mercoledì 18 dicembre 2013

l’Unità 18.12.13
Lampedusa, vergogna d’Italia
Agghiacciante video del Tg2: immigrati in fila nudi al freddo per essere disinfestati
Federata alla Legacoop e recentemente ribattezzata «Nuova Lampedusa Accoglienza», gestisce quello che il Centro Astalli chiama ora «un lager».
Il titolare è del Pd, con un’altra società gestisce anche il Cara di Mineo, amico e collega di partito di Francantonio Genovese, il discusso armatore messinese del Partito democratico
di Rachele Gonnelli


Le immagini che arrivano dal centro dove sono stipati gli immigrati a Lampedusa di tutto raccontano tranne che di accoglienza. È un video amatoriale girato da uno degli «ospiti» quello che è andato in onda lunedì sera sul Tg2, un video-choc. Immigrati che si spogliano in un vicoletto tra mura di prefabbricati, al freddo, nudi, gli operatori buttano a terra gli indumenti intimi e loro in fila si sottopongono a un idrante anti-scabbia. Le donne non si vedono ma il video-amatore che li ha ripresi in anonimato spiega che anche a loro è stato riservato lo stesso trattamento. «Dai, dai» dicevano gli operatori senza tanti convenevoli. Sembra una scena d'altri tempi. Abu Ghraib, il carcere delle torture americane in Iraq, secondo alcuni, un campo di concentramento nazista secondo altri. La malattia della pelle, la scabbia, anche quella una malattia da segregazione dura di sicuro non l'hanno portata ma presa a Lampedusa. Così come i pidocchi i bambini. Questa è l'Italia per loro, dice il video-maker che risiede in quel centro da 65 giorni e aggiunge ci trattano sempre così, ogni giorno.
Gli ospiti, diciamo così anche se sarebbe meglio chiamarli internati, tre giorni fa quando sono state fatte le riprese erano 697 per una capienza massima di 250 posti. Il centro in contrada Imbriacola a Lampedusa non è un Cie, è un Cpas, un centro di prima accoglienza e soccorso, cioè dovrebbe servire solo per dare un'assistenza immediata, giusto le prime 48 ore. Ma c'è chi rimane lì per mesi prima di essere trasferito in una struttura più idonea fino al completamento delle operazioni di identificazione che, secondo il decreto fatto dall'ex ministro Maroni possono durare fino a 18 mesi, un'eternità. Tra gli internati, in maggior parte senza neanche un giaciglio e un tetto sulla testa, ci sono anche alcuni dei sopravvissuti al
naufragio del 3 ottobre scorso, quando l'Italia intera ha pianto. Sono passati due mesi e mezzo e sono ancora lì, tra pioggia, scabbia e coperte di carta. Se allora quella strage, quei 366 corpi annegati senza un soccorso fu una vergogna nazionale ora non viene di meglio da pensare che siamo a una vergogna al quadrato. Ed è così che la sindaca dell’isola, Giusy Nicolini, l’ha chiamata di nuovo: «Questo modello di accoglienza è una vergogna per i lampedusani -
ha detto e l’Italia deve vergognarsi». Le associazioni antirazziste e dei diritti civili tutte esprimono tutta la loro indignazione, incluso la Croce Rossa a Medici Senza Frontiere. «La verità è che in Italia non esiste un vero sistema di accoglienza ai rifugiati dice la presidente dell’associazione Lunaria Grazia Naletto che chiede alle forze politiche di pretendere che il governo riferisca in Parlamento sulla vicenda e le violazioni dei diritti umani sia nei Cie, sia in centri come questo e anche nei Cara, sono all’ordine del giorno probabilmente, solo che non abbiamo la possibilità di sapere cosa succede lì dentro se non in casi come questo in cui qualcuno filma dall’interno gli abusi». Ieri dal palco di una iniziativa contro il lavoro nero e il caporalato in agricoltura anche Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, ha parlato del video trasmesso dal Tg2. «Quanto accaduto a Lampedusa ha detto è di una gravità straordinaria, che si disinfettino le persone nude in mezzo al campo non mi pare sia una prova di civiltà». Anche lei ha chiesto di rivedere la legislazione sull’immigrazione.
Il viceministro dell'Interno, Filippo Bubbico si è detto meravigliato e mortificato da quelle immagini. «Questa è una condizione inaccettabile, umiliante per noi prima che frustrante per questi esseri umani». Il deputato Pd Khalid Chouqui, al quale si aggiungono altri del suo partito come Sandra Zampa, annuncia una dura interrogazione parlamentare al ministro Angelino Alfano perchè accerti le responsabilità dei trattamenti disumani. Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti Umani chiede sia rispettato il capitolato d’appalto nella gestione del centro e che le disinfestazioni rispettino la privacy.
L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati,l’Unhcr, chiede al governo italiano «soluzioni urgenti» per migliorare gli standard di accoglienza che trova «inaccettabili». Anche l’'arcivescovo di Agrigento, monsignor Francesco Montenegro, presidente della Commissione episcopale per le Migrazioni della Cei e di Migrantes, chiede sia fatta chiarezza sulla situazione degli immigrati a Lampedusa. Per lui non c’è emergenza che tenga, «l’emergenza non può giustificare situazioni e trattamenti che poco hanno a che fare con il rispetto della dignità umana e dei diritti dell'uomo come quelle trasmesse». E alla fine il titolare dell’Interno Alfano promette che «chi ha sbagliato pagherà».
La presidente della Camera Laura Boldrini scrive in una nota che «quei trattamenti degradanti gettano sull'immagine del nostro Paese un forte discredito e chiedono risposte di dignità» e ringrazia il Tg2 per la testimonianza di chi non si rassegna a convivere «con le vergogne del nostro tempo». Oltretutto oggi è la Giornata internazionale dei diritti dei migranti, stabilita dall'Onu. Le celebrazioni per la politica in effetti quest’anno sono po’ offuscate. Chissà se l’anno prossimo andranno meglio.

l’Unità 18.12.13
I costi disumani dei Cie e dei respingimenti, spiccioli per l’accoglienza


Quanto costa la politica immigratoria italiana basata sui respingimenti, sulla legge Bossi-Fini, sui centri di identificazione detti Cie e i Cara per i richiedenti asilo? L’associazione Lunaria, tra i promotori della campagna «L’Italia sono anch’io» per riformare le norme sulla cittadinanza dei bambini figli di migranti nati in italiani, ha fatto i conti con due rapporti. Il primo, dell’anno scorso, si chiama «Costi disumani» e il secondo, presentato il mese scorso, «I diritti non sono un costo» (entrambi disponibili online sul sito www.lunaria.org). In base ai dati raccolti e riferiti al 2011 emerge che l’Italia stanzia il 2,07 per cento del totale della spesa pubblica sia per politiche di contrasto all’immigrazione clandestina sia per accoglienza e inclusione sociale degli immigrati. Ma queste ultime in particolare rappresentano solo lo 0,017 per cento ( pari a 123,8 milioni). Il doppio circa (247 milioni) viene impiegato solo per le cosiddette «politiche del rifiuto». Gli immigrati, pur concentrandosi in professioni dequalificate e lavori sottopagati, contribuiscono all’erario con un peso del 4, 1 per cento rispetto al gettito fiscale complessivo nazionale.
Questo soprattutto perché essendo una popolazione più giovane rispetto alla media degli italiani, sono nel pieno dell’età lavorativa. Secondo le stime di Unioncamere contribuiscono al valore aggiunto del 12,8 per cento del totale nazionale, per una somma pari a 178,5 miliardi di euro. E più regolari sono più pagano in termini di contributi e tasse. Nel frattempo aumentano da 9 a 59 miliardi i fondi comunitari dedicati all’inserimento sociale e lavorativo degli immigrati. Se l’Italia saprà utilizzarli, come con il modello Sprar, genereranno lavoro e ricchezza anche per gli italiani.

l’Unità 18.12.13
Se la dignità non vale nulla
Le immagini vergognose nel video esclusivi del Tg2 e i commenti cinici arrivati in rete
di Valeria Viganò


POMPE CON DISINFETTANTE ALL’ITALIANA. QUESTO POTREBBE ESSERE IL TITOLO DEL VIDEO, CHE GIUNGE DA LAMPEDUSA, nel quale si vedono gli addetti del Centro di accoglienza che spruzzano il loro getto pesticida sui corpi denudati completamente di uomini e donne, a braccia e gambe aperte contro un muro, in mezzo alla strada. Lo scopo è eliminare la scabbia, lodevole assistenza medica che stride con il metodo barbaro. Ma immediatamente compaiono altre immagini.
Sono le immagini che si aprono nella mente di chi ricorda, per esperienza diretta o per aver visto moltissimi tragici documentari sui campi di concentramento nazista: deportati che venivano spogliati e irrorati prima di mettersi la divisa a righe e finire ammassati nelle baracche. Lo scopo allora era umiliarli e togliere da subito qualsiasi dignità, a scanso di equivoci. Non c’erano più nomi, storie, sentimenti e relazioni ma numeri, e il numero non prevede pudore, rispetto, identità.
Un Paese civile come il nostro (ma sul concetto di civiltà e diritti l’Italia è in zona retrocessione) dovrebbe in automatico garantire la considerazione della dignità della persona. Non ci sarebbe voluto molto, a ben pensarci, l’accortezza di un luogo al chiuso e pulito, un bagno, permettere di spogliarsi in una stanza, e non essere trattati come bestie in un recinto. Persino i cani, i nostri cani li laviamo con più attenzione e cura. E se è inverno, lo facciamo al caldo. Sembrerebbero considerazioni di buon senso e sensibilità, e la solidarietà per chi subisce questo trattamento sia un esito scontato.
Invece no, il video delle pompe, stile lavaggio auto, ha suscitato commenti in rete che sono peggio delle immagini. «Adesso ci dobbiamo preoccupare anche di essere gentili, se ne stessero a casa loro, di cosa si lamentano, già gli salviamo la vita e spendiamo migliaia di euro, li curiamo persino dalle loro malattie». E infine, un’esilarante «quante storie, non faceva nemmeno freddo». Quindi potevano starsene nudi davanti a decine e decine di compagni e volontari, in mezzo alla sporcizia, all’aperto, visibili a chiunque. Come vorrei che, per un insolito colpo di sfortuna che la vita talvolta riserva, si ritrovassero loro, i commentatori cinici, a essere denudati e esposti, messi contro uno schifoso muro e pompati con il disinfettante, uomini, donne e bambini come al tempo di guerra. Espropriati dell’intimità, i sessi di fuori, i piedi nella palta. Che scena vergognosa, commenterebbero altri cinici patrioti.
Serie A e serie B, così va il mondo. E invece no, non dovrebbe. E se le pari opportunità nella vita sono ancora un miraggio, almeno la pari dignità umana deve darsi per acquisita in una democrazia fondata su valori che la prevedono e ne sono le fondamenta.

Corriere 18.12.13
L’immagine dell’umanità perduta
di Marco Imarisio


Le immagini parlano da sole. La dignità di quegli uomini nudi davanti ai getti di acqua gelata andrebbe sempre tutelata e protetta. Finché esiste l’obbligo di tenere i migranti in centri che di accogliente hanno solo il nome, devono essere trattati con rispetto. Perché è giusto, punto.
Non è buonismo, è un dovere. Si chiama umanità, un prerequisito morale che non dovrebbe essere evocato solo dopo un video che farà il giro del mondo contribuendo al nostro buon nome. Le persone prese in custodia dallo Stato hanno diritto a un trattamento dignitoso. È un concetto semplice, sul quale a parole tutti sono d’accordo. Ma da noi fare finta di niente è uno sport nazionale, vedi alla voce carceri. Appena dopo la tragedia dello scorso 3 ottobre, quando 360 persone annegarono a pochi metri dalla riva, il Centro di Lampedusa è stato meta di un pellegrinaggio continuo. I politici entravano, vedevano i bivacchi in cortile, la sporcizia ovunque. Dicevano «lager» e «obbrobrio», se ne andavano. Laura Boldrini, il presidente della Camera che per via della sua vita precedente quel posto lo conosce meglio di tutti, vi condusse una pattuglia di parlamentari armati delle migliori intenzioni. I più diligenti scattarono delle foto. Si fecero anche raccontare la storia di quel luogo. Nell’autunno del 2011 l’incendio appiccato dai migranti che protestavano per i tempi di permanenza troppo lunghi danneggiò l’ala più grande della struttura. La capienza scese da 850 a 254 posti letto garantiti, senza più risalire. Da quel giorno ogni politico in visita si è premurato di dire che ci pensa lui, che i lavori inizieranno presto, questione di pochi giorni. A Lampedusa stanno ancora aspettando. Le condizioni precarie di un posto dove due edifici su tre sono mangiati dalle fiamme, l’assenza di spazi che logora i rapporti tra le persone, non sono e non devono essere una giustificazione per una linea di decenza che in luoghi come questi viene spesso oltrepassata senza neppure rendersi conto. Quando non è seguita da fatti concreti, come purtroppo capita sempre, l’indignazione è solo benzina per le battaglie di principio, ma non cambia lo stato delle cose. Alla fine qualcuno pagherà, certo. E subito dopo dimenticheremo le cause e i drammi che stanno dietro a quelle immagini, per tornare veloci alle nostre faccende quotidiane, sentendoci migliori di quel che siamo.

Repubblica 18.12.13
La nostra vergogna
di Adriano Prosperi


IL TELEFONINO di Khalid ha catturato e messo in circolazione la scena di quello che accade da giorni abitualmente nel centro di accoglienza di Lampedusa. L’abbiamo visto tutti, non abbiamo scuse. Abbiamo visto come ogni giorno decine di uomini nudi vengano sottoposti al getto d’acqua di una pompa a motore, all’aperto, sotto il cielo dell’isola. Si tratta, dicono, di una pratica necessaria per disinfettare quei corpi.
Per combattere in particolare il pericolo di un’epidemia di scabbia.
Giusto disinfettare, curare, garantire la salute — la nostra, perché è per questo che lo si fa. Del resto qualcuno ricorda ancora, in questo paese nostro che fu un tempo non lontano quello di un’emigrazione italiana di proporzioni bibliche, che cosa accadeva alla visita d’ingresso negli Stati Uniti, quando a Ellis Island i nostri antenati dovevano sottoporsi a rozzi, elementari esami fisici destinati a scoprire le eventuali malattie di cui erano portatori. Ma non venivano fatti oggetto di questa pratica brutale del denudarsi in pubblico per sottoporsi a un trattamento che disumanizza, degrada, porta automaticamente a una discesa dal livello della comune umanità a quello di cosa. Perché una cosa è chiara: non c’è nessuna ragione perché la disinfezione debba essere fatta così, collettivamente e all’aperto.
Denudare pubblicamente un essere umano vuol dire togliergli quella difesa elementare, quel segnale di umanità che consiste nel coprirsi, nel proteggere la propria nudità. Gli esseri umani si distinguono dalle bestie perché si coprono istintivamente. Dice la Bibbia che Adamoed Eva, quando lasciarono l’Eden, scoprirono la loro umanità col senso di vergogna per il corpo nudo. Dunque la domanda che viene spontanea è sempre quella formulata da Primo Levi: diteci, voi che siete al coperto nelle vostre tiepide case, se sono uomini questi esseri nudi nel dicembre che sa ormai di Natale, esposti al getto d’acqua che la pompa scarica sui loro corpi. E poiché la risposta è sì, né può essere diversa, bisogna passare all’altra domanda: dobbiamo chiederci chi siamo noi, responsabili in solido di questa riduzione a bestiame dell’umanità che sbarca a Lampedusa a rischio della vita e si aspetta di trovare da noi, se non le immagini dorate trasmesse dalla televisione, almeno non un simile livello di disumanità. Giusi Nicolini, la bravissima sindaca di Lampedusa, ha risposto per tutti noi: queste immagini ricordano i campi di concentramento. Nei lager non c’erano i telefonini. Oggi questo strumento ci toglie l’ultimo alibi: la difesa del non vedere, del non sapere.
Ma se quello odierno è uno scandalo, si deve riconoscere che gli scandali sono necessari perché senza di essi non riusciamo ormai più ad aprire gli occhi. E speriamo che anche questa volta tutto non si riduca a un’emozione epidermica e che domani non ci si trovi di nuovo davanti all’impasto abituale di provocazioni leghiste e di politiche fatte di parole benevole quanto vane, di intenzioni mai seguite da fatti. Finora nemmeno l’escalation di quegli annegamenti di massa che hanno fatto del Mare di Sicilia un immenso cimitero marino è bastata a cambiare le cose. L’episodio di Lampedusa, teatro all’aperto di ciò che l’Italia — ma anche, dietro di lei, l’Europa tutta — sa offrire a chi tenta di varcarne le soglie deve essere per una volta la scossa finale che porti una buona volta a raddrizzare il legno storto dei diritti così come vengono intesi e praticati da noi. Dobbiamo prendere atto che questo è solo l’ennesimo episodio di un sistema che ha preso forma di legge, si è radicato nel costume e nelle istituzioni: col risultato che l’umanità difettiva dell’immigrato rischia di apparirci di fatto come quella di un animale pericoloso, portatore di malattie: e questo perché sempre più decisamente si sono create da noi le premesse di una discriminazione sul terreno dei diritti primari che ha fatto scivolare sempre più l’Italia sulla china di un razzismo tanto più reale quanto meno confessato. È tempo perché le chiacchiere buoniste, l’esibizione delle buone intenzioni, i rimedi della carità cedano il posto a misure di legge che riconoscendo dignità e diritti agli immigrati restituiscano anche a tutti noi la possibilità di non doverci ogni giorno vergognare.
Il dossier dei diritti civili deve essere riaperto subito. Non si può più rinviare la riforma della Bossi-Fini, perché mantenendola continueremmo a tenere in vita un sistema di disparità della popolazione della penisola italiana nel campo dei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino che ha fatto regredire l’intero paese e ne ha alterato perfino il linguaggio: si pensi al significato che ha assunto oggi la parola “accoglienza” in un paese come il nostro che, con tutti i suoi difetti, era noto un tempo almeno per questa speciale virtù dei suoi abitanti.

Repubblica 18.12.13
“Trattati come macchine all’autolavaggio urlavano di spogliarci e ci deridevano”
L’autore del filmato: “Minacciato, lasciato senza cibo dagli operatori del Centro”
di Fabio Tonacci e Francesco Viviano


«COME ebrei... quelli dei film dei nazisti neilager!». Pure in quel suo italiano minimo impastato di qualche termine straniero, si intuisce facilmente cosa c’è nella testa di Ahmed quando ricorda il “lavaggio”, l’estrema umiliazione consumatasi sulla pelle dei profughi nel piazzale davanti al padiglione bruciato del Centro di prima accoglienza di Lampedusa.
Lui, siriano, è uno di quelli là, gli immigrati nudi e infradiciati del video trasmesso lunedì sera dalTg2.Il 13 dicembre faceva la fila con gli altri, come gli altri non si sentiva più le mani e i piedi per colpa del freddo, con i capelli zuppi di acqua gelida. E non capiva. «Ridevano — racconta al telefonino che una fonte di Repubblica è riuscita a passargli dentro il Centro — ci gridavano qualcosa, ci hanno fatto spogliare perché loro non si avvicinavano, avevano paura della scabbia». Loro sono gli operatori della cooperativa “Lampedusa accoglienza” che ha in gestione il Cpsa. Nomen non omen, a giudicare da quel trattamento sanitario così vergognoso e difficile da giustificare.
«Scaricavano acqua fortissima sui nostri corpi — continua Ahmed, che nasconde il suo vero nome per paura di rappresaglie — ci faceva male». Dolore fuori. E dentro. «Tutti nudi, uno accanto all’altro. Provavo grande imbarazzo. È stato terribile... perché ci hanno trattato come macchine all’autolavaggio?». La sua domanda rimane appesa, Ahmed chiude la comunicazione e torna a riposarsi sul suo materasso lercio buttato a terra sotto la tenda fatta con le coperte termiche. È “guarito”, la scabbia non c’è più. Ma al Centro l’aria è ancora irrespirabile.
Da tre giorni Kahlid ha paura delle ombre. È il ragazzo siriano autore del filmato girato con uno smartphone dalla collinetta sopra il piazzale e consegnato al “Comitato 3 ottobre”. Una data, quella, che ha inciso nell’anima: ilgiorno in cui è arrivato a Lampedusa. E da lì non si è più mosso. «Sono stato minacciato da quattro operatori della cooperativa — denuncia — mi hanno detto “ti rompiamo il culo”, “se esci da qui ti ammazziamo”». Temono guai, rischiano il licenziamento. «Da ieri non mi danno più da mangiare, né da bere, né sigarette. Io volevo solo dimostrare i maltrattamenti che subiamo». Sono quasi 70 giorni che sta nel Centro, in attesa di essere sentito dal magistrato per il riconoscimento dello scafista che lo ha portato in Italia. «Le condizioni igieniche sono inumane, non abbiamo coperte, siamo ammassati uno sull’altro, i bagni non funzionano». Ore di imbarazzo per chi quel Cpsa è stato chiamato a gestire e oggi sitrova sotto accusa.
La Cooperativa “Lampedusa Accoglienza” appartiene al Gruppo Sisifo, che ha una serie di imprese della Lega Coop. Nel 2012, come documenta una recente inchiesta dell’Espresso, ha ricevuto dallo Stato 3 milioni e 116 mila euro e incassa da 30 a 50 euro per ogni profugo ospitato per ogni giorno di assistenza. Eppure làdentro gli immigrati mangiano e dormono per terra, si diffondono epidemie di pidocchi e scabbia, i bagni sono inguardabili, cani randagi urinano sugli zaini. Si vive nella promiscuità. «Ci sarebbe uno spazio dedicato a donne e bambini al quarto piano di una delle palazzina — spiega Raffaela Milano, di Save the Children — ma ci dormono anche gli uomini perché non trovano altri spazi». In queste condizioni, nessuno si stupisce che si diffonda la scabbia. Così come nessuno crede davvero che la disinfestazione con le pompe d’acqua all’aperto sia soltanto un episodio. «Ci risulta che sia stato fatto altre volte in passato», dice Raffaela.
Come vengono spesi i soldi che arrivano dallo Stato? Anche di questo dovrà rendere conto l’amministratore delegato di “Lampedusa Accoglienza”, Cono Galipò, oltre che del “lavaggio” di massa in piazza. Il vescovo di Monreale, monsignor Francesco Pennisi, una spiegazione se l’è già data. «C’è chi approfitta delle sventure altrui per fare affari. Al Cara di Mineo nel cosiddetto “villaggio della solidarietà” ci sono imprenditori del Nord, cooperative legate a politici, fornitori di servizi. Così i centri di accoglienza rischiano di diventare “affari di stato”».

l’Unità 18.12.13
Benefici e pene alternative. Sulle carceri si cambia
1700 fuori.  Via la Fini-Giovanardi
Il governo approva il decreto contro il sovraffollamento e le lungaggini dei processi civili
Braccialetti elettronici, sconti, penitenziari «più umani»
di Claudia Fusani


ROMA Via libera ai provvedimenti per l’emergenza carceri, dal braccialetto elettronico all’affido terapeutico per i tossicodipendenti. In uscita nei prossimi mesi 1700 detenuti. Approvate anche le norme per accorciare i processi civili. Il sì dopo un Consiglio dei ministri teso, con Alfano che minaccia le dimissioni.

Né indulti né indultini «perchè in questo decreto non c’è nulla di automatico». Più umanità nelle carceri, che va di pari passo con il concetto di «maggior giustizia» soprattutto per i detenuti per reati legati al consumo e allo spacci di droga. E più garanzie nelle cause civili «visto che d’ora in poi l’esecuzione dei pignoramenti e del recupero dei crediti sarà più snella». Il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri conduce in porto, tra mille peripezie, parecchio scetticismo e l’ira del vicepremier Alfano arrivato a un passo dal far saltare tutto, un decreto con due anime e doppio obiettivo: sfoltire l’affollamento delle carceri visto che gli appelli per amnistia e indulto, seppur ripetuti nelle sedi più alte, non sembrano decollare; migliorare la giustizia civile che è la vera umiliazione nonchè l’handicap del sistema paese.
Il Guardasigilli l’aveva promesso. E l’ha fatto. Non è stato semplice a giudicare dalla faccia del Guardasigilli e del premier Letta che scendono in sala stampa alla sei mezzo del pomeriggio dopo un consiglio dei ministri veloce ma, a giudicare dalle indiscrezioni, assai doloroso per la tenuta dell’esecutivo. Il decreto apre la porta del carcere a circa 1.700 detenuti. Secondo le stime del Dap si tratta di coloro che, condannati con pene definitive e grazie alla buona condotta, potranno beneficiare di uno sconto pari a 75 giorni, invece che 45, per ciascun semestre di pena. Si chiama «Liberazione anticipata speciale», modifica la legge Gozzini ed è una misura a tempo: tra due anni, valutati gli effetti di questa e di altre misure strutturali, il governo deciderà se tenerla o meno in vita. D’altra parte, con un sovraffollamento del 142,5% (140 detenuti ogni 100 posti), il peggiore in tutta Europa, l’impossibilità economica di costruire altre carceri e quella politica di varare amnistie o indulti, non resta che andare per tentativi e in più direzioni.
Ecco che oltre allo sconto per buona condotta (se ci sono le condizioni, valutate di volta in volta da un giudice, possono essere fino a cinque mesi in un anno), il governo ha deciso un maggior utilizzo del braccialetto elettronico per gli arresti domiciliari che diventano obbligatori se mancano 18 mesi per esaurire la condanna. E ha alzato da 3 a 4 anni il tetto di pena al di sotto della quale si può accedere all’affidamento in prova.
Non c’è dubbio che la parte politicamente più scomoda del decreto riguarda i tossicodipendenti, un terzo della popolazione carceraria. Il decreto nei fatti pensiona la legge Fini-Giovanardi sulle tossicodipendenze. Il decreto infatti aumenta le possibilità di «affido terapeutico per favorire la cura nelle comunità di recupero anche in caso di recidiva per reati minori». Soprattutto introduce il nuovo reato di «spaccio lieve» che prevede pene minori (da uno a 5 anni e multe) per decongestionare i penitenziari. Il meccanismo è quello di non considerare più tutte le recidive lasciando quindi la possibilità di accedere alle attenuanti. La somma di scarcerazioni anticipate, braccialetti, affidamenti in prova e limature varie alla Fini-Giovanardi ha fatto mettere di traverso il viceministro Alfano. E prima della riunione del consiglio c’è stato un momento in cui sembrava che dovesse saltare tutto. «Queste misure sono insostenibili nel centrodestra e come ministro dell’Interno» ha detto il leader del NCD. Giovanardi, passato armi e bagagli con Alfano, ha fatto arrivare messaggi funesti. Alfano ha tentato una contropartita approvando con decreto i nuovi criteri per la custodia cautelare e un occhio di riguardo anche per il Cavaliere. Ha provato, insomma, Alfano, a fare una cosa di destra. Ma è stato respinto. Al di là di una nuova politica carceraria, degna come disse il premier letta, del paese di Cesare Beccaria, il ministro Cancellieri ha promesso a Bruxelles di risolvere il problema del sovraffollamento. Altrimenti a fine maggio dovremo pagare un centinaio di milioni di multe. «Non ci sarà nessun pericolo per i cittadini» ha ripetuto il premier Letta.
Novità anche per i detenuti stranieri, un terzo della popolazione carceraria: quando mancheranno solo 24 mesi di pena, sarà possibile l’espulsione nei paesi d’origine. E senza passare dai Cie visto che gli accertamenti per il riconoscimento saranno fatti subito. L’unica vera buona notizia per il Viminale.
«La vera notizia sono le norme per il processo civile» prova a spostare l’interesse uno dei ministri. In effetti nel decreto sono contenute norme per l’efficienza del processo civile (ad esempio non sarà la motivazione della sentenza), il riordino delle garanzie mobiliari e per la semplificazione e l’accelerazione del processo di esecuzione forzata. Il primo obiettivo è quello di agevolare imprese e privati nella riscossione dei crediti.
Ma è sulle carceri che si accende subito la polemica politica. La Lega va sulla barricate. «Il nuovo decreto svuota carceri, il quarto in pochissimi mesi, è l'ennesima vergogna di un governo e di una maggioranza che pensa solo ai criminali e agli immigrati e si disinteressa delle persone oneste svilendo il prezioso lavoro delle Forze dell'Ordine» dice Nicola Molteni, capogruppo del Carroccio in commissione Giustizia. Ma la domanda è quale sarà il risarcimento per il vicepremier Alfano.

l’Unità 18.12.13
Emergenza carceri, nella direzione giusta
di Luigi Manconi


CON UN CERTO TREMORE TROPPE VOLTE SIAMO RIMASTI DELUSI GETTIAMO IL CUORE OLTRE L’OSTACOLO E DICIAMO CHE FORSE, QUESTA VOLTA, IL GOVERNO HA DAVVERO PRESO LA DIREZIONE GIUSTA. Sia chiaro: siamo sempre in un perimetro di piccoli passi e di iniziative prudenti ma, se non altro, le scelte sembrano andare per il verso più opportuno e intelligente. Le decisioni prese dal Consiglio dei ministri in materia carceraria rispondono a una esigenza indifferibile: rafforzamento delle alternative al carcere e dei benefici penitenziari e tutela dei diritti dei detenuti. Certo, se il quadro politico e gli orientamenti del Parlamento lo consentissero, si dovrebbero assumere provvedimenti più ragionevoli ed efficaci, quali l'amnistia e l'indulto (come suggerito dal Capo dello Stato e da alcuni tra i più autorevoli giuristi e come costantemente richiesto dai Radicali). Solo quelle due misure di clemenza, infatti, sarebbero capaci di riportare con l’urgenza necessaria il nostro sistema penitenziario agli standard di legalità internazionale e ai livelli di civiltà affermati solennemente dalla Carta costituzionale.
Considerata l’attuale difficoltà di simili saggi e sacrosanti provvedimenti, e ribadito il dovere morale di provarci ancora, quanto deciso oggi va considerato comunque assai positivo. Le misure di alleggerimento dell’apparato sanzionatorio nei confronti dei tossicomani sono indubbiamente utili e dovrebbero anticipare una seria revisione della legislazione in materia. Lo stesso può dirsi di un provvedimento come l’identificazione degli stranieri in carcere che, se efficacemente attuato, può eliminare quella pena accessoria rappresentata dal trattenimento nei Cie (Centri di identificazione e di espulsione) per gli immigrati che abbiano già scontato la propria pena. E poi il consolidamento della detenzione domiciliare e l’allargamento dei termini per l’accesso all’affidamento in prova al servizio sociale, il sostegno al lavoro in carcere e la riduzione di pena per chi dimostri di partecipare alla «offerta trattamentale» per il reinserimento a fine pena.
Per la prima volta da molti anni, il governo va chiaramente nella direzione di una diversificazione della risposta punitiva, nella prospettiva di una concezione del carcere che per primo Carlo Maria Martini, e molti dopo di lui, definì «come extrema ratio». In ultimo, va apprezzata particolarmente l’istituzione del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà. Questa nuova autorità può rappresentare, da un lato, un sostegno di particolare prossimità alle esigenze di protezione dei diritti e delle garanzie delle persone private della libertà; e, dall’altro, può costituire uno strumento di interlocuzione con l’attività dell’amministrazione. Tra i compiti del Garante nazionale: vigilare affinché l’esecuzione della custodia dei detenuti, degli internati, dei soggetti sottoposti a custodia cautelare in carcere o ad altre forme di limitazione della libertà personale sia attuata in conformità alle norme e ai princìpi stabiliti dalla Costituzione, dalle convenzioni internazionali, dalle leggi dello Stato e dai regolamenti; visitare, senza necessità di autorizzazione, gli istituti penitenziari, gli ospedali psichiatrici giudiziari e le strutture sanitarie destinate ad accogliere le persone sottoposte a misure di sicurezza detentive, le comunità terapeutiche e di accoglienza o comunque le strutture pubbliche e private dove si trovano persone sottoposte a misure alternative o alla misura cautelare degli arresti domiciliari, gli istituti penali per minori e le comunità di accoglienza per minori sottoposti a provvedimenti dell'autorità giudiziaria; esaminare, previo consenso anche verbale del recluso, gli atti riferibili alle condizioni di detenzione e richiedere all’amministrazione interessata di attenersi alle norme di legge, ove si riscontri che la stessa se ne sia discostata, anche formulando specifiche raccomandazioni.
Quella del Garante dei diritti dei detenuti è una figura presente in molti Paesi europei e richiesta, ormai da tempo, dalle Convenzioni internazionali e da tutti gli operatori del settore. E può considerarsi, tra l’altro, una risposta efficace alla recente polemica, spesso così pretestuosa, sulla contrapposizione tra «detenuti di serie A» e «detenuti di serie B». Solo un’autorità terza e indipendente può assicurare garanzie e diritti a quanti sono privati della libertà a prescindere dalle condizioni sociali, economiche, culturali. In conclusione le misure adottate ieri rappresentano un passo avanti assai significativo. Si tratta di evitare, ora, contraccolpi regressivi e arretramenti codardi.

La Stampa 18.12.13
Sulle carceri un passo avanti, ma non risolutivo
di Michele Brambilla


Tre domande sorgono spontanee dopo il decreto del governo sulle carceri.
Prima domanda: le misure prese vanno nella direzione giusta? La nostra risposta è: sì, vanno nella direzione giusta.
Seconda: l’uscita di qualche migliaio di detenuti rappresenterà un pericolo per la sicurezza dei cittadini?
Anche qui la risposta è favorevole al decreto, nel senso che no, le uscite anticipate non saranno un pericolo, e oseremmo aggiungere un «anzi». Terza domanda: è un decreto risolutivo? No, purtroppo non lo è.
Prima di entrare nel dettaglio e di spiegare le nostre risposte, è fondamentale una premessa per fornire un quadro perlomeno sommario ai meno informati. In Italia ci sono 64 mila detenuti (in tempi recenti eravamo arrivati quasi a 70 mila) in carceri che ne potrebbero ospitare al massimo 47 mila. Ogni carcerato dispone in media di tre metri quadrati. È una situazione ignobile per la quale l’Europa ci ha condannati con una sentenza detta «Torreggiani» (dal nome del detenuto che fece ricorso): entro il 20 maggio prossimo dobbiamo metterci a norma, altrimenti ogni detenuto potrà chiedere un risarcimento allo Stato italiano. Il decreto di ieri parte da qui: dalla necessità di rimediare a una situazione più volte denunciata anche dal presidente Napolitano.
E ora veniamo alle tre domande e tre risposte.
Le misure vanno nella direzione giusta. Forse suscita qualche dubbio l’uso dei braccialetti elettronici, la cui efficacia è discussa. Ma sicuramente nella direzione giusta va, ad esempio, la decisione di non considerare più i consumatori di stupefacenti come delinquenti, bensì come persone da curare. Il decreto depenalizza alcune situazioni, e cancella il divieto di tornare in comunità per i recidivi. Positiva è anche l’estensione da tre a quattro anni del periodo di affidamento ai servizi sociali. Positivo è l’aumento da 45 a 75 giorni del permesso concesso ogni semestre a chi si comporta bene. Positivi sono alcuni incentivi al lavoro in carcere. Positivo è pure che gli extracomunitari vadano a scontare gli ultimi due anni nel loro Paese di origine (ammesso che i loro Paesi li accettino). Tutte queste misure non solo faranno calare subito le presenze in carcere, ma avranno un effetto deflattivo negli anni a seguire: le uscite aumenteranno, le entrate caleranno.
Seconda domanda e seconda risposta. No, non c’è, o almeno non dovrebbe esserci, un aumento dei pericoli per i cittadini. Le perplessità sono comprensibili, ed è vero che ogni volta che si interviene in favore dei colpevoli, non si devono dimenticare le vittime. Ma tutte le statistiche dicono che un ex detenuto è tanto più pericoloso quanto più tardi esce. Vista la situazione attuale delle carceri italiani, più si sta dentro e più ci si incattivisce.
E veniamo al terzo punto, che è collegato a quest’ultima considerazione. Il decreto va nella misura giusta ma non è risolutivo. E non lo sarebbe neppure se si arrivasse a quella quota 47 mila detenuti che corrisponde alla capienza regolamentare. Perché il problema del sovraffollamento è importante, ma non è il più importante. Se anche i detenuti avessero spazio a sufficienza, resterebbe da riempire quello spazio di contenuti, cioè di lavoro e di scuola ad esempio. Soprattutto di lavoro, perché come ha ricordato recentemente Papa Francesco è con il lavoro si dà una dignità all’uomo. Anche qui, tutte le statistiche dicono che per i detenuti che in carcere hanno un lavoro vero, la recidiva crolla dal 68 per cento (dato ufficiale: quello reale è oltre il 90) a un 1-2 per cento. Ma sono pochissimi, i detenuti che hanno un lavoro vero.
Il problema più grande, insomma, è il recupero. Il ministro Cancellieri e il presidente Letta lo sanno benissimo, e quindi sanno benissimo anche che il loro decreto non può essere risolutivo. Se glielo ricordiamo, non è dunque per una critica sarebbe stato impossibile risolvere in un attimo una situazione tanto incancrenita ma per spronarli a tenere desta la memoria su una questione di cui in Italia si parla spesso, ma ci si dimentica ancora più spesso.

Corriere 18.12.13
I punti oscuri delle costose cavigliere
di Luigi Ferrarella


Non sarà certo la misura più seria da saggiare, come invece l’innalzamento da 3 a 4 anni di pena per l’affidamento in prova ai servizi sociali, la nuova norma sul piccolo spaccio, o il fatto che un anno di carcere (grazie all’incremento dello sconto della «liberazione anticipata» sino a 75 giorni per ogni semestre) possa durare di fatto 7 mesi anziché 12, peraltro retroattivamente dal 2010. Eppure è scontato che a fare più scena sia ancora l’ennesimo rilancio del «braccialetto elettronico», che poi in realtà è una cavigliera: idrorepellente, impermeabile, resistente a 70 gradi di temperatura e a 40 chili di forza di strappo. Un mese fa, a fronte dei 2.000 disponibili in base al contratto con Telecom da 11 milioni l’anno, in tutta Italia ne erano in funzione appena 55 su ordine di solo 8 uffici giudiziari. Il governo, dunque, azzarda ieri una nuova scommessa su uno strumento che, divorando oltre 80 milioni di euro dall’infelice esordio nel 2001, ha solo prodotto «una reiterata spesa antieconomica e inefficace», per usare le parole della Corte dei Conti, pudìche rispetto all’immortale sintesi in Commissione Giustizia nel 2011 del vicecapo della polizia Cirillo: «Se fossimo andati da Bulgari avremmo speso meno». Sinora contemplato per gli «arresti domiciliari», cioè per chi è in misura cautelare nelle indagini preliminari, adesso diventerà usabile anche per la «detenzione domiciliare», cioè per i condannati ammessi però a scontare la pena a casa. Successi o nuovi fallimenti dipenderanno dalla logistica:
la fresca esperienza a Busto Arsizio di Guido Haschke nell’inchiesta Finmeccanica segnala quanto il sopralluogo dei tecnici per mappare la volumetria degli ambienti sia determinante (più ancora della centralina) per assicurare il segnale e ridurre i falsi allarmi.

il Fatto 18.12.13
Il magistrato Nino Di Matteo
“Riina mi vuole morto e i politici attaccano le nostre indagini”
di Marco Travaglio


Alle 17:30 Nino Di Matteo, il pm che Totò Riina vuole morto ammazzato è al lavoro nel suo ufficio, al secondo piano del Palazzo di giustizia di Palermo. Dire che non sia turbato, sarebbe troppo. Ma non ha perduto né la calma, né il sorriso. La determinazione, quella, è addirittura aumentata.
Dottor Di Matteo, qual è il suo pensiero dominante dopo 15 mesi di minacce e preannunci di attentato?
Cercare di capire a fondo quel che sta succedendo intorno a me. Non tutto è ancora così chiaro. Un anno fa, al primo alternarsi di minacce di stile mafioso e di fonte istituzionale, pensai a qualcosa di casuale. Poi mi convinsi che erano attacchi collegati. Ora sentire e vedere Riina pronunciare quelle parole rabbiose e quegli ordini di morte contro di me mi riporta al contenuto di una delle prime minacce che mi fu recapitata anonimamente.
Il dossier di 12 cartelle intitolato “Pro to co l l o Fantasma”, con lo stemma della Repubblica Italiana, che la metteva in guardia dallo spionaggio di “uomini delle istituzioni” verso una “ce n - trale romana”, l’avvertiva che si stava inoltrando su terreni pericolosi e citava politici della Prima Repubblica coinvolti nella trattativa non ancora toccati dalle indagini?
Quello fu il primo messaggio di fonte istituzionale. Però mi riferivo al secondo, successivo alle elezioni di febbraio.
La lettera giunta il 26 marzo, scritta al computer da un anonimo sedicente “uomo d’onore della famiglia trapanese” che annunciava la sua eliminazione – in alternativa a quella di Massimo Ciancimino – perché l’Italia “non può finire governato da comici e froci”?
Quella. Usava un frasario tipico di chi vuole accreditarsi come appartenente alle istituzioni o ad apparati investigativi. E parlava della decisione di uccidermi “chiesta dagli amici romani di Matteo”, cioè di Messina Denaro, avallata dal carcere anche da Riina “tramite il figlio”. Ora che ho ascoltato la viva voce di Riina ho capito il collegamento fra le due tipologie di minacce: quelle mafiose e quelle istituzionali o para-istituzionali. E ho colto la sottovalutazione che se ne fa, magari in buona fede, per ignoranza, su molti giornali e a livello politico.
Sottovalutazione?
Tutti parlano di minacce di Riina. Ma minacciare qualcuno significa volerlo spaventare. Riina, intercettato in carcere, non si limita a minacciarmi: il suo è un crescendo di parole rabbiose che culminano nell’ordine di uccidermi. Tant’è che i procuratori di Palermo e di Caltanissetta hanno utilizzato uno strumento eccezionale previsto dal Codice per “desegretare” le intercettazioni e ne han consegnato la trascrizione e il supporto audio-video al ministro dell’Interno Alfano. Parlare di “minacce” è improprio e fuorviante.
Non voglio farla polemizzare con le massime cariche dello Stato, ma proprio questo dicono, dopo un anno e mezzo di silenzi imbarazzati e imbarazzanti: solidarietà ai magistrati minacciati dalla criminalità organizzata.
Per carità, solidarizzare con tutti i magistrati minacciati dalla criminalità organizzata è giusto: le minacce delle mafie sono sempre cose serie. Ma i magistrati di Palermo che indagano sulla trattativa Stato-mafia sono un caso a parte: qui lo stragista numero uno degli ultimi trent’anni ha dato l’ordine di eliminarci e di rilanciare così la strategia stragista, sospesa vent’anni fa con la lunga Pax Mafiosa seguita alla trattativa.
Qual è il suo stato d’animo in questi giorni?
È un complesso di stati d’animo. Se mi guardo intorno e rifletto razionalmente, mi dico che non è valsa e non vale la pena aver sacrificato, in vent’anni di vita scortata, tanti momenti importanti di libertà e di spensieratezza miei e delle persone che mi stanno accanto. Ma poi per fortuna prevale la passione, come in tanti magistrati della mia generazione. Quando entrai in magistratura 22 anni fa, lo feci proprio con l’aspirazione di occuparmi di mafia. Il mio punto di riferimento era il pool antimafia di Chinnici, Caponnetto, Falcone e Borsellino. Tre su quattro li abbiamo purtroppo accompagnati nella tomba, ma quello è rimasto il mio imprinting.
Quindi prevale ancora la passione?
Sì, e ha la meglio sulla razionalità pura che consiglierebbe di mollare tutto. La passione per la bellezza del nostro lavoro. Che però non cancella la consapevolezza che fare il magistrato in questo modo – l’unico che conosco leggendo la Costituzione – “non paga”. Né in termini di serenità personale, né di carriera, né di apprezzamento omogeneo dalle istituzioni e dagli uomini che le rappresentano, e anche da pezzi importanti dell’opinione pubblica. Ma non importa, andiamo avanti.
Prima delle stragi del '92 era palpabile a Palermo l’insofferenza per i magistrati antimafia, le scorte, le sirene, le zone di rimozione forzata, i pericoli indotti dalla presenza di giudici a rischio. Si respira di nuovo quell’aria?
No, anzi l’intensificarsi dei pericoli per la mia persona è stato accompagnato paradossalmente da un surplus di solidarietà e vicinanza di tanti cittadini: lettere, email, parole d’incoraggiamento. Anche dai vicini di casa. È uno dei maggiori, e rari, motivi di conforto. Lo stesso vale naturalmente per la mia famiglia: ho la fortuna di essere circondato da persone che condividono idealmente gli stessi valori che sono alla base del mio impegno. Andiamo avanti, pure con grande difficoltà.
Com’è cambiata la sua vita in questi ultimi mesi?
Non devi mai ripetere gli stessi movimenti e gli stessi percorsi, che devi rendere il più possibile imprevedibili. Sei costretto a rinunciare anche a quelle piccole e poche cose che ancora ti concedevi prima, anche da scortato. Ma non è questo che mi pesa.
Cosa le pesa di più?
La consapevolezza che, quando ti inoltri su certi crinali investigativi sui rapporti fra mafia e istituzioni (non soltanto quelle politiche, ma anche i cosiddetti “apparati”), senti – per usare un eufemismo – di non essere capito da chi rappresenta lo Stato e persino da vasti settori della magistratura. Troppi continuano a pensare che le nostre indagini siano tempo perso, risorse sottratte alla “vera lotta alla mafia”, che consisterebbe soltanto nell’arrestare la manovalanza criminale, nel sequestrare carichi di droga. Invece, oggi più che mai, un contrasto serio alla criminalità organizzata deve recidere i suoi legami con istituzioni, politica, finanza, forze dell’ordine, apparati.
A parole, lo dicono tutti.
Sì, ma poi appena qualche pm ci prova e magari ci riesce, ecco il solito coro pieno di risolini e di dubbi sparsi a vanvera: ti senti additato al pubblico ludibrio come un “acchiappanuvole”, o peggio come un soggetto destabilizzante che rema contro le istituzioni per scalfirne il prestigio. C’è chi ancora ripete il ritornello che, scoperchiando la trattativa, abbiamo fatto un favore a Riina mettendo sotto accusa uomini dello Stato e della politica. Riina, a sentirlo parlare, non sembra proprio pensarla così. Anzi: manifesta nei nostri confronti una rabbia furibonda, che vuole addirittura tradurre nel mio assassinio.
Si è domandato perché Riina ce l’ha tanto e proprio con lei?
No. Ma constato che mi sono occupato spesso e da molto tempo di processi che lo vedevano imputato: sono stato pm sulle stragi di Capaci, di via D’Amelio, sugli assassinii dei giudici Chinnici e Saetta e su altri omicidi perpetrati a Palermo.
Ciò malgrado, Riina, per quei processi, non aveva mai manifestato quel furore contro di lei. Che esplode solo per la Trattativa.
Con l’uscita di Ingroia, sono il pm che da più tempo segue quelle indagini. Quindi quella rabbia non me la spiego altrimenti.
Eppure, dagli atti che avete depositato finora, non si coglie un motivo che giustifichi tanta rabbia. A Riina non dovrebbe dispiacere di apparire come il superstragista che ha messo in ginocchio lo Stato. Avete il dubbio di non aver capito ancora tutto ciò che è acceduto, e che lui invece conosce bene?
Non il dubbio: la certezza. Finora abbiamo capito e riteniamo di aver provato solo una parte di ciò che è avvenuto. Non è casuale la tempistica dell’intensificarsi di questa pressione. Inizialmente si pensava che l’indagine sarebbe finita in archivio. Poi invece c’è stata la nostra richiesta di rinvio a giudizio e poi l’ordinanza di rinvio a giudizio del gup. E il processo è iniziato. Ma non è un mistero che stiamo continuando a indagare: non ci fermiamo certo a cercar di provare la colpevolezza degli attuali imputati. Vogliamo trovare chi li ha manovrati, li ha diretti e ha concorso con loro, dall’esterno di Cosa Nostra, nei delitti che abbiamo contestato. Con chi, perché e su incarico di chi gli attuali imputati han fatto ciò che han fatto. Ecco: quando si è capito che non ci fermiamo, sono partite non solo minacce e ordini di morte, ma anche episodi pericolosi come l’irruzione in casa del giovane collega Roberto Tartaglia.
Voi rappresentate lo Stato, ma anche chi ha fatto la trattativa e chi vi minaccia o fa di tutto per ostacolarvi. Quanti Stati ci sono, in Italia?
Lo Stato è uno solo: quello disegnato con chiarezza e precisione dalla Costituzione. Per essere credibile e riconosciuto come tale, lo Stato non deve temere di processare se stesso, attraverso propri esponenti infedeli, collusi, deviati. Altrimenti non ha titolo neppure per processare la criminalità, organizzata e non.
Mai avuto il dubbio di essere voi, i deviati?
No, nemmeno quando veniamo additati come tali, come portatori di interessi diversi dalla giustizia e dalla legalità costituzionale. Certo, c’è la sensazione palpabile di essere devianti rispetto al sentire comune molto diffuso che vorrebbe imporci una particolare “prudenza” perché non scoperchiamo certi vasi. Ma quella sulla trattativa è una delle poche indagini che ha subìto attacchi praticamente da tutte le parti politiche: almeno non possono accusarci di volerne favorire una a scapito di un’altra.
Qual è l’accusa che vi ha ferito di più?
Quella di autorevoli esponenti del giornalismo e della politica che ci attribuiscono addirittura la finalità di ricattare il capo dello Stato, solo perché ci siamo imbattuti casualmente in alcune sue telefonate con l’ex ministro Mancino, o perché l’abbiamo citato come testimone. È l’accusa più pesante e ingiusta, ma ci è toccato sopportare anche questo.
Quella vicenda ha trascinato tutti voi dinanzi alla Consulta e lei e il suo capo Messineo al Csm.
Avete la sensazione che quella doppia delegittimazione abbia tappato la bocca a chi magari poteva collaborare pienamente alle indagini?
Posta così la domanda, è difficile rispondere. Diciamo che i pentiti di mafia ragionano ancora con l’istinto tipico dei mafiosi: se capiscono di avere di fronte dei pm attaccati dalle istituzioni, fiutano che parlare di certi argomenti potrebbe essere scomodo e poco conveniente anche per loro. E magari chi sa molte cose si attesta su canoni di ordinaria “normalità”, rivelando solo ciò che non scandalizza troppo il sistema, e dunque non si rivela troppo dannoso per lui.
Lei è sempre sotto procedimento disciplinare al Csm?
Sì. A marzo mi è stato notificato l’atto di incolpazione, con l’accusa di aver leso le prerogative del capo dello Stato con un’intervista in cui spiegavo le procedure per la distruzione delle telefonate indirettamente intercettate fra lui e Mancino. Sono già stato interrogato e ora attendo che il Pg della Cassazione decida se chiedere al Csm di condannarmi o di prosciogliermi. A quel che risulta a me e al mio difensore, è la prima volta che si esercita l’azione disciplinare contro un magistrato per un’intervista. Ma, se sarò rinviato a giudizio, mi difenderò con serenità, ben conscio di aver fatto soltanto il mio dovere e di non aver violato alcuna legge o regola. Come il mio ufficio ha già fatto – purtroppo con gli esiti a tutti noti – dinanzi alla Consulta nel conflitto di attribuzioni sollevato dal Quirinale.
Anche alla Consulta la sua Procura sostenne di aver obbedito soltanto alla legge.
Certo, e la prova era nei fatti: non era la prima volta che una Procura, intercettando un soggetto coinvolto nelle indagini, captava casualmente sue conversazioni con un presidente della Repubblica. Era accaduto nel 1992 a Milano con il presidente Scalfaro. Ed era capitato nel 2009 a Firenze con Napolitano. In entrambi i casi, i pm avevano fatto trascrivere le telefonate e le avevano depositate agli atti. Nel caso di Scalfaro i giornali le avevano riportate. Eppure il Quirinale non sollevò alcun conflitto contro i magistrati. Lo fece soltanto con noi nel 2012, sebbene non avessimo fatto trascrivere quelle conversazioni penalmente irrilevanti, le avessimo custodite in cassaforte e avessimo spiegato che ne avremmo chiesto la distruzione. All’amarezza per quel che è accaduto, unisco però una soddisfazione, mia personale e dei miei colleghi: i nostri scassatissimi armadi hanno mostrato una tenuta stagna, infatti di quelle telefonate non è uscita neppure una sillaba. Nessuno può rimproverarci di non aver compiuto al meglio il nostro dovere di magistrati.
Cos’ha pensato quando il Comitato per l’Ordine e la Sicurezza le ha proposto di girare per Palermo a bordo di un carrarmato Lince?
Sulle prime, non sapevo neppure cosa fosse. Ho visto la foto in Internet di un Lince usato nella guerra in Afghanistan e ho detto di no. Oltreché impensabile dal punto di vista pratico e logistico, un magistrato che deve circolare a bordo di un carrarmato diventa anche ridicolo. E se c’è una cosa che non posso accettare è che il mio lavoro venga messo in condizione di perdere il rispetto. La sicurezza non può diventare un pretesto per i tanti che guardano con ostilità al nostro impegno per metterci alla berlina. Tutti gli altri rischi li accetto: questo no.
Si è parlato anche dell’uso di un robottino anti-esplosivi, il “Jammer bomb”. Lo Stato sta facendo tutto quello che può per garantire la sua sicurezza?
Io non ho mai chiesto nulla: ci sono autorità preposte a queste decisioni tecniche e stanno operando con la massima professionalità. A cominciare dai carabinieri della mia scorta. Ma un magistrato è sicuro soprattutto quando tutte le istituzioni si mostrano totalmente unite nell’affermare che il suo operato – peraltro criticabile – non può subire minacce né annunci di strage. La reazione compatta di tutto lo Stato sarebbe la migliore protezione per me e per qualunque altro magistrato in pericolo.
E quella reazione compatta per ora non c’è stata.
Finora è arrivata solo a spizzichi e bocconi, con molta lentezza, fatica e reticenza. Ma non dispero che ci si arrivi, un giorno o l’altro...

La Stampa 18.12.13
Prodi: «Non so se avrei dato il via al governo Letta»


Romano Prodi non dice cosa avrebbe fatto se non ci fossero stati i 101 franchi tiratori del Pd e fosse toccato a lui decidere quale governo formare. Durante la trasmissione Zapping su Radio Uno, l’ex premier risponde così ad un ascoltatore che gli chiede se lui avrebbe dato vita al governo Letta: «Non lo so, la storia non si fa con i se e con i ma...Non so dare una risposta. Non mi metto nella condizione in cui è Napolitano. Quando si prendono le decisioni che ha dovuto prendere il presidente della Repubblica bisogna tenere conto di mille problemi, non è che uno abbia sempre in mano tutte le carte da giocare, non so quali carte abbia potuto giocare Napolitano». Prodi ha poi parlato della politica europea: «La politica europea non è nata per la stagnazione, come negli ultimi tempi è accaduto. È nata per lo sviluppo, ma oggi si sta facendo una politica sbagliata. È un politica sbagliata perché ha sottolineato l’ex premier l’Unione ha paura della globalizzazione e per questo rinuncia alla solidarietà. Ma non si può fare politica con l’aritmetica perché servono invece lealtà e solidarietà. Dobbiamo tutti riprendere il senso della politica in una situazione in cui comanda solo la Germania. Dobbiamo impegnarsi allo sviluppo e all’occupazione ma non attaccando la Germania».

Corriere 18.12.13
La vittoria di Renzi
Ai gazebo soprattutto dipendenti e pensionati


ROMA — Matteo Renzi ha vinto le primarie dell’8 dicembre grazie anche a una valanga
di voti espressi  da dipendenti pubblici e pensionati. In particolare, l’ampia fetta di popolo democratico che ha preferito il sindaco di Firenze agli altri due competitori per la segreteria del Pd — Gianni Cuperlo e Pippo Civati — mostra in molti casi i capelli bianchi: il 55% dei sostenitori del rottamatore ha più di 55 anni e solo un terzo meno di 45. Sono mediamente più anziani i supporter di Cuperlo mentre la fascia giovanile del partito ha decisamente puntato su Civati. Il quotidiano Europa, diretto da Stefano Menichini, uno dei due giornali del partito di Renzi, ha pubblicato un’intera pagina dedicata al censimento del popolo delle primarie. E ha sintetizzato il risultato della ricerca con questo titolo: «Il solito Pd». Poi, nel sommario, viene descritto «un partito di pensionati e dipendenti pubblici... tra i quali però prevale la voglia di rinnovamento». In ogni caso, le forze nuove attirate da Renzi hanno abbassato la media dei cittadini che si sono messi in fila davanti ai gazebo delle primarie:
«Il voto dell’8 dicembre è stato prevalentemente maschile (40%)... mentre l’83% dei votanti aveva già partecipato alle primarie di coalizione».
Il fattore Renzi ha comunque pesato: infatti i suoi elettori sono iscritti al Pd nella misura di uno su quattro mentre tra chi ha votato Cuperlo la percentuale sale al 50%. «Tra i sostenitori di Renzi — scrive infine Europa — il 78 per cento ha votato alle ultime elezioni partito democratico, contro l’88% di Cuperlo e il 70% di Civati, il quale raccoglie consensi anche da Sel (20%). Mentre il sindaco pesca il 6% dei propri consensi dai sostenitori di Grillo e il 4% da Scelta civica e Udc.

Repubblica 18.12.13
Renzi boccia il piano della Cgil
di G. C.


Incalza Grillo: voti le riforme Prodi: “Nessuna rottura col Pd”

ROMA — Renzi insiste con Grillo: «Nessuna proposta di scambio, una semplice opportunità, perché i 5Stelle dicono no a un risparmio di un miliardo di euro, perché non firmano?». Il neo segretario democratico su Twitter, nell’appuntamento settimanale #matteorisponde, incalza i grillini, che non sono disposti a dialogare sulla riforma elettorale: «O Beppe non controlla i suoi senatori, che è un’ipotesi, nel senso che non può dire ai tacchini di anticipare Natale, oppure non vogliono fare politica nell’interesse dei cittadini. Vediamo. Io sono molto fiducioso. Non sono affatto pentito di essermi rivolto a Grillo».
Ma per il resto il Rottamatore è cauto. Fare cadere il governo? «L’ambizione personale - spiega - viene dopo, è evidente che dal punto di vista personale converrebbe spaccare tutto per andare alle elezioni. Uno dice: questa è la volta buona. Ma non si fa politica per ambizione e interesse personale ». Benché non sia il suo ruolo che gli si addice, il neo segretario del Pd è disposto a giocare da mediano, e non da centravanti, purché «vinca la squadra, l’interesse è che l’Italia funzioni». Molte cose però vanno cambiate. Un piano del lavoro a 360 gradi ad esempio, deve essere presentato, abbandonando gli slogan e inserendolo nel patto di coalizione. La proposta della Cgil? «No, grazie, la Cgil fa un altro mestiere, noi siamo il Pd non un sindacato quindi partiamo dalle nostre idee», replica sempre su Twitter.
Un’accelerazione verso il cambiamento del partito per cambiare il paese. E che il vento sia un altro nel Pd lo riconosce anche Prodi. L’ex premier non ha ritirato la tessera del partito che ha fondato, dopo i 101 franchi tiratori che hanno bloccato la sua corsa al Colle. È convinto che il Pd, se unito, sarà molto diverso. «Il problema del Pd del passato è stato frammentarsi in mille correnti. Per ora sono partiti bene, se ricomincia la manfrina di ognuno che fa lo sgambetto all’altro, sarà come prima». Ribadisce però che non prenderà parte alla direzione del Pd. Il “parlamentino” democratico è stato rinnovato per più della metà dei suoi 120 componenti, ma gli ex premier ne fanno parte di diritto. «Dopo la mia decisione di votare alle primarie per dare un contributo al rinnovamento generazionale, non c’è stata nessuna rottura con il Pd. Solo che non essendo neppure più iscritto al partito, non potevo neppure fare parte della direzione. Non si tratta perciò di un’esclusione ma di una libera scelta». Quanto poi sarebbe cambiato se Prodi fosse diventato capo dello Stato? Ci sarebbero state le larghe intese? «Non so dirlo», ammette il Professore invitando a mantenersi ben stretto l’euro.
(g.c.)

Corriere 18.12.13
Il piano del Pd per il lavoro: neoassunti senza articolo 18
di Alessandro Trocino


ROMA — «Abbandoniamo gli slogan e facciamo un piano del lavoro a 360 gradi, inserendolo nel patto di coalizione». Matteo Renzi lancia la sfida sulla riforma del mercato del lavoro e non coglie l’offerta che gli arriva dalla Cgil, sia pure indiretta (la fa su Twitter Massimo Gibelli, portavoce di Susanna Camusso): «Partiamo dal nostro piano del lavoro nazionale?». Il neosegretario pd risponde con un no secco: «La Cgil fa un altro mestiere. Ci confrontiamo con tutti ma noi siamo il Pd, non un sindacato. Partiamo dalle nostre idee».
E di idee ce ne sono molte, non tutte concordanti, su come riformare il mercato del lavoro. Renzi ha già annunciato che entro un mese sarà pronto il «job act», il testo che dovrebbe rivoluzionare le regole. A lavorarci sono in tanti: Yoram Gutgeld, deputato e spin doctor economico di Renzi; ma anche la responsabile Lavoro Marianna Madia; il responsabile Economia Filippo Taddei; il responsabile Welfare Davide Faraone; e, come supervisione politica, Maria Elena Boschi.
Idee chiave, abbattere i vecchi tabù, combattere il precariato, ridurre la burocrazia, semplificare le norme e riformare gli ammortizzatori sociali. Domani, in segreteria, partirà la discussione. Spiega Faraone: «La stella polare è il modello scandinavo, la flexsecurity, che avevamo già lanciato 4 anni fa alla Leopolda. Bisogna riformare drasticamente, agendo su due binari paralleli: il lavoro e lo Stato sociale».
Il piano, a quanto si sa, è quello di introdurre un contratto a tempo indeterminato per i neoassunti, che non prevede la tutela dell’articolo 18 (reintegro o indennizzo in caso di licenziamento illegittimo): in questo caso sarebbe eliminato il reintegro e resterebbe solo l’indennizzo. L’articolo 18 sarebbe ancora valido per i contratti in essere, ma anche per i nuovi contratti, in alternativa a quelli «flessibili» che si vogliono introdurre.
Gutgeld previene le possibili obiezioni (che portarono la Cgil sul piede di guerra e tre milioni a manifestare contro Berlusconi, nel 2001): «Resta tutto, non vogliamo togliere nulla, vogliamo solo aggiungere. Non aboliamo l’articolo 18, non aboliamo i contratti a progetto e non aboliamo i contratti a tempo indeterminato. Anzi. Quello che si vuole è guardare la realtà: spesso c’è un uso improprio dei contratti a progetto. E il contratto a tempo indeterminato è diventato un’araba fenice. Vogliamo aiutare i giovani e dare un’alternativa al deserto della precarietà».
La soluzione, dunque (vicina alla vecchia proposta Ichino), è quella di un contratto indeterminato di inserimento, «alternativo non al tradizionale contratto a tempo indeterminato, che rimane, ma al precariato». Gutgeld spiega che «potrà esserci anche una dinamica negoziale positiva con i datori di lavoro: per esempio, io potrei accettare un contratto con meno protezione, in cambio di una retribuzione più alta».
Che il tema sia delicato nel Pd, Gutgeld lo sa (a partire da Stefano Fassina): «Spero che l’opposizione a queste idee non sia miope». Faraone è ottimista: «Temi come l’articolo 18 non devono essere più tabù. È chiaro che possono esserci meno garanzie che in passato, ma come contrappeso ci sarà una rete di protezione più ampia. È intollerabile per la sinistra che non ci sia un sussidio universale e che la cassa integrazione e la mobilità riguardino solo alcuni. Comunque ce la faremo: quattro anni fa proponemmo l’abolizione del finanziamento pubblico e ci trattavano da pazzi; ora fanno tutti la gara a scavalcarci».
Ma i temi sono molti e i pareri anche. L’ombra della (non amatissima) riforma Fornero è dietro l’angolo: «Ma quella è una legge lontana dalla nostra proposta», dice Taddei. Che alla domanda su una possibile abolizione della Cassa integrazione, risponde così: «Con un approccio complessivo si può fare tutto. Ma il nostro obiettivo è garantire chi non ha tutele». Si può fare tutto, anche intervenire sulle «pensioni d’oro», come è pronto a fare Faraone. Monica Gregori, pd in commissione Lavoro, avverte: «Bene, ma attenti a non togliere le tutele e a non rifare gli errori disastrosi della Fornero. E poi dobbiamo avere il coraggio di andare oltre le proposte di Ichino». Tra le altre misure allo studio, la semplificazione del codice del lavoro, il rilancio dei centri per l’impiego e l’utilizzo dei fondi europei per i giovani.

Repubblica 18.12.13
Renzi: “Legge elettorale con chi ci sta”
“Garantire l’alternanza”. E Letta avverte: mangeremo il panettone anche nel 2014
di Goffredo De Marchis


ROMA — I tempi: entro gennaio. Con chi: con tutti, anche fuori dei confini della maggioranza. Quale legge: il Mattarellum corretto, il doppio turno, ma «le questioni tecniche mi interessano poco. L’importante è che sia un sistema maggioritario». Matteo Renzi torna sulla riforma elettorale. Corregge in parte il capo dello Stato perché sembra pronto a muoversi a prescindere dalla coalizione che regge l’esecutivo Letta. «La legge elettorale si può fare non necessariamente con i partiti della coalizione, megliofarla con il più ampio schieramento possibile perché sono le regole del gioco». Bene. Ma se ci sono problemi col Nuovo centrodestra di Alfano? «Le riforme si fanno naturalmente con tutti quelli che ci vogliono stare».
Con queste parole il neosegretario del Pd esclude una sovrapposizione tra il superamento del Porcellum e l’abolizione del Senato. A Largo del Nazareno, questo collegamento viene valutato come un modo per prendere tempo, aspettare le motivazioni della Corte costituzionale che ha cassato una parte della legge Calderoli e ridare fiato ai tifosi del proporzionale. «Una cosa è certa: su questo tema basta scherzi, votando alle primarie l’Italia ha chiesto di cambiare», avverte Renzi.
Qualcosa già si muove. Il presidente della commissione Affari costituzionali della Camera Francesco Paolo Sisto di Forza Italia riunisce oggi l’ufficio di presidenza. Si capiranno meglio i tempi dell’iter parlamentare che comunque ha la procedura d’urgenza. Ossia, 30 giorni per arrivare a un testo da mandare in aula che diventeranno qualcuno in più considerando le feste di Natale. Oggi Renzi e Alfano si vedranno alla presentazione del libro di Bruno Vespa. È l’occasione per un primo abboccamento tra i due su questa materia. Ma il leader del Pd gioca a tutto campo. Il partito di Berlusconi spinge sull’acceleratore. Vuole presto una riforma che consenta di andare a votare il prima possibile. E Forza Italia è sicura di avere dalla sua parte Renzi. Pronostica persino una possibile data delle elezioni: il 25 maggio in coincidenza con la consultazione delle Europee.
Non è certamente questa la strada indicata dal presidente della Repubblica. Già lunedì Giorgio Napolitano aveva escluso elezioni prima del varo delle riforme istituzionali. Era anche tornato a ventilare l’idea delle sue dimissioni nel caso di fallimento delle Camere. Ieri il capo dello Stato ha confermato il concetto: «La nostra fase difficile e sofferta non ha però mancato di rafforzare la convinzione, in una parte sempre più larga dell’opinione pubblica, che tra i doveri delle istituzioni vi sia quello di garantire alla nazione stabilità politica e governabilità». Perché uno dei mali italiani è stata ed è la «fragilità endemica» dei governi.
Per rispondere alle sollecitazioni del Quirinale, il governo sta preparando un crono-programma delle modifiche costituzionali. D’accordo con Renzi, Letta ha escluso interventi sulla legge elettorale. L’ha lasciata alle Camere e alla gestione dei nuovi vertici del Pd. Ma l’abolizione del Senato e la revisione del Titolo V, da approvare con le regole dell’articolo 138, richiedono una forma di organizzazione alla quale sta lavorando il ministro delle Riforme Gaetano Quagliariello. Non è solo un calendario. A questo programma si lega il destino del confronto tra Renzi e Alfano. Il segretario del Pd si tiene le mani libere, con il traguardo di un voto anticipato. Ma per ottenere un quadro più chiaro e più ordinato in cui governare sta attuando un pressing sul Nuovo centrodestra per vedere se sono davvero disponibili a scegliere un sistema maggioritario in tempi brevi. In quel caso, Renzi può muoversi diligentemente nell’area della maggioranza di governo e aspettare un anno, prima di lanciare la corsa alla premiership.
Enrico Letta è convinto che finirà così. Ha parlato ai dipendenti di Palazzo Chigi per gli auguri di fine anno. Mostrando ottimismo: «Nonostante molti fuori da qui non ci credessero, abbiamo mangiato il panettone e se continuiamo a lavorare bene contiamo di mangiarlo anche il prossimo anno».

Corriere 18.12.13
Mattarellum più premio
Il sindaco fa partire la trattativa con il Cavaliere
Incontro tra i fedelissimi Nardella e Brunetta
di Maria Teresa Meli


ROMA — È stato solo un primo contatto. Ma significativo. Renzi non ha tempo da perdere. Anzi, sa che il tempo è il suo nemico. Per questo motivo ha inviato un suo emissario a trattare con un ambasciatore di Berlusconi. É chiaro a tutti, al segretario del Pd per primo, che il Mattarellum sarebbe la sua rovina, ma che qualsiasi cosa è meglio della legge sortita fuori dalla Consulta.
Per questa ragione ieri, all’ora di pranzo, tra una foto con Oscar Farinetti e cento tweet ai suoi — tanti — follower ha inviato un ambasciatore a trattare con Berlusconi. Il mandato era chiaro, come chiare sono le parole che il sindaco è abituato a usare. Fin troppo: «Io voglio stanare il Cavaliere, scoprire, anzi, far scoprire, cosa vuole veramente. Non mi voglio trovare ad aprire con lui una trattativa sulla legge elettorale per poi trovarmi in mezzo al guado. Facciamolo uscire allo scoperto».
Ieri pomeriggio, approfittando della folla natalizia, si sono incontrati i due emissari del sindaco di Firenze e del Cavaliere di Arcore. Alla Caffetteria di piazza di Pietra, con aria apparentemente rilassata, si sono affrontati il capogruppo di Forza Italia Renato Brunetta e uno dei fedelissimi del segretario del Partito democratico, il suo ex vicesindaco Dario Nardella. L’oggetto del contendere? Apparentemente il Mattarellum. Ma quella è roba di scuola, per chi non sa quanto sia complicata e lunga la trattativa. Comunque Nardella ha chiesto a Brunetta se l’idea renziana di rendere maggioritario il Mattarellum, trasformando quel 25 per cento in un premio, gli piacesse o meno. Il capogruppo di FI non ha avuto il coraggio (e forse anche il cuore) di dire di no. È chiaro che a entrambi quella mossa serve per fare paura ad Alfano.
Vuoi mandare la pratica della riforma elettorale per le lunghe? Sappi che potremmo farla in un baleno senza di te. Renzi non ha ancora deciso quale strada prendere ma su un punto è certo: se il leader del Nuovo centrodestra (Alfini, come lo chiama lui, paragonando le sue sorti a quelle di Fini) «pensa di avviare una lunga, quanto inutile trattativa, il Partito democratico non ci starà». Il motto, o, meglio, il ritornello, del segretario del Pd, è sempre lo stesso, quello pronunciato ormai mesi orsono: «Se il Parlamento non riesce a fare la legge elettorale e il governo non riesce a fare le riforme, è legittimo chiedersi perché andare avanti». Ma proprio perché Renzi non vuole mettere in subbuglio il governo né entrare in guerra con il Quirinale in questa fase, preferisce lasciare queste considerazioni ai fedelissimi e lasciare che il suo ambasciatore parli di scorporo con il messo di Berlusconi e discuta con lui del modo in cui si può eliminare, perché sa che con Alfano non ci riuscirà mai. «Quelli pensavano che non avrei mai trattato con Berlusconi per paura di sentirmi dire le solite offese, ma mi conoscono male, io la riforma la voglio fare sul serio, e la farei anche con il diavolo».
Che il diavolo si chiami Grillo o Berlusconi poco importa. Renzi è uomo pragmatico: «Vediamo come va questo tentativo con il Cavaliere e poi si vede». Quello che è sicuro è che se il tentativo va bene non ci sarà Alfano che tenga: se il nuovo segretario del Partito democratico avrà una maggioranza a prescindere dal Nuovo centrodestra non ci sarà problema alcuno. Renzi è fedele al suo motto iniziale: la riforma elettorale si fa con chi ci sta. Lui continua a dire che non lo fa perché pensa che le elezioni siano alle porte e perché in prossimità del voto occorre cambiare il sistema. En passant , quando si distende e conversa tranquillamente, dice, come se nulla fosse e come se niente gli interessasse: «Il 25 maggio è l’ultima data utile per le elezioni anticipate». Se sia una battuta o una constatazione seriosa questo, alle volte, non riescono a capirlo nemmeno i suoi fedelissimi. Fatto sta che, senza sapere né leggere né scrivere, si stanno preparando a entrambe le opzioni: elezioni anticipate o trattativa serrata per decidere se Alfano o Berlusconi sarà il prossimo interlocutore.
Ma l’aria che tira, nel centrosinistra, è che quale che sia la fine non cambi molto. L’importante è che Renzi tenga la barra dritta. Lo farà?

La Stampa 18.12.13
Berlusconi entusiasta di Renzi
di Ugo Magri

qui

Corriere 18.12.13
E sul «caso Spinelli» i no Cav si ritrovano con i fan del Cavaliere
di Luca Mastrantonio


Alle critiche di Eugenio Scalfari di domenica per l’appoggio alla campagna di Marco Travaglio e Beppe Grillo contro Giorgio Napolitano, Barbara Spinelli ha replicato lunedì su Repubblica drammatizzando i toni: si dice «stupita» per gli attacchi portati «con violenza» alle sue idee e alla sua «persona». Violento, aggiunge, è l’uso fatto di Altiero Spinelli, padre dell’europeismo, «del quale nessuno di noi può appropriarsi»: non ne sono eredi, dice la figlia, «né Scalfari, né il presidente della Repubblica, né io». E su Grillo: va «ascoltato», perché «non è solo l’Italia peggiore che ha votato per lui a febbraio». Mettere il grillismo sullo stesso piano di Alba dorata «è una controverità», sostiene; infine, Spinelli giudica «scorretto accusare Grillo di condannare alla gogna i giornalisti, quando all’interno di una stessa testata appaiono attacchi di questo tipo ai colleghi». Nota su Twitter Claudio Petruccioli: così Spinelli equipara Scalfari a Grillo. La conclusione di Barbara Spinelli (replica cui sono seguite affettuose righe di Scalfari) è in linea con l’articolo del Fatto Quotidiano uscito lo stesso giorno, senza firma. Si sostiene che «la gogna non l’ha allestita Grillo contro una penna ostile ai 5 Stelle, ma Scalfari contro Spinelli, la più prestigiosa editorialista di Repubblica ». Dopo un plauso a Gad Lerner, «anche lui firma illustre del quotidiano», si infierisce sui giornalisti messi all’indice dai grillini: Maria Novella Oppo (Unità ), Francesco Merlo (Repubblica ) e Pierluigi Battista (Corriere ): scriverebbero, sostiene l’anonimo autore, articoli «menzogneri». Mentre la destra, con il Giornale , si gode il soccorso rosso nella campagna anti quirinalizia, la sinistra si spacca: MicroMega , gruppo Espresso, schiera pro Spinelli Roberta De Monticelli, mentre l’Unità , sempre lunedì, con una vignetta di Sergio Staino in prima pagina, saluta «due buone notizie in un giorno solo»: Gianni Cuperlo presidente pd e «Scalfari che sculaccia Spinelli». Lerner sul blog bacchetta l’amico: «Bobo, ti ha dato di volta il cervello? Hai bevuto un bicchiere di troppo?». Per poi ospitare un intervento di Sandra Bonsanti, presidente di Libertà e giustizia, contro il fondatore di Repubblica : «Lo scontro tra Scalfari e Spinelli va ben oltre la rottura di un’antica amicizia»; riguarda, ad esempio, «cosa sia stato il berlusconismo», e «come si debba agire oggi, con lo spettro di nuovi fascismi». Ieri il Fatto è tornato sulla polemica, con un colpo d’ala di Fabrizio d’Esposito, che ha ricostruito i contrasti tra Altiero Spinelli e la linea del Pci di Giorgio Amendola, che lo espulse perché «deviazionista» antistalinista. Una finezza alla Giambattista Vico. Ma qui non si tratta solo di divisioni interne alla sinistra, visibili nella spaccatura interna a Repubblica , tra chi critica Grillo e difende il Colle e chi fa il contrario, cioè tra Scalfari e Merlo da una parte e Stefano Rodotà e Barbara Spinelli dall’altra. La faglia è profonda, ha un fronte ampio, attraversa sinistra e destra antiberlusconiana, creando strani smottamenti: nell’attacco a Napolitano, infatti, chi sta con Grillo, come Travaglio e Spinelli, si trova dalla stessa parte di colui il quale era considerato il male assoluto, cioè Silvio Berlusconi.

Corriere 18.12.13
La candidata indagata divide i democratici
di Renato Benedetto


MILANO — Era passato appena un giorno dalla vittoria alle primarie per le Regionali sarde, che per Francesca Barracciu, e per il Pd, finiti i festeggiamenti cominciavano le grane. Quando, primo ottobre, il nome dell’europarlamentare democratica, incoronata ai gazebo candidata del centrosinistra nell’isola, spuntava nell’inchiesta della Procura sui fondi del consiglio regionale (di cui lei ha fatto parte). Ora il caso della candidata-indagata, con l’accusa di peculato, è arrivato a Roma, sul tavolo della segreteria di Matteo Renzi.
A occuparsene, il responsabile Enti locali, Stefano Bonaccini, e il capo dell’Organizzazione, Luca Lotti. Che hanno incontrato ieri Barracciu e il numero uno del Pd sardo Silvio Lai. Al Nazareno si prenderanno una settimana di tempo per decidere se, al primo appuntamento elettorale dell’era Renzi, forse già il 23 febbraio, sarà il caso di correre con un nome coinvolto nell’inchiesta che ha travolto la politica sarda (ma la decisione potrebbe arrivare prima). È stato proprio Lai a rivolgersi a Renzi: «Ci serve una mano», ha scritto in una lettera al leader pd, si rischia «una disaffezione al voto» a causa del «clima politico generale e per i più recenti eventi balzati alle cronache».
Eventi che riguardano più di sessanta indagati, tra consiglieri ed ex consiglieri regionali, non certo solo Barracciu. L’inchiesta ha travolto tutti i partiti e nomi di peso. L’accusa è di peculato: per la Procura di Cagliari i consiglieri avrebbero usato i soldi destinati ai gruppi politici per scopi personali, o comunque non secondo legge. Le cronache hanno raccontato di denari pubblici spesi per offrire il porceddu a un convegno contro l’obesità, di quadri sotto sequestro e di eleganti penne Montblanc acquistate, secondo i pm, con i fondi dei gruppi. L’inchiesta, che nel suo primo troncone vede venti indagati già a processo, ha raggiunto il culmine con gli arresti, a novembre, dell’ex capogruppo del Pdl Mario Diana, del consigliere Carlo Sanjust (Pdl) e dell’imprenditore Riccardo Cogoni. Gli ultimi due sono ora ai domiciliari: Sanjust ha riconsegnato al Pdl 25 mila euro, che per l’accusa sono stati usati per il suo matrimonio. Barracciu giorni fa è stata sentita dai pm per giustificare 33 mila euro spesi tra il 2006 e il 2009.
«Rimborsi per la benzina», ha spiegato lei, che ha più volte ribadito di non voler farsi da parte. Il suo caso tiene in stallo il Pd. La campagna per le Regionali, che sull’onda delle primarie del 29 settembre doveva partire, non è entrata nel vivo. E gli alleati, da Centro democratico a Sel, hanno chiesto un passo indietro della vincitrice delle primarie. «In caso contrario formeremo una nuova coalizione — spiega Luciano Uras, senatore di Sel —. Siamo garantisti, ma è una questione di opportunità: dobbiamo riconciliare i cittadini e gli eletti». Intanto i Rossomori, nati dalla scissione del Partito sardo d’azione, si son chiamati fuori dall’alleanza.
La divisione complicherebbe la corsa del centrosinistra. Che oltre al centrodestra di Ugo Cappellacci, troverebbe la sfida dei Cinque Stelle, pronti a cavalcare la questione morale, mentre in corsa c’è anche la scrittrice Michela Murgia. Così comincia la ricerca di nuovi candidati. Si sono fatti i nomi, tra gli altri, del segretario della Federazione nazionale della stampa italiana Franco Siddi e del rettore dell’Università di Sassari, Attilio Mastino. Ma è chiaro che prima si aspetta la scelta ufficiale del Pd. Che, in ogni caso, passerà da Roma.

il Fatto 18.12.13
Forconi e CasaPound. A Roma il sit-in dei duri
Oggi la manifestazione in Piazza del Popolo guidata dal “ribelle” Calvani
Presenti anche i neo-fascisti
Mobilitati 2 mila agenti, attese 15 mila persone
di Sandra Amurri


A poche ore dalla manifestazione di piazza del Popolo del Comitato 9 dicembre, organizzata da Danilo Calvani, “contadino” di Latina e soprattutto uno dei leader del Comitato, a Roma la tensione cresce. Il fondatore dei Forconi siciliani, Mariano Ferro, mette in guardia: “Il rischio di infiltrazioni è altissimo. Non so cosa potrebbe accadere oggi. Calvani continua a dire che terranno fuori gli estremisti, che CasaPound non ci sarà, ma io sono sicuro che andranno lo stesso”. Poi aggiusta il tiro per evitare la rottura definitiva (e per non perdere terreno): “Sono sicuro che Danilo lavorerà per garantire una manifestazione pacifica, siamo animati dalla stessa finalità: mandare tutti a casa. Forse abbiamo sbagliato a spaccarci, ma c’è il rischio di strumentalizzazioni”. In piazza ci sarà anche CasaPound, “guidata” dal suo vicepresidente Simone Di Stefano, già arrestato e condannato a tre mesi con l’obbligo di firma per aver tolto la bandiera della Ue dalla sede del Parlamento europeo a Roma, sabato scorso, per sostituirla con il tricolore. “Come avevamo già annunciato - assicura Di Stefano - ci saremo senza simboli, ma con la bandiera italiana”. L’esponente del movimento di estrema destra si rivolge a Grillo, invitandolo “a ritirare i suoi 150 parlamentari, altrimenti anche lui è come loro”. Calvani invece, nonostante la spaccatura del movimento e i rimbalzi di accuse, non teme affatto un insuccesso della manifestazione: “I Forconi non muovevano niente, è una fortuna che si siano dissociati questo ha fatto sentire liberi di partecipare molti cittadini, rimasti finora alla finestra perchè non gradivano di essere definiti Forconi. Arriveranno fiumi di persone da tutta Italia. Vedrete cosa sarà piazza del Popolo”.
L’APPUNTAMENTO è alle 15, per un sit in che andrà avanti fino a mezzanotte, quando scadrà l’autorizzazione della Questura. “Da Torino alla Sicilia partiranno in treno, con gli autobus e con i furgoni, persino in autostop” assicura Calvani, che ribadisce: “Nessun timore di infiltrazioni, le forze dell’ordine saranno al nostro fianco”. Sono circa 2000 gli agenti mobilitati a Roma, dove si svolgerà anche il corteo dei movimenti di lotta per la casa. Presidiate tutte le sedi istituzionali e gli obbiettivi sensibili. Divieto “di assembramento” dei tir - per le strade di Roma e attorno ai caselli autostradali - e anche di semplice circolazione per tutti quei mezzi che non siano impegnati nella distribuzione delle merci. Dalla questura, stima di massima: 15mila manifestanti.
“L’unica bandiera presente sarà quella italiana” promette Calvani. Alla domanda se non siano preoccupati per la partecipazione di CasaPound, risponde: “E dov’è il problema? Verranno come comuni cittadini. Non accadrà niente, stiamo collaborando con le autorità preposte alla sicurezza”. Il savonese Luigi Tenderini, ex militante No Tav, attacca: a suo dire, Calvani starebbe riesumando l’estrema destra, quindi “sarebbe da arrestare per eversione”. Mentre di Ferro e Chiavenago, altri esponenti del Comitato 9 dicembre, dice: “Sono leader senza alcuna investitura”. Per il direttore generale del Dis, Giampiero Massolo, ascoltato ieri dal Copasir, è proprio la natura poco coesa del movimento, “fatto di tante anime”, ma che “intercetta comunque un malcontento diffuso nel Paese a causa della crisi”, a far sì che la protesta “si presti ad essere infiltrata da gruppi estremisti”. Circostanza che ha spaventato il leader dei Forconi siciliani Ferro che, assieme al Comitato 9 dicembre del Veneto (e non solo), domenica 22 dicembre, sarà a Roma per andare alll'Angelus a “prendersi la benedizione di Papa Francesco”. Sono già stati prenotati 10 pulman a Vicenza, a Verona, a Treviso e in Toscana.
NEL FRATTEMPO arriva la benedizione laica del Presidente di Confindustria Giorgio Squinzi: “ll movimento dei Forconi è ampiamente giustificato, perché negli ultimi tempi non ci siamo concentrati a fare le cose necessarie alla crescita. Il malessere è molto diffuso, la situazione dell’economia reale è in molti casi drammatica”. Affermazioni “sconcertanti” per il deputato di Scelta Civica Gianfranco Librandi che si augura un ravvedimento di Squinzi: Invece di condannare le proteste le giustifica... MI aspetto che alla prossima manifestazione Squinzi salga su un trattore e si metta alla guida della rivolta dei forconi”.

Repubblica 18.12.13
Il vicepresidente Di Stefano, condannato per il furto della bandiera Ue: gli organizzatori non possono allontanarci
“Noi di CasaPound saremo migliaia questo movimento è anche nostro”
di Fabio Tonacci


ROMA — «Calvani dice che non ci vuole? E come ci impedirà di manifestare? Arriveremo in duemila in Piazza del Popolo. Il Coordinamento 9 dicembre ha chiamato tutti gli italiani e noi ci saremo, senza vessilli politici e con il tricolore». Simone Di Stefano, 37 anni, vicepresidente di Casa-Pound, è stato appena condannato a tre mesi con l’obbligo di firma, «e per un padre separato con due figlie non è proprio una passeggiata». Però oggi sarà al presidio, con tutti i suoi camerati, i “fascisti del terzo millennio”, e «se qualcuno giudica la mia presenza inopportuna, sono disponibile a dare spiegazioni».
Di Stefano, al di là dei consueti buoni intentidella vigilia, dei soliti «vogliamo una manifestazione gioiosa e pacifica», cosa succederà in Piazza del Popolo?
«Non credo che ci saranno scontri con la polizia, se allude a questo. Noi non li vogliamo. Il presidio è statico, saremo lì con le maschere e il cappio al collo, per ricordare tutti i lavoratori e gli imprenditori che si sono suicidati per la crisi ».
Quanti sarete, realisticamente?
«Fra i mille e i duemila».
Addirittura?
«Sì, arriverà gente dalle varie sedi di Casa-Pound sparse in Italia. Saremo in tanti, per urlare a questo Parlamento che se ne deve andare a casa, non è più legittimo dopo la sentenza della Corte Costituzionale sul Porcellum. Napolitano deve sciogliere subito le camere e tornare al voto con il sistema proporzionale del 1993».
E se non succedesse?
«Rimarremo in Piazza del Popolo finché la questione delle elezioni anticipate non diventerà una priorità nella discussione per giornalisti e politici».
Anche con le tende?
«Non lo so ancora».
Perché non avete preso le distanze pubblicamente dalle sparate antisemite contro i banchieri ebrei di Andrea Zunino, portavoce a Torino dei forconi?
«Sono le solite fisime cospirazioniste, Zunino non ha parlato a nome del coordinamento. I veri gruppi di affare che cercano di farci la pelle sono quelle grandi aziende che non tollerano che l’Italia sia all’avanguardia nel settore industriale, nella costruzione di armi, nelle tecnologie».
Cosa pensa delle liste di proscrizione contro Equitalia e l’Agenzia delle Entrate che girano in rete?
«Le liste sono sempre sbagliate. Fra le basi di rivendicazione, c’è anche lo stop a qualsiasi rivendicazione di Equitalia per un anno».
Chi vi finanzia per scendere in piazza?
«Nessuno».
Ci sarà anche Forza Nuova accanto a voi?
«Non so cosa vogliono fare, a Milano però erano presenti durante le proteste di Piazzale Loreto. Per noi sono bene accetti, accettiamo chiunque decida di manifestare senza vessilli politici. Anche sindacalisti e studenti di sinistra».
E i grillini?
«Se sono davvero antisistema come dicono, devono lasciare 150 posti vuoti in Parlamento e scendere a manifestare con noi».

Repubblica 18.12.13
I Forconi e i luoghi della vita
di Barbara Spinelli


FIN qui abbiamo visto come in uno specchio, in maniera confusa, l’impoverirsi italiano: lo leggevamo nella scienza triste delle statistiche, delle percentuali. Ora lo vediamo faccia a faccia: è l’insurrezione formidabile, generalizzata, di chi patisce ricette economiche che piagano invece di risanare.
Non è insurrezione pura, anzi il contrario. Non è collera di operai ma dei più svariati mestieri, perché tutti precipitano, anche il ceto medio che s’immaginava scampato e tanto più si sgomenta. In molte regioni il movimento è agguantato dalle mani predatrici della destra estrema, o berlusconiana, o leghista.
Già sei anni fa, il Censis avvertì governi e politici: attenzione — disse — l’Italia è una “poltiglia” che ha smesso di sperare nel futuro, non potete far finta di niente. Prima ancora, fra il 2003 e il 2004, nacque la canzone che divenne emblema del sito di Grillo ed è oggi parola ricorrente del movimento 9 dicembre: «Non ce la faccio più!». Qualche mese fa sui muri di Atene comparve una scritta, contro l’Unione europea, che echeggia il nuovo antieuropeismo italiano: «Non salvateci più!».
È detta rivolta dei forconi, perché volutamente rimanda alle jacquerie contadine del ’300. Neppure questa è una novità. La crisi frantuma la società, il vecchio scontro fra chi nella scala sociale stava sopra e chi sotto è soppiantata dall’atroce separazione tra chi sta dentro i castelli signorili e chi è fuori: escluso, non visto, non più rappresentato, ignaro della vecchia contrattazione perché il sindacato protegge i protetti, non chi è allo sbando. Hilary Mantel, scrittrice inglese, sostiene che gli inglesi son ricaduti nel Medio Evo: «La povertà è di nuovo equiparata a fallimento morale e debolezza, e l’assistenza pubblica anziché un diritto è un privilegio».
C’è di tutto, nel tumulto degli impoveriti: i piccoli commercianti che non rientrano dallo scoperto bancario, gli artigiani senza soldi per pagare le tasse e puniti dai tassi usurai praticati da Equitalia, i proletari giovanili del precariato, gli autotrasportatori, e il popolo delle partite Iva che usava evadere, che votava Lega, ed è ora sul lastrico. Non stupisce che nel movimento si attivino destre eversive come Forza Nuova o CasaPound. La Casa della Legalità a Genova sospetta infiltrazioni mafiose a Torino, Imperia, Ventimiglia, Savona. Alcuni inneggiano a governi militari, come in Grecia. Andrea Zunino, agricoltore, rappresenta solo se stesso ma si proclama leader e confessa, a Vera Schiavazzi su Repubblica, la sua ammirazione per la dittatura nazionalista e xenofoba del premier ungherese Orbàn. Si domanda, anche, come mai «5 o 6 tra i più ricchi del mondo siano ebrei».
Lo sguardo lungo della storia è utile, per ascoltare e capire la storia mentre si fa. Forse più dello sguardo degli economisti, disabituati a pensare l’uomo quando dice, nel sottosuolo, «non ne posso più». Jacques Le Goff, non a caso specialista del Medio Evo, denunciò già nel ’97 la nefasta smemoratezza storica degli economisti: «Una lacuna tanto più disdicevole se si pensa che la maggior parte degli stessi economisti, che hanno acquisito nelle nostre società e presso i governi europei e mondiali un’autorità spesso eccessiva e a volte ingiustificata, non hanno una buona conoscenza della storia economica e, cosa ancor più grave, si preoccupano poco della dimensione storica».
Anche l’apparire di un personaggio come Pierre Poujade, negli anni ’50 in Francia, sorprese le élite dominanti quando si mise alla testa di una vastissima rivolta di piccoli commercianti e artigiani fino allora trascurati. Anche quel movimento, effimero ma per alcuni anni possente, covava sporadici pensieri fascistoidi, antisemiti (il bersaglio era il premier Mendès France, «non autenticamente francese»). Gli intellettuali lo stigmatizzarono, da Roland Barthes a Maurice Duverger. Più fine e terribilmente attuale il giudizio che diede lo storico-geografo André Siegfried: figli reietti della deflazione, i poujadisti «si dibattono nel chiasso, con i gesti disordinati della gente che annega».
Qui si ferma tuttavia il paragone. Poujade spuntò nell’era della ricostruzione e del Piano Marshall, a partire dal 1953. Lottava contro le trasformazioni di una crescita forte: le prime catene di supermercati che bandivano i negozi tradizionali, e le tasse innanzitutto, chedopo la Liberazione misero fine a tanti vantaggi — penuria, prezzi alti, mercato nero — accumulati in guerra dal piccolo commercio. Ben altro clima oggi: c’è deflazione, ma senza trasformazioni e senza vere rappresentanze locali. È una discesa di tutti, tranne per i ricchissimi.
Forse per questo viene meno il mito della Piazza, caro a Poujade. La piazza romana divide i capi dell’odierno movimento, e i più temono infiltrazioni neofasciste. La parola che usano di più è “presidio”. Importante non è sfilare davanti al centro del potere ma presidiare i propri territori, i“pochi metri quadrati di pavimento” di cui parla Kafka, su cui a malapena stanno diritti.
Ma, soprattutto, quel che manca oggi alla rivolta è un’egemonia culturale e politica che la interpreti e non la sfrutti elettoralmente. Il poujadismo fu all’inizio egemonizzato dai comunisti, che presto si ritrassero. Poi fu De Gaulle ad assorbirlo. La partitocrazia esecrata dai poujadisti fu lui a spegnerla, creando una repubblica presidenziale; e poté farlo perché nella Resistenza era stato uomo senza macchia, capace di incarnare il meglio e non il peggio della nazione, di redimerla e non di inchiodarla ai suoi vizi. Non così da noi: specie nell’ultimo trentennio.
Sono tante le colpe di chi ha lasciato gli impoveriti senza rappresentanza e senza futuro. “Troppo volgare è stato l’esodo della sinistra, di tutte le sinistre, dai luoghi della vita”, scrive Marco Revelli sul Manifestodel 12 dicembre, e pare di riascoltare l’economista Federico Caffè quando deprecava il «mito della deflazione risanatrice » e l’indifferenza dei politici, degli economisti, degli stessi sindacati, a chi questo mito lo pagava immiserendosi.
Gli adoratori del mito fanno capire che non c’è niente da fare: altra medicina non esiste. Mario Monti quand’era premier invitò addirittura a rassegnarsi: una generazione è perduta. La realtà è ancora più cupa, se pensiamo che in Italia i Neet (le persone che non lavorano né studiano - Not in Education, Employment or Training) sono il 27% fra i 15 e i 35 anni, non fra i 16 e i 25 come si calcola in altre democrazie: vuol dire che stiamo parlando ormai di due generazioni perdute, non di una sola.
C’è da fare invece, se si aprono gli occhi su quel che accade nei luoghi della vita (sono questi i «presìdi»), e non si trasforma la rivolta in mero affare di ordine pubblico. Se la sinistra non lascia alle destre il monopolio su una disperazione in parte poujadista e regressiva, in parte assetata di giustizia e uguaglianza di diritti. Se si tira la gente verso l’alto e non il basso; verso l’Europa da cambiare e non verso la bugia dell’assoluta sovranità nazionale. È un insulto al movimento bollarlo come fascista, ma anche abbracciarlo con euforica, ipocrita, e finta acquiescenza. Senza linguaggio di verità, inutile sperare in un’egemonia culturale che aiuti a pensare chi insorge. È quel che tenta Paolo Ferrero, quando adotta il parlar-vero e dice al movimento: in fondo la vostra è una battaglia subalterna al liberismo che combattete; è dal liberismo che attingete i vostri slogan anti- statalisti, anti-tasse, anti-sindacato.
Non ha torto: molto accomuna i nuovi movimenti italiani al moderno tea party americano, oltre che al poujadismo di ieri. Meglio schiodarsi da simili model-li, se non si vuol restar prigionieri di un nazionalismo che vuol liquidare il Welfare, e che non aiuterà chi soffre la povertà e la perdita dei diritti.

il Fatto 18.12.13
Guerra tra generazioni. “Repubblica” prepensiona
Referendum. Il quotidiano di Ezio Mauro mette “a riposo” 59 giornalisti anziani e boccia i contratti di solidarietà
di G. Sc.


Probabilmente Carlo De Benedetti e il suo amministratore delegato Monica Mondardini avrebbero preferito un esito diverso. Fatto sta che i giornalisti di Repubblica hanno scelto di “morire” di prepensionamenti invece che di solidarietà al 15 per cento, come testimonia l’esito del referendum che per una quarantina di voti ieri ha visto prevalere la prima opzione sulla seconda, entrambe in alternativa agli 81 tagli messi sul piatto dal Gruppo Espresso a fine settembre.
SULLA SCELTA hanno sicuramente pesato le istanze delle redazioni distaccate, che con la solidarietà avrebbero sofferto maggiormente. Tanto più che l’uscita dei 59 prepensionati da qui al 2015, scelti tra tutti coloro che nell’arco del piano avranno compiuto i 60 anni di età, sarà compensata dall’assunzione di 14 giovani giornalisti. Che risponde a quanto previsto dalla legge di Stabilità in concomitanza con l’istituzione del fondo da 120 milioni di euro che sosterrà il 70% dei costi dei prepensionamenti (il resto è a carico delle apposite riserve aziendali). Senza contare il fatto che gli stessi prepensionati potranno continuare a scrivere sul quotidiano anche una volta usciti dalla porta principale. Sul punto il direttore del quotidiano, il 65enne Ezio Mauro, è stato abbastanza chiaro nella missiva inviata ai redattori alla vigilia del voto. “Nel caso la redazione scelga i prepensionamenti parleremo con tutti gli interessati. Attraverso le collaborazioni dei colleghi che escono dalla redazione, cercheremo di mantenere il più possibile intatta la superficie giornalistica della parte di scrittura”, aveva scritto prima ancora di riassumere le linee guida della nuova Repubblica in procinto di cambiare formato e ridurre le pagine. Per poi ribadire il concetto: “La solidarietà comporta l’assenza di un giorno in più alla settimana per tutti i giornalisti. Nel caso dei prepensionamenti,
l’assenza di 59 giornalisti a partire da fine 2014-inizio 2015, a causa dei tempi tecnici di applicazione della legge 416: risponderemo prima di tutto con il recupero del maggior numero possibile di colleghi che si dedicano alla scrittura, attraverso contratti di collaborazione”. Parole che, in pieno conflitto generazionale in corso, non possono non aver rasserenato gli animi della parte più anziana della redazione.
Del resto, la solidarietà tra i quotidiani utilizzata per la prima volta dall’Unità a fine anni Novanta su impulso di Sergio Cofferati e oggi tra gli ammortizzatori più in voga nell’editoria, piace soprattutto agli editori: i costi sono prevalentemente a carico della cassa di previdenza dei giornalisti (l’Inpgi) e, in piccola parte, ai lavoratori. Nel caso di Repubblica, per esempio, i giornalisti con retribuzioni fino a 157mila euro annui avrebbero perso il 3% dello stipendio. Il tandem De Benedetti-Mondardini, poi, alla scadenza del contratto di solidarietà avrebbe sempre potuto, in caso di necessità e, quindi, di nuovi esuberi, riproporre i prepensionamenti e usufruire così di entrambi gli ammortizzatori.
IL DADO per il quotidiano che viaggia verso una chiusura d’anno in rosso per oltre 4,5 milioni, in ogni caso è tratto. Seguirà il lancio del nuovo formato del giornale a foliazione ridotta che sarà “più semplice, più lineare, faciliterà il reimpiego delle nostre forze secondo il piano che sarà deciso dalla redazione tra le due opzioni imposte dalla crisi. Lo gestiremo insieme”, come anticipato da un Mauro fiducioso “nel nostro futuro”.

Corriere 18.12.13
Unioni civili, chimere e compromessi
di Pierluigi Battista


Forse, finalmente, è stata imboccata la strada giusta. Forse. Dopo anni di retorica verbosa, dichiarazioni, proclamazioni di intenti, «occorre che», «bisognerebbe», «è necessario affrontare», forse, anche grazie all’accelerazione impressa dal neosegretario del Pd Matteo Renzi nel suo discorso di insediamento, una proposta seria per le unioni civili delle coppie omosessuali può diventare un risultato concreto nei prossimi mesi. Forse, però. Perché se prevalesse ancora una volta la logica dei veti contrapposti, dei distinguo, della battaglia inconcludente tra «è troppo», «è troppo poco», l’Italia perderebbe l’ennesima occasione per darsi una legge decente e ragionevole. Come avviene con la legge elettorale: se ne parla, se ne parla, ma al dunque se ne parla soltanto e non si riesce a venirne a capo.
Una legge, per forza di cose in una materia tanto controversa e destinata ad alimentare passioni tra punti di vista diversi se non opposti, non può soddisfare i bisogni degli integralisti. Una legge è sempre un compromesso. L’importante è che sia un buon compromesso. Anche la legge 184 sull’aborto è stata un compromesso: ma un compromesso che ha funzionato. C’era chi voleva la liberalizzazione totale e c’era chi spingeva perché nessuna legge ne depenalizzasse la pratica. Alla fine la legge è stata approvata, confortata da un referendum, difesa nel corso degli anni e dei decenni. Anche la legge sul divorzio è stato un buon compromesso. Oggi ci pare sin troppo timida, i tempi appaiono lunghi, le procedure farraginose. Ma, misurata sugli standard dell’epoca, nessuno può negare che l’introduzione del divorzio è stata una svolta nel costume culturale dell’Italia, un punto di rottura con il passato. Perché non dovrebbe accadere la stessa cosa con una legge che garantisca diritti fondamentali delle coppie dello stesso sesso? Non sanno tutti quelli che con coerenza e buona fede sostengono il «matrimonio» per le coppie omosessuali che il meglio è nemico del bene? Forse il riconoscimento delle unioni civili non appaga interamente il bisogno di un’equiparazione totale con i matrimoni eterosessuali. Ma l’inseguimento di una chimera irrealistica e velleitaria porta allo stato di fatto attuale, alla mancanza di una legge civile. Ed è la mancanza di una legge civile che fa cercare surrogati lessicali e simbolici che sostituiscano la realtà con la guerra delle parole, che riempiano il vuoto con qualche trovata sorprendente, tipo la formulazione demenziale «genitore 1» e «genitore 2» per non nominare il padre e la madre.
C’è inoltre un altro prerequisito che permette di trovare una soluzione legislativa al riparo degli oltranzismi ideologici, degli ostruzionismi politici e delle convenienze di parte. È molto meglio che la legge per le unioni civili parta come iniziativa parlamentare, possibilmente promossa da esponenti di partiti diversi e collocati sia sul versante dell’opposizione sia su quello della maggioranza. Per il divorzio accadde esattamente così: a battezzare la legge furono un esponente socialista, Loris Fortuna, e un liberale, Antonio Baslini. E la maggioranza che approvò la legge in Parlamento non fu costretta a coincidere con quella che sorreggeva il governo, il cui partito architrave, la Democrazia cristiana, era assolutamente contrario a una legge che mettesse in discussione l’indissolubilità del matrimonio. Poi, con il referendum del ’74, gli italiani si contarono e dalle urne scaturì una maggioranza schiacciante, decisamente superiore anche alle più ottimistiche previsioni di un mondo «laico» ancora timoroso e diffidente nei confronti di una presunta «arretratezza» dell’opinione pubblica italiana. Oggi può accadere più o meno la stessa cosa. La proposta per una legge che dia alle coppie omosessuali tutti i diritti che una Nazione civile considera oramai non più prorogabili non deve essere usata come sfida all’equilibrio di governo.
Non deve umiliare nessuno e può essere sostenuta da uno schieramento trasversale che rompe la logica dell’appartenenza e della lealtà di governo. Battere gli estremismi e imboccare una strada realistica e rispettosa delle opinioni diverse è l’unico modo per avere una legge. È passato troppo tempo. Ora è il tempo di realizzarla, nel tempo di questa legislatura: è possibile.
 
il Fatto 18.12.13
Cina. Pochi ma ricchi: il 5% detiene il 23%
L’èlite comunista e l’aumento delle disuguaglianze
Dàgli ai nuovi ricchi
Sberleffo alla casta “Tuhao” (cafone) è la parola dell’anno in Cina
Il loro simbolo è lo smartphone d’oro a 24 carati
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Pechino La parola dell'anno in Cina è tuhao. Segno delle disuguaglianze che stanno spaccando il paese governato dal Partito comunista più grande del mondo. Il 5% della popolazione detiene il 23% della ricchezza totale. E vuole dimostrarlo , a tutti i costi. Ecco allora i tuhao, una parola dimenticata da un secolo. All'inizio del Novecento erano i latifondisti, i nemici del proletariato cinese. Il tuhao moderno ha la sensibilità artistica dell'arriviste, il saper stare in società del parvenu e la capacità di spendere dei nouveaux riches. Noi li chiameremmo cafoni. L'uso del termine è esploso a settembre, quando la Apple ha lanciato sul mercato una versione in oro a 18 carati dell'ultimo modello di iPhone. Uno scherzetto da più di 4mila euro, una scommessa che è andata oltre le aspettative. In Cina, tutto esaurito. Lo chiamano tuhaojin, l'oro del tuhao. Ma la rete non perdona. Comincia a circolare la storiella di un giovane che si lamenta con il maestro zen di essere ricco ma infelice. “Cosa significa per te esser ricco?”, domanda il maestro. “Bhè – risponde il giovane – ho diversi milioni in banca, tre appartamenti in centro a Pechino...”. Il monaco gli porge la mano e il ragazzo, illuminato, gli chiede: “Maestro, mi sta dicendo che devo imparare a essere riconoscente e restituire il mio?”. “No, tuhao” risponde il monaco. “Posso essere tuo amico?” È stato così che un termine desueto è diventato immediatamente virale. Dalla rete è rimbalzato ai titoli dei giornali, dalle vignette satiriche si è fatto spazio nei programmi d'intrattenimento televisivi. Ha addirittura catturato l'attenzione della casa editrice dell'università di Oxford che sta seriamente prendendo in considerazione l'ipotesi di inserirlo nell'edizione 2014 del dizionario.
Essere tuhao significa essere giovani e pieni di soldi ma non avere la cultura né il genio per investirli. I tuhao sono coloro che tutti odiano ma di cui tutti vorrebbero essere amici. Il tuhao fa rivestire d'oro la propria bmw per girare nel traffico congestionato delle metropoli cinesi. Oppure ha un pastore tibetano da un milione di euro in appartamento e si ubriaca con una bottiglia da 5mila euro. Il tuhao è quello che va a Parigi solo per raccontare agli amici di aver fatto shopping agli Champs Elysées. Ma i tuhao sono infelici. Inconsciamente sanno che quella ricchezza ottenuta improvvisamente e senza sforzo, può scomparire da un momento all'altro. Nella realtà respirano la stessa aria inquinata dei “perdenti” e, come loro, vivono il senso di precarietà dei tempi moderni.

La Stampa 18.12.13
Gas e 15 miliardi
Così Putin si compra l’Ucraina
Di Roberto Toscano


Una vignetta dell’International New York Times di oggi mostra un gruppo di funzionari dell’Unione Europea che, leggendo le notizie sulle dimostrazioni pro-Europa in Ucraina commentano: «Qualcuno lo facciamo ancora sognare!».
In effetti è vero. A confronto dell’euroscetticismo, quando non l’antieuropeismo populista, la passione che anima i dimostranti in quella che a Kiev è stata battezzata «Piazza Europa» sorprende e fa riflettere.
Ma con i sogni i popoli non vivono, e la dura realtà dell’Ucraina è un’altra.
Un governo, quello di Yanukovich, che è post-sovietico in quanto ha sostituito l’economia di Stato con quella capitalista, ma che del sistema sovietico mantiene ancora molte e pesanti caratteristiche sotto il profilo politico.
Il Paese, poi, è diviso. Diviso geograficamente, con un Est dove si parla russo e non ucraino (e dove la separazione dalla Russia viene sentita come artificiale) e un Ovest dove prevale il nazionalismo ucraino, e dove l’opzione europea è nello stesso tempo una scommessa positiva verso il futuro e un rigetto del passato sovietico e di quella Russia che oggi, con Putin, cerca di ricostruire un’area di integrazione economica e influenza politica. Diviso socialmente, con le classi medie – e soprattutto i giovani – che identificano l’Europa con la modernità, lo sviluppo, il benessere, mentre gli strati meno abbienti e meno istruiti temono, come del resto non accade solo in Ucraina, che Europa significhi insostenibile competizione con economie più agguerrite, pericolo di de-industrializzazione e maggiore disoccupazione.
Vi è poi la realtà economica di una situazione finanziaria disastrosa combinata con un serio problema energetico. La scelta di campo fra Europa e Russia che viene richiesta all’Ucraina non può infatti essere ridotta ai suoi pur reali aspetti politici e anche ideali. Essa si presenta infatti drammaticamente sullo sfondo di difficoltà profonde di fronte alle quali, al di là dei diversi orientamenti del popolo ucraino, sui due piatti della bilancia le alternative risultano profondamente asimmetriche.
Vladimir Putin viene incontro alle pressanti esigenze presenti offrendo 15 miliardi di dollari e gas a prezzo ridotto, l’Europa offre il futuro.
Non c’è bisogno di dire che la generosità russa non è affatto gratuita. Anzi, Putin sta alzando il tiro e dimostrando che il suo disegno politico, e geopolitico, è chiarissimo, e che verrà perseguito in modo coerente, e senza esclusione di colpi.
Non è chiaro quale potrà essere la risposta europea a questa sfida. Non certo offrire oggi 15 miliardi di dollari, né energia di cui l’Europa è acquirente piuttosto che fornitrice.
E meno chiaro ancora è quello che potrà accadere in Ucraina. Certo nulla di positivo. Anzi, quello che è più probabile è un inasprimento della spaccatura del Paese, con il pericolo che gli oppositori di Yanukovich – uno schieramento in cui assieme ai democratici vi sono anche gli inquietanti social-nazionali di «Svoboda» passino dalla protesta alla violenza.
La Russia di Putin sta da parte sua tornando sulla scena mondiale con un misto di abilità diplomatica (in particolare in Medio Oriente) ed esercizio pesante e spregiudicato della propria influenza in quell’«estero vicino» che non vuole ammettere possa essere inglobato nell’Unione Europea (e nella Nato).
In Europa dovremmo tornare ad occuparci seriamente della Russia, e anche noi dovremmo essere in grado di mostrare abilità diplomatica e capacità di usare con fermezza il nostro peso collettivo, sia politico che economico. Ma per farlo anche noi europei dovremmo ricominciare a «sognare», a costruire cioè quella identità europea che negli ultimi anni si è drammaticamente indebolita.

Corriere 18.12.13
Rivolte nelle terre dell’Islam: libertà e anarchia
di Cristina Taglietti


La primavera araba è già trascolorata nell’autunno: come spettatori distratti osserviamo ciò che succede sull’altra sponda del Mediterraneo, «impegnando poche attenzioni, ridotte forze a ancor meno risorse». Non capiamo molto di che cosa si muove tra Nordafrica, Vicino Oriente e in molti altri Paesi musulmani, anche perché quello che succede rappresenta uno degli esempi migliori di come le «vicende storiche siano razionali e logiche nel momento in cui prendono forma, ma allo stesso tempo imperscrutabili e non prevedibili nelle dimensioni, nei tempi e nelle modalità». Per capire qualcosa di più, senza pretendere di poter intravedere scenari definitivi, è molto utile L’autunno delle primavere arabe , un’agile raccolta di quattro saggi brevi curati per la collana Orso blu della casa editrice La Scuola (pagine 92, e 8,50), da Roberto Tottoli, docente di Islamistica all’Università Orientale di Napoli.
Libertà e anarchia sono i due poli tra cui si muovono questi Paesi dove i fenomeni religiosi, confessionali e interconfessionali sono l’elemento centrale che determina l’evolversi della situazione. Si parte con «Islam e rivolte arabe in Nordafrica» di Massimo Campanini che mette a fuoco come l’interpretazione dei tumulti di piazza in un’ottica post islamista (le parole d’ordine delle rivolte erano all’inizio del tutto secolari: pane, libertà, giustizia, lotta alla corruzione, riforma politica e via dicendo) sia stata smentita rapidamente dai fatti con l’Islam che tornava a impadronirsi della scena e i Fratelli musulmani trasformati da movimento in partito. Si passa attraverso l’Africa subsahariana (Roberto Angiuoni), dove l’Islam ha sempre espresso un carattere periferico e quasi sincretistico ma si è anche rivelato, storicamente, un fattore fondamentale per l’organizzazione del territorio e dove oggi trova terreno fertile una nuova presenza jihadista. Ai cristiani del Vicino Oriente, schiacciati dal conflitto tra sunniti e sciiti, discriminati in Egitto, sparuta minoranza in Israele e Territori palestinesi, è dedicato il saggio di Manuela Borraccino, mentre Lea Nocera analizza nello specifico il caso Turchia, un modello che sembrava un esempio di efficace combinazione tra Islam e democrazia e che invece, di colpo, mostra tutte le sue crepe.
Il volume illumina un «mondo musulmano con svariati problemi, inquieto, ma soprattutto nuovo, con nuovi attori e una libertà di manovra che permette mutamenti repentini», ma principalmente ha il merito di darne una prospettiva storica, che certo non permette di prevedere il futuro, ma, almeno un po’, di interpretare il presente.

il Fatto 18.12.13
Spagna. Patto sui “desaparecidos”


Il collettivo per la commissione della verità, che raggruppa oltre cento associazioni delle vittime del franchismo, ha chiesto al premier Rajoy di promuovere “un patto di Stato” per una soluzione per i circa 150.000 desaparecidos nelle 2.000 fosse comuni ancora non esumate. LaPresse

l’Unità 18.12.13
I 77 anni del Papa. Uomo dell’anno per i gay Usa

Prima la copertina di Time e il titolo di «persona dell’anno» poi è arrivato il New Yorker, in coincidenza con i 77 anni di Bergoglio: papa Francesco è ritratto con guanti e scarponi, mentre fa l’angelo sulla neve, un po’ gioco, un po’ la sintesi in formato cartoon della nuova spiritualità che emana dal pontificato. Ultima dedica quella di The Advocate, rivista di riferimento per la comunità gay e lesbica americana, che ha scelto Bergoglio come uomo dell’anno, ricordando la frase pronunciata sul volo da Rio de Janeiro a Roma. «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?», aveva detto papa Francesco, un segnale che la comunità omosessuale ha interpretato in netta controtendenza rispetto al passato.
Il Papa ieri ha festeggiato alla sua maniera il compleanno, invitando alcuni barboni a pranzare con lui alla residenza Santa Marta. L’arcivescovo elemosiniere Konrad Krajewski li ha letteralmente pescati per la strada invitandoli a partecipare alla festa per il pontefice, invito raccolto non senza sorpresa. Migliaia i messaggi di auguri arrivati su Twitter e per posta. Sono in tanti ad aver seguito l’hashtag '#AuguriFrancesco in tutte le lingue. «A nome di tutto il popolo italiano, di cui ha guadagnato da subito l'affetto e la gratitudine, Le formulo i miei migliori auguri per la Sua alta missione apostolica e per il Suo personale benessere», ha scritto in un messaggio il presidente Napolitano.
Intervistato dall’Osservatore romano Bergoglio si è raccontato. «Stare in mezzo alla gente ha detto il pontefice mi fa bene. Mi sento sicuro in mezzo alla gente».

Corriere 18.12.13
Persona dell’anno per i gay

Dopo Time , anche The Advocate, la più antica rivista della comunità gay Usa, elegge papa Francesco «persona dell’anno 2013». Il suo volto campeggia sul numero di dicembre, con la citazione del Pontefice tra virgolette: «Se qualcuno è gay e cerca il Signore in buona fede, chi sono io per giudicare?». Sul volto del Papa compare la scritta «No H8» (no all’odio), simbolo della campagna lanciata nel 2009 per promuovere l’eguaglianza. La Chiesa, scrive la rivista, non sostiene le unioni civili, ma le parole del Papa hanno «già avviato una riflessione».

Corriere 18.12.13
Bergoglio rimuove il cardinale antiabortista
di Massimo Gaggi


NEW YORK — Solo qualche giorno fa LifeSiteNews.com, uno dei più importanti siti dei cattolici integralisti americani, invitava a respingere la tesi dei cristiani liberal secondo i quali papa Francesco è poco interessato alla lotta contro l’aborto e i matrimoni gay: «Non è vero, ha ricevuto e lodato i capi dell’Istituto per la dignità umana, impegnatissimi su questi fronti» aveva scandito la testata digitale. Ma ieri lo stesso sito esprimeva sconcerto per la decisione del Pontefice di escludere dalla Congregazione dei vescovi — uno dei più potenti organi della Chiesa, quello che designa i capi delle diocesi di tutto il mondo — il cardinale americano Raymond Burke: il leader della crociata antiabortista, un personaggio in grande evidenza sotto il papato di Benedetto XVI e molto stimato anche da Giovanni Paolo II.
«Il movimento per la vita è sotto choc» ha scritto ieri LifeSiteNews.com, ma papa Francesco è stato implacabile. E probabilmente non poteva fare altrimenti, dopo le critiche ricevute dal cardinale americano. Davanti al suo invito a non enfatizzare troppo le battaglie su aborto e matrimoni gay, concentrandosi di più sulle questioni da lui definite «essenziali», cioè quelle della fede, della dignità umana e la lotta alla povertà, Burke aveva replicato secco: «E cosa c’è di più essenziale della tutela delle leggi etiche sulla natura dell’uomo? Non parleremo mai abbastanza della difesa della vita umana, dei nascituri indifesi che vengono privati del loro diritto alla vita, del massacro dei non nati».
Un’aperta ribellione da parte di un cardinale agli antipodi rispetto a Francesco fin dalla coreografia dei paramenti sacri. Burke ha continuato a scegliere quelli più solenni, appariscenti e «lussuosi» in un implicito rifiuto dell’abbigliamento più sobrio e umile suggerito dal Pontefice. Una ribellione che Francesco ha deciso di non tollerare, ma al suo gesto non va dato un significato dottrinario, né di «spostamento a sinistra» dell’asse della Chiesa. Francesco ha sostituito Burke con Donald Wuerl, il cardinale di Washington: un moderato collocabile a sinistra di Burke solo perché, a differenza di quest’ultimo, non vuole negare il sacramento della Comunione ai politici cattolici favorevoli alla libera scelta sull’aborto, come il segretario di Stato, John Kerry.
Ma papa Francesco ha confermato nella congregazione che nomina i vescovi un altro conservatore moderato americano: il cardinale William Levada, comunque su posizioni meno dure di quelle di Burke. Un’altra «epurazione» tra i prelati conservatori Usa, quella del cardinale Justin Rigali, era scontata, visto che l’ex arcivescovo di Filadelfia è stato travolto da uno scandalo per il pessimo modo in cui ha gestito il caso dei preti pedofili della sua diocesi.
Insomma, papa Francesco non cambia la dottrina cattolica, ma riorienta le priorità della Chiesa e cerca di aprirla di più alle istanze del mondo. Ma senza strappi. La corrente liberal dei cristiani americani ha raffreddato i suoi entusiasmi per il successore di Benedetto XVI quando, a ottobre, il Papa ha promosso, nominandolo vescovo di Hartford, il reverendo Leonard Blair: il prelato che ha condotto l’inchiesta ecclesiastica contro le suore progressiste che si sono ribellate alle rigidità della gerarchia ecclesiastica Usa. Adesso alcuni cominciano a pensare (o ad augurarsi) che quella promozione sia stata voluta proprio da Burke e che anche per questo il Papa abbia deciso di togliergli l’importante incarico.

l’Unità 18.12.13
Le cose del Pci che servono al Pd
L’idea di nazione nell’incontro tra cattolici e comunisti
Nel libro di Vacca una ricostruzione storica del lungo dialogo fra le due componenti alla base dell’originalità della sinistra
di Claudio Sardo


IL PROGRAMMA DI BAD GODESBERG (1959) COLLOCAVA L’ETICA CRISTIANA ALLE RADICI DEL SOCIALISMO EUROPEOe concepiva le fedi religiose come affluenti preziosi di quel «partito della libertà dello spirito», indicato come orizzonte della socialdemocrazia tedesca. La sinistra in Italia ha avuto un corso diverso rispetto alla Germania: è stata segnata dall’egemonia del Pci, non ha avuto una Bad Godesberg, e tuttavia la radice idealista del comunismo italiano, oltre che la sua «coscienza nazionale», l’hanno resa protagonista della Costituzione, della cultura democratica del Paese e di quel confronto incessante sul destino dell’uomo e della società, che è inseparabile da ogni politica riformatrice. Dall’originalità della sinistra italiana muove l’ultimo libro di Beppe Vacca. Ma la ricostruzione storica, mai come in questa occasione, è proiettata verso il futuro. Un futuro difficile, dove tuttavia la sinistra entra con uno strumento nuovo il Partito democratico la cui forza non è indipendente dalla linfa che proviene dalle sue radici.
Il titolo del libro di Vacca è provocatorio Moriremo democristiani? (Salerno editrice) e sembra persino alludere all’avvento di Matteo Renzi. L’autore però non pensa affatto a un esito democristiano o centrista del Pd. E al tempo stesso contesta le letture nuoviste del Pd, fondate sull’azzeramento della prima e della seconda Repubblica. Per Vacca il Pci è morto nel tempo in cui tutti lo hanno visto morire. Tuttavia, senza la nostra storia nazionale il Pd non sarebbe stato possibile. Parliamo di una storia dove il dialogo tra comunisti e cattolici è stato assai più di una questione politica o diplomatica. Da Antonio Gramsci che giudicò la nascita del Partito popolare di Luigi Sturzo come «il fatto più grande della storia italiana dopo il Risorgimento». Dalla scelta di Palmiro Togliatti di sostenere Alcide De Gasperi alla guida del governo dopo Ferruccio Parri, in nome di un patto costituzionale che avrebbe dovuto fondarsi sulla democrazia dei partiti. Dalle tesi del X congresso del Pci (1962, mentre era in corso il concilio Vaticano II) in cui si affermava che l’aspirazione a una società socialista poteva trovare una spinta autonoma nella «coscienza religiosa». Fino al confronto tra Aldo Moro ed Enrico Berlinguer. Fino alla lettera di Berlinguer a monsignor Luigi Bettazzi, in cui i principi di laicità venivano coniugati in termini di pluralismo e cooperazione: «Noi comunisti vogliamo una società organizzata in maniera da essere sempre più aperta e accogliente anche verso i valori cristiani».
Ovviamente il dialogo è stato molto intenso anche da parte cattolica. E non ha riguardato solo le aree più progressiste di quel mondo. Uno dei maggiori protagonisti del libro di Vacca è De Gasperi (oltre a Pietro Scoppola che, con i suoi studi, diede piena luce allo statista trentino, superando le letture affrettate e polemiche dei comunisti negli anni Sessanta). De Gasperi non è stato solo il leader della ricostruzione. È stato l’uomo che ha posto argine alla destra clericale e reazionaria, che voleva spingere la Dc verso una soluzione «salazariana». In questo scontro De Gasperi pagò un prezzo personale altissimo perché si trovò di fronte niente meno che Pio XII. Ma senza quello scontro, senza quel senso della nazione, la vicenda politica e costituzionale italiana sarebbe stata un’altra. Insomma, non era solo necessità il «centro che guardava a sinistra». Aveva anch’esso radici profonde. Prima ancora del Concilio. La rilettura storica di Vacca ha ovviamente un contenuto di battaglia politica. Il libro contesta l’interpretazione della destra, diffusa in tempo di berlusconismo, secondo la quale il cattolice-
simo politico avrebbe tradito la sua missione storica perché si sarebbe rifiutato di porsi alla base di un’area conservatrice sul modello della Cdu tedesca. Ma contesta anche l’impianto neo-azionista, che giudica la vicenda dei comunisti la vera anomalia da rimuovere sul piano culturale, e tuttora l’ostacolo maggiore per conquistare le élite del Paese. La questione cattolica per Vacca è parte decisiva della questione nazionale. E fu proprio il carattere popolare del Pci, il suo rifiuto di una cultura elitaria, a spingere il confronto e l’incontro dove non è riuscito in altri Paesi europei. Certo, è singolare che tutto ciò sia avvenuto in un Paese dove la sinistra era guidata da un partito comunista e non da un partito socialista. Questa comunque, per l’autore, resta una dote preziosa per il Pd. Se la sciupasse, rischierebbe di ridursi a strumento senz’anima.
Perché il dialogo e l’incontro, nel tempo, hanno prodotto domande, aspirazioni, speranze che oggi si misurano con questa grave crisi. Che non è solo una crisi sociale, ma anche antropologica. Non c’è politica senza un’idea dell’uomo. E non c’è progetto senza un pensiero capace di andare oltre il presente. Esiste una trascendenza della politica che interpella la fede, ma anche la doverosa laicità della democrazia. Per la sfida di domani non abbiamo alle spalle una Bad Godesberg, ma qualche scalino su cui salire per scrutare l’orizzonte c’è. Basta vederlo. E magari studiarlo.

MORIREMO DEMOCRISTIANI? La questione cattolica nella ricostruzione della Repubblica di Giuseppe Vacca, pagine 232 euro 13,00 Salerno

Repubblica 18.12.13
Martin Heidegger
Nei “Quaderni neri” gli appunti segreti contro gli ebrei
Le posizioni antisemite dell’autore di “Essere e tempo” svelate dai taccuini ancora inediti
di Antonio Gnoli


Un migliaio di pagine. Vedranno la luce nel marzo del prossimo anno: tre quaderni, vergati da Martin Heidegger, di cui pochissimi conoscevano l’esistenza. Nel mondo degli studi filosofici, soprattutto tedesco, c’è molto sbalordimento. Il “Mago di Messkirch” (così era soprannominato dai suoi studenti) per circa quarant’anni (dall’inizio degli anni Trenta al 1975, l’anno precedente alla sua morte) tenne una sua navigazione segreta, quasi quotidiana. Immaginate quest’uomo, piccolo, taciturno, duro, sospettoso come un contadino dell’Alta Svevia che, la sera nella sua baita di Todtnauberg, dava libero sfogo ai pensieri più nascosti, e avrete una vaga idea di cosa siano questi quaderni (in tutto nove) che Klosterman (editore delle opere complete) ha deciso di pubblicare. Sono molti gli interrogativi che queste pagine suscitano.
Vado ad affrontarli con la persona giusta: Donatella Di Cesare, ordinario di Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma, autrice di libri sull’etica ebraica, Gadamer e contro il negazionismo. Il prossimo mese uscirà con un testo su
Israele e la filosofia(per Bollati Boringhieri) e in primavera con Heidegger e la Shoah. Di Cesare è una singolare figura di studiosa: è membro della comunità ebraica di Roma e al tempo stesso vice presidente dell’Heidegger Gesellshaft,la società filosofica che nel mondo raccoglie diverse centinaia di studiosi. Del resto, non aveva avuto Heidegger stesso allievi ebrei? A cominciare da Hannah Arendt e poi Karl Löwith, Leo Strauss, Emmanuel Lévinas: pensatori che hanno beneficiato, anche se in maniera contrastata, delle riflessioni del maestro. Ma in questi quaderni la materia che scotta non riguarda tanto, o solamente, la questione, ormai annosa, dell’adesione al nazismo, quanto quella più esplosiva del presunto antisemitismo di Heidegger.
«Dopo aver letto queste pagine sono rimasta sconvolta», dice la Di Cesare, mentre indica sul tavolo le bozze dei tre quaderni. «Non posso ovviamente rendere pubblico nessun estratto perché c’è l’embargo dell’editore tedesco fino alla data di pubblicazione dei tre quaderni, prevista per il 13 marzo. Ma le assicuro che il mio primo impulso è stato di dimettermi dalla carica di vice presidente».
Mentre la Di Cesare va a recuperare un suo libretto, sbircio tra quei fogli. Mi colpisce un’espressione:Weltjudentum, “ebraismo mondiale”. Richiama scenari cupi, complotti internazionali, l’anticamera del peggior antisemitismo. Davvero Heidegger se ne macchiò in modo indelebile? «Per me quell’espressione è carica di minacce. Ed è inequivocabile sul piano del significato. È come se individuasse un nemico sugli altri: l’ebreo. Agli ebrei egli imputa la bastardizzazione del mondo e l’autoestraneazione dei popoli. Potremmo dire che, in negativo, è il primo esempio di globalizzazione. L’argomentazione heideggeriana non si sviluppa però solo su un piano politico, ma assume anche contorni filosofici».
I Quaderni neri – l’immaginazione ci spinge a vederne i risvolti più inquietanti, sebbene la dicitura sia dello stesso Heidegger che lavorava su dei taccuini dalla copertina di quel colore – sono in tutto trentatré. A quanto pare due di essi sono andati perduti. Se ne conoscono le date: uno risale al 1931-32, l’altro al 1945-46. Con ogni evidenza, appartengono a periodi cruciali della vita del filosofo e dei tedeschi. Da un lato, la Germania entra nel suo periodo nazista; dal-l’altro, sconfitta dalla guerra, ne esce con tutte le terribili conseguenze che sappiamo. Chi sono i responsabili? Sarebbe stato interessante gettare un occhio sui materiali scomparsi. Vedere cosa Heidegger pensasse all’inizio e alla fine di quella storia micidiale: «Alla Klosterman sostengono che il filosofo prestò quei due quaderni e che non li riebbe mai più indietro. Hanno scritto perciò, nel loro sito, che se qualcuno ne fosse ancora in possesso è pregato di restituirli al figlio Hermann Heidegger. La cosa ha il sapore dello scherzo».
Hermann – oggi ultranovantenne, figlio sì di Heidegger, ma che la moglie Elfride ebbe con un altro – è sempre stato un custode ortodosso delle opere del padre. Si sospetta che quei due quaderni siano stati sfilati da qualche “manina santa”. Perché? «Non bisogna essere troppo svegli per intuire che lì dentro, con ogni probabilità, ci sono i pensieri più compromettenti del filosofo sulla questione ebraica».
Naturalmente qui si cammina sul ghiaccio. Ma c’è molto fermento nella Heidegger Gesellshaft che, non essendo la Spectre, si interroga oggi su quanto di male stia accadendo. Nel frattempo il ruolo che era di Hermann, in qualità di membro familiare presente nella società filosofica, è stato preso dal figlio Arnulf. Un uomo, dice la Di Cesare, generoso e di grande libertà mentale. «Grazie a lui, alcuni di noi si sono resi conto che l’edizione delle opere complete di Heidegger presenta qualche manomissione. Sono state ad esempio eliminate alcune parole. La domanda è: perché superflue o perché compromettenti? Per ora ci limitiamo a questo».
Mi chiedo chi potrebbe essere il “perverso filologo”, o meglio il censore. E il pensiero corre a Hermann Heidegger, ai suoi celebri diktat editoriali. «Non lo sappiamo », si cautela la Di Cesare. Chiedo se dietro all’affaire non vi sia la longa manus di F. W. Von Herrmann, assistente di Heidegger, negli ultimi anni, e curatore di parecchie opere. Anche qui cautela. Ma sembra sia stato proprio Von Herrmann a impedire la pubblicazione di questi sorprendenti Quaderni neri. C’è un dettaglio rilevante, aggiunge la Di Cesare: «Heidegger in persona ha lasciato, tra le sue volontà testamentarie, l’indicazione che i Quaderni fossero pubblicati a compimento dell’edizione delle sue opere. Hermann Heidegger non si è mai pronunciato circa l’esistenza di questo lascito. Nessuno, fino alla primavera di quest’anno, ne sapeva nulla. Sono convinta che la loro pubblicazione non sarà un danno per l’immagine del filosofo. Lì dentro ci sono moltissime cose che chiariscono il suo pensiero».
Dunque non solo un polemico atto d’accusa, ma anche una vertiginosa discesa nella sua filosofia. Spiega la Di Cesare: «Lo stile è diverso da quello che conosciamo. Di solito siamo abituati a leggere Heidegger attraverso i suoi saggi e le sue lezioni. Dentro una prosa oscura e meticolosa. Qui, in gran parte, si tratta di riflessioni che vengono svolte con un andamento aforistico, quasi di impronta nicciana. Sono considerazioni prevalentemente filosofiche ma con una continua presa di posizione su questioni attuali, anche politiche. Sono convinta che iQuaderni neri muteranno la visione che abbiamo di Heidegger».
In bene? In male? Vediamo. Tornando alla spinosissima questione dell’antisemitismo c’è da aggiungere un particolare. Heidegger, secondo la Di Cesare, non parla mai degli ebrei come razza. Riporta quell’esperienza alla sua concezione metafisica. Quindi ne fa un problema filosofico. Come va intesa questa affermazione? Si sa che Heidegger pose sullo stesso piano americanismo, bolscevismo e, da ultimo, lo stesso nazismo, come manifestazioni dell’epoca della tecnica. Anche l’ebraismo, chiedo, finisce nello stesso calderone? Risponde la Di Cesare:«Proprio alla luce della rilettura che fa della storia dell’Essere, notiamo qui qualcosa di più radicale e diverso. In alcune pagine dei
Quaderni parla di Entwurzelung,di sradicamento dell’Essere, e dice che questo “sradicamento” è imputabile agli ebrei. È un’accusa metafisica. Non c’entrano niente il sangue e la razza». E allora? «L’idea che mi sono fatta è che accanto a una questione filosofica ci sia in Heidegger una questione teologico- politica che non va sottovalutata. In fondo, leggendo Jacob Taubes e Carl Schmitt ci si accorge che le posizioni di Heidegger non erano poi così distanti. La cosa che interessava a tutti e tre era il lato messianico dell’ebraismo».
Ma lo declinano in modi diversi, replico. «È vero, ma lo sfondo teologico-politico è il medesimo. Con questa precisazione. Quando Heidegger parla di sradicamento, in realtà sta alludendo alla forza messianica, planetaria, dell’ebraismo e reagisce come farebbe un conservatore della vecchia Europa. Ossia delineando uno scontro planetario (che del resto la guerra in qualche modo legittimava): da un lato lo sradicamento, dall’altro la Germania – che lui identificava con l’Europa – che deve rispondere con la forza del Boden ossia del radicamento al suolo, alla terra, alla dissoluzione planetaria. I passi contenuti neiQuaderni mostrano una profonda intuizione del messianismo. Heidegger capisce tutto. Stando dalla parte sbagliata».
Bisognerebbe, a questo punto, domandarsi cosa ha significato la lunga e perfino penosa reticenza da parte del filosofo nei riguardi di chi gli chiedeva una spiegazione delle mostruosità che erano accadute. Solo in un’occasione, per quel che ne so, Heidegger si pronunciò alludendo ai campi di sterminio. Parlò della «fabbricazione dei cadaveri». Poi più nulla. Salvo accorgersi che, in quelle sere passate nella sua “capanna”, i pensieri tornavano spesso su quel dramma. Quasi fosse un algido affresco dell’inferno. Dobbiamo essere indulgenti con un grande pensatore? Dobbiamo continuare a distinguere la sua filosofia dai suoi comportamenti? È su questo che i
Quaderni nerioggi ci interpellano. E quel lungo silenzio – che Derrida interpretò come la scelta di un filosofo che non giudicava nessuna parola all’altezza di quella tragedia – andrebbe sciolto in una nuova consapevolezza. O quanto meno in una più evidente ragione sulle responsabilità della filosofia verso la politica.

l’Unità 18.12.13
Nelle nebbie della seconda Repubblica: Diario di un naufrago
Nel testo di Crainz il ritratto di un ventennio tra i fallimenti della sinistra e l’avanzata del populismo
di Oreste Pivetta


LA CRONACA DEGLI ULTIMI DIECI ANNI POTREBBE APRIRSI SULLA SCENA DI PIAZZA NAVONA, nel febbraio del 2002, quando con un colpo di teatro Nanni Moretti scosse una manifestazione dell’Ulivo al grido: «Con questi dirigenti non vinceremo mai!». Il Pd, sopravvissuto a quell’esperienza, sopravvissuto a sconfitte elettorali, vivendo i suoi momenti di gloria e le sue crisi identitarie, socialdemocratico, neoliberista, chissà che, ha dismesso quei dirigenti e ne sta, in questi giorni, cercando altri. Nuovi? Reduci della passata politica? Innovatori autentici? Viene in mente il titolo di un film del ’68 di Lina Wertmüller: Riusciranno i nostri eroi... Altra epoca e le epoche contano. Altra epoca di contraddizioni feroci, ma anche di slanci libertari, democratici (di una democrazia che cercava nella sua imperfezione una propria via alla partecipazione contro i legacci e i limiti istituzionali), riformatori (dal divorzio al diritto di famiglia, dallo statuto dei lavoratori alla 180), altra epoca che si smarrì nei gioiosi anni 80 e nel ventennio berlusconiano. Resta l’interrogativo: riusciranno i nostri eroi?
Le ultime righe della cronaca che Guido Crainz, storico (si leggano i tre volumi che compongono il ritratto dell’Italia dal dopoguerra ad oggi, pubblicati da Donzelli), ricostruisce nel suo ultimo Diario di un naufragio (pagine 256, euro 19,50, Donzelli) mi sembrano attestino la difficoltà fino alla disperazione dell’impresa: eredità e detriti della stagione berlusconiana che gravano «come un macigno sulla nostra capacità politica di ricostruire il paese e di progettare». Ammettendo appunto che è impossibile ancora considerare per conclusa la «stagione berlusconiana»: conclusa, come si spera, magari sul terreno politico-elettorale, improbabile che lo sia sul piano della cultura profonda, del costume di un paese.
LA CRITICA AL PD
Il «diario», il «giorno per giorno» di uno storico, cronista, commentatore, riguarda le forze politiche in campo, i loro comportamenti (in tutti i sensi, anche in quello che testimonia la progressione della corruttela, da Tangentopoli al Batman di Anagni, dalle tangenti di Craxi alle condanne di Berlusconi, mentre si vede crescere «la forbice fra i durissimi sacrifici imposti al paese e i perduranti privilegi e sperperi di un sistema politico travolto dagli scandali»), i loro fallimenti. Nella rappresentazione dei fallimenti, senza tregua è la critica al Pd, una insistenza polemica che si comprende da parte di chi sta a sinistra e di chi coltiva attese di cambiamento e
di chi pensa o spera che ancora nel Pd vi siano le forze, l’intelligenza, la moralità su cui far leva per interrompere la discesa all’inferno (come sarebbe stato possibile scriveva Crainz proprio nei giorni delle ultime elezioni se il Pd avesse avuto anche il coraggio di una proposta radicale, di «una radicalità senza precedenti» nei contenuti programmatici e nell’alto e nuovo profilo del governo).
Ma nel Diario di un naufragio colpiscono altre note: non tanto quelle che ci restituiscono alcuni diversi frammenti di una storia dell’antipolitica che va, nel dopoguerra, dal qualunquismo di Giannini al «nullismo» di Grillo, quanto quelle che riferiscono di una partecipazione al voto che tocca nel dopoguerra tetti inusuali, anche in Europa, scavalcando l’asticella del 90 per cento e che declina a partire dalle regionali del 1980 fino a precipitare senza sosta sotto la soglia del 50 per cento. Di fronte all’Italia che vota c’è un’altra Italia, ugualmente consistente, tanto varia da diventare inafferrabile: delusa, scoraggiata, indifferente o estranea alla politica, perché semplicemente pensa ad altro, un’altra Italia dentro la quale si è inabissata quella società civile, che ai tempi del «grido» di Nanni Moretti aveva illuso di rappresentare la chiave di volta di una resurrezione-rigenerazione del paese. Sistema politico e società civile capita che si dividano con pari dedizione le spoglie di pochi valori sopravvissuti e il peso o il vantaggio di tanti peccati (cominciando da una diffusa disponibilità alla corruzione e all’obnubilamento mediatico, al torpore di fronte alle più gravi accuse, minori e prostituzione e persino alle condanne). Quando, in un miracoloso travaso, grazie ad esempio al tragico Grillo, la società civile non si è riversata nel sistema politico, dimostrando adattabilità e nessuna difficoltà ad apprendere. Come se la «mutazione», si fosse del tutto compiuta, senza scampo.
LA MALATTIA DEL BELPAESE
Il Diario di Crainz mi pare dimentichi alcune «voci» nel repertorio dei protagonisti del naufragio, intanto gli intellettuali (un tramonto e basta) e poi la stampa italiana, pesantemente, malinconicamente in deficit di fronte a una missione che le spetterebbe per definizione: informare sullo stato del paese, sulle varie forme, politiche e sociali, in cui la malattia si manifesta, tralasciare le scritture consolatorie quando i buoi scappano, ignorare gli amori di Dudù per la barboncina bianca di Palazzo Grazioli quando in «terra dei fuochi» i bambini muoiono di cancro. Restituire davvero al Belpaese Benpensante l’immagine della tragedia che incombe, naufragio, terremoto, frana, allagamento o veleno, per mare e terra, politica e morale, immagine da fine del mondo. Non ci rimarrebbe una speranza in più se almeno un foglio, dalle tirature potenti, avesse rivendicato autonomia di fronte ai suoi padroni, avesse alzato qualche velo, sostenuto qualche battaglia (magari per difendere il semplice principio che la legge è uguale per tutti)?

La Stampa 18.12.13
Dalla leggenda di Atahualpa spunta una sala piena d’oro
Dopo 5 secoli di caccia, una spedizione internazionale annuncia di avere ritrovato il tesoro inca nella giungla dell’Ecuador
di Vittorio Sabadin

qui

Corriere 18.12.13
Cervello e salute, l’età non si misura in anni
Secondo i nuovi studi l’anzianità «percepita» conta più della data di nascita
di Edoardo Boncinelli


A vere quarant’anni, cinquantacinque, settanta o ottantacinque, sembra che siano oggi solo espressioni verbali, utili ma non decisive, orientative ma non descrittive. «Ognuno ha l’età che si sente addosso», si sente anche dire spesso e se questa frase viene presa con spirito e parsimonia sembra essere quella che meglio descrive la situazione. Non stiamo parlando ovviamente di gravi patologie, e soprattutto stiamo parlando del nostro tempo, nel quale la vita si sta allungando di più di un trimestre ogni anno che passa. Molti anziani vivono così una vera e propria «età guadagnata». Con un bonus particolare per le donne, che vivono in media sei-sette anni più dei maschi. Lo conferma una recente ricerca pubblicata dalla Population and Development Review , rivista scientifica americana che ha messo in relazione l’età anagrafica con altri fattori che contribuiscono a determinare l’«età reale»: salute, tasso di disabilità, funzioni cognitive. E lo confermano anche i risultati di una ricerca pubblicata poco tempo fa sul British Medical Journa l, relativa a coppie di gemelli: dei due viveva di più quello che si sentiva (e appariva) più giovane.
Allora l’età non conta? Conta, conta, ma come un disegno potenziale, che se non viene sviluppato e portato in primo piano nemmeno si vede. Queste sono parole di speranza, ma non sono dolciastra melassa o follia consolatoria, sono un invito a viversi la vita secondo le proprie aspirazioni e le proprie aspettative; i propri sogni direi. È questa una grande nuova libertà, e anche un poco una nuova responsabilità.
Due sono le forze portanti di una giovinezza protratta: la progettualità e l’attività. Mai chiudersi gli orizzonti e sentire il proprio futuro accorciarsi. Dietro abbiamo una vita e perché non pensare di averla anche davanti? Se c’è la passione, ovviamente, e magari più passioni. In fondo è la passione che dà spessore alla nostra vita e ne determina la dimensione reale: non necessariamente una vita lunga, ma una vita piena, libera e calda, e in questo il cervello conta molto. A fronte del dilagare di consigli di tutti i tipi per invecchiare meglio, il mio motto è: «Mangiare di tutto con moderazione, fare sport senza esagerare, adoperare il cervello senza paura di esagerare».
Perché il cervello? Non lo sappiamo, ma si è osservato da più parti che il cervello deve gestire sostanze che controllano in qualche modo il procedere dei nostri anni, e anche in caso di gravi patologie neurodegenerative chi ha vissuto adoperando di più il proprio cervello sta decisamente meglio. Prima o poi capiremo perché, e ne faremo un caposaldo della nostra condotta.
Nel frattempo che fare? Non strafare in niente, ma semmai straimmaginare, se il verbo esistesse, e aspettarsi tanto dai giorni a venire e «affacciarsi» su quelli. In fondo gli anni sono fatti di giorni. Non mangiare troppo né troppo poco, bere con moderazione e non fumare, sono i punti essenziali, ma anche andare dal medico e curarsi. Non curarsi è da stupidi, non da eroi. Ascoltare i consigli del medico e farsi le analisi prescritte. Sembra ridicolo, ma molti appassiscono tristemente per non avere osservato queste elementari precauzioni, magari facendosi forti del fatto di essere sempre stati sani.
Avere buoni geni non guasta certamente, ma avere un buon rapporto con se stessi è ancora più importante. In fondo tutte le religioni hanno spinto a farsi una sorta di «esame di coscienza», in solitario o con qualche «saggio». Penso che sia fondamentale. Ogni sera guardarsi nello specchio e dire: «Puoi guardarti a testa alta? Hai fatto quello che si deve, ovviamente, ma anche quello che ti senti di fare? Hai guardato il mondo e te nel mondo? Hai pensato che se ti trascuri, psicologicamente o fisicamente, puoi procurare un inatteso dolore alle persone che ti sono più care? Hai messo in moto qualche piccolo nuovo meccanismo e hai seminato qualche seme? Ti piacerebbe che dopo morto si parlasse di te come ora vorresti che si parlasse di te? Come tu, nel tuo intimo, parli di te? Sai immaginare come chi ti conosce parlerà di te?». Così facendo anche la morte si esorcizza e diviene uno dei tanti episodi della vita. In fondo la paura della morte è la paura della (brutta) vita. È della vita e di una eventuale sua malaconduzione che si deve avere paura.
E soprattutto è importante poter dire «Ho vissuto», senza sprecare occasioni e opportunità, senza rinunciare per paura. Nessuno ci vuole più bene di chi si aspetta tanto da noi. Compresi noi stessi.

Corriere 18.12.13
Van Gogh, il seminatore di una pittura evangelica
Per quattro anni predicò con i colori come un profeta
di Pietro Citati


Credo che mai un artista, nella storia della letteratura e della pittura, abbia conosciuto un furore creativo e una forza di concentrazione come van Gogh. Fece tutto in pochissimo tempo. Cominciò a dipingere, in realtà, a Parigi, nel 1886: si uccise il 26 luglio 1890 a Auvers-sur-Oise; e in meno di cinque anni non solo dipinse molte centinaia di quadri, ma vinse e oltrepassò se stesso, inventò in se stesso pittori diversi, passò come un angelo non so se del cielo o dell’inferno nella fornace della sua vita e della sua follia.
Aveva cominciato lentamente, scrivendo bellissime e lunghissime lettere sopratutto al fratello Theo, che oggi l’editore Einaudi raccoglie in un grosso volume (Lettere , a cura di Cynthia Saltzman, traduzioni di Margherita Botto, Laura Pignatti e Chiara Stangalino, pag. LXIV-766, e 85). Vincent aveva molta nostalgia di Theo. Fra loro ci fu sempre un grande affetto e una grande tensione: Theo mantenne Vincent per quasi tutta la vita: apprezzò e commentò i suo quadri; e Vincent lo ricambiò con tenerezza e un nascosto senso di colpa. Forse si uccise per lui. Mentre discorreva con il fratello, van Gogh parlava con se stesso, e la sua corrispondenza era in primo luogo uno sterminato monologo. Dipingeva quadri piccoli: la sua pittura aveva bisogno di uno spazio stretto; mentre le lettere erano quasi sempre di una decina di pagine, come se la scrittura, in lui, non dovesse conoscere limiti.
Quando lavorava come apprendista in un negozio d’arte, van Gogh si guardava acutamente attorno. A Parigi, a Montmartre, prese in affitto una stanzetta, che dava su un giardino pieno di edera e di vite americana: appendeva al muro una fitta serie di stampe, che riproducevano gli scorci del suo giardino. Quando era a Londra, passava le mattine e le sere sul ponte di Westminster: vedeva il sole tramontare dietro House of Parliament: la mattina conosceva la neve e la nebbia; il mondo era, per lui, una serie di vedute, di cui cercava gli equivalenti in pittura. Amava moltissimo le vedute di tempesta: «Il mare era giallastro, sopratutto vicino alla spiaggia, all’orizzonte una striscia di luce e sopra grandi nuvole scure e spaventose da cui si vedeva scendere la pioggia a strati obliqui. Il vento portava sul mare la polvere del sentiero bianco sulle rocce, e agitava i cespugli di biancospino e le violaciocche in fiore che crescono sulle rocce».
Tra le vedute, scorgeva lampi di passione religiosa: strade lievissime verso il mondo celeste, sorgenti d’acqua che, come nel Vangelo di Giovanni, conducevano alla vita eterna. Scriveva: «Padre, non sono degno, abbi pietà di me». Amava le chiese, le preghiere, le cerimonie, i canti, la Bibbia. Avrebbe voluto predicare, commentando i Vangeli, come un seminatore della parola, con discorsi semplici e forti, e le parabole del grano di senape e del fico sterile. Amava l’Imitazione di Cristo di Tommaso da Kempis. Assunse come ideale una frase di san Paolo: «Mesto, ma sempre felice». Studiò teologia. Poi l’abbandonò perché gli sembrava troppo astratta. E cominciò a corteggiare i miserabili, gli ultimi. Pensava che la luce provenisse dalle tenebre: laggiù, nel profondo, nell’oscuro, dove lavoravano i minatori di carbone. Per questo, cercò di diventare pastore nella regione del Borinage, abitata da minatori; e tra loro, gli ultimi degli ultimi, trovava sempre qualcosa di desolante e di commovente.
* * *
Cominciò a dipingere tardi, nell’agosto 1880, quando decise improvvisamente di diventare artista, con una specie di atto di arbitrio. Copiò con grande attenzione gli Esercizi al carboncino e Il corso di disegno di Charles Bargue. Lesse libri sull’anatomia e sulla prospettiva: copiò acqueforti di Daubigny e di Rousseau; e la terra scura e rossastra e i vestiti dei contadini lo attraevano sempre più profondamente. Il suo pennello era immerso nella Melanconia: la Melencolia I della stampa di Dürer. Le radici affondate nella terra, ma al tempo stesso parzialmente sradicate dalla tempesta, gli parevano un simbolo della sua passione sconvolgente e tenebrosa.
Dipingeva nel silenzio: vicino a lui non c’era altro che il mare grigio e un uccello: si sentiva chiuso da un muro invisibile, al di fuori del quale c’era il mondo; gli piaceva lavorare di notte. Non dipingeva mai a memoria, ma dal vero, cercando di penetrare all’interno della natura, concentrandosi in lei, dove era sicuro di ritrovare gli insegnamenti dei grandi pittori. Amava la natura: ma non la contemplava: confessava a se stesso, e confessava al fratello, che la natura gli resisteva; questa resistenza era uno stimolo per vincere, in una ricerca e in una lotta che diventava sempre più ardua. «Devo andare avanti fino a che il mio cuore non si spezzi»: «Voglio andare avanti fino a crollare».
Un giorno, lesse in uno scrittore olandese del tempo: «Oh Dio, non c’è nessun Dio». E da quel momento qualsiasi Dio scomparve nel suo orizzonte mentale: non c’era che vuoto; e cominciò a disprezzare gli anni in cui aveva creduto e predicato, «con una specie di misticismo». Visse una vita sempre più terrena. Conobbe una prostituta di qualche anno più anziana di lui: aveva un figlio ed era incinta di un altro; era malata, affamata, triste. Visse con lei, la protesse, la curò, «come due infelici che si tengono compagnia e che portano insieme un fardello», e la loro avventura si trasformò a poco a poco in una tenera felicità, l’insopportabile diventò sopportabile. La famiglia di lui li perseguitò. Lui chiese soltanto che «mi si permettesse di amare e di curare per quanto posso la mia povera donna debole e torturata».
* * *
Passò qualche anno prima che van Gogh diventasse un grande pittore. I suoi primi quadri olandesi erano pastosi, pesanti, senza quella luce di cui in fondo all’anima aveva disperatamente bisogno. Arrivò a Parigi, all’improvviso, senza avvisare il fratello, il 28 febbraio 1886: vi abitò due anni, insieme al fratello; conobbe Toulouse-Lautrec, Seurat, Gauguin e Monet, che ammirava molto. Adorava soprattutto Delacroix, nel quale contemplò il polo della sua vita, della sua visione e della sua arte. Cominciò a dipingere con colori complementari, mettendo a contrasto l’azzurro e l’arancio, il rosso e il verde, il giallo e il viola, il nero e il bianco, come faceva Delacroix. Compose i primi dei suoi molti meravigliosi autoritratti come se accettasse finalmente se stesso: con straordinari occhi febbrili e allucinati, che gettavano luce.
Rivelando il suo cuore nascosto, van Gogh cominciò a far scintillare la luce dappertutto: persino nelle scaglie dei pesci o nelle cose che non l’aspettavano e non la possedevano. Come in Monet, la neve dei suoi quadri emetteva chiarore. Se rappresentava la luce di un oggetto, essa splendeva sopra l’oggetto vicino e viceversa: la fritillaria accecava di splendore un vaso di rame, il vaso di rame la fritillaria, il limone la bottiglia d’acqua, la bottiglia d’acqua il limone.
Rispetto agli impressionisti, la chiarità esaltata saliva di un grado; e si muoveva incessante e indemoniata, come se non potesse venire contenuta dai limiti del quadro. «Le linee si muovono sulla tela — scriveva al fratello — come una limatura di ferro attirata da una calamita». Se dipingeva una piccola serie di Girasoli recisi, i fiori non appassivano, non si inaridivano, non si spegnevano, non morivano: anzi moltiplicavano la propria torturata vitalità, perché ogni aspetto di morte si rovesciava nel suo contrario.
* * *
Il 19 febbraio 1888 van Gogh lasciò Parigi, e il 20 febbraio era ad Arles, in Provenza, dove prese una stanza all’Hotel-Restaurant Carrel. Era finalmente nel Sud: «La terra dei toni blu e dei colori allegri», «dove ci sono più colori e più sole». Ecco le enormi rocce gialle bizzarramente aggrovigliate, le terre rosse coperte di vigneti, con sfondi di montagne del più puro lillà, e paesaggi innevati, simili a quelli giapponesi. La natura cominciava ad essere bruciata e a bruciare. C’erano dappertutto ori vecchi, bronzo, rame, l’azzurro verde del cielo incandescente. L’accumulo del sole era di un mirabile azzurro, il sole aveva uno splendore di zolfo dorato. La Provenza gli sembrava bella quanto il Giappone, per la limpidezza dell’atmosfera e gli effetti dell’allegro colore; e voleva dipingerla con i nervi delicati dei grandi pittori giapponesi. La pittura era finalmente diventata, per lui, una passione totale, che comprendeva completamente in sé la passione erotica. «Sono estasiato — diceva — estasiato estasiato da ciò che vedo»; e le emozioni arrivavano fino all’orlo dello svenimento e dello svuotamento.
Nel 1888 van Gogh conobbe, ad Arles, alcuni mesi di felicità: nessuna felicità poteva essere più pericolosa. Nel maggio affittò la casa gialla a Place de Lamartine: quattro stanze, arredate con due letti, un tavolo, delle sedie, e pochi oggetti. Ogni mattina usciva di casa, con i pennelli, la tela, la tavolozza, i colori: camminava sotto il sole abbacinante, seguito dalla propria fitta ombra: ogni mattina voleva creare un capolavoro. Dipingeva in pieno mezzogiorno, nel furore della mietitura: arancioni folgoranti, ferro arroventato, toni di oro vecchio risplendente nel buio. Qualche mattina la sua pennellata era stravolta per via del mistral, il vento acceso della Provenza, che gli impediva di controllare la pennellata. Il risultato di questo furore creativo fu una serie di dipinti gioiosi, che non ritornerà mai più nella sua opera.
Qualche volta beveva troppo alcol e troppo caffè: «Per raggiungere il picco di giallo brillante di quest’estate — scriveva al fratello — , ho avuto bisogno di esaltarmi un poco». Aveva bisogno dell’esaltazione del sole. E, per esaltarsi ancora, dipingeva in fretta, in fretta, molto più degli impressionisti: come i giapponesi che, diceva, erano veloci come il lampo, perché avevano i «nervi sottili». Lui aveva nervi sottilissimi. Dipingeva serie di quadri: frutteti in fiore, peschi in fiore, susini in fiore, albicocchi in fiore, mietitori, girasoli (e cieli di notte). Se dipingeva i peschi e i susini in fiore non voleva ricordare che, in pochi giorni, quei fiori sarebbero sfioriti e morti. Non gli interessava il tramonto e la morte. Gli interessava soltanto il lato miracoloso, sia transitorio sia eterno, della fioritura. Quanto alla luce, aveva fatto una scoperta. La luce del mondo non discendeva, come crediamo, dal sole. Tutti gli oggetti — i frutteti, i covoni, i mietitori, i girasoli — contenevano in se stessi la luce: risplendevano di luce propria; ciascuno aveva il proprio sole. Quando li coglieva in questi momenti di esaltazione, rappresentava la loro aureola: cioè l’eterno squillante della loro luce.
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Aveva una stima esageratamente alta di un pittore mediocre, Paul Gauguin; e, per contrasto, sottostimava se stesso: «come pittore, scriveva al fratello, non significherò mai niente di importante». Invitò Gauguin ad Arles in nome di una specie di comune artistica: voleva dipingere e vivere accanto a lui. Gauguin arrivò ad Arles il 23 ottobre 1888. Il rapporto tra i due non resse a lungo. Gauguin era violento come un «animale selvatico»: arrogante, presuntuoso, mitomane. I due litigavano; e, ciò che era più grave, van Gogh obbediva a Gauguin, si sottometteva alla sua autorità, come se fosse stato un novizio.
Non sappiamo esattamente cosa accadde il 23 dicembre 1888: non sappiamo se van Gogh abbia minacciato Gauguin. Certo, ebbe una grave crisi nervosa: con un rasoio si tagliò una parte dell’orecchio sinistro recidendosi un’arteria e provocando una perdita di sangue; avvolse l’orecchio in un pezzo di giornale, andò in un bordello e ne fece dono a una prostituta. Con questo scorciato e demente linguaggio simbolico, van Gogh cercava di dire che lui era la creatura sacrificale, o il nuovo Cristo, che si immolava per la salvezza del mondo: quel mondo che non era riuscito a salvare con la pittura. Se aveva donato l’orecchio alla prostituta, l’aveva fatto perché lei era sua complice: l’infima, l’ultima, l’esiliata, rifiutata come lui dalla società moderna.
Con questa scena assurda e feroce hanno inizio le crisi psichiche di van Gogh, che però non ne ripetono il linguaggio simbolico. Queste crisi lo assalirono molto spesso, a intermittenza, per giorni o anche mesi, durante il corso del 1889. Oggi, a distanza di tanti anni, non è possibile stabilirne la causa: sebbene sia lecito azzardare l’ipotesi di una condizione maniaco-depressiva, accesa da attacchi di epilessia. Le forme furono molte: angoscia senza motivo, sensi di colpa, rimorsi, incubi, allucinazioni, condizione di completa incoscienza, tentativi di suicidio, attacchi di paranoia.
I medici, che lo visitavano sia nel 1889 a Saint-Rémy sia l’anno dopo a Auvers-sur-Oise, non compresero la sua malattia: credettero che fosse epilessia, o una semplice malattia di nervi. Il 26 maggio 1890, lo licenziarono come «guarito». Al contrario, van Gogh sapeva benissimo di essere affetto da una malattia grave: sapeva di essere pazzo, anche se non avrebbe potuto definirsi con un termine: a volte pensava di essere folle come la Pizia: temeva che una crisi più violenta potesse togliergli per sempre la sua capacità di dipingere; anche se qualche volta sperava ironicamente di trasformare la propria follia in metodo. «Sto pensando di accettare decisamente il mio mestiere di pazzo, come Degas ha assunto la forma di un notaio», scriveva il 24 settembre 1889. Quando Théophile Peyron, direttore sanitario del manicomio di Saint-Rémy, gli propose di farsi internare, accettò volentieri; e visse per mesi nel manicomio, cercando di apprezzare la compagnia dei malati. Continuò a dipingere: decine di capolavori; anche se sfioravano, come sapeva benissimo, il nero-rosso; il terribile colore simbolico di cui parlavano i malati.
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Il 16 maggio 1890 van Gogh lasciò Saint-Rémy, per ritornare nel Nord. Probabilmente pensava che il Sud gli facesse male: la sua follia era legata al sole e all’esaltazione della Provenza, coi quadri dipinti freneticamente sotto quel terribile mezzogiorno. Il 17 maggio era a Parigi, dove vide il fratello e la moglie. Due giorni dopo giunse a Auvers-sur-Oise, un paese a quaranta chilometri da Parigi, dove l’aspettava un medico, Paul-Ferdinand Gachet, amico di pittori, che nella giovinezza aveva scritto una tesi sulla malinconia. Van Gogh trovò il medico affabile e simpatico: ma aggiunse che «sembrava affetto dalla malattia nervosa almeno gravemente quanto lui». Il medico gli disse che le cose andavano bene, e che era improbabile che la malattia si manifestasse ancora. «Credo che non sia possibile in nessun modo contare sul dottor Gachet, commentò van Gogh. Prima di tutto è più malato di me, così mi è sembrato, o diciamo almeno che lo è come me». Quanto a lui, scriveva alla madre e alla sorella che si sentiva molto più tranquillo dell’anno prima: l’inquietudine della mente si era molto placata; ed era completamente scomparsa nella pittura, dove il suo io non lasciava tracce di se stesso.
La sera del 27 luglio lasciò l’Auberge Ravoux dove abitava, e si inoltrò nei campi attorno a Auvers, che aveva tante volte dipinto. Lì si sparò al petto con una pistola che si era procurato chissà come: poi si trascinò a casa, salendo a fatica le scale. La mattina del 28 luglio Theo trovò il fratello moribondo mentre fumava la pipa: «vorrei che fosse la fine», diceva. Passarono tutto il giorno insieme: la mattina del 29 luglio van Gogh morì.
Intorno alla propria morte van Gogh non lasciò nessun segno simbolico, luminoso od oscuro. Non proclamò di essere un pazzo giunto alla consumazione, né Cristo sulla croce, né, come diceva il fratello «un martire sorridente» che si era addossato tutti gli obblighi e le colpe della società e della vita. Tacque, come egli solo sapeva tacere. Probabilmente si uccise per una ragione semplice e familiare. Il fratello attraversava un periodo economico difficile: meditava di lasciare il suo lavoro e di recarsi in America; e non aveva denaro per mantenere Vincent. Così van Gogh volle liberarlo docilmente dal proprio peso: senza pensare che un peso molto più grave lo avrebbe accompagnato nei suoi pensieri.

Corriere 18.12.13
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