition aveva puntato tutte le sue carte e se avesse perso (e forse anche se il risultato non fosse stato così netto) le sue dimissioni sarebbero state inevitabili. Qualche brivido lo aveva anche sfiorato, quando al congresso del partito, qualche settimana fa, era stato rieletto con meno voti di quanti tutti si aspettavano. Poi, dopo qualche giorno, aveva dovuto incassare un pesante no all’alleanza con i partiti democristiani dal congresso federale degli Jusos, i giovani socialdemocratici, nonostante la sua appassionata difesa del compromesso raggiunto con Angela Merkel.
Per quanto riguarda i futuri ministri, per ora sono definiti con sicurezza solo i sei che negli accordi stipulati nelle lunghe trattative sono stati riservati alla Spd. Gabriel farà parte del nuovo gabinetto come ministro dell’Economia e dell’Energia. In questo ruolo avrà una grossa responsabilità nella gestione della svolta che in materia di fonti energetiche dovrà essere portata a termine, consolidando la rinuncia al nucleare compiuta per volere della cancelliera dopo l’incidente di Fukushima. Come titolare dell’Economia, il presidente socialdemocratico condividerà gli impegni del governo di Berlino nell’Unione europea e nell’Eurozona con Wolfgang Schäuble, il potente ministro delle Finanze cristiano-democratico che, contrariamente alle aspettative che lo volevano agli Esteri, resta al suo posto. A capo della diplomazia tedesca sarà invece Frank-Walter Steinmeier, e si tratterà di un ritorno giacché l’uomo, che è stato negli ultimi anni capo del gruppo parlamentare Spd al Bundestag, ha già esercitato quel ruolo, insieme alla vicecancelleria, nella prima grosse Koalition guidata da Frau Merkel tra il 2005 e il 2009. A dirigere la frazione parlamentare dovrebbe andare Thomas Oppermann, che lascerà il suo ruolo attuale di responsabile organizzativo alla deputata dell’Assia Christine Lambrecht. Ministra del Lavoro sarà l’attuale segretaria generale socialdemocratica Andrea Nahles, che anni fa fu presidente degli Jusos ed è stata legata alla sinistra del partito. A sorpresa, ad occupare il posto di ministro della Giustizia sarà l’attuale vicepresidente del Land della Saar Heiko Maas. Agli Affari sociali e alla Famiglia andrà Manuela Schwesig, proveniente dalla Pomerania e molto apprezzata nei Länder dell’est. Infine, all’attuale tesoriera della Spd Barbara Hendricks toccherà il ministero dell’Ambiente, occupato finora dal cristiano-democratico Peter Altmeier.
Ancora incertezze, invece, tra i cristiano-democratici (che avranno cinque ministri più la cancelliera) e i cristiano-sociali (cui andranno tre dicasteri). Qui la sorpresa sarebbe il passaggio dell’attuale ministra agli Affari sociali Ursula von der Leyen (Cdu) dalla responsabilità della Sanità cui pareva destinata fino a ieri al più prestigioso e finora sempre al maschile ministero della Difesa, in cui sostituirebbe il collega di partito Thomas de Mezières che pare andrebbe agli Interni al posto del cristiano-sociale Friedrich Zimmermann, alquanto contestato per le debolezze mostrate nella gestione del datagate. Fin qui le indiscrezioni, tra oggi e domani arriveranno le certezze.

il Fatto 15.12.13
Germania, la Merkel vince anche nella Spd: larghe intese
Il 76 per cento della base socialdemocratica dice sì al governo di Grosse Koalition
Il vice Cancelliere sarà il leader del partito Gabriel
La turca Ozoguz all’integrazione
di Mattia Eccheli


Berlino Sotto l’albero di Natale, i socialdemocratici tedeschi hanno fatto trovare alla cancelliera uscente Angela Merkel (che diventa così anche entrante) un ampio consenso alla terza große koalition. La temuta consultazione tra i quasi 475 mila iscritti annunciata dal segretario Sigmar Gabriel alla vigilia delle trattative con la Cdu/Csu si è trasformata in un plebiscito per il governo delle larghe intese. Con un impressionante 75,96% di “sì”, gli aderenti alla Spd hanno avallato il programma della prossima legislatura aprendo così la strada alla formazione dell’esecutivo. Ancora più impressionante è stata la partecipazione, che ha sfiorato il 78 per cento quando sarebbe bastato il 20. Dopo aver raggiunto l’intesa, alla fine di novembre, la Spd ha inviato a tutti gli aderenti le 185 pagine dell’agenda di governo. Entro il 12 dicembre gli iscritti hanno dovuto inviare le schede, il cui spoglio è cominciato l’altra notte all’una grazie a 400 volontari.
RISULTATO e affluenza hanno rafforzato il gruppo dirigente del partito, che dopo il “via libera” del parlamentino all’apertura delle trattative era stato riconfermato con consensi meno ampi che in passato. Secondo il segretario la consultazione è stata un “celebrazione della democrazia interna”. L’operazione ha anche fruttato tremila nuovi iscritti, oltre che mobilitato le sezioni, all’interno delle quali si è discusso molto e tutti i “big” hanno dovuto spendersi in questa sorta di nuova campagna elettorale a sostegno del governo delle larghe intese. “In trentasei anni, da quando faccio parte della Spd – ha dichiarato un euforico Gabriel – non ho mai visto il mio partito così politicamente coinvolto”. L’edizione online del quotidiano economico finanziario Handelsblatt ha raffreddato gli entusiasmi con un gelido editoriale dal titolo “Re oggi, servo domani” riferito proprio al segretario Gabriel. Alla coalizione cristianodemocratica, la Spd era riuscita a strappare il salario minimo, seppur solo dal 2015 e con deroghe fino al 2017, uno dei grandi obiettivi del partito che proprio in occasione del 150° dalla nascita torna al governo. Il vice cancelliere sarà lo stesso Gabriel che si occuperà di economia ed energia. Gli altri ministri socialdemocratici saranno Frank-Walter Steinmeier (confermato agli esteri), Barbara Hendricks (ambiente), Andrea Nahles (lavoro), Manuela Schwesig (famiglia), Heiko Maas (giustizia). E Aydan Ozoguz, vicepresidente della Spd, una figlia di immigrati turchi per la prima volta responsabile dell’integrazione.
LA VERA sorpresa arriverebbe dalle file della Cdu: l’ex responsabile del lavoro, Ursula von der Leyen, verrebbe promossa alla difesa al posto di uno degli uomini di fiducia della cancelliera, Thomas de Maizière, che pagherebbe lo scandalo sui droni. Von der Leyen sarebbe la prima donna ad assumere questo incarico in Germania. Il ministero della salute andrebbe a Hermann Gröhe, il numero due della Cdu. Ai trasporti sembra sicuro Alexander Dobrindt, il segretario generale della Csu, che subentrerebbe al collega di partito Ramsauer.
A tre mesi di distanza dal voto del 22 settembre, la politica tedesca procede adesso a velocità sostenuta: lunedì la firma dell’accordo di programma, martedì il voto sulla cancelliera ed entro Natale l’insediamento del nuovo esecutivo. Un governo forte: i partiti di opposizione, Verdi (Grüne) e sinistra radicale (Linke), hanno poco più del 20%, 127 seggi su 630.

l’Unità 15.12.13
Afghanistan l’ultima sfida
La lotta delle donne per i diritti contro la lapidazione di Stato
Scampato pericolo ma le attiviste non si fidano
Selay Ghaffar denuncia la spregiudicatezza dei giudici fondamentalisti
che lavorano alla riforma del sistema legale in direzione sempre più reazionaria
di Cristiana Cella


KARZAI RESPINGE LA PROPOSTA DI LEGGE SUL RITORNO DELLA LAPIDAZIONE E LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE TIRA UN SOSPIRO DI SOLLIEVO. Il ministro della Giustizia afferma che c’è stato un equivoco. Il caso sembra archiviato come una falsa mossa. Ma le attiviste dei diritti delle donne non si fidano di affermazioni ambigue, sotto la spinta dell’opinione pubblica mondiale. La proposta di legge, divulgata dal Guardian, e poi rientrata, è un segnale allarmante dell’audacia dei giudici fondamentalisti, che lavorano sulla riforma del sistema legale, evidentemente consapevoli dell’accordo del Parlamento.
«Non si tratta afferma Selay Ghaffar, in visita in Italia in questi giorni di una mossa isolata ma di un pericoloso processo, già ampiamente in corso». Selay ha denunciato con forza, in ogni suo incontro istituzionale o dibattito pubblico, la drammatica deriva dei diritti delle donne in Afghanistan. «Le leggi che le proteggono, sancite dalla Costituzione, vengono erose, passo dopo passo dal parlamento di Karzai. Come, ad esempio, la norma che stabiliva a 16 anni l’età minima per il matrimonio, recentemente cancellata. Il matrimonio forzato precoce, che raggiunge in Afghanistan il 52%, continuerà a devastare la vita e la salute delle bambine, senza alcuna sanzione».
Lo stesso accade per la legge Evaw, (per l’eliminazione della violenza contro le donne) sottoscritta da Karzai nel 2009, e già poco applicata. Il Parlamento ha messo in discussione gran parte dei suoi articoli come antislamici e rischia di essere, a poco a poco, eliminata. Così, il ricorso alla legge si fa sempre più difficile e i casi di violenza potrebbero non essere più perseguibili. L’impunità, sempre più diffusa, toglie qualsiasi freno alla barbarie. Come nel luglio scorso, quando i torturatori della piccola Sahar Gul, legati al potere politico, sono stati liberati, senza nemmeno avvertire le parti in causa. Violenza domestica, stupro, traffico e prostituzione forzata, droga, insicurezza nelle strade, minacce per chi cerca di contrastarla, sono casi con cui ogni giorno, specialmente nelle province, si confrontano le operatrici di Hawca.
A questo si aggiunge l’abbassamento progressivo delle quote di presenza femminile, nel Parlamento e nella pubblica amministrazione, dove è, ormai, al 9% e potrebbe scendere ancora.
«Si tratta spiega Selaydi una violenza di sistema, un progetto che sottrae e rende inefficaci le poche conquiste ottenute. Significa che le donne, passo dopo passo, devono essere rispedite dentro le case, private dei loro diritti». A scapito del sistema legale, riformato proprio dagli italiani, il Governo incoraggia la giustizia informale, basata su sharìa e norme tribali tradizionali. Invece di formare avvocati, procuratori, poliziotti, in grado di contrastare la violenza, si lasciano agire, sempre di più, la jirga o consiglio locale, formato da anziani e mullah, e la «polizia locale», milizie private, spesso responsabili di abusi.
Selay ci fa l’esempio di un recente caso di stupro, «risolto» nella jirga locale. La sentenza prevede che la famiglia del colpevole offra alla famiglia della ragazza offesa, 9 donne consanguinee in ripaazione del torto. Ma le figlie sono solo 4, così si dovranno consegnare anche le cugine, alcune solo bambine. È la legge tribale, il baad. A volte, poi, i casi «spariscono».
«Ci siamo trovate in tribunale per discutere il caso di una bambina, violentata da un gruppo di uomini, appartenenti a una famiglia potente. Il giudice ci ha chiesto: “Quale caso? Non c’è nessun caso”».
Il Governo prepara il terreno per accogliere i talebani, già comunque al potere in molte parti del paese, dove applicano la loro legge, compresa la lapidazione. Del resto non c’è molto da aspettarsi da un Parlamento, formato in gran parte da signori della guerra fondamentalisti, che ne condividono il credo, né dal prossimo, che uscirà dalle elezioni del prossimo anno. I candidati sono sempre gli stessi. Poco si aspetta Selay anche dalle donne parlamentari, che pure sono tante. La maggior parte appartiene ai partiti fondamentalisti e non alza un dito a favore dei diritti. Le poche che lo fanno sono costantemente minacciate. «Nessuna legge, per quanto buona, ga-
rantirà le donne, in un Parlamento che non le rispetta. La Comunità Internazionale ha una grande responsabilità. Perché continua a sostenerlo e perché permette che le leggi e la Costituzione, da loro stessi promosse, vengano disgregate, non applicate, distrutte. Muoversi solo nei casi estremi, come per la lapidazione, non basta. I diritti delle donne devono essere al primo posto dell’agenda politica».
Alla conferenza di Tokyo, l’Italia si era fatta promotrice di una nuova sfida al Governo di Karzai: aiuti in cambio di diritti. Una strada, secondo Selay, praticabile per fare pressione sul governo. «Dovete porre delle condizioni al governo afghano, vincolando i fondi al rispetto dei diritti delle donne, e controllarne la destinazione e l’efficacia. Altrimenti si alimenta solo la corruzione». È questo l’impegno che Selay chiede ai governi dell’Europa. «Nessuno ci regalerà i nostri diritti conclude questo lo sappiamo, dobbiamo combattere, anche a rischio della vita, e le donne afghane lo faranno sempre di più. Ma almeno aiutateci a non combattere disarmate».

l’Unità 15.12.13
Un Coniglio di giada porta la Cina sulla Luna
Gli Stati Uniti hanno tagliato i fondi alla ricerca. Si aprono nuovi orizzonti per il gigante asiatico
Atterraggio morbido della sonda Yutu sulla superficie lunare alle 21,12 di ieri
Una missione compiuta finora solo da Usa e Urss, Pechino nuova potenza spaziale
di Virginia Lori


Ventuno e dodici minuti, ora di Pechino. È il momento esatto che consacra l’ingresso della Cina nella sua era spaziale, con l’allunaggio della sonda Yutu, Coniglio di giada, lanciata lo scorso 2 dicembre e trasportata a bordo della navicella Chang’e3, grazie alla spinta del razzo Lunga marcia 3B. Erano 37 anni che sulla Luna non arrivava una missione terrestre, eravamo ancora nel Novecento, una distanza siderale, e la Cina era lontana dal diventare il gigante che è. Oggi Coniglio di giada annuncia al mondo che Pechino ha tutte le carte per trasformarsi in una super-potenza ad ogni livello: finora il suolo lunare era stato toccato solo dalla tecnologia statunitense e sovietica.
Le tv di Stato cinesi hanno mostrato in diretta le immagini dell’arrivo sulla Luna. La navicella ha ridotto la sua velocità a 15 chilometri orari a poca distanza dalla superficie lunare. A 100 metri dal suolo ha attivato i propulsori per consentire una discesa mobida, spegnendoli a soli 4 metri dal contatto. Per l’allunaggio è stata scelta un’area pianeggiante, senza grandi masse rocciose, la Baia degli arcobaleni, parte del Mare Imbrium l’occhio destro del volto che da terra sembra di vedere sulla Luna.
DODICI MINUTI
In tutto ci sono voluti 12 minuti. Poi è stato il tempo di mandare una cartolina a casa un’immagine rossastra della superficie butterata del nostro satellite in attesa di calare la piccola rampa per la discesa di Yutu, rover di 120 chili di peso, che con una velocità oraria di 200 metri raccoglierà e invierà dati a terra e testerà le nuove tecnologie cinesi. La navicella e Coniglio di giada un nome scelto con una consultazione online alla quale hanno partecipato 3,4 milioni di persone e che richiama una leggenda cinese secondo la quale sulla Luna viveva un coniglio della dea Chang’e come primo compito dovranno fotografarsi a vicenda e inviare le immagini a terra.
«La Cina sta dicendo: stiamo facendo qualcosa che solo altri due Paesi al mondo hanno fatto prima gli Stati Uniti e l’Unione sovietica», questo il messaggio che arriva da Pechino secondo Dean Cheng, ricercatore della Heritage Foundation. Non è in realtà la prima avventura spaziale di Pechino. Un’altra navicella cinese in passato ha orbitato intorno alla Luna e raccolto dati, prima di compiere uno schianto programmato sul suolo lunare. La Cina ha inviato il suo primo astronauta nello spazio nel 2003. Stavolta però c’è un salto di qualità della missione. Il rover sarà controllato da terra in diverse fasi delle sue passeggiate lunari e con ogni probabilità avrà il compito di preparare un’eventuale missione umana sulla Luna, nel prossimo decennio.
Oltre alla ricaduta tecnologica e militare, l’ambizioso programma spaziale della Cina è sostenuto dall’esercito e la presenza di Yutu avrà anche una funzione di presidio spaziale per monitorare le attività altrui la missione lunare di Coniglio di giada vuole anche segnalare la candidatura cinese ad ospitare prossimi lanci di natura commerciale nello spazio, in concorrenza con quelli che finora sono stati leader nel settore. Gli Stati Uniti detengono ancora una netta supremazia tecnologica nel settore spaziale, ma Washington alle prese con i conti pubblici in rosso ha stretto i cordoni della borsa alla Nasa e la ricerca ne soffre. Al contrario, Pechino sta investendo enormemente, in questo come in altri settori, e sta mostrando una capacità insospettata fino a pochi anni fa. «Con l’esplorazione spaziale Usa moribonda, si apre una finestra alla Cina per essere percepita come leader della tecnologia globale, nonostante gli Stati Uniti abbiano ancora più assets nello spazio e una tecnologia più avanzata», sottolinea Joan Johnson-Freese dello Us Naval War College.
Pechino ha già in programma per il 2017 una missione per raccogliere campioni lunari da riportare a terra. Poi se tutto procede toccherà agli astronauti cinesi.

l’Unità 15.12.13
Utopia, come tu mi vuoi
Nonostante i tempi che corrono il tema torna di gran moda
Ideale critico come criterio di giudizio, progetto politico istituzionale, sogno del paradiso in terra O anche polemica contro le sinistre movimentistiche che sognano il crollo indolore del capitalismo
Vi proponiamo quattro libri per riflettere e ritrovarla al di là dei fallimenti del ’900
di Romano Madera
psicoanalista


IL CLIMA NON SEMBRA AFFATTO FAVOREVOLE AL RIFIORIRE DELLA SPERANZA UTOPICA, E INVECE FORSE PER COMPENSAZIONE? – ecco in pochi mesi quattro libri che in diverso modo cercano qualche nuova pista per procedere oltre i fallimenti del Novecento. In ordine di uscita: Paolo Prodi, Profezia vs utopia (Il Mulino), Carlo Altini, Utopia (Il Mulino), Luigi Zoja, Utopie minimaliste (Chiarelettere), Carlo Formenti, Utopie letali (Jaka Book).
Il libro di Altini (studioso di filosofia politica, direttore scientifico della Fondazione S. Carlo di Modena) è una sorta di grande affresco dell’immaginazione utopica che rifugge dalla pretesa di darne una definizione univoca: ideale critico come criterio di giudizio, progetto politico-istituzionale, sogno del paradiso in terra sono alcune delle funzioni di questo genere letterario che compongono, in contrasto tra loro o in diversa mistura alla ricerca di una sintesi, il paesaggio dell’utopia moderna. Un’utopia che sembra in presa diretta con l’anima della modernità: poter dare forma compiutamente umana al mondo. In questo ruolo l’utopia rimane irrinunciabile, ma deve spogliarsi della pretesa di imporre il suo sogno, per trattenere invece la spinta critica a non rassegnarsi al dato. Altrimenti, come si è verificato troppo spesso, la speranza si rivolta in crudele distopia, in una sorta di sanguinoso stupro dell’umanità reale per estrarne il fantasma impossibile dell’idealità astratta, a copertura di interessi, tanto ristretti quanto mostruosi, di una cerchia di nuovi oppressori.
Proprio sulla possibilità che l’utopia abbia trovato la sua genesi nella perdita del senso della dimensione trascendente, nella quale si radica la profezia come denuncia dell’ingiustizia nelle istituzioni, si dispiega il lavoro di Paolo Prodi (uno dei più importanti storici italiani). È in questa distensione temporale secolarizzata della profezia che lo spirito utopico approda al contrario della volontà critica che l’aveva partorito.
Il superamento della tendenza massimalista un intero capitolo è dedicato allo smontaggio della fabbrica mitologica del guevarismo è l’obbiettivo dichiarato di Luigi Zoja (psicoanalista e saggista, già presidente dell’associazione internazionale junghiana), teso a riportare il desiderio utopico al suo baricentro concreto, l’attenzione alla vita reale. L’utopia minimalista va dritta all’essenza. Nel piccolo è nascosto il più grande, una volta evitata l’inflazione che, gonfiata dall’ideologia della liberazione dal male proiettato paranoicamente sull’altro, si tramuta in fabbrica dell’oppressione.
Oppressione che si avvita su stessa, autentico doppio legame: andiamo all’assalto del cielo e, siccome al cielo non si arriva, la caduta dovrà essere pagata con l’ulteriore confisca della vita quotidiana, colpevole di ostacolare le sorti magnifiche e progressive propagandate dai gruppi dirigenti. Peraltro assai presto ammorbati da una inestinguibile sete di potere, di averi e di piaceri meschini (gli esempi sono davvero troppi, si fa fatica a trovarne qualcuno che smentisca la generalizzazione). Ma il rovescio dell’utopia sembra altrettanto disperante: «fatalismo, depressione di massa, smarrimento di veri desideri condivisi». Un mondo trascinato da un’ avidità corrosiva della stessa sua base naturale, sotto la quale si intravvede il male psicologico collettivo di fondo: uno stato di incoscienza trascinato perversamente a distruggere per consumare qui e ora, scaricando sugli altri ogni responsabilità, in una ebetudine fasciata di onnipotenza. L’epoca della post-utopia sembra annunciare una regressione antropologica: l’uomo post-sapiens. L’utopia minimalista cerca una via d’uscita alla tenaglia che inchioda i due opposti polari, l’indifferenza e la protesta tutta esteriore, infantile nel suo negare il necessario lavoro del tempo, paranoica nel suo additare i capri espiatori.
Così il lavoro interiore, la ricerca della individuazione (nel solco di Jung e di Neumann) come capacità di distacco dagli stereotipi della prestazione, potrebbe diventare un bisogno sociale. Qualche segno diffuso nei diecimila rivoli dell’impegno ecologico, della lenta trasformazione sociale verso una diminuzione delle uguaglianze di opportunità e di reddito (l’ex guerrigliero uruguayano, ora presidente, Pepe Mujica, l’azione di governo di Lula in Brasile, gli anni della presidenza socialista in Cile e l’esempio delle socialdemocrazie nordiche, sono alcuni degli esempi portati da Zoja), sembra aprire una porta stretta dalla quale è necessario passare se non si vuole attendere che la natura starnutisca «rifiutando gli umani come un polline fastidioso».
Di tutta’altro genere Utopie letali il libro di Carlo Formenti (sociologo, fra i maggiori esperti dei nuovi media): una dura polemica contro le sinistre «movimentistiche» che «hanno sostituito le velleità rivoluzionarie con il sogno del crollo indolore del capitalismo che dovrebbe essere provocato da improbabili mutazioni della psicologia e dell’antropologia individuali, oppure dalle lunghe marce per i nuovi diritti, o dall’invenzione di terze vie che ci proiettino oltre la dicotomia tra pubblico e privato...».
Utopie letali perché invece di canalizzare l’energia antagonistica anticapitalistica sarebbero corrive con l’ideologia liberale, se non addirittura liberista («ideologia criminale» secondo l’autore). L’argomentazione si snoda a partire da un’analisi della fase dell’accumulazione capitalistica che attraverso finanziarizzazione e globalizzazione ha cambiato i rapporti tra le classi con una vittoriosa «guerra di classe dall’alto». Di qui l’individuazione di un nuovo possibile fronte antagonista che potrebbe unire la classe operaia dei Brics con i precari del terziario arretrato negli Usa e in Europa, le moltitudini dei migranti e le masse indigene e contadine dell’America Latina. Nessuna forza efficace tuttavia, secondo Formenti, potrà nascere se non abbandonando lo spontaneismo e il culturalismo che non riconosce il criterio identitario nella collocazione produttiva.
Le tesi politiche dell’autore riprendono poi il concetto di transizione e dei suoi strumenti, partito e stato da riprogettare per poter entrare in una fase postcapitalista. L’acutezza dell’analisi socioeconomica non sembra tuttavia poter supplire l’assenza di una critica della radicale mancanza «soggettiva» – della povertà simbolica, avrebbe detto Bloch – che ha tragicamente accompagnato i movimenti rivoluzionari e i loro tentativi di farsi partito egemone o stato. Se, come Formenti sostiene, occorre un «progetto rivoluzionario cosciente e organizzato» diventa gioco forza pensare a quelle umane soggettività che dovrebbero crearlo e a come potrebbero cambiare se stesse mentre cercano di cambiare il mondo. Se invece si rigetta come radicalmente inadeguato tutto ciò che si muove nel senso di una faticosa presa di coscienza della insostenibilità della civiltà dell’accumulazione economica, allora le tesi di Formenti sembrano, pur con tutte le novità del caso, riproporre la fantapolitica, generosa ma inconcludente, della nostra comune gioventù anni settanta.

Corriere 15.12.13
«Non si governa solo con la fredda razionalità»
Martha Nussbaum: la politica non vive senza emozioni
di Giuseppe Sarcina


BOLOGNA — L’idea di Nazione (con la maiuscola) divide istintivamente gli studiosi e l’opinione pubblica. La parola «patriottismo» evoca sentimenti retorici, palesemente logorati nell’epoca dell’interdipendenza mondiale. Ma non sempre è così, sostiene, forse un po’ a sorpresa, la filosofa Martha Nussbaum, nata a New York nel 1947.
Il suo percorso comincia nel 1986 con il libro La fragilità del bene , dove mette in luce la vulnerabilità dei principi etici, per poi approdare all’analisi delle teorie in tema di giustizia sociale.
Lo schema per compiere scelte pubbliche sui «beni primari» in modo imparziale, messo a punto da John Rawls (Una teoria della giustizia , 1971), va corretto, secondo Nussbaum, con la versione redistributiva proposta da Amartya Sen. Ma non è sufficiente. Per la studiosa americana è necessario prendere in considerazione un’altra, decisiva variante: le emozioni. A Bologna, ospite della ventinovesima edizione della «Lettura del Mulino», Marta Nussbaum ha offerto un estratto del suo ultimo libro, Le emozioni politiche. Quanto conta l’amore per la giustizia , che in Italia uscirà fra qualche mese presso lo stesso Mulino, la casa editrice bolognese che ha pubblicato gran parte delle sue opere.
Incontrando i giornalisti, la filosofa ha fornito una chiave di lettura utile anche per l’attualità europea: «Chi fa politica spesso considera le emozioni come un aspetto estraneo all’attività pubblica, lasciando il monopolio delle spinte emotive alle forze populiste. È un errore che chi lotta per la giustizia non dovrebbe commettere».
Il concetto di patriottismo si presta a questo tipo di verifica, che ieri Nussbaum ha condotto nell’Aula magna dell’Università, davanti, tra gli altri, a Romano Prodi, ai ministri Fabrizio Saccomanni e Carlo Trigilia, al governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco.
«Il patriottismo ha il volto di Giano», un significato bifronte, ha esordito la filosofa, citando quanto accadde a Chicago (città dove ora insegna) nel 1892, all’epoca della «Columbian Exposition». L’evento si trasformò in una dimostrazione plastica di segregazione, con l’esclusione dei neri e delle fasce più povere della popolazione, proprio nel momento in cui si sarebbe dovuta celebrare, invece, l’unità della nazione americana. «Il patriottismo — sono le parole di Nussbaum — è come Giano. Guarda all’esterno, richiamando l’individuo ai suoi doveri verso gli altri, al sacrificio per il bene comune. Eppure, con altrettanta chiarezza, guarda all’interno, invitando coloro che reputano se stessi “buoni” o “veri” americani a distinguersi dagli stranieri e dai sovversivi, e quindi ad escluderli».
Da quel 1892 il patriottismo ha seminato sciagure nel mondo. La relatrice del Mulino cita, un caso su tutti, il patriottismo-nazionalismo di Hitler. Nello stesso tempo però altri sentimenti, altre forze si sono fatte valere, «hanno contato nella storia». Nussbaum torna indietro fino a Giuseppe Mazzini, alla sua etica del sacrificio ispirata all’amore per la patria. I «buoni esempi» continuano con Abraham Lincoln, Martin Luther King, Gandhi.
In termini morali il sentimento positivo del patriottismo significa superare il ripiegamento su se stessi, per avidità ed egoismo. In termini politico-filosofici si traduce nella capacità di evitare «i tre pericoli della passione patriottica sbagliata», che Nussbaum paragona al mostro a tre teste di Scilla. Vale a dire: «l’esclusione» di una parte dei cittadini; «la coercizione», cioè l’obbligo a sottostare alle ritualità retoriche della nazione; «l’uniformità acritica», il conformismo nel nome astratto della patria.
Dall’altro lato il «buon patriottismo» deve essere in grado di scantonare anche «il gorgo di Cariddi»: l’atteggiamento freddo di chi pensa che la razionalità sia sufficiente per motivare le persone. Le persone hanno bisogno di emozioni per sentirsi cittadini della patria? È la domanda di Aristotele, cui la filosofa americana risponde con un sì convinto. Hanno bisogno di emozioni e di amore.

Corriere La Lettura 15.12.13
Radici. Il dibattito su reperti di 1,8 milioni di anni fa
Un incrocio nel Caucaso Sono lì passato e futuro dei nostri antenati Homo
di Giorgio Manzi


GIORGIO MANZI, Il grande racconto dell’evoluzione umana IL MULINO Pagine 508, e 45

Quasi subito — quando comparvero in Africa, intorno a due milioni di anni fa — gli esseri umani si resero protagonisti di un’inedita diffusione geografica, tanto da percorrere, nell’arco di un tempo sorprendentemente breve, rotte comprese fra l’Africa sub-sahariana e l’intera Eurasia. Fino alle isole di Giava e Flores, in Indonesia, fino in Spagna dalla parte opposta.
Se però pensate che stiamo parlando di Homo sapiens , vi sbagliate. Anche la nostra specie, in effetti, fu capace di un’altrettanto rapida diffusione, dall’Africa verso i lembi estremi dell’Eurasia e oltre. Ma molto, molto tempo dopo. Qui, invece, siamo ancora all’inizio del Pleistocene e stiamo parlando dei primi rappresentanti del genere Homo : esseri umani primordiali che discendevano dall’australopiteco, quando la locomozione bipede e la dentatura umana erano ormai state acquisite. Almeno un paio di milioni d’anni dopo la separazione fra la nostra storia evolutiva e quelle dei cugini scimpanzé; un paio di milioni d’anni prima della comparsa di Homo sapiens .
Come lo sappiamo? Abbiamo da tempo a disposizione alcuni tasselli di questo puzzle e diversi se ne sono aggiunti negli ultimi vent’anni. Ma le informazioni migliori (e anche quelle più sorprendenti) provengono dal sito di Dmanisi: una località sulle pendici del Piccolo Caucaso, a metà strada tra il Mar Nero e il Mar Caspio, a un centinaio di chilometri da Tbilisi, capitale dell’attuale Repubblica di Georgia. È questo il sito più settentrionale fra i pochi che documentano la prima presenza di esseri umani (o quasi-umani) fuori dal continente africano, collocato nella posizione ideale per rappresentare uno degli iniziali approdi della prima diffusione oltre i confini dell’Africa e, se vogliamo, oltre i limiti tropicali dei nostri antenati.
Di Dmanisi si è sentito parlare anche di recente, dopo l’ennesima pubblicazione su «Science», una delle riviste scientifiche interdisciplinari di primo piano, nella quale viene descritto un quinto cranio proveniente dal sito preistorico georgiano. Può essere sorprendente che un cranio del primo Pleistocene rinvenuto sul Caucaso diventi una notizia che arriva sulle prestigiose pagine di «Science» e da lì rimbalza sui siti internet e sulla carta stampata di mezzo mondo. Vediamo di capire perché.
Verso la fine degli anni Ottanta del secolo scorso la località di Dmanisi era già nota per la presenza dei ruderi di una cittadella medievale, con la sua piccola chiesa (ancora agibile) e il suo castello (diroccato), ma nessuno si aspettava che nel corso degli scavi archeologici fra le case del borgo venisse ritrovato un dente di rinoceronte, testimone di un deposito geologico e paleontologico ben più antico. Da qui iniziarono nuove attività di scavo sotto le rovine e, ben presto, le ricerche portarono al rinvenimento di una quantità di resti fossili di grandi mammiferi di remota provenienza africana (struzzi, giraffe, lupi, elefanti, gazzelle e tigri dai denti a sciabola), in associazione con manufatti di un Paleolitico molto arcaico.
Nel 1991 venne rinvenuta anche una mandibola umana e si iniziò a parlare di una datazione davvero sorprendente: quasi due milioni di anni. Tuttavia, i resti davvero decisivi sarebbero stati scoperti intorno al 2000 e negli anni successivi: prima due crani, poi un terzo, poi ancora un altro e un altro ancora (scoperto nell’estate del 2005, proprio quello di cui si parla nel recente articolo di «Science»). Come se non bastasse, a Dmanisi ci sono anche altre mandibole e un buon numero di resti dello scheletro del tronco e degli arti… Straordinario: un vero sogno per paleoantropologi.
Un simile campione fossile in Eurasia e con una datazione così antica (confermata poi intorno a 1,8 milioni di anni fa) rappresenta una miniera straordinaria di informazioni per le nostre conoscenze su una fase cruciale dell’evoluzione umana. La documentazione preistorica di Dmanisi dimostra, innanzitutto, che i protagonisti della prima diffusione extra-africana non erano ominidi dal cervello particolarmente voluminoso o dalle notevoli capacità tecnologiche, visto che il volume endocranico dei fossili georgiani è decisamente modesto e che i manufatti da loro prodotti sono molto semplici. Su queste basi, si può ritenere che la prima diffusione fuori dall’Africa abbia avuto invece una spinta fondamentalmente ecologica — non certo una motivazione culturale —, abbia toccato le pendici meridionali del Caucaso, si sia diretta verso est (Asia orientale) e, solo dopo, anche più verso nord. Sembrerebbe insomma che la comparsa stessa del genere Homo abbia comportato una tendenza alla diffusione geografica — e, potremmo dire, una capacità di diffondersi e adattarsi a nuovi ambienti — che i precedenti nostri antenati non avevano mai sperimentato.
Un ulteriore elemento d’interesse, altrettanto sorprendente direi, è dovuto al fatto che a Dmanisi si può avere un’idea — cosa rara in paleoantropologia — della variabilità fra gli individui di una stessa popolazione, visto il buon numero di reperti fra loro comparabili. E la variabilità mostrata dai crani fossili di Dmanisi è davvero sorprendente. Da qui sono venute esagerazioni di segno opposto. Ci sono i lumper — cioè coloro che tendono a vedere poche specie sulla base della documentazione fossile, fra cui gli autori dell’articolo di «Science» — che dicono che a Dmanisi, con una diversità che raccoglie morfologie finora riferite a specie differenti, c’è la prova che molti dei nostri antenati conosciuti a tutt’oggi debbano essere raggruppati in una sola specie.
A questa interpretazione si oppongono in modo altrettanto radicale gli splitter , che, al contrario, ipotizzando l’esistenza di molte specie nel nostro albero evolutivo, hanno affermato che alcune di esse si sarebbero date convegno nel sito di Dmanisi. Le posizioni estreme, però, mal si addicono al ragionamento scientifico. Personalmente, ritengo che sia più appropriato interpretare questa stessa diversità in altro modo: un modo che peraltro ci consente di comprendere meglio il fenomeno che abbiamo davanti agli occhi.
Penso che a diffondersi per la prima volta fuori dal continente africano furono creature che — proprio per la loro collocazione geografica e cronologica — inevitabilmente richiamano morfologie di diverso significato: con tratti dei primi Homo , ancora legati a un modello che era quello dell’australopiteco, ma anche con caratteristiche che si ritroveranno più avanti nella stessa Africa e altre ancora che troveremo poi in Estremo Oriente o in Europa. In breve, per me Dmanisi è un po’ come fosse l’ombelico di questo mondo preistorico, dove convergono il passato dei primi Homo e dell’australopiteco e, al tempo stesso, il futuro delle specie che verranno. Una babele morfologica che ha un senso del tutto ragionevole (e interessante), dunque; niente a che vedere con le posizioni estreme dei lumper o con quelle degli splitter .

Corriere La Lettura 15.12.13
Il gene che creò la parola
Due studi smentiscono le teorie di Chomsky sul linguaggio
di Sandro Modeo


Per una vasta maggioranza di linguisti, filosofi e psicologi, l’«unicità» del linguaggio umano continua a consistere, se non nella sua purezza platonica, nella sua autonomia logico-formale rispetto al significato e ad altre funzioni del cervello. Lo vediamo, per esempio, in teorie come la «grammatica universale» di Chomsky (in cui la sintassi è indipendente dalla semantica) o il «mentalese» di Jerry Fodor, in cui un software di simboli e moduli girerebbe sull’hardware cerebrale. Teorie da tempo criticate, ma forse mai come in due libri appena usciti: The Unpredictable Species («La specie imprevedibile») del quasi ottantenne Philip Lieberman, uno dei massimi studiosi del linguaggio in chiave evoluzionistica; e Louder Than Words («Più forte delle parole», o «più profondo») del giovane scienziato cognitivo Benjamin Bergen, folta rassegna sperimentale su come il cervello produca incessanti simulazioni degli oggetti (dei significati emotivi e cognitivi) cui si riferiscono le parole.
Sia per Lieberman che per Bergen l’innesco è dato dalla cornice evolutiva: dal fatto che il linguaggio sia uno degli «arrangiamenti» (o «accrocchi») con cui il bricolage della selezione naturale adatta e assembla strutture antiche per nuove funzioni: in questo caso, la conversione di organi deputati alla deglutizione/respirazione in strumenti di emissione/articolazione della parola. Conversione imperfetta e insidiosa, come ci ricorda non solo la difficoltà a mangiare e parlare insieme, ma anche la varietà di inciampi (i balbettii, i tanti «cioè», le imprecisioni fonetiche e espressive) con cui cerchiamo di comunicare, lontani anni luce dalla ricchezza e dall’eleganza sintattico-retorica di un grande scrittore o oratore. Da qui, i due libri si biforcano in percorsi diversi e integrati. Lieberman, sintetizzando e aggiornando gli studi di una vita, si concentra sulle sequenze di coevoluzione corpo-cervello che avrebbero portato l’Homo sapiens , tra i 100 e i 50 mila anni fa, a esprimere con il linguaggio parlato significati e concetti espressi in precedenza con la mimica facciale o il linguaggio gestuale. Da un lato, ripercorre quelle anatomico-morfologiche, culminate nell’abbassamento della laringe e nello scolpirsi del tratto sopra-laringeo in due assi ad angolo retto, il tutto come un’«unica canna d’organo» in grado di modulare — con la lingua e le corde vocali — volume e durata dei suoni, in infinite gradazioni. Dall’altro, ricostruisce le modifiche cerebrali correlate: in particolare, come certe strutture «rettiliane» (i gangli basali, deputati a funzioni motorie come camminare, correre o danzare) abbiano sviluppato una «sintassi di base», interagendo, va da sé, con aree limbiche (l’ippocampo, decisivo per la memoria) e cognitive (quelle di Broca e Wernicke). Prova di questa connessione neurale, per inciso, sono i malati di Parkinson, il cui deficit di dopamina nei gangli basali comporta disturbi sia motori che sintattico-verbali. Cerniera di questo processo duplice — con cui gli uomini hanno potuto comunicare al buio, a distanza e con velocità doppia rispetto ai gesti — è l’incidenza genetica, a partire da Fox P2, gene-regolatore non specifico del cervello (è espresso anche nei polmoni) e decisivo nel sovrintendere alla «cadenza» motoria e/o comunicativa non solo negli uomini, ma anche nei cavalli (il trotto-galoppo) o negli uccelli, in cui l’area X, equivalente dei nostri gangli basali, coordina le sequenze del canto.
Certo, il Fox P2 umano è diverso da quello di altre specie, dato che ha mutato nel tempo 3 aminoacidi rispetto al topo e 2 rispetto allo scimpanzé, con conseguenti affinamenti funzionali. Ma questa condivisione genetico-morfologica (o anche quella dei tre ossicini adibiti alla vasta apertura mandibolare dei serpenti, convertiti nei mammiferi in strumenti di acuità uditiva in grado di far sentire alla madre il richiamo della prole), è uno degli argomenti-chiave contro l’esistenza di uno specifico «dispositivo per l’acquisizione del linguaggio» (Chomsky); così come lo è la plastica interazione-integrazione tra cervello arcaico e corticale, tra emotività e cognizione nelle funzioni superiori.
Un simile dispositivo, al limite, è un’applicazione particolare di corredi adattativi più generali, con cui cerchiamo ordine dal caos, senso dal nonsenso, suoni riconoscibili dal rumore di fondo. Partendo da un’analoga premessa (il significato viene evolutivamente prima della parola, il pensiero prima del linguaggio), Bergen riprende gli studi di George Lakoff e Mark Johnson sulla «simulazione incorporata» e li integra con nuove scoperte come i «neuroni specchio» (quei neuroni motori che si attivano sia quando eseguiamo un gesto sia quando lo vediamo eseguito da altri) per mostrare come il cervello crei le «immagini mentali» dei correlati semantici delle parole. Immagini «attenuate» rispetto a quelle della percezione diretta, un po’ come succede per i ricordi, per certe sequenze oniriche o per l’immaginazione: e questo perché il concerto neurale che le produce — di nuovo, la preminenza delle aree motorie in connessione con quelle visivo-uditive, emotive e mnestiche — inibisce regioni come il cervelletto, decisivo invece nel farci eseguire un movimento o un’azione coordinata. Con un impressionante ventaglio di prove neuropsicologiche, Bergen dispiega tutte le modalità di questa simulazione continua, inconscia e pervasiva: il ruolo dell’esperienza soggettiva, quello dell’«interferenza» che si produce quando si chiede all’area motoria di svolgere funzioni diverse (guidare parlando al cellulare), la «granularità» o grado di dettaglio (più alto se uno stimolo visivo-semantico è nuovo, più basso se familiare) e le diverse abilità cognitive (che privilegiano, secondo gli individui, il colore, la forma, lo spazio o gli oggetti).
Passaggio-chiave è la «cadenza», col cervello che inizia a creare immagini mentali già alla prima sillaba di una parola (cioè in 200 millisecondi): in un esperimento, ad esempio, alcuni dei soggetti posti davanti a figure irrelate (uno scarafaggio, una carrozza, un microfono e un recipiente) e sollecitati dalla frase «Pick up the beaker !» («Scegli il recipiente!») guardavano allo scarafaggio nell’udire la prima, ambigua sillaba (bee- di beetle , scarafaggio, o bea- di beaker ), passando però subito al recipiente all’arrivo della k. Spiegando in questa prospettiva anche «oggetti mentali» rarefatti come le metafore e le astrazioni (che il cervello tende a convertire in rappresentazioni concrete) e chiarendo come la simulazione non esaurisca tutto il processo linguistico né sia sempre richiesta, Bergen mostra così come il linguaggio operi non tanto per repertori di moduli e simboli (secondo il «mentalese»), ma per flussi incessantemente approssimati e ridisegnati. Tanto che anche la comunicazione tra due interlocutori non è uno specchio simmetrico, ma a sua volta un’approssimazione imperfetta, un’empatia semantica più o meno sfocata. Potente ma irrimediabilmente ambiguo, ridondante ma spesso carente rispetto al vissuto emotivo-cognitivo (rispetto al pensiero, che pure contribuisce a plasmare e arricchire), il linguaggio umano nella prospettiva di Lieberman e Bergen risulta insieme demitizzato e più prezioso, precario e tenace come la specie che l’ha (imprevedibilmente) generato.

Bibliografia

Il libro di Philip Lieberman (cattedra di Scienze Cognitive alla Brown University di Providence) è The Unpredictable Species. What Make Humans Unique, Princeton University Press, pp. 264, $ 29.95. Quello di Benjamin Bergen, associato nella stessa disciplina alla UC di San Diego, è Louder Than Words. The New Science of How the Mind Makes Meaning, Perseus Books, pp. 312, $ 27.99. Sulle origini evoluzionistiche del linguaggio si può leggere anche un recente contributo di Fabio Di Vincenzo e Giorgio Manzi, L’origine darwiniana del linguaggio, in «MicroMega», m1/2012, pagine 147-167. Nello stesso numero c’è anche un contributo dello stesso Lieberman (con Robert Mc Carthy): Come parlavano i nostri antenati, pagine 168-78.

Corriere La Lettura 15.12.13
L’italiano ha un terapeuta: Bartezzaghi
Il trucco per parlare? Ispirarsi ai ricettari
di Aldo Grasso


Stefano Bartezzaghi me lo raffiguro come il terapeuta Paul Weston di In Treatment , nella versione americana. Solo che non si occupa di «casi umani», ma di casi linguistici. Con identica pazienza studia i segni elementari con cui si manifesta lo stato di squilibrio, siano essi tic, manie, atti involontari, spropositi, fissazioni, capricci, lapsus, refusi. Però, a differenza di Paul Weston, che è sempre scuro in volto e insicuro, Bartezzaghi si diverte, si butta nelle parole come il topo nel formaggio. Fino a qualche anno fa, pareva che un’osannata civiltà delle immagini mettesse il bavaglio alla parola e invece è successo il contrario. Internet ha esteso il diritto di parola a tutti, privilegiando la pratica alla grammatica. Così spesso ci capita di parlare come mangiamo, senza pensarci troppo, e siccome mangiamo male e in fretta, il nostro italiano è low cost (il bagaglio culturale ha una franchigia in più). Adesso, per esempio, c’è la mania dell’«anche meno». Che di per sé non è male, espressione sbrigativa di understatement (i piemontardi di fronte a un’iperbole amavano ripetere esageroma nen ). Solo che ormai non puoi più fare una qualunque constatazione che subito c’è uno che ti ribatte: anche meno.
La misura giusta di questi tormentoni sarebbe il classico quanto basta, come nelle ricette di cucina. «Io non penso alla lingua — scrive il nostro terapeuta di fiducia — come a una legislazione che sta a ognuno applicare, senza controllo d’autorità. No. Penso alla lingua come a un ricettario, che ci soccorre sia quando dobbiamo parlare per necessità e senza pensarci troppo sopra sia quando vogliamo allestire più accurati banchetti verbali. Ogni sua ricetta può essere realizzata in molti modi, l’importante è che risulti commestibile e digeribile. Nella lingua è lo stesso: ogni pietanza discorsiva che prepariamo deve essere comprensibile e assimilabile». Vero e giusto: forse l’unico caso a non reggere il paragone è rappresentato da Gianfranco Vissani. Se cucinasse come parla (non è né comprensibile né assimilabile) non sarebbe così famoso.
La battuta più straordinaria del libro riguarda uno che in tv parla sempre. Analizzando un manifesto scritto in stile Federico Moccia da un marito fedifrago, apparso a Roma Nord nell’autunno del 2013, Bartezzaghi si sofferma sul carattere tipografico con cui l’incredibile manifesto è composto, il famigerato Comic Sans: «Sta agli altri font come Bonolis alla grammatica italiana». Bonolis s-composto per sempre! Ci sono due paragrafi di puro divertimento. Il primo è un decalogo per Grandi Comunicatori. Cito solo alcune regole per lasciare al lettore il resto della sorpresa. La tre: «“Mi domando e dico”: non si usa più». La quattro: «“Io ti ho lasciato parlare ora lascia parlare me”. È come iscriversi volontariamente alla serie B». La sei: «Gongola apertamente: deve parere che non c’è alcun posto in cui tu sia più a tuo agio che in tv». A proposito di tv, Bartezzaghi sostiene che il Bar Sport e il Talk Show costituiscono la faccia provinciale e quella nazionale della stessa moneta: la discussione italiana, sotto il duplice ascendente del frivolo e del serioso, lo yin della politica e lo yang dello sport.
Il secondo paragrafo riguarda i refusi, gli errori di stampa (o i veri errori dei giornalisti fatti passare per errori di stampa), i famosi granchi tipografici sfuggiti alla buona vista del correttore di bozze: «Certi svarioni divertivano molto il vecchio signore del giornalismo culturale del “Corriere della Sera”, Giulio Nascimbeni, che sul magazine del quotidiano milanese ha tenuto a lungo una rubrica intitolata Esame di giornalismo... Snocciolando nelle cene il suo repertorio, chiedeva alle signore di non ascoltare quando arrivava ai pezzi forti: la cronaca di un’elezione per il Parlamento europeo, con il seggio invaso da un gruppo di suorine tutte “eurofiche”; oppure il piissimo grande uomo che si spegne serenamente nel suo letto, all’età di novant’anni, e pensare che “solo mezz’ora prima aveva chiavato la cameriera”». Altri refusi? Una Loredana Lecciso che diventa «Lorenda», un Asor Rosa che insegna «all’Univerità» la Sapienza di Roma, la compagna di Totò, Franca Faldini, forse sposata «segretamante» con il grande comico, e così via. Il più imbarazzante refuso è di Televideo («povero utensile giornalistico» lo definisce l’autore) che dà come titolo principale la seguente notizia: «Papa, pene più duro per abusi su minori».
E vogliamo parlare del «piuttostocheismo»? Specie nei parlanti televisivi, quando c’è da stilare un lungo elenco abbonda il «piuttosto che»: «Vado a teatro piuttosto che al cinema, piuttosto che al ristorante...». Il parlante intende dire che ha fatto tutte queste cose, dimenticando però che il modo di dire originariamente indicava una gerarchia. Se uno va a teatro piuttosto che al cinema significa che preferisce il teatro. Bartezzaghi individua l’inizio della distorsione nel dialetto lombardo: Piutost che lassal chi, ‘l meti ne l’oregia (piuttosto che lasciarlo qui, lo metto nell’orecchio), motto del bevitore di fronte a un resto di vino gratis. Più che tosto, il bevitore. Adesso, ogni volta che parliamo o scriviamo, il fantasma di Weston-Bartezzaghi ci appare in tutta la sua sapienza. Non resta che appellarci alla sua indulgenza. Anche meno.

Corriere La Lettura 15.12.13
Due modi di definire l’ebraismo
di Daria Gordisky


«Chiunque sia così folle da dirsi ebreo è ebreo». La battuta viene attribuita a David Ben Gurion, primo capo del governo dello Stato di Israele. Storicamente certo, invece, è che Ben Gurion si trovò ad affrontare per la prima volta in termini politici il quesito «chi è ebreo?». Il suo governo, infatti, aveva varato quella legge del Ritorno che consentiva a chi avesse anche solo un nonno israelita di essere accolto nella nazione (e tuttora è così). La decisione dello statista però cozzava con la «rubrica religione» degli ortodossi, che avrebbero voluto limitare il diritto ai figli di madre ebrea. Anche se Hitler aveva dimostrato che la discendenza per via paterna è più che sufficiente per essere condannati allo sterminio. E persino se c’era il rischio di escludere quelle sempre più ampie componenti diasporiche che, a partire dalla emancipazione del XIX secolo, si erano via via laicizzate o assimilate. Così nel 1958, a dieci anni dalla proclamazione dello Stato, Ben Gurion decise di cercare una definizione di identità ebraica consultando 50 saggi del mondo: filosofi, letterati, scienziati, giuristi, rabbini, calibri che vanno dal premio Nobel Shmuel Yosef Agnon a Isaiah Berlin, agli italiani Dante Lattes, Alfredo Sabato Toaff e suo figlio Elio Raffaele. Oggi, a 40 anni dalla morte di Ben Gurion, le loro risposte sono finalmente disponibili in italiano nell’ebook Cosa significa essere ebreo (Proedi), con una importante introduzione del sociologo israeliano Eliezer Ben Rafael. E si tratta di un testo fondamentale, perché il dibattito è internazionalmente attualissimo. In Italia, ad esempio, l’Associazione culturale Hans Jonas ha condotto due ricerche fra gruppi di giovani ebrei, nel 2011 e quest’anno. La prima, Cittadini del mondo, un po’ preoccupati , è pubblicata da Giuntina; l’altra è stata presentata domenica scorsa in un convegno a Roma. Ne deriva l’idea che «le comunità ebraiche sopravvivranno se sapranno aprirsi ai vari modi di essere ebrei». Un avvicinamento al giudaismo riformato Usa ed europeo (che riconosce la discendenza patrilineare) e che continua a scontrarsi con l’ortodossia. In quel perenne confronto, dice Ben Rafael, che costituisce in sé un «fattore di coesione» dell’ebraismo. Ecco: lo spazio identitario specifico del popolo ebraico, dove il multiforme diventa unicum...

Corriere La Lettura 15.12.13
L’insanguinata deriva di Géricault La passione per le divise, la curiosità per le ferite, un amore proibito che lo devastò E un’attrazione per i cavalli che lo portò a morire disarcionato: come Umberto Boccioni
di Sebastiano Grasso


Misura quasi cinque metri per sette ed è rimasta al Louvre, La zattera della Medusa . Ci sono invece — nella mostra che Francoforte dedica al pittore francese — un paio di bozzetti (olio su tela: cm. 65x83 e 37,5x43) e una serie di studi che riguardano i personaggi (Il carpentiere , per esempio) immortalati nel capolavoro da Théodore Géricault (1791-1824). Inoltre, dipinti e disegni i cui soggetti sono teste tagliate; membra dilaniate e putrefatte (ormai da secoli gli artisti frequentavano mattatoi e obitori per studiare lacerazioni, piaghe, squarci, lesioni, frammenti anatomici e così via); soldati feriti, coperti di sangue e bende, con le uniformi fatte a pezzi che rientrano a Parigi dopo una disfatta; impiccagioni; ritratti di alienati, con espressioni ebeti o feroci, la cui tragedia è sintetizzata nello sguardo. Forse un corrispettivo, nella letteratura del tempo, si potrebbe trovare in Balzac o Stendhal.
La rassegna tedesca, curata da Gregor Wedekind, è intitolata Théodore Géricault. Immagini di vita e di morte . In realtà più di morte che di vita. Di vita ci sono ritratti di corazzieri, carabinieri e ufficiali della guardia imperiale, studi di cavalli (teste, animali visti dalla groppa, spaventati dai fulmini), la corsa dei barberi a Roma (15-20 cavalli arabi che, durante il Carnevale, venivano liberati e, senza briglie, correvano da piazza del Popolo a Palazzo Venezia).
Quando Géricault muore, non ha ancora compiuto 33 anni. Un anno in meno di Umberto Boccioni. La fine di entrambi è dovuta alla caduta dal cavallo imbizzarrito che stavano montando. Più lunga l’agonia dell’artista francese, durata alcuni mesi.
Anche se ha avuto una vita breve, Géricault ha probabilmente compiuto il ciclo che l’ha reso immortale. «Muore giovane chi è caro agli dei», si credeva nell’antichità. Certo il suo destino ha affascinato persino i contemporanei.
Théodore nasce a Rouen in una ricca famiglia borghese, che presto si trasferisce a Parigi. Non ha molta voglia di studiare. Già diciassettenne fa una vita da dandy . Una giovinezza dorata, letteralmente devastata, in seguito, dalla relazione che intrattiene con Alexandrine-Modeste de Saint-Martin, giovane donna sposata dallo zio (molto avanti negli anni), soprattutto quando questa — il 21 agosto 1818 — dà alla luce un bambino.
Scoppia lo scandalo. Uomo molto pratico, il padre dell’artista raggiunge un compromesso con il parente. Condicio sine qua non : la fine della relazione. Il nipotino — cui, appunto, egli provvederà vendendo alcune proprietà per fargli la dote — viene affidato ad una balia fuori Parigi. Solo 22 anni dopo gli verrà rivelata l’identità paterna. Ma Théodore è già morto da 16 anni. La passione per Alexandrine ha minato definitivamente la sua salute.
Studente al Collegio imperiale, dove ci sono molti figli di ufficiali caduti in battaglia, Géricault si applica solo al disegno (in cui è considerato un «talento naturale») e all’equitazione. Ha un carattere insofferente («mordeva il freno come i cavalli», ricorda un compagno di liceo). Nel 1808, con la scomparsa della madre, si dedica totalmente all’arte.
Al Museo del Luxembourg e al Louvre si entusiasma davanti a Rubens. Che copia assieme a Poussin e Lorraine. È attratto dagli episodi di cronaca. Traduce in disegni e dipinti a olio i bollettini di guerra delle campagne napoleoniche. Ritrae le uniformi delle armate alleate che sfilano a Parigi. Si arruola nei Moschettieri Grigi reali, un corpo comandato dal re in persona; più da parata che da combattimento. Nel 1817, l’assassinio di un magistrato gli suggerisce cinque disegni preparatori per un grande dipinto (mai realizzato). Ma l’episodio che più invade la sua fantasia è quello legato alla fregata Medusa .
Diretta in Senegal con 400 persone a bordo, compreso il governatore della colonia, la nave si sfascia sulla secca d’Arguin. Costruita una zattera, salgono 149 naufraghi. Viene rimorchiata da una scialuppa. Ma gli ufficiali imbarcati sui canotti decidono di tagliare i cavi e la lasciano andare alla deriva.
Dopo dodici giorni, la zattera viene incrociata dalla fregata Argus . I superstiti, in condizione disperate, sono solo 15. Vengono riferiti anche episodi di cannibalismo. La vicenda fa molto scalpore.
Due sopravvissuti hanno il compito di redigere un rapporto e Géricault viene incaricato di illustrarlo: disegni preparatori e un paio di bozzetti ad olio, prima del grande dipinto che, da solo, lo farà entrare prepotentemente nella storia dell’arte francese. Se l’opera non trova subito eco a Parigi, ci penseranno Londra e Dublino a valorizzarla.
Ciò che nasce come trasposizione d’un fatto di cronaca sic et simpliciter , nella tavolozza di Géricault si ammanta di un plasticismo scultoreo da grande tragedia greca.

Corriere La Lettura 15.12.13
Il Paese ai confini della vita Il Belgio dà ai minori il diritto all’eutanasia
La posta in gioco: guardare in faccia la fine
di Emanuele Trevi


I titoli delle agenzie, considerati nella loro necessaria brevità, possono provocare intense reazioni emotive senza necessariamente truccare la verità. Così è stato per il voto di due settimane fa della commissione del Parlamento belga che ha dato il via libera all’estensione ai minori della legge che nel 2002 ha depenalizzato l’eutanasia. Oso dire che il colpo, forse, è stato più duro proprio per coloro che ritengono, come chi scrive, che una legge come quella dovrebbe figurare nella giurisprudenza di ogni Paese civile. Non saremo andati troppo oltre? Non ci troviamo ancora una volta di fronte a un corollario insostenibile di un principio che appare giusto? E perché tutto questo accade proprio nel cattolicissimo Belgio, in virtù di un’inedita alleanza (che dalla commissione si trasferirà alle Camere) fra socialisti, liberali e nazionalisti fiamminghi? Ebbene, potrà apparire esotico qui in Italia, ma nei cosiddetti «casi di coscienza» la libertà del singolo parlamentare è assoluta, senza timore di punizioni ed emarginazioni. Insomma, vale proprio la pena di fare un viaggio a Bruxelles, in questo periodo, qualunque sia l’opinione che si nutra in fatto di eutanasia e trattamenti di fine vita.
Prima di partire, però, mi metto a indagare su chi saranno mai i supposti orchi che hanno tirato in ballo i minori in questa che di sicuro è la più spinosa fra le questioni etiche contemporanee. Nel caso avessero torto, non è pur sempre con le persone che hanno torto che vale la pena di parlare? Google mi aiuta subito. Trovo il sito dell’Admd, ovvero «Association pour le droit de mourir dans la dignité», compongo il numero della segreteria e chiedo di parlare con qualcuno. Una gentilissima impiegata, afferrato al volo il mio desiderio di conoscere la situazione e la mia disponibilità a partire, mi mette in contatto con la presidente dell’associazione, Jacqueline Herremans. Le spiego che voglio capire, e non fare pubblicità a un’idea e a un’associazione. Le ricordo che in Italia è sempre stato difficilissimo parlare serenamente di questi argomenti.
Ci diamo un appuntamento per il giorno dopo, a Bruxelles.
Ci incontriamo nel mio albergo molto presto, mentre una timidissima e grigiastra luce del mattino stenta a prevalere sul buio di una notte tempestosa. Ma la città è decorata fino all’inverosimile, in attesa che la folla si riversi nelle strade del centro il primo sabato del periodo natalizio. Madame Herremans è una donna gentile e risoluta. Ama i libri di Antonio Tabucchi. Per tutta la sua vita, ha faticato a conciliare la professione di avvocato e la vocazione di attivista a tempo pieno. Nel vasto e accidentato campo dei diritti civili, non c’è battaglia da cui si sia tirata indietro. Ogni tanto si vince, e ogni tanto si perde. Non si nasconde che, negli ultimi dieci anni, tutto è diventato più difficile, le posizioni si sono irrigidite, c’è meno possibilità di confrontare le opinioni. Ma il punto decisivo della questione, per lei, è che una legge come quella del 2002 vale esclusivamente per una persona che non tollera più la sofferenza, e che decide di farla finita. Non obbliga nessuno all’eutanasia, e salvaguarda i medici che non vogliono praticarla. Chi vuole proibire, al contrario, impone a tutti un punto di vista che può essere anche accettabile, ma non può, non deve essere la norma. È intorno a questo squilibrio fondamentale che si gioca, non da oggi, la battaglia della laicità.
Mentre iniziava la nostra conversazione, siamo saliti in macchina, diretti a Liegi. Passiamo davanti al Parlamento, dove ogni domenica pomeriggio le associazioni contrarie all’eutanasia si riuniscono per protestare e pregare. Noto che Jacqueline, per una specie di automatismo pienamente comprensibile solo ai veri militanti, ne parla con un certo rispetto. La protesta ha unito tutte le grandi religioni monoteiste. Un comunicato congiunto è stato firmato dal presidente della Chiesa protestante unita del Belgio, e dai suoi colleghi della Chiesa anglicana e del sinodo federale delle Chiese evangeliche, assieme all’arcivescovo di Malines-Bruxelles, al presidente della Conferenza episcopale, al gran rabbino e al metropolita ortodosso di Bruxelles, e dal presidente dell’esecutivo dei musulmani in Belgio. Questi capi religiosi dichiarano apertamente di non poter entrare in una logica «che porta a distruggere le fondamenta della società». L’individuo sofferente, si legge nel documento, ha bisogno di persone e di forze che lo sostengano, mentre l’idea stessa dell’eutanasia è lacerante e disgregante, «finendo per isolare chi soffre, colpevolizzarlo e condannarlo a morte».
Parole che vanno meditate col rispetto che impongono; ma bisogna aggiungere che in Belgio, a quanto sembra, la questione dell’allargamento ai minori della legge del 2002 non ha suscitato lo scalpore che immaginavo. Per quello che valgono questi sondaggi empirici, me ne sono reso conto chiedendo direttamente alle persone che ho incontrato, e leggendo «Le Soir», il quotidiano francofono più autorevole. Tanto per cominciare, non si tratta esattamente di «bambini», ma di giovani con una personalità già formata, e un’idea delle loro responsabilità e dei loro diritti. Credo inoltre che a rendere meno tempestoso il dibattito, come sempre accade, collabori anche lo scarso numero di casi effettivi.
Siamo diretti a Liegi, sotto una gelida pioggerella nordica, per assistere a una sessione di un corso di formazione organizzato dall’Admd e destinato a medici, infermieri e psicologi. Non è un corso gratuito, ma l’auditorium dell’Hôpital de la Cittadelle è stracolmo. La sensazione, per me, è quella di aver cominciato a studiare la guerra su internet, e di essere arrivato in prima linea: fra gente, insomma, che nella materia oscura del dolore e della morte ha letteralmente le mani in pasta. Ma se questa è una guerra, non si può combattere solo a colpi di leggi e protocolli. È per questo motivo che ai seminari partecipano filosofi, teologi, studiosi del diritto. Approfittando di una pausa, dopo avere ascoltato la sua relazione, abbordo un giovane avvocato, Gilles Genicot. È un grande ammiratore della tradizione giuridica italiana, avrebbe voluto perfezionarsi a Bologna. Acconsente volentieri a chiarirmi alcuni punti del suo discorso. La sua convinzione è che il concetto della dignità della persona è molto complesso, e richiede la presenza di molteplici fattori. E dunque, anche se può apparire mostruoso, «la pura e semplice constatazione biologica della vita non è sufficiente». Si deve accompagnare al diritto di guardare in faccia la propria fine, «in qualità di uomo libero e sofferente». Che è una cosa ben diversa sia «dall’idea di fare sempre ciò che si vuole», sia da quella, opposta ma complementare, di subire un modello di comportamento imposto dall’esterno (come quando ci si sente dire «comportati da uomo» di fronte al dolore). È da questo punto di vista che, secondo Genicot, dichiarare «incapace» un individuo di sedici anni è una decisione inaccettabile.
Un punto di vista non distante della relazione d’apertura di stamattina, affidata a Marie-Luce Delfosse, docente di Filosofia all’Università di Namur ed esperta di bioetica. L’eutanasia è una decisione così estrema da non poter essere confusa con nessun’altra pratica medica, comprese le «cure palliative». Tanto da invertire la stessa direzione fondamentale del rapporto fra medico e paziente, nel quale è il primo che propone la cura, e il secondo che acconsente. Nel caso di chi decide di non farcela più, invece, è il paziente che decide e propone. Alla fine di ogni relazione, in sala si accende un piccolo dibattito. Le mani alzate per chiedere la parola sono sempre tante. Io non sono venuto fino a qui per collaborare alla causa dell’eutanasia, ma per capire un punto di vista che rischia di essere non compreso e in ultima analisi demonizzato. Ma non posso mettere a tacere una sensazione di invidia, per come si ragiona di queste cose qui in Belgio rispetto a ciò che si fa nella chiassosa e insolente Italia, dove si sono costrette migliaia di coppie a un vergognoso esodo verso la Spagna solo per usufruire di una fecondazione assistita degna di questo nome. E dove, per ritornare alla gravità del nostro tema, un uomo politico generoso e disinteressato come Lucio Magri è dovuto scappare in Svizzera, come un delinquente, quando una grave depressione ha stroncato la sua voglia di vivere.
Si può pensare ciò che si vuole, essere laici o credenti, umanisti o scientisti. Tutti brancoliamo nell’ignoranza, e in ogni idea espressa forse c’è una dose fatale di errore che solo chi verrà dopo di noi sarà in grado di correggere. Ma se una patria è anche il luogo dove ci si aiuta a vicenda a fronteggiare le questioni ultime e decisive della nostra esistenza, ebbene noi dobbiamo renderci conto che questa non è una patria ma un’ipocrita matrigna, che fa in modo che chi se lo può permettere risolva altrove i suoi problemi, abbandonando tutti gli altri a un destino incomprensibile e crudele.
Non ci resta che implorare i nostri rappresentanti: fate come in Belgio, votate secondo la vostra coscienza, e non secondo le orride direttive di un partito, o ancora peggio in base a fedeltà occulte, inconciliabili col vostro ruolo.

Corriere La Lettura 15.12.13
Troppa medicina. E dimentichiamo che siamo mortali
di Giuseppe Remuzzi


Nel mio ospedale in questi giorni è stato fatto un piccolo miracolo: un uomo non più giovane, con il diabete e tanto d’altro, riceve un trapianto di fegato, rene e pancreas. Sarebbe morto di lì a poco, le possibilità di guarirlo erano poche, lo si è fatto lo stesso. Adesso quell’uomo sta bene. Se c’è una chance anche remota di riuscirci, è giusto andare avanti, e lo si deve fare sempre. Non solo: oggi si muore soprattutto di cuore, di malattie respiratorie croniche, di cancro e di diabete e la metà di quelli che muoiono così ha meno di settant’anni. Sono tutte morti evitabili. Per loro — e per i bambini, che muoiono ancora di asma, tumori e diabete anche nei Paesi ricchi — si dovrebbe fare di più. Ma non è sempre così.
«Viene uno con trecento malattie: perché deve morire in rianimazione dopo mesi di ventilazione meccanica? Non è umano, siamo mortali e dovremmo poterlo accettare». È un infermiere che parla, hanno buon senso gli infermieri. Siamo mortali, ma ce ne dimentichiamo e alla medicina (e ai medici) chiediamo sempre di più. È giusto? Forse no. E spendere fino al 30 per cento del budget della Sanità per gli ultimi sei mesi di vita di persone molto malate e molto anziane è quasi certamente un errore. Quelle persone muoiono comunque, ma muoiono disperate.
Una signora di 88 anni con un’occlusione delle coronarie vent’anni fa sarebbe morta nel suo letto vicino ai suoi cari, li avrebbe potuti salutare e loro se ne sarebbero ricordati per tutta la vita. Adesso non è più così. A 88 anni, con un dolore al petto, la signora finisce al pronto soccorso (è successo ad Anna) e poi in una sala di emodinamica. Lì, con un catetere, le liberano le coronarie dai trombi e ci mettono una molletta — stent — per tenerle aperte. Dopo una certa età però risolvere un problema vuol dire quasi sempre farne saltar fuori un altro, spesso più grave. Anna, finito l’intervento, ha i piedi freddi (nel liberare le coronarie possono partire emboli che arrivano giù, fino alle gambe, e limitano il flusso del sangue). «Vedremo…», dicono i medici. Ma i piedi vanno sempre peggio, si formano delle piaghe che poi si infettano, febbre e dolori insopportabili. Anna in ospedale non può più stare, ma ha bisogno di medicazioni tutti i giorni e di antibiotici endovena, difficile farlo a casa. Segue un mese d’inferno, i dolori alle gambe non la lasciano mai. Una sera, Anna ha mal di testa e perde conoscenza, la Tac rivela un’emorragia cerebrale (è per via degli anticoagulanti, che le hanno dato per evitare che lo stent si chiudesse). La portano in rianimazione. Dopo un po’ si riprende, ma si esprime con fatica, non muove più il braccio destro e nemmeno la gamba da quella parte. I piedi vanno sempre peggio. «Bisogna amputare — dicono i medici — a livello della coscia, almeno a sinistra , poi si vedrà».
Anna non capisce, non può decidere. L’amputazione alla fine si fa. Dopo l’intervento non c’è più urina: un po’ perché gli emboli sono finiti anche nei reni e un po’ per l’infezione. Serve la dialisi, quattro ore al giorno per tre giorni alla settimana, ci si deve organizzare. Anna vive ancora tre anni senza poter comunicare. Quello che resta del suo corpo è stato in balia di tante persone anche per le cose più intime, i familiari sono sfiniti dalla fatica e senza più un soldo.
Ne valeva la pena? Penso di no. Ci si sarebbe dovuti fermare prima; la molletta nel cuore a una donna di 88 anni con le coronarie molto malate forse non andava messa. Ci sono farmaci che migliorano il flusso di sangue in quelle arterie e tolgono il dolore. Non è detto che allunghino la vita (ma questo a quell’età non succede nemmeno con gli stent ), ma si muore molto meglio. E non è che Anna sia stata particolarmente sfortunata. Cose così e anche peggio capitano ogni giorno in tutti gli ospedali di tutti i Paesi del mondo. I medici lo sanno benissimo e fanno poco o nulla.
È più facile non decidere. Continuiamo a prescrivere statine a persone con più di ottant’anni, perché proteggono dall’infarto. Ma di qualcosa si deve pur morire, se di volta in volta chiudiamo ogni possibile via d’uscita (exit strategy ) avremo sempre più tumori e sempre più ammalati di Alzheimer. Anche con la demenza l’organismo ha il suo modo per uscire di scena: non si deglutisce più bene, viene una polmonite da aspirazione di materiale alimentare e di solito si muore. O meglio si moriva, adesso non più. I medici fanno un foro nello stomaco e ti alimentano in quel modo lì. Per la polmonite, se è grave, ci sono macchine che respirano per te, però ti devono sedare e metterti un tubo in trachea e legarti a una macchina. Negli Stati Uniti il 50 per cento di chi ha qualche forma di demenza legata all’età muore incosciente e pieno di tubi. Davvero è così che ciascuno di noi vorrebbe morire?
Fare il medico è rianimare, certo, ma anche saper sospendere le cure quando sono inutili. Ho visto persone di più di ottant’anni con il diabete, già diversi by-pass al cuore, un tumore all’intestino con metastasi alle ossa e ai polmoni, tenute in vita con la dialisi e il respiratore artificiale. Un ammalato così non ha nessuna prospettiva. E allora perché si va avanti?

«Sono stati condotti molti esperimenti anche in Italia, nelle grotte di Frasassi»
Corriere Salute 15.12.13
Durante il sonno, ci facciamo il lavaggio del cervello
di Elena Meli


Alcune cellule nervose si rimpiccioliscono, per lasciare passare i liquidi che drenano le sostanze tossiche La notte per l’uomo è un periodo in cui nell’organismo tutto cambia rispetto al giorno, dal metabolismo all’attività del cervello, con modifiche necessarie per la nostra sopravvivenza.
Anche quando la notte non c’è, o dura pochissimo, come nelle estati polari, abbiamo comunque bisogno di buio, riposo, sonno: un tempo per ricaricare le batterie, in cui però non siamo affatto inattivi, anzi.
Tutto inizia quando il sole tramonta: è allora che la ghiandola pineale nel cervello comincia a produrre la melatonina. «È un “ormone del riposo”, che segnala al corpo di mettersi nella modalità di risparmio energetico: la temperatura interna si abbassa, l’attività degli enzimi si riduce, il metabolismo rallenta. Così ci prepariamo al sonno» chiarisce Roberto Manfredini, cronobiologo e direttore della sezione di Clinica medica dell’Università di Ferrara.
«Addormentarsi però non è come schiacciare un bottone: è difficile crollare appena si mette la testa sul cuscino. Se ci impieghiamo 15-20 minuti da quando spegniamo la luce è normale — interviene Federica Provini, neurologa del Centro di Medicina del Sonno del Dipartimento di Scienze Neurologiche dell’Università di Bologna —. Peraltro la primissima fase di dormiveglia è molto interessante: si perde il contatto con la razionalità, le percezioni sono distorte e il cervello fa associazioni bizzarre. È un momento di estrema creatività: moltissime intuizioni geniali possono arrivare in questa fase. Niels Bohr ipotizzò la struttura dell’atomo proprio nel dormiveglia».
Quando finalmente ci addormentiamo, la temperatura corporea si abbassa ancora, così come la frequenza cardiaca e la pressione, per mettere a riposo l’organismo. Nel cervello però ferve l’attività: un recente studio pubblicato su Science dimostra che proprio di notte è dieci volte più efficiente il sistema linfatico, che smaltisce i rifiuti metabolici del cervello, ripulendolo dalle tossine accumulate di giorno. Alcune cellule cerebrali, probabilmente quelle gliali che servono a mantenere vitali i neuroni, si rimpiccioliscono durante il sonno: lo spazio fra queste cellule aumenta del 60% e ciò consente l’ingresso di una maggiore quantità di fluidi, che aiutano a drenare sostanze tossiche e scorie.
Il sonno, indispensabile per tutti gli esseri viventi forse proprio per questo effetto di “pulizia” cerebrale, è scandito da cicli di circa 60-90 minuti in cui si alternano tre fasi: nelle prime due il sonno è man mano più profondo, la terza è la fase Rem (da rapid eye movements) in cui si sogna. Una volta completato il ciclo si ricomincia daccapo, per circa 4-5 volte. «La durata delle diverse fasi non è omogenea nel corso della notte — spiega Provini —. All’inizio infatti le fasi non-Rem, di sonno profondo, in cui complessivamente passiamo il 65% del tempo di sonno, sono molto più lunghe. Questo accade perché durante il giorno accumuliamo via via la necessità di sonno e all’inizio del riposo è quindi massimo il carico di stanchezza del nostro organismo: abbiamo estremo bisogno di recuperare energia e per questo passiamo più tempo nel sonno maggiormente ristoratore. Non solo: si è anche appurato che le aree cerebrali usate maggiormente durante il giorno e quindi più “stanche” (ad esempio, le aree motorie se si è fatta attività fisica, ndr ) si addormentano prima e più profondamente, proprio perché devono recuperare molto. Dalle 3 di notte in poi si allungano invece le fasi Rem, dalle quali è più facile svegliarsi: sono quelle in cui si sogna e verso le 6 arrivano a durare anche 50 minuti. Per questo è più probabile ricordare i “lunghi” sogni del mattino che quelli fatti a notte fonda».
Il numero di ore di sonno necessarie per ciascuno di noi è variabile: esistono i “brevi dormitori”, vispi e arzilli dopo 4 ore di riposo, ma anche chi sta bene solo se dorme almeno 9 ore. Ci accorgiamo di dormire a sufficienza se poi, durante il giorno, “funzioniamo” bene; l’importante è che il sonno non sia frammentario, perché ogni volta che ci svegliamo dobbiamo ricominciare daccapo il “viaggio” nelle diverse fasi del sonno e inevitabilmente passiamo meno tempo nel sonno profondo e ristoratore. «Non sappiamo invece con precisione perché si sogna, ma è un’attività indispensabile e lo fa anche chi pensa di non sognare» dice la neurologa.
E mentre il cervello dorme e sogna, neppure il corpo riposa: nelle prime ore del mattino nell’uomo inizia ad aumentare la produzione di testosterone, che ha poi un picco 3-4 ore dopo, al risveglio, e sembra connesso alla comparsa delle erezioni notturne, così come a un incremento del desiderio sessuale nel primo mattino. «Anche il cortisolo viene prodotto a partire dalle ore 2-3 di notte e ha un picco intorno alle 8: ha un effetto immunosoppressivo e questo spiega perché malattie come l’artrite reumatoide siano particolarmente fastidiose al risveglio, tanto che oggi si usano formulazioni di farmaci che consentono il rilascio dei principi antinfiammatori durante la notte — riprende Manfredini —. In prossimità del risveglio e in concomitanza con la fase Rem si incrementa anche l’attività del sistema nervoso autonomo: crescono pressione arteriosa e frequenza cardiaca, il tono dei vasi aumenta e le arterie, soprattutto le coronarie, riducono il loro lume dal 4% in chi è sano, fino all’8% in pazienti con disfunzioni dell’endotelio, il tessuto che ricopre internamente i vasi. A questo si aggiungono la tendenza a una maggiore aggregazione delle piastrine, ancora più probabile in presenza di placche di aterosclerosi, e la riduzione dell’attività di enzimi che “sciolgono” gli eventuali trombi. Al mattino perciò abbiamo la convergenza di almeno una decina di elementi negativi: in chi è sano non è un problema, ma in soggetti più a rischio ciò può innescare infarti e ictus, non a caso più frequenti nelle prime ore del giorno». Ma che cosa accadrebbe se fosse sempre notte? «Sono stati condotti molti esperimenti anche in Italia, nelle grotte di Frasassi, per capire che cosa accade ai ritmi circadiani se manca il sincronizzatore principale, la luce — risponde il cronobiologo —. Di certo ci “sfasiamo” e percepiamo il tempo diversamente, come fosse più lento, perché il ciclo “naturale” dell’uomo in una notte perenne si manterrebbe, così come la necessità di riposo, ma sarebbe un po’ più lungo: avremmo cioè un giorno fra le 24 e le 25 ore. Ciò spiega perché tolleriamo meglio viaggiare attraversando i fusi orari verso Ovest: di fatto allunghiamo la giornata, assecondando il nostro orologio biologico». E, forse, spiega anche perché le giornate ci sembrano sempre troppo corte.

Corriere Salute 15.12.13
Il mistero delle parasonnie


Chi mangia senza saperlo e chi vede gli alieni O siamo svegli, o siamo addormentati. Non sembrano esistere vie di mezzo, a prima vista. In realtà ci sono situazioni intermedie in cui i concetti di sonno e veglia sono molto sfumati. Da svegli siamo coscienti e in grado di muoverci; nelle fasi di sonno Rem invece il cervello è acceso e sta sognando, ma il corpo è paralizzato; all’opposto, nel sonno profondo siamo del tutto inconsapevoli ma i muscoli sono rilassati e possono muoversi. Accanto a questi normali stati esistono poi le parasonnie: non sono quasi mai disturbi patologici del sonno, bensì condizioni insolite e fisiologiche che vanno riconosciute, ma per le quali non servono cure. Nonostante questo, possono far paura, perché pare difficile considerare nella norma gli urli di terrore dei bambini assaliti dal pavor notturno .
Eppure sono manifestazioni innocue, come spiega Federica Provini, neurologa del Centro di Medicina del Sonno del Dipartimento di Scienze Neurologiche dell’Università di Bologna: «Il pavor nei bambini e il sonnambulismo sono parasonnie del sonno profondo, non-Rem: il cervello è addormentato ma la corteccia cerebrale motoria è attiva come fosse giorno. Il bambino con pavor, di 3-4 anni, nelle prime ore della notte inizia a urlare, è arrossato, il cuore batte velocissimo, ha gli occhi aperti (ma al mattino non ricorderà niente). Ed è inutile svegliarlo, perché non è in pericolo. Il sonnambulo invece si alza, per cui esiste il rischio che si faccia male cadendo o urtando qualcosa, ma non è malato e non ci si deve preoccupare, a meno che gli episodi non compaiano da adulto: in questo caso possono essere spia di un’epilessia notturna» .
Le parasonnie del sonno non-Rem sono fra le più frequenti, non sono pericolose e sono accomunate dal fatto che la persona sembra sveglia, ma non lo è: oltre al sonnambulismo e al pavor notturno, lo sono anche i disturbi alimentari del sonno, in cui ci si alza per mangiare (ma spesso c’è un risveglio fugace e una traccia di consapevolezza) o le scosse ipnagogiche, che in forma leggera riguardano il 70 per cento della popolazione e consistono in brevi e improvvise contrazioni degli arti inferiori. «Leggermente diverso è il disturbo comportamentale del sonno Rem, che per motivi ancora sconosciuti riguarda soprattutto uomini di oltre 50 anni — osserva Provini —. Si tratta di una parasonnia del sonno Rem nella quale si perde il meccanismo protettivo che ci paralizza, impedendoci di agire i nostri sogni. Questi soggetti perciò si comportano nella realtà come farebbero nel sogno, che peraltro spesso ha contenuti di lotta o fuga: molti riferiscono di sognare qualcuno che li vuole uccidere. Non sappiamo se questa parasonnia, spesso presente in chi sviluppa sindromi parkinsoniane, costituisca un marcatore precoce di malattie neurodegenerative; va indagata dal neurologo ed esistono terapie che possono risolverla» .
Non servono cure invece per un’altra parasonnia del sonno Rem del tutto innocua anche se terrificante, la paralisi del sonno : in questo caso i muscoli non possono muoversi, perché siamo nella fase del sogno, ma una parte del cervello si “sveglia” lasciandoci parzialmente coscienti. E siccome spesso i sogni sono bizzarri la sensazione non è mai piacevole, tanto che chi afferma di essere stato rapito dagli alieni o aver visto demoni potrebbe soffrire di paralisi del sonno. «È una condizione angosciante: sono attivi solo occhi e respiro, per il resto si è immobili — dice la neurologa —. Accade soprattutto a persone giovani e anche in questo caso dipende da uno scorretto “accoppiamento” delle fasi di sonno e veglia in diverse aree del cervello».
Gli sconfinamenti fra stati di coscienza e incoscienza non finiscono qui e si estendono anche a quando siamo svegli. Se infatti veniamo privati del sonno a lungo, finiamo per avere allucinazioni, come se il nostro cervello avesse necessità di sognare e finisse da sveglio in fase Rem .

Corriere Salute 15.12.13
L’indispensabile paura del buio


La notte è un mondo a parte: i pensieri prendono una piega insolita, ci si sente più liberi da pressioni e inibizioni, più creativi e pronti a sperimentare. Però la notte, da sempre, è anche lo spazio in cui emergono le nostre paure. Non è un caso se per molte culture l’oscurità è il luogo del caos, della paura, della mancanza di calore; né per caso miti, racconti, romanzi e film usano la notte come sfondo a tutto ciò che incute terrore. Ma se la notte è così necessaria per il nostro benessere fisico, anche le paure che evoca sono indispensabili all’essere umano?
Secondo Mathias Clasen, ricercatore al Dipartimento di Estetica e Comunicazione dell’Università di Aarhus in Danimarca, è proprio così: abbiamo una fascinazione per ciò che ci terrorizza, ma questo “amore” per la paura non serve solo a riempire i cinema dove vengono proiettati film horror, bensì è un bisogno primario che affonda le radici nella nostra evoluzione. «L’attrazione per ciò che ci spaventa, per il lato “notturno” della vita, non si può spiegare solo perché così manifestiamo simbolicamente desideri o ansie represse, come vuole l’interpretazione psicanalitica: se vogliamo capire perché “amiamo” avere paura, dobbiamo pensare a come ci siamo evoluti — spiega Clasen —. I nostri progenitori vivevano in un mondo pieno di pericoli reali ed erano preda facile per innumerevoli animali che spesso li assalivano proprio di notte. Queste esperienze hanno lasciato una traccia ancestrale nell’attività cognitiva dell’uomo, oltre che costruito un ottimo sistema biologico di allerta e di risposta alla paura». Essendo stati a lungo prede, abbiamo sviluppato un metodo di “riconoscimento della minaccia” che, una volta attivato dalla vista di un pericolo (in quei tempi lontani un serpente, un grosso carnivoro), “monta” una sequenza di eventi che ci prepara a scappare o combattere: le pupille si dilatano, il cuore pompa più veloce, il sangue corre verso i muscoli. Siccome il costo evolutivo di un mancato allarme era assai elevato (significava rimetterci la vita), il sistema di allerta umano è molto sensibile e basta il sentore di una minaccia per metterci sul chi va là. Ma come “passare” alle generazioni successive questa capacità di allerta? «Rendendo la paura affascinante — risponde Clasen —. La prova arriva dal caso di una donna studiata a lungo dagli scienziati perché, a causa di un danno cerebrale, è incapace di provare paura: le sono stati mostrati diversi film horror e lei, pur non spaventandosi, ha affermato che la divertivano. I nostri antenati dovevano imparare che cosa temere: se il processo di apprendimento era “gratificante” per il loro cervello, c’era una possibilità maggiore che sopravvivessero. Tutto questo si è radicato in noi milioni di anni fa, ecco perché abbiamo più paura di cani, ragni e serpenti che di pericoli oggi più reali, come traffico o grassi saturi; si è radicato però anche il nostro “perverso” piacere a sottoporci alla paura per esercitare, in un ambiente sicuro come un cinema o casa nostra, il nostro innato terrore per il predatore, che sia un animale pericoloso o un mostro partorito dalla fantasia».
Per questo ci piace la notte, per questo abbiamo bisogno di avere paura. Lo ha capito pure Stephen King, lo scrittore, che nel saggio Danse Macabre spiegò: «Creiamo mostri irreali per riuscire ad affrontare quelli reali».

Corriere Salute 15.12.13
Lupi mannari? Forse solo casi di «porfiria»


Chi ha paura delle notti di luna piena? Secondo le credenze popolari il plenilunio fa impazzire, rende gli uomini più aggressivi contro se stessi e gli altri aumentando il numero di suicidi e reati, riempie gli ospedali di partorienti. I cicli lunari influenzano gli animali: certi granchi, molluschi e pesci che si riproducono con l’alta marea hanno un ritmo circadiano legato a quello lunare; la scimmia gufo è molto più attiva durante il plenilunio; alcuni uccelli cacciano solo quando la luna è piena.
Possibile che anche l’uomo modifichi i suoi comportamenti in base alla luce lunare? Risposte univoche non ce ne sono: la polizia del Sussex nel 2007 trovò una correlazione con il numero di crimini, ma una ricerca tedesca del 2009 non l’ha confermata. Quanto al discusso legame fra luna e malattie mentali (il termine “lunatico” affonda qui le sue radici), i dubbi restano: alcuni dati indicano un aumento di crisi epilettiche nei giorni di plenilunio, altri riscontrano che la ciclicità quasi mensile degli attacchi si verificherebbe solo in donne con una particolare forma di epilessia ormono-dipendente. Un recente studio ha mostrato che con il plenilunio impieghiamo in media 5 minuti in più per addormentarci e passiamo 30 minuti in meno nel sonno profondo. Forse la diversa luminosità della notte ha una responsabilità in eventi che “accadono solo con la luna piena”: un medico londinese, negli anni 60, descrisse lesioni cutanee, insonnia, mania, convulsioni, anomalie della pigmentazione della pelle e dei denti come reazioni di ipersensibilità alla luce lunare in pazienti con una rara malattia, la porfiria. Che alla base delle leggende sui lupi mannari vi siano stati alcuni sfortunati malati di porfiria?

Corriere Salute 15.12.13
Con l’aiuto dello psicologo
di Marco Garzonio


L’Ordine degli Psicologi ha avviato una campagna. Lo slogan è «Con l’aiuto di uno psicologo il difficile diventa facile». Il motto è pericoloso, a volerla dire: promette ma è da dimostrare che riesca a mantenere, essendoci di mezzo processi mentali, non macchine. È comunque utile, leggendo il testo, l’invito a riflettere sul «benessere delle persone e delle organizzazioni», ricordare i luoghi dello psicologo (scuola, aziende, servizi pubblici), chiedere «istituzioni coraggiose» e «più attenzione ai cittadini e al bene comune». Restano però delle verità scomode, tipo: le «cure psicologiche» si sono contratte nel privato (professionisti con riduzioni anche del 30-40 per cento nei loro studi); non han soldi per sostenere una terapia giovani, precari, persone in cassa integrazione o senza lavoro, imprenditori in difficoltà, coppie con figli problematici, cioè coloro che avrebbero bisogno di essere accompagnati nell’affrontare la crisi;
nel pubblico poi le psicoterapie sono tra le vittime della spending review che ha investito Sanità e Servizi, sia per adulti sia per bambini e adolescenti. L’Ordine degli Psicologi ha da fronteggiare rabbia e disaffezione di iscritti per lo più giovani alle prese con una realtà ben poco incoraggiante: concorsi bloccati; lavori nel sociale solo come «educatori» non come psicologi, poco pagati con contratti a termine, assunti da cooperative che vincono e perdono appalti (il pubblico non assume più e non fa il turnover) ; alti costi nell’apertura e nella gestione di studi associati privati. Il settore è esemplare d’un Paese vittima di se stesso, di falsi miti, scollamento tra bisogni e possibilità, particolarismi. In un quarto di secolo (è del 1989 la legge istitutiva di Albo e Ordine) il «boom» per la psicologia ha portato a quasi 90 mila operatori (con un trend di 5 mila nuovi iscritti l’anno, uno psicologo ogni poco più di 600 abitanti: record europeo), alla proliferazione universitaria (40 corsi di Laurea e 60 di Specialistica), alla crescita esponenziale di Scuole di Psicoterapia (223, che salgono a 361 se si contano le sedi periferiche). Il paradosso è dunque che in tempi difficili ci sarebbe certo bisogno di professionisti qualificati nel dare senso ai disagi e alle sofferenze, ma la crisi ne frustra il potenziale aiuto.
A godere, si fa per dire, son le case farmaceutiche. Antidepressivi e ansiolitici, da rimedio cui comunque ricorrere con controllo di specialisti e oculatezza, finiscono per esser prescritti da medici di base in trincea a reggere l’urto del diffuso e profondo malessere collettivo. Con una mano il pubblico risparmia, con l’altra paga.
E non risolve. Ci vorrebbe un esame di coscienza collettivo. Gli psicologi possono far la loro parte, con un po’ di autocritica su formazione e gestione degli sbocchi professionali. Ma v’è da recuperare una «cultura psicologica». Questa parte dall’idea di prevenzione e dalla centralità della persona, individuo ed essere relazionale, per giungere a legittimare nel vissuto comune che «farsi aiutare» risponde all’esigenza umana di conoscere se stesso per stare poi meglio anche con gli altri.
Andare dallo psicologo non vuol dire «esser matti», come spesso si crede. Ma credere al dialogo, accettare le difficoltà, dar loro parole, farci i conti, per poi, possibilmente, cambiare dentro di sé e assumersi le dovute responsabilità soggettive e verso il sociale. Se facessero passare nell’opinione corrente l’idea che i problemi si affrontano e che c’è una speranza fatta di lavoro e non di scorciatoie, gli psicologi avrebbero probabilmente autorevolezza nel chiedere a politica e istituzioni d’esser le prime a prendere coscienza che farebbero bene a «curarsi», alla svelta.

Repubblica 15.12.13
Zheng He
Il più grande ammiraglio di tutti i tempi
di Frank Viviano


Ho sentito pronunciare il nome dell’ammiraglio per la prima volta nel 1982 da un ispettore di polizia corrotto. Era un dispotico funzionario di Sumatra. La città di Padang, dove spadroneggiava l’ispettore, è abbarbicata a un estuario acquitrinoso sul versante dell’isola che dà sull’Oceano Indiano. Mi ero fermato alla stazione di polizia per chiedere una cartina geografica, non sembrandomi che vi fosse alcuna logica apparente nelle strade di Padang, ed essendo stanco di vagare senza scopo alla ricerca di un albergo. L’ispettore, bendisposto e cordiale nei confronti di chiunque potesse assicurargli un guadagno, indicò un edificio di tre piani in cemento più su, lungo la strada. «Tutti gli stranieri alloggiano lì. C’è l’aria condizionata» disse. Poi fece un cenno con la mano a un sottoposto, e apparve un vassoio con duetazze di caffè. Esaurimmo i preliminari: di dove ero originario (Detroit; l’ispettore ne aveva sentito parlare); Ronald Reagan (lo ammirava); il mio lavoro («Ah, giornalista»). Il suo viso si oscurò per un momento. Poi passò ai fatti: «Ora le mostro qualcosa». Il sottoposto portò un fagotto di tela e lo appoggiò sulla scrivania. L’ispettore lo disfece, allentando con cautela tutte le pieghe del tessuto fino a tirarne fuori una piccola tazza. Sulla sottile membrana di ceramica, quasi trasparente, era dipinto con uno smalto vitreo azzurro-blu chiaro un drago rampante. La sua bellezza, fragile e pura, era straordinaria. «Dinastia Ming» disse l’ispettore. «È un relitto di una nave naufragata nello stretto di Malacca. Può darsi fosse una delle navi di Cheng Ho, che combatté vicino Sumatra». Non avevo idea di chi stesse parlando. L’ispettore fece un sorriso e scrisse «100 US $» su un pezzetto di carta. Pagai senza tirare sul prezzo. Alcune settimane dopo, a Singapore, appresi che «Cheng Ho» era il nome dialettale di Zheng He, un ammiraglio cinese del XV secolo. «Si sentono raccontare molte cose su di lui, ma non si sa mai a cosa credere» mi riferì un antiquario. «Dicono che fosse un eunuco». La tazza col drago divenne il mio talismano. La lasciai presso un’amica a San Francisco e le facevo visita ogni volta che andavo atrovare lei. Tutto avrebbe potuto concludersi semplicemente così, con un talismano e un’ossessione occasionale, se non fosse stato per la mia amicizia con uno studioso di Berkeley che per i suoi meriti era un personaggio quasi leggendario: Frederic Wakeman Jr. (1937-2006), tra i più stimati e illustri storici ed esperti sinologhi della sua generazione. Fred mi aiutò a svelare i misteri della tazza col drago, e insieme a quelli una saga straordinaria, quasi dimenticata per mezzo millennio.
Poche storie di sopravvivenza — e di trionfo finale — sono più degne di essere conosciute di quella di Ma He, un bambino di dieci anni travolto dai cavalieri Ming che seicento anni fa invasero le pendici dell’Himalaya. Fu scaraventato a terra e castrato, prassi consueta per i giovani prigionieri alla fine del XIV secolo. Quel bambino, reso orfano e mutilato in un’atroce mattina del 1382, nel 1405 sarebbe diventato il secondo uomo più potente della nazione più grande e progredita del mondo, l’ammiraglio supremo dei mari occidentali che sembra balzare fuori dal rotolo di pergamena Ming fotocopiata che si trova sulla scrivania dove sto scrivendo. Quel bambino sarebbe diventato il più grande navigatore in cinquemila anni di storia cinese.
Eppure, per nascita, avrebbe dovuto occuparsi di tutto fuorché di mari, e non era neppure cinese. Ma He era nato nella valle centrale della provincia di Yunnan situata a oltre 1830 metri sopra il livello del mare, e a oltre due mesi di viaggio dal porto più vicino. Era figlio di un ufficiale di basso grado dell’impero mongolo, un musulmano dell’Asia centrale rimasto ucciso dalle truppe Ming durante l’invasione. Nell’ordine naturale delle cose, in Cina era un yi ren,un barbaro. Ma He, barbaro ed eunuco, fu istruito per diventare domestico al seguito di Zhu Di, principe di Yan, quarto figlio di Zhu Yuanzhang, fondatore della dinastia Ming. Possiamo soltanto provare a indovinare quali debbano essere state le pietre miliari dell’ascesa spettacolare di Ma He nel corso dei quindici anni seguenti. Ciò che sappiamo con certezza è che Ma He intorno ai venticinque anni divenne il capo dello staff del principe, e de facto il governatore di Nanchino, la capitale Ming, e uno stratega importante nelle guerre che consolidarono la conquista del Regno di Mezzo da parte della dinastia. Nel 1402 l’ambizioso Zhu Di espropriò il trono al nipote, il secondo reggente Ming, e si autoproclamò Yongle, “l’imperatore eternamente trionfante”. In pratica, ogni monumento che oggi associamo all’Epoca gloriosa della Cina — dal massiccio prolungamento della Grande Muraglia, alle migliaia di templi riccamente adornati, all’immensa Città Proibita eretta nella nuova capitale imperiale Pechino — è opera dell’imperatore Yongle.
Il massimo dell’ambizione di Zhu Di, tuttavia, fu raggiunto dominando la più imponente flotta della storia. Per quarantaquattro secoli la Cina era stata un impero terrestre, delimitato e alimentato dai suoi possenti fiumi. I loro spartiacque furono uniti nel Gran Canale di 1770 chilometri, iniziato nel 500 a. C. e ingrandito in maniera fenomenale da Zhu Di. Alla fine del XV secolo, la Cina si trovò una rete di 120.700 chilometri di corsi d’acqua navigabili. In contrapposizione a ciò, la caratteristica distintiva della marina cinese nel 1402 era un variegato assortimento di imbarcazioni da carico a basso pescaggio, che ben di rado si avventurava più lontano di un miglio o due dalle coste amiche. La storia a questo punto prende una piega imprevista: tra le prime decisioni ufficiali dell’imperatore Yongle c’è una commessa per la costruzione di 3500 navi. Ma He, uomo del tutto privo di esperienza in mare, è chiamato a vigilare sulla costruzione della flotta e in seguito a comandarla. Nel 1404 è ribattezzato Zheng He, dal nome del cavallo da guerra preferito di Zhu Di.
Le navi Ming sono incredibilmente più larghe di qualsiasi altra il mondo abbia mai visto. La conquista europea dei mari del pianeta iniziò intorno al 1490, quando Vasco deGamasalpòindirezionedell’IndiaeCristoforoColomboperleAmeriche.Tutte le loro sette navi sarebbero entrate benissimo sul ponte principale di 7400 metri quadrati della nave ammiraglia di Zheng He. E gli equipaggi europei di 260 persone avrebbero rappresentato soltanto l’uno per cento dei trentamila marinai di Zheng He. Queste cifre sbalorditive, tramandate nel corso dei secoli, furono a lungo considerate solo una leggenda. Poi, in un pomeriggio primaverile del 1962, sotto un cielo coperto, alcuni operai che stavano dragando una trincea allagata sul lungofiume di Nanchino urtarono con le loro pale un pezzo di legno sotterrato lungo quasi undici metri. Si trattava della barra di un timone, affondato nel fango accanto ai resti in disfacimento di un timone la cui superficie arriva a coprire quarantadue metri quadrati, grande a sufficienza da consentire di manovrare una nave delle dimensioni di una portaerei del XX secolo. Solo che risaliva a seicento anni prima.
Il 10 ottobre 1405 la flotta segue la corrente dello Yangtze verso il mare. Secondo il calendario cinese è il primo giorno della Luna del Crisantemo del terzo anno di regno dell’Imperatore Eternamente Trionfante, sovrano di Da Ming, la Dinastia della Grande Luce. Ogni timoniere controlla la propria bussola — un’invenzione cinese, utilizzata per la prima volta nella storia come strumento per la navigazione proprio in questo viaggio — e fissa la rotta verso sud, fino allo stretto di Singapore, per poi virare a ovest nell’Oceano Indiano. Nei trent’anni successivi la flotta da guerra Ming percorse metà globo terrestre nel corso di sette epici viaggi, costruendo una rete di avamposti commerciali e diplomatici che andava dall’odierno Vietnam all’Africa orientale. Sebbene in Cina la storia di Zheng sia stata dimenticata per secoli, egli è stato una presenza quasi divina nel sudest asiatico e oltre. A Giava e nella Penisola Malese mi hanno mostrato strani templi a lui dedicati, nei quali Zheng è raffigurato a uno stesso tempo come un venerato imam musulmano e come un saggio buddista. In remoti villaggi nella giungla lungo il confine tra Somalia e Kenya, alcuni uomini di una tribù africana dagli occhi a mandorla mi hanno detto di essere i discendenti dei marinai di quella flotta che avevano fatto naufragio. Si diceva che Zheng fosse stato alto due metri e tredici, e che la circonferenza della sua vita fosse arrivata al metro e mezzo. Come mi aveva anticipato l’antiquario di Singapore al quale avevo fatto vedere la mia tazza, era difficile capire in che cosa credere.
Soltanto la prova incontestabile di quel gigantesco timone mi ha indotto a proseguire le mie ricerche fino al 2003, quando mi sono imbattuto in un saggio accademico redatto un decennio primada Fred Wakeman. Avevo “conosciuto” Fred Wakeman nel giugno 1989, quando mi telefonò al Kowloon Hotel di Hong Kong. Da molti mesi ero incaricato di co- prire le notizie del movimento democratico cinese per ilSan Francisco Chronicle. La maggior parte dei giornalisti in quella tumultuosa primavera rimase bloccata a Pechino. A maggio, invece, io mi ero messo in viaggio per riferire dell’impatto che il movimento stava avendo al di fuori della capitale. Nelle settimane antecedenti e seguenti al giorno in cui l’esercito fece irruzione in Piazza Tiananmen, il 4 giugno, spedii i miei articoli da una mezza dozzina di province diverse. Il 10 giugno la Gong An (la polizia di sicurezza dello stato) mi arrestò in una cittadina sul delta del Fiume delle Perle. E fui espulso dal paese. Il telefono squillò intorno all’una di notte, non molto dopo essermi registrato in albergo. «Frank? Sono Fred Wakeman». Voleva dettagli su quello che avevo visto. Voleva la mia opinione in proposito, e sapere che idea mi fossi fatto sulla direzione imboccata dalla Cina. «Tu sei lì, Frank» mi disse. «Tu sei il nostro uomo sul posto». Fred Wakeman, così sapevo, aveva occupato la carismatica cattedra del famoso Centro di studi cinesi di Berkeley. Era stato molto influente durante e dietro le quinte dei negoziati degli Stati Uniti con Pechino degli anni Settanta, aveva dato inizio a ricerche e scambi tecnologici che avevano rivestito un ruolo cruciale nello sviluppo economico della Cina. Fu un po’ come se mi avesse telefonato Einstein per avere una mia opinione sulla relatività. Non mi venne in mente di chiedere a Fred notizie sul mio ammiraglio del XV secolo. Del resto, era risaputo che Fred si occupava della Cina del XIX e del XX secolo. Poi, un giorno, su un sito web di Singapore, trovai una versione ridotta del saggio accademico da lui letto a Washington D. C. alla Convenzione del 1992 in qualità di presidente dell’Associazione storica americana. L’argomento della sua dissertazione era Zheng He. Le osservazioni che Fred fece ai suoi colleghi storici offrivano una rigorosa cronistoria dei viaggi dei Ming. Secondo i suoi calcoli, sulla base di quanto aveva letto consultando tutte le fonti disponibili, nel primo viaggio del 1405 si diressero verso l’India 62 colossali baochuan — “giunche tesoro” — di nove alberi. Ogni nave era lunga più o meno 137 metri e larga nella sua parte più ampia 55. «Un vascello di quelle dimensioni avrebbe potuto trasportare almeno tremila tonnellate, mentre nessuna delle navi di Vasco de Gama superava le trecento», sottolineò Fred, assaporando il paragone, «e ancora nel 1588 nessuna nave mercantile inglese superava le quattrocento tonnellate». Erano scortate da centinaia di «navi per cavalli» a otto alberi, destinate alla cavalleria Ming; da navi silos a sette alberi; da navi per le truppe a sei alberi, e da navi da combattimento a cinque alberi. A bordo di quella immensa città galleggiante, continuò Fred, erano imbarcati «diciassette ambasciatori e vice ambasciatori imperiali eunuchi; 62 ufficiali e ciambellani eunuchi; 95 capi militari; 207 comandanti di brigata e di compagnia; 3 segretari di alto livello del ministero; 2 maestri di cerimonia del dipartimento di stato per i cerimoniali; 5 chiaroveggenti; 128 medici; e 26.803 tra ufficiali, soldati, cuochi, approvvigionatori, segretari e interpreti». Cosa per me di gran lunga più importante, la relazione di Fred descriveva un terribile scontro avvenuto nel 1406 tra le navi da guerra di Zheng e i pirati cantonesi nello stretto di Malacca. I pirati furono sonoramente sconfitti, e la maggior parte delle loro navi cariche di bottino andò a fondo, proprio al largo di Sumatra. La tazza! Il collegamento tra quella battaglia e il naufragio di una nave di pirati razziatori nel 1982 era una questione puramente ipotetica, che si reggeva su scarne informazioni. Ma dopo undici anni di ricerche, per me fu abbastanza. Chiamai immediatamente Fred per ringraziarlo e spiegargli ogni cosa. «Ce ne è voluto di tempo prima che trovassi quel documento!» disse ridendo. Pochi giorni dopo nella mia casella di posta elettronica arrivò da Fred un allegato: i suoi appunti per quella relazione. Erano oltre dieci pagine scritte a spazio uno. La quarantaduesima nota a piè di pagina mi fece conoscere Ma Huan, che si autodefiniva un «semplice boscaiolo» e un amico musulmano di Zheng, in grado di parlare arabo e fungere quindi da interprete per l’ammiraglio. Ma Huan aveva tenuto un diario molto dettagliato negli anni trascorsi a bordo della flotta Ming. E quel diario divenne la mia cartina geografica, la mappa da seguire quando nel 2004 tornai in Cina per un servizio per il National Geographic, e iniziai a ripercorrere, questa volta con informazioni molto più affidabili, i viaggi di Zheng He. Il diario di Ma Huan, intitolato Ying Yai Sheng-lan (“Panoramica generale delle sponde oceaniche”) fu pubblicato nel 1451, alla vigilia della morte del suo autore.
Il diario, come la storia che esso narra, sembrava disperso e si sapeva dell’esistenza teorica di tre sole copie. Un modesto picco di interesse per il diario ci fu dopo la scoperta nel 1962 della barra del timone di Nanchino, quando un esiguo gruppo di studiosi (tra i quali il mentore stesso di Fred a Berkeley, lo storico della Cina Joseph Levenson) iniziò a ricostruire la saga perduta della flotta dell’imperatore Yongle. I ricercatori avevano poche fonti concrete sulle quali fare affidamento. Oltre il 90 per cento dei molti milioni di documenti che un tempo si trovavano custoditi negli archivi Ming di Pechino e Nanchino era andato distrutto per ordine degli imperatori che vennero dopo di lui, quando la dinastia abrogò la politica marittima oceanica di Zhu Di, sposando l’isolazionismo che avrebbe caratterizzato le relazioni estere della Cina per i secoli a venire. La maggior parte delle navi fu data alle fiamme e ai mercanti cinesi si proibì di viaggiare all’estero. Nell’oscurità angosciante di questo vuoto, la pergamena dell’interprete fu come un’esplosione di luce.Ying Yai Sheng-lanè il resoconto di un testimone diretto della vita quotidiana e delle scoperte della flotta. Ha la grezza schiettezza dell’esperienza concreta, lo stupore della scoperta di un mondo nuovo e spesso esotico e bizzarro, lontano migliaia di miglia dal mondo conosciuto fino ad allora. Ma Huan è divertito dal Siam, l’odierna Thailandia, dove «i mariti sono fieri di offrirci le loro mogli, e considerano l’intimità sessuale con gli stranieri un onore reso alla bellezza delle loro donne». Per quanto riguarda gli uomini, si osserva nella pergamena, «quando raggiungono i vent’anni con un fine coltello si incide loro il prepuzio, come noi faremmo con una cipolla, e vi si inserisce una dozzina di piccole perline. Quando poi la pelle si rimargina, le perline assomigliano a un grappolo di acini che produce un suono tintinnante, considerato vera e propria musica». L’autore del diario svolge ricerche sul commercio delle spezie nella città indiana di Cochin (oggi Kochi), descrive il primo mercato di materie prime al mondo, riporta una storia raccontata dagli ebrei di Cochin su un sant’uomo di nome Moshie che punì il suo popolo perché adorava un vitello d’oro. I mercanti di gioielli di Ceylon raccontano a Ma che i loro rubini sono lacrime cristallizzate del Buddha. E per ordine di Zheng egli prende parte anche all’haj, il pellegrinaggio islamico alla Mecca. Ma Huan parla di uno strano animale africano, alto cinque metri e con un collo lungo tre, e immagina che sia una sorta diqilin, lontano parente del leggendario unicorno (benché sia più simile a una giraffa). Spiega i dieci usi di una noce di cocco, ed elenca gli uccelli, gli animali, le piante di ogni paese che visita. Molto più di un semplice diario, Ying Yai Sheng-lanè un trattato sulla società e la natura di mezzo pianeta nel XV secolo, è il resoconto dettagliato di un’impresa straordinaria: la flotta di Zheng, la più letale in circolazione, avrebbe vigilato assiduamente sui mari per trent’anni, senza conquistare nessuno stato straniero e senza annettere una fetta qualsiasi di territorio. Come diceva il fu Franz Schurmann, altro leggendario sinologo di Berkeley, la visione che stava dietro quell’impresa mastodontica era «un mondo di scambi, più che un mondo di conflitti». Un mondo inimmaginabile, per gli standard dell’imperialismo occidentale che arrivò alla ribalta il secolo dopo.
Ci sono buoni motivi per ritenere che Zheng sapesse che la lotta contro l’isolazionismo era già persa. Dopo aver superato la foce dello Yangtze sulla sua nave ammiraglia, si fermò al largo di Chang Le, un porto nella provincia di Fujian dove nei precedenti viaggi aveva già fatto salire a bordo uomini dell’equipaggio e rifornimenti. Una stele di granito fu eretta in quel porto, incisa per mano dello stesso Zheng, che vi elencò tutti gli approdi della sua flotta, «complessivamente in oltre trenta paesi piccoli e grandi». La stele riportava le avventure condivise da Zheng e dai suoi marinai: le terrificanti ondate sollevate da un uragano; il ruolo che la flotta aveva avuto nel riportare sul suo trono perduto il legittimo re dello Sri Lanka; le zebre, i leoni, i leopardi e gli struzzi portati all’imperatore Yongle in regalo da parte dei sultani delle città-stato africane; e in dettagli grafici molto chiari l’annientamento della flottiglia pirata, che presumibilmente fece andare a fondo nello stretto di Malacca la mia tazza col drago. Intento dichiarato del monumento — l’iscrizione lo diceva chiaramente — era quello di consentire la riscrittura della storia, fissare «gli anni e i mesi dei viaggi» nella pietra, «allo scopo di lasciarne il ricordo imperituro». Si crede che Zheng sia morto nel 1432 o all’inizio del 1433, prima del ritorno della flotta in Cina, e che sia stato sepolto in mare al largo delle coste indiane. Mi sono recato a vedere la stele di Chang Le nel 2004. Dopo sei secoli era ancora leggibile ed esposta con orgoglio in un piccolo museo. Da un certo punto di vista era servita allo scopo.
La storia di Zheng He ha vissuto un recupero di primaria importanza nella nazione che per oltre 500 anni l’aveva messa a tacere. Il bambino che nel 1382 giaceva su una collina di Yunnan, dopo aver perso i genitori ed essere stato mutilato, adesso è considerato un eroico precursore dell’odierna Cina in piena espansione, il presagio stesso della sua ascesa come colosso globalizzante nel 2011. Fred Wakeman, che nella nostra epoca si è tanto adoperato al pari di molti altri studiosi per riabilitare la figura di Zheng, si sarebbe permesso di dissentire. Nutriva seri dubbi, già dieci anni fa, sulle tattiche di esportazione di Pechino all’estero, e sul dispotismo del suo partito unico a livello interno. Non è questo ciò che Fredaveva in mente quando alla fine degli anni Settanta aveva aiutato la Cina a intraprendere il processo di modernizzazione. Come l’ammiraglio eunuco dei mari occidentali, Fred è stato un inguaribile cittadino di un mondo più promettente. Il mondo dell’autenticoscambio.
(Traduzione di Anna Bissanti) © Frank Viviano 2013

Repubblica 15.12.13
L’educazione sentimentale al principio di realtà
Da Freud a Benigni a Mark Twain, ecco come le narrazioni servono agli adolescenti per entrare in contatto con la vita
di Massimo Ammaniti


Questo rinnovato interesse editoriale per quello che succede nella vita quotidiana dei bambini e degli adolescenti sembra spostare il baricentro dal mondo delle storie fantastiche popolate da esseri sovrannaturali oppure da maghi ed orchi a racconti che riflettono maggiormente la vita reale con i suoi ostacoli e le sue difficoltà, che devono essere affrontate e superate. Si tratta di due poli, quello della fantasia e quello della realtà, attorno a cui si organizza la vita psichica dei bambini, come ha messo in luce il pediatra e psicoanalista inglese Donald Winnicott. E se queste due dimensioni dell’esperienza sono apparentemente in contrapposizione, sono tuttavia fortemente intrecciate, proprio perché se le fantasie non sono ancorate alla realtà possono divenire dilaganti e far perdere di vista la propria collocazione personale. E se la realtà non si arricchisce di risonanze fantastiche, rischia di condurre a una visione concreta ed appiattita.
Ci si può chiedere perché l’editoria oggi proponga dei libri che mettono a fuoco vicissitudini legate alla vita quotidiana, che sembrano essere accolte positivamente dai genitori e anche dai bambini e dagli adolescenti.
Un primo obiettivo di questi libri è quello di sostenere i genitori nel loro compito di aiutare il figlio fin dai primi anni di vita a riconoscere i codici e le regole della vita quotidiana, per esempio quando esci da scuola, se qualcuno che non conosci ti rivolge la parola, non rispondergli e rimani accanto ai tuoi amichetti. I genitori, oltre a fornire il supporto affettivo ai figli, condividendone emozioni e stati d’animo, sono anche i primi educatori che devono guidare l’esplorazione del mondo da parte dei figli, riconoscendo i possibili pericoli che possono incontrare ed imparando a fronteggiarli senza farsene sovrastare. In altri termini, un’educazione sentimentale alla realtà. Probabilmente, molti si ricorderanno il film di Roberto Benigni La vita è bellain cui padre e figlio vengono imprigionati in un campo di concentramento nazista e il padre è preoccupato che il figlio non ne venga traumatizzato e che soprattutto riesca a salvarsi dal pericolo. Per questo motivo, quando i soldati nazisti trasmettono ai prigionieri le regole del campo, il padre si propone di tradurle in italiano cambiando gli ordini dei soldati in modo che il figlio non ne veda la brutalità e sia in grado, quando arriveranno le truppe americane a liberarli, di rivolgersi a loro per salvarsi.
Il secondo obiettivo è quello di raccontare ai bambini e agli adolescenti delle storie con cui si possano identificare, stimolando la condivisione delle avventure dei protagonisti, spesso della loro età, delle loro apprensioni e delle loro paure, ma anche degli espedienti e delle tattiche che mettono in atto per sventare i pericoli. L’apprendimento non passa soltanto attraverso indicazioni dirette, divieti e prescrizioni, ma soprattutto attraverso narrazioni che utilizzano analogie e metafore che facilitano l’identificazione affettiva che è molto più efficace di qualsiasi processo cognitivo basato sulla razionalità delle argomentazioni. Molte favole che venivano raccontate ai bambini, soprattutto in passato, servivano proprio a questo: farli entrare nel mondo fantastico dei personaggi e nello stesso tempo trasmettere informazioni e orientamenti educativi e prescrittivi.
Questa forte sottolineatura del principio di realtà, oltre a essere stato costantemente messo in luce da Freud in contrapposizione al principio del piacere, è stato poi centrale nel pensiero dello psicoanalista inglese John Bowlby, ben noto per la sua teoria dell’attaccamento. Secondo Bowlby, le particolari capacità umane di adattamento al mondo reale ne hanno permesso la sopravvivenza e addirittura l’affermazione in termini evoluzionistici e ogni genitore funziona come una “base sicura” da cui il figlio si diparte per iniziare la sua esplorazione del mondo. È evidente che le prime esplorazioni dei bambini sono ancora limitate e avvengono sotto gli occhi vigili dei genitori, ma progressivamente si ampliano anche grazie alla maturazione delle capacità e all’esperienza che si è accumulata. Per cui, i genitori possono assistere a distanza senza interferire con la sperimentazione dei figli.
Un terzo obiettivo di questa produzione editoriale ha a che fare con il mondo contemporaneo che è divenuto via via più complesso e ricco di insidie, soprattutto per i bambini e gli adolescenti. Così, i genitori hanno bisogno di supporto per orientarsi, basti pensare alla pedofilia in Internet o ad altre forme di adescamento dei bambini e degli adolescenti. Ma forse questo rinnovato interesse per libri che raccontano la vita dei bambini non rappresenta una novità. Infatti, il romanzoLe avventure di Tom Sawyerdello scrittore americano Mark Twain, pubblicato nel 1876, raccontava la storia di un ragazzo di dieci anni che vive nel sud degli Stati Uniti e che, durante le sue scorribande, si trova ad assistere all’uccisione del medico del suo paese. La sua testimonianza in tribunale sarà poi decisiva per scagionare il povero Muff Potter, sospettato di esserne l’autore e per trovare il vero colpevole. Il libro poi finisce con la scoperta da parte di Tom e del suo amico Huck del tesoro nascosto dall’omicida e entrambi diventavano ricchi e rispettati da tutti.
Mentre nel romanzo di Mark Twain le insidie per i ragazzi erano legate al mondo della campagna americana, oggi i pericoli sono ancora più complessi, spesso legati alle seduzioni che vengono dalla Rete. E proprio per questo i ragazzi devono imparare a sfuggirli facendosi guidare anche dai libri.

Repubblica 15.12.13
Chissà perché Hawking non vince il Nobel
di Piergiorgio Odifreddi


È da poco uscita laBreve storia della mia vitadi Stephen Hawking, “gallina dalle uova d’oro” della divulgazione scientifica. Fin dai dieci milioni di copie diDal Big Bang ai buchi neri,lo scienziato britannico ha infatti saputo attrarre l’attenzione di un pubblico che, al di là dell’interesse scientifico, è affascinato da parole d’ordine che riempiono la bocca, quali “buco nero” o “tempo immaginario”. L’uomo Hawking è un eroe dell’ottimismo e della lotta per la vita. Nonostante sia inchiodato da quarant’anni su una sedia a rotelle, a causa di una degenerazione dei neuroni motori che colpassare del tempo l’ha ormai praticamente paralizzato, continua a bere con piacere le gocce dell’amaro calice della sua vita, che nonostante tutto definisce «piena e soddisfacente». Parla e scrive grazie a un sistema informatico che controlla faticosamente con movimenti millimetrici degli occhi e delle guance, viaggia per il mondo, ha persino sperimentato l’assenza di gravità nel Vomit Comet. Lo scienziato Hawking è conscio del fatto che la sua fama è in massima parte dovuta allo “stereotipo del genio disabile”, ma alimenta volentieri la leggenda che lo presenta, fin dallacopertina del libro, come «una delle menti più brillanti del nostro tempo». Ricorda di essere nato «esattamente 300 anni dopo la morte di Galileo», e dice di non aver ancora vinto il Nobel perché le sue idee sono «difficili da verificare sperimentalmente».In realtà, le idee del tempo immaginario e dell’entropia di un buco nero, che egli orgogliosamente attribuisce solo a se stesso, sono dovute rispettivamente a Gian-Carlo Wick, nel 1954, e a Jakob Bekenstein, nel 1972. Che sia per questo che Hawking non ha preso il Nobel, ma vende milioni di libri?

Repubblica 15.12.13
Primo Levi
Il “Rapporto su Auschwitz” in 400 copie
di Stefano Bartezzaghi


Fuori dal testo ci sono anche le esperienze e i testi che l’hanno preceduto. Come appare chiaro agli studiosi almeno dall’uscita delle Opere di Primo Levi curate da Marco Belpoliti (Einaudi, 1997), Se questo è un uomo è al centro di una costellazione di testi il primo dei quali è il Rapporto su Auschwitz e sulla sua organizzazione igienico-sanitaria, che fu riscoperto da Alberto Cavaglion nel 1991.
Primo Levi lo aveva scritto assieme al medico ed ex-deportato Leonardo De Benedetti e lo aveva pubblicato su una rivista medica, nel 1946. È un testo che ricerca l’oggettività dello sguardo scientifico, affidando al suo solo contenuto il compito di colpire il lettore.
Già compreso nella citata edizione delle Opere, ora ne è stata fatta un’edizione a tiratura limitata (400 copie), con apparati e un saggio dello storico Fabio Levi.
Non parente, ma direttore del Centro Studi Internazionali Primo Levi (www.primolevi.it), Centro che l’edizione realizzata da Einaudi vuole sostenere e far conoscere.

Repubblica 15.12.13
Sulla spiaggia mistica di Friedrich il più tormentato dei messaggeri di Dio
di Melania Mazzucco


Di notte, sulla riva del mare, si aggira solo una figura vestita di scuro — sperduta nell’immensità grigia del cielo che lo sovrasta. La riga nitida dell’orizzonte divide l’acqua e l’aria. La sabbia chiara fa risaltare la sagoma dell’uomo. Che è minuscola: la sua testa non sfiora nemmeno l’orizzonte. Il contrasto fra le dimensioni non potrebbe essere più forte. Non c’è nessun raccordo tra primo piano e sfondo, tra figura e paesaggio: l’uomo e la natura sono incommensurabili. Il mare è uno specchio livido su cui volteggiano virgole bianche: i gabbiani. Il quadro fa ascoltare il silenzio di una spiaggia nordica deserta, rotto solo dal bercio degli uccelli. Le nuvole sembrano generarsi da sé, avanzando verso di noi. Incombono, brumose come fumo. Occupano i tre quarti della superficie pittorica. Niente è più difficile che dipingere le nuvole. Esse sono immateriali, informi. Quando Goethe gli chiese di illustrare le teorie meteorologiche di uno scienziato sull’origine delle nuvole, Friedrich rifiutò. Le nuvole per lui non erano materia di studio scientifico, ma metafisico: segni arcani del trascendente.
Il quadro è di una nudità ascetica, identica a quella dello studio sulla riva dell’Elba, a Dresda, in cui fu dipinto: Friedrich vi teneva solo il cavalletto. Non una seggiola né un album, nemmeno la scatola dei colori. Niente doveva disturbare la sua concentrazione. Preparava con cura le sue tele, riempiva i quaderni di disegni meticolosi dal vero — alberi con tronchi e fogliame, scogliere, montagne. Ma il quadro doveva nella sua mente, come un ricordo e una visione: perché il compito del pittore non è la fedele rappresentazione della realtà davanti a lui, ma il riflesso di questa dentro di lui, nella sua anima. Solo allora poteva dipingere.
Massima sobrietà nella selezione degli elementi pittorici e del colore, con la tavolozza arpeggiata sulle sfumature e sulle armonie del grigio. Il monaco, le nuvole e il mare. Nessuna cornice guida lo sguardo dello spettatore o aiuta a dirigerlo. Non un albero, una colonna, una quinta laterale qualunque — come imponeva la tradizione della pittura di paesaggio e la grammatica della visione. Con audacia, Friedrich eliminò il superfluo: rappresentò il vuoto e si avventurò verso l’astrazione pura. Le composizioni per bande orizzontali di Rothko sono state spesso paragonate a questo quadro. L’unico elemento verticale di un’immagine costruita sull’orizzontalità è il viandante sulla spiaggia. Ci volta le spalle, costringendo lo spettatore a identificarsi con lui — a guardare ciò che lui guarda. Indossa una tonaca. È un monaco. Ha le sembianze del pittore stesso. L’artista è un messaggero di Dio, l’arte una religione. I quadri devono farvedere l’invisibile.
Il monaco sulla riva del mare trasmette la vertigine dell’infinito. Il rapimento davanti all’assolutamente grande. Insomma, l’esperienza estetica del sublime. Che è anche smarrimento, sconfinata solitudine. Friedrich lo concepì come primo capitolo di una storia. Nel secondo, Abbazia nel querceto, raffigurava il proprio funerale. Minuscoli monaci neri accompagnano il confratello morto (il pittore) alla sepoltura: verso un rudere gotico, in una foresta scheletrita della Pomerania svedese, sulla costa del mar Baltico. Dunque il Monaco è anche una meditazione sulla morte — sul passaggio dal finito all’eterno. La spiaggia è un limite, l’orlo del mondo. Come la riva dell’Acheronte. In una prima versione, Friedrich aveva dipinto due navi che veleggiavano all’orizzonte. Nella seconda metà della sua vita, e fino alla morte, avrebbe dipinto spesso velieri. Vascelli reali e fantasmatici, veicoli di viaggi reali e simbolici — verso l’altrove, l’ignoto, l’aldilà. Qui, invece, li ricoprì di pittura, cancellandoli. Nulla deve frapporsi fra il monaco e l’infinito. Il monaco è dunque il pittore stesso, ogni spettatore, ma anche un’anima sul punto di varcare il confine — e scoprire il mistero dell’universo.
Gli scrittori, i pittori, i musicisti e i filosofi romantici — ospiti provvisori e a disagio nel mondo — erano ossessionati dalla morte. Leggevano iCanti di Ossian e i versi di Novalis; la nostalgia dell’infinito li induceva talvolta al suicidio o alla follia. Nel 1808-10, Friedrich condivideva le loro aspirazioni e le loro angosce. Malinconico dall’indole «strana, tetra e dura», in gioventù seminava nei propri quadri tombe, cippi, croci, civette, cimiteri. Ma non vedeva la morte come annientamento. Credeva in Cristo, in Dio, nella resurrezione. Per vivere in eterno, la morte era necessaria: non una fine, ma un passaggio. Il monaco è solo nel mondo. La ragione e la conoscenza non bastano a spiegarlo. Nel suo cammino non troverà soccorso né salvezza. Eppure deve continuare a cercare.
Brentano, von Arnim, Kleist e Goethe ammirarono l’atmosfera e la lugubre bellezza del quadro, ma rimasero anche atterriti e sgomenti da questa «pittura del nulla». Così chi lo comprese davvero fu un ragazzino di 15 anni. Non bisogna meravigliarsi. L’adolescenza aspira all’assoluto. Il ragazzino convinse il padre ad acquistarlo. Il padre era Federico Guglielmo III di Prussia, e il ragazzino il principe ereditario: sarebbe diventato sovrano a sua volta. Il regale apprezzamento cambiò la vita di Friedrich. Il malinconico misantropo fece parte della comunità, partecipò con slancio (da artista, non da soldato) alle guerre di liberazione contro Napoleone, sognò pace, libertà e democrazia. L’entusiasmo svanì presto, come il successo, la gloria e la ricchezza. Il mistico Friedrich ricevette dai contemporanei critiche sempre più perfide, venne dimenticato e morì indigente e incompreso. Ma aveva già divorziato dal suo tempo. La malinconia virò in depressione e mania di persecuzione. Continuò a dipingere cieli, velieri, naufragi — la terribilità della natura e la fragilità dell’uomo e delle sue illusioni. Friedrich si sapeva minuscolo, irrilevante come un granello di sabbia. Eppure capace di pensare l’infinito, e di rappresentarlo. L’aveva detto in questo quadro, dipinto nella maturità dei suoi trentacinque anni. L’uomo sta in piedi sulla riva del mare, ritto, quasi eroico — un orgoglioso punto esclamativo nell’immensità del cosmo.

Il monaco sulla riva del mare (1809-1810) 110×171,5 cm Alte Nationalgalerie, Berlino

La Stampa 5 pagine! 15.12.13
Colloquio su fame nel mondo, sofferenza dei bambini, riforma della Curia, donne cardinale, Ior e possibile viaggio in Terra Santa
“Coltivate la speranza e non abbiate mai paura della tenerezza”
L’accusa di marxismo. “L’ideologia marxista è sbagliata ma nella mia vita ho conosciuto tanti marxisti buoni come persone. Per questo non mi sento offeso.
Io ho parlato di eonomia secondo la dottrina sociale della Chiesa, e ciò non significa essere marxisti”
“La politica se non aiuta le persone fa imputridire la Chiesa”
Intervista con Papa Francesco: la Chiesa se non sa abbracciare diventa corpo freddo
di Andrea Tornielli

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