lunedì 16 dicembre 2013

La Stampa 16.12.13
La sala esplode all’arrivo del segretario
Un uomo solo al comando Matteo ritorna al primo Pd
Il segretario non concorda i discorsi né annuncia i cambi di linea
Un volontario; Speriamo che non sia arrivato l’unto del signore
Un veterano del Pci: Ai miei tempisi cantava l’internazionale L’Inno di Mameli era della destra
di Federico Geremicca


L’uomo solo al comando, per dirla alla maniera in cui l’ha detto per mesi Pier Luigi Bersani, ha tagliato ieri il suo traguardo e il Pd in maniera plasticamente evidente è già diventato una cosa diversa da quel che era. La metamorfosi, cominciata col trionfo di Matteo Renzi alle primarie (8 dicembre), ha compiuto il suo corso in sette giorni, e si è completata nei grandi spazi della struttura di cemento e ferro della Fiera di Milano. E così, dalla crisalide di un Partito democratico e in divenire, è venuto fuori un organismo sconosciuto ai vecchi dirigenti e ai militanti: una cosa che somiglia assai da vicino a quel che loro stessi definivano, sprezzantemente, un «partito Nulla a che vedere, naturalmente, con i prototipi classici di cui si è detto e scritto tanto: la prima Forza Italia di Berlusconi (la prima, ma anche quest’ultima riedizione), l’Italia dei Valori di Di Pietro, i partiti di Casini, di Monti e Beppe Grillo. A differenza degli esempi citati, infatti, Matteo Renzi non è né il fondatore né il «padrone» del Pd: ma per formazione, cultura ed età, pare deciso a dirigerlo proprio come ne fosse il «padrone» oppure il fondatore...
E’ una novità travolgente per gli eredi di partiti (la Dc e il Pci) che furono volutamente sempre e precisamente il contrario di un «partito personale»: e i rischi di rigetto, dunque, sono solidissimi, concreti e (forse) attuali. Ma se leader indiscussi come D’Alema e Marini, oppure Bersani, Bindi e Veltroni, hanno combattuto la metamorfosi ma deciso alla fine di non strappare (di non scindersi, cioè) vuol dire che anche a loro, in fondo, è diventato chiaro che il tempo è inesorabilmente mutato: e che partiti senza una leadership visibile e forte sono destinati in Italia come già in Europa al declino ed alla progressiva marginalizzazione.
E’ questo quel che si percepiva ieri, con inedita nettezza, nel giorno del primo discorso di Renzi da segretario proclamato. Nei corridoi e nelle grandi sale della Fiera, infatti, non uno nemmeno tra i «fedelissimi» del neo-segretario aveva idea di cosa potesse riservare la giornata. Cosa dirà Renzi? Attaccherà più Grillo oppure Enrico Letta? Ipotesi, tentativi, pareri un po’ azzardati: nessuno sapeva. E c’è qualche nome a sorpresa tra i «magnifici venti» che il neo-segretario aggiungerà di suo ai 120 della Direzione? Braccia larghe e sorrisi di maniera: nessuno sapeva.
E’ un po’ quel che accade alla vigilia di ogni discorso di Berlusconi o quando si prova a ipotizzare lo sberleffo prossimo venturo del leader dei Cinque Stelle. Le differenze sono tante, naturalmente: ma non, diciamo così, lo stile di direzione. Questione forse di formazione, di cultura e di età. Ma questione anche di efficacia e forse di sopravvivenza: «Molti di quelli che mi hanno votato ha spiegato Renzi nel suo primo discorso da segretario l’hanno fatto pensando: “Proviamo anche questo, ma poi basta”. Io sono il destinatario, insomma, di un ultimo appello... ». C’è naturalmente una profonda differenza tra un mero «partito personale» (dizione qui usata per comodità) ed un partito dotato di una leadership credibile e autorevole. Secondo molti, per esempio, proprio il Pd per la genesi, le ambizioni originarie e la dichiarata vocazione maggioritaria non avrebbe potuto che esser caratterizzato da una leadership visibile, indiscussa e straordinariamente orte. Fu in qualche modo così (dunque inevitabilmente così) nei primi tempi dell’era Veltroni: e non pochi osservatori spiegano la crisi del Pd proprio con il venir meno di quella leadership ed il riemergere di correnti, gruppi e perfino dei fantasmi di Ds e Margherita.
Con Renzi, insomma, si torna in qualche modo alle origini: uno guida, gli altri a spingere il carro. E chi guida, ha massima autonomia: non concorda i suoi discorsi, non annuncia i cambi di linea, non spiega promozioni, bocciature e inversioni di percorso. E nemmeno avvisa, naturalmente, se ritiene sia venuto il momento di buttar giù il governo. Ieri, alla fine del discorso di Renzi severo e ultimativo con l’esecutivo Rosy Bin-
di ha mandato un messaggino a Enrico Letta: «Ti senti rassicurato?» «Tu che dici?», le ha risposto il premier. «Se vuoi ne parliamo»... Ci sarà tanto di cui parlare, questo è certo: ma con un Pd che, tra avvertimenti, sfide e diktat non concordati, ha riguadagnato il centro del ring. Ancora due mesi fa non ci avrebbe scommesso nessuno.

La Stampa 16.12.13
Tutti i big in direzione (anche D’Alema)
Renzi ha due terzi del partito
Le quote: 81 a Renzi, 22 a Cuperlo, 17 a Civati, oltre ai venti nomi della società civile
di Carlo Bertini


La linea Maginot ha ceduto quasi subito, quando all’ora di pranzo si è saputo che anche gli ex premier sarebbero entrati in Direzione nella quota dei cosiddetti «membri per funzione», si è capito che D’Alema, seduto in prima fila, aveva vinto. «Ci sono tanti problemi, il primo è che noi vorremmo evitare di infilare tutti i vecchi big per dare un segnale di rinnovamento», confessava di buon mattino una renziana del cerchio stretto facendo capire chiaramente a chi si riferisse. Ma col passar delle ore gli spifferi in arrivo dalle stanze dietro il palco, dove anche un battagliero Franco Marini sedeva alle riunioni dei cuperliani, riportavano un bollettino di guerra che registrava morti e feriti in tutti i campi di battaglia. «Gianni ha un problema con la quota rosa, ha troppi uomini», «Il Lotti ha trecento candidati per ottanta posti, ne deve parlare con Matteo, chissà come ne esce».
E quindi per carità di patria, la resistenza ha ceduto il posto alla prassi, il nuovo corso in questo caso non è valso e come sempre avvenuto il braccio di ferro sui «membri di diritto» si è concluso con un tana libera tutti. Da cosa? Dalle tensioni e dalle pressioni interne alle correnti, che consigliavano di lasciare spazio agli «ottimati» per risparmiare preziosi posti nelle quote: 81 a Renzi, 22 a Cuperlo, 17 a Civati, oltre ai venti nomi della società civile, appannaggio del segretario. E quindi un nodo scioglie l’altro e in Direzione ci saranno tutti, o quasi, a vario titolo: Veltroni, Bersani e Franceschini come ex segretari, Fassino come sindaco di grande città al pari di Ignazio Marino e Michele Emiliano, lo stesso Pittella con Civati e Cuperlo come «candidati segretari» alle primarie. E poi i governatori del Pd, Errani, Burlando, il toscano Enrico Rossi, Nicola Zingaretti.
Perfino su questi venti che spettava a lui e solo a lui indicare, Renzi si è dimostrato di manica larga con le minoranze, forte del fatto di aver conquistato sui centoquaranta membri della direzione nazionale i fatidici due terzi: necessari ad avere il potere assoluto sulle liste elettorali, casomai dovesse servire questa arma finale. Dunque anche la lista dei venti sindaci scelti dal leader ha un tocco di Cencelli: due sono di area Cuperlo, Vladimiro Boccali, sindaco di Perugia e Monica Chitto’, di Sesto San Giovanni. Mentre è di area Civati il sindaco di Bogliasco, sulla riviera ligure, Luca Pastorino, che è pure deputato. Ma gli altri sono renziani, Pino Catizzone, sindaco di Nichelino, Stefano Scaramelli, di Chiusi, il giovane Sindaco di San Giovanni in Lupatoto nel Veneto, che era in predicato per entrare in segreteria. Anche in commissione di garanzia, Cuperlo ne ha due su nove, Franco Marini e Aurelio Mancuso, tanto che si parla di Enrico Morando, renziano in quota Veltroni, come possibile presidente in sostituzione di Luigi Berlinguer.
Ma se ieri sono rispuntati in platea tutti i big assenti lo scorso 24 novembre quando l’assemblea dovette sancire i risultati delle primarie tra gli iscritti, è perché tutti sono entrati nell’organismo plenario sapendo di avere un posto prenotato pure in Direzione. In seconda fila sedeva Rosy Bindi, presidente dell’antimafia, la sola che non è entrata, quasi defilato in fondo alla sala Beppe Fioroni che invece nel «parlamentino» esecutivo c’è. Come ci sono i «turchi» che contano, Fassina, Orlando, Orfini. I renziani della prima ora, come Delrio e Richetti e Roberto Reggi, ripescato, al contrario di Giorgio Gori che non compare. Sparuta la rappresentanza dei lettiani, con Paola De Micheli, Francesco Boccia e Francesco Sanna, ben divisi tra quota Cuperlo e quota Renzi. Forse anche per questo il Cencelli sembra aver penalizzato soprattutto i sostenitori del premier...

Repubblica 16.12.13
Il rottamatore adesso cerca l’unità. Persino D’Alema elogia il suo discorso
Disgelo tra i due: “Massimo, risponderò subito alla tua lettera”
di Goffredo De Marchis


MILANO — È il giorno del gemellaggio tra Rottamatore e Rottamati. A Veltroni sussurra una coccola: «Walter, senza di te non ci sarebbe stato il Pd». Con D’Alema, il “nemico” seduto in una prima fila laterale, scambia una stretta di mano e qualche battuta di spirito. L’ex premier deve avergli mandato una lettera personale e il neosegretario lo saluta così: «Ti risponderò subito ». Forse la “guerra” continua, ma in forma epistolare. Al riparo dalle cronache giornalistiche. E intanto incassa il commento positivo dell’ex premier: «Un buon discorso, un tentativo di indicare una piattaforma di confronto aperta». Dal palco Renzi ringrazia Bersani,Franceschini, Epifani, i predecessori. Enrico Letta applaude molti passaggi del suo discorso di investitura, ricambiando l’accoglienza ricevuta qualche minuto prima. Quanto durerà?
Matteo Renzi va davvero oltre la rottamazione. Ora se lo può permettere, ha tagliato il traguardo. Ma c’è anche un altro elemento: l’uomo solo al comando non ce la fa, soprattutto se cerca la rivoluzione. Non con i gruppi parlamentari che sono quelli del vecchio Pd. Per questo l’obiettivo di Matteo Renzi è conquistare tutto il Pd. Giovani e vecchi. Nuova guardia e nomenklatura del passato. «Ha stravinto le primarie», ammette Letta. I notabili ne prendono atto e stavolta partecipano all’assemblea nell’ex Fiera di Milano. Quindici giorni fa avevano snobbato la Convenzione che ratificava il risultato dei congressi degli iscritti. Ma in mezzo ci sono stati i due milioni e 800 mila elettori delle primarie e il trionfo di Renzi. Alla fine, in politica, i voti contano e i big (ex?) sanno che non conviene far innervosire la gente con atteggiamenti di superiorità. O dispetti infantili.
Sala strapiena. I mille delegati del congresso quasi tutti presenti. Disseminati in platea i dirigenti del vecchio Pd. Beppe Fioroni seduto in ventesima fila (ma entreràin direzione). Rosy Bindi poco più avanti, tra i delegati semplici (e lei è fuori dalla direzione). D’Alema e Veltroni si stringono la mano veloci. Bersani dà una pacca sulla spalla a D’Alema. I due non si amano più. L’ex segretario ha già il cappotto addosso. «Che fai, parti?», chiede il presidente di Italianieuropei. Fine del colloquio.
Renzi però vuole tenere tutti assieme. Celebrare un matrimoniodi convenienza, poi si vedrà. Il sindaco ha bisogno di un Pd compatto per affrontare la partita del futuro. Già a gennaio, quella della legge elettorale e del patto di coalizione. I big invece riconoscono il trionfo del segretario e chinano la testa in attesa che passi la piena renziana. Per il momento, vanno in ordine sparso. Ruggini stratificate impediscono una reazione comune. Devono organizzarsi.«Lo faremo — dice il ministro Andrea Orlando, cuperliano — . Ma non saremo un’opposizione. Al massimo una minoranza». Un’ammissione di debolezza. Una buona notizia per Renzi. «Non durerà — pronostica Sergio Cofferati — . Il segretario ha le mani libere, la vecchia classe dirigente e il governo invece sono vincolati a uno schema rigido. Sarà un’avventura molto faticosa».
Qualcosa è comunque cambiato nell’atteggiamento del sindaco. Il suo lungo discorso è declinato al plurale: noi, noi, ancora noi. Punta a stimolare il partito per la sfida delle europee. «Ci sarà solo il Pd nella bufera, non il governo, se le cose dovessero andare male. Saremmo tutti travolti da un risultato negativo». I più maliziosi ma anche i più acuti osservano che in nessun intervento dal palco, Letta compreso, viene nominato il capo dello Stato Giorgio Napolitano. Un riferimento al Quirinale è d’obbligo in questo tipo di assemblee della sinistra. Non ieri. Se ne accorgono alcuni giovani turchi, se ne accorge un renziano della prima ora. Come dire: il Pd si libera della tutela (vera o presunta) del Colle. Balla da solo. Ha un segretario autonomo, bisognerà farci l’abitudine.
Anche questo serve a ricreare un orgoglio Pd. A prepararlo anche a futuri bracci di ferro con il Quirinale. Perché Renzi vuole un Pd unito, in una prospettiva non di attesa, non di immobilismo. Cerca una legge elettorale nuova entro la fine di gennaio, prima delle motivazioni della Consulta. La cerca fuori dai «giochetti» della maggioranza. Per portarla a casa, alla Camera occorrono i voti dell’intero gruppo Pd. In cui non ha la maggioranza. Così si spiegano l’affetto e le parole dolci di ieri. Massimo D’Alema non rompe l’idillio ma sorride beffardo: «Ci vorrà il massimo impegno per trovare una soluzione entro un mese... «. Non ci crede. O crede nella riscossa dei proporzionalisti.
Gli avversari di Renzi non sono spariti all’improvviso. Stanno acquattati. Secondo Enrico Morando, in un certo senso sono persino più forti. «Prima i tifosi del proporzionale facevano una fatica boia a trovare i numeri contro il Porcellum. Dopo la Corte costituzionale, basta che stiano fermi. E’ un pericolo ». I sorrisi e gli applausi di ieri nascondono dunque molte insidie. Il vero gemellaggio Renzi lo ha fatto con il popolo delle primarie. E intende sfruttare la luna di miele. Subito, prima che le code ai gazebo siano soltanto un ricordo.

Repubblica 16.12.13
Il retroscena
Il sindaco tratta in segreto coi 5Stelle “Angelino ha solo un mese di tempo”
Sul Mattarellum pronto al dialogo anche con Berlusconi
di Francesco Bei


ROMA — I contatti sono già stati avviati nella discrezione più assoluta. Ambasciatori renziani hanno sondato, nei giorni scorsi, alcuni fedelissimi di Grillo in parlamento sulla legge elettorale. L’oggetto del reciproco “annusamento” — non ancora una trattativa — è proprio quel Mattarellum che Angelino Alfano e il nuovo centrodestra vedono come una sciagura assoluta. Perché una cosa è certa: al di là dei guanti di sfida che si lanciano in faccia in pubblico, Renzi coltiva un piano segreto per usare «Beppe» a suo favore nella battaglia contro i guardiani del governo a tutti i costi. Pronto anche ad andare a elezioni in un election day che tenga insieme Politiche ed Europee.
La strategia del segretario democratico è un doppio binario. E non è un caso se ieri, all’assemblea nazionale del suo partito, non sia sceso nei dettagli di quale modello elettorale preferisca. Renzi ha infatti posto la deadline di fine gennaio per trovare un accordo con il nuovo centrodestra «all’interno dei confini della maggioranza». Respingendo dunque la tesi di chi, come i ministri Quagliariello e Franceschini, vorrebbe invece collegare lariforma elettorale con la riforma costituzionale che riguarda la fine del bicameralismo. «Sono scuse per perdere tempo — ha spiegato ai suoi il sindaco di Firenze — , mentre noi dobbiamo approvare subito una riforma prima che la Corte costituzionale arrivi con le motivazioni della sentenza che ha abolito il Porcellum ». Dunque questo mese di tempo è la finestra che Renzi concede ad Alfano per provare a scrivere insieme una legge a doppio turno con premio di coalizione e preferenze.
Ma già prepara il secondo binario, ovvero la sua exit strategyse la prima ipotesi — l’accordo all’interno della maggioranza — dovesse rivelarsi una palude. E qui entrano in scena Grillo e Berlusconi, interlocutori indispensabili. E cambia anche il modello elettorale, virando rapidamente verso la legge Mattarella. Tuttavia con una modifica sostanziale, in chiave ipermaggioritaria: il 25% di recupero proporzionale del vecchio Mattarellum dovrebbe infatti essere trasformato in premio di maggioranza per garantire la governabilità. Era quello che proponeva un ordine del giorno firmato due settimane fa da Roberto Calderoli e poi abbandonato. Il problema è che la prima “chiacchierata” tra renziani e M5S su questo SuperMattarellum al momento è stata una fumata nera. I suoi sarebbero favorevoli, ma Grillo teme una legge elettorale che lo confinerebbe nell’irrilevanza, mentre con il vecchio Mattarellum senza il premio (data la presenza di tre poli) il centrosinistra renziano non avrebbe alcuna garanzia di vittoria. Ma il calcolo di Renzi prescinde da queste prudenze grilline. Il sindaco infatti, se Alfano facesse melina sul doppio turno, andrebbe comunque avanti da solo — tanto più che Berlusconi e Forza Italia si sono già pubblicamente espressi a favore del legge in vigore dal ‘94 al 2005 — e il redde rationem ci sarebbe in Aula. A quel punto, con il Super-Mattarellum in campo, per i cinquestelle sarebbe difficile dire di no. E il rischio di un’implosione parlamentare del M5S sarebbe molto alto. «Il dissenso sta crescendo. Quando presenteremo la proposta - ha confidato ai suoi il segretario dem - in aula li massacriamo. Dentro di loro stanno esplodendo conflitti».
La legge elettorale, nell’ottica di Renzi, costituisce anche un’ottima leva per costringere il governo e i partiti alleati a marciare sulla sua agenda. Alfano è infatti consapevole che, se non si raggiungesse un accordo di maggioranza sulla legge elettorale, l’alternativa (il SuperMattarellum) lo costringerebbe a tornare a Canossa dal Cavaliere e a dire addio al sogno di una ristrutturazione post-berlusconiana del centrodestra.
Quali saranno i contenuti che il segretario democratico metterà nel “patto alla tedesca” da siglare a gennaio sono stati esposti ieri davanti ai delegati dell’assemblea nazionale. Renzi con i suoi la chiama la «triplice intesa» perché tocca tre settori: le proposte sul lavoro «de-ideologizzato» (ovvero senza accettare la piattaforma della Cgil), i diritti civili con le unioni gay e il superamento della Bossi-Fini - e il capitolo cultura&scuola. Che sia il patto alla tedesca con Alfano e Letta o il piano d’emergenza con Grillo e Berlusconi per arrivare al Mattarellum, al momento Renzi è l’unico giocatore che ha in mano una carta di riserva.alisti. E in platea Bersani si aggira indisturbato

Repubblica 16.12.13
Da Bersani a Cofferati, la solitudine dei big “Noi ribelli? Bastava diventare socialdemocratici”
di Matteo Pucciarelli


MILANO — Che sia finita un’epoca te ne accorgi dalle piccole cose: chi ha il codazzo e chi no; chi riesce a prendersi un caffè liberamente, anzi in solitudine, e chi deve farsi spazio tra pacche sulle spalle e giornalisti. Pier Luigi Bersani, che fino a qualche mese fa non poteva prendere una boccata d’aria senza assalti, si aggira un po’ triste, da solo. Perlomeno la base è meno crudele del resto del partito e del circuito mediatico, ragazzi e ragazze ancora chiedono una foto con l’ex segretario. Giusto loro. La marginalizzazione è una sorte che tocca a molti. Stefano Fassina ai tempi di Monti premier era un’autentica spinanel fianco del governo, ogni sua dichiarazione barricadera valeva oro: adesso viene salutato distrattamente. «Renzi ha fatto un intervento pieno di energie positive. Anche se sull’Europa mi è sembrato remissivo», dice. Quando invece proprio sull’Europa il neo segretario ha puntato sull’orgoglio nazionale.
Rosy Bindi è di pessimo umore, non entra in direzione e comunque la butta lì velenosa: «Se Renzi saprà guardarsi le spalle dai suoi, forse magari ce la fa». Il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi è un altro anti-renziano della prima ora. Si presenta alla vecchia fiera con una busta di plastica in mano: «Si è portato il pranzo da casa?», scherza qualcuno. Specialmente nelle regioni rosse il vecchio apparato ha subito le scoppole più pesanti. E se accade, perdi improvvisamente appeal. «Apprendo che siamo ribelli e pure lo restiamo. Mi pare troppo. Ame bastava diventare socialdemocratici », twitta senza riscuotere il successo dei bei tempi. Sergio Cofferati lo trovi nello spazio riservato agli invitati, trasformato in una riserva indiana di ex potenti caduti improvvisamente in disgrazia. Età media abbastanza alta, molti impegnati nella lettura dell’Unità, soprattutto grossa invidia per i delegati veri e propri che stanno di là, con il loro badge speciale, separati da un nastro rosso e dagli addetti alla sicurezza che non fanno passare nemmeno a pregarli. «Sto in mezzo al proletariato », sibila al mattino Vincenzo De Luca, renziano sì, ma vecchia guardia pure; solo che esce dalla porta e rientra dalla finestra nel pomeriggio, grazie alla decisione di inserire 20 sindaci in direzione.
C’è solo un modo per farsi forza, tra gli sconfitti. Ed è starsene accanto a D’Alema. Per lui nulla è cambiato: è sempre blandito, ascoltato, osservato, richiesto. Ogni smorfia, ogni sospiro del lider maximo è potenziale materiale esplosivo. Al momento della votazione per Cuperlo presidente, gli occhi di tanti sono rivolti a lui: voterà no? Vota sì, l’unità è salva.

l’Unità 16.12.13
Civati critico con il neosegretario: «Avrei evitato la sfida a Grillo»


«Il discorso del segretario – dice infatti a caldo Civati – è stato molto renziano ed è giusto che sia così. Alcune cose sono positive, altre meno». Come, per dirne una, la sfida a Grillo: «Avrei evitato la sfida a Grillo e, invece, avrei detto con chiarezza quale proposta di legge elettorale fa il Pd. Avrei evitato di fare strappi su queste cose». Rivendica l’aria fresca delle ultime primarie, «è stato in campo il Pd migliore. Credo che debba essere salutato con maggiore rispetto dalla vecchia classe dirigente. Nasce un nuovo Pd più aperto a chi ha concezioni diverse da quelle del segretario come me, per esempio».

Corriere 16.12.13
Le mosse per cambiare tutto e subito
La legge elettorale diventa una mina. I timori dei lettiani
E in tanti notano l’assenza del Quirinale nel discorso
di Maria Teresa Meli


MILANO — E’ la versione renziana dello «Stay hungry. Stay foolish» di Steve Jobs: «Restiamo sempre ribelli», dice dal palco il segretario. E lui ci mette del suo per far capire che «non» è «cambiato»: «Sono quello di sempre. Dico quello che penso».
Ma in questa giornata anche le omissioni del leader hanno un loro peso. Non c’è Assemblea o Convegno del Pd in cui il segretario nella sua relazione non dedichi il dovuto omaggio al capo dello Stato. Matteo Renzi non lo ha fatto. Non ha mai nominato nel suo intervento Giorgio Napolitano. Dimenticanza? Scarsa abitudine ai riti della politica? Chissà. Fatto sta che la cosa é stata notata da tutti quelli che temono che il ciclone renziano possa abbattersi sul governo. Formalmente i rapporti con il premier sono ottimi. Baci, abbracci e critiche congiunte ai giornalisti. Però poi quando il segretario sale sul palco dice chiaro e tondo davanti a Letta: «Le sorti dell’Italia sono nelle mani del presidente del Consiglio, del governo, ma soprattutto del Pd: o la partita la giochiamo noi o non la gioca nessuno».
Non è che siano parole tanto diverse da quelle che Renzi pronuncia in privato: «Il governo è nelle nostre mani, quindi è responsabilità nostra fare le cose. O sfruttiamo questi mesi velocemente o rimaniamo impantanati. Tutti devono capire che stavolta si cambia sul serio, che scardiniamo il vecchio mondo. Reagiranno per paura? E noi andremo avanti lo stesso». Tanta determinazione mette in allarme i lettiani, i quali, e anche questo non può essere un caso, sono stati decimati in direzione dai renziani.
Ma non sono solo gli uomini del presidente a interrogarsi sulle reali intenzioni del neo segretario. Che in un solo giorno ha aperto tanti fronti. La legge elettorale, la modifica della Bossi-Fini, la questione delle unioni civili e il lavoro. Già, su questo tema batterà e ribatterà: «Basta ideologia sul lavoro», è il suo motto, con evidente riferimento all’atteggiamento finora assunto dai sindacati. E qui si aprirà un fronte interno al Pd che alla Fiera di Milano sembra unito, e, forse, lo è, ma che inevitabilmente su un tema del genere é destinato a lacerarsi.
Le altre questioni, invece, pongono un problema con gli alleati del Nuovo centrodestra. Perciò Rosy Bindi si chiede con malizia (o forse no) se questo programma dettato da Renzi non rischia di «mettere in pericolo il governo». E Gad Lerner, entrato in Assemblea in quota Cuperlo, con un largo sorriso ironizza così con i colleghi giornalisti: «Se il patto di coalizione si basa su questi punti l’esecutivo dura cinque minuti». Francesco Sanna, autorevole e ascoltato consigliere di Enrico Letta, che ha votato Renzi alle primarie, tenta la mediazione: «Certo, le prospettive sono diverse, ma il governo non deve avere paura di un Pd esigente», dice alla cronista dell’Huffington Post che segue le tribolate vicende del Pd.
Sembra assai meno fiducioso e speranzoso il leader del Nuovo centrodestra Angelino Alfano che dovrebbe vedere Renzi mercoledì e che quasi giornalmente si consulta con il premier per capire dove voglia andare a parare Renzi: «Non è che intende portare subito a casa la riforma elettorale per poi andare a votare?». Lui, il segretario, continua a negarlo: «Dobbiamo portare a casa la legge elettorale il prima possibile perché sennò poi non si fa più e quando sarà si andrà a votare con un sistema degno della peggior prima Repubblica». Renzi è convinto che se incassa in tempi stretti il «sì» della Camera sarà difficile per il Senato insabbiare la pratica come fatto finora: «A quel punto ognuno dovrà prendersi le sue responsabilità davanti al Paese». Ossia «ammettere pubblicamente di non volere il bipolarismo e di puntare a un ritorno al passato». È questa la ragione per cui spinge sull’acceleratore alla Camera. Ma alcuni dei suoi sono pessimisti: «Dato per scontato che Alfano non vuole la riforma visto che teme il voto, perché Grillo dovrebbe aiutarci? Non ne ha nessun motivo, anzi così dimostrerebbe quanto i partiti siano incapaci e farebbe il pienone di voti alle europee».
Certo c’è sempre Berlusconi. Davanti all’Assemblea nazionale del Pd, per ovvi motivi, Renzi non lo ha nominato come possibile interlocutore. Però non lo esclude. Anche su di lui però c’è chi in campo renziano è pessimista. Spiega Enrico Morando, della Commissione di garanzia del Pd: «Ora che vede che i sondaggi gli vanno bene è per il maggioritario, ma appena la Ghisleri gli porta una rilevazione in cui Renzi viene dato in ascesa, sapete che fa? Diventa immediatamente proporzionalista». Anche il segretario sa che «la strada sarà lunga» però è convinto, e non smette mai di ripeterlo, che «chi la dura la vince».
E se ottenesse il suo scopo? «Una volta cambiata la legge elettorale sarebbe difficile spiegare perché non si va alle elezioni», ragiona ad alta voce con un collega di partito Roberto Morassut, che pure non ha certo pulsioni crisaiole. E non le ha nemmeno quell’autorevole esponente del Pd che la settimana scorsa si é informato presso gli uffici legislativi della Camera se fosse possibile votare per le politiche e per le europee nello stesso giorno. La risposta é stata che non c’è nessuna legge che lo vieta.

il Fatto 16.12.13
Repubblica
La gogna per i giornalisti: Scalfari contro Spinelli


Chissà se oggi i giornali e i tg, l'Ordine dei giornalisti e la Federazione della stampa, ma anche il premier Letta e la presidente della Camera Boldrini, denunceranno la nuova “gogna per giornalisti” e solidarizzeranno con la vittima. L’interrogativo sorge spontaneo, visto che la gogna non l’ha allestita Grillo contro una penna ostile ai 5 Stelle, ma Eugenio Scalfari contro Barbara Spinelli, la più prestigiosa editorialista di Repubblica, cioè del suo stesso giornale. Finora soltanto Gad Lerner, anche lui firma illustre del quotidiano, ha osato criticare sul suo blog la “ramanzina sgradevole, impropria e di pessimo gusto”. Diversamente dal blog Grillo, che pubblica stralci di articoli menzogneri e poi ne smonta il contenuto (talvolta insultandoli, come con la Oppo, talvolta no, come con Merlo e Battista), Scalfari fa di peggio. Insulta chi si permette di criticare Napolitano (“il fuoco dei cannoni da strapazzo... spara Grillo, spara Travaglio, spara perfino Barbara Spinelli”). Ma non cita mai quelle critiche per contestarle nel merito, forse nel timore che i lettori le condividano. Il peccato mortale della Spinelli è di non aver partecipato alla demonizzazione di Grillo e soprattutto di aver raccontato a Marco Travaglio, per il libro “Viva il Re!”, uno scambio di lettere e un incontro con Napolitano. Ma questo i lettori di Repubblica non devono saperlo, dunque Scalfari non lo dice. Le scrive invece di aver “ascoltato i tuoi appunti su Napolitano affidati alla ‘recitazione’ di Travaglio”. Allusione all’ultima puntata di Servizio Pubblico, in cui Travaglio non ha mai recitato alcunchè: semplicemente Santoro ha affidato a un’attrice la lettura di alcuni brani dell’intervista alla Spinelli contenuta nel libro.
Invece di smentire, casomai ci riuscisse, l’allergia di Napolitano alle critiche della libera stampa descritta e documentata dalla Spinelli, Scalfari attacca personalmente la editorialista dandole dell’ignorante (“conosce poco o nulla la storia d'Italia”). Le ricorda che è “figlia di Altiero Spinelli” perchè questo è il suo “maggior bene”, manco fosse una ragazzina che deve presentarsi accompagnata dai genitori e chiedere il loro permesso per scrivere e per pensare. Infine la informa di aver “cancellato dalla mia memoria” quanto ha scritto su Grillo e detto su Napolitano. Per molto meno, c’è chi verrebbe accusato di fascismo, squadrismo, gogna, liste di proscrizione, macchina del fango, misoginia e sessismo. Se Barbara non fosse una signora, potrebbe ricordare a Scalfari – come fece Giorgio Bocca che è figlio di un croupier del casinò di Sanremo, o – come fanno in pochi – che da giovane era caporedattore di “Roma Fascista”. Si attende comunque con ansia l'intervento del governo, del Parlamento, del Quirinale e possibilmente dell'Onu per il vile attentato alla libertà di stampa.

Corriere 16.12.13
«Non conosci la storia»
Scalfari-Spinelli, fine di un idillio
di Luca Mastrantonio


Ieri Eugenio Scalfari ha scomunicato Barbara Spinelli per le dure critiche al presidente Giorgio Napolitano. Spinelli è rea, scrive il fondatore di «Repubblica», di conoscere «poco o nulla» della Storia d’Italia, «quando pensa e scrive che la decadenza cominciò negli anni Settanta del secolo scorso e perdura tuttora». Questo Paese — Scalfari ha sentito il bisogno di ricordare — «è un Paese dove parte del popolo è incline e succube di demagoghi di ogni risma». Per questo, sostiene, è sbagliato credere che «il grillismo» vada «sperimentato», come auspica Spinelli (che assieme a altri intellettuali ha più volte appoggiato l’ipotesi di un’alleanza tra Pd e Beppe Grillo).
Prima della condanna, ecco le prove d’accusa. Scalfari fa riferimento agli «appunti su Napolitano affidati alla “recitazione” di Marco Travaglio», contenuti nel libro Viva il re! (Chiarelettere), dove Spinelli racconta retroscena e particolari che riguardano gli scambi epistolari e il colloquio avuto di persona con il Presidente della Repubblica nel 2009: il Napolitano ritratto da Spinelli-Travaglio è una specie di imitazione di Maurizio Crozza. Scalfari, in nome del padre (di Barbara Spinelli), è però pronto a rimetterle questi peccati: «Ti assicuro che da questo momento in poi cancello dalla mia memoria quanto ho ora ricordato. Voglio solo pensare il meglio di te». E cioè? «Che sei la figlia di Altiero Spinelli», spiega prima di indicare la salvifica penitenza: «Ricordalo sempre anche tu e sarà il tuo maggior bene».
Spinelli, raggiunta telefonicamente, non ha voluto commentare. Lei, che lasciò «La Stampa» nel 2010, perché giudicata troppo morbida con Berlusconi, passerà al «Fatto quotidiano»? «Non voglio dire assolutamente niente», risponde. È restata sorpresa dei toni di Scalfari e dal riferimento paterno? «Non voglio dire assolutamente niente».
Curiosità: nel libro di Travaglio (p. 25) è introdotta così: «Barbara Spinelli ben conosce il capo dello Stato perché figlia di Altiero Spinelli, politico e pensatore considerato uno dei padri dell’Europa unita, a cui Napolitano era legato da uno stretto rapporto di solidarietà politica».
Gad Lerner, sul blog, ha parlato di «ramanzina impropria e di pessimo gusto», giudicando «sgradevole la sufficienza» di Scalfari verso Barbara Spinelli. Ma al di là delle «sgradevoli» questioni di genere patriarcale, il divorzio Scalfari-Spinelli, come lo scontro che Scalfari ebbe con Stefano Rodotà, è sintomatico di un cambiamento di schema: con Matteo Renzi, Enrico Letta, Napolitano e Grillo (che non sa politicamente dove andare), le carte si sono sparigliate. È finita l’egemonia politica-mediatica berlusconiana, ed è in crisi, sistemica, l’annessa e redditizia filiera antiberlusconiana. Il fronte unico anti-Cav non è più compatto, le battaglie «civili» sono intestine alla sinistra e spesso «incivili».

Repubblica 16.12.13
Risposta a Scalfari
di Barbara Spinelli


Sono stupita dalle parole che Eugenio Scalfari dedica non tanto e non solo alle mie idee sulla crisi italiana ma, direttamente, con una violenza di cui non lo credevo capace, alla mia persona.
Violento è infatti l’uso che fa di Altiero Spinelli, del quale nessuno di noi può appropriarsi: chi può dire come reagirebbe oggi, di fronte alle rovine d’Italia e dell’Europa da lui pensata nel carcere dove il fascismo l’aveva rinchiuso, e difesa sino all’ultimo nel Parlamento europeo? Non ne sono eredi né Scalfari, né il Presidente della Repubblica, e neppure io. Il miglior modo di rispettare i morti è non divorarli, il che vuol dire: non adoperarli per propri scopi politici o personali. Mi dispiace che Scalfari abbia derogato a questa regola aurea.
Quanto al Movimento 5 Stelle, io dico che va ascoltato: non è solo l’Italia peggiore che ha votato per lui a febbraio. Senza la sua scossa il discorso pubblico continuerebbe a ignorare la crisi dei partiti, i modi del loro finanziamento, l’abisso che li separa dalla loro base. Mettere M5S sullo stesso piano di Marine Le Pen o di Alba Dorata più che un errore è una controverità. È anche un gesto di intolleranza verso chi la pensa diversamente. In proposito vorrei dire un’ultima cosa: è inutile e quantomeno scorretto accusare Grillo di condannare alla gogna i giornalisti, quando all’interno d’una stessa testata appaiono attacchi di questo tipoai colleghi.

Cara Barbara, come ti avevo promesso ieri, io ho già dimenticato le cose per me sgradevoli che ho ascoltato nella trasmissione di Travaglio e quelle che tu hai scritto su Grillo sul nostro giornale. L’unica cosa che non dimentico è il mio antico affetto nei tuoi confronti.
Eugenio Scalfari

Corriere 16.12.13
Una lotteria per avere lo stipendio
Scuola, la vita ingiusta dei supplenti
di Orsola Riva


Più che a una lotteria di Natale fa pensare a una roulette russa. E non succede in un campo di prigionia dei vietcong, ma in una tranquilla scuola di Prato: l’istituto comprensivo Iva Pacetti (materne, elementari, media). A fine anno le casse sono quasi vuote: in tutto avanzano 5 mila euro. Mancano i soldi per pagare gli stipendi dei 18 supplenti. Come fare?
La preside Luigia Anna Ammaturo ha un’idea: estraiamo a sorte chi verrà pagato e chi no. I fortunati vincitori sono cinque: quattro insegnanti e un addetto ai servizi scolastici. E gli altri 13? Dovranno aspettare fino a gennaio per ricevere lo stipendio di novembre e dicembre. E pazienza se ci sono di mezzo le Feste di Natale e quei soldi facevano particolarmente comodo. Pazienza, anche se a pagare come sempre sono i lavoratori già meno garantiti. Quei supplenti brevi che vengono chiamati dalle scuole quando un collega va in malattia. Che stanno attaccati al telefono aspettando una chiamata del dirigente scolastico per sapere se quella settimana lavoreranno ancora. Che spesso non vivono nemmeno nella stessa città: hanno casa e famiglia lontano e una bella fetta del loro stipendio da 1000-1200 euro al mese se ne va in viaggi e nell’affitto di un appartamento con altri colleghi super precari come loro. Pazienza.I soldi arriveranno sì, ma a gennaio.
Possibile? Ricorrente, purtroppo. Lo dice la Uil che ha denunciato il caso. Diversi istituti arrivano alla fine dell’anno avendo esaurito i fondi per pagare gli stipendi dei supplenti brevi. L’Associazione italiana insegnanti e formatori, parla addirittura di migliaia di docenti condannati a restare a bocca asciutta. Lo ammette anche il ministero, che però sottolinea come la preside abbia seguito una procedura «non corretta» perché «gli stipendi andrebbero pagati in base alla data d’inizio della supplenza». Un modo meno casuale di pagarli in ritardo ma non per questo più «giusto». L’auspicio è che il 2014 segni un’inversione di rotta, come già annunciato dal decreto voluto dal ministro Carrozza con lo stanziamento, per la prima volta dopo anni solo di tagli, dei «primi» 400 milioni per far ripartire la scuola. Basteranno?

l’Unità 16.12.13
Roberta Pinotti
Per la sottosegretaria (Pd) alla Difesa è necessario un sistema di sicurezza dell’Europa. «Ai pacifisti dico: lavoriamo insieme a un Libro bianco»
«Non solo F-35, tagliare la spesa militare si può»
di Umberto De Giovannangeli


«Una spending review sui sistemi d’arma, quale quella sollecitata da l’Unità, non solo è possibile ma direi necessaria. Al movimento pacifista dico: lavoriamo insieme come accadde negli anni ’90 sul controllo del commercio delle armi per un “Libro bianco” della Difesa».
A sostenerlo è Roberta Pinotti, sottosegretaria (Pd) alla Difesa. Venerdì scorso, l’Unità ha pubblicato un dossier «Non solo F-35, i tredici progetti del riarmo», con l’intento di aprire un dibattito sul modello di Difesa e su una riduzione ragionata delle spese militari. L’intervista alla sottosegretaria alla Difesa apre il confronto.
L’Unità ha lanciato la proposta di una Spending review delle spese militari. Qual è la sua opinione in proposito?
«È una strada certamente praticabile, da assumere, e che deve avere due stelle polari come riferimento».
Quali?
«La prima è il tema della difesa europea, e di conseguenza la necessità di definire i nostri investimenti, in qualità e quantità, in funzione di questo obiettivo strategico da perseguire. Da questo punto di vista, mi auguro che il Consiglio europeo incentrato sul tema della Difesa europea che si terrà nei prossimi giorni, possa dare un primo grande impulso ad un progetto, quello di un sistema di difesa europeo, che non è più rinviabile. E in questo Consiglio, l’Italia intende svolgere un ruolo da protagonista. Risparmio ed efficienza possono e debbono essere i volani dell’integrazione. In particolare dovremo puntare a due decisioni: in primo luogo, consentire sulla base dell'articolo 44 del Trattato di Lisbona che i Paesi che lo desiderano avviino cooperazioni rafforzate nel settore della difesa e della sicurezza in nome dell’Europa unita; in secondo luogo, varare una serie di progetti industriali condivisi per far cooperare le imprese europee della difesa. Se riusciremo a prendere queste due decisioni potremo avviare un percorso positivo che potrà rafforzarsi durante il semestre italiano di presidenza, nel secondo semestre 2014. Il secondo punto di riferimento lo dobbiamo costruire con un nuovo “Libro bianco della Difesa”, che è stato peraltro citato anche nelle conclusioni dell’ultimo Consiglio supremo di Difesa presieduto dal presidente Napolitano. Un “Libro bianco” che non va calato dall’alto, ma deve essere un virtuoso “work in progress”, che veda impegnati commissione parlamentari, esperti, ma che preveda anche il coinvolgimento dell’opinione pubblica e delle istanze della società civile che più hanno lavorato su queste tematiche. E questo per definire al meglio i nuovi obiettivi di difesa e sicurezza del nostro Paese, sulla base dei quali individuare gli strumenti necessari».
Da cosa iniziare per dare un segno tangibile di questa volontà politica?
«Penso che sia importante il lavoro che stanno conducendo le commissioni parlamentari di Camera e Senato sul tema dei sistemi d’arma, proprio per ottenere una razionalizzazione, una individuazione di priorità e anche una possibilità concreta, praticabile, di contenimento dei costi per il bilancio dello Stato».
Ma la definizione di un nuovo modello di difesa può essere un terreno di confronto e di sintesi con le componenti più avvertire del ricco e variegato movimento pacifista?
«È questa la sfida che dobbiamo non solo accettare ma essere noi, come Pd, a lanciare. Il Pd non ha nessun desiderio di riarmo, tutt’altro, né alcuna volontà di potenza, ma al tempo spesso, sposiamo la consapevolezza, contenuta nella Costituzione, che potersi proteggere è un bene primario dello Stato, e che sulla base dell’articolo XI della nostra Carta costituzionale, l’Italia può essere chiamata a missioni internazionali come quella in Libano, solo per fare un esempio che mirano a stabilizzare situazioni di crisi o di tensione, che senza lo strumento militare potrebbero deflagrare in tragedie umanitarie. Questo è il nostro obiettivo, e quindi anche i programmi di armamenti ad esso devono orientarsi».
Insisto su un punto che non è solo formale ma sostanziale. Riguarda il coinvolgimento delle istanze organizzate del movimento pacifista. Coinvolgere l’opinione pubblica, cosa da lei auspicata, significa non confinare il confronto sulle spese militari solo nelle stanze istituzionali o in altre “segrete stanze”. Se si accetta questo presupposto, qual è, a suo avviso, la strada da seguire?
«La strada da seguire è quella che negli anni ’90 ha portato alla legge 185, quella sul controllo del commercio delle armi, che ha portato l’Italia su questo tema all’avanguardia a livello europeo, tanto che il codice europeo, emanato agli inizi di dicembre, si è ispirato a questa legge. La “185” è il portato di un fruttuoso incontro tra le spinte ideali del pacifismo e le necessità che la realtà individua. In sintesi, c’è stato un incontro a metà strada tra idealità e concretezza. Il Pd lavora perché questo incontro si possa ripetere. Temi quali la sicurezza e la difesa sono troppo importanti perché la discussione sia confinata ai soli addetti ai lavori, così come le decisioni».

La Stampa 16.12.13
Il marxismo secondo il Papa. E la notizia gira il mondo
di Paolo Mastrolilli


L’intervista con papa Francesco pubblicata da La Stampa ha fatto il giro del mondo, citata e ripresa da tutti i media più importanti. Nbc, Abc, Guardian, Washington Post, Time, Usa Today, Cnn, Reuters, Associated Press, Huffington Post: una ricerca superficiale su Google in inglese ieri pomeriggio dava 341 risultati, e quindi interrompiamo l’elenco perchè riempirebbe tutto l’articolo.
Negli Stati Uniti il passaggio che ha attirato maggior attenzione è stato quello sulla ideologia marxista, in cui il Pontefice dice di considerarla sbagliata, ma aggiunge di aver conosciuto molti marxisti che sono brave persone. Queste frasi sono diventate il titolo di testa dei siti di molti media. Nei giorni scorsi diversi commentatori conservatori avevano discusso l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, attaccando i passaggi in cui Francesco criticava gli eccessi del capitalismo. In particolare Rush Limbaugh, forse il conduttore radiofonico più noto degli Stati Uniti, aveva detto che le parole del Santo Padre erano «puro marxismo».
Limbaugh è molto seguito soprattutto dagli ascoltatori di destra, ma altrettanto criticato da quelli di sinistra, e quindi la risposta arrivata dal Papa ha provocato subito la reazione dei mezzi di comunicazione. Gli articoli dei molti media internazionali che hanno ripreso l’intervista a La Stampa hanno però riportato anche le parole del Pontefice sul ruolo delle donne nella chiesa, le persecuzioni contro i cristiani, e il messaggio generale sul valore del Natale.
Nei mesi scorsi i conservatori americani si erano lamentati per le posizioni prese da Francesco sui temi della vita, quando aveva detto di non voler parlare solo di aborto. I più attenti però avevano sottolineato che queste parole non significavano un cambiamento della dottrina della Chiesa, ma piuttosto la volontà di prestare attenzione anche ad altre questioni. Si tratta di un aspetto importante della linea del nuovo Santo Padre, perché potrebbe mutare l’impostazione del rapporto anche con l’amministrazione Obama. Il governo Usa negli ultimi anni ha avuto una relazione complessa con il mondo cattolico, in particolare con la gerarchia dei vescovi americani.
Nel 2008 la maggioranza degli elettori cattolici aveva votato per il presidente, ma la Conferenza episcopale lo ha spesso criticato, soprattutto per la riforma sanitaria che obbliga tutti i datori di lavori a fornire assicurazioni che pagano anche i contraccettivi.
Sul tema dell’aborto è molto difficile che Obama e Francesco trovino un terreno comune, perché un presidente democratico non può deludere la sua base su questo punto, e il Papa non può rinunciare ad un aspetto fondamentale della dottrina della Chiesa. Washington però spera che l’attenzione riservata dal Pontefice ai temi sociali consenta di sviluppare un nuovo dialogo su questo fronte, nonostante il tentativo fatto dai conservatori di boicottarlo sul nascere, con le accuse lanciate al Santo Padre di essere marxista.

Repubblica 16.12.13
La tv fa il pieno di sfiducia fuga degli italiani da talk e tg anche la satira non diverte più
Indagine Demos-Coop: il Paese deluso si rifugia nei social network
di Ilvo Diamanti


GLI italiani continuano a informarsi, in larga maggioranza, seguendo la tivù. Anche se ne hanno sempre meno fiducia e usano, in misura crescente, la Rete. Perché la considerano il canale più libero e indipendente. E permette loro di informarsi navigando tra diversi media. È il ritratto che si scorge scorrendo i risultati della VII Indagine di Demos-Coop su “Gli italiani e l’informazione”. Otto persone su dieci, infatti, affermano di informarsi quotidianamente in televisione, il 47% suInternet.
SEI anni fa, coloro che utilizzavano Internet erano poco più della metà (25%), mentre il seguito della tv era più elevato di 7 punti. Si tratta di una tendenza chiara, precisata dalla tenuta della radio (circa il 40%) e dalla riduzione significativa dei giornali. Oggi, sostanzialmente sullo stesso livello di un anno fa (25%), ma in calo di 5 punti rispetto al 2007. La popolazione italiana, dunque, si serve sempre più e sempre più spesso della Rete, come fonte di informazione diretta, ma anche per accedere ad altri media, in particolare i giornali. Due navigatori di Internet su tre (e quasi metà sulla popolazione intervistata) affermano, infatti, di leggere regolarmente i quotidiani online. Reciprocamente, i giornali (e i notiziari radio-tv) si connettono alla Rete, attraverso edizioni online e digitalizzate. Inoltre, utilizzano i Social Network, in particolare Twitter, come canale diretto con i leader e gli opinion maker.
Questa evoluzione è favorita dalla rapida diffusione delle tecnologie di comunicazione. Nell’ultimo anno, non a caso, la quota di coloro che si collegano a Internet mediante i cellulari oppure i tablet è cresciuta sensibilmente. Di 20 punti: dal 37% al 57%.
Tuttavia, la tv resta ancora, digran lunga, il riferimento più frequentato. Come si è visto alle ultime elezioni politiche. Le più “televisive” della storia, nonostante la diffusione della Rete.
Eppure, come si è detto, la tv gode di un grado di fiducia limitato. Solo due persone su dieci la considerano un medium davvero indipendente e libero. Peraltro, gran parte dei programmi di informazione televisivi appare in calo di credibilità. I tg, soprattutto. Il Tg3 (56,7% di valutazioni positive) e il Tg1 (52,4%) continuano ad essere i più accreditati, fra gli italiani. Ma subiscono, entrambi, un declino. Particolarmente rilevante, nel caso del Tg1, rispetto al 2007. Come, d’altronde, il Tg2. Il calo di fiducia colpisce, a maggior ragione, le testate giornalistiche delle reti Mediaset. Il Tg di La7, invece, segna un aumento dicredibilità, rispetto al 2007, ma, per la prima volta dopo tanti anni, arretra, seppur di poco, rispetto al 2012. Gli unici tg che registrano una crescita costante, anche nell’ultimo anno, sono quelli sulle reti all news. Rai News24 e Sky Tg24. Insomma, l’informazione tivù ha perduto e sta perdendo credito, in misura diversa, un po’ dovunque. La stessa tendenza coinvolge i programmi di approfondimento e i talk legati all’attualità politica e sociale. Molti, fra i più conosciuti e considerati, fino ad oggi, subiscono un brusco calo di fiducia. Ballarò, Servizio Pubblico, Otto e mezzo, In mezz’ora: pérdono tutti intorno ai 4-5 punti, nella valutazione degli italiani (intervistati). Solo Report, un programma di inchiesta, e Piazza Pulita, un talk di battaglia, fanno registrare una crescita di consensi significativa. Così, Ballarò si conferma primo, nella graduatoria della fiducia. Ma, per la prima volta, da quando viene condotta l’indagine di Demos-Coop, il talk condotto da Giovanni Floris condivide il primato. Con Report, appunto. Il programma di Milena Gabanelli.
Perfino i talk satirici e l’infotainment suscitano minore confidenza. Il grado di fiducia verso Striscia la Notizia, in particolare, nell’ultimo anno, è sceso di 5 punti e di 2 quello verso Che tempo che fa, il talk condotto da Fabio Fazio. Mentre le Iene tengono. E Crozza contribuisce agli ascolti di Ballarò. Così, i programmi pop-talk e di satira politica si allineano, tutti, intorno al 50% di gradimento. Nessuno svetta sugli altri.
È come se, in tivù, l’informazione, l’approfondimento, la stessa satira, suscitassero interesse, ma anche stanchezza. E un po’ di fastidio. Probabilmente perché la crisi, economica e politica, è difficile per tutti. Sentirne parlare non conforta. Produce, anzi, un senso di malessere che ha contaminato, in qualche misura, anche i media.
D’altronde, gran parte della popolazione sceglie i tg e i programmi di informazione in base alle proprie preferenze politiche. Il pubblico di centrosinistra dimostra fiducia per il Tg3 e il Tg di La7. Il quale risulta, in assoluto, il più apprezzato dagli elettori del M5S. D’altra parte, il Tg di Mentana è quello che ha riservato maggiore spazio e attenzione a Grillo e al M5S, ben prima del voto di febbraio. Gli elettori di centrodestra, invece, guardano con fiducia i tg delle reti Mediaset. E gli elettori di centro si fidano soprattutto del Tg1 e di Rai News 24. Come in passato, dunque, gli italiani, nella tv, cercano conferma alla loro identità politica.
Da ciò, la crescente sfiducia verso l’informazione televisiva. Se, infatti, il legame fra orientamento politico e consumo televisivo appare stretto, allora il clima di distacco e di ostilità verso la politica, che si respira nella società, non può non coinvolgere anche la televisione. Principale, quasi unico, “campo di combattimento” della politica italiana. Ma ciò genera un circuito vizioso. Così, paura e sfiducia, nello scambio tra pubblico e televisione, si rafforzano reciprocamente. È l’Italia del disgusto politico e dei forconi. Prima che sia troppo tardi, qualcuno dovrebbe interrompere questo inseguimento senza fine. Ma è difficile che ciò avvenga per iniziativa del pubblico. Della società. E ho il sospetto che neppure i media, in particolare la tivù, siano disposti a cambiare una programmazione. Che garantisce ancora ascolti, anche se usurata. Così è probabile che lo “spettacolo” continui. Con gli stessi format. Con gli stessi effetti sul “pubblico”. Tutti insieme: sfiduciati e scontenti. Fino al collasso del clima d’opinione. Che, in effetti, sembra ormai prossimo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
L’Osservatorio sul capitale Sociale viene realizzato da Demos & Pi. Il sondaggio è di Demetra (sistema Cati), periodo 25-29 novembre 2013. Il campione è tratto dall’elenco abbonati telefoni fissi (15 anni e oltre). Dati ponderati sul titolo di studio

l’Unità 16.12.13
I servizi psichiatrici a Roma e nel Lazio
Luigi Cancrini risponde a Giuseppina Gabriele

psichiatra e psicoterapeuta

Siamo stati la prima capitale al mondo capace di chiudere il manicomio e, solo a Roma, il Comune investe nella rete dei servizi riabilitativi (la famosa integrazione socio-sanitaria). In ogni distretto c’è un Centro di salute mentale, esistono Centri Diurni e case-famiglia. Ci sono migliaia di psicoterapeuti, psichiatri, infermieri e assistenti sociali impegnati nel servizio pubblico.
Giuseppina Gabriele
Psichiatria Democratica

«Le strutture, continua la lettera, non sono andate mai a regime, gli standard fissati negli ultimi 30 anni dai progetto obiettivo nazionale e regionale non sono mai stati raggiunti anche se ogni Csm di Roma ha circa 2000 cartelle attive. Oggi però siamo al limite del collasso, i servizi territoriali in alcune sedi provinciali non riescono ad aprire neanche le 12 ore diurne previste! Nell’ultimo periodo, durante la Giunta Polverini, abbiamo stretto i denti, cercato di coprire i turni, dato l’anima, aspettando un cambiamento politico. Finalmente è arrivata la nuova amministrazione regionale e abbiamo creduto che ci avrebbe ascoltato e sostenuto. Poi abbiamo saputo, ed in politica i simboli sono fondamentali, che a rappresentare la salute mentale, nel gruppo dei 45 esperti della regione ci sarà un unico psichiatra universitario: favorevole all’elettroshock mentre l’indicazione programmatica è quella di diminuire le Unità Operative Complesse per i soliti motivi di risparmio». Tempi di spending review, aggiungo io, sono stati e sono tempi in cui della psichiatria la politica sembra essersi scordata. La speranza, per Roma, è Marino, la cui lotta per il superamento degli Opg direttamente si è collegata a quella della 180 e, per il Lazio, Zingaretti al quale vorrei ricordare che nel 1980 la prima organizzazione dei Servizi nel Lazio fu affidata a Franco Basaglia. A quando una conferenza regionale sulla psichiatria?

l’Unità 16.12.13
Un Codice nuovo per un medico nuovo
di Carlo Manfredi

Presidente Ordine dei medici di Massa Carrara

IL CODICE DI DEONTOLOGIA MEDICA È UNO STRUMENTO VECCHIO? SE CONCEPITO COME UN INSIEME DI NORME LA CUI VIOLAZIONE IMPLICA SANZIONI, LA RISPOSTA È SÌ, ANCHE PERCHÉ non incide sui comportamenti e sulla realtà. Il medico pratica una disciplina che si fonda sulla conoscenza scientifica, sulle applicazioni tecnologiche e sulle abilità tecniche personali. Ma l’esercizio della medicina senza adeguare la conoscenza scientifica alla singolarità del paziente, senza rispettare le sue preferenze e le sue sensibilità può risultare inefficace o persino dannoso. L’attenzione verso la persona ammalata, bisognosa di cure, di empatia e di conforto costituisce la pietra angolare dell’etica medica.
È auspicabile che il nuovo Codice di cui
in questi giorni si sta discutendo una possibile bozza enfatizzi l’etica e le basi scientifiche della professione per accrescere la consapevolezza c he il medico, mettendo in pratica le norme in esso contenute, guadagna in autorevolezza e progredisce nel suo modo di pensare e di agire.
Il nuovo Codice non può prescindere dalla valutazione di alcuni fenomeni contemporanei che condizionano l’esercizio della medicina. La pandemia di obesità e diabete, l’incremento delle malattie del neuro-sviluppo, neuro-degenerative e tumorali non richiedono solo consigli sullo stile di vita, ma implicano l’assunzione di una responsabilità rispetto all’ambiente in cui viviamo.
Va anche detto che la «medicalizzazione» trasforma in patologie, bisognose di diagnosi e di trattamento, condizioni o caratteristiche della vita nelle quali la malattia in realtà non esiste. Dalla medicalizzazione derivano diagnosi in eccesso e trattamenti di efficacia non dimostrata, dotati di benefici irrilevanti o gravati da possibili reazioni avverse. La rincorsa alla ricerca della diagnosi precoce implica spesso l’impiego di test diagnostici, talora invasivi, e di terapie non scevre da effetti collaterali senza alcuna garanzia di ottenere una prognosi migliore.
Il Sistema sanitario ha migliorato la qualità dell’assistenza e aumentato i trattamenti e le possibilità terapeutiche ma è vittima di attese esagerate e spesso irrealistiche che, paradossalmente, aumentano l’insoddisfazione per l’assistenza sanitaria e per la medicina. Nella ricerca del giusto equilibrio fra etica, diritti dei cittadini e costi sanitari, il Sistema sanitario vincola sempre di più l’azione del medico agli obiettivi economici a scapito dell’autonomia clinica e dell’appropriatezza delle cure per il paziente.
Il contratto fra medicina e società si basa sull’utilizzo appropriato delle conoscenze scientifiche e della tecnologia. È necessario, pertanto, riaffermare l’autonomia, l’integrità e l’indipendenza del ricercatore per garantire l’attendibilità delle informazioni. Le sperimentazioni cliniche controllate e randomizzate sono la metodologia migliore per dimostrare l’efficacia dei trattamenti e forniscono la base scientifica per le decisioni operative. Per questo devono essere disegnate sempre per aggiungere valore diagnostico e terapeutico per i pazienti e svincolate dagli interessi degli sponsor, di carriera o dal prestigio personale dei ricercatori o delle istituzioni.
Una stesura del Codice plasmato sulle necessità di questa nuova situazione storica è una formidabile occasione per innescare un recupero di ruolo e di funzione per invertire una tendenza estraniante e preparare nuove categorie con cui affrontare al meglio il rinnovamento della sua professione a beneficio della società. Per questo la Bozza oggi in discussione va sfrondata di molti dettagli che l’appesantiscono per lasciare spazio all’immagine di quel che deve essere il medico oggi, dei valori che ispirano la sua azione e delle norme che regolano la sua condotta.

Repubblica 16.12.13
I 35 anni di Sanità mostrano le rughe
di Mario Pirani


IN VERITÀ 35 anni malportati quelli del Servizio sanitario nazionale, forse la più valida e importante riforma strutturale nata durante la stagione del primo centrosinistra. Una riforma destinata ad assicurare su base egualitaria cure e ricoveri gratuiti a tutti i cittadini italiani. Non fu una grande illusione ma un arduo e difficile impegno che vide i cittadini, gli enti locali, soprattutto le regioni, i comuni, il volontariato, i partiti, molti ministri che legarono il loro nome a modifiche, che a volta furono migliorative, in altri casi apportatori di risultati discutibili. Resta il fatto che il servizio sanitario italiano è risultato nelle classifiche il secondo al mondo. I grandi partiti se ne sono occupati e vi hanno lasciato la loro impronta, non sempre benefica. Col passar degli anni una serie di difetti si son fatti sentire. In primo luogo la corruzione infiltratasi in quasi tutti i servizi. In secondo luogo la partitocrazia che ha impedito il prevalere della meritocrazia per lasciare il passo a personale di diretta o indiretta designazione politica. Non è un caso che i maggiori scandali sono scoppiati nella sanità, senza che le cause che li hanno prodotti fossero rimosse. Non bisogna però credere che queste pecche abbiano devastato il Sistema che resta ancora caratterizzato da molti centri di eccellenza e dall’ottimo funzionamento in alcune regioni. Al momento attuale la deriva più critica è quella che discende dalla crisi e dal taglio delle risorse che rende molti settori profondamente carenti. Ne abbiamo parlato più volte, per cui ricordiamo solo qualche esempio. Le attese al pronto soccorso si prolungano per 4-5 giorni in media, con soste rimediate poiché centinaia di letti sono stati tagliati in modo lineare lasciando sguarniti numerosi reparti di degenza. Solo il 10% del personale che è stato dimissionato è stato reintegrato. I tagli non sono stati quasi mai operati in modo razionale: si sono salvati ospeda-letti fatiscenti e case di cura private convenzionate di bassa qualità solo per ragioni clientelari e non si è proceduto a quella installazione di una rete sanitaria sul territorio che ammodernasse tutte le strutture, impedendo che i pazienti seguitassero a riempire i reparti ospedalieri ordinari e soprattutto i pronti soccorsi. Le spese sono travalicate sui privati. Nell’ultimo anno 4,7 milioni di famiglie hanno rimandato visite specialistiche; 2,9 milioni di famiglie hanno rinunciato ad esami di laboratorio a causa della lievitazione del ticket; 9 milioni di persone rinunciano alle cure soprattutto fra le donne, gli anziani, le famiglie povere del mezzogiorno per difficoltà economiche. Una situazione che vanifica uno dei pilastri della riforma che faceva capo a un sostegno eguale per tutti, sovvenzionato dalla fiscalità generale e dalla solidarietà. Oggi lo è sempre meno. La spesa dei singoli erode l’eguaglianza e si va sempre più verso una sanità per ricchi e una per poveri. Diritto alla salute e principi costituzionali sono calpestati senza alcuna preoccupazione.
Nel 35° anniversario della Riforma si sono riuniti davanti al San Camillo di Roma centinaia di persone provenienti anche da altri nosocomi. Alcune associazioni del volontariato hanno chiesto un rilancio della legge 833 che consolidi il compito di tutelare la salute come fondamentale diritto del cittadino, assicurando l’eguaglianza di tutti di fronte al Servizio. Ebbene con sorpresa il nuovo segretario del partito nel suo bel discorso d’insediamento ha posto al centro delle future azioni la cultura e la scuola mentre ha totalmente ignorato i bisogni e le condizioni della Salute e del Servizio sanitario nazionale. Ebbene il Renzi delle nostre speranze recuperi questa assurda rimozione, sappia mettersi all’ascolto di questa particolare specie di “rottamati”, all’ascolto dei paria della società che si accalcano nelle corsie, i poveri, gli anziani, i malati privi di cure, i rifugiati del pronto soccorso, i non autosufficienti dimenticati. È questo il banco di prova del nuovo riformismo, se esiste davvero, e non la gara a chi taglia di più.

il Fatto 16.12.13
Stato biscazziere: così Letta fa cassa
di Emiliano Liuzzi

Fare cassa. Non importa come. Succede che, come sempre, a rimetterci siano i disgraziati. Così lo Stato biscazziere - non cambia se al governo c'è D'Alema o Berlusconi o Letta - si rivolge a persone affette da una patologia che si chiama gioco d'azzardo. Come? Con l'aumento delle Sale Bingo e, più pericoloso ancora, delle Videolottery (o Vlt), macchinette mangiasoldi come le Slot Machine che sono collegate in rete e hanno la possibilità di incassare, uniche nel loro genere, banconote da 500 euro.
É tutto scritto, letto e controfirmato, nella legge di Stabilità, quella che dovrebbe far tornare i conti dello Stato e rilanciare l'economia dell’Italia. Quel Paese che, a detta di coloro che governano, vede la luce in fondo al tunnel, ma non risulta abbia agganciato nessuna ripresa concreta. Così, Letta 145 milioni di euro conta di metterli in tasca grazie al gioco d'azzardo. Ripartiti in 40 milioni che dovrebbero rientrare tra il rinnovo delle concessioni ai soliti noti per nove anni, e 105, invece, dalle 7000 nuove videolottery che andranno ad aggiungersi alle 50.500 già esistenti. Letto, scritto e controfirmato, nonostante nessuno se ne sia accorto. La notizia è passata inosservata, sommersa da un grande calderone di norme che abbracciano di tutto e di più.
Le nuove slot online
Il mercato delle slot online. I colossi del settore non si sono fatti sfuggire l’occasione e hanno già chiesto le concessioni per le slot. Già prima della scadenza del 29 novembre, data in cui scadeva per le 12 società (Cirsa, Codere, Cogetech, Gament, Gamtica, Gtech/Lottomatica, Hbg, Intralot, Nts Network, Net Win, Snai, Sisal a cui aggiungere Bplus – che opera in proroga della vecchi convezione del 2004) la possibilità di presentare le opzioni preliminari per i titoli delle Vlt, tra il 60 e l’80 per cento dei diritti a disposizione delle compagnie storiche, mentre i tre nuovi soggetti assegnatari puntavano al maggior numero possibile. In linea teorica ognuna delle società aveva la possibilità di acquisire un numero compreso di diritti tra il 7 e il 14% delle new slot collegate alla propria rete, al costo di 15 mila euro ciascuno.
L’unico concessionario a fare l’en plein è stato Intralot Gaming Machines che ha rilevato i 770 diritti a propria disposizione. Segue un altro dei nuovi soggetti Nts Network, con 720 titoli su 910 disponibili, seguito da Sisal e Gmatica, che hanno entrambi rilevato 600 diritti (con il primo che poteva puntare a un massimo di circa 840 mentre il secondo a oltre 1100). Dopo di loro si posiziona Lottomatica Videolot con 500 diritti (su 720 circa a disposizione) ; l’ultima new entry NetWin Italia, con circa 400 diritti rispetto ai 725 a sua disposizione e infine Codere con 250 diritti (come Gmatica è il concessionario protagonista del maggiore incremento di new slot rispetto all’ultima gara). Non hanno esercitato la facoltà di acquisire titoli aggiuntivi Cogetech e Hbg, mentre Bplus, Gamenet, Cirsa e Snai, non avevano incrementato le proprie reti.
Il business delle sale Bingo in Italia non è mai decollato. Il primo a incentivare l’apertura delle sale fu il governo D’Alema. Spuntarono come funghi in tutte le città. A volte veri e propri villaggi del gioco. Molto americanizzate, moquette, tabelloni e cartelle stile tombola. Ma dietro il boom iniziale il fenomeno è sempre andato in discesa. Anche perché in quel caso la possibile vincita è sempre direttamente proporzionale al numero di giocatori. Il governo Letta, però, ha comunque colto la palla al balzo in tema di rinnovo delle concessioni. 200.000 euro da ogni società, altri 300 mila di anticipo come garanzia, più i canoni mensili. Per arrivare a cifra tonda, già che si trovavano a trattare la materia. “L’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli procederà nel corso dell’anno 2014”, è scritto nella legge, “alla riattribuzione delle medesime concessioni attenendosi ai seguenti criteri direttivi fissazione nella somma di euro 200.000 la soglia minima per l'attribuzione di ciascuna concessione (da versare in due trance la prima alla presentazione della domanda, la seconda alla sottoscrizione della nuova concessione) ; durata delle concessioni pari a sei anni; 300.000 di garanzia bancaria ovvero assicurativa dovuta dal concessionario, per tutta la durata della concessione, a tutela dell'Amministrazione statale; il mantenimento dei requisiti soggettivi ed oggettivi, dei livelli di servizio e di adempimento delle obbligazioni convenzionali pattuite”. Gli unici ad accorgersene sono stati i parlamentari del Movimento 5 stelle, ma la questione è stata sollevata sul blog di Beppe Grillo e lì è rimasta. E solo quella delle sale bingo, non la parte che riguarda le macchinette che sono il vero business.
Letta, sempre nel principio di fare cassa e portare in Europa dei conti almeno presentabili, ha anche scelto la strada migliore per risolvere il contenzioso con le società che gestiscono il mercato. Secondo la Corte dei conti, come scritto nei giorni scorsi dal sito lanotizia.it , già nel 2008 la procura della Corte dei conti aveva stabilito un risarcimento nei confronti dello Stato da parte dei re delle slot, fissato in 98 miliardi di euro per non aver collegato le macchine ai sistemi informatici del ministero. Una cifra da capogiro. Ma dovuta al fatto, secondo i magistrati contabili, che avevano operato senza nessun controllo. Il procedimento è ancora pendente, ma il governo ha chiuso con una richiesta di 700 milioni, neanche l’uno per cento di quello che avrebbe dovuto entrare nelle casse statali. Una sorta di sanatoria letta da più parti come un favore - l’ennesimo - alle società che gestiscono l’azzardo ormai non solo legalizzato, ma parastatale. Visto che gran parte delle entrate arrivano da lì. La terza azienda italiana, come Finmeccanica e la Fiat.
La tassa sui disperati
Per capire di cosa parliamo bisogna rifarci ai conti. E così si scopre che nelle scommesse legali gli italiani hanno speso 15,4 miliardi di euro nel 2003 e 79,8 miliardi nel 2011. Sedici volte il business che produce Las Vegas. In pratica parliamo di un incremento del 52% l'anno, per un fatturato che vale il 5% del Pil e mette il settore fra le prime industrie del Paese. In base ai dati dei Monopoli, in Italia la spesa media in scommesse per abitante maggiorenne è stata di 1.586 euro nel 2011: il 13,5% del reddito. Questo mentre crescono come funghi i nuovi casinò. Perché le sale bingo in realtà sono una semplice insegna: il business e tutto nelle macchinette mangiasoldi che, con le nuove concessioni, rischiano di aumentare ancora la spesa media. E ridurre sul lastrico le famiglie. Il tutto mentre i Comuni cercano di portare avanti la strategia contraria: disincentivare il gioco. In provincia di Reggio Emilia, nei mesi scorsi, è addirittura nata la struttura residenziale per curare i pazienti dall’azzardo compulsivo. Le Asl, a livello locale, investono perché ritengono la ludopatia una vera e propria malattia. Poi però arriva lo Stato a gamba tesa che scombina tutti i buoni propositi. Le regioni cosiddette virtuose, come l’Emilia Romagna, hanno aperto servizi per la cura da gioco in tutte le città. Non solo. Si sono spinti oltre. Le sale gestite dalle società dovrebbero esporre (il condizionale è obbligatorio) gli opuscoli su come ci si cura. La buona sostanza: entrate e giocate, è legale, lo Stato incassa e allo stesso però si lava la coscienza offrendo la cura.
Una sorta di larghe intese prima ancora che learghe intese si materializzassero sotto gli occhi di tutti. In principio fu il governo Berlusconi a comprendere che quello del gioco era un business da poter spremere. Ci si è tiffato dentro dD’Alema, ha proseguito ancora Berlòusconi: fu una legge del suo governo a stabilire che le concessioni avessero una durata di nove anni. Quello che il governo in loden di Mario Monti ha assunto a modello e che adesso prosegue con Enrico Letta, buon conoscente di Antonio Porsia che già nel 2004 finanziò con 15 mila euro la sua campagna elettorale. I signori del gioco d’azzardo si ritrovano anche tra gli sponsor della lobby che Letta guida da anni, Vedrò. Tutto naturalmente avviene per una serie di casualità. Il business è business. Anche se fatto alle spese dei poveracci che vengono riconosciuti come malati. Lo Stato si curerà di loro, prima però li svuota le tasche. E’ la regola del gioco e non conta niente se il governo sia targato centrodestra, centrosinistra o abbracci tutto l’arco politico e di schieramenti.

il Fatto 16.12.13
Sono davvero palazzi di giustizia?
di Vincenzo Iurillo, Giuseppe Lo Bianco, Davide Milosa e Tommaso Rodano


Una cartella. Un’eredità. Una separazione. Magari una multa, il furto subito, la lite condominiale. Il signor Rossi è costretto a entrare in un tribunale o andare dal giudice di pace. E affrontare la quinta essenza della burocrazia vestita da giustizia. Nord, centro, sud e isole, i problemi principali non cambiano, giusto le sfumature.
Il fascicolo del 1977
Dicono che tra i polverosi processi del Tribunale civile di Torre Annunziata (Napoli) è possibile imbattersi in un fascicolo aperto nel 1977. Un’esecuzione immobiliare. Un pignoramento che si è incagliato tra le mille difficoltà legate alla vendita del bene e al tira e molla tra creditore e debitore. Anzi, ai loro eredi ormai. “Il procedimento è sospeso” precisa il magistrato. Quindi il record di vecchiaia tra quelli in corso slitta a una causa del 1988. Il presidente della Repubblica era Francesco Cossiga. Il presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan. C’era ancora l’Unione Sovietica. E il Muro di Berlino. Tutti morti o caduti sotto i colpi della Storia, ma qui la Giustizia, in qualche modo, sopravvive e resta in piedi. Sia pure tra mille difficoltà. Con gli accorpamenti della riforma Severino, il tribunale di Torre Annunziata, che già trattava le cause provenienti da un comprensorio frizzante, problematico e ad alta densità camorristica, ha dovuto assorbire anche i fascicoli provenienti dalle sedi distaccate soppresse di Gragnano, Castellammare di Stabia e Sorrento. E così, mentre il parcheggio affidato in gestione a una cooperativa che incassa due euro ad auto si riempie all’inverosimile, il primo piano dell’edificio, dedicato al contenzioso civile, in certi orari assume le fattezze di un suk arabo. Decine e decine di avvocati e clienti accalcati in pochi metri quadri, a discutere ad alta voce, fino ad avvolgere l’ambiente con un brusìo insopportabile. Se indossi un vestito grigio e una cravatta tutti ti scambiano per un avvocato. Ascolti le cause di lavoro al piano terra con le parti che raccolgono le deposizioni in corridoio. Entri nelle stanze delle udienze civili e ti fai tranquillamente i fatti degli altri. Coi nomi e cognomi. Fa eccezione l’aula riservata alla trattazione delle cause di famiglia: separazioni, affidamenti, liti coniugali. Davanti alla porta c’è una guardia giurata, entra solo chi deve. Ed uno alla volta. Oltre 30 procedimenti. La fila è lunga una decina di metri. Le cause hanno tutte lo stesso orario. I legali se ne lamentano. “Vengo puntuale alle 10, ma ci sono 15 cause prima della mia. Altrove, sono scadenzate con precisione. Cosa faccio nell’attesa? Telefonate di lavoro”. Beato chi riesce a sentirle, in questo frastuono. Il giudice accende una sigaretta e tira un sospiro di sollievo: “Anche questa giornata è finita”. Fino a pochi minuti prima la stanza tre per tre aveva contenuto fino a trenta persone contemporaneamente. “Non è il mio ufficio. Non ho un ufficio. Faccio udienza dove capita. Questo, che ha il computer, riesco a utilizzarlo solo una volta a settimana. Le altre volte scrivo a penna. E per studiare le cause, mi porto le carte a casa”. Tranquilli, però: può farlo solo il magistrato. L’era dei mariuoli che sottraevano un fascicolo per farlo scomparire, assicurano, è finita. Almeno qui. La cancelleria funziona di buona lena. I controlli sono rigorosi. Un avvocato se ne lamenta: “Prima fotocopiavo quel che mi interessava senza pagare i diritti”. Non ci sono più i tribunali di una volta.
Avvocati distribuiscono numeretti
Il signor Rossi ha ricevuto a casa una cartella esattoriale. Una sorpresa inaspettata e – ritiene – illegittima. Vuole presentare ricorso. Si deve rivolgere al giudice di pace di Roma. Non ha idea di cosa lo aspetti. Arriva di buona lena, un giovedì mattina, verso le 9 e 30. L’ufficio è aperto solo da mezz’ora. È lecito aspettarsi un po’ di fila. All’ingresso trova una piccola sala d’attesa e una porta chiusa. I posti a sedere, pochi, sono già tutti presi. Ma la confusione non è eccessiva: siamo in un ufficio pubblico e il signor Rossi ha visto di peggio. Chiede alle persone sedute come sia organizzata la fila, gli viene indicato un uomo con un foglio di carta e una penna. È un avvocato. “Lei che numero è? ” – chiede al signor Rossi –. “Sono appena arrivato”. “Allora la metto in fondo alla lista, è il novantaduesimo”. Il signor Rossi fa fatica a capire. Il suo nome viene scritto a stampatello in fondo a un elenco lungo e fitto. “Ci vorrà un bel po’ – spiega il “gestore” del foglio – non so se ce la fa stamattina, doveva venire prima”. Il signor Rossi ha appena scoperto come funziona la fila al giudice di pace di via Teulada, Roma, Italia, anno 2013. E questa è solo la coda per l’“iscrizione a ruolo”, l’atto con cui si presenta il ricorso e inizia la causa. Siamo attorno al numero 20. Il signor Rossi si chiede dove siano finiti gli altri settanta circa che vengono prima di lui. Nella stanza ci sono poco più di una decina di persone. Gli altri – gli viene spiegato – sono “in giro”; a lavoro o a prendere un caffè. La lista passa tra le mani degli avvocati che si alternano di fronte alla porta. L'attesa la gestiscono loro. “Sonia! Anche tu in fila? ” – una giovane praticante ferma una collega – “Ti serve un numero? Io ne ho uno che mi avanza”. Il signor Rossi è stordito. Decide di fare due passi nel palazzo di via Teulada. Trova avvisi dattiloscritti su ogni parete: “Si comunica che ogni utente può depositare un massimo di 5 ricorsi”, oppure “Si ribadisce che l’ufficio non tiene conto degli elenchi esterni formati prima dell’apertura dell’ufficio, alle ore 9.00, bensì verrà considerata la fila fisica ad personam ”. Falso. Per ottenere una posizione in cima alle liste d’attesa, quelle scritte a penna nelle mani degli avvocati, è prassi rivolgersi ad agenzie di servizi (o addirittura a “professionisti” in proprio) che arrivano all’alba per segnarsi ai primi posti. Paghi un privato, ottieni un servizio pubblico. Il signor Rossi lo ignorava. Non può sapere nemmeno che stamattina è stato fortunato: la sua fila “scorre” e con appena tre ore e mezza di attesa, sul filo della chiusura dell’ufficio (alle 13), riesce ad accedere allo sportello e sbrigare la sua pratica. Alla fine della causa, quando andrà a richiedere la copia della sentenza, dovrà essere molto più rapido e fortunato: in quell’ufficio non si riescono a “lavorare” più di venti richieste al giorno: la fila è gestita sempre dagli avvocati e dominata dalle agenzie. In mezzo, poi, c’è la giustizia. Dal momento dell’iscrizione a ruolo alla prima udienza, a volte passano anche cinque mesi. La decisione dei giudici di pace (appena usciti da uno sciopero di due settimane per denunciare “una condizione di precariato intollerabile e illegale”) è discrezionale: non sempre avviene alla prima seduta. E non sempre, assieme al dispositivo (la decisione), il giudice emette anche la sentenza: ci sono dispositivi emessi nel 2011 ancora in attesa di sentenza. Il signor Rossi, per fortuna, ancora non lo sa.
In fila dall’alba
La causa è andata in decisione il 6 luglio del 2010. Il fascicolo è stato consegnato al giudice Enrico Catanzaro per la sentenza il 9 novembre 2010. Ma il verdetto è stato depositato in cancelleria, in “minuta”, dopo oltre tre anni. E solo dopo che una delle parti ha depositato il 9 ottobre scorso un’istanza per definire il procedimento, atto propedeutico per attivare un’azione di responsabilità nei confronti del giudice. E la sentenza ancora non è stata pubblicata. Benvenuti nel caos della giustizia civile a Palermo, dove i genitori di un bimbo (ormai ragazzo) disabile mentale attendono da anni la decisione sulla richiesta di risarcimento danni nei confronti dei medici accusati di avere gestito male il parto. E dove ogni cittadino si aggira smarrito, ammesso che riesca a entrare. Gli ostacoli, nel palazzo di Giustizia di Palermo, sono concreti fin dall’ingresso, negato ai disabili per via degli scalini che conducono al metal detector: i normodotati sono invece costretti a uno slalom forzato tra gli armadi di ferro stracolmi di faldoni che ostacolano il passaggio nel corridoio del secondo ammezzato del palazzo, davanti alla prima, alla terza e alla seconda sezione civile impegna ogni giorno centinaia di avvocati e utenti del palazzaccio, attenti a non urtare, una volta aperte le porte delle cancellerie, le scale protese verso il tetto, dove le pile dei processi, accumulati per terra secondo un ordine apparentemente caotico, ma decrittabile dai funzionari, arrivano a lambire il soffitto: a prenderli, per depositare o estrarre copia di atti, ormai sono gli stessi avvocati per non gravare sul lavoro di cancellieri e segretari. Ma l’istantanea del caos della giustizia civile nel capoluogo siciliano si può scattare ogni venerdi mattina, quando al primo piano del palazzo, quasi duecento avvocati affollano l’aula (e soprattutto l’area antistante) delle udienze collegiali della seconda sezione, in attesa che venga chiamata la propria causa, tra le oltre cento fissate per quel giorno: molte di esse subiranno rinvii fino a cinque, sei anni. “Quella fissata per il 13 dicembre scorso – dice l’avvocato Dario Greco, presidente nazionale dell’Aiga fino a ottobre scorso – arrivava da un rinvio del maggio 2009”. E lo stesso affollamento si nota ogni giorno dietro la porta del ruolo generale del Tribunale: alle 8.30 sono già cinquanta gli avvocati che hanno apposto a penna il proprio nome nel foglio di carta appeso all’uscio. A metà mattinata saranno oltre trecento. E se i giudici di pace ormai chiedono sempre più spesso agli avvocati di sollecitare congiuntamente i rinvii delle cause, che danno anche ad un anno e mezzo, perché non riescono a smaltire l’enorme carico di lavoro, la soluzione per cancellare una sistema burocratico borbonico è il processo telematico, che il ministero di via Arenula studia da oltre dieci anni e che dovrebbe entrare in vigore dal primo luglio prossimo: a Palermo un protocollo già firmato prevede l’avvio di un “doppio binario” sperimentale, e cioè l’invio on line certificato degli atti accanto al tradizionale deposito cartaceo, fin dal prossimo febbraio. “Ma in questo caso il condizionale è d’obbligo – conclude l’avvocato Greco – ai magistrati, infatti, non è ancora stato fornito il software adatto”.
Arresti confermati. E di nuovo liberi
Nel gabbione sono in dieci. Chi trova posto si siede sulla panca di metallo, gli altri attendono in piedi. Sono quasi tutti stranieri. Razze del mondo riunite nell'aula numero uno, piano terra del Palazzo di Giustizia di Milano. C'è chi la sera prima è stato pizzicato con qualche grammo di droga, chi ha alzato troppo il gomito e si è ritrovato nelle camere di sicurezza della Questura di via Fatebenfratelli per resistenza, altri, invece, stanno lì perché clandestini. Dietro alle sbarre c'è anche un senegalese di 28 anni, irregolare. Parla fitto con il legale. Racconta che è stato arrestato perché ha venduto droga a un vigile urbano che aveva scambiato per cliente. Qui tutti indossano i vestiti della sera prima quando carabinieri o polizia li hanno fermati. Mostrano volti stravolti. Sguardo fisso. Moltissimi di loro per queste aule ci sono già passati più di una volta. Arrestati e processati per direttissima. Un rito che nella sua semplicità (dibattimento a poche ore dal fermo) promette di snellire la macchina della giustizia, ma che nella realtà si è trasformato nell'ennesima voce di spesa e di spreco. Con gli imputati che usufruiscono dei riti alternativi e della legge Simeone-Saraceni che per le pene inferiori ai tre anni esclude il carcere e lascia libero accesso alle misure alternative. Cosa che capita molto spesso visto che i reati gestiti dalle direttissime sono sempre di entità minima. Ma c'è di più: la stragrande maggioranza degli imputati si dichiara indigente e dunque, grazie a una semplice autocertificazione (si deve dichiarare meno di 9200 euro all'anno) può accedere al gratuito patrocinio, pagato dallo Stato. Ogni giorno, dal lunedì al venerdì, il corridoio di marmo che attraversa da parte a parte il palazzo di Giustizia fa da quinta per attori e comparse che il giorno e la notte precedente hanno animato le strade di Milano. Durante tutta la mattina e una piccola parte del pomeriggio, regna la confusione. Ci sono gli imputati, ma anche gli agenti che compilano decine di verbali. C'è il giudice, rigorosamente monocratico, che ascolta gli interpreti tradurre in tutte le lingue del mondo: dal cinese al russo all'arabo. E poi gli avvocati. Il resto sono processi che durano non oltre i venti minuti e si sdoppiano nella prima udienza, quella che convalida il fermo ma quasi mai dispone il carcere e la seconda in cui si celebra la sentenza. Risultato: chi (e non sono molti) si presenta alla seconda udienza (un mese e mezzo dopo) pesca tra i vari riti alternativi e si ritrova libero. Come capitato al giovane senegalese che ha venduto droga a un ghisa. Per lui il giudice ha convalidato l'arresto, dopodiché lo ha messo fuori in attesa dell'udienza. Il record del giro spetta a due marocchini di 24 e 33 anni che il 27 luglio scorso dopo essere stati processati in direttissima per un un furto, sono stati arrestati nuovamente per aver rubato un paio di magliette in un negozio del centro. Dopo l'arresto in flagranza, i carabinieri hanno scoperto nelle tasche di uno dei due un verbale d'identificazione della polizia locale.

il Fatto 16.12.13
Gli infiniti gradi del giudizio
L’imperdonabile colpa di avere ragione in Italia
di Nicola Lagioia


Sento alzarsi le urla della folla, una nera marea senza testa si dimena tra palazzi barocchi e monumenti vecchi di cinquecento anni. Ecco: un'esplosione. Parte una carica. Un'auto corre a sirene spiegate. Teatro Italia. Tutto ciò che per gli uomini di studio è caos, la mia esperienza lo chiama nesso di causalità. Io invece mi chiamo Mario, ho superato la linea che spacca in due l'aspettativa di vita. Un tempo ero nel campo delle forniture idrauliche. Articoli da giardino. Irrigatori. Lavoravo così tanto che trascorrevo la domenica pomeriggio steso nel letto a fare calcoli davanti al televisore spento. Gli spettacoli pomeridiani mi hanno sempre dato il voltastomaco. Il fatto è che volevo sposarmi, mettere su casa. In un paese come il nostro, pensavo, un'espressione geografica in cui tra una buona idea e la sua realizzazione c'è un muro impenetrabile di carta bollata, una nazione in cui donare soldi è complicato, figuriamoci farne, un incubo grammaticale dove il sì suona come un condizionale, in un posto del genere, riflettevo con freddezza, l'unica è aggiungere a talento e dedizione lo sforzo non richiesto, una tenacia da esaltati, una costanza e un'ossessività che altrove riempirebbero la cosiddetta letteratura clinica. In questo modo lavoravo anche sedici ore al giorno. Credevo nella resistenza fisica. Se la burocrazia poteva soffocare una sana voglia di farcela, forse una patologica voglia di farcela avrebbe avuto la meglio sulla burocrazia. In effetti, nel terzo anno d'esercizio i miei sforzi furono premiati. Un cliente grosso. Un ordine da duecentomila euro. Forse dovrei dire che l'ordine era pari a quattrocentottanta milioni di lire. Questo per spiegarvi che la mia storia è iniziata quando la mafia non esisteva e Craxi era considerato un uomo bello. Ma insomma, il cosiddetto cliente comprò la merce ma poi non pagò la fattura. Fece lo stesso con un altro fornitore che conosco, e chissà con quanti ancora. Un truffatore. A quel punto lo denunciai. Adesso penserete che sto per raccontarvi l'assurda storia di una causa civile protrattasi trent'anni. Avete indovinato. Non avete capito niente. Perché è vero, ancor'oggi non ne sono venuto a capo. Ma una volta realizzato che quell'uomo non avrebbe pagato, compresi pure che non avrei potuto mettere la fattura in contabilità. Tra Iva e altre tasse avrei dovuto chiudere. Il truffatore (immagino per scaricare le spese) pagò sull'ordine la ritenuta. A quel punto bussò alla mia porta lo Stato chiedendo che pagassi le tasse sulla somma che non avevo ricevuto. Si manifestò in forma di missiva anche davanti al mio collega, il quale, come me, non era stato in grado di regolarizzare la fattura su cui era stato fatto fesso. D'accordo, pensai, è una bella scocciatura, spunterà fuori una piccola multa. Nessuno però potrà provare che ho ricevuto quella somma. "Temo abbia capito male", disse con grave ampollosa e forse appena compiaciuta solennità il primo avvocato a cui mi rivolsi, "la presunzione è a carico suo". Io non lo so, gentile lettore, se hai mai varcato la soglia di un tribunale italiano ai primi caldi di primavera, e, riconosciuto nella spettrale umanità in sempiterna marcia tra gli accecanti corridoi di marmo l'antico segno di un maleficio praghese, hai avuto la sensazione che la certezza del diritto poggiasse sul fumo di una sigaretta. Se non l'hai fatto, questo scenario dorme comunque in te. Se così non fosse, perché, sapendoti nel giusto, non contestasti quella vecchia bolletta? Come mai considerasti pericoloso recuperare il piccolo rimborso? Chi ti convinse che rinunciare a un credito da successione fosse un sistema per non rischiare di perdere anche il resto? In questo modo mi trovai schiacciato dalla figura retorica che fa la storia del paese. Ammirate le convergenze parallele! Inseguivo un creditore per la merce che non mi aveva pagato. Lo Stato mi inseguiva per le tasse su una somma che non avevo ricevuto.
Non starò a descrivere in modo più diffuso l'avvocato che soavemente mi consigliò di patteggiare visti i tempi
giudiziari, i soldi che sborsai su tale ammonimento, e lo stupore, anni dopo, dinnanzi all'inconfondibile busta con la stampigliatura nera, il secondo avvocato che mi rimproverò per avere patteggiato poiché l'istituto giuridico in questione placava sì i gremlins del fisco ma funzionava come ammissione di colpa dinanzi al Behemoth dell'Agenzia delle Entrate, tralascerò oltremisura del primo grado che vinsi e del secondo che persi – intercorrendo tra l'uno e l'altro un divorzio e la caduta di molti capelli – non chiederò stupore per il primo grado che perse e il secondo che vinse il mio collega per la medesima causa, né indignazione per le difficoltà (mie e sue) di trarre sangue dal comune truffatore (il quale, a propria volta, ci propose di pagare subito un terzo del dovuto e non pagò, in modo che una seconda causa poté venire intentata per un terzo e per non più l'intero), tacerò del mio fallimentare ricorso in Cassazione con la caduta di altri capelli (chemioterapia) e del legale che ventilò il palco strasburghese per i diritti umani poi culminato nel lumicino da accendere dinanzi alle speranze di un condono.
Quello che conta è che oggi sono qui, nella stessa posizione di certezza dell'inizio. Uguale, ma diverso. Ho temporaneamente perso una causa che altrove (il medesimo fatto in mano a un altro giudice) il mio collega ha vinto, ma anche lui solo per ora. Ho vinto poi una causa contro chi, riconosciuto truffatore, non mi ha versato ancora un centesimo. In compenso non ho più una moglie, non ho più un'azienda. Tra parcelle e interessi e oneri che non comprendo ho sborsato duecentomila euro. Altre trecentomila dovrò toglierne a ciò che non ho più se il giudicato mi riconoscerà colpevole di non aver pagato tasse su soldi mai visti. Per fortuna mi restano i figli. Ogni domenica vengono a trovarmi in ospedale.
Potreste pensare che al termine della mia vita io mi stia lamentando per l'irrazionalità in cui versa il paese. Mentre no, l'opposto. L'ho detto prima, credo ai nessi di causalità. Le pallide pareti di questa stanza sono raggiunte da urla sempre più scomposte. Vengono da fuori, dalla strada. A quanto pare un padre di famiglia si è dato fuoco davanti al tribunale. Hanno bloccato le strade. Hanno bruciato cassonetti, rotto qualche vetrina. Adesso marciano compatti verso i ministeri. Hanno le mazze in mano. Gli uomini di studio e altre brave persone li descrivono come la feccia. Bene. Posso essere d'accordo anche su questo. E tuttavia, guardate al quadro generale. Cos'altro accade quando diluvia in una fogna?

il Fatto 16.12.13
Il fiume tradito
Il Tevere dei veleni non è più biondo
di Chiara Paolin


Meno male che la piena s’è portata via tutto. Così la colpa per gli alberi divelti, la sporcizia sulle rive e il fango flaccido spalmato ovunque, se la prende il maltempo. Il Tevere brutto è colpa di un accidente. O forse di un secolo che sta bestemmiando tremila anni di storia: Roma nacque sul fiume, Roma ha ucciso il suo fiume. Lo dice l’inchiesta per inquinamento e frode che la Procura sta portando avanti da tre anni scoprendo ogni giorno nuove responsabilità: tutti e cinque i depuratori che lavorano le acque sono risultati inadatti a garantire le necessarie condizioni di sicurezza. L’impianto di Roma Nord è stato sequestrato, le indagini raccontano di olii industriali, residui gommosi e materiali gravemente tossici gettati in acqua; di allacci fognari e sversamenti abusivi presenti a centinaia lungo il percorso romano del fiume; persino della commercializzazione di fanghi ottenuti dal trattamento delle acque, utilizzati come concime agricolo.
NEL 2012 Legambiente trovò alla foce del Tevere un concentramento di colibatteri 40 volte oltre il limite consentito e altre schifezze, ma il rapporto redatto dalla giunta Alemanno sulla salute del fiume era riuscita a strappare un giudizio positivo: “stato ecologico sufficiente”, benché “non idoneo alla vita dei pesci”. E il nuovo sindaco che fa? Il primo segnale fu il motto #tornabiondo lanciato in campagna elettorale da Estella Marino, attuale assessore all’Ambiente. Per ora l’unica iniziativa è l’annuncio di un futuro collegamento fluviale da Porta Portese a Fiumicino. “Il tragitto di 34 km verrà compiuto in circa 80 minuti da un catamarano che potrà trasportare fino a 250 persone” informa il Campidoglio. Il signor Marcello, che porta sempre il cane a passeggio sulla ciclabile, fa la faccia strana: “Er catamarano? Ma che stanno a dì! L’altra settimana hanno ingabbiato er sfasciacarrozze a Tor di Quinto, buttava de tutto in acqua, ‘sto disgraziato: macchine, frighi, lavatrici”. Sandro Bari, che guida il Comitato per il Tevere, conferma: “Nel punto in cui affluisce l’Aniene, è pieno di batterie e accumulatori lasciati lì dagli ambulanti: sono anni che lo denunciamo a tutti, e nessuna delle 18 autorità competenti ha mai fatto nulla. É uno scaricabarile continuo”.
La realtà è che, per il momento, il Tevere interessa solo a chi ci guadagna qualcosa. Le rive sono sporche, gli accessi alla pista ciclabile seminascosti dalla vegetazione mentre privati e associazioni continuano a selezionare gli iscritti incassando le rette. Le concessioni oggi coprono 100 ettari distribuiti tra ministeri, enti pubblici e istituti religiosi, club esclusivi. Dove servono amici pesanti – e fino a 30 mila euro – per ottenere l’iscrizione, ma poi un piatto di pesce fresco viene servito al prezzo sociale di 5 euro: privilegio destinati a militari, magistrati, ministeriali e potenti vari. Gente che quando il Tevere esonda, danneggiando sale da pranzo e piscine, va a batter cassa dal Comune. L’anno scorso i club si presentarono compatti al Campidoglio: ci date in gestione un fiume che distrugge tutto, vogliamo essere indennizzati.
L’Abt, Autorità di bacino del Tevere, spiega che le concessioni rilasciate fin qui sono 154: circoli sportivi, barconi e zattere, attività varie come ristoranti, depositi e autofficine. Nel 2007 un’apposita commissione comunale indagò lo stato dell’arte. Risultò che praticamente tutte le attività rivierasche s’erano allargate a piacimento: chi aveva costruito nuovi ambienti, chi s’era aperto un bar senza licenza, chi aveva moltiplicato i campi sportivi senza badare troppo alle mappe. Il Comitato chiese interventi urgenti elencando a mo’ di sfregio le tariffe cui la Regione cede l’uso delle rive. Come Villa Bau a Ponte Milvio, inzialmente destinata a oasi naturale e invece diventata spiaggia per cani al modico affitto di 5.000 euro annui. O come lo stabilimento Saxasport, a disposizione della Rai per 19 anni a 13mila euro l’anno. Pure la Corte dei Conti s’era espressa sul punto, invitando le autorità competenti a gestire in modo più efficiente la risorsa fluviale. Peccato che la stessa Corte utilizzi da tempo immemore un circolo privato per i suoi dipendenti e abbia fatto poi richiesta per godersi un’area golenale (ottenuta alla cifra di 15 mila euro l’anno) perfetta per il canottaggio.
“QUESTO ERA dell’Inps, se lo stanno affittando” spiega l’operaio mentre passa l’ultima mano di vernice al battello Anni 30 che galleggia elegante a due passi da Piazza del Popolo. “Eh, ci facevano delle gran belle feste, ma tocca batter cassa” sentenzia il collega di fatica spiegando che ormai, sul fiume, sono scomparsi locali e ristoranti. Solo il natante della Marina, con su il cartello “zona militare”, è attrezzato con tavoli, sedie e appendini per le giacche. Pure i bateaux coperti, che piacevano tanto ai turisti, sono fermi: il fiume è pericoloso con i suoi sbalzi di livello. Le stazioni di approdo sono state divelte, gli scafi giacciono fuori acqua e s’arrugginiscono in solitudine. “Se la diga di Castel Giubileo funzionasse bene si potrebbe fare come in tutte le capitali d’Europa – garantisce Massimo Di Stefano, Legambiente –. Certo la violenza del clima non aiuta, e il Tevere è vivace di natura, ma vogliamo raccontarci che solo a Roma il fiume dev’essere ‘na selva abbandonata? ”

Repubblica 16.12.13
Cile, il trionfo annunciato della Bachelet
La socialista torna alla presidenza. Ma l’astensionismo è da record
di O. C.


LA SOCIALISTA Michelle Bachelet torna alla presidenza in Cile e diventa la terza donna, insieme alla brasiliana Dilma Rousseff e all’argentina Cristina Kirchner, al potere nel subcontinente latinoamericano. Bachelet, che le proiezioni danno al 63%, ha sconfitto la candidata della destra Evelyn Matthei, ferma al 37%, dopo aver sfiorato la vittoria già al primo turno, il 17 novembre, in un ballottaggio caratterizzato da almeno due circostanze inedite: che a sfidarsi fossero due donne e che entrambe fossero figlie di generali dell’aviazione molto amici prima del golpe militare del 1973 che cambiò la storia del paese.
Ma un altro elemento rischia di diventare il dato nuovo, e in parte inatteso, delle presidenziali cilene: l’altissima astensione, che sarebbe oltre il 59%. Queste infatti erano le prime elezioni senza voto e iscrizione obbligatori alle liste elettorali, norma che è stataabolita recentemente durante la presidenza di Sebastian Piñera. Già al primo turno l’effetto era stato rilevante con una astensione vicina al 50% ma in questo ballottaggio può diventare dirompente visto che, di fronte ai seggiquasi vuoti, sono in molti tra i politici quelli che vorrebbero tornare al voto obbligatorio. La bella giornata di sole e il caldo (33 gradi) in un Cile che sta entrando nell’estate australe hanno sicuramente allontanato i cittadini dalle urne, ma nessuno si aspettava che fosse in una dimensione così preoccupante.
Una nuova Costituzione e una riforma complessiva dell’istruzione, privilegiando quella pubblica e gratuita rispetto a quellaprivata e a pagamento, sono stati i temi più importanti della campagna elettorale di Michelle Bachelet, che è tornata a candidarsi con una coalizione, aperta ai comunisti e ai leader delle proteste studentesche, più caratterizzatasul piano delle riforme sociali rispetto al suo primo mandato presidenziale (2006-2010). Il Cile cresce ha ritmi molto sostenuti, sopra il 5% del Pil, ma sconta ancora molti problemi soprattutto per tutte le leggi non abolite della dittatura di Pinochet, da un sistema elettorale che premia la destra alle norme molto liberiste sul mercato del lavoro. Per l’avversaria, Evelyn Matthei, la vera sfida — ora perduta — era quella di ottenere un consenso non inferiore al 40%, tetto storico della destra in Cile. Suo padre, l’ex generale della dittatura Fernando, quello che Bachelet continua a chiamare “zio” per la lunga amicizia che ebbe con la sua famiglia durante la sua infanzia, ha attaccato i due partiti della destra sostenendo che Evelyn in campagna elettorale «è stata abbandonata a se stessa ».

l’Unità 16.12.13
Le due anime di Mandela
di Pino Arlacchi


HO CONOSCIUTO NELSON MANDELA E L’HO INCONTRATO PIÙ VOLTE ANCHE IN PRIVATO. CI SONO TRE COSE DI LUI CHE HANNO LASCIATO UN’IMPRONTA INDELEBILE IN ME STESSO. La prima è il suo carisma personale, nel senso di Max Weber. Quel dono soprannaturale, enigmatico, posseduto solo dai leader supremi. La sua presenza si avvertiva subito intorno a lui, e sono pochi quelli che lo hanno conosciuto di persona a non esserne rimasti colpiti. Mandela era un capo naturale, e non a caso era re e figlio di un re tribale. Esprimevano una generosità e grandiosità semplicemente sconfinate, avvolte in una semplicità d’approccio che disarmava tutti. Amici e nemici. Durante il mio mandato all’Onu, tra il 1997 e il 2002, ho incontrato quasi tutti i grandi della terra, ma solo due di essi mi hanno fatto sentire qualcosa di strano nella vicinanza fisica alla loro persona. Nelson Mandela e Papa Giovanni Paolo II.
Il carisma di Mandela non era quello di un capo politico e militare. Era quello di un profeta, di un leader religioso laico in grado di trascinare a farsi obbedire in virtù della fede nelle sue qualità personali. Fu ciò che mi venne in mente nel 1999, durante una serata trascorsa a Johannesburg con i suoi compagni di battaglia diventati ministri del primo governo dopo l’apartheid. Gente che era stata incarcerata, torturata, menomata. Gente che aveva visto figli, padri, madri, fratelli, massacrati dal fanatismo sadico dell’oligarchia bianca. E che venivano ora invitati da Nelson Mandela a «riconciliarsi» con i carnefici e non a vendicarsi, e neppure a chiedere giustizia. «Quello che ci chiedi è contro la natura umana. Dobbiamo perdonare chi ha ancora le mani sporche del sangue dei nostri cari?», dicevano. «Si. So quanto vi costa, perché costa anche a me. Se mi volete bene, però, dovete accettarlo. Sono io a chiedervi questo sacrificio». Era la risposta di Nelson. E non aggiungeva molto altro. Dava per scontato che i suoi compagni comprendessero che il senso della sua missione era quello di unificare il Sudafrica costruendo un Paese le cui radici non affondassero nell’odio.
Di tutte le cose fatte da Mandela lungo la sua carriera di combattente e di padre della patria, questa della riconciliazione, dell’amnistia e del perdono è stata senza dubbio la più difficile. E anche la più controversa. Non sappiamo quanto a lungo questa idea sopravvivrà alla sua scomparsa, ma è certo che solo lui era in grado di farla accettare.
La seconda cosa che mi ha colpito in modo speciale è stata la sua gentilezza d’animo. I lunghi sacrifici induriscono i cuori. Ma Nelson Mandela, a differenza di tanti altri, aveva sviluppato durante i 27 anni di carcere una misura di umanità fondamentale che arrivava ad includere anche i nemici più irriducibili, ed era pronta a rivolgersi anche contro gli eccessi dei compagni di lotta: «nella mia vita ho combattuto contro la dittatura dei bianchi...e anche contro quella dei neri..».
L’assenza di risentimento in Mandela è stata notata da molti. Ma essa non scaturiva da una scelta etica o religiosa. Era una pietra angolare del suo carattere, maturatasi nel tempo, e partendo da una base esattamente opposta. Il Mandela arrabbiato e intransigente degli anni che precedono il suo arresto del 1963 imbarazza i suoi estimatori più superficiali, ma è da questo nucleo che si sono formate le basi della sua grandezza. Mandela era stato l’ispiratore e il capo dell’ ala armata e clandestina del suo partito. Aveva imposto all’Anc di rompere con la tradizione gandhiana delle origini, e di accettare la guerriglia, il sabotaggio e gli attentati incruenti come una componente decisiva della lotta contro l’apartheid. Non furono in pochi, anche dentro l’Anc, a diffidare di questo giovane avvocato dalla testa un po’ calda che voleva rispondere con la violenza alla violenza di un regime implacabile, che avrebbe reagito in modo letale per il partito alla sfida armata.
Fu lui stesso a spiegarmelo, questo paradosso, in un incontro a tu per tu, rispondendo ad una mia domanda affettuosamente provocatoria su dove fosse finito il guerrigliero di sinistra do un tempo. Eravamo a New York. La mattina di quel giorno Nelson era stato l’ospite d’onore dell’Assemblea Generale dell’Onu, osannato da tutti, mentre i compagni dell’Anc gli dissi si lamentavano per avere le mani legate dalla Commissione per la riconciliazione istituita da lui e dall’ arcivescovo Tutu.
«Ricordati che il mio soprannome tribale equivale a “bastian contrario”. Sono andato contro corrente allora, all’inizio degli anni 60, perché la lotta armata era quello che bisognava fare per abbreviare la vita del regime». Mi rispose un Mandela serissimo, che aveva abbandonato per un attimo il suo gusto della battuta e dell’ aneddoto. «E sto andando controcorrente adesso, quando molti miei compagni si vogliono vendicare, non vogliono voltare pagina, e ciò impedisce loro di vedere chiaro nel destino del Sudafrica».
E questa è la terza cosa che non dimentico di Mandela: la sua genialità politica, che gli ha consentito di cogliere lo spirito del tempo per ben due volte. Un guerrigliero o un capo militare, un Garibaldi o un Che Guevara, non diventa mai uno statista. I posti del Pantheon sono uno per persona, perché non si possono vivere due vite.
Intuire che il Sudafrica non avrebbe seguito la traiettoria degli altri paesi africani che negli anni 50 e 60 si decolonizzavano più o meno pacificamente, e che era necessario usare la forza per mostrare ai coloni bianchi che avrebbero perso anche la sfida armata, non era cosa alla portata di tutti.
Resistere poi senza la minima alterazione a una lunghissima carcerazione, crescendo anzi in prestigio e capacità strategica fino a diventare un icona mondiale, per poi capovolgere la linea dura del passato, trattare con il nemico e farlo arrendere senza un bagno di sangue finale, tramite normali elezioni, è impresa che solo Nelson Mandela poteva portare a termine.

Repubblica 16.12.13
Governo Merkel, la sfida di Aydan “la turca” “Da Berlino segnale forte per tutti i migranti”
La nuova ministra all’Integrazione: “La xenofobia, un male europeo”
Nata nel 1967 ad Amburgo, Aydan Özoguz è la prima donna di origini turche a sedere nel consiglio dei ministri tedesco. I suoi genitori arrivarono in Germania da immigrati nel 1958. È deputata dal 2009
di Andrea Tarquini


BERLINO — «Non penso al mio successo personale, ma al segnale per tutti i migranti in Europa». Elegante in giacca grigia e pantaloni neri, Aydan Özoguz trattiene l’emozione del momento. 46 anni, figlia di turchi emigrati qui nel 1958 che mantennero la famiglia lavorando sodo nella loro bottega di alimentari, da domani sarà ministro per i migranti, lavorerà alla Cancelleria a pochi passi dall’ufficio di Angela Merkel. Laureata in letteratura anglosassone, Spd come il marito, una figlia, è la novità del momento: prima donna di origine turca chiamata nell’esecutivo.
Ministro Özoguz, da chi ha ricevuto le prime felicitazioni?
«Da molti politici tedeschi. E da un solo ministro turco, il titolare dei rapporti con l’Unione europea ».
Vede la nomina come un balzo in carriera?
«No. È un chiaro segnale a migranti e cittadini d’origine straniera. Hanno salito altri gradini nella scala verso il sentirsi a casa. Significa che un migrante che voglia impegnarsi, anche in politica, perché si sente parte di questo paese, può farlo, fino a entrare nel governo».
E per i molti giovani tedeschi d’origine turca?
«È l’incoraggiamento a sentirsi accettati anche con un nome difficile. Proprio loro sono stati i più calorosi con me: da ieri mattina ricevo sms e e-mail di congratulazioni a valanga da giovani d’origine straniera seguaci d’ogni partito. Divisi in politica, si sentono uniti dalla storia d’immigrazione loro o dei genitori, perché significa non vivere ancora la piena normalità».
Perché ha scelto di darsi alla politica?
«L’ho scelto dodici anni fa, il tema dell’integrazione era già vivo. Sono felice di potermi concentrare nel governo sul tema: è la sfida di decidere insieme che cosa tiene unita questa società. La sfida di evitare spaccature, di chiarire malintesi — quando si parlano lingue diverse, quando emergono insicurezze — per un vera distensione interna».
Lavorerà a un passo dalla cancelliera, che rapporto ha con lei?
«Nei negoziati per il governo abbiamo cominciato a conoscerci, ci siamo sempre strette la mano, ora lavorerò là accanto a lei, al massimo livello in cui si possa sedere in Germania. È una sfida che accetto volentieri».
Molti migranti criticano il compromesso Spd-Cdu/Csu sulla doppia cittadinanza. Che ne dice?
«È un compromesso, ma toglie un’ansia soprattutto ai più giovani e ai più piccoli: non dovranno più, da maggiorenni, scegliere se essere cittadini di questo o quest’altro Stato, quando invece si sentono appartenenti a entrambi ».
Lei è simbolo d’un doppio successo: per le donne e per i migranti. Come si sente, sul piano delle emozioni?
«È molto bello, è molto importante. Proprio per molte donne che sperano nell’integrazione per una vita migliore. Se non parlano tedesco si sentono molto insicure. Ho lavorato molto con le Ong che aiutano queste donne a emanciparsi. Da donna il tema integrazione lo vivi in modo speciale. Per questo impegno vale la pena anche di lavorare a Berlino con marito e figlia ad Amburgo, mio marito è al mio fianco. Saprò essere sia ministro a tempo pieno sia mamma, col suo aiuto».
È ottimista sul lavoro con Angela Merkel, donna ma conservatrice?
«La signora Merkel è aperta su molti temi. Proviamo. Ma ricordi: è stata la cancelliera a creare inpassato il ministero per i migranti. Perciò sono molto ottimista che andremo avanti».
Ovunque in Europa il populismo xenofobo avanza. Quanto lo teme?
«È un problema che prendo molto sul serio. Prima di tutto pensando alle elezioni europee ho chiesto di fare del confronto col populismo xenofobo una priorità. Situazione meno acuta in Germania per via del passato, però c’è stata la Nsu (il partito armato neonazista che ha assassinato per anni migranti, ndr). Ovunque ci sono tendenze molto pericolose. Perciò è importantissimo che una società sappia mostrarsi unita e forte con tanti diversi volti, nomi e origini. Il nuovo governo aumenterà di molto gli aiuti alle organizzazioni antirazziste, anche questo è un segnale chiaro».

il Fatto 16.12.13
La Repubblica ferita di Rosetta Loy
di Furio Colombo


È accaduto uno strano evento. Rosetta Loy, scrittrice italiana di libri amati e indimenticati in ciascuno dei quali un fatto vero diventa esperienza e tormento personale, scrive un rapporto generale sulla Repubblica, dal 1969, anno della strage alla Banca dell’Agricoltura di Milano, al 1994, fondazione e presentazione al mondo di “Forza Italia”, (Gli anni fra cane e lupo. Il racconto dell’Italia ferita a morte, Chiarelettere).
Nella sequenza nessun anno è saltato. Anno per anno, mese per mese, a volte giorno per giorno, è un grande libro di fatti realmente accaduti: stragi, delitti, suicidi, scomparse, uccisioni esemplari, attentati, aerei esplosi in volo, lupara bianca, colpi di stato sviati per caso.
Sembra una impresa diligente e ovvia. Invece è una sorpresa clamorosa. Rosetta Loy, mite signora della letteratura italiana, dimostra, con un solo libro che l’Italia, a partire da subito dopo il mitico 1968, è una lunga striscia di sangue che non si interrompe mai, come non si interrompono la politica che trasporta per decenni sempre gli stessi nomi, la vita sociale, che avviene, con una certa grazia ed eleganza, sempre altrove, i cavi sotterranei, intuibili e smentibili, della politica internazionale.
In queste pagine c’è la narrazione ma anche la spiegazione di tutto. La narrazione è priva di ornamenti letterari. È semplicemente il fatto, nella sua grandiosa ovvietà e assurdità.
La spiegazione è nella completa mancanza di commenti. I fatti (i delitti, con sangue e senza sangue) si susseguono senza commenti o esclamazioni di desolazione o di condanna ).
In questo modo il libro a lapide (la data e il luogo dell’evento, il nome delle vittime, nient’altro) acquista un senso e un peso paurosi: è la Storia della Repubblica.
LA STRUTTURA SEMPLICE di questo volume rende possibile vedere, forse per la prima volta, tutto il senso e tutto il peso della tragedia italiana. Non ci sono alibi, non ci sono omissioni, non ci sono interpretazioni. C’è quel che è accaduto, che nessun cambio (raro) di nomi, può interrompere. Potresti chiamarlo destino. Invece è il glossario della vita pubblica e politica di un Paese che dice molto bene di se stesso, quando fa il gioco di parlare a nome delle vittime.
Ciò che Rosetta Loy ci fa sapere, senza battere ciglio, in questa anomala e importante opera letteraria, è che la vita della Repubblica continua nelle mani degli stessi protagonisti, o con lo stesso sistema. Così come la conosciamo, così come lei la racconta.

il Fatto 16.12.13
La nebulosa rende nobile l’Universo
di  Laura Berardi


Rappresenta quasi l’1% dell’aria che respiriamo, dà una particolare luce blu alle insegne luminose ed è ciò che rende i doppi vetri delle nostre finestre così isolanti per il calore. Eppure l’argon, gas nobile inodore e insapore, non era mai stato osservato nella sua forma molecolare - ovvero nella configurazione che prevede non un singolo elemento ma due o più atomi legati insieme - in nessun altro luogo dello Spazio al di fuori della Terra . Fino ad oggi, quando un team dello University College di Londra lo ha riconosciuto tra le polveri della Nebulosa del Granchio, a 6500 anni luce da qui, sfruttando gli strumenti della missione Herscher dell’Agenzia Spaziale Europea. Una osservazione senza precedenti, visto che - come spiegano gli scienziati su Science - si tratta della prima volta che si osserva nel cosmo una molecola di gas nobile, gruppo di elementi inerti chiamati così proprio perché interagiscono con difficoltà con altri atomi. La scoperta potrebbe inoltre essere una conferma della teoria sull’origine degli atomi più pesanti nell’Universo: la Nebulosa del Granchio è infatti ciò che rimane dell’esplosione di una supernova e secondo gli scienziati è stata proprio la morte di diverse supernova, ovvero l’esplosione delle stelle più massicce dell’Universo, a permettere la formazione di nuove sostanze chimiche pesanti nell’Universo primordiale, nel quale esistevano solo i gas più leggeri. Ancora oggi queste esplosioni, che per settimane fanno brillare gli astri morenti più di un'intera galassia, rifornirebbero lo Spazio interstellare degli atomi di massa maggiore. Come spesso accade, la scoperta è avvenuta in maniera del tutto casuale: gli scienziati stavano esplorando le polveri che circondano la nebulosa con strumenti capaci di registrare emissioni nell'infrarosso, quando hanno rilevato strane radiazioni provenire da esse. Tramite calcoli sulla massa degli elementi che avrebbero potuto generarne di tali hanno capito che si trattava di ioni di idruro di argon, ovvero molecole cariche elettricamente, formate da idrogeno e dal gas nobile. In particolare dall'argon-36, forma - o isotopo, come dicono i chimici - simile al normale elemento, ma più massiva. Fino ad oggi gli scienziati avevano solo teorizzato che questo isotopo derivasse proprio dalla nucleosintesi che avviene all'interno di una supernova, ed è solo con questa scoperta che oggi arriva la conferma.

il Fatto 16.12.13
Caravaggio
La Sacra famiglia è molto umana
di Tomaso Montanari


   Caravaggio, Il riposo nella fuga in Egitto, 1595-96. Roma, Galleria Doria Pamphili
   GIUSEPPE, MARIA E GESÙ COME NOI

Come per milioni di famiglie del nostro tempo, l’unico viaggio della famiglia di Gesù non fu una scelta, ma un obbligo: la fuga da un potere sanguinario, la ricerca d’asilo in un paese straniero.
Oggi Gesù e la sua famiglia non fuggirebbero in Egitto, ma a Lampedusa: e Caravaggio, oggi, li dipingerebbe su un gommone.
Già, perché a Caravaggio non interessava la mèta, ma la trama quotidiana del viaggio: una trama di fatica, di stupore e di incontri. E così sceglie di rappresentare il momento in cui cala la sera, e i viaggiatori si fermano sulla riva del Nilo. Ma è un Nilo che sa di Tevere, di paesaggio italiano: non c'è una palma, ma una meravigliosa quercia. E le piante di palude, la terra, le foglie gialle e rosse sono quelle dell'autunno in cui Caravaggio andava in giro, col suo cane (si chiamava Barbone), per la campagna romana.
Anche la storia non è ufficiale, lontana, sacra. Ma privata, vicinissima, quotidiana. Mentre il babbo Giuseppe smonta il sacco del bagaglio e il fiasco del vino chiuso con la carta, l’asinello sgrana gli occhioni mansueti di fronte ad un folletto appena piovuto dal cielo: un angelo sbarazzino, coi capelli color dell’autunno e le ali da rondine gigante. Questo strano compagno di viaggio ha un violino: e cosa c’è di meglio, per conoscersi, che far musica insieme? Ogni incontro – sembra dirci Caravaggio – ci completa. Senza la musica dell’angelo Giuseppe veglierebbe solo e triste: chissà quanti pensieri, quante domande, quanta angoscia.
Ma se quel povero falegname seduto sulla valigia non gli reggesse lo spartito, nemmeno l’angelo di Dio riuscirebbe a suonare. Il puro spirito non è mai stato così carne. Così necessità, così debolezza, così tenerezza.
Mentre la fantasia di Giuseppe viaggia sulle vertiginose strade della musica, Maria e Gesù sprofondano nel viaggio fantastico del sogno.
Mamma e figlio sono uniti in un corpo solo di nuovo: come quando Gesù era nella pancia della sua mamma.
Solo Donatello aveva saputo raffigurare con tanta dolcezza l'amore di Maria per il suo piccolo. Scegliendo di mostrarli in un sonno così naturale e privato, Caravaggio ci fa sentire come se fossimo lì, accanto a loro: viene da parlare a bassa voce. Per non svegliarli. E per non disturbare la ninna nanna del violino angelico. Forse Maria sogna il ritorno alla pace della sua casa di Nazaret, chissà se Gesù sogna di costruire un’umanità in cui nessun viaggio ci renderà stranieri.

La Stampa 16.12.13
Paradiso in terra, dove sia qualcun lo sa
Gli antichi avevano sviluppato una raffinata cartografia sulle tracce dell’Eden. Ora uno storico le ripercorre
di Claudio Gallo

qui

Repubblica 16.12.13
Gli studiosi Usa: i geni ci influenzano fino al 48% Gli eventi valgono il 40%. Il 12% dipende da noi
Felicità Contenti si nasce così ereditiamo il nostro buonumore
di Massimo Vincenzi


NEW YORK C’è chi ha inventato un’equazione matematica, chi ha scritto una vita di romanzi, chi ha riempito volumi di filosofia: l’inseguimento del segreto della felicità è uno dei tormentoni dell’umanità. Sotto Natale con i film di Frank Capra che scorrono alla televisione l’interrogativo riemerge puntualmente e ilNew York Times gli dedica la copertina del suo inserto domenicale. La novità è che la formula perfetta per sentirsi bene esiste e dopo oltre quarant’anni di studi serrati gli studiosi sono sicuri di averla scoperta: è la somma del nostro Dna, degli eventi della vita e dei valori in cui crediamo, dalla miscela di questi tre fattori dipende il nostro indice di benessere.
La miniera della ricerca è il sondaggio che la University of Chicago’s General Social Survey porta avanti dal 1972. Ogni due anni, i ricercatori prendono un vasto campione di americani e gli fanno la domanda più banale: quanto siete felici? Il risultato è sorprendente: il 30 per cento degli intervistati giura di esserlo “molto”, il 50 lo è “abbastanza” esolo un 10-15 per cento si butta giù ai confini della depressione.
Un po’ di curiosità: le donne sono le più contente, anche se il divario con gli uomini si sta riducendo, le femmine di destra sono le più felici in assoluto, mentre i più tristi sono i maschi di sinistra. Ma gli scienziati rimangono colpiti dalle differenze notevoli che ci sono all’interno di gruppi campione omogenei, dunque vanno a caccia di altri fattori: decisivi gli studi su fratelli o gemelli che separati alla nascita crescono in famiglie differenti. Analizzando questi casi un team dell’università del Minnesota arriva a scoprire che la nostra felicità è scritta nel patrimonio genetico che arriva ad influenzarci sino al 48 per cento, in pratica il nostro buonumore ci viene lasciato in eredità dai genitori.
Il secondo elemento, che vale un cospicuo 40 per cento, è quelche ci accade nella vita: quando troviamo un bel lavoro o un grande amore, quando la squadra del cuore vince il campionato o facciamo un viaggio strepitoso il barometro schizza verso il bello stabile. Ma questi episodi che ci danno scariche di adrenalina positiva hanno il limite della durata: basta qualche mese e la mente si abitua, l’effetto positivo svapora e si torna alla casella di partenza.
Per completare lo schema rimane un 12 per cento, piccola cosa ma che ha il pregio di dipendere dalla nostra volontà:siamo noi che possiamo alzare il tasso di felicità. I valori fondamentali sono la fede, la famiglia,gli amici e il lavoro. I primi tre sono intuitivi e i ricercatori non spendono troppe righe a spie-garli: vivere con spiritualità, stare bene con i propri parenti ed essere circondati da persone affettuose e brillanti — va da sé — fa star bene.
Più controverso il lavoro, soprattutto di questi tempi, ma anche qui guardando la bibbia dei sondaggi si scopre che gli americani sono “molto” e “abbastanza” soddisfatti del loro impiego con percentuali che vanno dal 50 all’80 per cento. L’occupazione è sinonimo di stipendio e gli economisti scoprono che c’è un link diretto tra il denaro e la felicità: soprattutto nelle persone più povere che con l’arrivo dei soldi vedono alleggerirsi i problemi del vivere quotidiano.
Il rapporto non è più così diretto quando la classe sociale si alza e allora il lavoro e la ricchezza non sono più sinonimo di felicità. O meglio, entrano in gioco altri fattori: la passione per quello che si fa, i risultati che si ottengono, in una parola il successo professionale raggiunto. Gli americani che dicono di aver raggiunto grandi traguardi nel proprio impiego sono due volte più felici degli altri.
Resta il rammarico che la quota su cui noi possiamo intervenire è veramente ridotta, ma come spesso accade nella scienza ecco pronta un’altra ricerca che alza al 40 per cento il margine di intervento umano. L’Huffington Post pubblica un piccolo manuale su come vivere sereni e soddisfatti, il decalogo, tra esempi più o meno banali, si può riassumere in una formula che forse non è matematica ma è parecchio consolatoria: per essere felici basta volerlo. Semplice come lo sono spesso le cosebelle della vita.

Repubblica 16.12.13
Pubblicata in volume l’introduzione dello scrittore britannico alla celebre “Inchiesta” del sociologo e attivista
Danilo Dolci. Ilsanto di Palermodi Palermo
di Aldous Huxley


Senza carità, la conoscenza tende a mancare di umanità; senza conoscenza, la carità è destinata sin troppo spesso all’impotenza. In una società come la nostra — i cui enormi numeri sono subordinati a una tecnologia in continua espansione e pressoché onnipresente — a un nuovo Gandhi o a un moderno San Francesco non basta esser provvisto di compassione e serafica benevolenza. Gli occorrono una laurea in una delle discipline scientifiche e la conoscenza di una dozzina di studiosi di materie lontane dal proprio campo di specializzazione. È soltanto frequentando il mondo del cervello non meno del mondo del cuore che il santo del Ventesimo secolo può sperare in una qualche efficacia.
Danilo Dolci è uno di questi moderni francescani con tanto di laurea. Nel suo caso la laurea è in architettura e ingegneria; ma questo nucleo centrale specialistico è immerso in un’atmosfera di cultura scientifica generale. Dolci sa di cosa parlano gli specialisti di altri campi, rispetta i loro metodi ed è desideroso, bramoso addirittura, di giovarsi dei loro consigli. Ma ciò che sa e ciò che può apprendere dagli altri è sempre per lui strumento di carità: in un quadro di riferimento le cui coordinate sono un incrollabile amore del prossimo e una fiducia e un rispetto non meno incrollabili nei confronti dell’oggetto di questo amore. L’amore lo stimola ad adoperare le proprie conoscenze a beneficio dei deboli e degli sfortunati; la fiducia e il rispetto lo portano a incoraggiare costantemente deboli e sfortunati ad aver fiducia in se stessi, lo spingono ad aiutarli ad aiutarsi da sé.
Quando Danilo Dolci giunse in Sicilia proveniente dal Nord Italia, il suo era un pellegrinaggio di carattere estetico e scientifico. S’interessava dell’architettura dell’antica Grecia e aveva deciso di trascorrere un paio di settimane a Segesta, per studiarne le rovine. Ma lo studioso dei templi dorici era anche (e soprattutto) uomo dicoscienza e di amorevole bontà. Venuto in Sicilia attratto dalla passata bellezza di questa terra, rimase in Sicilia a motivo del suo presente degrado. Quella che Keats chiamò «l’enorme infelicità del mondo», in Sicilia è più gigantesca della media: in particolar modo nella parte occidentale dell’isola. Per Dolci il primo sguardo sulla gigantesca infelicità della Sicilia occidentale agì da imperativo categorico. Bisognava fare qualcosa, punto e basta. Si stabilì pertanto a circa venti miglia da Palermo, in uno slum rurale chiamato Trappeto; sposò una sua vicina di casa, vedova con cinque figli piccoli; si trasferì in una casetta priva di ognicomfort e da questa base lanciò la propria campagna contro l’infelicità che lo circondava. [...] Nella vicina Partinico e nelle campagne circostanti i problemi che si pongono all’uomo di scienza e di buona volontà sono tanti, tutti difficili da risolvere. C’è, innanzitutto, il problema della disoccupazione cronica. Per una consistente minoranza di uomini validi non c’è, molto semplicemente, proprio nulla da fare. Ma il lavoro, sostiene Dolci, non è soltanto un diritto dell’uomo: è anche un suo dovere. Per il proprio bene e per il bene degli altri, l’uomo deve lavorare. In base a questo principio, Dolci organizzò uno «sciopero a rovescio», in cui i disoccupati protestavano contro la propria condizione mettendosi al lavoro. Un bel mattino, ecco che Dolci e un gruppo di senza lavoro di Partinico si dedicano alla riparazione — di propria iniziativa e del tutto gratis — di una strada del luogo. Puntualmente ecco piombare su questi eterodossi benefattori la polizia, che effettua una serie di arresti. Non si verificarono scontri, dacché per Dolci la non violenza è tanto un principio che una linea politica ben precisa. Dolci fu processato e condannato a due mesi di prigione per occupazione di suolo pubblico. Contro lasentenza ricorsero in appello tanto l’imputato che l’accusa: a parere delle autorità locali, infatti, quella a due mesi di carcere era una condanna troppo clemente. [...] Non meno grave della disoccupazione cronica è il problema deldiffuso analfabetismo. Molti non sanno leggere affatto; e pochi, tra gli alfabetizzati, possono permettersi di acquistare un quotidiano. I trecentocinquanta fuorilegge responsabili di gran parte del banditismo per il quale la zona di Partinico è divenuta tristemente famosa, hanno trascorso complessivamente 750 anni a scuola e oltre 3.000 anni in prigione. L’analfabetismo va a braccetto con un tradizionalismo addirittura primitivo. Ad esempio, la gente di campagna mangia patate: quando può permetterselo, dacché le patate arrivano da Napoli e costano. Ma i progenitori di queste persone nulla sapevano di tuberi: e perciò a nessuno viene in mente di coltivare le patate in loco. Allo stesso modo, manca la tradizione delle carote e della lattuga, pressoché sconosciute a Partinico. Le tradizioni in materia d’«onore» sono altrettanto rigide che quelle riguardanti gli ortaggi. Qualsiasi offesa recata all’«onore» di qualcuno esige uno spargimento di sangue; e, ovviamente, lo spargimento di sangue dev’essere vendicato con un ulteriore spargimento di sangue, che a sua volta… Ai delitti d’onore e di vendetta vanno aggiunti quelli commessi per brama di denaro e di potere dagli appartenenti alla mafia, la grande organizzazione malavitosa che per secoli ha costituito una sorta di stato segreto all’interno dello stato ufficiale. [...] La soluzione di tutti questi problemi richiederà tempo, molto tempo: intanto Dolci vi ha posto mano. Si istruiscono i bambini e si persuadono i genitori a mandarlia scuola (che ci sia bisogno di persuaderli è dovuto al fatto che i ragazzini vengono pagati 400 lire la giornata, laddove gli adulti ne ricevono 1.000. Naturalmente i datori di lavoro preferiscono impiegare lavoro minorile. E, altrettanto naturalmente, i capifamiglia indigenti preferiscono le 400 lire alla totale assenza di entrate). Dalla sua base in fondo alla società, Dolci è riuscito a far leva sui propri amici e simpatizzanti più vicini al vertice della piramide sociale. [...] Partinico, tuttavia, non è l’unico né il più avvilente palcoscenico dell’infelicità siciliana. C’è anche Palermo. Palermo è una città di oltre mezzo milione di abitanti, oltre centomila dei quali vivono in condizioni che debbono essere definite di povertà asiatica. Nel cuore stesso della città, alle spalle degli eleganti edifici allineati lungo le sue arterie principali, si trovano acri e acri di slum che rivaleggiano quanto a squallore con quelli del Cairo o di Calcutta (uno dei peggiori slum si trova proprio nell’area compresa tra la Cattedrale e il Palazzo di Giustizia). Nel suo Inchiesta a PalermoDolci fornisce le statistiche di questa gigantesca miseria e testimonia, adoperando le loro stesse parole, del modo in cui gli abitanti dei bassifondi della città trascorrono le loro vite distorte, ciò che fanno, pensano e provano. Il libro è appassionante e al contempo assai deprimente: deprimente, vien quasi fatto di dire, su scala cosmica. Perché Palermo, ovviamente, è un caso tutt’altro che unico. Sparse in tutto il mondo vi sono centinaia di città, migliaia e decine di migliaia di cittadine e villaggi, le cui attuali condizioni sono altrettanto cattive, ma nelle quali il futuro appare più tetro, le prospettive di miglioramento incomparabilmente peggiori. [...] Nel frattempo Dolci fa quello che un uomo di scienza e di buona volontà può fare, con una manciata di aiutanti, per mitigare l’attuale degrado e per stabilire, in maniera sistematica e scientifica, ciò che occorrerà fare in futuro e come riuscire a farlo. [...] Che genere di industrie creare? E chi anticiperà i capitali necessari? E, una volta avviate, come faranno queste industrie (la cui mano d’opera, teniamolo a mente, sarà in larga misura priva di specializzazione e spesso di alfabetizzazione) a competere con i grandi agglomerati di forza lavoro qualificata presenti a Milano, a Torino? Sono queste le domande alle quali Dolci l’ingegnere, Dolci il sostenitore del metodo scientifico, dovrà trovare una risposta. Ce la farà? È possibile far qualcosa in un ragionevole lasso di tempo per dare lavoro ai disoccupati di Palermo, decoro agli abitanti degli slum e speranza ai loro figli? Chi vivrà vedrà.
Traduzione Alfonso Geraci © Aldous Huxley, 1959

Repubblica 16.12.13
In Italia i roghi dei libri si fanno senza fiamme
di Adriano Prosperi


Si bruciano libri a Budapest. Ricordate l’aforisma di Heine? Dove si bruciano libri si finisce col bruciare uomini. Altri tempi: oggi gli uomini si danno fuoco da soli. Sulla piazza dell’Università di Heidelberguna pietra colorata del selciato ricorda il rogo di libri del 1933 con le parole di Lessing: «Un libro una volta stampato appartiene al mondo intero per tutta la durata dei tempi: nessuno ha il diritto di distruggerlo».
Quella lezione la Germania l’ha imparata. La biblioteca di Heidelberg conta circa sei milioni di libri e dentro vi circolano liberamente ogni giorno lettori e studiosi d’ogni parte del mondo, anche non pochi italiani. Quella università si gloria di premi Nobel autentici, cioè cresciuti lì, non in altri paesi come accade da noi. In Italia intanto ai roghi di libri abbiamo sostituito sistemi meno vistosi ma più efficaci: mettere ladri alla direzione di antiche biblioteche, privatizzarle, delocalizzarle, farle morire di morte lenta, per mancanza di persoratorinale, di soldi, di spazi. Quello che fa gola è il guscio vuoto: in Italia c’è una tradizione illustre di edifici di nobilissima architettura. Siamo pur sempre il paese che ha inventato la biblioteca pubblica ai tempi del Rinascimento. Oggi la realtà è deprimente. Vediamo due casi esemplari, Pisa e Modena.
A Pisa, città universitaria per definizione, né più né meno di Heidelberg sua quasi coetanea, la grande biblioteca della Sapienza è sotto sfratto. Si dice che l’edificio sia statocolpito dal terremoto dell’Emilia Romagna, anche se resta oscuro come sia avvenuta questa deviazione selettiva del percorso del sisma. Per ora, i libri sono da un anno e mezzo prigionieri di un carcere che per una singolare astuzia della ragione si chiama la Sapienza: è il cuore dell’Università e il monumento pisano più noto nel mondo, Torre pendente a parte. Fu sede nel 1839 del primo congresso degli scienziati italiani, memorabile auspicio dell’unità d’Italia. Oggi è desiderato per altri usi. E i libri? Non li vuole nessuno. Incombe la minaccia di un deposito remoto e anonimo, fuori città, mentre autorità cittadine, professori e studenti assistono distratti al disastro.
Prendiamo l’altro caso, quello della Biblioteca Estense di Modena. Nata nel Palazzo Ducale insieme alla Galleria Estense, ha sede da 130 anni nel Palazzo dei Musei, già «Grande Albergo delle Arti»: una scelta esemplare da parte del Comune di tutela del patrimonio culturale e di apertura all’uso pubblico del sapere. Vi aleggia lo spirito di bibliotecari come Ludovico Antonio Mu- e Girolamo Tiraboschi, numi tutelari dello studio della storia e della letteratura italiana trovarono un luogo di elezione. Oggi quel luogo è sotto la minaccia di un radicale mutamento. Tutto comincia quando, il 13 novembre 2007, viene firmato un protocollo d’intesa tra il ministro dei Beni e le attività culturali Francesco Rutelli, il sindaco di Modena e la Fondazione Cassa di risparmio di Modena. In nome della «valorizzazione », si decise lo spostamento della Biblioteca nell’ex ospedale settecentesco di Sant’Agostino, diventato proprietà della Fondazione bancaria. Al Palazzo dei Musei svuotato dai libri restava il compito di «valorizzare » le collezioni d’arte. La sezione modenese dell’associazione Italia Nostra non attese la firma del protocollo per protestare e appellarsi al ministero. Ma sono passati sei anni e la minaccia è rimasta pendente, anzi si è aggravata. Vi si sono aggiunte non solo le volgarità di cui è capace il provincialismo italico, come l’idea di definire “Beaubourg modenese” il nuovo «polo culturale », ma anche ben più gravi volgarità architettoniche. Un’autorizzazione ministeriale (ministro Ornaghi) ha consentito la libera ristrutturazione del settecentesco ex Ospedale S. Agostino con l’aggiunta di due torri librarie svettanti nel panorama urbano: un attentato alla Ghirlandina, una clamorosa violazione dei principi del restauro architettonico e delle norme del piano regolatore.
Per Pisa, per Modena, ma non solo per loro si attende ora un’inversione di rotta. È tornato a sollecitarla il presidente della sezione modenese di Italia nostra, l’avvocato Giovanni Losavio, con un appello al ministro dei Beni culturali. La aspettano tutte le biblioteche pubbliche italiane. Senza libri, senza biblioteche pubbliche non c’è cultura che tenga. Un paese civile non può restare impiccato alla televisione.

Repubblica 16.12.13
Amendola, lezione di democrazia totale
Una biografia dell’intellettuale antifascista, anima dell’“Aventino”
di Lucio Villari


Non tutti coloro che nei ruggenti anni Venti del secolo scorso hanno assistito (per lo più impotenti, sorpresi, interdetti e incapaci di reagire) alla nascita di una dittatura in Italia, avevano previsto che alla fine di questa esperienza l’Italia sarebbe potuta diventare una democrazia. Proprio il concetto di democrazia restava in quel clima il meno definito e definibile. Alcuni pensavano sì alla necessità di un “Ordine Nuovo” in Italia, ma guardando alla Russia di Lenin e alle lotte di classe (ad esempio Gramsci e la sua rivista che portava questo titolo); altri immaginavano un più autentico “Risorgimento liberale” (così Piero Gobetti intitolò il giornale da lui fondato nel 1921) con lo sguardo rivolto però ai problemi irrisolti del Risorgimento “incompiuto”; altri ancora, come Croce, il direttore delCorriere della sera,Albertini, e poi Prezzolini e Papini (con le loro critiche alla inetta borghesia) e tanti intellettuali e ideologi, pensavano a un fascismo di breve durata, manovrabile, utile solo per ripristinare una sorta di Destra storica, conservatrice e liberale (di un liberalismo inquinato fino allora dalle aperture sociali di Giolitti) braccio politico di un capitalismo attivo e egemone.
«Prima o poi veda — scriveva con ingenuo cinismo Albertini a Luigi Einaudi nel settembre 1922, un mese prima della marcia su Roma — se le capita di dire in qualche modo che Mussolini in fondo adotta completamente l’idea liberale mentre dice di combattere lo Stato liberale, come se fossero due cose diverse». E l’elenco dei miopi, presbiti, cinici e dei sognatori rivoluzionari potrebbe continuare. Ma due oppositori soltanto ebbero la percezione esatta di quanto stava accadendo e sentirono che solo il progetto di una democrazia reale ispirata agli ideali sociali del socialismo o di una democrazia liberale creativa e riformatrice avrebbero alla fine dovuto fronteggiare il fascismo. Furono Giacomo Matteotti e Giovanni Amendola, lucidi interpreti di una crisi profonda e non temporanea dell’Italia liberale.
Lo furono, certo, anche il comunista Gramsci e il liberale critico Gobetti secondo i quali la fine di questa crisi e la inevitabile fine del fascismo sarebbero prima o poi avvenute, ma solo con una rivoluzione proletaria, non certamente attraverso il semplice ripristino della sovranità delle istituzioni parlamentari e con le forme delle democrazie occidentali. Ebbene, seppur con queste distinzioni, tutti e quattro gli oppositori furono accomunati dalla vendetta fascista: il primo pugnalato a morte nel 1924, Amendola e Gobetti bastonati ferocemente nel 1925 e nel 1926 e morti per le lesioni subite, Gramsci gettato in un carcere per dieci anni. È possibile pensare che forse il più pericoloso, agli occhi dei fascisti, potesse essere proprio il più pacifico e “parlamentare” e “liberale” dei quattro? Forse sì.
Il nome di Amendola è infatti quello che emerge sugli altri, specie dopo l’assassinio di Matteotti, perché egli non ebbe alcuna esitazione nel contrapporre al regime antiliberale la sperimentazione di un liberalismo democratico fondato anzitutto sull’intransigenza morale. A questo Amendola — che pure aveva aderito (ma non fu il solo a sbagliare) all’irresponsabile nazionalismo che aveva portato l’Italia in guerra nel 1915 — all’Amendola «padre fondatore della democrazia liberale antifascista» ha ora dedicato una importante ricerca Alfredo Capone. Il volume, che ha la presentazione di GiorgioNapolitano (Giovanni Amendola,Salerno Editrice), ricostruisce con ricchezza di documenti e di analisi quel tempo della storia dell’Italia contemporanea nel quale Amendola è stato «il fondatore e l’eroico testimone di un progetto di democrazia laica e antifascista che ravvisa le sue radici storiche nello Stato nazionale e liberale creato dal Risorgimento ripensato, nella sua evoluzione, sul modello e come parte delle grandi democrazie di Europa e Stati Uniti».
La ricerca di Capone è lo svolgimento di questo suo giudizio che contiene tutte le chiavi della biografia intellettuale e della maturazione politica di Amendola. Un processo di formazione, su basi filosofiche, e di ricerca di una “religione civile” e di un costante confronto culturale con il nuovo idealismo crociano. In particolare, la riflessione di Amendola su una visione “religiosa” dei fondamenti morali dell’agire politico e sul necessario dialogo con il contemporaneo pensiero filosofico fiorito in Francia, in Germania, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, si incrocerà con due momenti intensamente politici quali la guerra mondiale e l’avvento del fascismo.
È su questo retroterra che si svilupperà in Amendola un antifascismo da costruire con gli strumenti più avanzati della democrazia. Di qui, dopo la crisi Matteotti, la sua decisione di abbandonare un parlamento manipolato e violentato dai fascisti e, con la secessione del suo gruppo e di altri oppositori, di creare un nuovo parlamento dove tutti i valori essenziali fossero ripristinati. Fu l’“Aventino” che sarà alla base non solo della sua tragedia personale ma della sfortuna storiografica di Amendola, che — lo ricorda anche Giorgio Napolitano — fu alimentata da una sinistra incapace di cogliere nella intransigenza morale di Amendola il percorso politico necessario per la demolizione anche teorica dell’ideologia fascista vincente.
Fu un percorso drammatico consumato in due anni, 1924-1926, di lotta senza quartiere attraverso discorsi, manifesti, articoli sul suo giornale (censurato e spesso sequestrato) Il Mondo e di tentativi di salvezza costituzionale dell’Italia. Capone rievoca con grande impegno la verità storica dell’Amendola aventiniano, incompreso e solitario combattente, ma portatore di un modello di democrazia del quale anche oggi avvertiamo le implicazioni morali e ideali insormontabili. Almeno per quanti pensano a una società dove la salvezza è possibile solo in una democrazia “totale”.
IL LIBRO Giovanni Amendola di Alfredo Capone (Salerno pagg. 440 euro 24)