martedì 17 dicembre 2013

il Fatto 17.12.13
CGIL Bomba carta contro una sede a Torino. Camusso: “Noi bersaglio”


Il fatto che si abbiano troppe esitazioni da parte di vecchi e nuovi soggetti della politica a dire chiaramente che bisogna stare da un’altra parte rispetto alle evocazioni fasciste che ci sono dentro quel movimento credo che sia un vero problema”, questa è la posizione del segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, sui forconi. “Da come se ne parla si avrebbe la rappresentazione di questo movimento cosiddetto dei forconi come di moltitudini che si stanno muovendo, eppure dalle cronache delle città non ci sono moltitudini, ma minacce, impedimento al lavoro e slogan non di chi vuole cambiare una condizione ma di chi ha in mente un cambiamento strutturale della democrazia di questo Paese. Non lo dico – ha proseguito – perché gli episodi nei confronti della nostra organizzazione si sono moltiplicati e in qualche caso hanno fatto di noi un bersaglio di quel movimento, ma lo dico perché una stagione di crisi può avere due evoluzioni, quella della crescita, della solidarietà e della tenuta e quella dell’arretramento”. Proprio ieri mattina è stata fatta esplodere una bomba carta davanti alla Camera del lavoro di Settimo Torinese, prima cintura del capoluogo piemontese. L’attentato non ès tato rivendicato almeno per ora. Il sindaco Aldo Corgiat lancia l’allarme: “Clima pesante, s’intervenga”.

l’Unità 17.12.13
La nostra scuola ha mille facce somiglia alla ex Jugoslavia
di Mila Spicola


Spesso mi chiedono: qual è la prima cosa da fare per la scuola italiana? È possibile avere un’altra scuola? Cerco di approfondire, perché per desiderare un’«altra scuola» bisogna prima capire cosa sappia della scuola chi se ne auspica un’altraE in genere
ne sa poco. Molto poco. E quel poco è pieno di narrazioni falsate.
Di opinioni personali derivanti dai propri ricordi, dai «bollettini di guerra» elaborati ad ogni rapporto nazionale sulle Invalsi o sui test Pisa in modo sommario e poco approfondito, o dalle complesse articolazioni dei personali rapporti con «l’insegnante di mio figlio»Credo però che tutti i cittadini debbano sapere e ogni volta, mi siedo con calma e comincio a discuterne, sempre, con chiunqueIn rete, come al bar, come alla cena tra amici, come nell’azione politica, come nelle cose che scrivo.
Vorrei che si capisse che la «scuola italiana» non esiste come unicum, ma esiste come una sorta di confederazione fatta di realtà e di esperienze e di razze e di persone così diverse, frammentate e varie che forse solo la Jugoslavia di Tito potrebbe rendere l’ideaE come quella è pronta a esplodere ad ogni azione governativa poco attentaÈ una scuola che va dalle eccellenze mondiali del Nord Est alle disastrate realtà scolastiche della SiciliaE anche lì, immagino che il dirigente dell’Istituto d’arte di Monreale possa bacchettarmi e ricordarmi che la scuola da lui diretta, un istituto tecnico, smentisce la vulgata dei pessimi istituti tecnici specie al SudE così l’Istituto alberghiero di CataniaMa insieme a questi ci sono le 13 scuole che a Palermo i Vigili del fuoco hanno dichiarato inagibiliCi sono i ragazzi della classe di un altro Istituto tecnico lasciati da soli senza prof e senza vigilanza per tre ore a scannarsi perché la scuola non ha i fondi per i supplenti, ci sono quelli che non hanno potuto occupare la propria scuola perché è caduto il solito cornicione dal tettoForse questa volta con gli auspici di genitori in apprensione.
Ci sono i docenti scoraggiati e affannati che non trovano il tempo di posare manco la penna, altro che aggiornarsi, ma ci sono anche quel 20% di docenti italiani che rappresentano il gruppo più numeroso e qualificato in sede europea di sperimentazione nella didattica digitale e di condivisione metodologicaE però c’è quell’insegnante di italiano che, mi segnala la figlia di un’amica, «non ci guarda mai negli occhi» a fronte di «quella di filosofia» che ci incanta per un’oraE poi ci sono le 8 ore trascorse a scuola dagli studenti lombardi e le 4 ore scarse passate sui banchi dai bambini siciliani e tutti là a dire che «non conta la quantità ma la qualità»Sfido la Lombardia a dimezzare il tempo scuola.
Ci sono quei somari degli adulti che non sanno fare più due più due e non ci pensano che un bambino della periferia di Palermo, al di là della «qualità della didattica», fattore decisivo, lo so, ha bisogno innanzitutto di esser tolto dalla strada, di trascorrere a scuola non dico 8 ore, ma 12Per vivere sano, prima che per imparare.
Allora qual è il problema della scuola italiana? Se non la frammentazione? Se non la necessità di offrire a tutti i bambini pari opportunità di offerta formativa, anzi, offrire loro, nei casi in cui sono disgraziati per condizione e destino, magari di più? Perché a via di ripetere le frasi di Don Milani sulle fette di torta ne abbiam fatto una barzelletta mediatica mai un programma di governoE qual è il problema della scuola italiana, se non la frammentazione di formazione dei docenti e di selezione? Jugoslavi anche noi per provenienza, formazione, selezione e professione? Chi forma i docenti? Come e a che cosa? Chi seleziona i docenti? Come e a che cosa? C’è una babele formativa e selettiva e gestionaleEppure non sembra preoccupare nessunoSono tante le cose da fare per la scuola, intanto non pensare di desiderare un’altra scuola, ma pensare di fare finalmente la scuola italianaCercando di ottenere un’offerta uniforme ed equa, da Bolzano ad Agrigento, provincia tra le più povere d’Italia, e di mettere a sistema le mirabili eccellenze che noi abbiamo in ambito scolasticoPoi, possiamo metterci ad elencare i singoli ambiti di azione, docenti, gestione, organizzazione, strutture, valutazione e risorse..e magari lo faremo su questo giornale.
Ma la prima cosa è dare ai bambini e alle bambine d’Italia pari opportunità, soprattutto a quelli poveriPerché non è possibile che accada ancora oggi quello che raccontava il prete di Barbiana: che gli incapaci e immeritevoli nascano soprattutto tra i poveriLui lo vedeva, noi docenti lo vediamoOggi lo certificano i test Ocse PisaSe c’è qualcuno là fuori batta un colpo.

il Fatto 17.12.13
Spending Review
Altro che aiuti alla scuola: “Tolgono la 13ª ai precari”
Per legge mille euro in meno ai precari
di Salvatore Cannavò


Natale più amaro per i docenti a tempo
Per fare cassa il ministero dell’Economia ha stabilito che le ferie non godute non saranno più pagate. Oltre centomila insegnanti con contratti a termine beffati dai tecnici e dal governo

SCUOLA SENZA FERIE: PER LEGGE MILLE EURO IN MENO AI PRECARI
LE FESTE SI AVVICINANO, MA QUEST’ANNO GLI INSEGNANTI A TEMPO DETERMINATO NON AVRANNO RETRIBUITE LE VACANZE NON GODUTE. DI FATTO, PERDERANNO UN MESE DI STIPENDIO

È come se mi togliessero la tredicesima. In genere quei mille euro arrivano tra gennaio e marzo e aiutano non poco”. La precaria quarantenne, Claudia C., che racconta la storia delle ferie mancate ai precari della scuola è una di quelle che meglio sintetizzano le ingiustizie italiane. La scuola pubblica ci ha abituato a vicende di mala-gestione, di impoverimento progressivo, di svuotamento costante di competenze e prerogative. Ma la vicenda delle ferie non retribuite assomiglia a un furto con destrezza operato in nome della spending review, della sana gestione di bilancio e delle politiche “in nome dell’Europa”. Una storia maldestra che per reggersi ha bisogno di norme interpretative, poco resocontabili, oggetto di una miriade di ricorsi a cui i sindacati di categoria stanno per prepararsi.
L’INGIUSTIZIA si traduce nella mancata corresponsione di una cifra misera, ma rilevante per le tasche degli insegnanti precari: 1.000-1.200 euro che, fino allo scorso anno, venivano corrisposti al termine di quelle supplenze della durata di dieci mesi. Le supplenze a tempo determinato, quelle che scadono a giugno e che per essere assegnate obbligano a file interminabili negli ultimi giorni di agosto, lasciando giovani e meno giovani docenti con l’ansia sospesa di chi sa che lavorerà quest’anno, ma non sa cosa farà l’anno successivo. Prima delle manovre di spending review del governo Monti, attuate tra luglio e dicembre 2012, il personale assunto a tempo determinato, sia per supplenza breve sia per supplenze da settembre a giugno, vedeva monetizzate le ferie non fruite durante il rapporto di lavoro. Quella cifra, circa mille euro, veniva corrisposta tra gennaio e marzo successivi e veniva a costituire un risarcimento per i periodi di disoccupazione.
La spending review del 2012, invece, ha vietato la monetizzazione per tutti i dipendenti pubblici. Per i precari della scuola, però, che lavorano solo dieci mesi e nei quali, quindi, la messa in ferie darebbe il via a una serie infinita di sotto-supplenze – se si assenta il precario c’è bisogno di un altro che prende il suo posto e così via – la legge di Stabilità di dicembre è intervenuta con un provvedimento ad hoc a decorrere dal 1 settembre 2013. Nonostante l’evidente rabbia per il provvedimento, molti hanno ritenuto che per l’ultimo anno di lavoro le ferie sarebbero state pagate. Il 4 settembre, però, il ministero dell’Economia, dopo aver ricevuto da parte degli istituti scolastici la segnalazione delle ferie da retribuire per l’anno 2012-‘13, ha ritenuto necessario diramare una nota interpretativa che ha introdotto la retroattività: la monetizzazione va interrotta a partire dal 1 gennaio 2013. Tutti coloro che si stavano predisponendo a incassare quei “maledetti” mille euro hanno così scoperto che le loro aspettative sarebbero andate deluse. Secondo la nota, infatti, le ferie potranno essere monetizzate solo dopo aver conteggiato tutti i giorni di sospensione previsti dall’anno scolastico. Quindi, Natale, Pasqua e altre possibili sospensioni, compresi i primi dieci giorni di settembre in cui, generalmente, gli insegnanti sono a disposizione, ma senza aver ancora cominciato l’anno scolastico vero e proprio.
I DOCENTI PRECARI non devono così sospendere il lavoro, e quindi essere sostituiti, ma semplicemente mettersi in ferie, o essere messi in ferie, durante le pause scolastiche. Un danno, aggravato dalla beffa. Da qui, la reazione dei sindacati che, però, finora non hanno invertito la situazione. La Flc-Cgil parla di “comportamento inqualificabile” da parte del Mef “nel metodo e nel merito”. Per il sindacato di base, Usb, “la fantasia non ha limiti quando si vuole piegare il diritto ai propri comodi” e quindi “per far valere il diritto al pagamento delle ferie non godute sarà necessario portare le carte in tribunale. I ricorsi sono stati già preparati dall’Anief, come conferma al Fatto il suo presidente, Marcello Pacifico. “Noi pensiamo che la scelta del ministero dell’Economia sia in palese contrasto con la Direttiva comunitaria n. 2033/88” in base al principio, spiega Pacifico, che le ferie vanno godute ai fini ricreativi e quindi non sovrapponibili con periodi sovrapponibili al normale orario scolastico”. Il linguaggio in alcuni casi è burocratico, ma i ricorsi ci saranno senz’altro come avviene da anni nel mondo della scuola.

il Fatto 17.12.13
Il calvario infinito dell’Istruzione


TUTTI GLI ALTRI CASI Non c’è solo il caso delle ferie non godute a inquietare il mondo della scuola. È di questi giorni, infatti, il problema delle supplenze brevi per le quali il ministero non ha i fondi necessari. Sui giornali ha fatto notizia il caso della scuola Pacetti di Prato dove, avendo in cassa solo 5.000 euro, la preside ha deciso di procedere al sorteggio per pagare le supplenze. Il ministero ha detto “n o” assicurando lo sblocco dei fondi, circa 30 milioni di euro. Ma se ne parla a gennaio. L’Anief fa sapere che le supplenze brevi di novembre, dicembre e i ratei di tredicesima, saranno pagati a gennaio.
GLI ADDETTI DELLE PULIZIE I problemi non riguardano solo i docenti. Come denuncia l’Usb, infatti, sono state avviate le procedure di licenziamento per 22.000 lavoratori ex-lsu Ata e addetti alle pulizie in circa 4.000 istituti , soprattutto nel sud Italia. Si tratta di lavoratori provenienti dai lavori socialmente utili che, “dopo aver già subìto tagli di orario e stipendio e periodi di cassa in deroga, sono ora ostaggio di una situazione che li vede o licenziati o riassunti con salari dimezzati”. L’Usb chiede l’assunzione diretta come l’unica che “oltre a dare un futuro certo a migliaia di famiglie” potrebbe addirittura determinare un risparmio di “60 milioni di euro all’a n n o”.
ESERCITO DI PRECARI La Ragioneria di Stato fa sapere che nel 2012 lavoravano nella Pubblica amministrazione 3.036.000 persone con contratti a tempo indeterminato e 307.000 persone con contratti di lavoro flessibili. Quasi la metà di coloro che avevano un rapporto precario era impegnato nella scuola (140.557).

il Fatto 17.12.13
La casta governante è sempre inesorabile con i deboli
Non è più tempo di risate
di Marco Politi


Vile con i potenti, la casta governante è sempre inesorabile con i deboli. E più deboli sono – i precari, i malati, i pensionati – e più vengono pestati.
Ora tocca ai precari della scuola. Gli tagliano la monetizzazione delle ferie non usufruite. A Natale non avranno quel migliaio di euro che serviva per ripagare la loro perenne instabilità e l’impossibilità sistemica di godere di ferie e tredicesime alla stregua di chi è di ruolo.
È la spending review, bellezza! Ma non avevamo sentito poche ore fa i voli retorici di Matteo Renzi? “La parola scuola e la parola cultura non sono dei costi, sono degli investimenti “. Camomilla frizzante. In Toscana troverebbero espressioni anche più colorite. Alla vigilia delle primarie Matteo-sotto-la-lingua-niente era stato ancora più tosto: “Tutti hanno provato a riformare la scuola, nessuno l’ha mai fatto ascoltando chi nella scuola ci vive ogni giorno. Lo faremo noi”.
Gli umoristi hanno il dono di riassumere ciò che il popolo, trattato da bue, intuisce al volo. Sul Corriere della Sera Giannelli ha già ritratto il nuovo segretario Pd da Babbo Natale imbonitore.
Purtroppo non è più tempo di risate. Gli italiani, che stanno ai remi, stanno cercando da tempo di avvertire la casta ignorante che non è possibile pestare ancora di più chi lavora e sta in basso e paga le tasse. C’è chi ha ingrossato il serbatoio dell’astensione, chi ha creduto (invano) in Grillo, chi si butta in manifestazioni, chi si accoda ingenuamente agli impresentabili Forconi... Tanti segnali per avvertire i sedicenti timonieri che bisogna cambiare sul serio. A partire dal riscatto di chi è sfruttato dal precariato pubblico e privato.
Ma lassù sono sordi. E più sordo di tutti sembra l’“innovatore” Matteo. Intanto mettiamo agli atti che i furbetti del vecchio condono non hanno pagato, chi fa affari con le spiagge riceve incredibili favori fiscali, i padroni delle slot machine se ne infischiano di pagare il dovuto allo Stato. Mentre il segretario uptodate del Pd spiega che la Web Tax sui guadagni miliardari delle compagnie digitali è tanto, ma tanto retrograda. Qualcuno lo avverta che non siamo a Downton Abbey.

il Fatto 17.12.13
Studenti contro i tagli, la polizia carica
Cori anti-forconi
di Luigi Franco

MILANO, CORTEO AL PIRELLONE: I RAGAZZI LANCIANO VERNICE, GLI AGENTI USANO I MANGANELLI

Manganellate contro gavettoni pieni di vernice. A Milano la protesta degli studenti arriva fino al Pirellone, la sede della Regione. Forze dell’ordine e manifestanti si fronteggiano fuori dal palazzo, mentre all’interno la seduta del Consiglio viene sospesa quando dalla tribuna partono le grida di ragazzi e insegnanti contro il nuovo bilancio regionale, in discussione in questi giorni. Sotto accusa i tagli ai finanziamenti per le famiglie con figli nelle scuole statali.
DOPO GLI SCONTRI tra polizia e studenti dei giorni scorsi a Roma e Torino, il corteo di Milano parte da largo Cairoli intorno alle 10. La fontana davanti al Castello Sforzesco si colora subito di rosso sangue: alcuni manifestanti versano nell’acqua vernice per protesta contro “il dissanguamento della scuola pubblica”. Gli slogan sono contro la politica della giunta Maroni, che nel bilancio previsionale per l’anno prossimo ha tagliato i fondi per il sostegno al reddito per gli studenti: da 23,5 milioni di euro ad appena 5. Tagli che vanno a colpire soprattutto chi frequenta istituti pubblici, a fronte di una riduzione limitata del buono scuola, destinato agli studenti delle private, che da 33 scende a 30 milioni. Peggio di quando a badare agli interessi degli istituti paritari c’era Roberto Formigoni, sostengono i manifestanti. La seduta al Pirellone viene interrotta dalle urla di quattro ragazzi e due insegnanti, in tribuna con regolare autorizzazione, che invitano i consiglieri a uscire dal palazzo, dove intanto è giunto il corteo, per incontrare chi protesta. I circa 500 manifestanti e le forze dell’ordine entranp in contatto in piazza Duca d’Aosta. Lanci di vernice da una parte, cariche di alleggerimento e manganellate dall’altra. Dagli studenti, anche un coro: “Nè con Maroni nè con i Forconi”. Il bilancio finale è di tre agenti lievemente feriti e qualche ragazzo contuso. Oltre agli 8 mila euro necessari, secondo il Comune, per ripulire la fontana di largo Cairoli. Dopo i tafferugli, il corteo arriva ai Bastioni di Porta Venezia, con forti disagi per il traffico. Per il Pd la disparità di trattamento tra scuola pubblica e privata “va sanata subito”. Sostegno alla protesta dal M5S e dal Patto Civico, la lista di Umberto Ambrosoli. Maroni tira dritto: “Abbiamo dato soldi sia alla scuola pubblica sia alla scuola privata”. Via twitter, il ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza: “Basta con la violenza, protesta sì ma non violenta”.

Repubblica 17.12.13
I fascisti che vogliono impugnare i forconi
di Gad Lerner


COLPISCE la nuova estetica fascista sfoggiata dalla destra italiana, tornata protagonista visibile nelle piazze del malcontento.
Casapound, che dell’eterno fascismo nostrano è la versione più contemporanea,
à la page, ha rivestito come manichini anonimi e minacciosi i suoi militanti romani: giacche a vento scure col cappuccio sollevato, il volto coperto da una maschera tricolore, al collo una fune col nodo scorsoio; così si sono fatti immortalare in marcia fino alla sede della Commissione europea, per sottrarne la bandiera azzurra dell’Unione. Potessimo scherzarci, somigliavano maledettamente all’esercito di modelli in piumino schierati ieri da Moncler davanti alla Borsa di Milano per festeggiare la trionfale quotazione. Solo che i fascisti romani sul sito di Casapound diffondono messaggi come questo di Andrea Marin: «Bruciamo gli stracci blu esposti negli uffici pubblici in Italia e sostituiamoli col tricolore». Trasmettono la voce di Mussolini mixata a un rock metallico che inneggia alla «guerra civile», al sole di Spagna che «brilla sulle nostre camicie nere». E solo un paio di settimane fa hanno ricevuto con tutti gli onori una delegazione dei neonazisti greci di Alba Dorata nella loro sede.
Spiace che costoro possano ergersi a vittime per via dell’inutile arresto del loro vicepresidente Simone Di Stefano (già condannato per il furto della bandiera). Ora diffondono la sua foto in maschera e col cappio sormontata dallo slogan: «Amare la nazione non è reato». Questa estrema destra che a Milano è riuscita a riprendersi piazzale Loreto, con gli striscioni senza il simbolo di Forza Nuova ma dagli inequivocabili caratteri celtici già familiari nelle curve degli stadi, ha meticolosamente preparato il suo ritorno in campo. Adopera la maschera di una finta apoliticità per farsi accettare dai Forconi, che ora si dividono sull’opportunità di usufruire della sua forza organizzata. Ma intanto occupa uno spazio nella protesta di piazza che le era precluso dai tempi del “boia chi molla”, la rivolta di Reggio Calabria del 1970.
Gli avvoltoi che volteggiano intorno ai protagonisti della sofferenza sociale sono numerosi. Confidano che la storia si ripeta, e dunque che dal caos possa emergere un nuovo uomo forte? “Pronta la marcia su Roma”, era il titolone evocativo sulla prima pagina de Il Giornale di ieri. Demenziale ma significativo. Forza Italia dichiara di sentirsi al fianco del popolo dei Forconi, e pazienza se ha governato fino a ieri: si fa in fretta a gridare “tutti a casa” confondendosi nella folla dei diseredati. Chi volete che se ne accorga?
Pure altri ex ministri come La Russa e la Meloni gongolano sperando che Fratelli d’Italia possa trarre vantaggio elettorale, magari con l’aggiunta del simbolo di An, dal fatto che l’inno di Mameli è l’unico cantato nei blocchi stradali, così come la bandiera tricolore è l’unico simbolo ammesso. Ma non c’è dubbio che il network organizzativo dispiegato a partire dal 9 dicembre scorso, dopo una lunga preparazione, non è opera dei vecchi rottami governativi, bensì delle sigle più marcatamente fasciste, da Forza Nuova a Casapound. Gli stessi che l’estate scorsa minacciavano Cécile Kyenge mostrandole dei manichini insanguinati. Gli stessi che da anni introducono le croci celtiche negli stadi di calcio e che hanno reclutato nelle curve degli ultrà una nuova militanza giovanile, affascinata dall’iconografia littoria e dal linguaggio mussoliniano.
Essendo la retorica nazionalista il collante di ogni raduno — non fanno altro che ripeterti: «Noi siamo il popolo italiano» — chi si ritrova decisamente spiazzata è la Lega. Il coro «Italia vaffanculo », scandito al Lingotto di Torino dai congressisti padani che hanno eletto segretario Matteo Salvini, non sarebbe ammesso nelle piazze della protesta. D’un colpo il Carroccio si trova retrocesso nell’anacronismo.
Se l’estrema destra appare di colpo in grado di occupare il vuoto spalancato dalla crisi del berlusconismo, e di contenderlo al movimento di Grillo che si è nel frattempo parlamentarizzato, ciò si deve allo sbriciolamento di ogni rappresentanza sociale. Le associazioni del lavoro autonomo, della logistica, del commercio, dell’agricoltura sono percepite da chi si è impoverito come meri ingranaggi del potere. Sindacati e Confindustria, non ne parliamo. Così misuriamo quanto pericolosa sia la dissoluzione dei cosiddetti “corpi intermedi” della nostra società, travolti anch’essi dentro la crisi della politica. Nella voragine della solitudine esistenziale, con una sinistra incapace di rappresentare il conflitto e di fornire risposte concrete al malessere, il vuoto che si apre fa in fretta a popolarsi di fantasmi del passato. Che indossino una maschera post-moderna o imbraccino il simbolo atavico dei forconi, ci ricordano che la destra eversiva non ha mai smesso di impersonare l’autobiografia della nazione.

Repubblica 17.12.13
L’amaca
di Michele Serra


Si rassicurino i tutori dell’ordine repubblicano: nella famosa società liquida, è liquida anche la rivolta. A pochi giorni dalla nascita del movimento i capi dei Forconi (sedicenti o eterodiretti) già temono infiltrazioni, litigano, uno va a Roma l’altro per ripicca resta a Cadoneghe, uno caldeggia un golpe dei Carabinieri l’altro dice che anche i Carabinieri fanno parte della Casta, uno vuole uscire dall’Europa e un paio d’altri vogliono invaderla, uno ha votato Grillo un altro non è mai andato a votare un terzo si è soffiato il naso con la scheda. Uno gli hanno chiuso la fabbrica perché non pagava i contributi, un altro era un operaio che non gli pagavano i contributi. Uno piace alGiornale, l’altro alFatto. Uno vuole impiccare i banchieri ebrei, un altro anche i banchieri non ebrei.
Nemmeno l’ultrasinistra degli anni Settanta, divisa in una dozzina di partiti che al primo punto del programma avevano la distruzione degli altri undici, era così impreparata alla rivoluzione. Questo non muta di una virgola il malumore, la paura, la solitudine e la rabbia di qualche milione di italiani. Diciamo, però, che perfino per fare l’antipolitica un poco di politica aiuta.

l’Unità 17.12.13
Pd e unioni gay: sì pensioni e assistenza, no adozioni
Dopo il rilancio di Renzi si riapre il dibattito
Al Senato una bozza per le «unioni civili», senza distinzione di sesso: diritti economici e di assistenza
di Adriana Comaschi


Pensione di reversibilità, presente. Subentro nei contratti, presente. Diritto all’assistenza in ospedale, presenteAssente: diritto all’adozione, fosse pure quella dei figli del compagno/a. Non c’è tutto, ma c’è molto di più dello zero tondo riconosciuto oggi alle coppie gay. Quella che si candida a essere la proposta del Pd di Matteo Renzi alla maggioranza di governo sulle unioni civili per le coppie non sposate, etero ed omosessuali con un occhio attento però alla possibilità di andare a cercare altri consensi in Parlamento prevede in pratica tutte le tutele economiche oggi garantite dal matrimonio.
Eccola, la «civil partnership» inglese citata dal sindaco di Firenze nella sua campagna per le primarie tradotta in salsa italianaPerché dopo l’impegno preso all’assemblea nazionale di domenica a Milano dal neo segretario, quello di portare il nodo delle unioni civili nell’accordo di governo, ora si tratta di entrare nel merito dei riconoscimenti giuridici in giocoLe proposte di legge in campo, tra Camera e Senato, sono diverse, alcune già presentate da tempo da esponenti Pd, vedi Ivan Scalfarotto e Sergio Lo GiudiceMa è una bozza di ddl, primi firmatari i senatori Andrea Marcucci, Laura Cantini e Isabella De Monte, quella che rivendica di avvicinarsi di più al modello citato dal segretarioE chissà se dopo la sorte patita da Pacs e Dico (su cui il centrosinistra si spaccò all’epoca del secondo governo Prodi), davvero questa è volta buona, come recita una delle parole d’ordine del sindaco di Firenze, per sciogliere il nodo dei pari diritti civili per tutti.
Il testo in queste ore circola tra i parlamentari è breve, snello, da attuare con una semplice modifica del codice civileUn titolo neutro, «unioni civili», da inserire nel libro I del Codice Civile come titolo VI Bis, senza sigle che possano accendere la fantasia e le polemicheIn pratica, si parla di coppie di fatto, e si «cerca in modo del tutto asettico di disciplinare la figura giuridica dell' Unione civile senza alcuna distinzione di sesso»Etero od omosessuali, le coppie non sposate con le nuove norme potrebbero rivolgersi all’anagrafe del proprio Comune, dove troverebbero istituito un ufficio ad hoc appunto per le Unioni civili.
LE TUTELE IN DETTAGLIO
Qui indicherebbero dai anagrafici, residenza, regime patrimoniale («nel caso si ometta, si presume scelto il regime di comunione legale»), dati di eventuali figli minori dell’Unione civile, «indipendentemente dalla durata della stessa», e «i figli di ciascuna delle parti dell’Unione civile». È l’unico accenno alla genitorialità delle coppie, mentre non si tocca il tasto dolente dell’adozione, in Italia possibile solo per le coppie sposate, dunque sicuramente preclusa a quelle omosessuali mentre invece è possibile l’affido. Adozione peraltro prevista, nota subito il senatore Lo Giudice (presidente onorario Arcigay), nel modello inglese, che la Gran Bretagna ha poi affiancato con l’estensione del matrimonio alle coppie gay: «Lost in translation? Renzi ritrovi le parole dell’uguaglianza»Nell’ultima bozza democratica si parla però di estensione della «disciplina previdenziale e pensionistica, ivi compresa la pensione di reversibilità»Estesi pure tutti i diritti doveri che di solito spettano ai coniugi quanto ad assistenza «sanitaria e penitenziaria», l’esenzione dal pagamento della tassa di successione e il subentro nel contratto di affitto.
Non solo: in caso di «scioglimento» del legame di Unione civile, se uno dei due conviventi non è in grado di mantenersi da sè l’altro dovrà provvedere ad aiutarlo con un assegno, proprio come per la separazione tra persone sposate. Mentre sarebbe più semplice l’iter per dirsi addio, da comunicare all’ufficio che ha registrato l’atto e che avrebbe l’obbligo di trascrivere lo scioglimento entro tre mesi. L’idea insomma è quella di compiere un primo, fondamentale passo di riconoscimento delle tutele, in grado di aggregare i consensi di laici e liberali di diverse forze: Sel, parte di Scelta Civica, financo qualche forzista, la galassia pentastellata rimane un’incognitaL’intenzione è di depositare il ddl domani a palazzo Madama, e di avviare un confronto con i gruppi parlamentariE se già l’Arcigay boccia la novità, bollandola come una «retromarcia», la neovicepresidente del Pd Sandra Zampa avverte: «Bisognerà portare a casa il massimo che si riesce, tendendo conto del fatto che non abbiamo i numeri per farcela da soliSi deve solo scegliere se è meglio qualcosa, o nienteIo non credo sia meglio il niente».

La Stampa 17.12.13
Un tema dimenticato
Diritti civili. Renzi riapre il dossier
di Vladimiro Zagrebelsky


Da diverso tempo ormai i temi sociali su cui è lecito avere posizioni diverse, tanto più se hanno risvolti di natura etica, sono stati cancellati dall’agenda politica. Così è stato per i diritti civili; tanto più fermamente quanto meno vasti sono i gruppi che li rivendicano. La generale difficoltà delle istituzioni politiche a prender decisioni ha trovato in materia di diritti civili un espediente linguistico per giustificarsi. Si tratta – si dice di temi “divisivi”. E poiché è bello e necessario essere uniti, ecco che va messo a tacere chi insiste nel riproporli.
La complessa e costosa architettura di istituzioni politiche servirebbe dunque per “decidere” quel che, essendo ovvio oppure necessario, non richiede o non tollera discussioni. Saranno eventualmente i giudici a occuparsi dei problemi, salve le rituali successive polemiche. Dai programmi e dall’azione del governo Monti e di quello attuale Letta sono infatti scomparse le questioni che riguardano i diritti civili.
Si è creduto così di poter mettere la sordina a problemi fastidiosi. Ma i problemi sono ancora lì, ineludibili e tali anche da mettere l’Italia in cattiva luce in Europa. Non basta l’apprezzamento di Putin, che per mandar bambini russi in adozione, preferisce l’Italia al resto del mondo.
La paralisi politica ha riguardato anche e specificamente il Pd, bloccato sia dal difficile dialogo con i partiti alleati, sia dalle divergenze e dalle interdizioni interne. Va dunque apprezzato che finalmente il nuovo segretario Renzi abbia rotto il silenzio e abbia messo tra le urgenze anche alcuni temi di diritti civili. Lo ha fatto, come l’occasione permetteva, in modo generico. Ma lo ha fatto. E ha indicato le questioni della legge Bossi-Fini (trattamento dei migranti), dello ius soli (acquisizione della cittadinanza italiana), delle unioni civili (etero e omosessuali). Ve ne sono anche altre di varia natura: di ampio respiro come quella della legge sulla libertà religiosa che ancora dopo tanti anni non c’è, oppure di più ristretto impatto, come l’eliminazione delle assurde limitazioni che la legge pone ai modi di maternità medicalmente assistita. Per non tornare a dire che urge la cessazione della grave violazione dei diritti civili di tante persone, per il sovraffollamento delle carceri.
Naturalmente le difficoltà restano tutte e l’indicazione di alcuni temi da affrontare apre, non risolve, il discorso. Il recente richiamo di Renzi alla necessità di riforma della giustizia (anche penale) merita lo stesso avvertimento, affinché la genericità dell’impegno non si traduca poi in frustrazione. Occorre cioè ora unire l’intenzione di intervenire con l’elaborazione non improvvisata di soluzioni nel merito e nel metodo. Anche nel metodo perché le riforme in simili materie richiedono coinvolgimento e discussione, a partire però da premesse fondamentali. In tema di diritti e libertà civili non vale il principio di maggioranza, poiché i diritti delle minoranze e dei singoli sono intangibili. E meno la legge vincola e restringe meglio è, perché lascia spazio alla libertà, all’autodeterminazione, alla dignità delle persone.
La prima operazione da fare è di definizione delle questioni e di depurazione linguistica. L’espressione ius soli è divenuta sinonimo di migliaia di extra-comunitari che toccando terra a Lampedusa diventano cittadini italiani. Non è questo naturalmente, ma va spiegato. Si tratta semplicemente, più di quanto già non avvenga, di ammettere che lo straniero nato in Italia o arrivatovi giovanissimo acquisisca la cittadinanza se dimostra segni sufficienti d’integrazione sociale. La conoscenza della lingua italiana, la scuola frequentata in Italia sono condizioni importanti.
E quando Renzi dice che va riformata la legge Bossi-Fini, deve precisare che cosa vuole eliminare e cosa cambiare, per regolare l’irresistibile fenomeno dell’immigrazione verso l’Europa. Il discorso non si può limitare alla pur necessaria abolizione del reato di “clandestinità”, che trasforma in criminale chi è irregolarmente sul territorio.
V’è poi l’indilazionabile questione delle unioni civili. In Europa ne sono state adottate varie, diversamente regolate; recentemente Spagna e Francia hanno ammesso matrimoni omosessuali. E con la libera circolazione nell’area dell’Unione europea le frontiere nazionali non sono più impermeabili. La forma matrimoniale però non è l’unica possibile; ma se si sceglie ora di riconoscere le unioni civili, non si possono discriminare le coppie secondo l’orientamento sessuale. Le forme di famiglia si sono articolate riducendo quella matrimoniale a essere una tra tante, non più l’unica. Basta guardare oggettivamente ai numeri: quelli delle coppie che convivono ed hanno figli senza pensare a sposarsi; quelli dei bambini che nascono fuori dei matrimoni; quelli dei divorzi. E le tante coppie stabili omosessuali. L’evoluzione sociale che ha condotto all’attuale realtà, non può essere imbrigliata negli schemi che vengono dal passato. E’ frutto di un equivoco, di un abuso linguistico la pretesa che solo il matrimonio di un uomo con una donna sia “naturale” e quindi rispettoso della Costituzione, che riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Abuso linguistico, perché nulla consente di fissare per sempre una nozione di famiglia piuttosto che un’altra. Non sono solo la Corte costituzionale e la Corte europea dei diritti dell’uomo a dire che le convivenze stabili, non matrimoniali, sono formazioni sociali che vanno protette e rispettate. Nel corso dei lavori dell’Assemblea costituente, la questione che si poneva era quella di riparare la realtà sociale della famiglia da eccessive pretese di regolamentazione e interferenza da parte dello Stato. Non c’era l’intenzione di fissare una volta per sempre un modello, un tipo di famiglia. Aldo Moro disse così: “pur essendo molto caro ai democristiani il concetto di vincolo sacramentale nella famiglia, questo non impedisce di raffigurare anche una famiglia, comunque costituita, come una società che, presentando determinati caratteri di stabilità e di funzionalità umana, possa inserirsi nella vita sociale. Mettendo da parte il vincolo sacramentale, si può raffigurare la famiglia nella sua struttura come una società complessa non soltanto di interessi e di affetti, ma soprattutto dotata di una propria consistenza che trascende i vincoli che possono solo temporaneamente tenere unite due persone”. Quale duttilità e disponibilità rispetto all’evolversi delle pratiche sociali! Quale lezione per chi ora pretende di imporre le sue concezioni “non negoziabili”!
Renzi ha riproposto la questione dei diritti civili. Con apertura alla società, tolleranza e rispetto per gli altri, senza paura, è possibile trovare soluzioni.

Corriere 17.12.13
E le unioni civili dividono i democratici «Timide» per Concia e Scalfarotto
Fioroni: basta non si parli di matrimonio
di Alessandro Trocino


ROMA — I distinguo dei cattolici più intransigenti, l’integralismo dei laici più esigenti. Come sempre, quando nel Pd si parla di unioni civili, parte un dibattito terminologico e ideologico infinito (vedi Pacs, Dico e simili) e partono i veti contrapposti. La variabile, questa volta, è Matteo Renzi. Il suo (vero o presunto) decisionismo, potrebbe spazzare le resistenze. Ma i problemi non mancano. E così il disegno di legge annunciato con grande tempestività da tre senatori renziani (che prevede diritti, ma non parla di matrimonio né di adozioni), viene subito stroncato da Sergio Lo Giudice e criticato da Ivan Scalfarotto.
Il ddl di Andrea Marcucci, Laura Cantini e Isabella De Monte sarà depositato domani. Un solo articolo, che istituisce il registro delle unioni civili: chi è convivente (etero o gay), acquisisce diritti equivalenti a quelli del matrimonio. Quindi successione, reversibilità della pensione, affitto, polizze. L’unione non è un «matrimonio», per rassicurare chi vuole la famiglia fondata su uomo e donna che si uniscono per poter procreare. Altra esclusione non irrilevante: l’adozione. Spiega Marcucci: «Il nostro è un progetto di minima molto concreto, che si occupa di diritti economici e non fa dichiarazioni di principio». C’è l’imprimatur di Renzi? «No, ma prende spunto da quello che ha detto in campagna elettorale».
In cortese ma netto disaccordo Ivan Scalfarotto, anch’esso renziano: «Quel ddl unisce due ambiti molto diversi. Una cosa è parlare di chi non si vuole sposare (etero), un’altra di chi non si può sposare (gay)». Perché? Diritti più avanzati per tutti, no? «No — spiega Scalfarotto —. Gli etero che non si sposano possono non volere confondere i loro aspetti patrimoniali. Ma quando si presentano in ospedale, non devono essere trattati da sconosciuti. Insomma per etero e gay che non si vogliono sposare, servono solo diritti minimi essenziali. Per i gay, l’equiparazione ai diritti matrimoniali».
Paola Concia è perplessa sul ddl del Senato, ma non vuole fare polemiche: «Mi sembra che ci sia un po’ di confusione». Lei si è «sposata» alla tedesca, a Francoforte, con un partnerschaft : «Non è un matrimonio ma è come se lo fosse — dice —. Il funzionario ha detto la parola “sposare” e ci ha iscritti nel “libro della famiglia”, insieme alle altre coppie sposate».
Parole che scottano. E infatti Beppe Fioroni chiarisce: «Il riconoscimento dei diritti delle persone che convivono, a diverso titolo, mi pare una cosa sensata. Basta che non sia un modo per ritirare in ballo il matrimonio o le adozioni». Sergio Lo Giudice, civatiano, ex presidente di Arcigay, è duro sull’altro fronte: «Renzi aveva proposto il modello inglese delle civil partnership con step-child adoption ». Ovvero con possibilità per un partner di adottare il figlio naturale dell’altro. «Qualcosa è cambiato nella versione italiana — dice Lo Giudice —. Lost in translation?». Scalfarotto concorda: «Credo che Renzi, nella prossima segreteria, debba affidare il tema a un responsabile, per fare una proposta del partito». Responsabile che potrebbe essere Davide Faraone (Welfare) o Alessia Morani (Giustizia).
Altro punto: Renzi ha parlato di «patto di governo». E quindi il tema andrà concordato con gli altri componenti dell’esecutivo. La prima reazione del Nuovo centrodestra è di parziale chiusura. Maurizio Sacconi e Carlo Giovanardi sbattono la porta. Ma Angelino Alfano, pur con cautela, parla di «affettività» e si dice pronto a riconoscere «garanzie patrimoniali».
Il renziano Sandro Gozi è ottimista: «L’importante è fare un passo avanti, anche se piccolo. Finora siamo rimasti paralizzati ed è bello poter dire: eppur si muove». Anche Roberto Giachetti è ottimista: «Stavolta è la volta buona. È arrivato uno, Matteo, che se ne frega dei veti. E poi, non solo il 95 per cento del mio partito è favorevole alle unioni civili, ma questo è un tema trasversale. Facciamo ridere l’Europa se non lo affrontiamo. E tra poco sarà papa Francesco a suggerire al centrodestra che è ora di cambiare».

Repubblica 17.12.13
Sì al Pse, l’ultimo strappo di Matteo “Solo così peseremo in Europa”
Missione a Bruxelles a gennaio. Ma i cattolici resistono
di tommaso Ciriaco


ROMA — La missione europea è ormai pronta. Con l’anno nuovo Matteo Renzi volerà a Bruxelles per trattare l’adesione del Pd al Pse. La data della due giorni belga è ancora ballerina, ma l’idea è varcare la soglia dell’Europarlamento nell’ultima decade di gennaio. Dopo anni di feroci polemiche e infiniti tentennamenti, l’obiettivo del neo segretario è celebrare il matrimonio in occasione del congresso Pse che si aprirà a Roma il prossimo primo marzo.
Fino ad oggi, nella famiglia dei socialisti europei il Pd ha vestito i panni di semplice “osservatore”. Renzi, però, lavora da tempo per aderire a pieno titolo al partito riformista continentale. Guarda all’esperienza dei laburisti di Tony Blair, ancorati al Pse pur senza rinunciare alla massima autonomia. Né il nuovo segretario è spaventato dalle resistenze dell’ala cattolica dem: «Non ci sono alternative - va ripetendo - solo così possiamo pesare e contribuire a cambiare le politiche dell’Unione ».
Per sancire il nuovo corso, il “rottamatore” già lima l’agenda della missione Ue. Riunirà naturalmente la pattuglia dei suoi eurodeputati, ma consumerà soprattutto una serie di bilaterali con il gotha del socialismo europeo e alcune figure istituzionali dell’Unione. Fra i faccia a faccia ai quali lavora lo staff del sindaco, c’è quello con il Presidente dei socialisti europei Sergej Stanišev e con il candidato Pse alla guida della Commissione, Martin Schulz. Il segretario sarà ricevuto anche dal capogruppo socialista all’Europarlamento Hannes Swoboda. Con tutti Renzi ragionerà dello strano caso dei democratici italiani, avviando le pratiche per il grande passo.
La svolta è ormai decisa e conterà poco la formula di mediazione che i democratici riusciranno a strappare per sancire l’adesione: «Tratteremo, certo. Ma non esistono alternative, i tempi sono maturi », sostiene Renzi. Tutti lavorano all’obiettivo, non senza sfumature. Spiega ad esempio il capogruppo degli eurodeputati dem David Sassoli: «Con il Pse dobbiamo costruire qualcosa di più ampio, perché la nostra esperienza è più larga di un normale partito socialista». Tutto sta a individuare la formula. Dal 2009 il gruppo parlamentare del Pse ha cambiato nome, trasformandosi in “socialisti e democratici”. Un esempio che lascia sperare anche i più cauti: «Può essere un modello utile», giura Sassoli, forse sognando il “Partito dei socialisti e democratici europei”.
Nella nuova segreteria di Renzi tocca a Federica Mogherini tessere la tela continentale. Spetterà a lei, giovedì prossimo, avviare una serie di incontri in vista del congresso di marzo. Ed è sempre lei a spiegare che nulla osta all’adesione: «Nello Statuto del Pse c’è già scritto che sono presenti le famiglie socialiste, socialdemocratiche, laburiste e democratiche. Si può discutere sul nome, ma a mioavviso il vero artificio sarebbe non aderire». Per Gianni Pittella, comunque, l’assise di Roma rappresenta lo spartiacque: «È l’occasione giusta, non dobbiamo restare fuori dalle dinamiche politiche che potrebbero condurre un socialista alla guida della Commissione. Dobbiamo scegliere, adesso ».
Poi, certo, non mancano le resistenze. E gli incidenti di percorso. Solo pochi giorni fa l’ala cattolica degli eurodeputati pd si è astenuta su una mozione socialista sull’aborto, facendo approvare quella dei conservatori. In Italia è Beppe Fioroni a guidare la fazione ostile all’adesione: «Sono rimasto l’unico contrario... Per chi viene dalla storia di Renzi, coniugare il personalismo di Mounier e Maritain con il Pse significa dar vita a qualcosa che muore prima di nascere. Non possiamo entrare nel Pse, piuttosto fondiamo con loro una nuova famiglia».
Fra i cattolici democratici, però, si fa largo la consapevolezza che la svolta sia ormai obbligata. Dario Franceschini, anche lui in procinto di volare a Bruxelles, è disponibile a valutare il matrimonio. A patto, però, di individuare una formula adeguata. «L’importante spiega Antonello Giacomelli - è valorizzare la nostra specificità. L’area dei riformisti è più ampia dei soli socialisti. Né è possibile cavarsela facendo passare gli italiani come “quelli strani”...».

La Stampa 17.12.13
Rispunta lo ius soli temperato
Il Pd guarda al modello tedesco
Il testo: cittadinanza se un genitore risiede da almeno 5 anni
di Francesca Schianchi


ROMA Igiovani responsabili delle materie, scelti dal sindaco per la segreteria, hanno cominciato a lavorarci. «Renzi ha parlato di un mese di tempo, ci stiamo lavorando», non ha anticipazioni da offrire sul grande piano per il lavoro annunciato domenica in assemblea Marianna Madia, che insieme al responsabile economico Filippo Taddei, sta cominciando a riempirlo di contenuti. «Siamo veloci, ma lasciateci un po’ di tempo», sorride Maria Elena Boschi, al lavoro su riforme istituzionali e legge elettorale. E anche il deputato Davide Faraone, che sta ragionando su ius soli e unioni civili, ancora non fornisce dettagli.
Anche se qualche punto da cui partire, in realtà, già c’è. Per esempio sulla legge sulla cittadinanza agli immigrati: di ius soli ha parlato domenica il neosegretario, facendo l’esempio delle due bambine incontrate in una scuola, Fatima e Barbara, cresciute insieme, amiche per la pelle, ma con cittadinanza diversa; magari, ha ipotizzato lui dal palco, si potrebbe legare a un ciclo di studi l’acquisizione del passaporto italiano. Ebbene, in Commissione affari costituzionali alla Camera già esiste una proposta targata Pd, presentata a marzo: primi firmatari, l’ex segretario Bersani, il capogruppo Speranza, il ministro Kyenge e il responsabile dei nuovi italiani Chaouki. In base a questa proposta, un bimbo nato da immigrati nascerebbe italiano se almeno uno dei genitori stranieri è residente in Italia senza interruzioni da almeno cinque anni. «Potrebbe essere un punto di partenza, ma dobbiamo approfondire e portare l’argomento al tavolo della coalizione», spiega Faraone. Per quanto riguarda le unioni civili, o civil partnership, tanti sono i testi presentati in Parlamento, a cui se ne aggiunge uno, firmato per ora da tre senatori renziani e appena elaborato, che non tocca l’argomento figli. Ma non è detto che sarà quel testo il punto di partenza, anche perché una cosa vorrebbe il segretario: far viaggiare su un binario parallelo la proposta delle unioni civili, il riconoscimento di diritti su cui lui «è tra i più prudenti» ma che «va messo nel patto di coalizione» perché «noi siamo il Pd», con altre che lancino un segnale in altra direzione, proposte di aiuto e sostegno a famiglie numerose o in difficoltà.
Sul lavoro, sarà un testo corposo da mettere insieme. E se i dettagli sono ancora in via di definizione, è però certo che da tre punti si partirà. Il primo, più volte indicato dal sindaco come fondamentale, la semplificazione delle regole sul lavoro. «Abbiamo 2160 norme sul lavoro», ripete spesso Renzi, bisogna razionalizzare, lui immagina «un codice che abbia 60-70 regole». Secondo punto certo, una revisione dei centri per l’impiego e del sistema della formazione professionale, «che troppo spesso risolve più i bisogni dei formatori che di chi cerca lavoro», è un altro mantra del sindaco. Infine, terzo punto, gli ammortizzatori sociali, che oggi non sono per tutti, visto che cassa integrazione o indennità di disoccupazione dipendono dal tipo di contratto che si è avuto: «Ci vuole un sussidio per tutti quelli che perdono il lavoro», ha sottolineato domenica nel suo discorso davanti all’Assemblea del partito.
Sul tema, comunque, la prima occasione per dimostrare che il Pd di Renzi «cambia verso», sarà a gennaio, quando dall’Europa arriverà un miliardo e mezzo di fondi destinati all’occupazione giovanile. Lo sa bene il segretario, che ha già lanciato il suo avvertimento: «Non si può spacchettare quel miliardo e mezzo in mille rivoli».

Le regole per la cittadinanza
Così in Europa

Germania. Basta che un genitore sia residente da almeno 8 anni
Diventa tedesco il bambino nato da genitori extracomunitari se almeno uno dei due ha un permesso di soggiorno permanente da tre anni e vive in Germania da almeno 8 anni.
Francia. Il doppio ius soli
Si può ottenere la cittadinanza se si è nati da genitori nati a loro volta in Francia. Altrimenti, se i genitori risiedono da almeno 5 anni, si acquisisce con la maggiore età
Spagna. Lo ius sanguinis «morbido»
Diventa cittadino chi nasce da padre o madre spagnola oppure chi nasce nel Paese da genitori stranieri di cui almeno uno deve essere nato in Spagna.

La Stampa 17.12.13
La macchina statale
La politica costa 23 miliardi l’anno
Studio della Uil sugli organi centrali, periferici e sulle società partecipate: 757 euro per ogni contribuente
di Paolo Rossi

qui

il Fatto 17.12.13
“Se Grillo dice sì a Renzi per il Pd sono cavoli...”
Democratici preoccupati per la rinuncia ai rimborsi in cambio dell’appoggio su Senato e riforma del voto
Ma Beppe gli toglie le castagne dal fuoco
di Wanda Marra


“Bravo, complimenti - applaude - Ma ora se per caso Grillo accetta la proposta di Renzi e il Pd in cambio deve rinunciare alla rata elettorale sono cavoli suoi”. Così commentava Emanuele Fiano, parlando con i suoi vicini di Assemblea, l’elezione del neo tesoriere democratico, Francesco Bonifazi, fedelissimo del sindaco, ora deputato, ex capogruppo al comune di Firenze. “Matteo” ha lanciato l’hashtag #Beppefirmaqua chiedendo ai Cinque Stelle di “scendere dal tetto” e votare con i Democratici legge elettorale e abolizione del Senato. Ma per ora Grillo non ha nessuna intenzione di accettare. E così ha tolto anche le castagne dal fuoco del Pd, che si sarebbe dovuto confrontare con i fatti: 25 milioni di euro in meno l’anno prossimo per mandare avanti il partito. Sarà anche per questo, ma la “provocazione” del neo segretario è piaciuta ai Democratici, anche a quelli più insospettabili, che fino a qualche mese fa erano pronti a fare le barricate in difesa del finanziamento pubblico.
“LA BATTAGLIA l’abbiamo persa quando Bersani ha inserito l’abolizione negli otto punti: non si baratta un’idea di politica con un governo”, commenta Matteo Orfini, giovane turco entrato in direzione nella minoranza cuperliana. La “mossa” di Renzi è sdoganata. Non fosse altro perché viene valutata vincente dal punto di vita politico-propagandistico praticamente da tutti. Spiega David Ermini, renziano della primissima ora, deputato, da ieri membro della Commissione di Garanzia del Pd: “La strada presa da Matteo nei confronti di Grillo è giusta. Perché così dimostra che lui, oltre a fare battute, non è in grado di fare altro. Non ha una proposta, non è capace di governare il paese”. È abbastanza evidente a questo punto che la lotta è sul terreno del “grillismo”: “Io li ho visti quelli che sono venuti a votare per Renzi - ancora Ermini - molti erano del Pd, ma molti erano elettori dei 5 Stelle, delusi del Pdl, o gente che non ne può più. È lì che bisogna pescare”. E se alla fine si dovesse davvero arrivare alla rinuncia? “Faremo un’opera di dimagrimento”. Tagli alle consulenze, tagli al budget di Youdem, cambio di sede, al limite anche tagli all’organico. Bonifazi non dice nulla, ma mercoledì vede l’ex tesoriere Antonio Misiani. Poi si parte. Misiani non si sbilancia: lo sa bene lui che vuol dire gestire il Nazareno. Fa quasi impressione sentir parlare invece uno come Ettore Rosato, ora in direzione in quota Renzi, come uomo di Franceschini, in passato tesoriere del gruppo Pd alla Camera. Uno che i soldi pubblici li ha gestiti. “Vorrà dire che il partito si pagherà in altri modi. Per esempio, con i fondi che versano i parlamentari, 1500 euro al mese a testa”. Soldi che già versavano per la verità e che da soli non sono mai bastati. Dunque, licenziamenti ? “Se ci sono meno soldi, si spende meno. D’altra parte era una scelta che avevamo già fatto”. Persino il bersaniano Alfredo d’Attorre (anche lui entrato in direzione con Cuperlo) è pronto a dire che “la maggioranza ha deciso”. E dunque, “vorrà dire che se Grillo dovesse accettare la segreteria farà una grande campagna di fund raising”. Però, rivendica di aver fatto inserire nel decreto governativo che gradualmente taglia i rimborsi elettorali una serie di correttivi, tra cui cassa integrazione per i dipendenti dei partiti, che “sono lavoratori anche loro”.
   L’UNICA voce davvero dissonante è quella di Beppe Fioroni (che guadagna 3 posti in direzione, a fronte dei circa 15 che aveva prima): “Sono convinto che Renzi stia facendo delle forti provocazioni a Grillo”. E fin qui tutto bene. Però, “Matteo converrà con me che lui è l’altra faccia del populismo con Berlusconi. E anche se “competition is competition”, competere con i populisti non ha mai prodotto buoni risultati”. Intanto, le teste d’ariete del renzismo sono indefessamente al lavoro. Ed ecco Dario Nardella scontrarsi in diretta al Tg la 7 con la grillina Barbara Lezzi de ricordare: “Abolire il Senato vuol dire risparmiare un milione di euro. Altro che i 46 milioni delle prossima rata”. Il nuovo verso renziano per ora paga: il Pd balzerebbe al 31% guadagnando ben 1,4%, secondo il sondaggio Emg per la 7. L’M5s starebbe al 21,7% (-0,6%). Competition is competition.

il Fatto 17.12.13
Idee senza soldi
Tasse, il cuneo fisso di Renzi
di Mario Seminerio


Ora che Matteo Renzi ha preso il controllo del Partito democratico, può essere utile dare un'occhiata a quelle che nell'ultimo anno sono state le sue principali ricette di politica economica. A ottobre dello scorso anno Renzi lanciò il tema del sostegno ai consumi con cento euro al mese in più per lavoratori dipendenti e pensionati, da realizzare agendo sulle detrazioni di imposta. Renzi presentò la misura come “riduzione del cuneo fiscale”.
LE PERPLESSITÀ nascevano dalla copertura di un provvedimento che si stimava potesse costare sino a 20 miliardi di euro. La risposta del sindaco di Firenze fu che i fondi si trovavano tagliando del 15 per cento “la spesa intermediata dalle pubbliche amministrazioni”. Espressione criptica, forse si riferiva consumi intermedi della Pubblica amministrazione. Ancora più problematica risultava la seconda fonte di copertura: “Intervento su una parte dei contributi alle imprese, secondo il modello Giavazzi”. Ma il “modello Giavazzi” suggeriva una compensazione ove, a tagli dei contributi alle imprese, corrispondessero tagli delle imposte pagate dalle imprese medesime. Tagliare i sussidi alle imprese per ridurre le imposte ai lavoratori non appariva idea brillante. Come è finita (male), per il rapporto Giavazzi, è noto. Passa quasi un anno, ma l'idea dei 100 euro al mese non lascia Renzi. Che la affida al senatore Yoram Gutgeld, considerato nelle scorse settimane suo principale consigliere economico. Gutgeld identifica l'eccesso di pressione fiscale a danno dei lavoratori dipendenti che hanno un netto in busta intorno ai 1.200-1.500 euro mensili, e quantifica l'esborso in 15-20 miliardi di euro. La copertura: un'azione in due tempi, dismissioni patrimoniali pubbliche come soluzione-ponte, in attesa che la ripresa fornisse le risorse su base strutturale. Nel primo anno cessione di “Eni, Enel, Poste e Ferrovie da un lato, dall’altro la parte più vendibile del patrimonio immobiliare pubblico, ossia le case popolari, con prezzi di favore nei confronti degli inquilini”. Piano velleitario: in una situazione di crisi come l'attuale, con privatizzazioni e dismissioni ferme, ecco l'ideona di vendere i pesi massimi delle aziende statali, oltre all'immancabile cessione delle case popolari agli inquilini, che ci accompagna da lustri, e che è pure stata effettuata in ambito locale, ma su tempi lunghi. Qui, invece, si parlava di cessioni da effettuare in un anno. Dal secondo anno la copertura sarebbe venuta, sosteneva Gutgeld, dalla mitologica “lotta all'evasione fiscale”, ad esempio reintroducendo l'elenco clienti-fornitori, e dagli abituali “tagli di spesa”. Tra questi ultimi, Gutgeld riteneva dovesse esservi il blocco delle indicizzazioni delle pensioni erogate con sistema retributivo comprese tra tre e sette volte il minimo. Tre volte il minimo rappresenta una miseria (circa 1.500 euro mensili lordi), ma la cosa curiosa di questa proposta era l'azione di “punta-tacco” nei confronti dei pensionati nella fascia di reddito a cui Renzi voleva erogare i famosi cento euro in più al mese, e che li avrebbero progressivamente persi con il blocco della indicizzazione.
GUTGELD È FINITO presto nell'ombra, ora è il turno di Filippo Taddei, “giovane” (37 anni) economista della Johns Hopkins University di Bologna, divenuto responsabile economico della segreteria del Pd. Taddei ha esordito i ribadendo l'importanza di tagliare il cuneo fiscale. Tra le coperture, nelle parole dall'economista, vi sarebbe “reintrodurre l’Imu sulla prima casa, che è un’imposta patrimoniale, e usare quelle risorse per abbassare le tasse sul lavoro”. Ma l'Imu sulla prima casa di fatto non è mai scomparsa, e nel 2014, si chiamerà Iuc. Quindi che fare, raddoppiare un tributo patrimoniale sugli immobili per ridurre il cuneo fiscale? Taddei poi si dice convinto di recuperare un punto percentuale di Pil (cioè 16 miliardi di euro) agendo sui costi di “organi legislativi, governo e diplomazia”, per riallineamento alle leggendarie “medie europee”. A parte l'enorme alea di una simile proposta, Taddei non è ancora riuscito a decidere su quale lato del cuneo fiscale agire. Parlare di “riduzione dell'Irpef” con le risorse liberate non ha molto senso, visto che il problema lo hanno le imprese in termini di costo del lavoro.
La Renzinomics da oltre un anno gira intorno al punto, ma resta molto evanescente sulle azioni da intraprendere. Oggi che Renzi ha le mani sul timone, il tempo delle trovate alla Archimede Pitagorico appare scaduto. E l'unica cosa che ci viene in mente, al momento, è “fai presto, Matteo. Se ne sei capace”.

il Fatto 17.12.13
Gli evasori fiscali si paghino la sanità
Perché non si pensa di escludere dall’assistenza pubblica chi esporta capitali accumulati evadendo?
di Maurizio Chierici


LA LETTERA di un medico racconta l’angoscia dei pazienti in attesa di visite urgenti che arrivano mesi e mesi dopo. A volte troppo tardi. Responsabilità che si perdono in labirinti senza uscita: piccoli politici che allungano le mani, burocrazie asmatiche, casse vuote. E attorno l’Italia che invecchia, ragazzi senza lavoro, ospedali da chiudere. L’articolo 32 della Costituzione garantisce sempre meno l’uguaglianza dei cittadini nel servizio sanitario. E le amicizie delle cliniche private che prosperano con le convenzioni pubbliche, svuotano le casse di chi dovrebbe proteggere la salute di tutti. Ma il paese è tanti paesi. Il paese degli evasori fiscali va a gonfie vele: 202 miliardi di tasse non pagate nell’anno che sta per finire. Non solo in fuga verso nascondigli lontani o Svizzera prêt-à-porter, un salto da Milano. È ricominciata la febbre del mattone, non qui, fuori. Paradisi di Antigua o Canton Ticino dove tira il mercato della casa e il fisco non lo sa. Ma il rifugio ideale è Londra. I nostri soldi neri corrono lì. Stiamo umiliando gli oligarchi russi. Non importa se negli ultimi dieci mesi i prezzi sono cresciuti del 9,8 cento. La City non basta e a Kensington e a Chelsea offerte quasi esaurite: un milione di sterline (1,2 milioni di euro) per tre stanze, niente di speciale. Di speciale c’è la tranquillità dei benefit fiscali per stranieri, seduzione dell’erario inglese e poi la Borsa che è una Borsa disinvolta. Senza contare le banche che sanno cosa fare quando Roma mette il naso negli angoli più o meno segreti, curiosità “poliziesca” di un’Equitalia dal prurito “insopportabile”. Anche i piccoli imbroglioni non ne possono più malgrado i soccorsi web e la gentilezza dei giornali pro evasori. Consigliano come portare fuori i soldi, spese modeste, mille euro con tanto di garanzia e timbro della società ombra che sfugge ai 400 mila controlli dei curiosi di Stato. Conti correnti ormai senza segreti per i 1900 tecnici della Sogei, informatica Equitalia. E l’ammontare dei recuperi fa bella figura nei giornali, ma l’aver smascherato (nascondendone i nomi, delicatezza privacy) chi non ha pagato 180 miliardi nel 2012 non vuol dire incassare il maltolto. Sono tornati appena 12 miliardi. Cavilli dell’esercito di avvocati che allungano, rimandano e quando proprio alle corde travestono i colpevoli in perseguitati ai quali si deve giustizia. Per frenare l’arroganza degli infedeli si potrebbe escluderli dall’assistenza sanitaria pagata (anche per loro) da chi non arriva a fine mese. Appena sorpresi coi soldi nel sacco subito cancellati dalla protezione dell’articolo 32. Ospedali, medici, farmaci da liquidare cash. Sospensione dai diritti del malato per un tempo da misurare sulla gravità del crimine. Quasi un ergastolo sanitario quando il trafugamento supera il milione. Devono comprare ogni cerotto per un tempo rapportato non solo alla consistenza del furto anche ai motivi abietti che invogliano la truffa.
LE STATISTICHE europee celebrano il benessere dei nostri evasori. Ogni italiano disporrebbe di un patrimonio di 163 mila euro (media tra chi tanto e chi niente) tre volte più consistente dei patrimoni individuali tedeschi. Guidiamo le classifiche della frivolezza: macchinoni Suv, champagne, alta moda, insomma identikit di cicale che non hanno bisogno dell’articolo 32. Quando stanno male prendono l’aereo per volare dove dormono i soldi. Negli aggiornamenti che si annunciano alla Costituzione, sospendere l’assistenza sanitaria ai furbi è la civiltà dovuta allo strazio dei malati costretti nelle anticamere di un dolore che non finisce mai.

Corriere 17.12.13
Rottamata sull’ultima corsa l’eterna candidata Finocchiaro

Era potente e temuta. Ma non entra neanche in direzione
di Fabrizio Roncone


La senatrice Anna Finocchiaro è stata esclusa dalla nuova direzione nazionale del Pd: siamo innanzi a un’esclusione che molti osservatori giudicano emblematica.
Anna Finocchiaro era potente, rispettata e autorevole, temuta e, quindi, molto sicura di sé (sospettata, per questo, di alterigia): quando prendeva la parola, nell’emiciclo di Palazzo Madama calava, automatico, il silenzio. Qualcosa si può spiegare con il fascino di quella sua voce, risonanze baritonali con accento siciliano; il resto del suo grande carisma è stato però a lungo un miscuglio di tante altre cose.
Tra memoria e Wikipedia : il più corteggiato pm di Catania che a 32 anni diventa parlamentare; alla Camera nel 1987 con il Pci, nel 1992 e nel 1994 con il Pds (alla Bolognina fu Luciano Violante ad asciugarle le lacrime, «Ho visto arrivare per fax il simbolo del nuovo partito, e non ho retto»), poi ministro per le Pari opportunità nel Prodi I, quindi eletta al Senato nel 2006 con l’Ulivo e rieletta, mantenendo l’incarico di capogruppo, nel 2008 con il Pd.
Aggiungete: nell’aprile 2006 dovrebbe diventare ministro dell’Interno, sembra fatta, ma alla fine la spunta Giuliano Amato. Passa un mese e il suo nome inizia a circolare per il Quirinale (Prodi aveva detto: «Ci vorrebbe un segno di novità. Magari una donna»). Però al Quirinale sale Giorgio Napolitano (lei, stizzita: «Un uomo con il mio curriculum sarebbe già stato nominato Presidente della Repubblica da tempo»). Un anno dopo è candidata a guidare il nuovo Pd. A Firenze, all’ultimo congresso dei Ds, si esibisce in un discorso magnifico, interrotto da ventuno applausi. Ma il Pd lo fonda Walter Veltroni.
Insomma, anche qualche credito con la fortuna.
E poi?
Poi non è più stata una questione di fortuna. Poi, quando lei compie 58 anni, arriva Matteo Renzi.
È il 15 aprile del 2013. Partita per le elezioni del nuovo Capo dello Stato. Renzi spinge per Prodi e attacca la Finocchiaro, che è tornata a essere in corsa per il Quirinale.
Renzi: «Mi spiace, ma non può diventare Presidente chi ha usato la sua scorta come carrello umano per fare la spesa da Ikea».
Finocchiaro: «Sai cosa sei? Sei un miserabile!».
La storia dell’Ikea risale a un anno prima, aprile 2012. Il settimanale Chi pubblica una foto che ritrae la Finocchiaro all’uscita dal grande magazzino: i tre uomini della sua scorta spingono il carrello, con dentro padelle antiaderenti. Lei prova a difendersi: «Avere la scorta non è un piacere. Nonostante ciò, cerco di fare una vita normale». La spiegazione non convince il web, su Twitter creano l’hashtag #finocchiarovergogna, il partito è in imbarazzo, Renzi si appunta l’incidente e lo ritira fuori all’improvviso, come sa fare lui, un anno dopo: freddo, lucido, tagliente.
I rapporti con Renzi, già quasi inesistenti, diventano polvere (al sindaco di Firenze era in verità parso pure terribile anche un altro incidente: quando la Finocchiaro — gennaio 2013 — ospite di «Porta a porta», aveva replicato a Mariastella Gelmini, urlando: «Siamo deputate, non bidelle!». E Crozza, velenoso, pochi giorni dopo a «Ballarò»: «Come si fa a paragonarle? Le bidelle lavorano!»).
La Finocchiaro finisce così nell’elenco renziano di coloro che devono essere «rottamati» (nella lista c’è anche, come si sa, Massimo D’Alema, al quale è legata da profonda amicizia). Il cammino politico diventa faticoso, ormai le richieste di interviste arrivano di rado, il settimanale L’Espresso pubblica un servizio in cui racconta che la senatrice non ha perso l’abitudine di farsi aiutare dagli agenti della scorta: stavolta li hanno sorpresi al supermercato mentre le prendevano le banane.
Lei replica stizzita: «Le banane me le sono scelte da sola!». Ma tace sulle vicende giudiziarie siciliane che coinvolgono il marito, il ginecologo Melchiorre Fidelbo, e su alcune telefonate intercettate mentre parla con Maria Rita Lorenzetti, l’ex presidente della regione Umbria, che la Procura di Firenze metterà poi agli arresti domiciliari (inchiesta relativa ai lavori del Tav in Toscana).
Destino segnato.
Renzi ha deciso: prima le sposta la partita della nuova legge elettorale dal Senato — dove lei è presidente della Commissione Affari costituzionali — alla Camera; quindi la esclude dalla direzione nazionale.
Interpellato su questo tramonto politico così struggente, Maurizio Migliavacca, suo caro amico, ha detto: «Di Anna preferisco non parlare». Due senatori, addirittura, sono rimasti muti .

il Fatto 17.12.13
Napolitano: “Non si vota, bisogna prima fare le riforme valuterò se posso restare al mio posto”
Re Giorgio avverte Renzi: “Come dico io o me ne vado
di Fabrizio d’Esposito


NAPOLITANO MINACCIA: O SI FA COME DICO IO O LASCIO IL QUIRINALE
TUTTI AL COLLE PER LA CERIMONIA DEGLI AUGURI NATALIZI IL PRESIDENTE DÀ L’AUT AUT AL NEMICO DELLE LARGHE INTESE RENZI NON PARTECIPA AL BRINDISI E SE NE VA SENZA SALUTARE

Matteo Renzi è una macchia grigia a metà del salone delle feste, al Quirinale. Ha le gambe accavallate, il capo chino sul telefonino. Sembra un marziano tra i mandarini del Napolitanistan. E lo è anche nell’abito. Un completo grigio chiaro che contravviene alla regola dell’abito scuro. Giorgio Napolitano viene annunciato alle diciassette in punto. “Entra il presidente della Repubblica”. Tutti in piedi. Anche Renzi. È l’unico, chiaro segno di riverenza che il nuovo segretario del Pd fa al sovrano del Sistema. Il resto è solo gelo. Non solo quello che cala su Roma in un terso lunedì di metà dicembre. È la “prima” di Renzi leader democratico alla “cerimonia per lo scambio degli auguri con i rappresentanti delle istituzioni, delle forze politiche e della società civile”. Il sindaco di Firenze arriva a piedi in un mare di auto blu. È la sindrome da marziano, appunto. Arriva con il ministro Del-rio. Entra con lui, stringe le mani ai corazzieri. Poi sale su. L’attesa è tutta per il discorso del re. L’anno scorso, il 17 dicembre, Napolitano chiuse il suo intervento spiegando perché costituzionalmente non è un bene farsi riconfermare al Colle e manifestando la sua delusione per la salita in politica dell’allora premier Mario Monti.
STAVOLTA il bersaglio è Renzi. Liquidato Berlusconi e il berlusconismo con la scissione di Alfano, il sindaco di Firenze rappresenta un grave rischio per il governo Letta e per la concezione delle larghe intese alias inciucio alias consociativismo. Ed è per questo che Napolitano concentra la sua minaccia nelle ultime sette righe del discorso di dieci pagine, quando ritorna sulla rielezione dell’aprile scorso. Alla fine, il redivivo Casini commenta con i suoi: “Basta leggere solo quelle”. Leggiamole dunque: “Nel ringraziare poi il Parlamento e i rappresentanti delle Regioni per la fiducia largamente accordatami, ebbi modo di indicare inequivocabilmente i limiti entro cui potevo impegnarmi a svolgere ancora il mandato di presidente. Anche di quei limiti credo che abbiate memoria; ed io doverosamente non mancherò di rendere nota ogni mia ulteriore valutazione della sostenibilità, in termini istituzionali e personali, dell’alto e gravoso incarico affidatomi”. La traduzione è semplice: se qualcuno (Renzi) pensa di fare la legge elettorale con Grillo e Berlusconi e di andare alle elezioni nel 2014 io mi dimetto. Punto. Il messaggio al nuovo segretario del Pd è questo. Tutti i segretari di quel partito si sono sempre inchinati al Colle (Bersani lo ha fatto con mal di pancia notevoli, ma lo ha fatto) e adesso tocca a Renzi adeguarsi. Qui è Rodi e qui bisogna saltare. Soprattutto se le cronache dei giornali riportano che domenica a Milano, il sindaco non ha mai citato il presidente. Favore ricambiato ieri. Ampiamente. Napolitano nomina Letta, Berlusconi, persino Quagliariello. Renzi, invece, è relegato insieme con Alfano sotto la voce “nuove leadership”. Un po’ poco per il leader del partito che sostiene il peso maggiore di questo esecutivo.
IL COLLE si fa scudo delle “scosse sociali” (leggi forconi) per sentenziare che servono “risposte” non “le elezioni anticipate”. Il solco che Napolitano traccia a Letta Nipote (nel salone c’è anche Letta Zio che poi va via con Mauro Masi, ex dg Rai) è il “patto programmatico di coalizione per il 2014”. Prima del 2015, il voto è inutile anche perché Napolitano è profeta e veggente e conosce il risultato: “L’Europa ci guarda ed è diffusa, credo, tra gli italiani la domanda di risposte ai loro scottanti problemi piuttosto che l’aspettativa di nuove elezioni anticipate dall’esito più che dubbio”. Il Vangelo secondo Giorgio, non Matteo, sono le riforme e la stabilità. Ossia la parte del discorso che fa cadere le palpebre a più di un ospite. Sono in tanti che si assopiscono. Renzi resta sveglio. Sulla legge elettorale, il Colle non deflette dalla nuova maggioranza. Lui e il premier sentono il peso della scissione di Alfano: “Si dialoghi e si cerchino intese innanzitutto nella maggioranza di governo ma, nella massima misura possibile, anche con tutte le forze di opposizione”. Il Colle analizza, vaticina, raccomanda , indica, valuta, impartisce. Fa risalire il suo interventismo addirittura allo Scrittoio del Presidente di Luigi Einaudi. Mah.
Il Quirinale non dimentica di bastonare Berlusconi sulla decadenza, “non autorizza a evocare immaginari colpi di Stato e oscuri disegni”, ma poi invita Forza Italia a votare le riforme, ricordando la figuraccia sulle deroghe all’articolo 138 della Carta per cambiare la Costituzione. Tra gli invitati ci sono vari azzurri. Dopo faranno sapere di non essersene andati solo per “rispetto”. La furia berlusconiana, altrove, si riassume così: “È la prova che hanno voluto farmi fuori e continuano a tenermi nell’angolo”. Napolitano finisce e c’è il tradizionale rinfresco. Il Potere in processione per fare gli auguri al presidente. L’ospite più fotografato però va via senza brindare e salutare. Renzi ritira il cappotto al guardaroba e incrocia Alfano. Una battuta delle sue: “So che lei parla solo con Letta”. Poi le scale, in discesa. Politicamente è il contrario. Salita dura e pura, dopo il diktat del Quirinale. Basterà una telefonata a scongelare i due?

Corriere 17.12.13
Puntare tutto su una persona
di Ernesto Galli della Loggia


La crisi economica sta spingendo la politica italiana in una direzione molto precisa: verso un’oggettiva accelerazione del processo di personalizzazione. Soprattutto per due ragioni: perché fino ad ora tale processo — checché se ne sia detto a proposito del berlusconismo — non era ancora andato molto innanzi, ma soprattutto perché da noi più che altrove (eccezion fatta per la Grecia) la crisi economica sta prendendo il carattere di un’aspra crisi sociale. Cioè di una radicale messa in discussione dello status di milioni di persone: percepita in modo tanto più doloroso quanto più elevato era il livello precedente di garanzie e di benefici.
In una situazione del genere è naturale che si diffondano sentimenti individuali e collettivi di incertezza e di timore. Non si è più sicuri di ciò che si è e di ciò che si ha, di ciò che può riservare il futuro. Appaiono in pericolo i progetti di vita e i mezzi necessari a realizzarli (la piccola rendita finanziaria, il mutuo per la casa, l’avere un figlio, la pensione). Domina una sensazione angosciosa d’instabilità.
Sono queste le condizioni psicologiche ideali perché cresca la domanda di una guida, di un orientamento autorevole, di qualcuno che indichi la via per uscire dal tunnel. Non inganni il mare di discorsi sulla presunta ondata di antipolitica. È vero l’opposto: nei momenti di crisi come quello che attraversiamo cresce sì, e diviene fortissima, la critica alla politica, ma a quella passata (che le oligarchie intellettuali vicine al potere scambiano appunto per antipolitica tout court ), mentre invece diviene ancora più forte la richiesta di una politica nuova e diversa. Sotto la forma, per l’appunto, di una leadership all’altezza della situazione. Di qualcuno che sappia indicare soluzioni concrete ma soprattutto sia capace di suscitare un’ispirazione nuova, di infondere speranza e coraggio, di alimentare — non spaventiamoci della parola — anche una tensione morale più alta: quella che serve a restituirci l’immagine positiva di noi stessi che la crisi spesso distrugge.
La leadership in questione però — ecco il punto — può essere incarnata solo da una persona, da un individuo, non da una maggioranza parlamentare o da un’anonima organizzazione di partito: due dimensioni che in Italia si segnalano da decenni solo per la loro irrisolutezza e la loro sconfortante modestia. La personalità, invece, è sempre stata, e sempre sarà, pur nella sua inevitabile ambiguità, la risorsa ultima e maggiore della politica: proprio perché nei momenti critici, delle decisioni ultimative, è unicamente una persona, sono le sue parole e i suoi gesti, il suo volto, che hanno il potere di dare sicurezza, slancio e speranza. Nei momenti in cui molto o tutto dipende da una scelta allora solo la persona conta.
L’opinione pubblica italiana si trova oggi precisamente in questa situazione psicologica: è alla ricerca di qualcuno a cui affidare la guida del Paese, di qualcuno che mostri la volontà di assumersi questo compito, di avere la capacità e il senso del comando, l’autorevolezza necessaria. È una ricerca, un’attesa, così acute, nate da un sentimento di frustrazione e di esasperazione ormai così vasto e profondo, da rendere quasi secondarie le tradizionali differenze tra destra e sinistra, essendo chiaro che a questo punto ne va della salvezza del Paese, cioè di tutti. Dietro l’ascesa di Matteo Renzi, e a spiegare l’atmosfera elettrica che sembra accompagnarlo ovunque, c’è un tale sentimento. Così forte tuttavia — e questo è il massimo pericolo che egli corre — che alla più piccola smentita da parte dei fatti esso rischia tramutarsi in un attimo nella più grande delusione e nel più totale rigetto.

il Fatto 17.12.13
Direttore Scalfari perché l’hai fatto?
Barbara Spinelli ha ragione. Esistono forse bersagli leciti e bersagli illeciti?
C’è qualcuno al di sopra di ogni giudizio, di ogni voce critica?
di Sandra Bonsanti


È un momento di grande amarezza quello in cui si è costretti a prendere parte fra persone che si è sempre rispettato e ammirato e che sono entrate in conflitto fra loro su questioni di fondo, che riguardano i principi che ci hanno sempre guidato nella vita e la storia da cui siamo nati. Lo scontro tra Eugenio Scalfari e Barbara Spinelli è qualcosa che va ben oltre la rottura di un’antica amicizia. Coinvolge in pieno il giudizio morale e politico che si dà sulle istituzioni, sulle radici del distacco fra la società e i partiti, su cosa sia stato il berlusconismo e come e se e da chi sia stato ostacolato. E su come si debba agire oggi, in questi giorni difficilissimi.
Per questo non si può tacere. Per questo dico che Barbara Spinelli ha ragione e che il mio amato direttore (...) ha torto. Sbaglia non solo nel giudizio politico ma anche in quello di fondatore del giornale su cui oggi scrive Barbara. Cosa c’è all’origine di tutto? Due sono in sostanza le contestazioni. Dice Scalfari di aver ascoltato gli appunti di un incontro tra Barbara e il presidente Napolitano “affidati alla recitazione di Travaglio”. Accusa la giornalista di essersi espressa a sostegno della possibilità di “sperimentare” il grillismo. È chiaro che il problema è uno solo: Scalfari è tra coloro che pensano che il Quirinale in questi anni sia stato senza peccato nel compito di presiedere il Paese, che anzi sia stato un baluardo contro derive di ogni genere e che lo sia tuttora. La Spinelli ha seguito invece la vicenda italiana con un distacco che spesso si è fatto voce critica nei confronti del Quirinale. Non solo per la gestione della vicenda della trattativa indagata dalla Procura di Palermo, ma anche per il modo in cui sono state contrastate in tempi diversi le reazioni alle iniziative legislative di Berlusconi. Napolitano incontra Barbara il 26 gennaio 2009 e un resoconto di quel colloquio è raccontato nel prologo di Viva il Re! di Marco Travaglio.
NON È STATO facile in questi anni criticare Napolitano: l’establishment romano ha accusato ogni critica di populismo e ha sospinto con durezza ogni criticità nel recinto dell’antipolitica. Qualcosa di simile è accaduto anche a Libertà e Giustizia. Lo testimoniano i riferimenti alla nostra associazione negli articoli di Emanuele Macaluso, gli affettuosi avvertimenti di vecchi amici. (...). Certo sarebbe facile dire che alla base di tutto c’è proprio il giudizio su Berlusconi, sulla pericolosità di non affrontarlo nettamente e duramente, sui “no” che non sono stati detti, sulle brecce aperte e lasciato che si allargassero sempre di più. Per arrivare, come si è arrivati, alla finta pacificazione nazionale impersonata dalle larghe intese. Fino ad arrivare alla sollecitazione a cambiare la Costituzione in parti fondamentali, persino a consentire che tutto avvenisse senza tener conto dell’art. 138, somma garanzia della nostra Carta.
Abbiamo anche noi di LeG avuto i nostri scontri. Abbiamo cercato di rispondere ai nostri soci, alle loro critiche e ai loro apprezzamenti, e alla nostra coscienza. Ma attaccare la giornalista Spinelli nel fondo domenicale del suo giornale, con quelle parole e quelle motivazioni... Direttore, perché l’hai fatto? Esistono dei bavagli leciti e dei bavagli illeciti? Esiste qualcuno al di sopra di ogni giudizio, di ogni sospetto, di ogni voce critica e non nemica? L’epoca che stiamo attraversando non è già abbastanza barbara senza che arrivino scomuniche e amarezze di questo genere? Che speranza può esserci di tornare a essere un Paese democratico quando si chiede alle voci migliori di tacere, in quanto inopportune e certamente ignoranti?
Caro direttore, so che tuo padre ti portò giovanetto nello studio di Mario Ferrara e a lui ti affidò perché seguisse i tuoi primi passi. Mario Ferrara, che ricordando Giovanni Amendola nel 1956 scrisse la più bella definizione del giornalismo: “Che cos’è in fondo un giornale? Molti di voi non lo sanno, molti di voi lo apprenderanno forse un giorno. Un giorno, se in quelle pagine che escono, in quelle poche parole irte di errori di tipografia, se in quei fogli alita spirito di verità, una volontà di credere e di sperare, essi si difenderanno e saranno un alimento e una speranza per tutti. Se viceversa essi conterranno la subdola menzogna, essi saranno un atroce veleno che ancor prima dell’avvento del fascismo e in venti anni di dittatura fascista ha avvelenato le coscienze degli italiani”. I tempi bui che forse ci aspettano hanno anche oggi bisogno di spirito di verità. Le menzogne sono il veleno.

il Fatto 17.12.13
Quello che Scalfari dimentica
Il deviazionista Spinelli e il Pci di Re Giorgio
di   fd’e


Guai a criticare il Quirinale. Nel nome del padre. Secondo round, ieri, in un colonnino a pagina 29 di Repubblica, dell’attacco scomposto di Eugenio Scalfari a Barbara Spinelli, rispettivamente Fondatore ed editorialista di quel quotidiano. Domenica scorsa Scalfari ha accusato Spinelli di sparare contro Napolitano, come Grillo e Travaglio: una circostanza che lo “addolora profondamente”. Di qui il monito finale senza se e senza ma, rivolto a “Barbara”: “Ti assicuro che da questo momento in poi cancello dalla mia memoria quanto ho ora ricordato. Voglio solo pensare il meglio di te a cominciare dal fatto che sei la figlia di Altiero Spinelli. Ricordalo sempre anche tu e sarà il tuo maggior bene”.
La risposta di Spinelli parte da un sentimento di stupore: “Sono stupita dalle parole che Eugenio Scalfari dedica non tanto alle mie idee sulla crisi italiana ma, direttamente, con una violenza di cui non lo credevo capace, alla mia persona”. L’editorialista sospettata apertamente dal Fondatore di deviazionismo filogrillino, e quindi contro Napolitano, scrive: “Violento è infatti l’uso che fa di Altiero Spinelli, del quale nessuno di noi può appropriarsi”. Ora, a proposito dell’intolleranza scalfariana “verso chi la pensa diversamente” (B. Spinelli), è forse utile ricordare la vicenda politica di Altiero Spinelli, considerato l’inventore del federalismo europeo con il Manifesto di Ventotene del 1941.
Da giovane, Altiero Spinelli venne espulso dal Pci nel tremendo 1937, l’anno della morte di Gramsci nonché dell’esplosione della repressione di Stalin nell’Urss. Nello studio della storia esiste il concetto di percezione critica della contemporaneità. Accorgersi cioè pienamente di quello che sta accadendo. E l’antifascista Spinelli, arrestato dal regime e spedito al confino, ebbe contezza da subito dello stalinismo. Nel “Partito”, allora clandestino, il comunista Spinelli contestò la linea filosovietica dei vertici e riferì a Giorgio Amendola, che poi sarebbe stato la guida di Giorgio Napolitano nel Pci, i suoi dubbi. Lo stesso Amendola parlò con Celeste Negarville, che annota nei suoi diari: “La posizione di Altiero è pericolosissima: ‘condizione per la rivoluzione in Europa, l’abbattimento della dittatura staliniana’”. Spinelli apprese di essere stato espulso dal Pci mentre si trovava Ponza, al confino. A proporre di cacciarlo fu Amendola: “Deviazione ideologica e presunzione piccolo-borghese”. Spinelli si rifiutò di fare autocritica e di ratificare la versione ufficiale dei processi di Mosca.
Vent’anni prima del riformista Giolitti nel ‘56, scomunicato perché contrario all’invasione dell’Ungheria, lo Spinelli del ‘37 è un’altra occasione mancata del Pci. E a proposito di percezione critica della contemporaneità: di lì a poco lo studente Scalfari sarebbe stato giornalista fascista fino a tutto il 1943.
Il Pci fece i conti con Spinelli quarant’anni dopo, facendolo eleggere da indipendente alla Camera dei deputati. E sulla giusta scelta rivoluzionaria, visto che Scalfari scrive in difesa di Napolitano, ecco cosa ha scritto il capo dello Stato nella sua autobiografia: “Nel suo Diario Spinelli si diverte ad annotare che incontrandosi, nel 1985, a pranzo con me e il socialdemocratico tedesco Karsten Voigt, aveva visto in noi ‘l’antica immagine del bonzo, quale ogni vecchio rivoluzionario è destinato a diventare’, e aggiunge: ‘Io ho evitato questo destino, perché a un certo momento, oltre quarant’anni fa, ho scoperto un’altra, diversa e strana rivoluzione - quella del federalismo europeo’”.

il Fatto 17.12.13
Repubblica. Referendum sui tagli all’organico
di Gai. Sca.


Contratti di solidarietà al 15% dal primo gennaio 2014 o 59 prepensionamenti entro il 2015? Le due opzioni per scongiurare gli 81 esuberi di Repubblica messi sul piatto dall'editoriale di Carlo De Benedetti per ottenere un risparmio sui costi di 30 milioni, sono in queste ore al vaglio dei giornalisti del quotidiano che viaggia verso la chiusura del 2013 con un rosso superiore ai 4,5 milioni. Al referendum si è arrivati dopo due mesi di trattativa sindacale chiusa con un aut aut: o si trova un accordo oppure si torna al ministero con la richiesta di cassa integrazione per 81 redattori. “Se qualcuno si domanda se tutto resterà come prima, nel nostro modo di lavorare, la risposta è no”, premette il direttore Ezio Mauro in una lettera alla redazione in cui assicura che alcuni dei prepensionati potranno comunque continuare a lavorare con il quotidiano via contratti di collaborazione.

l’Unità 17.12.13
Quel patto da rifondare
di Michele Ciliberto


COSA SIGNIFICA CHE TRE UOMINI, COME IN UNA SCENA WESTERN, INSEGUANO UN LADRO, prima lo picchino e poi lo ammazzino? E che vuol dire il movimento dei forconi, e i mezzi di cui si serve e che cominciano a spaventare i suoi stessi promotori? Si tratta, in entrambi i casi, di qualcosa che, in modi diversi, tocca il fondamento dello Stato di diritto rivelando un’indifferenza e perfino un disprezzo per la legge che può spingere lo scontro politico a un punto aspro, per certi aspetti inedito.
Cosa sta accadendo? Certo, queste forze sono spinte a scendere in campo anche per la crisi del blocco politico e sociale che ha fatto capo, per venti anni, a Berlusconi; né c'è alcun dubbio sulla presenza di frange di estrema destra che acutizzano lo scontro e vogliono servirsene per giocare una partita contro lo Stato democraticoDel resto, di questo è profondamente rivelatore l'atteggiamento due giorni fa di Berlusconi, che voleva addirittura ricevere i forconi in pompa magna e ieri di Brunetta, il quale si esprime in termini che non lasciano dubbi sullo sforzo che Forza Italia sta facendo per cercare di dare rappresentanza politica a una «folla» che oggi se ne sente privaPerché queste forze sono venute alla luce proprio oggi e vogliono svolgere un ruolo, prescindendo dai loro tradizionali riferimenti politici? La risposta è semplice: perché non era mai stato così profondo e terribile lo scarto tra cerchi sociali e politica, tra mondi della vita e istituzioni politiche e statali. Uno scarto che sta diventando una diretta contrapposizione allo Stato, alle sue leggi. Se questo accade, vuol dire che si stanno corrodendo le radici dello stato repubblicanoForse l'unica forza politica che ha avvertito che il terreno oggi può franare e che lo Stato nazionale italiano è entrato in un altro e più drammatico stadio della sua lunga crisi, è la Lega che anche per uscire dall'angolo ha rimesso al centro la parola d'ordine dell’«indipendenza», facendo forza sul disinteresse, se non sul discredito, che l'idea dell'Europa, e il progetto degli Stati uniti di Europa hanno oggi presso molti cittadini italiani.
Ma questi sono epifenomeni politici. Il punto di fondo è un altro: quello che comincia ad apparire chiaro è l'incrinarsi del patto da cui è nata la Repubblica, il rompersi del vincolo repubblicano con tutto quello che ciò può comportare per il destino della democraziaUno stato democratico nasce da un «patto» e si basa su un vincolo che, a sua volta, si esprime in una Costituzione, in un sistema di leggi, che funzionano e sono riconosciute se quel patto regge e se quel vincolo funzionaIl nostro Stato democratico nasce dal patto fondato sulla lotta al fascismo, sulla Resistenza. Ed è qui che sta il problema della nazione italiana oggi: queste radici si sono affievolite negli ultimi decenni, a cominciare dagli anni Settanta. Nel ventennio berlusconiano si sono fortemente indebolite; ed ora, sotto i colpi della crisi e delle politiche degli ultimi anni, esse appaiono ulteriormente inariditeI fatti sopra citati non sono inattesi, vengono da lontano, da una crisi che continua a degenerare, senza riuscire a risolversi. Eppure è un processo degenerativo di cui si possono comprendere agevolmente le ragioni. Si sa: un «patto», per durare, implica il consenso e l’adesione dei cittadini che, a loro volta, dipendono dal rispetto e dalla condivisione da parte di tutti di quel «patto» e delle condizioni su cui il «patto» in questo caso la nostra Costituzione è stabilito. Ora, chi oserebbe dire che la vocazione civile e sociale della nostra Carta oggi è viva e partecipata, non nelle affermazioni di principio ma nel nostro vivere civile, nella realtà quotidiana della Repubblica? È questo il problema: quando il patto si indebolisce, i cittadini che in esso si sono riconosciuti cominciano a protestare, a ribellarsi, a spezzare il «vincolo». Non perché lo considerino ingiusto, ma perché ritengono che esso sia stato infranto, e non da loroAllora cominciano a organizzarsi contro lo Stato e a farsi giustizia da soli, iniziando ad incrinare le fondamenta del comune vivere civile.
Problema enorme che va affrontato alla radiceRiproporre di fronte a sommovimenti di questo genere il primato della legge e condannarli perché violenti è giusto e necessario; ma è un gesto elementare, e distantissimo dal fondo reale del problema che è, e resta, la crisi dura del nostro PaeseÈ da qui che bisogna partire, ed è qui che la politica democratica deve far sentire, se ne è ancora capace, la propria voceOccorre ricostituire, ed ampliare, il patto costituzionale, rinvigorire il vincolo su cui è fondata la Repubblica, agire in modo che i cittadini nativi o immigrati si sentano parte di una comunitàMa si può farlo in un solo modo: avviando subito politiche radicali in grado di confrontarsi con la radicalità della crisiC'è ormai pochissimo tempo per tutti, anche per il PdLe parole dette in questi giorni lavoro, jus soli, eliminazione della Bossi-Fini, interventi per la cultura e la scuola, nuova disciplina sui matrimoni, legge elettorale di tipo bipolare vanno finalmente nella direzione giustaNaturalmente se diventano fatti.

l’Unità 17.12.13
Caso Eni-Shalabayeva. La Procura indaga
di S. G.


C’è la regia dell’Eni dietro il frettoloso e irrituale rimpatrio in Kazakhistan di Alma Shalabayeva, moglie dell'oppositore e oligarca Mukhtar Ablyazov, e della figlia Alua, di sei anni? È quello che vogliono accertare gli inquirenti della Procura di Roma che hanno deciso di effettuare verifiche sul presunto ruolo svolto dall'Eni in questa oscura e intricata vicenda sulla quale, all’inizio dell’estate, aveva rischiato di naufragare prematuramente il governo Letta.
Il pm Eugenio Albamonte ha per ora acquisito il servizio del settimanale 'Report' di Raitre che è stato trasmesso alla fine del novembre scorsoIn un’intervista del programma di Milena Gabanelli, infatti, un dirigente Eni a volto coperto aveva esplicitamente dichiarato che sarebbe stato il governo kazako a sollecitare l'azienda di risolvere il casoIl pm Albamonte, che sta indagando da tempo sul caso Shalabayeva, ha perciò deciso di seguire anche questa pistaCon ogni probabilità sarà sentito il giornalista di ‘Report’ che ha raccolto le confidenze della fonte anonima interna all’Eni, ma in procura a Roma non si esclude che possano essere chiamati, in qualità di testimoni, anche l'amministratore delegato dell'Eni, Paolo Scaroni, ed altri dirigenti del colosso dell’energia.
Il pm Albamonte, che fino ad oggi ha iscritto sul registro degli indagati per sequestro di persona l'ambasciatore del Kazakistan in Italia, Andrian Yelemessov, il consigliere per gli affari politici, Nurlan Khassen, e l'addetto agli affari consolari, Yerzhan Yessirkepov, ha già acquisito il servizio giornalistico e intende sentire, in primo luogo, il cronista che ha raccolto le confidenze di un dirigente dell'Eni che aveva spiegato quali rapporti legherebbero l'azienda al governo kazako dopo che quest'ultimo aveva saputo che Ablyazov e i suoi familiari si erano rifugiati in una villa di Casalpalocco, a RomaE, come si diceva, il magistrato potrebbe convocare, come persone informate sui fatti, anche alcuni dirigenti dell’Eni.
Il pm Albamonte, comunque, sta al tempo stesso vagliando la denuncia-querela che l'Eni ha presentato contro ‘Report’ per mano del suo legale, l'avvocato Carlo Federico GrossoA tale proposito, l’amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni, ha dichiarato che «Il nostro coinvolgimento in questa vicenda è zero»Anzi, Scaroni ha voluto ricordare ieri, nel corso del brindisi di Natale con la stampa, che è stato proprio Eni a depositare un esposto alla procura di Roma affinché accertasse i fatti di cui si è parlato nella puntata di novembre di ‘Report’ e che l'Eni ritiene siano «totalmente falsi e lesivi» della propria immagine«Noi ha aggiunto l'ad Scaroni in questa vicenda non c'entriamo nienteNon ne sappiamo niente, zeroNon conosciamo la Shalabayeva né tantomeno conosciamo l'ambasciatore kazako a Roma».

il Fatto 17.12.13
Caso Shalabayeva, indagine a Roma sul ruolo dell’EniI
di Valeria Pacelli


LO SPUNTO È LA DENUNCIA DELL’AZIENDA CONTRO REPORT PER LA PUNTATA SUGLI AFFARI KAZAKI

Ci sono molti aspetti ancora oscuri sul caso di Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, espulsa da Roma e rimpatriata il 31 maggio scorso insieme con la figlia Alua, di sei anni. Uno di questi aspetti riguarda il presunto ruolo dell’Eni nell’affare che nei mesi scorsi ha imbarazzato il governo italiano. A parlare anche del coinvolgimento della società, un dirigente Eni intervistato da Report alcune settimane fa.
L’inchiesta sull’espulsione vede già indagati l’ambasciatore del Kazakistan in Italia Adrian Yalemehsov, il consigliere per gli Affari politici, Nurlan Khassen e l’addetto agli affari consolari Yerzhan Yessirkepov. Nei giorni scorsi però il pm Eugenio Alba-monte ha acquisito anche la puntata in onda su Rai 3 lo scorso 25 novembre. Il giornalista Paolo Mondani spiega gli interessi dell’intelligence kazaka e russa nel voler arrestare il dissidente Ablyazov – ancora detenuto in Francia – perché in possesso di documenti scottanti sui loro affari. Ma a raccontare, sotto anonimato, come l’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni si sarebbe inserito in questo contesto, è un dirigente del colosso dell’energia. Il manager rivela a Report: “L’ambasciatore kazako chiama Scaroni e gli dice: guarda che questa storia me la dovete risolvere voi di Eni. Scaroni a sua volta chiama Valentino Valentini, l’uomo di Berlusconi con la Russia. Valentini poi si mette in contatto con il ministero.. Procaccini (Giuseppe, il capo di gabinetto del ministero, ndr), Alfano.. e dice risolvete”. In questa catena, Procaccini è l’unico che lo scorso 16 luglio si è dimesso.
MA COSA deve l’Eni al governo kazako? A rispondere a questa domanda un manager di una banca kazaka che a Report spiega che a gravare sul colosso dell’energia ci sarebbe l’affare del giacimento di Kashagan. L’Eni avrebbe sforato i tempi di consegna e il budget a disposizione, tanto che il presidente Nazarbayev avrebbe minacciato di far pagare una penale di 10 miliardi di dollari. Dopo queste interviste, l’Eni ha denunciato il programma di Milena Gabanelli. La querela è stata affidata al pm Albamonte – lo stesso che indaga sui responsabili dell’espulsione – il quale, oltre decidere se c’è stata o meno diffamazione, ha anche intenzione di chiarire il ruolo dell’Eni nella vicenda. Per questo potrebbe convocare, oltre al giornalista Mondani, anche lo stesso Paolo Scaroni, in corsa per il quarto mandato, che si dice totalmente estraneo alla vicenda: “È stata proprio Eni – ha ribadito ieri l’ad – a depositare un esposto in procura perché accertasse i fatti e le asserzioni rese nella trasmissione che Eni ritiene false e lesive della propria immagine. Eni si ritiene totalmente estranea. ”

La Stampa 17.12.13
Gli 007 italiani avrebbero fatto il doppio gioco permettendo al dissidente di fuggire a Londra
L’ombra dell’Eni sul caso Shalabayeva
Dopo le rivelazioni di Report i pm di Roma indagano sul ruolo svolto dal colosso del gas
di Francesco Grignetti


ROMA È il grande interrogativo che aleggia da mesi attorno al caso scandaloso dell’espulsione di Alma Shalabayeva: se l’Eni, che ha colossali interessi in Kazakistan, e necessariamente deve trattare con il regime di Nazarbajev, abbia avuto un ruolo nella vicenda. Un paio di settimane fa, la trasmissione «Report» ci è andata giù piatta. Ieri la magistratura romana, che da tempo ha un fascicolo aperto sulla vicenda, ha deciso di acquisire la registrazione della puntata. È l’annuncio di una svolta.
I giornalisti di Milena Gabbanelli avevano lavorato sodo e avevano trovato un testimone, rimasto anonimo per il largo pubblico, di quelli che possono cambiare il corso di un’inchiesta. Per restare alla sintesi che ne ha fatto un deputato di Sel, Arturo Scotto, presentando un’interrogazione urgente: «Il governo kazako avrebbe chiesto all’Eni di stare alle costole di Mukhtar Ablyazov, marito di Alma Shalabayeva. Ablyazov era sospettato di essere in Italia. L’Eni avrebbe confermato la presenza a Roma di Ablyazov, passando la notizia ai servizi italiani, che avrebbero a loro volta avvisato il dissidente kazako per permettergli la fuga in Inghilterra, dove gode di diritto d’asilo e questa scelta dei servizi italiani sarebbe stata dettata dall’essere, l’eventuale cattura di Ablyazov su suolo italiano, eccessivamente sensibile politicamente».
Una spy-story a tutti gli effetti, insomma. Con un comportamento doppiogiochistico tipico dei servizi segreti: far fuggire il dissidente un attimo prima di dare le informazioni a chi le chiede e fare bella figura con tutti. La vicenda di Ablyazov però, sempre stando a «Report», diventa un pasticcio italiano perché l’ambasciata kazaka si sarebbe insospettita e avrebbe preteso dall’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni, di risolvere la faccenda. «A quel punto Scaroni prosegue la sintesi-interpellanza di Scotto avrebbe contattato Valentino Valentini, l’uomo che tiene i contatti di Berlusconi con la Russia ed il mondo ex sovietico, attivandolo per informare il Viminale; da ciò sarebbe scaturito il tristemente famoso blitz».
Vero? Falso? In tutta evidenza, se le cose fossero andate così, sarebbe davvero impossibile sostenere, com’è s’è garantito in Parlamento, che il governo, e in particolare il ministro Alfano, fosse all’oscuro di tutto.
Ora il pm romano Eugenio Albamonte, che già ha iscritto al registro degli indagati per sequestro di persona l’ambasciatore e due altri diplomatici kazaki, ha deciso di approfondire. Scontata la prossima mossa: sentire i giornalisti. L’obiettivo ovviamente è identificare il presunto testimone, un manager dell’Eni, che pare saperne molto di questa vicenda.
Il presidente dell’Eni, Scaroni, è comprensibilmente molto infastidito. «È stata proprio Eni commenta , a valle della trasmissione Report, a depositare un esposto alla Procura di Roma perchè accertasse i fatti e le asserzioni rese nella trasmissione che Eni ritiene false e lesive della propria immagine. Eni si ritiene totalmente estranea dalla vicenda della signora Shalabayeva». Nel frattempo la signora vive sempre in Kazakistan con obbligo di dimora nella città dei suoi genitori; il marito combatte una dura battaglia legale in Francia per evitare l’estradizione.

l’Unità 17.12.13
L’inchiesta
L’aborto diventa fai da te
Le pillole abortive in vendita on line
80% I medici e i ginecologi obiettori in Italia, che si rifiutano di praticare l’aborto
99% L’efficacia della contraccezione di emergenza, in Italia difficile da reperire
di Marco Bucciantini


Nel Paese dell’obiezione di coscienza e delle difficoltà e lentezze burocratiche nell’accedere alla legge 194 fiorisce il mercato dell’aborto fai-da-te, con diversi canali. Per le associazioni femminili può essere anche il modo più sicuro e sereno di operare.
Il feto aveva sedici settimane e le acque si erano rotte. Nell’Irlanda occidentale, sulla baia di Galway, una dentista indiana di 31 anni, Savita Halappanavar, capì in fretta che non sarebbe diventata madre. Un feto così piccolo non può sopravvivere. Chiese ai dottori di praticare l’aborto terapeutico per scongiurare rischi alla propria salute. Le risposero che nel feto batteva il cuore: la legge irlandese proibisce l’interventoLa richiesta diventò una supplica. Niente. L’indomani il feto muore, ma Savita non lo sa: ha già perso conoscenza, con la setticemia nelle veneNon riuscirà più a parlare con il marito Praveen. Morirà tre giorni dopo il feto.
In Italia l’aborto è legale: tutti lo sanno. Anche le organizzazioni che inviano a domicilio l’Ru486. Sono molte, esistono, crescono, in America, in Francia, in Inghilterra (dove si spostano circa 6mila irlandesi l’anno, e dove Savita non poté andare per la salute compromessa). Un sito olandese (womenonwaves.org) fa da distributore automatico di mifepristone (con il misoprostolo uno dei principi che provoca l’interruzione di gravidanza). Se nel domicilio del richiedente viene scritto «Italia», appare una schermata perentoria: «Nel tuo paese l'aborto è legale. Un aborto legale è sempre meglio di un aborto clandestino».
Questi sono posti dove ci “porta” Lisa Canitano, presidentessa dell’associazione Vita di Donna, onlus per la tutela della salute femminileLei è la “guida” di questa pagina che poteva cominciare anche in modo strano, con una preghiera che si trova su Internet nella pagina di benvenuto del sito dei farmacisti cattolici. «Dio mio, Tu sei l’unica fonte della vita, della luce e della verità! (...) Fai che noi farmacisti cristiani, istituiti a servizio della Vita, non dimentichiamo mai che possediamo la vita eterna soltanto se viviamo in Te, ma che la estinguiamo se abbandoniamo Te e la Tua legge». Il presidente di questo gruppo molto influente è Piero Uroda, che è il paladino di chi rifiuta di vendere farmaci contraccettivi d’emergenza (questo è un punto fondamentale: la pillola e la spirale del giorno dopo non sono farmaci abortivi ma contraccettivi d’emergenza, tra l’altro con una efficacia superiore al 99%). Davanti al paradosso di una farmacia di soli obiettori, Uroda reagisce così: «Perché dovrei lavorare con colleghi che non condividano il rispetto della vita?», situazione che impedisce al cliente di godere di un diritto dello Stato, ma anche questo non tormenta Uroda, che anzi si accende: «Il nostro diritto di non vendere questi farmaci è superiore a quello di chi richiede il prodotto». Superiore: una gerarchia che non esiste nella legge, ma alligna in quella preghiera.
Fra la penosa storia di Savita e questo spostamento nel trascendentale la strada è lunga solo in geografia (da via della Conciliazione fino a Galway). Fra queste posizioni limite e lo “spaccio” internet (o al mercato sotto casa, come si legge nell’intervista a fianco) la distanza è invece troppa, ma la verità non sta nel mezzo. C’è un diritto intestato dalla legge, c’è una difficoltà oggettiva a disporneNon solo in Italia: questo dato «sovranazionale» è decisivo per capire la tendenza netta e irreversibile dell’aborto fai-da-te, tramite farmaci reperiti lontano dalle farmacie, e interventi praticati lontano dalle struttureIn America dove i rigurgiti antiabortisti affiorano ciclicamente e ammorbano anche i legislatori dei vari Stati l’Istituto di salute pubblica è arrivato a teorizzare la pratica individualeFornendo dati, e premettendo (la premessa è fondamentale), che le «donne abortiscono da tempo immemore, ma la criminalizzazione dell’aborto è invece un fenomeno più recente, grossomodo datato al XIX secolo, supportato da norme sociali patriarcali connesse al ruolo domestico femminile, oltre che da un desiderio di controllo della sessualità delle donne»E poiché il misoprostolo (si usa per indurre contrazioni) «è sicuro ed efficace», l’uso del farmaco ha significativamente aumentato l’accesso a un aborto sicuro per migliaia di donne, specialmente povere, giovani, cronicamente poco assistiteProprio da questo spaccato (le immigrate dal Sudamerica) è emerso l’uso “improprio” del Cytomec, nome commerciale del misoprostolo, farmaco da banco venduto per curare la gastrite, con la controindicazione che poteva indurre l’abortoIl passaparola ne ha esteso l’uso. Se assunto in associazione al mifepristone, l’efficacia nell’indurre l’aborto completo arriva al 98%Forti di questi dati, le donne negli Stati Uniti stanno prendendo in mano la questioneIn Francia (womenonweb.org/fr) e in Inghilterra (bpas.org/bpaswoman) la questione dell’autodeterminazione è dibattuta e la pratica della pillola assai radicata (in Francia la metà degli aborti si fanno con la Ru486)Nell’Italia dell’obiezione di coscienza che riguarda quasi l’80% dei medici (c’è anche chi si rifiuta di operare le gravidanze extrauterine, che è condizione mortale nella donna), nell’Italia dell’obbligo dei tre giorni di ricovero (e dell’assenza di posti letto, con i tempi d’attesa che diventano “pericolosi”), dei consultori chiusi di sabato e domenica (giorni “caldi”, quando per rimediare a un preservativo rotto potrebbe bastare la contraccezione d’emergenza), questo mercato alternativo è giocoforza destinato a crescere, anche perché l’assistenza di esperti è garantitaQualcuno, come Lisa Canitano, lo speraAltri preferirebbero un percorso comunque ospedaliero.
Intanto le donne s’informano, si rivolgono dove trovano accesso e possibilità, per le strade di un mercato, rivolgendosi alle associazioni femminili, comprando online, appoggiandosi ai dottori fuori confine (Svizzera, Grecia), che dietro un consenso informato somministrano la Ru486 e il Cytotec (per 600 euro). Semplicemente, anche le donne italiane si appropriano di un loro diritto, come possono, dove possono.

l’Unità 17.12.13
«Porta Palazzo, il farmaco a 300 euro»
di M. Buc.


«Il nome no». Questa è la situazione di Porta Palazzo, la città parallela, il mercato torinese dove si vende tutto, anche l’anima. Chi si spende per “assorbire” un po’ dell’illegalità e per aiutare chi fronteggia un momento triste della vita, vuole e deve restare anonimo, perché un nome e cognome, in mano a chi comanda a Porta Palazzo, sono un volto da cercare e non certo per chiedere spiegazioni.
Porta Palazzo è il più grande mercato all’aperto d’Europa, è grossomodo in mano alle molte comunità straniere di Torino, i pochi italiani che ancora vendono la merce fanno comunque gestire le bancarelle agli stranieri. C’è chi piazza frutta e verdura, chi piazza se stesso (muratori, facchini), c’è chi vende refurtive varie e c’è chi spaccia le pillole contraccettive e quelle abortive, «con il principio attivo identico a quelle di marcaInfatti funzionano». Dunque, a Porta Palazzo si va anche per abortire, lontano dai dottori, dagli ospedali, dagli impacci burocratici, dagli obiettori di coscienza e dalle norme minime di sicurezza personale. «Infatti noi siamo qui, a presidiare, a dare una mano, a evitare che un’emorragia si trasformi in qualcosa di irreparabile». Succede nella città del Sant’Anna, dove Silvio Viale iniziò la somministrazione della pillola Ru486. Qui, nella regione leader in Italia nella somministrazione di questo farmaco. Chi governa il mercato abusivo delle pillole abortive?
«I cinesi, da sempre, perché in Cina si produce questo farmaco con il principio attivo identico alle Ru486 e perché loro hanno messo le mani su quest’affare, e quando i cinesi afferrano qualcosa che rende bene, non si fanno più strappare il tesoro».
Chi sono le clienti?
«Quasi sempre donne straniere, spesso arabe. Per loro l’arrivo in Italia è anche la scoperta del sesso “libero”, poi però diventa difficile giustificare una gravidanza. Non sono sposate ma sono incinte: per la loro cultura, per la loro religione, per il loro ruolo nella società, diventa una situazione drammatica».
Anche l’aborto è un dramma.
«Lo sanno. Ma hanno urgenza, vogliono fare in fretta e conoscono poco i loro diritti».
Sono molte le prostitute?
«Sì, ma non sono la maggioranza».
Vengono anche le italiane?
«Sì, non molte, ma ci sono anche loro, circa il 10% del totale. Soprattutto quelle emarginate dal “sistema” e coloro che vogliono evitarsi le lunga trafila delle strutture pubbliche».
Conosce i numeri di questo mercato?
«Sono giganteschi. Non abbiamo dati, ma vediamo ogni giorno questo spaccio, e anche pochi minuti fa è arrivata da noi una ragazza (italiana) che aveva preso la pillola. Stava male, l’abbiamo monitorata per alcune ore».
Quanto costa la pillola procurata in questo modo?
«Fra i 300 e i 400 euroPer l’aborto fai-da-te girano migliaia di euro al giorno, e sono tanti in un mercato dai prezzi bassi, dove un Pc usato e forse rubato viene venduto a 100 euro».
Che efficacia ha?
«100%».
Quante donne ha soccorso in questi anni e per quali motivi?
«Molti casi di allergia, con pruriti e gonfiori e due volte anche donne in emorragia, che ho dovuto portare all’ospedale, nonostante le resistenze: temevano di essere denunciate per il reato di clandestinità».
È accaduto?
«No».

l’Unità 17.12.13
Il Cile risceglie Bachelet «Ora le riforme»
Eletta con oltre il 62%, dovrà governare con una coalizione molto eterogenea
Istruzione, fisco e modifiche costituzionali le sue priorità
«Non sarà facile, cambiare il mondo non lo è mai»
di Patricia Mayorga


Con il 62,16% contro il 37,83% della sfidante, Michelle Bachelet si appresta a tornare al palazzo della Moneda, sede del governo cilenoÈ il margine di vittoria più importante dal ripristino della democrazia, nel 1990Un risultato atteso, ma netto, quello della socialista Michelle Bachelet, sostenuta da un’ampia alleanza di centro sinistra, Nueva Mayoría (che dalla Democrazia Cristiana al Partito Comunista) contro la candidata conservatrice Evelyn Matthei, appoggiata a sua volta dalla coalizione di destra che quattro anni fa vinse le elezioni con il miliardario Sebastian Piñera, presidente uscente.
La strada che dovrà percorrere Bachelet non sarà facile, e anche lei l’ha riconosciuto nel suo primo intervento subito dopo essere stata eletta«Porteremo avanti le profonde trasformazioni di cui il Cile ha bisogno..Non sarà facile, ma quando mai cambiare il mondo è stato facile?», ha detto dal palco allestito nell’Alameda, la via principale della capitale cilena.
ASTENSIONE ALTISSIMA
Le promesse della neo-eletta presidente verso una riforma fiscale (aumento delle tasse sui profitti delle imprese), una grossa rifondazione della pubblica istruzione sia verso la gratuità che verso una pubblica istruzione di qualità, una nuova Costituzione per abbandonare definitivamente quella in vigore, scomoda e pesante eredità del regime di Pinochet, hanno portato Michelle Bachelet a questa importante vittoria, nonostante una grossa astensionePer la prima volta il voto non era obbligatorio, la partecipazione è stata inferiore al 50%.
Non è stato un caso che nel primo intervento, Bachelet abbia parlato direttamente a questo «importante numero di cileni e cilene che non sono andati a votare»«So che molti di loro sono disillusi e frustrati in quanto sentono che lo Stato ormai non li protegge più ha detto la neo-presidente -Adesso la nostra grossa sfida è far sì che questi cileni e cilene tornino a credere, non in me, né in un partito, né in un gruppo politico, ma nella democrazia, nelle istituzioni, nella forza del voto, nella giustizia e nelle nostre leggi».
Bachelet ha anche ricordato il suo programma di riforme quando ha detto che «il lucro non può essere il motore dell’educazione perché i sogni non possono essere un bene commerciabile», come pure ha sottolineato «la necessità di far nascere una nuova Costituzione creata al 100% in democrazia, che garantisca che le maggioranze non possano più essere calpestate dalle minoranze..una Costituzione che diventi il punto di partenza di un nuovo rapporto tra le istituzioni e la cittadinanza..un’espressione e uno strumento di buona politica».
Secondo la neo-eletta presidente in questo momento «ci sono le condizioni economiche, sociali e politiche adatte» per le riforme«È il momento, Cile, il momento è arrivato, finalmente..è tempo di combattere insieme la disuguaglianza, è tempo di tornare a credere in noi stessi», ha affermato.
La coalizione di Nueva Mayoría ha ottenuto (nel primo turno, un mese fa) la maggioranza nei due rami del Parlamento, ma per le riforme strutturali, come è il caso di una nuova Costituzione, mancherebbe il quorum qualificato del 75%.
Nel suo programma di governo Bachelet ha anche aggiunto delle richieste da parte di diversi movimenti sociali, tra questi la comunità gay, gli indigeni, gli ecologisti, le femministe, promesse che sono state anche ribadite nel suo primo intervento quando ha promesso più diritti alle coppie gay, una nuova legislazione sull’aborto, la riduzione delle enormi disuguaglianze sociali che né il miracolo economico cileno, né i diversi governi di centro-sinistra che si sono succeduti dal 1990 sono riusciti a ridurre.
Nonostante il suo indubbio carisma, Michelle Bachelet dovrà governare con un occhio attento alle richieste dei movimenti socialiNonostante importanti dirigenti, come Camila Vallejos, siano arrivati in Parlamento grazie alla coalizione di Nueva Mayoría, il movimento si è spaccato e si candida a diventare là la coscienza critica del nuovo governo, che si insedierà il prossimo 14 marzo.

il Fatto 17.12.13
Cile, alla Bachelet per le riforme servono gli eredi di Pinochet
di Maurizio Chierici


RIELETTA PRESIDENTE (62%) VUOLE RIPULIRE LA COSTITUZIONE DALLE SCORIE DEL REGIME, MA È IMPOSSIBILE SENZA LA DESTRA

Michelle Bachelet torna alla Moneda per chiudere gli anni della generazione drammaticamente separata dalla dittatura di Pinochet. Atrocità ed esilio che la campagna elettorale ha appena sfiorato perché le due rivali, protagoniste del passato e della nuova speranza, hanno attraversato in modo diverso lo spazio della non ragione. Amiche in gioventù, Evelyn Matthei dalla parte degli oppressori e la Bachelet nelle galere degli oppressi. La Matthei difende il passato (ferma al 37%), la Bachelet rivolge gli occhi al futuro con il suo 62%. Ha quasi doppiato la rivale, ma un problema la inquieta: la sfiducia nella politica che ha allontanato più di metà degli elettori.
   IL CILE dall’economia a gonfie vele è rimasto il Paese disegnato dal regime: differenze sociali che umiliano buona parte della gente. L’1% delle famiglie controlla il 40% di tutto. Università e scuole private educano al controllo del potere gli eredi di chi il potere lo controlla da sempre. Opus Dei, università della massoneria, università cattolica, università dei Chicago Boys sopravvissuti a Friedman. Sempre università dalle rette impossibili. Gli istituti di Stato si contano sulle dita. La rabbia degli studenti ha contribuito allo sfaldamento della presidenza di Piñera e Camila Vallejo, eletta in parlamento con i comunisti, ne è il simbolo. Il mondo è cambiato, controllare televisioni e grandi giornali non basta. I padroni del domani respirano il futuro su Internet e non si accontentano dei persuasori ancien régime. La disuguaglianza sociale non esaspera solo l’istruzione: il 20 per cento della gente non gode dell’assistenza sanitaria. Metà della popolazione vive con 500 dollari al mese nel Paese del miracolo economico portato ad esempio dagli gnomi della finanza internazionale. Negli anni della prima presidenza, la Bachelet aveva provato a scrostare privilegi fuori senso. Ma non è semplice intaccare i monoliti di un sistema che non rinunciava alle abitudini codificate. È solo riuscita a redistribuire assistenza gratuita ai bambini dai 3 mesi ai 2 anni. Dopo si paga. La Matthei e la destra hanno provato a sollevare l’indignazione contro la Bachelet che offre mercato libero e uno stato di guardia per impedire disuguaglianze intollerabili. “Il suo modello Venezuela svuoterà i negozi dei generi di sopravvivenza come ai tempi di Allende”: giornale El Mercurio, proprietario l’antico golpista Agustin Edwards sistemato in California. Ma 40 anni dopo, i vecchi slogan distribuiti dalla Cia non hanno funzionato. Il problema che costringerà la Bachelet a trattare con gli sconfitti è la riforma della Costituzione. L’impianto resta quello dettato da Pinochet. Non prevede aborto, omosessualità, anche il divorzio ammesso dal presidente socialista Lagos, contempla complicazioni che impediscono uno scioglimento rispettoso e civile. Insomma, Paese da ricostruire col voto dei due terzi del Parlamento, due terzi che la Bachelet non controlla. Servono alleanze non semplici da saldare. Rancori e contrapposizioni restano profonde. Possono i profughi del regime sostenere il cambiamento della Carta costituzionale sulla quale hanno costruito fortune e difeso la memoria delle loro sciagure? Ecco che la nuova politica si affida ai vecchi volponi. L’abbraccio tv del senatore democristiano Andrés Zaldivar al presidente del Partito comunista Guillermo, Teillier riuniti all’ombra della Bachelet, lascia capire non solo la coesione degli strani alleati, ma l’identità del mediatore che convincerà gli ex pinochettisti delusi ad appoggiare la riforma. Zaldivar è stato presidente del Senato al ritorno della democrazia. Cattolico conservatore fuggito a Roma alla caduta di Allende, ha coltivato un’amicizia fraterna con Anacleto Angelini, italiano e imprenditore principe del Cile. Decimo nella classifica di Forbes, fra i più ricchi e influenti del continente: flotte di superpescherecci, farina di pesce, petrolio, legname, latte.
   LA DITTATURA gli ha dato una mano negli affari, ma il cuore di Angelini restava legato alla famiglia Zaldivar. Telefonava all’esule sfidando i controlli e quando tutto è finito, Patricio Alwin, primo presidente democristiano del dopo Pinochet, gli concede la cittadinanza cilena. Zaldivar ne era diventato consigliere politico. Inevitabili gli incontri coltivati nel pinochettismo, Zalvidar sempre sereno e al di sopra delle parti. Angelini se ne è andato lasciandogli in eredità una rete di rapporti difficili da immaginare. È il momento di capitalizzarli con l’inevitabile accordo di Teillier segretario degli alleati comunisti. Le larghe intese abbracciano il mondo.

La Stampa 17.12.13
“Sarà il Cile delle donne la rivincita di Allende”
La figlia del Presidente ucciso: mai più gli errori del ’73
di Paolo Mastrolilli


NEW YORK Avverti un senso di rivalsa quasi personale, nella voce di Isabel Allende Bussi, quando dice che «la rielezione della presidenta Michelle Bachelet rappresenta un punto di svolta per il Cile. È l’inizio di un cambiamento culturale, che riguarderà insieme la condizione delle donne, e le riforme necessarie a costruire una società più inclusiva sul piano economico». Quarant’anni fa, quando suo padre Salvador fu rovesciato dal golpe del generale Pinochet, Isabel fu una delle ultime persone a vederlo vivo nel palazzo della Moneda. Ora è senatrice del Partido socialista e ha fatto campagna per la Bachelet.
Perché era così sicura della sua rielezione?
«Nel Paese, nella società, c’era la chiara sensazione che la gente non volesse la continuità. L’insoddisfazione per le politiche del presidente Piñera era forte, soprattutto per la crescente diseguaglianza sociale, a fronte di una economia in espansione».
Per la massima carica si sono scontrate due donne, la Bachelet e la candidata del centro destra Evelyn Matthei. È il segno che la cultura maschilista della politica cilena sta cambiando?
«La sfida tra due donne è stata casuale, perché la Matthei è stata scelta nel centro destra solo dopo il fallimento di altre due candidature. La rielezione della Bachelet, però, dimostra che un cambiamento culturale è in corso. Tuttavia è solo all’inizio, e ora bisogna lavorarci sopra».
Lei si è impegnata molto nella sua carriera contro la discriminazione verso le donne: perché resta un problema così grave in Cile?
«In Parlamento abbiamo una rappresentanza di circa il 18%, e questo già dimostra lo squilibrio. Non ci sono molte donne ministro, o giudici della Corte Suprema, e anche nel settore privato occupiamo poche posizioni di rilievo. La nostra cultura è così, paralizzata anche su temi sociali come l’aborto. Non ci sono quote, che garantiscano alle donne la possibilità di partecipare. La nuova presidenta è molto sensibile a questi problemi, ma è l’intera società che ora dovrà lavorarci sopra».
Oltre alle quote, cosa si può fare?
«Un elemento centrale del programma della Bachelet è l’istruzione gratuita e di qualità per tutti. È un passo fondamentale, tanto per affrontare la diseguaglianza economica, quanto per aumentare gli spazi per le donne».
È un obiettivo costoso: le sembra realistico?
«Si accompagna a una riforma tributaria, che punta ad ottenere contributi maggiori dai ricchi e dalle grandi aziende. Le risorse per raggiungere questo obiettivo esistono, in un arco di tempo ragionevole che non provochi contraccolpi».
L’economia cilena va bene, cresce oltre il 5%: non correte il rischio di incepparla?
«Questi sono timori terroristici
sparsi dalla destra durante la campagna elettorale. Il programma della presidenta è responsabile e non danneggerà gli imprenditori, però è necessaria un’economia più inclusiva, anche per neutralizzare le tensioni provocate dalla diseguaglianza che minacciano la stessa stabilità del Paese».
Riuscirete a varare la nuova Costituzione?
«È necessaria. Quella attuale fu scritta durante la dittatura e ha un sistema elettorale che non garantisce equa rappresentanza. Serve un testo che dia a tutti i cittadini la certezza di partecipare alla nostra democrazia».
Lei ha detto che la caduta di suo padre fu provocata anche dalle pressioni della sinistra estrema, che non sostenne il suo programma di riforme graduali. Non correte lo stesso rischio?
«No. Stavolta quell’errore non verrà ripetuto».

il Fatto 17.12.13
La “nuova Merkel” alla Difesa
Ursula Von Der Leyen, prima donna nominata a capo delle forze armate tedesche
di Mattia Ecceli


Berlino Potere alle donne. La norma sulle quote rosa era stata bocciata dalla vecchia maggioranza del Bundestag malgrado Angela Merkel avesse ripetuto che la Germania non può tollerare discriminazioni tra i sessi. E nemmeno tra i salari se le mansioni sono le stesse. Il nuovo esecutivo vale più di una legge. Non soltanto perché ne fa parte una donna in più (otto, inclusa la stessa cancelliera), ma perché per la prima volta una di loro va a comandare il dicastero più “maschio”, quello della difesa.
LO DIRIGERÀ Ursula von der Leyen, una predestinata della politica. Ginecologa con studi anche alla London School of Economics e politica esperta con quattro anni vissuti negli Stati Uniti, la nuova ministra ha come padre un ex governatore della Bassa Sassonia, Ernst Albrecht, e come fratelli (ne ha cinque) due influenti manager. Non solo: la 55enne che dal 1990 è iscritta alla Cdu è sposata dal 1986 con il professore ed imprenditore Heiko von der Leyen. Equilibrata ma battagliera, la nuova responsabile della difesa è un manifesto della coerenza evangelica (confessione alla quale appartiene la famiglia) con i suoi 7 figli. Nella passata legislatura era stata a capo dello strategico dicastero del lavoro dal quale viene “allontanata” solo per far posto, nell’ambito dell’accordo della große koalition, alla socialdemocratica Andrea Nahles che deve vigilare sull’impegno per l’introduzione del salario minimo, sempre maldigerito da Cdu e Csu.
Il nome ed il volto (ma anche i modi: garbati ma fermi) di von der Leyen vengono indicati quando si pensa al profilo di un successore di Angela Merkel. La difesa è una significativa e simbolica compensazione per il mancato rinnovo al ministero del lavoro. È la prima volta che la Germania si concede di mettere una donne a capo delle forze armate, impegnate in diverse missioni all’estero. Le operazioni sono seguite con interesse dall’opinione pubblica. Sulle dichiarazioni in merito ad una di queste era “inciampato” l'ex presidente Horst Köhler, poi costretto alle dimissioni. Alle dipendenze del ministero ci sono 185mila militari e 70mila civili. Ci sono anche problemi di trasparenza: il predecessore, Thomas de Maizière, uomo di fiducia di Merkel, non aveva gestito al meglio il caso dei droni per i quali la Germania aveva sborsato mezzo miliardo di euro senza che potessero prendere il volo. E di salute: una recente indagine ha rivelato che un quarto dei soldati mandati in missione soffre di disturbi piscologici, ma in pochi chiedono aiuto. Ursula von der Leyen è l’immagine spendibile di come una donna – certo, non proprio una qualsiasi – non sia costretta a sacrificare la famiglia per la carriera e viceversa.
Nel nuovo governo c’è anche un’altra nomina carica di significato. È Aydan Özoguz, 46enne politica socialdemocratica di origini turche (è nata ad Amburgo, ma è cittadina tedesca solo dal 1989). Non è la prima “straniera” in un esecutivo (la scorsa legislatura il “vietnamita” Philip Roesler è stato vice cancelliere), ma è l’esordio di un rappresentante dalla Turchia, la minoranza più numerosa in Germania. La designazione bilancia in parte la cautela sulla doppia cittadinanza: oltre al messaggio interetnico c’è quello interreligioso. Özoguz fa parte dell’Accademia musulmana di Germania e uno dei due fratelli, Ibrahim Gürhan, è il gestore di muslim-markt.de, un sito che avvicina all’islam i credenti di lingua tedesca.

Repubblica 17.12.13
Vietato protestare, la stretta di Rajoy
Spagna, no ai cortei davanti ai palazzi della politica e multe a chi insulta gli agenti
di Omero Ciai


L’IDEA, neppure troppo velata, è quella di rendere molto più difficili le proteste cittadine che, a partire dal 15M — il movimento che per settimane occupò la Puerta del Sol a Madrid nel 2011 — , hanno attraversato la Spagna in mille rivoli di piccole e grandi contestazioni sociali in questi anni di profonda recessione economica. La nuova legge sull’ordine pubblico, alla quale il ministro degli Interni, José Fernandez Diaz, sta dando gli ultimi ritocchi prima di portarla in Parlamento, suscita già reazioni molto sdegnate. Se fosse approvata infatti una protesta come quella del 15M, con l’occupazione di una pubblica piazza, sarebbe impossibile ma le nuove norme proibirebbero anche qualsiasi manifestazione davanti a sedi istituzionali, siano esse il Congresso dei deputati, il Senato o qualsiasi altro luogo simile come un ministero o una assemblea regionale. Vietata anche la ripresa e diffusione di immagini degli agenti di polizia — punita con multe da 20 a 400mila euro — ; mentre “infrazioni gravi” verranno considerati anche gli insulti o le minacce contro membri delle forze di polizia; ma pure collocare striscioni o bandiere sugli edifici. Insomma protestate ma fatelo senza disturbare. Zitti, zitti. E soprattutto lontano dai luoghi della politica.
Un altro aspetto della nuova legge è che le denunce degli agenti avranno “presunzione di verità”, ovvero sarà il presunto colpevole a dover dimostrare la sua innocenza non il contrario. Ma un aspetto che preoccupa opposizione e sindacati è l’estensione del ruolo dei vigilantes privati che potranno agire anche al di fuori degli edifici che devono sorvegliare e potranno controllare, perquisire o arrestare, un sospetto anche in mezzo alla strada. Il pacchetto legislativo che, secondo l’opposizione, limita seriamente i diritti dei cittadini è stato criticato anche dal commissario dei Diritti umani del Consiglio d’Europa. Ma il presidente del governo spagnolo, Mariano Rajoy, vuole farlo approvare rapidamente in Parlamento. È, dicono in molti, il primo obiettivo della seconda stagione dell’esecutivo di centrodestra.
Ora che lo spread, la crisi economica e lo scandalo dei fondi neri, complicano meno le giornate del governo, Rajoy ha scelto di attuare il programma che fin qui è stato costretto a rinviare. La legge sull’ordine pubblico è un omaggio alla parte più conservatrice del suo elettorato. Quella dalla quale il governo teme un voto di castigo nelle elezioni europee del prossimo anno. E dopo l’ordine pubblico arriverà la stretta sull’aborto che nelle intenzioni del ministro della Giustizia, Ruiz Gallardon, tornerà ad essere un reato in quasi tutti i casi. È “l’agenda dura” che ha riportato la destra al potere dopo gli anni “liberal” e le leggi progressiste (matrimoni gay, aborto libero e divorzio express) di Zapatero. Ma è una “agenda dura” che mette in crisi anche i rapporti politici con i socialisti dei quali Rajoy ha invece bisogno per fermare lo scivolamento della questione catalana — altro tema che manda su tutte le furie gli elettori di destra — dopo l’annuncio a Barcellona della convocazione di un referendum sulla sovranità della comunità autonoma. Intanto, Fernandez Diaz, ritocca, e in parte modera, una legge liberticida sull’ordine pubblico che ha l’aria di risultare indigesta anche a un’ampia parte del centro destra europeo.

Repubblica 17.12.13
Quello spudorato ritorno al franchismo che rovescia la giustizia
di Javier Marìas


COME se non bastasse quello che ho commentato una settimana fa, e che induce tanti spagnoli a vergognarsi del proprio Paese e non riuscire a difenderlo, il governo di Rajoy, attraverso il ministro dell’Interno Fernández, ha in mente una nuova «legge per la sicurezza del cittadino », di ispirazione innegabilmente franchista.
È STATO già detto molto a proposito di questa legge, del fatto che penalizzerà e limiterà le proteste, il diritto a manifestare e tutto quanto può dar fastidio ai governanti e alla polizia sottoposta al loro comando; delle multe demenziali con cui verranno sanzionate quasi tutte le ribellioni o dissensi, o tutto ciò che le forze dell’ordine stesse considereranno come «minacce, insulti, pressioni, ingiurie o vessazioni» ai danni degli agenti. In altre parole, questi ultimi potranno massacrare di botte i manifestanti, trascinarli, fargli di tutto e arrestarli con o senza un motivo, e i manifestanti non potranno reagire in alcun modo, nemmeno verbalmente, se non vogliono correre il rischio di perdere mille euro qualora, per esempio, dovessero rivolgere l’appellativo di «bestia » all’inarrivabile uomo in divisa che li sta bastonando. Fernández inizialmente aveva stabilito che una cosa del genere poteva costare fino a 600.000 euro (giuro), cosa che ci dà un’idea del tipo di «sicurezza» che offre questa legge: si lasciano i cittadini esposti a ogni pericolo e si blindano i poliziotti e i politici che si servono di essi. Tipico esempio di Stato di polizia, non c’è alcun dubbio.
Ma la cosa più spudoratamente franchista del progetto di legge è questa (cito Jesús Dava suEl País):«Per le denunce dei poliziotti vale la presunzione di verità e spetta quindi al denunciato dimostrare che quanto detto dagli agenti non risponde al vero». Era esattamente così che funzionava la repressione sotto la dittatura, o sotto tutte le dittature, per meglio dire. Tutti sanno che la distorsione più grande della giustizia, la cosa che la rende impraticabile, è dare credito al denunciante ed esimerlo dall’apportare prove, scaricando sull’accusato l’onere di dimostrare la propria innocenza. Cosa semplicemente impossibile: se io affermassi che Rajoy e Fernández hanno assassinato una donna il 30 novembre, e non avessi l’obbligo di dimostrarlo perché quello che dico gode di «presunzione di verità», qualora il presidente e il ministro non avessero un alibi per quella data e venissero invitati a provare di non aver ucciso quella donna, vorrei proprio sapere come ci riuscirebbero. Dimostrare che non hai fatto qualcosa se si parte dall’idea che invece lo hai fatto è assolutamente impossibile. È la giustizia al rovescio e la negazione della giustizia, la stessa che imperava ai tempi di Franco, quando un «grigio», come venivano chiamati un tempo in Spagna gli sbirri, poteva arrestare chi gli pareva perché non gli piaceva il suo aspetto, e accusarlo impunemente della malefatta che preferiva.
Ma attenzione: a tutto questo si aggiunge il fatto che con la nuova legge verranno punite anche la registrazione e diffusione di foto o immagini di poliziotti «che costituiscano dileggio nei loro confronti o prefigurino rischi di qualsiasi genere per la sicurezza». E dato che saranno gli stessi poliziotti a decidere quando c’è dileggio o rischio, di fatto verrà sanzionata la registrazione e utilizzazione di qualunque immagine di agenti, e quindi i denunciati non potranno dimostrare la loro innocenza nemmeno facendo ricorso a documenti visivi. Prendiamo un caso recente, quello degli otto mossos d’esquadra (la polizia regionale catalana), che a Barcellona hanno pestato in massa l’imprenditore Benítez, provocandone la morte. Nonostante una poliziotta si sia presentata più tardi a casa di un’abitante del quartiere obbligandola a cancellare quello che aveva filmato con la sua telecamera, sono venute fuori altre registrazioni in cui si vedono otto valorosi massacrare di botte l’imprenditore («contenerlo», per usare la loro terminologia). Questo presunto omicidio è stato definito dal capo deiMossos, Prat, «una condotta più o meno corretta», e il conseller all’Interno del Governo catalano, Espalder, lo ha spalleggiato.
Immaginatevi quindi che ne sarebbe stato di quest’episodio se non fossero esistite immagini: i coraggiosissimi mossos avrebbero potuto godere della «presunzione di verità», avrebbero potuto inventarsi una fandonia a piacere(che l’imprenditore aveva impugnato un mitra, che era Hulk ed era diventato tutto verde e aveva attaccato da solo gli otto sbirri mettendoli in grave pericolo), e andarsene a casa tutti tranquilli. E forse ci riusciranno comunque, nonostante tutto.
La nuova legge per la sicurezza del cittadino invaliderà qualunque immagine di agenti di polizia che delinquono, commettono abusi, trascendono. Fotografarli o filmarli mentre commettono eccessi o reati sarà una violazione punita dalla suddetta legge, che li proclama onesti, veritieri, immacolati e infallibili per definizione. Di fronte a simili angeli per decreto, è evidente chi saranno i colpevoli e i bugiardi in qualunque controversia con loro: i cittadini indifesi. Questa legge rappresenta il ritorno definitivo del franchismo spudorato, come non avessimo già abbastanza indizi.
(© El Pais-la Repubblica. Traduzione di Fabio Galimberti)

La Stampa 17.12.13
Abuso di potere
A Pechino cadono gli ex intoccabili
Arrestato Zhou Yongkang, era ai vertici del Politburo
di Ilaria Maria Sala


Manca solo la conferma pubblica delle autorità cinesi, ma ormai si tratta di un segreto di Pulcinella: Zhou Yongkang, l’ex capo della Sicurezza cinese, è agli arresti domiciliari dall’inizio di dicembre, e il numero di persone disposte a confermare in maniera ufficiosa questo sorprendente sviluppo della campagna anti-corruzione orchestrata dal presidente cinese Xi Jinping è sempre più alto.
Ieri il «New York Times» ha pubblicato un articolo che cita una serie di fonti che ripetono quello che ormai da settimane diventa sempre più sicuro: uno degli uomini fino a poco tempo fa più potenti della Cina è stato dapprima al centro di un’inchiesta e ora è agli arresti domiciliari, insieme alla moglie, Jia Xiaoye, sorvegliato a vista da guardie che probabilmente fino a poco tempo fa prendevano ordini da lui.
Nato nel 1942 a Wuxi, vicino a Shanghai, Zhou Yongkang diventa dunque il membro di grado più alto del Politburo, attivo o in pensione, ad essere sottoposto un’inchiesta giudiziaria e, soprattutto, a venire arrestato, spezzando un tabù rimasto inviolato dal 1949, da quando il Partito Comunista Cinese giunse al potere dopo la guerra civile contro i Nazionalisti di Chiang Kai-shek.
La parabola di Zhou lo vede uomo di Partito fin dal 1964, ma la sua carriera inizia a decollare con la Rivoluzione Culturale, subito dopo che Zhou consegue la laurea all’Istituto del Petrolio di Pechino, diventando ingegnere esperto in perizie geofisiche ed esplorazioni. Lavora con i gruppi petrolieri cinesi fin dagli inizi, con posizioni sempre più importanti, poi, nel 1996, diventa il direttore generale della China National Petroleum Corporation, uno dei colossi cinesi del petrolio. Solo nel 2003 passa dall’essere «uomo del petrolio» a ministro della Sicurezza pubblica. Sono gli anni in cui la Cina si prepara a ospitare i Giochi Olimpici di Pechino e sotto Zhou l’apparato di sicurezza si espande e acquisisce sempre maggiori poteri: nulla di imprevisto deve succedere mentre gli occhi del mondo sono rivolti verso la Cina, e Zhou allarga le capacità di controllo e di sorveglianza. Sotto di lui, la polizia acquisisce sempre maggiori poteri e una crescente indipendenza dal Partito stesso, grazie anche alla presenza di Zhou al Politburo, il cuore del potere cinese.
Con l’arrivo di Xi Jinping però, e della sua volontà di un ritorno ad un potere maggiormente accentrato nelle mani del Presidente, ecco che un dipartimento di sicurezza troppo forte e tracotante non è più accettabile: Xi elimina dal Politburo il posto del capo della Sicurezza, ma questo gesto ancora non sembra diretto in modo specifico contro Zhou, lasciato andare in pensione senza problemi apparenti. Poi, invece, dopo che l’ex segretario di partito di Chongqing, Bo Xilai, viene condannato all’ergastolo l’estate scorsa, ecco che piano piano cominciano a correre voci incontrollate sul conto di Zhou Yongkang stesso: sotto inchiesta per corruzione e abuso di potere, proprio come Bo. E nella mega inchiesta sarebbero coinvolti anche il figlio, Zhou Bin, e Jiang Jiemin, il successore di Zhou alla Cnpc, la China National Petroleum Corporation, ora rimosso dalla Commissione di supervisione e amministrazione delle aziende di Stato (che comprendono ovviamente anche la Cnpc e gli altri gruppi petroliferi cinesi).
Chi credeva che il processo a Bo Xilai fosse stato il momento più difficile nella vita politica cinese, dovrà ricredersi: se Zhou si troverà a dover rispondere delle proprie azioni in un’aula di tribunale il futuro potrebbe riservare nuovi momenti di alta drammaticità.

La Stampa 17.12.13
La tagliola anti-corrotti di Xi per salvare il Partito unico
In un anno 160mila funzionari puniti e big nel mirino
di Alberto Simoni


Pechino. Quando arriva la domanda su Bo Xilai, «l’untore» del sistema, Cui Shaopeng prima sorride a denti stretti, poi, didascalico, sentenzia: «Il caso Bo Xilai è stato per la prima volta studiato qui, poi quando abbiamo capito che i capi d’imputazione contro di lui erano più gravi, abbiamo passato l’intero faldone alla magistratura». Il finale è storia nota, il potente «ras» di Chongqing è stato condannato (in agosto) all’ergastolo per corruzione e abuso di potere; addio sogni di entrare nel Politburo per contrastare Xi Jinping
DENUNCE FACILI
Basta una telefonata, un sms o una e-email per mandare un burocrate sotto inchiesta
suo rivale diventato presidente e addio alla libertà. E il suo è solo il più eclatante dei casi usciti dalla pancia della Cina di recente.
I destini dei potenti cinesi e degli sherpa del partito (in Cina sono 85 milioni gli iscritti al Cpc) si giocano in un palazzone austero e anonimo nel cuore di Pechino. Per finire sul libro nero del partito basta una telefonata (al 12388), un sms, una segnalazione via e-mail, un fax o una lettera di denuncia. Il funzionario che ci accompagna nella visita fra stanze linde e dipendenti sorridenti non smette di elencare le cinque modalità con cui la gente denuncia i leader comunisti ad ogni livello. I cittadini (non valgono le denunce anonime, così ci dicono) indicano l’usurpatore, poi si apre l’inchiesta; quindi «l’imputato» è chiamato a presentare la sua difesa (sui metodi con cui questo può contestare l’accusa però i dettagli scarseggiano) e se colpevole di aver arraffato qualche soldo, di aver chiesto un favore per far avanzare una pratica, di aver intascato una bustarella, di abuso di potere, insomma se reo di aver infangato il buon nome del Partito, finisce espulso. O peggio, anche se già essere cacciati con ignominia dal Cpc equivale a una sentenza di «morte». Politica ed economica almeno. Di questa macchina inquisitrice, una sorta di commissione etica o di controllo sul partito (ufficialmente Commissione Centrale per le ispezioni disciplinari, Ccdi), Cui Shaopeng è il volto pubblico. Snocciola numeri con rapidità e precisione. Nel 2012 160mila persone sono state punite a ogni livello, più 12,5% rispetto al 2011. Bo Xilai guida la lista dei 960 casi gravi, quelli spediti di fronte alla magistratura. Quest’anno il furore almeno a livello centrale è meno forte: 17mila casi aperti fino a settembre, 3700 punizioni. Ma l’elenco dei potenti finiti nelle maglie della giustizia interna sotto il corso di Xi è lunghissimo e di primissimo piano: da Bo Xilai a Zhou Yongkang, passando per Xu Suning, vice segretario comunista a Nanchino. E poi centinaia di piccoli ufficiali, volti del Cpc a livello locale. Silurati in nome di quella trasparenza e intransigenza che Pechino ritiene fondamentale per garantire al Partito il potere. Xi Jinping ha rafforzato le strutture di controllo, ha dato risalto e continua a enfatizzare soprattutto sui media i risultati della lotta alla corruzione. Che è diventata quasi la vetrina della Cina.
Qualcuno bolla questa caccia al corrotto (soprattutto quando sono pesci grossi) come faida fra fazioni rivali nel Cpc, altri come una sorta di istinto di conservazione. Più il partito si mostra trasparente, puro, integro eticamente più potrà fare il bene della Cina, è il leitmotiv che analisti, professori, funzionari di partito (ci mancherebbe) ripetono. È la democrazia in salsa cinese. Che non ammette elezioni e nessun «Dio» fuori dal Partito affidandogli invece poteri taumaturgici, ma che consente a tutti i cittadini di prendere la cornetta e additare il capo locale del partito come corrotto.
Shen Ke Quin, boss del partito a Nanchino abbonda nell’uso della parola democrazia. «Se la gente ci dice che qualcosa non funziona, noi ci adoperiamo per risolvere il problema, questa è una socialdemocrazia». Suona un po' strano. Ma la Cina di Xi Jinping pare ci creda veramente.

Repubblica 17.12.13
Siria, l’appello dell’Onu “Catastrofe senza precedenti ora il mondo intervenga”
Milioni di civili alla fame. Strage ad Aleppo, morti 28 bambini
di Alix Van Buren


È LA più grave crisi umanitaria nella storia moderna. Non si ricordano altre guerre, disastri naturali o causati dall’uomo in tempi recenti dove più della metà di un popolo abbia perso tutto, come in Siria. Il Paese va spopolandosi dei civili in fuga: entro il 2014 i tre quarti dei siriani,16,8 milioni di persone, avranno più niente. «Nemmeno la crisi in Ruanda, neppure lo tsunami del 2004 hanno provocato tanto»: l’Onu a Ginevra lancia un appello «senza precedenti come non ha pari l’immensità della catastrofe umanitaria». Uno studio dell’International Rescue Committee — fondato da Einstein per i tedeschi vittime del nazismo — avverte che il popolo è alla fame, molti bambini «gravemente denutriti». Affiora un quadro medievale dove il “nulla” si declina in niente o poco pane, a prezzi quintuplicati; niente cibo, nemmeno elettricità e perciò nessun riscaldamento, né medicinali, né carburante, spesso neppure casa e lavoro. A questo s’aggiunge la tempesta“Alexa” venuta a infierire con ghiaccio e neve sulle esili tende in plastica. «La situazione è terrificante e supera ogni cosa vista in molti, molti anni», dice Guterres, l’Alto commissario. «I siriani credono che il mondo li abbia dimenticati », incalza la baronessa Amos, vicesegretario per gli affari umanitari.
Il Palazzo di vetro reclama 4,7 miliardi di euro, oltre alla quota chiesta in giugno, per un totale di 9,4 miliardi. Sollecita le nazioni ricche a versare la loro parte. Il pungolo è rivolto ad Arabia Saudita e Qatar, assai generosi nel fornire armi ai combattenti, e però sordi alle emergenze dei civili, tanto che l’Onu lamenta di non avere ottenuto un solo centesimo dai monarchi del Golfo.
Un secondo, formidabile ostacolo è nella distribuzione: milioni di civili sono bloccati nelle zone dei combattimenti. Alla vigilia della Conferenza di Ginevra 2, c’è un’impennata di violenza, fra le più cruente. L’aviazione siriana ha fatto almeno 76 morti, fra cui 28 bambini, nei raid sui quartieri ribelli di Aleppo. Sul fronte opposto, due gruppi jihadisti ad Adra, un sobborgo di Damasco, hanno ucciso almeno 120 persone, per lo più accoltellate o arse nelle case e nei forni del pane, in gran parteimpiegati statali sunniti; e decapitato 39 alauiti, le teste esposte al mercato. Una famiglia alauita, gli Hassan, si è fatta esplodere con tre granate per sottrarsi ai jihadisti.
«Ogni giorno le immagini raccontano una guerra sempre più crudele», interviene Fra Pizzaballa, il Custode di Terra Santa. «Come dice Papa Francesco, quante sofferenze dovranno essere ancora inflitte prima che si trovi una soluzione alla crisi?». Fra Pizzaballa invoca aiuti concreti: i dispensari dei conventi sono diventati un luogo di rifugio per tutti: alauiti, sunniti, cristiani o ribelli e governativi. «Dobbiamo soccorrere migliaia di persone che hanno perso tutto: persino la speranza ».

Corriere 17.12.13
I compagni che sbagliavano


È fondamentalmente il racconto di una grande passione. Oltre che di un’estrema Resistenza. La descrizione dettagliata di un mondo, di una comunità umana e politica: quella di quei comunisti, ex partigiani, che scesi dalle montagne inseguivano il mito della rivoluzione.
E allo stesso tempo, di fronte alle macerie della guerra, davano prova, lì dove governavano, di grande capacità e coraggio nella ricostruzione del Paese, attraverso cooperative e piani regolatori. Ma è anche la metafora di una certa sinistra in bilico tra purezza e radicalità dell’ideale e concreta pratica dell’amministrazione. Stordita nello scoprire di volta in volta alleati o quasi, quelli che, nel clima della Guerra fredda, dovevano essere, e dal loro punto di vista di militanti erano, i nemici dichiarati.
Il Rivoluzionario (edito dalla editrice Frassinelli, pagine 468, e 18,50) — il bel libro di Valerio Varesi, giornalista e scrittore, autore dei racconti del commissario Soneri dai quali è stata tratta anche un serie televisiva di successo — è ambientato a Bologna, il granaio del Partito comunista italiano, città dove la doppiezza togliattiana trovò una sua pratica tangibile.
Siamo nel 1945, le vittime del nazifascismo vogliono giustizia, reclamano, qui come altrove, la cacciata dei rappresentanti del vecchio regime dalle istituzioni: «Questi ci fottono un’altra volta». Si spara, ancora, nelle terre d’Emilia. Dove, com’è noto, nella furia della vendetta cadono anche vittime innocenti.
Il partito, che pure aiuta i «compagni che sbagliano» nascondendoli oltre confine, invita alla prudenza. Alla pazienza. Mentre la piazza ribolle e si consumano violenti scontri con la polizia. Il sindaco Dozza, da Palazzo d’Accursio, media e punta tutto sulla ricostruzione: i nuovi quartieri, la Fiera, la tangenziale.
Il compagno Oscar Montuschi, ex combattente partigiano, non ci sta: vede via via più sfuocato l’ideale della Liberazione. Non gli basta più il lavoro nelle cooperative, che anno dopo anno si ispirano più marcatamente (anche) a criteri di mercato.
Non comprende il dialogo con i cattolici. La ricerca di una pratica di governo. La sua piccola storia, dalla carriera nella «Federazione più potente del comunismo occidentale», alla scuola di partito a Mosca e all’impegno diretto con i movimenti rivoluzionari, si intreccia con quella dell’Italia, attraverso il terrorismo di destra e di sinistra, la strategia della tensione e il movimento studentesco, fino alla strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980.
Il racconto procede avvincente, ma nella testa di Oscar Montuschi non c’è mai spazio per un dubbio: o il Rosso o il Nero. Eppure nei titoli di coda, quando i compagni di un tempo, orfani di tutto, si ritrovano a lavorare con i preti di strada, gli ideali di solidarietà e uguaglianza resistono ancora.

Corriere 17.12.13
Kandinsky
Dal folklore russo alla libertà totale delle linee:
il pioniere dell’astrattismo rappresentò il suo universo privato e reagì alla tragedia della guerra
di Francesca Montorfano


Un viaggio «spirituale» in Europa La danza del colore La suggestione è fortissima. Ad accogliere i visitatori, nelle sale di Palazzo Reale, è un’esplosione inaspettata di forme e colori, di invenzioni, di motivi lirici e geometrici insieme che paiono muoversi liberamente, quasi fluttuare sul fondo nero dello spazio dipinto, trasmettendo il loro fluido energetico agli e spettatori, coinvolgendoli in un’esperienza unica, sorprendente. La stessa fascinazione che il giovane Kandinsky dovette provare entrando in quelle «case delle meraviglie», in quelle izbe contadine russe dove ogni parete, ogni arredo era decorato con immagini multicolori, facendolo sentire completamente avvolto dalla pittura.
Ha inizio proprio dai grandi pannelli ricostruiti in occasione dell’apertura, nel 1977, del Centre Pompidou, sulla base dei guazzi ideati da Kandinsky per la decorazione del salone della Juryfreie Kunstausstellung (una mostra che si tenne a Berlino dal 1911 al 1930) questa importante monografica milanese curata da Angela Lampe con la collaborazione per l’Italia di Ada Masoero, ricca di oltre ottanta opere, dipinti a olio, acquerelli, litografie, disegni, provenienti dal prestigioso museo francese, a cui furono donati dalla moglie del pittore, Nina Kandinsky. «Una rassegna di straordinario interesse, che consentirà di seguire l’intera parabola artistica di Kandinsky, nato in Russia, diventato tedesco, morto cittadino francese. Che ripercorrerà quel suo viaggio durato una vita tra le grandi capitali culturali europee, evidenziando quegli stimoli, quegli incontri ed esperienze che in ogni paese hanno contribuito a plasmarne il linguaggio, completandosi e fecondandosi a vicenda, formando “l’accordo di base” della sua poetica — ha sottolineato Angela Lampe —. Sarà l’occasione per rileggerlo in modo nuovo, più organico e completo, dagli inizi della sua attività alle ultime opere, anche quelle meno conosciute, cogliendo la sua straordinaria capacità di rinnovarsi in ogni contesto».
Ha già trent’anni Vassily quando decide di studiare pittura in Germania, dando inizio a quell’avventura che ne farà una figura di primissimo piano sulla scena dell’astrattismo. Ma anche a Monaco di Baviera come a Berlino o nel piccolo paese di Murnau mantiene i contatti con la madre patria, portando nelle sue opere l’eco delle fiabe medievali e del folklore russo, avvicinandosi alle esperienze simboliste nella ricerca di uno spiritualismo nuovo, di una dimensione più elevata dell’arte, intrecciando musica e pittura, suoni e colori. In un primo tempo affascinato da impostazioni ancora tardo impressioniste e dal decorativismo Jugendstil, Kandinsky inizia ora a dipingere paesaggi a campiture piatte, dai colori vivaci, antinaturalistici, vicini a quelli dei fauves e degli espressionisti. È’ l’inizio di quel percorso che lo porterà alla conquista della libertà più assoluta della linea e del colore, in un progressivo allontanamento dal reale, dalla rappresentazione del dato oggettivo, come in Improvvisazione III del 1907 o in Quadro con macchia rossa, che vede la forma ormai sciogliersi nel colore. Sono questi gli anni in cui insieme a Franz Marc e a Paul Klee dà vita all’avventura del «Cavaliere Azzurro» e scrive «Dello spirituale nell’arte», anni densi di sperimentazioni e di capolavori che traducono in immagini astratte il suo mondo interiore.
Una fase della sua vita si sta tuttavia concludendo. Russo in terra tedesca, allo scoppiare della guerra Kandinsky deve ritornare in patria, da cui si allontanerà solo nel 1922, invitato da Walter Gropius a insegnare al Bauhaus. La sua pittura si fa adesso più intellettuale, più controllata e rigorosa, mentre la tematica dei colori fondamentali, da sempre al centro della sua indagine, viene studiata in relazione alle forme geometriche del triangolo, del quadrato e del cerchio, diventando l’elemento fondante delle sue opere, di «Giallo-Rosso-Blu» con il suo straordinario dinamismo grafico e i colori primari integrati dal verde, dall’arancione e dal viola, di «Accordo in rosa» o del celeberrimo «Sviluppo in bruno», dove fragili forme triangolari si muovono verso l’alto in uno spazio luminoso tra due masse scure. Ma, con l’arrivo dei nazisti, l’artista è costretto a emigrare di nuovo, a Parigi, ultima tappa del suo viaggio. E nella capitale francese, a contatto con le ricerche dei surrealisti il suo linguaggio si trasforma ancora mentre le sue composizioni si fanno più sciolte, più gaie e animate, lasciando entrare nuove forme biomorfe, schiarendo la tavolozza alla limpida luce parigina. E sarà il poetico «Azzurro cielo» del 1940, con la magia di quel caleidoscopio di forme e animaletti che galleggiano in un mondo sereno, la risposta del pittore alla tragedia di una nuova guerra.

Corriere 17.12.13
Con la poesia ha dato voce ai misteri più intimi delle tele
di Roberta Scorranese


Tutta l’opera di Vassily Kandinsky è attraversata da un sentimento vivo, riconoscibile, palpabile: l’insoddisfazione. Mai sazio, prese i colori delle sue terre d’origine e ne fece astrazione: punti, linee, superficie. Ma non era ancora abbastanza: l’arte non riesce a riprodurre, diceva, «l’ora più bella delle giornate di Mosca». Non era solo una questione di stile o genere: la pittura, da sola, non era sufficiente a raccontare quel mondo che giocava a dadi con la guerra, con le rivolte sociali.
E così, quando (esattamente cent’anni fa) Kandinsky scrisse la sua prima raccolta di poesie, la intitolò Suoni perché in lui la sinestesia non era soltanto una forma retorica: era una poetica precisa. Dipingere e scrivere versi, comporre musica o imbastire riflessioni teoriche, erano semplicemente la stessa cosa.
Siamo nel 1913, l’anno in cui Luigi Russolo firmò il Manifesto Futurista dei Rumori ; l’anno in cui, per la prima volta, Marcel Duchamp utilizzò il termine «ready made» indicando la sua celebre ruota di bicicletta e lasciando sottintendere: questo oggetto non è solo un oggetto, è un oggetto .
«Una rosa è una rosa è una rosa», scriveva in quell’anno Gertrude Stein nel poema Sacred Emily , traducendo in poesia (appunto) lo spirito di quell’epoca, quando a Vienna soggiornavano sia Hitler che Stalin e il mondo avvertiva di essere sull’orlo di «qualcosa».
Ecco perché la poesia di Kandinsky non è solo poesia: è, insieme, suono, colore, gesto, linea, punto, superficie. «Sinistra, in alto nell’angolo, un puntolino/ destra, nell’angolo in basso, altro puntolino/ E al centro niente di niente (...)» recita un poema breve. Tre capoversi in cui troviamo un punto, un angolo, un centro e il nulla. Come nelle sue composizioni astratte, dove la materia si decompone in un’inafferrabile costellazione di segni, a volte opposti.
Ma non solo nelle poesie. Anche nei suoi scritti più squisitamente teoretici (a cominciare dal famoso Lo spirituale nell’arte , terminato in Baviera nel 1910) Kandinsky si esprime in un linguaggio che di per sé è una dichiarazione di intenti: evocativo, poetico. Non è un vezzo: tra i suoi ispiratori, Kandinsky ha citato il pittore preraffaellita Dante Gabriel Rossetti e ha stretto amicizia con i poeti simbolisti tedeschi Karl Wolfskehel e Stefan George. Accostando suoni e segni grafici, rumori e figure geometriche, non farà altro che ricreare quella stessa dinamica spirituale che è così presente nel suo lungo lavoro sulla tela.
«Non volevo altro che creare sonorità», dirà a proposito delle sue raccolte di poesia. Che non si limiteranno alla parola scritta, ma che verranno accompagnate da xilografie (incisioni). Dieci anni prima, nel 1903, aveva realizzato una serie di «Poesie senza parole», piccoli poemi visivi in cui l’artista recuperava la tecnica dell’acquaforte. Il suono è fisico, le figure si ascoltano e i colori prendono forma.
Ecco il «cuore» della scrittura di Kandinsky, alimentato da quelle stesse «corrispondenze» che attraversavano i versi di Baudelaire e da quelle visioni così precise di Rimbaud. Non è il mondo onirico dei Surrealisti, nè quello «sovversivo» dei Dadaisti. Nonostante questo, in alcune delle serate al Cabaret Voltaire di Zurigo, Hugo Ball scelse di leggere alcuni versi dell’artista che «cercava il suono».

Corriere 17.12.13
Gli amori inquieti di un borghese noioso
Che alla fine scelse la «brava moglie»
Nina, più giovane di 34 anni, lo assecondava e si godeva la mondanità
di Francesca Bonazzoli


Più sensibile alle nevrosi di un borghese esemplare che a quelle di un artista d’avanguardia, Kandinsky teneva lo studio in ordine e pulito come la sua persona sostenendo che «Sopportare la sporcizia nel proprio atelier dimostra il cattivo gusto di un pittore. Io potrei dipingere in smoking».
Non s’interessava di politica e si vantava di non leggere i giornali; era religioso quanto basta per santificare le feste e fu sempre molto superstizioso. Alle feste del Bauhaus non ballava mai, ma si compiaceva dell’eleganza della giovane moglie. Era insomma un tipo piuttosto noioso, tranne che, inaspettatamente per tale personalità, nella vita sentimentale. Ebbe infatti due mogli e un’amante che visse con lui more uxorio prima del divorzio. E dire che la vicenda della scandalosa Anna Karenina era stata scritta solo dieci anni prima della nascita di Kandinsky, venuto al mondo nella Russia ancora zarista.
La prima moglie si chiamava Anja Cimiakin ed era la figlia della zia presso cui Kandinsky andò ad abitare durante gli studi di scienze economiche e diritto a Mosca. Anja era colta e intelligente e frequentava l’Università come libera auditrice poiché le donne che seguivano i corsi regolari erano rare e considerate eccentriche. Sposò Kandinsky nel 1892 ed era pronta ad appoggiare la carriera del marito cui, nel 1896, fu offerto un incarico di professore. Senonché i progetti di Vassily erano nel frattempo cambiati: aveva deciso di trasferirsi a Monaco con l’intenzione di dedicarsi all’arte.
A trent’anni, dopo dieci di studio del diritto, ritornava sui banchi di una scuola di pittura privata e poi si iscriveva all’Accademia nella classe di Franz von Stuck. Nel 1901, dopo aver terminato gli studi, fondò l’associazione Phalanx con lo scopo di offrire occasioni espositive ai giovani artisti e corsi anche per le donne. È così che entra in scena Gabriele Münter. La giovane allieva diventa la compagna dell’artista e pare che Anja abbia reagito dicendo a Kandinsky: «Sono sicura che non sarai felice con Gabriele. Comincia col vivere insieme a lei e se continui a credere che questa donna sia fatta per te, ti darò il divorzio».
Anja lo concesse solo nel 1911, ma aveva visto bene. Nel frattempo Wassily e Gabriele, per salvare le apparenze della loro relazione more uxorio , viaggiarono molto e comprarono una casa nelle Alpi bavaresi, a Murnau dove Kandinsky gettò le fondamenta dell’almanacco Blaue Reiter, concepito come un veicolo di guarigione, esorcismo e salvezza, intraprese la via dell’astrattismo e scrisse il manifesto Lo spirituale nell’arte . La relazione con la volitiva Gabriele procurò però al pittore molte tensioni al punto che dovette farsi ricoverare in una clinica svizzera, ma lei si ostinava a non interrompere la relazione. Ci penserà la guerra: nel 1914, Kandinsky fu obbligato a lasciare la Germania entro 24 ore. La coppia partì portando con sé anche Anja, ma Gabriele non li seguì fino a Mosca e solo l’anno dopo rivide Vassily a Stoccolma, per l’ultima volta. Nella vita dell’artista stava per entrare un’altra donna: Nina von Andreevskij, aristocratica, giovanissima (16 anni lei, lui 50), finalmente perfetta per il borghese Kandinsky. «Una donna che ama davvero un uomo deve saper mandare avanti la casa e cucinare bene: deve scomparire davanti a lui ed essere disposta a fare molte concessioni per permettergli di sviluppare il suo lavoro senza problemi. È quello che ho fatto: ecco perché abbiamo formato una coppia felice», così Nina si descrisse nell’autobiografia.
Si comportò da brava moglie, assecondando tutte le decisioni del marito, godendosi la vita mondana che lui le offriva, ma senza tramare, come faceva invece Alma Mahler. Si occupò di tutte le noie e le incombenze economiche e lui la ricompensò con l’appellativo di «il mio ministro degli Interni».
Dopo la morte del marito visse altri trentasei anni a Parigi e fu uccisa nella tranquilla cittadina svizzera di Gstaad. Secondo Pontus Hulten, l’allora direttore del Beaubourg, forse le fu fatale una debolezza del suo animo russo: la passione per i gioielli, luccicanti e trasportabili in caso di fuga. Eventualità, questa, ben conosciuta da Nina e Kandinsky che, pur non essendo ebrei, avevano dovuto fuggire da un angolo all’altro dell’Europa devastata da guerre e rivoluzioni nel secolo appena trascorso.

Corriere 17.12.13
Schönberg, le note e le parole: storia di un’amicizia bruciata
di Enrico Girardi


Finisce male, perché non appena inizia a sentirsi guardato a vista, come ebreo, Arnold Schönberg affila armi dialettiche che dire pungenti è poco. E spara nel mucchio, spara all’impazzata, anche contro nemici che tali sono solo nella sua immaginazione. E così compromette definitivamente, se non una vera amicizia, un rapporto di collaborazione con Vassily Kandinsky, che era iniziato nel migliore dei modi e che avrebbe potuto produrre ulteriori e significativi esiti.
Si stenta a crederlo ma il destinatario/bersaglio di due lettere dure, ostili, che il compositore viennese scrive nel 1923 è proprio il pittore: «Se Lei accetta di porgere i miei saluti al mio ex amico Kandinsky — gli dice congedandosi —, Le affiderei molto volentieri l’espressione della più viva cordialità». E in un altro passo: «Della [Sua] benevolenza nei miei confronti non saprei che fare, neppure se volessi scriverla su una lavagnetta come un mendicante cieco e agganciarmela sul petto in modo che tutti possano leggerla. Un Kandinsky non dovrebbe rifletterci sopra? Può un Kandinsky condividere le opinioni degli altri (dei tedeschi, ndr ) piuttosto che le mie?». D’altra parte non sarebbe corretto interpretare la durezza di Schönberg senza tener conto che pochi mesi prima era stato invitato a sloggiare, perché ebreo, dalla località di villeggiatura dove si era ritirato a comporre. Da quel momento, chi non si schierava a difesa degli ebrei, per lui diventava un nemico. Kandinsky non meno degli altri. Che i due però fossero destinati ad avere a che fare l’uno con l’altro, era nelle cose. Mentre il pittore esponeva le sue rivoluzionare teorie pittoriche e l’estetica che vi soggiaceva, il musicista andava elaborando il metodo di scrittura atonale. Entrambi inoltre avevano subito il fascino del simbolismo e dello spiritualismo. Entrambi conoscevano e avevano apprezzato il lavoro e il pensiero di Aleksandr Skrjabin, il musicista che aveva associato le note ai colori secondo un vocabolario emotivo tutto suo.
E mentre Koussevitzky, ammiratore entusiastico di Skrjabin, ne dirigeva le composizioni a Vienna, presente Schönberg, Kandinsky ne divulgava le teorie a Monaco presso la sua cerchia di artisti. Tra questi, Thomas von Hartmann che insieme al «maestro» tentò la fusione suono-colore nel dramma «Der gelbe Klang» (Il suono giallo), da cui Schönberg rimase affascinato. Così, nel 1912, quando uscì l’Almanacco del gruppo, chiamatosi nel frattempo «Der blaue Reiter» (Il cavaliere azzurro), Schönberg, più giovane di Kandinsky di 8 anni e pittore a sua volta, fu invitato a collaborare. L’Almanacco conteneva pure un saggio di Hartmann sull’anarchia in musica e un articolo sul Prometeo di Skrjabin. Insomma, il tema del rapporto tra suono e colore era nell’aria. In più di una occasione, Schönberg espose le proprie tele con i pittori della cerchia, ricevendo da Kandinsky elogi e l’esortazione a continuare nella pittura.
Di tutto ciò l’eco più tangibile è infine nel lavoro di teatro musicale «Die glückliche Hand» («La mano felice»), un atto unico che Schönberg compose negli anni 1910-13 su libretto proprio e che è pervaso da una vena simbolista-espressionistica ancor più marcata che nella precedente «Erwartung».
Qui, per la prima volta nella musica occidentale, i colori sono scritti sulla partitura, sopra le note. La partitura reca cioè indicazioni sui colori che, attraverso l’uso delle luci, devono dominare ogni scena: il nero per la notte e la morte, il giallo per la lotta e l’attività, il blu per la felicità, il verde per la distruzione e l’annientamento.
Ma come era iniziata quell’amicizia poi rinnegata? Con un scambio di libri: omaggiato di una copia di Dello spirituale nell’arte , il musicista aveva ringraziando inviandogli il suo rivoluzionario Trattato d’armonia .

Repubblica 17.12.13
Kandinsky che liberò il colore dalla realtà
di Fabrizio D’Amico


MILANO Ogni incontro con l’opera di Vassily Kandinsky – come quello della mostra che apre oggi a Milano (al Palazzo Reale, a cura di Angela Lampe e Ada Masoero, fino al 27 aprile 2014) con un centinaio di opere in arrivo dal Centre Pompidou di Parigi – è denso di una sorta di rassicurante emozione; e appaga, come pochissimi altri incontri con la pittura moderna sanno fare, il nostro bisogno di possedere una certezza, il nostro desiderio d’assoluto. Ed è del tutto comprensibile e quasi ovvio che questo sentimento di pienezza discenda da uno degli uomini che all’arte visiva hanno donato per primi quella dimensione astratta, libera dal vincolo dell’imitazione, nella quale s’è per lo più riconosciuta, nel XX secolo, la possibilità di toccare – appunto – un termine assoluto.
È molto più singolare il fatto che a donarci quel sentimento d’appagamento, di confidenza, di fiducia sia stato l’artista che ha dubitato a lungo, e per tutta la sua stagione più alta, della verità di quel termine che aveva saputo raggiungere. Fu lo stesso Kandinsky, infatti, che, scovata per primo la gioia insita nella nuova libertà, avrebbe scritto (con intuizione se possibile ancora più profonda) che fra “grande astrazione” e“grande realismo” non poteva correre una gerarchia, ma solo, a orientare infine la scelta, doveva intervenire “il desiderio interiore dell’artista”.
Parole che ci vengono proprio da colui che aveva indirizzato infine il suo “desiderio” verso una totale indipendenza dal referente di natura: quando, dopo aver a lungo cercato la sua immagine in unterritorio di confine tra una forma interamente astratta e un’altra densa ancora di memorie figurali, aveva scelto infine per sé la definitiva «possibilità di non vedere negli oggetti soltanto la loro pura e dura materialità, ma anche ciò che è meno corporeo». I suoi spazi, da allora in poi – almeno per tutti gli anni Dieci, che sono i suoimaggiori – vorticanti, battuti da un vento che travolge ogni sintassi conosciuta, folgorati da un colore acceso, gioioso, imprudente (che fa adesso tesoro di Matisse assai più delle conquiste del primo espressionismo tedesco, da cui pure proveniva), sono un momento indimenticabile nella vicenda delle avanguardie d’inizio secolo: per quella capacità che egli ebbe di dar figura a quel groppo unito di sensi e di pensieri, di sogno e di urgenze esistenziali, che chiamò “lo spirituale dell’arte”, e che è il modo in cui tutte le ragioni della vita, e non solo le più nitidamente oggettivabili, si danno compresenti nell’immagine.
Arrivò con singolare ritardo a quel suo modo perfetto: nato nel 1866, era stato allievo e poi docente nella facoltà di Legge dell’università di Mosca prima d’essere folgorato, nel 1896, ad una mostra impressionista, da un quadro di  Covoni di Monet, in cui – dirà – gli sembrò di scorgere la scomparsa dell’oggetto raffigurato, annegato nella luce. È il primo incontro determinante con la pittura, e Kandinsky ha allora già trent’anni. Il decennio che segue è ancora un laboratorio, nel quale egli cerca anziché trovare: si trasferisce a Monaco, dove studia pittura con Franz von Stuck, espone nell’ambito di un’associazione da lui stesso fondata, incontra e si lega a Gabriele Münter, che gli sarà a lungo compagna e con la quale si reca infine a Parigi nel 1906, trattenendovisi un anno e conoscendovi tra gli altri Picasso e Matisse. Sono questi il luogo e l’anno decisivi: a far gemelle le due strade di Monaco e Parigi sta allora un concetto, quello di “sintesi”, che, d’eredità simbolista, è il pensiero cruciale che traversa e assilla l’arte deltempo: “sintesi” che dalla Brücke(prima formazione espressionista tedesca), a Jawlensky (già compagno di Kandinsky) e Marc, a lui stesso, si identificherà di fatto con una “semplificazione” della realtà da riprodurre sulla tela. Ridurre la realtà «a una sensazione dell’essenza delle cose», secondo quanto scriverà nel 1911 Gabriele Münter, diviene allora il suo obiettivo; toglierle la sua scorza di casuali accidenti, i suoi orpelli di canonica bellezza, e renderla, insieme, più nuda e più ricca di verità profonde, che lo sguardo non riesce a riconoscere nel mondo delle cose, e cerca altrove. Vive adesso fra Monaco e Murnau, una campagna dove Gabriele ha acquistato una casa, e lì dipinge piccoli quadri dove il paesaggio s’incanta di cento, accesi colori: «prati di azzurro stoviglia, giallo limone, rosa caramella; casette di zolfo con le finestre turchine; laghi blu di Prussia; montagne violette picchiettate di nero; cieli verdi e gialli come banane; boschi azzurri e staccionate arancioni», ha scritto su queste stesse pagine, tanti anni fa, Giuliano Briganti. La mostra d’oggi a Milano muove di qui: da questa eccitazione felice che, se non era proprio accademia – dopo Gauguin, i Fauves e gli espressionisti della Brücke – non era certo avanguardia. Ma Kandinsky, che aveva allora compiuto i quarant’anni, incubava altro: e subito dopo fece il passo che sarebbe stato decisivo per sé e per la pittura occidentale. Oggi esposto, Improvvisazione IIIè un gran quadro del 1909 in cui tutto sembra arrestarsi per miracolo in un bilico slittante fra racconto, lontane memorie di favole russe e autonomia del colore, che è infine il vero demone dell’immagine. Poco dopo la composizione “dimentica” del tutto la realtà di natura, e si fa integralmente astratta: è il 1911, l’anno in cui Kandinsky fonda con Marc il “Cavaliere azzurro” («entrambi amavamo l’azzurro, Marc i cavalli, io i cavalieri. Così il nome venne da sé»), conosce Paul Klee, e ascolta a Monaco la musica di Schönberg, con il quale inizia un lungo e profittevole rapporto d’amicizia. Nel ’14 rientra in Russia, e prosegue la sua stagione ove domina lo “spirituale”, fintanto che nel ’17, sorprendentemente, torna ad affacciarsi per breve tempo una figuratività fauve.
Poi l’incontro con il costruttivismo, benché foriero di dissapori con i suoi protagonisti, orienta Kandinsky a una maggiore geometrizzazione delle sue forme, nelle quali dai primi anni Venti (quando è chiamato da Gropius ad insegnare al Bauhaus) predominano la linea diritta, il cerchio, il triangolo, con influenze talvolta marcate di Klee. Con il pittore svizzero i rapporti rimangono intensi, almeno fin quando Klee non lascia il Bauhaus, mentre Kandinsky vi rimane sino alla chiusura della scuola imposta dal nazismo nel ’33. Kandinsky si trasferisce allora Parigi, dove vive circondato da un solido prestigio ma di fatto sempre più isolato. Muore nel ’42, quando la guerra è ancora in corso. L’attende una fama universale.

Senza titolo (1915); sopra, Gelb-Rot-Blau (Giallo-Rosso-Blu)(1925) Per tutte le immagini © Centre Pompidou, MNAM-CCI © Wassily Kandinsky by SIAE 2013

Repubblica 17.12.13
Quadri e teoria
Quando l’artista sapeva scrivere
I manifesti delle avanguardie che hanno segnato l’inizio del Novecento
di Giuseppe Dierna


Con l’inizio degli anni Dieci del Novecento si affaccia in pittura un nuovo tipo di artista che denuncia ormai come limitativo il semplice agire con tavolozza e pennelli. Serve la teoria. Si comincia col Manifesto dei pittori futuristi(seguito, da lì a poco, dal loroManifesto tecnico), ma è l’uscita nel 1911 dello Spirituale nell’artedi Vassily Kandinsky a segnare il discrimine. Quello che vi si prospetta non sono infatti solo notazioni tecniche o provocatorie, ma un più ampio discorso che vede le arti tutte legate assieme: un’intera filosofia. E l’anno successivo l’ulteriore mossa: due pittori, lo stesso Kandinsky e Franz Marc, danno alle stampe a Monaco l’almanacco Der Blaue Reiter(Il cavaliere azzurro), dove chiamano a collaborare ancora artisti figurativi: i russi Nikolaj Kulbin e David Burljuk (futuro firmatario dei primi manifesti futuristi russi), e August Macke, e Arnold Schönberg, all’epoca ancora pittore di taglio espressionista.
Kandinsky spiegherà le ragioni di quel gesto: «Marc e io c’eravamo buttati nella pittura, ma la pittura da sola non ci bastava. Ebbi allora l’idea di un libro sintetico che […] dimostrasse che il problema dell’arte non è un problema di forme ma di contenuto spirituale». L’artista diventa critico e divulgatore, organizzatore culturale (sono infatti i due redattori ad approntare le due mostre delCavaliere azzurro). E a marcare l’affermarsi di una diversa concezione, quando a Matisse fu chiesto di collaborare all’almanacco con un breve articolo, egli rifiuta: «Per scrivere — afferma — bisogna essere scrittori».
Altra visione.
Avviene così un fatto bizzarro.
Proprio nel momento in cui si sostiene — col pennello — la più totale autonomia del fatto pittorico, negando il soggetto e aspirando alla pura astrazione, alcuni pittori sentono l’ineludibile bisogno di accompagnare le loro pratiche con annotazioni teoriche esplicative che — come in Kandinsky — arrivano fino all’elaborazione di complesse teorie.
Si scrive con intenti diversi. Per sistematizzare gli spostamenti della propria concezione artistica, come farà ancora Kandinsky col successivo Punto e linea nel piano (pubblicato nel ‘26 nella collana dei «Libri del Bauhaus», accanto ai volumi di Paul Klee), e come il raggista Michail Larionov (presente, con Natalija Goncarova, alla Seconda mostra delCavaliere azzurro)che — ormai in Russia — difende nell’opuscoloRaggismo quella sua idea di una pittura che scaturisca «dall’intersezione dei raggi riflessi da oggetti diversi».
Per Malevic, altro reduce di quella Seconda mostra, è invece come se, giunto colQuadrato neroal grado zero della pittura («mi sono trasformato nello zero delle forme», scrive a Pietroburgo nel ‘15), lui dovesse in qualche modo riempire di teoria quel vuoto, anche se la linearità dell’esposizione non sembra affatto il fine a cui mira. Scriverà più tardi: «sembra provato che col pennello non si riesce ad ottenere ciò che invece si può con la penna».
E, accanto a quest’ansia di precisazione teorica, c’è nei vari Kandinsky, Chagall e Malevic anche un desiderio di immettere il loro sapere nei rinnovati canali della didattica. Li ritroviamo così a insegnare nelle scuole d’arte ristrutturate dopo il ‘18 all’ombra del Commissario alla cultura A. Lunacarsky.
Kandinsky stilerà anche il Programma per l’Istituto di Cultura Artistica di Mosca, che — benché non approvato per «eccesso di spiritualismo» (l’Istituto sta entrando nel dominio costruttivistico di Rodcenko) — giungerà nelle mani di Walter Gropius che sta mettendo su a Weimar il suo Bauhaus, dove il pittore passerà subito a insegnare.

Fragil (Fragile) (1931) Tempera su cartone

Repubblica 17.12.13
Una nuova edizione del “Monarchia”
Quando Dante immaginava l’Ipero come un Paradiso
di Massimo Cacciari


L’edizione del Monarchia di Dante, a cura di Paolo Chiesa e Andrea Tabarroni, recentemente pubblicata come IV° volume della nuova edizione commentata delle Opere,coordinata da Enrico Malato, non si segnala soltanto per la ricchezza di note e apparati, per alcuni interventi migliorativi del testo-base, per l’ampia introduzione generale e quelle, essenziali, alle singole parti del volume. Ma è notevole anche per la presenza di alcuni importantissimi “documenti” riguardanti la fortuna dello scritto dantesco, tra i quali ilDe reprobatione di Guido Vernani, radicale e filosoficamente nient’affatto sprovveduto attacco al Monarchia da parte del frate domenicano; il Commentarium al Monarchia di Cola di Rienzo, testimonianza della sua passione per la gloria di Roma, di un “culto” che Dante definisce nella sua portata teorica e da lì, anche proprio attraverso Cola, trapassa nell’Umanesimo; infine il “volgarizzamento” delMonarchia, steso dal grande Ficino, alla fine degli anni ’60 del ’400, non solo in funzione anti-repubblicana, ma per rivendicare Dante alla pia philosophiae cioè alla “catena aurea” del platonismo.
Interpretazioni o “fra-intendimenti” diversissimi, che non nascono soltanto dalle posizioni spesso incompatibili dei loro autori, ma proprio dalla novità e complessità dell’opera di Dante, soprattutto se letta insieme alla Commedia (come appare necessario fare, poiché certamente essa viene scritta in anni nei quali Dante è già tutto immerso, mente e cuore, nella stesura del poema). Della sua novità ,come per le altre sue opere, Dante è “superbamente” consapevole – e così dello scandalo che essa è destinata a suscitare. Malgrado le numerose citazioni da Agostino, riguardanti essenzialmente questioni intorno al metodo dell’esegesi, Dante non poteva non avvertire l’abisso tra la sua concezione della civitas hominis, la sua idea di Roma e di Impero, e quelle dell’intera tradizione patristica e dello stesso “aristotelismo” tomista. Da remedium o addirittura semplice solacium per l’infermità della nostra natura vulnerata dal peccato, in Dante l’Impero (e cioè la forma provvidenzialmente destinata a unire politicamente il genere umano), la cui idea stessa viene da lui proposta in termini puramente filosofico-scientifici, esclusivamente per philosophica documenta, è chiamato a assicurare autentica felicità terrena, a edificare l’autentico Paradiso terrestre. Da Babilonia, quale era per Agostino, Roma si trasforma in Roma celeste!
Ma nella Commedia questo Fine appare davvero ancora garantito dall’opera del solo Impero, nella razionale autonomia della sua forma? Questo l’enigma, su cui Chiesa e Tabarroni invitano ancora a riflettere. Virgilio, la prima guida di Dante, si arresta alla soglia del Paradiso terrestre, non vi entra e tantomeno potrebbe spiegarne i simboli; stupisce e basta sullo spettacolo che gli si rivela. È Beatrice a “far entrare” il poeta, e solo dopo che egli ha bevuto tutto l’amaro calice della confessione e del pentimento. L’architettura della Commedia, nei nessi costitutivi rappresentati dalle guide del poeta, segna una profonda discontinuità con quella del Convivio e delMonarchia. Come spiegarla? Amara delusione e disincanto dopo il fallimento delle ultime speranze, che ancora avrebbero animato l’opera politica? Ma ilMonarchiaè tutto fuorché uno scritto “militante”; provvidenziale appare a Dante il corso della storia, ed egli vuol esserne il profeta. In questo schema è inserita la gloria di Roma, modello di perfetto potere politico, di Impero. Ma è la forza ideal-eterna di questo disegno che finisce col rendere contraddittorio il famoso simbolo dei due Soli, Chiesa e Impero, perfettamente distinti nei rispettivi domini e nelle rispettive missioni. Se, infatti, il perfetto potere politico è concepibile soltanto in quanto voluto ab origine dal Signore, in quanto provvidenziale nel senso più proprio e più forte, la felicitas che esso promette è necessariamente subordinata a quella ultima, alla beatitudo celeste. E sembra essere questa, alla fine, l’indicazione che emerge dalla Commedia.
Dante rompe definitivamente con la teologia politica patristica e medievale, ma non è affatto anacronisticamente leggibile nel senso di Marsilio da Padova e della filosofia politica moderna successiva. L’Impero di Dante non sono iregna, o ormai potremmo dire gli Stati, che ha in mente Marsilio. Dante segna la grandiosa soglia tra due epoche – quella di un’idea del Politico che, pur nel rivendicare la propria razionale autonomia, lotta per non perdere ogni fondamento sacrale, e quella che ne risolve il significato e la missione nella immanente potenza delle sue leggi, nella positività del suo diritto. Per quest’ultima, che il Giustiniano imperatore di Dante trovi posto, e vera pace, solo in Paradiso diverrà il simbolo di un’epoca per sempre tramontata.

Monarchia di Dante Alighieri, a cura di P. Chiesa e A. Tabarroni Salerno, pagg. 600 euro 49