venerdì 20 dicembre 2013

l’Unità 20.12.13
Il Pd avvia i contatti per l’ingresso nel Pse
di Marco Mongiello

BRUXELLES Dopo anni di ipotesi e polemiche il Partito Democratico è oramai pronto ad entrare nel Partito del Socialismo Europeo (Pse). Le trattative, che probabilmente porteranno ad un cambio di nome e in parte anche di politiche del partito europeo, sono iniziate ieri a Bruxelles, in occasione del tradizionale vertice del Pse che precede il summit Ue. All’incontro ha partecipato, per la terza volta quest'anno, il Presidente del Consiglio Enrico Letta, dal momento che il Pd è invitato a tutte le attività del Pse anche se non ne fa parte. Nel suo intervento Letta si è limitato a ricordare il congresso del Pse del prossimo primo marzo a Roma, in cui sarà ufficializzata la candidatura dell’attuale presidente del Parlamento europeo Martin Schulz alla guida della Commissione. Ma per il resto le discussioni dei leader dei partiti socialisti e riformisti d’Europa si sono concentrate sui temi del vertice europeo e in particolare nella proposta tedesca sui cosiddetti «accordi contrattuali», ora ribattezzati «partenariati».
L’idea, che di fatto è calibrata su misura per l’Italia, è quella di offrire agli Stati membri degli incentivi economici in cambio di impegni vincolanti sulle riforme strutturali. I leader del Pse hanno però messo in guardia «dall’introduzione di un approccio bilaterale tra Commissione e singoli Stati membri» che fino ad ora «ha bloccato la ripresa economica dell’Ue». Il successo di qualsiasi politica «sarà misurato innanzitutto sull’aumento dell’occupazione», si legge nel comunicato finale. In ogni caso il leader del Pse, il bulgaro Sergei Stanishev, ha promesso che il partito europeo «lotterà duramente per assicurare che ci sia un forte meccanismo di solidarietà per bilanciare qualsiasi obbligo economico» perché «quando i Paesi sono isolati e costretti a rispettare condizioni che sono più dure rispetto a quelle dei vicini è la gente che deve fare fronte alle conseguenze economiche. Un simile approccio aumenterà soltanto la frustrazione».
La questione dell'ingresso del Pd, che verrà affrontata da Matteo Renzi con i vertici del Pse in un incontro a Bruxelles previsto per gennaio, è stata invece discussa ieri in un colloquio tra Federica Mongherini, la nuova responsabile per l’Europa della giovane segreteria renziana, e il segretario generale del Pse, il tedesco Achim Post. «Abbiamo discusso soprattutto del messaggio e della proposta politica del Pse», ha spiegato Mongherini all’Unità, «per noi l’ingresso del Pd nel Pse è funzionale ad avere una famiglia socialista e democratica allargata, come nel gruppo al Parlamento europeo».
Dopo le elezioni europee del 2009 infatti fu proprio il Pd a chiedere che il gruppo parlamentare che riunisce le delegazioni nazionali degli eurodeputati a Strasburgo cambiasse nome da «socialisti» a «socialisti e democratici». Il partito europeo invece, distinto dal gruppo parlamentare, è fino ad oggi rimasto Pse. Ora però, ha spiegato la dirigente del Pd, «abbiamo iniziato a discutere sul messaggio politico in vista delle prossime elezioni europee, sul manifesto elettorale e sulle proposte del Parlamento per la prossima Commissione, e abbiamo anche iniziato a ragionare su come riflettere questo cambiamento e questo allargamento del Pse anche nel nome».
Del resto già oggi i partiti nazionali che si definiscono «socialisti» sono una minoranza in Europa, ha argomentato Mongherini. Nel Pse ci sono i partiti laburisti della Gran Bretagna, dell’Irlanda e dei Paesi scandinavi, ci sono i socialdemocratici tedeschi e di alcuni Paesi dell’Est e ci sono i democratici italiani. Inoltre la stessa sigla Pse viene tradotta in modo diverso nelle differenti capitali e a Berlino, ad esempio, la «s» sta per socialdemocratici.
Insomma gli argomenti per chiedere un cambio del nome dei partiti riformisti europei ci sono tutti, ma la questione «è simbolica», ha precisato la responsabile democratica per l'Europa, «per noi la cosa principale è lavorare sul messaggio politico».
L’incontro tra la dirigente Pd e il segretario generale del Pse è solo la prima tappa che dovrebbe culminare nella convention di Roma del primo mar-
zo e nell'ingresso del Pd nella famiglia europea. Al momento comunque le divergenze politiche tra socialisti europei e democratici italiani non sono molte, ha assicurato Mongherini: «C’è la consapevolezza di dover rispondere ad un sentimento profondamente anti-europeo che attraversa la nostra società e di doverlo fare non con una vaga retorica europeista ma con delle proposte che vadano ad incidere soprattutto sulle politiche per la crescita e per l'occupazione». Sul piano italiano poi, dove negli anni passati il timore di «morire socialisti» aveva causato tanti mal di pancia nel Pd, la questione sembra oramai superata. L'ingresso nel Pse, ha ricordato Mongherini, forse comporterà un passaggio in Direzione ma «è una proposta fatta da Renzi in campagna elettorale e ha già la legittimità del voto delle primarie, e del resto anche gli altri due candidati avevano proposto la stessa cosa».

il Fatto 20.12.13
Presidente commissione Industria Massimo Mucchetti, Pd
“Il governo sta consegnando Telecom agli spagnoli”
di Stefano Feltri


Il senatore del Pd Massimo Mucchetti, presidente della commissione Industria, è preoccupato per il destino di Telecom e soprattutto è molto perplesso per come si è comportato il governo. A parole Enrico Letta approvava il progetto bipartisan di modifica della legge sull’Offerta pubblica di acquisto, per costringere Telefónica a spendere qualche miliardo, se proprio vuole il controllo dell’azienda italiana, remunerando i piccoli azionisti e non solo il salotto buono. Ma Palazzo Chigi ha boicottato la modifica promossa da Mucchetti, affondata due giorni fa in Senato: “La riforma dell’Opa viene per l’ennesima volta sospesa, ma non cancellata: la non ammissibilità riguarda il provvedimento sugli Enti locali cui era agganciata”. Forse prima o poi si farà, ma è troppo tardi per evitare che Telecom vada agli spagnoli per pochi spiccioli.
Senatore Mucchetti, partiamo dall'inizio.
Dopo l’annuncio dell'accordo Telco, il 24 settembre, il Senato fa le audizioni del caso e il 17 ottobre approva una mozione per la riforma dell'Opa obbligatoria. Il governo è un po’ perplesso, ma non rischia il confronto. Si rimette all'aula, che dà un consenso plebiscitario alla mozione. Pochi giorni dopo, ecco un emendamento al decreto Imu che dà corpo alla mozione. Il governo, prima in commissione, poi in aula, chiede il ritiro dell'emendamento per evitare una terza lettura del decreto alla Camera. Si accetta solo perché il governo afferma di condividere gli argomenti del Senato e a provvedere “in tempi brevissimi”, testuale.
Invece niente, nessun decreto sull'Opa.
Passano le settimane, noi ripresentiamo, migliorato, l'emendamento. Questa volta alla legge di Stabilità, ma la commissione Bilancio del Senato non riesce a completare l’esame del disegno di legge. La proposta viene riagganciata al decreto per gli Enti locali. Nel frattempo, Marco Causi, deputato del Pd, la propone alla Camera, ma è dichiarata non ammissibile dalla commissione Bilancio (presieduta dal lettiano Francesco Boccia, ndr). E ora di nuovo inammissibile al Senato. Sono passati quasi tre mesi e la riforma resta al palo senza che il governo accetti un confronto pubblico. Non demorderemo, ma temo ormai che arriveremo tardi.
Perché Letta è contrario a una riforma della legge sull’Opa che ostacolerebbe l'operazione di Telefónica?
Il governo avrebbe preferito che, alla soglia fissa del 30 per cento oltre la quale scatta l'obbligo dell'Opa e che si è dimostrata inefficace, si aggiungesse una seconda soglia anch’essa fissa e non una legata al controllo di fatto, quando questo derivi da una partecipazione inferiore al 30 per cento ma superiore al 15. Sul piano politico, il governo avrebbe voluto un provvedimento che entrasse in vigore non prima del maggio 2014 così da non avere influenza sull'affare Telecom. In ogni caso, la convinzione del governo è così blanda che non è mai stata oggetto di una sua iniziativa.
Un compromesso era possibile?
Era già pronto un testo B con la seconda soglia fissa al 15 per cento. Ma Letta non vuole un provvedimento immediatamente esecutivo. Sarebbe, a suo avviso, un intervento su una partita in corso che scoraggerebbe gli investimenti esteri.
Questa obiezione di Letta è fondata?
È una preoccupazione che avevamo anche noi. Ma non è fondata. Il contratto Telco non prevede una data per il closing. Non si danno partite senza che si sappia quando l'arbitro fischia la fine. E non c’è passaggio del controllo fino a quando Telefónica non si attribuirà i diritti di voto sulle nuove azioni Telco acquisite il 24 settembre. Investimenti esteri: Telefónica, in Telecom dal 2007, si è sempre opposta a un aumento di capitale che abbattesse il debito, frutto delle speculazioni degli azionisti maggiori. Senza risorse, di quali investimenti parliamo? La Commissione Caio scoprirà che la rete fa acqua. Sarà una conferma autorevole. E poi? Telefónica non mette un euro in Telecom ma dà una mancia a Intesa, Mediobanca e Generali. Starei attento a non fare regali, quando si trovasse il modo di estrarre la rete da Telecom per farvi investire lo Stato.
Letta sta lasciando andare Telecom per mantenere buone relazioni con Generali, Mediobanca, Intesa e con gli spagnoli, visto che è animatore del forum Italia-Spagna?
Questo lo dice lei. Io credo alle motivazioni che Letta ha dato, ancorché non le condivida.
Anche Mediaset vuole mantenere buoni rapporti con Telefónica, viste le operazioni sulla pay tv che hanno in discussione in Spagna...
Non vedo come Mediaset possa condizionare Letta, essendo Forza Italia all'opposizione.
L’assemblea dei soci di oggi potrebbe ribaltare la situazione?
Molto dipenderà dalle scelte di BlackRock. Tutto lascia credere che il fondo Usa giochi con Telefónica, di cui è il primo socio non bancario. Come potrebbe sfiduciare il consiglio di Telecom che l'ha appena beneficato con il prestito convertendo? Un fondo autonomo avrebbe interesse a un ribaltone che renda contendibile Telecom.
Che conseguenze avrebbe un eventuale concerto con gli spagnoli, alle spalle del mercato?
Un accordo sottobanco tra Telefónica e BlackRock andrebbe provato dalla magistratura cui Consob ha passato le carte. Comunque, con Telefónica, BlackRock potrebbe ricavare benefici se appoggerà l’uscita di Telecom dal Brasile.
Che cosa sta succedendo in Brasile?
La banca d'affari brasiliana Pactual sta preparando un’offerta su Tim Brasil per ripartirla tra Telefónica, America Movil e Oi-Portugal Telecom. Quando arriverà l'offerta, Telecom l'accetterà riducendo Tim Brasil a un mero fatto finanziario o la lascerà cadere perché intende restare multinazionale? Se Telecom venderà, BlackRock potrà cedere bene la sua quota agli spagnoli restando sotto il 30 per cento. A quel punto si arriverà alla fusione per incorporazione di Telecom Italia in Telefónica, controllante de facto, a concambi azionari che lascio immaginare. Nessuno me l’ha detto, ma è lo scenario che temo.
Esistono alternative a Telefónica?
Certo. Telecom può anche andare avanti da sola con un vero aumento di capitale. In seguito, potrà partecipare ai processi di concentrazione delle telecomunicazioni lungo l'asse renano. Sommare i debiti di Telecom Italia a quelli di Telefónica, invece, non creerebbe ricchezza ma un debito più grande. Anche Orange e Deutsche Telecom hanno forti esposizioni debitorie, ma il rischio Germania e il rischio Francia sono inferiori al rischio Italia e al rischio Spagna. Dobbiamo decidere se stare nel Mediterraneo o giocare in Serie A.

Repubblica 20.12.13
Ricchi salvi, classi medie sprofondate la recessione ha ridisegnato il Paese
In mano a solo 4 milioni di persone il 34% del reddito totale
di Maurizio Ricci


L’ITALIA non è mai stata così divisa. Agli economisti di destra piace dire che la marea alza e abbassa le barche, gli yacht come i gozzi, tutti allo stesso modo e così avviene nell’economia. Ma non è vero. Cinque anni di crisi — la crisi più lunga dal dopoguerra — hanno segnato la società italiana. Gli indici con cui le statistiche misurano le disuguaglianze sociali crescono inesorabilmente dal 2007, l’ultimo anno prima della recessione. E il modo in cui questo è avvenuto mostra che la teoria della marea non tiene.
Ricchi più ricchi
La crisi non ha reso i ricchi meno ricchi. Se la sono cavata egregiamente, con appena qualche piccolo tremolio, che non ha compromesso le quote in più di ricchezza nazionale, guadagnate negli anni e nei decenni precedenti, a scapito del resto del Paese. E’ all’altro capo della scala sociale, però, che è avvenuto lo sfondamento. Anzi, lo sprofondamento. In confronto a quei ricchi, infatti, i poveri, a cominciare dalle classi medie in declino, sono diventati più poveri. Soprattutto al Sud, dove erano già più poveri. L’allargarsi della forbice è anchepiù vistoso se non si considera solo come i 4 milioni di italiani ricchi (e, in mezzo a loro, i 40 mila straricchi) hanno cavalcato gli ultimi anni di crisi, ma se si guarda a come i più fortunati hanno saputo gestire e utilizzare il lungo ristagno che, dagli anni ‘90, imprigiona l’economia italiana.
I 40 mila dello 0,1 per cento
L’ultima Italia egualitaria è ancora quella dei primi anni ‘80. Nel 1983, calcolano Paolo Acciari e Sauro Mocetti in uno studio (“Una mappa della disuguaglianza del reddito in Italia”) pubblicato dalla Banca d’Italia, i 4 milioni di contribuenti, che costituiscono il 10 per cento più ricco degli italiani, assorbivano il 26 per cento del reddito nazionale. In realtà è di più, dato che lo studio analizza le dichiarazioni dei redditi e, dunque, non tiene conto dell’evasione e neanche dei redditi fuori Irpef, in particolare gli interessi sui depositi, le cedole dei titoli, i dividendi azionari, insomma, le rendite finanziarie in genere che, per i ricchi, pesano. Acciari e Mocetti sono, però, convinti che, anche se il livello assoluto non è affidabile, il movimento dei redditi può essere disegnato dalle dichiarazioni Irpef. Dieci anni dopo, dunque, nel 1993, il 10 per cento più ricco intasca il 30 per cento del reddito dichiarato, lasciando il 70 per cento a tutti gli altri. E’ il momento in cui l’economia italiana si ferma, smette, sostanzialmente, di crescere per non ripartire più, fino ad oggi, accontentandosi di allargarsi ad un ritmo paragonabile a quello di Haiti o dello Zimbabwe, lontano dal resto dell’occidente. Ma questo non impedisce ai 4 milioni di italiani più ricchi, quelli con un reddito sopra i 35 mila euro, di ritagliarsi una fetta di torta sempre più grande: al 2003, sono arrivati sopra il 33 per cento. Nel 2007, alla vigilia della crisi, sono saliti ancora, sopra il 34 per cento. In meno di25 anni, la fetta del 10 per cento è cresciuta di quasi un terzo.
Superstipendi e superpensioni
Ma ai 40 mila superstipendi, superpensioni, superparcelle, superrendite, che costituiscono lo 0,1 per cento dei redditi trasparenti all’Irpef e per i quali bisogna dichiarare dai 250 mila euro in su è andata anche molto meglio. Nel 1983, questa categoria di maxiredditi assorbiva meno dell’1,50 per cento del totale delle dichiarazioni. Nel 1993, già sfiorava il 2 per cento. Ma il passo lo hanno allungato dopo, a ristagno iniziato: nel 2007, la quota dei 40 mila straricchi era salita oltre il 3 per cento. In pratica, in 25 anni è raddoppiata. E la crisi? A queste altitudini è un venticello, che non compromette la presa delle classi più agiate sulla torta nazionale. Fra il 2007 e il 2009, la quota del 10 per cento più ricco scende dal 34,12 al 33,87 per cento.
Geografia dell’ineguaglianza
La capacità dei più ricchi di intercettare quote crescenti di reddito è il segnale più vistosodi una società ineguale, ma ne fornisce una immagine parziale. Il 10 per cento più ricco diventa più ricco, ma che succede nell’altro 90 per cento? Da questo punto di vista, la crisi sembra aver segnato una netta cesura. Il processo di progressiva ascesa dei ceti medi che, sgranandosi lungo la scala sociale, riduceva gli indici di disuguaglianza si è bruscamente interrotto con il 2007. L’indice nazionale, ora, è in risalita, ma la mappa che Acciari e Mocetti hanno disegnato, secondo gli indici statistici di disuguaglianza, provincia per provincia, consente di vedere che l’impatto è assai diverso nelle diverse zone del Paese, fino a suggerire una geografia anche politicoelettorale. La disuguaglianza è nettamente inferiore nel Centro-Nord. Ai minimi, anche se a livelli non propriamente scandinavi, in realtà come Lodi, Biella, Vercelli ma, in generale, in buona parte dell’Italia padana e delle regioni rosse del centro.
La linea Roma-Pescara
Una situazione che muta di colpo sulla linea Roma-Pescara, sul confine di quella che eral’area di intervento della Cassa del Mezzogiorno, soprattutto se si tiene conto anche della disoccupazione. Qui, quasi tutta la Sicilia, la Calabria e, soprattutto, Campania, Molise, il grosso della Puglia, in buona sostanza, l’Italia meridionale, con l’eccezione della Basilicata, registra tassi di ineguaglianza paragonabili a quelli della Turchia. Nel Nord, il quarto più povero della popolazione dispone del 5,7 per cento del reddito complessivo. Nel Sud, questa quota crolla al 3,7 per cento. Una frattura geografica che si affianca e si somma a quella nazionale ricchi- poveri e che rende ancora più incerto il cammino di uscita dalla crisi.

il Fatto 20.12.13
La tribù dei lobbisti: chi sono, chi li manda, cosa ottengono
Piccolo e incompleto elenco di quel che c’è e perché nella Legge di Stabilità
di Marco Palombi e Paola Zanca


Il viaggiatore che si trovasse a passare nei pressi delle commissioni Bilancio delle due Camere durante la discussione della legge di Stabilità osserverebbe una scena assai bizzarra. Dentro l’aula i parlamentari discutono e votano, entrano ed escono commessi, funzionari e gli stessi onorevoli, all’esterno - su un tavolo - un gruppo di giornalisti segue i lavori col testo della legge a sinistra e il fascicolo degli emendamenti a destra. Tutt’intorno c’è un’altra tribù dall’occupazione più sfuggente: a turno i suoi membri alternano fasi di calma ad altre di grande agitazione in cui scrivono o telefonano o passano fogli a qualcuno; amano colloquiare con gli interlocutori sempre con un’aria un po’ da congiurati; hanno una certa passionaccia per la parola all’orecchio, la passeggiata sotto braccio, l’amichevole pacca sulla spalla, il sorriso largo e rassicurante. Ecco, quella tribù sono i lobbisti.
Chi sono i lobbisti?
Intanto quelli veri e propri - cioè i dipendenti di una società di lobby ufficiale come Cattaneo Zanetto o Reti, per citare le più note - sono una minoranza e nemmeno delle più rilevanti. Alcuni lobbisti sono, più semplicemente, quelli che nelle aziende si chiamano “Responsabili delle relazioni istituzionali ” (una, Simonetta Giordani, in questo governo ha cambiato sponda e da Autostrade è passata al sottosegretariato ai Beni Culturali), altri ancora sono lobbisti informali: ex dipendenti del Parlamento, magari, come il meraviglioso esemplare registrato a Montecitorio dal Movimento 5 Stelle. Sul sito di Beppe Grillo lo si sente vantarsi al telefono di come ha bloccato un emendamento del Pd che fissava a 150 mila euro l’anno il tetto massimo di cumulo tra pensione e redditi da lavoro che tanto fastidio dava ai nostri Grand commis (in una parte non registrata ha fatto riferimento anche ai membri della Consulta): “Ho dovuto scatenare mari e monti. È stata una battaglia durissima. Io lo potrei scrivere in un manuale come caso di eccellenza di azione di lobby... Ho dovuto smuovere tutto”. Alla fine, il tetto è stato fissato a oltre 300 mila euro. Più del doppio. Qualcuno, come il deputato M5S Vincenzo Caso, s’è ritrovato il lobbista fuori dalla porta dell’aula che esultava per la bocciatura di un proprio emendamento: “Non è passatoooooo”.
Chi sono i mandanti?
Alle Camere, da ottobre a dicembre, stazionano tutti. Giganti come Eni o Enel o Poste o Ferrovie hanno ovviamente un loro uomo sul posto: la società guidata da Mario Moretti, per dire, deve essere certa che i finanziamenti da cui dipende siano effettivamente stanziati e quindi presidia il ministero delle Infrastrutture prima e il Parlamento poi (missione compiuta anche quest’anno).
Ci sono poi gli inviati dei ministeri. Quello della Difesa si occupa tanto dei militari veri e propri quanto dell’industria del settore: a questo giro, ad esempio, i primi hanno incassato 100 milioni extra per il 2014 e altri cento da dividere con le altre forze di polizia, i secondi un piano pluriennale di spesa in armamenti.
Ci sono poi i lobbisti delle tv private e dell’editoria, che si preoccupano dei rispettivi fondi statali, e c’è il mondo dell’energia che è diviso in tre: c’è sempre qualcuno del Gestore dei mercati elettrici (Gme), altri di Assoenergia e qualcuno pure di Energia Concorrente, che poi sarebbe l’associazione a cui aderisce Sorgenia di Carlo De Benedetti che ha strappato un emendamento per risolvere un contenzioso sugli oneri urbanistici con un comune del lodigiano (un risparmio potenziale di 22 milioni di euro).
Non mancano, ovviamente, gli uomini dell’Abi, l’associazione bancaria italiana, i veri trionfatori di questa sessione di bilancio tra detrazioni sulle sofferenze velocizzate (da 18 anni a cinque) e rivalutazione delle quote di Bankitalia con relativa aliquota di favore. La lobby del gioco - a partire da Sistema Gioco Italia di Confindustria - pure è sempre presente in forze in Parlamento: tra concessioni e trattamento fiscale i fronti aperti sono molti (anche se l’emendamento per spaventare regioni e comuni tentati dalla guerra alle slot, come vi raccontiamo qui accanto, probabilmente alla fine verrà cancellato).
Non manca il mondo assicurativo, anche se Ania preferisce lavorare direttamente col ministero: dopo il regalo del governo Monti che ha nei fatti reso irrisarcibili molti infortuni di piccola entità (norma anti-“colpo di frusta”), oggi l’esecutivo Letta gli regala per decreto il mercato dell’autoriparazione grazie all’obbligo di far riparare la macchina solo nelle carrozzerie convenzionate. Gli interessati, nel senso dei carrozzieri, iniziano a gennaio una mobilitazione nazionale. Si può dire che anche loro siano una lobby, però non efficace come quella della loro controparte.

Corriere 20.12.13
Governo accerchiato anche dalle tensioni che lievitano nel Pd
di Massimo Franco


Per Matteo Renzi si sta profilando una doppia sfida. La prima, tutta politica, è con il governo di Enrico Letta e con quello che resta delle «larghe intese». L’altra, per paradosso più difficile, è culturale e tenta di affrontare e cambiare una mentalità diffusa a sinistra: l’esempio più eclatante riguarda i rapporti con la Cgil, che ieri si sono misurati sul «totem ideologico», come lo chiama il segretario del Pd, dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori sui licenziamenti. «È un problema intorno al quale danzano i soliti addetti ai lavori», lontani «dalle realtà concrete. Ma il Pd non è la Cgil», sostiene Renzi. Si tratta di uno dei fronti sui quali nelle prossime settimane emergerà lo spartiacque all’interno del partito; e si giocherà il futuro della legislatura, perché le divisioni del Pd si scaricano su Palazzo Chigi. A questo si sommano le tensioni tra Letta e la Confindustria di Giorgio Squinzi; e quelle sulle unioni civili, che il sindaco di Firenze ha proposto tra i malumori dei settori legati alle gerarchie cattoliche.
Le manovre e le convergenze più insidiose, tuttavia, sono sulla riforma elettorale. Lo scontro che si delinea non riguarda soltanto il tipo di sistema da scegliere ma le alleanze da trovare in Parlamento. Lo schema renziano è semplice. Si tratterebbe di abbozzare uno schema bipolare che permetta di sapere subito dopo le elezioni chi ha vinto e chi ha perso. Il problema è come riuscirci quando si hanno alle Camere tre tronconi prodotti dal voto del febbraio scorso: Pd, M5S e FI, percepiti dal governo come «tre opposizioni» da quando Renzi è segretario. Si avverte una resistenza silenziosa a semplificare gli schieramenti a favore di un maggioritario sul quale solo sulla carta esiste un accordo generale. Anche perché il tema della riforma incrocia quello del finanziamento ai partiti. E le polemiche tra il nuovo vertice del Pd e il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo sui tagli ai costi della politica irrigidiscono le posizioni.
Renzi chiede «guardia alta» sul sistema elettorale. E teorizza un accordo «con chi ci sta», insistendo sulla possibilità di trattare e trovare un compromesso anche con Forza Italia e l’M5S: un’impostazione corretta perché tende a superare i confini della maggioranza. Ma irrita il Nuovo centrodestra di Angelino Alfano, prefigurando «larghe intese» ostili e non coerenti con la coalizione di governo; e risvegliando il sospetto che il segretario del Pd lavori alla caduta del premier Enrico Letta. Un «abbraccio Renzi-Berlusconi potrebbe essere mortale per il governo», si fa sapere. La priorità dev’essere quella di una legge concordata nella maggioranza. Non bastasse, rimane sullo sfondo la sensazione sgradevole di un attrito istituzionale col Senato, dopo il passaggio della riforma a Montecitorio.
La presidente della Camera, Laura Boldrini, ieri è tornata a negare qualunque contrasto, e ha chiesto di uscire dalla logica di scontro che finora ha impedito perfino di mettere giù un testo condiviso. Berlusconi e Grillo trattano con il Pd, ma intanto prendono tempo. E tatticamente continuano ad accreditare, se non elezioni anticipate, una crisi di governo per l’anno prossimo. È l’unico modo per tenere i parlamentari in mobilitazione permanente, e arginare spinte centrifughe. La visita a sorpresa fatta ieri a Roma da Gianroberto Casaleggio, l’«ideologo» dell’ M5S, è indicativa. Ai suoi gruppi parlamentari in Senato, dove nei mesi scorsi è emerso più volte il malumore verso Grillo e i suoi metodi autoritari, Casaleggio ha detto che sono stati commessi errori da tutti; e che il governo non sarà cambiato quest’anno ma «il prossimo».
In realtà, l’unico appuntamento elettorale certo è quello delle Europee di primavera. E il tentativo è di contrastare l’ascesa delle forze populiste ed euroscettiche. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, addita quella scadenza come uno spartiacque tra la fase in cui l’Ue ha perseguito solo una politica di rigore dei conti economici, e una nuova stagione dedicata a promuovere la ripresa economica. Filtra inoltre una notizia che, se confermata, assumerebbe anche valore simbolico: la possibilità che Mario Monti assuma un incarico in Europa. Il premier del governo dei tecnici e della linea del rigore avrebbe ricevuto la proposta di presiedere un gruppo dell’Ue chiamato a finanziare le istituzioni europee. Significherebbe che Scelta civica, in perdita di consensi, non ha più un leader.

Corriere 20.12.13
Nella proposta sulle unioni civili alla fine spunta l’adozione
Divisi gli uomini del sindaco
di Alessandro Trocino


ROMA — «Adozione». La parola più temuta alla fine è spuntata nel disegno di legge presentato dal senatore renziano Andrea Marcucci e dalla senatrice di Scelta civica Linda Lanzillotta. Nella forma più blanda, quella della cosiddetta stepchild adoption , ovvero l’adozione del bambino che vive in una coppia dello stesso sesso, ma è figlio solo di uno dei due. Ma basta questo per provocare un’ondata di gelo nel Pd.
Il quotidiano cattolico Avvenire ha dedicato una pagina all’argomento «unioni», segnalando i «mal di pancia» nel Pd e lanciando una sorta di monito. Su Europa la senatrice pd Emma Fattorini definisce «grave e incivile» che non ci sia nessun riconoscimento per le coppie gay, ma avverte dal rischio del «bipolarismo etico», con uno scontro tra la richiesta «indiscriminata» di diritti civili da parte dei laici e l’intransigenza dei cattolici, allora guidata da Camillo Ruini.
Il rischio c’è. Ma c’è anche la novità Renzi. È stato lui a lanciare il modello della civil partnership all’inglese (ieri diventato alla tedesca). E a citare la stepchild adoption . Ma non tutti i renziani sono con lui. Basta sentire Stefano Lepri, vicecapogruppo pd al Senato: «È giusto regolare le unioni gay, ma senza registri. Basta un contratto di tipo privatistico». Per il resto, invece, nulla da fare: «Sì, sono d’accordo con Alfano, anche se non si è inventato nulla, sono millenni che la società si regge su questa famiglia: un uomo e una donna e i figli». Dunque, per i gay, no al matrimonio e no all’adozione. E quella interna? «Mi pare molto discutibile, bisogna mettere al centro il bambino. Io sto al vecchio testo della Bindi». Nel testo Marcucci-Lanzillotta, che non ha l’imprimatur ufficiale di Renzi, si va oltre. E si spiega: «In caso di unione civile la parte contraente è considerata genitore del figlio dell’altra parte fin dal momento del concepimento in costanza di unione civile, anche quando il concepimento avviene mediante il ricorso a tecniche di riproduzione medicalmente assistita».
Rosy Bindi non chiude: «Sono pronta a una valutazione con mentalità aperta, del resto ho iniziato io questo processo di riconoscimento delle unioni civili. Quanto all’adozione all’interno della coppia se ne può parlare, bisogna vedere come è fatta». Ma per il resto è pessimista: «Mi sembra difficile fare accettare questo tema al Nuovo centrodestra, che mi pare più rigido di Forza Italia». Trovare una maggioranza fuori? «Beh, mi pare complicato il doppio registro. Si dichiara a gran voce che si sostiene il governo e poi si pongono questi temi divisivi, dalle unioni alla Bossi-Fini. Mi chiedo se sono le parole o i fatti che contano. A parole si sostiene il governo, con i fatti mi viene il dubbio che si voglia fare il contrario».
Insomma, il dubbio è che Renzi voglia picconare indirettamente l’esecutivo, lanciando temi sgraditi ai partner di Enrico Letta. Temi che aprono invece delle brecce in Forza Italia. Oltre al solito Giancarlo Galan, ieri si è fatto sentire Sandro Bondi: «Sono d’accordo con Renzi, l’Italia si deve liberare da un certo bigottismo e veteroclericalismo».
Prima di trovare una maggioranza fuori, Renzi deve convincere il Pd. E i suoi. Luigi Bobba, ex presidente Acli, è perplesso: «Bisogna distinguere convivenze etero e gay. E poi basta il riconoscimento privatistico dei diritti, senza troppe bandiere. Ricordiamoci dei diritti dei bambini. E della famiglia. Renzi lo ha detto: il fondo per la famiglia è di sei volte inferiore a quello dei giornalisti. Ogni anno nascono 120 mila bambini in stato di povertà assoluta. Mi concentrerei di più su questa emergenza che sulle unioni».

Repubblica 20.12.13
“I comuni sono allo stremo portiamo lo Stato in tribunale”
Marino: non posso più garantire i servizi
Negli ultimi anni alle città sono stati sottratti trasferimenti per oltre 8 miliardi, nessuno è stato trattato così
intervista di Giovanna Vitale


ROMA — «I tagli in Italia sono come le tasse, sembrano colpire sempre gli stessi soggetti. Le tasse sui i redditi fissi, i tagli ai comuni. Forse perché sono più lontani dai palazzi del potere centrale e vicini ai problemi della gente». Il sindaco di Roma Ignazio Marino è determinato: «Siamo pronti a dare battaglia. Il governo ci deve ascoltare. Negli ultimi anni alle città sono stati sottratti trasferimenti per oltre 8 miliardi, nessun altra istituzione ha subito misure tanto draconiane. È a rischio la tenuta del Paese».
Che vuol dire per voi sindaci rinunciare a 8 miliardi?
«Significa migliaia di posti in meno negli asili nido, decine di migliaia di buche non riparate nelle strade; linee di autobus cancellate; assistenza alle persone fragili azzerata. Noi quest’anno, a Roma, abbiamo fatto i salti mortali per non toccare il sociale, ma non possiamo garantire per l’anno prossimo. Si tratta di risorse che servono per pagare i servizi essenziali. Qui si sta giocando con la carne viva degli italiani. Che sono già allo stremo e non possono sopportare altri sacrifici: pena la rivolta sociale».
Qual è la vostra strategia per contenere il danno?
«Intanto speriamo nell’intervento del premier e del presidente Napolitano, ai quali ci siamo appellati perché si approvi entro fine anno una manovra correttiva. E il 29 gennaio terremo a Roma l’assemblea straordinaria dei sindaci per valutare le decisioni governo e del Parlamento e assumere le iniziative conseguenti».
Quali, se resterete inascoltati?
«Potremmo anche arrivare a una conflittualità con lo Stato, che porterà i comuni a far valere le proprie ragioni in tribunale. A partire dai crediti insoluti vantati nei confronti dell’amministrazione centrale».
Che tipo di crediti?
«Per esempio le risorse anticipate, e non rimborsate, per il funzionamento della giustizia. Lo sa che sono i comuni a sostenere le pulizie dei tribunali? Eppure quella è una funzione dello Stato».
Si rende conto però che la coperta è corta? Dove e come pensa di reperire le risorse che l’Anci chiede indietro?
«Io una mia idea ce l’ho, anche se innervosisce tanti: ci sono dei settori nel nostro paese che non si considera mai di tagliare, ad esempio i costi della difesa. Se noi chiedessimo agli italiani: riduciamo le spese per i nuovi caccia bombardieri e le navi da guerra oppure gli asili nido e l’assistenza agli anziani? Non credo ci sarebbero dubbi sulla risposta».
È una polemica antica e ancora insoluta, mentre il tempo stringe: cosa farete adesso?
«Le strade sono due: o si alzano le aliquote al 3,5 per mille sulla prima casa e all’11,6 sulle seconde, che la Legge di Stabilità ha invece fissato al 2,5 e al 10,6, oppure si trovano altre compensazioni che permettano ai comuni di recuperare almeno un miliardo e mezzo. Tertium non datur, a meno di non voler ammazzare la gente ».
Ma i comuni non possono rivalersi sfruttando la leva della “service tax”?
«Un’altra bella favoletta del governo. Si è detto: la service tax è vostra, l’imposta servirà ai comuni per fornire migliori servizi ai cittadini. Peccato che poi le aliquote vengano decise dal governo e dal parlamento. E mentre sull’Imu i comuni potevano incidere, su questa no. E così va a farsi benedire pure il principio di autonomia fiscale. Noi comuni siamo trattati come meri ufficiali pagatori: dobbiamo fornire servizi con meno soldi e non contare nulla al tavolo delle trattative. È inaccettabile».

il Fatto 20.12.13
Trattative
Art. 18 e legge elettorale guai in arrivo per Renzi
di Wanda Marra


Come si fa a fare la legge elettorale in un mese? Renzi tratta con Berlusconi, ma se la riforma la fa con lui salta il governo. E una nuova maggioranza per varare la legge con chi la fa, con Forza Italia? Significa che si va a votare col proporzionale”. Parola di un bersaniano. Dopo i primi dieci giorni di annunci scoppiettanti e bagni di folla entusiasta, per Matteo Renzi sembra arrivato il momento di toccare terra. Sulla legge elettorale, la soluzione non è facile, anche se la linea è parlare con tutti, da B. ai Cinque Stelle. I contatti con Berlusconi continuano: ieri il sindaco ha sentito Denis Verdini. Ma davvero alla fine si potrà permettere di fare una legge (in questo caso il Mattarellum corretto con premio di maggioranza) con Berlusconi? E in questo caso, “davvero Alfano farebbe cadere il governo? Mah”, per dirla con la Boschi. Difficile che possa permetterselo. Spiega Francesco Sanna, consigliere di Enrico Letta, ed entrato in direzione in quota Renzi, “è il momento in cui ognuno alza il tiro. Alfano dice che vuole la legge dei sindaci, il doppio turno di coalizione. Ma non spiega se prima vuole fare una riforma in senso presidenziale”. Insomma, le trattative continuano, la soluzione politica non s’intravede. Ieri la Boschi è salita al Colle per parlare con Napolitano. “Sono stata onorata di essere ricevuta dal Presidente. Voleva evidentemente anche conoscere uno dei volti nuovi del Pd”. L’incontro, dice, “è andato bene. Abbiamo parlato a lungo dei vari sistemi elettorali possibili e anche in generale delle riforme. No, lui non ha interferito in nessun modo, non ha espresso preferenza per l’uno o per l’altro. E no, non ha neanche spinto per fare la legge a maggioranza. È stato molto carino”. Insomma, un incontro distensivo, in cui i due evidentemente più che scontrarsi si sono in qualche modo rassicurati. Dopo Napolitano, la Boschi ha incontrato anche Doris Lo Moro, che era stata relatrice della riforma in Senato. “Le ho spiegato quali problemi ci sono lì, a partire dai numeri”, dice lei. Spiega ancora Sanna: “Prima di arrivare a una stretta finale della trattativa, bisognerà convocare gli organi direttivi del Pd, oltre la segreteria”. E poi incalza anche l’M5s: “Ma loro ci starebbero a fare una legge, o si vogliono tenere il proporzionale?”. Tra l’altro in Commissione Affari costituzionali alla Camera si deve nominare un relatore: in ballo c’è il berlusconiano Sisto, per ora il Pd non approva e non s’oppone.
LA STRADA di Matteo in questo momento sembra lastricata di ostacoli di varia natura. Anche sul lavoro, il neo segretario dice, ma non spiega. “È venuto subito fuori l'articolo 18. Ma è un totem ideologico attorno al quale danzano i soliti addetti ai lavori che non si preoccupano dei problemi ma fanno solo discussioni ideologiche" , ha detto ieri sera al Tg4. La stessa linea tenuta in segreteria. L’obiettivo non è l'articolo 18 ma "creare lavoro" in sé, con norme che semplifichino le assunzioni e i centri per l’impiego e misure come l’indennità di disoccupazione. Se Damiano plaude al mantenimento dello Statuto dei lavoratori così com’è, Squinzi la interpreta in maniera opposto. E allora Renzi per cercare di non rimanere stritolato da volontà opposte nega paternità di proposte, si tiene sul generico. Il sistema più ampio è ancora in fase di studio, ma le barricate sono garantite. Anche per i marziani la vita terrestre non è facile.

Corriere 20.12.15
Lo sfogo del leader sui «professionisti dell’articolo 18»
«Non ho totem, la mia un’altra cultura»
di Maria Teresa Meli


ROMA — Matteo Renzi è un tipo pragmatico. Fin troppo. Se ne sono accorti Marianna Madia e Filippo Taddei, ai quali, senza perdersi in troppe parole, il segretario ha affidato la «questione lavoro», ne ha avuto la riprova,conoscendolo da più tempo, la povera Maria Elena Boschi che ieri faceva avanti indietro per la Camera con dei faldoni, tutta intenta a studiare la pratica «riforme elettorali».
Il segretario del Partito democratico non vuole perdere tempo, ma nemmeno bruciarlo per un nonnulla. Ieri è stato chiaro. Anzi, di più: «A gennaio nessuno si può nascondere dietro alibi, scuse o presunte emergenze: ci saranno dei punti di programma con dei tempi precisi. Il patto alla tedesca funziona così, sennò è inutile farlo. Un’unica cosa è certa: noi non galleggeremo in attesa che si apra il semestre europeo». Anche perché come si apre il semestre si può chiudere la legislatura, quindi è inutile portarla troppo avanti se no non si combina niente.
Renzi ha deciso che per ora si procede. E chi se ne importa se Denis Verdini lo ha chiamato e poi ha propalato la notizia ai quattro venti. Per il leader del Partito democratico «non esistono totem». Sulla riforma del sistema elettorale come sulla legge del mercato del lavoro.
«Io — si è sfogato ieri con i suoi il segretario del Pd — non ho totem da abbattere né da erigere, appartengo a un’altra cultura». Perciò gli ha dato fastidio la levata di scudi che c’è stata sull’articolo 18. «Peraltro — ha spiegato ai compagni di partito — è una delle prime cose che ho detto, quando ho fatto il mio discorso da segretario: non voglio ricominciare una battaglia di principio, senza avere bene chiaro in testa se serva o non serva ad aumentare l’occupazione. Perché questo è il nostro vero problema. È inutile raccontarci che il Pil aumenta dello 0,00000005 per cento quando poi tutti gli indicatori ci raccontano che i giovani senza lavoro nel 2014 aumenteranno. È questo il vero segnale della mancata ripresa».
E allora? E allora il segretario del Partito democratico ha spiegato chiaro e tondo ai suoi come la pensa: «Io non ne posso più dei professionisti dell’articolo 18». Intendendo per tali coloro che lo difendono o lo attaccano a prescindere. È un altro l’approccio che vorrebbe avere Renzi. È un’altra la storia che vorrebbe «raccontare» ai «tanti giovani precari che non sanno da chi essere rappresentati».
Ma il leader del Pd si rende conto che il suo modo di fare fatica a trovare strada nella Roma dei palazzi della politica: «So che vorrebbero bloccarmi nella tela del ragno, ma io resisto. E scarto. Dobbiamo essere assolutamente noi del Pd a dettare i tempi».
Lontano da orecchie indiscrete e da curiosità non gradite il nuovo leader del Partito democratico racconta come e perché la sua partita sia diventata più difficile. Tutta colpa del fatto che lui si è intestardito a occupare degli spazi vuoti che prima erano occupati da altre istituzioni, non per volontà di espandersi, ma, semplicemente, perché c‘era il vuoto attorno.
Adesso riassestarsi è difficile per tutti. Persino per chi, come il sindaco di Firenze, non è troppo attento al galateo dei riti di prammatica.
Il partito lo segue. Fino a un certo punto. Naturalmente. Sull’approdo al Pse, ieri, non c’è stato nessuno che ha fiatato. Ma si era in segreteria. È inevitabile che, in un modo o nell’altro, quello sia il traguardo, anche grazie alla revisione della famiglia socialista, che non sarà solo tale, allargherà le sue braccia ai democratici di tutto il mondo e rifarà il tagliando.
Renzi è in attesa di vagliare le candidature. Dovrà usare la scure, l’accetta e il cesello. E forse, alle volte, gli toccherà assecondare anche gli umori e i malumori del partito. Fino a un certo punto. Perché su certi nomi Renzi non vuole sentire storie, giustificazioni o altro. È l’occasione per forgiare il Pd a sua immagine e somiglianza. Il che non sarà facile. Per niente. I nemici si vendicheranno. E infatti gira voce, con una certa insistenza, ma non si sa quale fondatezza, che o i socialisti francesi o l’Spd tedesca, potrebbero offrire un seggio a Massimo D’Alema, fatto fuori, senza troppi complimenti dal segretario nelle liste europee. Scandalo? Perché? Ugo Sposetti, di passaggio a Montecitorio, ricorda quando il politologo Maurice Duverger, nel 1989 fu candidato nelle liste del Pci di Achille Occhetto.

Corriere 20.12.13
La Cgil non si scopre per evitare «l’effetto D’Alema»
Ma c’è chi spera nel «rottamatore» per rinnovare anche il sindacato
di Antonella Baccaro


ROMA — Ieri Susanna Camusso e Matteo Renzi (forse per la prima volta) hanno detto la stessa cosa: «Togliamo l’articolo 18 dal tavolo della riforma del lavoro». Il segretario del Pd ha fiutato subito il pericolo che il suo «Job act» s’impantanasse in un dibattito ideologico ancor prima di prendere forma e non ha esitato a richiamare i suoi a non cadere nel tranello.
Per il leader della Cgil è stato facile a quel punto, dopo aver subito per giorni quasi senza reagire gli attacchi dei renziani, che una volta volevano cancellare i permessi sindacali, un’altra proponevano le primarie anche nel sindacato, è stato agevole, finalmente, trovare un modo per esprimersi senza entrare in contraddizione con Renzi. Perché una cosa è certa: Camusso non ci sta a avallare la tesi che la Cgil sia rimasto l’unico baluardo di opposizione al sindaco di Firenze. Non in questa fase almeno, in cui Renzi è sugli scudi come «rottamatore» e a vestire i panni di chi gli è contro si rischia l’effetto-D’Alema, cioè si finisce per essere additati, a torto o a ragione, come la fonte di tutti i mali, il simbolo di ciò è vecchio.
Perciò, fa capire qualcuno della segreteria della Cgil in corso d’Italia, di Renzi al momento ad alta voce non si discute: «Certo, lo abbiamo fatto il giorno dopo la sua vittoria: era inevitabile. Ma non è che ci riuniamo a parlare di lui o di quello che farà». Anche perché, è il ragionamento, nessuno sa cosa farà veramente Renzi in materia di lavoro. «Alle scorse primarie del Pd — si fa notare — il sindaco di Firenze aveva adottato Pietro Ichino e la sua riforma, e a noi non andava affatto bene. Ora però che Ichino sta in un altro partito, Renzi sta ancora scegliendo quale modello gli piace. Allora lasciamolo lavorare».
Lo schema è dunque quello del «wait and see». Anche se qualche brivido è corso nella segreteria quando prima delle primarie del Pd Carla Cantone, leader dei pensionati Cgil, ha inviato agli iscritti una lettera di sostegno alla candidatura dell’oppositore di Renzi: Gianni Cuperlo. La mossa è stata subito bollata come improvvida e non rappresentativa delle posizioni del maggior sindacato. Che al momento appare blindato: al prossimo congresso, che si svolgerà a Rimini dal 6 all’8 maggio, la rielezione di Susanna Camusso è scontata perché alla sua mozione non se ne opporrà un’altra, almeno non quella del leader della Fiom, Maurizio Landini, che ha appoggiato il documento di maggioranza e si limiterà a proporre emendamenti. L’opposizione perciò sarà rappresentata dall’area di estrema sinistra «Rete 28 aprile», guidata da Giorgio Cremaschi, ex Fiom ora tra i pensionati Spi. Insomma, non facciamoci del male.
I fedelissimi di Camusso pensano che Renzi andrà a sbattere da solo: è soltanto questione di tempo. Il segretario, dopo la consueta «luna di miele» con tutto l’establishment e con l’opinione pubblica, dovrà svelare i suoi piani scendendo nel dettaglio. E allora, dicono quelli che non lo approvano, si vedrà che è solo un «bluff», che le sue idee rivoluzionarie si trasformeranno nelle solite comode mediazioni. Allora le critiche pioveranno da tutte le parti.
Retropensieri che non traspaiono al momento, anche perché Camusso non vuole dare nessun vantaggio a Landini, che con Renzi sta già flirtando, pur sapendo di dovercisi scontrare su alcuni temi. Come quell’articolo 18 che Renzi ora toglie dal tavolo anche per poter giocare di sponda con Landini, spaccando l’apparente unità della Cgil.
Ma se il sindacato per ora sembra marciare compatto sotto la guida di Camusso, se nessun cigiellino è salito ufficialmente sul carro del vincitore delle primarie, non vuol dire che all’interno delle segrete stanze non vi sia chi speri in Renzi, o meglio in un effetto-Renzi. Spiega la fonte della segreteria: «Il sindacato così com’è, è destinato a essere marginalizzato ma invece di tentare di rinnovarsi, come ha fatto il Pd, si è arroccato e ha serrato i ranghi. L’unica possibilità che abbiamo — aggiunge — è che Renzi venga a scrollare anche il nostro albero, creando le condizioni per il nostro rinnovamento».

la candidata Pd alla presidenza della Regione è indagata per peculato
l’Unità 20.12.13
I democratici sardi si dividono su Barracciu, lunedì la direzione
di Davide Madeddu


CAGLIARI Qualcuno spera in un «passo indietro spontaneo», qualche altro ancora sta a guardare. Ma la discussione non è ancora cominciata.
Motivo del contendere che anima il popolo del Partito democratico sardo è la candidatura alla carica di presidente della Regione di Francesca Barracciu, vincitrice delle primarie del centrosinistra con oltre cinquantamila preferenze ma rimasta coinvolta nell’inchiesta sull’uso dei fondi ai gruppi portata avanti dalla Procura della Repubblica di Cagliari. Un fatto che aveva visto gli alleati, con Sel in testa, ma anche una parte della dirigenza del Pd chiedere il cosiddetto «passo indietro». Richiesta respinta al mittente dalla candidata anche nei giorni scorsi ma che ora è finita sul tavolo del nuovo segretario del Pd Matteo Renzi.
La discussione è in corso e per i prossimi giorni, qualcuno ipotizza già lunedì, potrebbe svolgersi una direzione regionale cui dovrebbe partecipare uno degli esponenti della segretaria nazionale del Partito. Una decisione presa anche alla luce dell’incontro che si è svolto nei giorni scorsi a Roma, cui hanno partecipato Stefano Bonaccini, Luca Lotti, il segretario regionale del Pd Silvio Lai e la stessa Barracciu. dì si capirà come volgerà la situazione e quale sarà lo scenario. I tempi per eventuali decisioni sono comunque brevi. Le elezioni dovrebbero essere convocate, ancora non c’è il decreto ma dovrebbe essere una questione di giorni, il prossimo 23 febbraio. Che vuol dire chiusura delle liste un mese prima, con tutto quello che comporta l’impegno per la presentazione dei candidati e avvio di una campagna elettorale.

il Fatto 20.12.13
Qui Catanzaro
Pd, pasticciaccio alla calabrese
Come in Urss Un solo nome per l’elezione
di Marcello Longo


CONGRESSI E PRIMARIE anomali in Calabria. A Catanzaro l’elezione del segretario provinciale del Pd, che si è svolta a novembre, è stata accompagnata da polemiche: in dieci circoli sulla scheda c’era il nome di un solo candidato, quello che poi ha vinto. La sua nomina è stata ufficializzata due giorni fa, dopo rinvii vari e ricorsi. A Cosenza durante le primarie si è arrivati, in un seggio, alla spartizione dei voti da distribuire a ogni candidato: 150 a Renzi, altrettanti a Cuperlo e 50 a Civati. Salvo poi diminuire le cifre, a causa dei due euro da pagare per ogni voto. I civatiani hanno fatto ricorso alla commissione regionale per invalidare il risultato.
   Tre candidati si contendono la poltrona di segretario provinciale, ma sulle schede per votarli c’è il nome di uno solo. È la più curiosa fra le anomalie del congresso del Pd di Catanzaro, cominciato a novembre e concluso solo due giorni fa, dopo una lunga guerra di polemiche, ricorsi e rinvii. Mercoledì scorso è stato proclamato il nuovo segretario: Enzo Bruno, ex capogruppo in Consiglio provinciale, sostenuto trasversalmente dall’establishment locale del partito. A benedire la sua elezione è arrivato pure Davide Faraone, il responsabile Welfare della segreteria di Matteo Renzi.
   IN REALTÀ, al congresso catanzarese i sostenitori del sindaco di Firenze si sono frammentati e schierati un po’ con tutti. Quelli della “prima ora” con Francesco Muraca, presidente del Consiglio comunale di Lamezia Terme. Altri con Domenico Giampà, 27enne segretario dei Giovani democratici. Altri ancora, assieme ai cuperliani, con il vincente Bruno eletto con il 58 per cento delle preferenze. Sul congresso molte ombre: dal tesseramento gonfiato di Pianopoli (da 130 a 249 iscritti in un anno) ai presunti infiltrati di altre forze politiche. L’anomalia più curiosa è quella del “candidato unico”. Le schede per l’elezione del nuovo segretario distribuite nei circoli avevano tre spazi da compilare con i nomi dei candidati e delle liste collegate. Su uno dei tre il militante Pd avrebbe dovuto tracciare una croce. Ma in dieci circoli, la scheda riportava solo un nome: Enzo Bruno. E in un paio di sezioni i candidati indicati erano due anziché tre. “Questo meccanismo è la rappresentazione plastica dell’arroganza dei capibastone che hanno portato la gente a votare, decidendo a priori che esisteva un solo candidato”, dice al Fatto Pasquale Squillace, segretario del circolo di Catanzaro Centro. Il caso è arrivato alla Commissione nazionale di garanzia del Pd. L’organismo presieduto da Giovanni Berlinguer ha confermato l’irregolarità delle schede e “richiamato” la commissione provinciale per il congresso che ha poi annullato il voto. Ma una terza commissione, quella regionale, ha deciso di ignorare le anomalie, convalidando l’elezione e convocando l’assemblea provinciale di due giorni fa perla proclamazione di Enzo Bruno. Ieri il Fatto ha provato più volte a contattare il nuovo segretario, senza successo. Già a ottobre, quando si ufficializzavano le candidature, il suo nome aveva suscitato malumori nel partito. Nel 2011 è stato condannato in primo grado a un anno per truffa, nell’ambito di un’inchiesta sui rimborsi per i consiglieri provinciali: una spesa illegittima di 350 euro per notti in albergo con la famiglia. Il segretario del circolo Catanzaro Lido, Tonino Tarantino, lo aveva segnalato ai vertici nazionali del Pd: “Non ha i requisiti etici per essere candidato” .

brogli alle primarie del Pd?
il Fatto 20.12.13
Qui Cosenza
“Facciamo contenti tutti: 150, 150 e 50”
di Emmanuele Lentini


In un seggio di Cosenza, durante le primarie del Pd, ha vinto la mozione “contenti tutti”: aggiungiamo 150 voti bonus a Cuperlo, 150 a Renzi e 50 a Civati. Peccato che al momento di aumentare i voti, i promotori della mozione-tarocco si siano resi conto di un particolare: “I due euro per ogni scheda, chi li mette?”. E si parla di 350 voti fantasma, mica spicci. Allora meglio ridurre. “Facciamo 70 a Cuperlo, 70 a Renzi e 30 a Civati”. Così risparmiamo tutti. Il racconto di uno basito scrutatore pro Ci-vati non è rimasto circoscritto al seggio numero 4 di via Popilia, a Cosenza. Ma è andato a finire dritto sul tavolo della commissione regionale (quella provinciale ha bocciato il ricorso), che valuterà se annullare o meno le elezioni in quel seggio. Anche perché lo scrutatore Francesco Bruno, il civatiano, ha raccontato un altro particolare: all’inizio i renziani hanno accusato i cuperliani di aver inbucato, prima dell’apertura del seggio, schede pro-Cuperlo in un doppiofondo. Il trucco, degno di David Copperfield, non è piaciuto. Ma un punto d’incontro lo si è trovato: voti bonus per tutti. Bruno chiude sconsolato la denuncia: “Gli iscritti al Pd che hanno votato vengono fatti passare da 51 a circa 230, in modo da risparmiare la quota di due euro per i voti fittizi. La restante somma per coprire i voti viene versata dai rappresentanti delle mozioni Cuperlo e Renzi”.
NON È L’UNICO CASO di presunti brogli a Cosenza: Giuseppe Caporale, garante regionale della mozione pro Civati, ha chiesto l’annullamento di un’altra votazione alla commissione provinciale del Pd. Bocciato. Caporale non ha mollato: ora toccherà alla commissione regionale valutare il caso. Anche nel seggio 5 è un civatiano, Costantino Covelli, ad aver notato qualcosa di strano il giorno dell’Immacolata. In quel seggio, allestito in un centro anziani, hanno votato in più di 900. Un po’ troppi per i registri, che non avrebbero potuto contenere tanti nominativi. Lì ha vinto Cuperlo, che in città ha incassato 1300 voti e ha battuto Renzi di circa 300 lunghezze. Civati ne ha presi poco più di 200. Covelli ha seguito le operazioni a urne aperte. Poi, in serata, dopo la chiusura, ha chiamato Caporale. Insieme sono andati alla federazione provinciale di Cosenza. Volevano controllare meglio i registri, nel frattempo portati da altri. Dovevano essere lì, ma non c’erano, spiegano ora Caporale e Covelli. Che fine hanno fatto? Si sono materializzati il giorno successivo. Dall’area Cuperlo e Renzi, a Cosenza, rispediscono le accuse al mittente, facendo notare che in via Popilia, il verbale di chiusura del seggio è stato sottoscritto anche da un civatiano. I renziani spiegano di aver mandato ai seggi “vigilantes”, perché “qui può succedere di tutto”. L’ultima parola spetta alla commissione regionale.

figuracce Pd
Repubblica 20.12.13
La dirigente Pd incontra il titolare dello Sviluppo ma cercava quello del Lavoro
Lei smentisce: “Ho solo sbagliato palazzo, non ministro”
L’ironia della rete per la gaffe della Madia “Vede Zanonato, lo scambia per Giovannini”
di Sebastiano Messina


ROMA — Può capitare a tutti di sbagliare palazzo. È uno di quegli errori che a Roma, la città dei mille palazzi, si perdonano a chiunque. A meno che tu non sia una deputata giovane e bella con una rapidissima carriera alle spalle e un posto appena conquistato nella segreteria di Matteo Renzi. Se n’è accorta Marianna Madia, trentatreenne neoresponsabile del Lavoro del Partito democratico, che da ieri mattina è per tutti la protagonista della gaffe del giorno: avrebbe scambiato il ministro dello Sviluppo Economico, Flavio Zanonato, per quello del Lavoro, Enrico Giovannini.
Avrebbe: perché lei nega. Eppure il racconto dell’equivoco, apparso sul Tempo di ieri, era piuttosto circostanziato. La giovane “ministra-ombra” renziana sarebbe apparsa senza appuntamento nell’anticamera di Zanonato, che l’avrebbe fatta accomodare subito nella sua stanza, restando però “tra il sorpreso e il divertito” — scrive il cronista del Tempo— quando laMadia gli ha chiesto “dettagli sulle politiche del lavoro”. “Sopresa e divertimento” da una parte, “sorpresa e imbarazzo” dall’altra, quando Zanonato avrebbe garbatamente fatto presente alla giovane deputata che lui non aveva competenza su quella materia. «Ma scusa, ministro, non sei te che ti occupi del Lavoro?» avrebbe a quel punto domandato la giovane deputata, vedendosi indicare per tutta risposta il ministero che si trova dall’altra parte di via Veneto: quello del Lavoro, appunto. E qui, conclude perfidamente il cronista delTempo, «il candido pallore della Madia si è trasformato in un rossore mortificato». L’interessata però nega. Nega risolutamente. «Ho solo sbagliato palazzo, perché sono uno di fronte all’altro, in via Veneto. Palazzo, non ministro! Sono entrata per sbaglio al ministero perlo Sviluppo, anziché al ministero del Lavoro. Ma non ho scambiato Zanonato per Giovannini, che conosco benissimo perché lo vedo spesso in commissione ». Una versione che viene confermata anche dallo staff di Zanonato. Il ministro avrebbe incontrato la Madia per strada, e vedendola imboccare l’ingresso del suo ministero le avrebbe chiesto: «Ma che ci fai da queste parti? Cercavi me?». Dopodiché, appreso che la deputata credeva di salire le scale del ministero di Giovannini, la avrebbe detto che era il palazzo sbagliato, e che doveva bussare dal-l’altra parte della strada.
E anche in questo caso bisogna dire «avrebbe», perché come siano andate effettivamente le cose in questo equivoco buffo del ministero scambiato, non è proprio chiarissimo. Da una parte il dettagliatissimo racconto del giornale, dall’altra le telegrafiche precisazioni dei protagonisti. Fatto sta che ieri contro la Madia si è scatenata tutta l’ironia del popolo di Twitter. «Gaffe terrificante». «Sbaglia ministro e ministero. Segni particolari: non è un genio». «Io non ci credo: sarà il ministero che si è spostato». «Se parli per mezz’ora con un ministro al posto di un altro, non è la geografia che ignori». «Renzi sì che sa premiare il merito e scegliere bene! ».
E già che c’è, qualcuno ricorda la penultima puntata della Madia-story, l’accusa della bersaniana direttrice di Youdem, Chiara Geloni, di aver cambiato corrente troppo disinvoltamente, e soprattutto troppo spesso. Riassume su Twitter Marco Esposito: «Prima Veltroni, poi D’Alema, poi i giovani turchi. Alle parlamentarie con Fassina, ora con Renzi». E stavolta nessuno ricorda la lettera di solidarietà a Marianna di 26 deputate, né la gelida risposta da lei data de visu all’accusatrice Geloni: «Avrei voluto chiamare mia figlia Chiara, ma ora purtroppo dovrò cambiare nome».
Troppa attenzione per un semplice equivoco? Può darsi, ma forse è il pegno che devi accettare di pagare se diventi capolista del Pd alla Camera a 25 anni — confessando candidamente nell’occasione la tua “inesperienza politica” — se hai attraversato il Pd come una meteora, e dopo aver vinto le ultime primarie hai disinvoltamente rivelato che «nel Pd ci sono vere e proprie associazioni a delinquere, sul territorio». Va a finire che poi c’è troppa gente, che aspetta di coglierti in fallo alla prima gaffe.

il Fatto 20.12.12
Dal golpe ai forconi
I camionisti cileni del ‘73 e i nipotini di Piazza del Popolo
di Maurizio Chierici


Si dice che le proteste dei Forconi ricordino la rivolta dei camionisti cileni, quel luglio 1973 paralizzato dallo sciopero apripista del colpo di Stato di Pinochet. Blocco dei trasporti per esasperare la borghesia in un paese lungo 4 mila chilometri. Negozi che si spengono; mancano pane, latte, benzina e le signore di Los Condes (eleganza di palazzi e giardini) battono pentole vuote. In un certo senso, l’esasperazione cilena preannunciava le parole d’ordine del Calvani di piazza del Popolo: cambiare e rovesciare per salvare la patria dal potere infido. Attorno le maschere di Casapound; a Santiago camionisti abbracciati ai neofascisti Patria y Libertad. Allende aveva tagliato le sovvenzioni ai Tir distribuite dai governi della destra dell’imprenditore Jorgec Alessandri e dalla Dc di Eduardo Frei. Malumore consolato dai dollari segreti che arrivano da lontano: trame Nixon-Kissinger per scongiurare il pericolo del socialismo attorno alle miniere di rame. Da noi, negli anni del Popolo della libertà 10 miliardi rallegrarono i serbatoi dei trasportatori per i buoni uffici del sottosegretario Uggé, loro segretario generale. Nessun intrigo internazionale. Benevolenze dell’autarchia corporativa.
LO STRATEGA del boicottaggio cileno si chiamava Leo Vilarin capo della confederazione che riuniva 165 sindacati, 56 mila giganti della strada. Anni dopo parliamo sulla veranda di una piccola casa nel bosco di Alexandra, Virginia, residenza degli agenti Cia.
È scappato dal Cile. Ai militari dava fastidio la presenza del sindacalista infedele. Ha l’aria di un ospite provvisorio. Racconta di essere stato avvertito del colpo di Stato. “Passo la notte ascoltando la radio. Aspetto il proclama della giunta militare. Assieme ai dirigenti della corporazione ho respinto le pressioni del governo Allende grazie ai contributi di sindacati nordamericani”. Quali? provo a chiedere. Allarga le mani: non ricorda il nome. Ma esiste un’altra versione. Orlando Sáenz, presidente della Confindustria cilena, raccontava all’ombra della dittatura come avventurosamente portava i soldi a Villarin. “Dollari che finivano in 5 conti aperti in Europa, versati dall’Itt e altre multinazionali”. Itt, telefoni e telegrafi, monopolio Usa nel Cile minacciato dalla nazionalizzazione. “Se gli imprenditori cambiano una certa quantità di moneta americana nessuno prende nota. Normale per chi compra ed esporta in paesi lontani. Vendevamo i dollari a proprietari cileni. Passaggi nelle banche d’oltremare. A Santiago ritiravo l’equivalente in pesos. Con qualche spavento. Una volta la polizia ha perquisito i passeggeri dell’aereo. Nella borsa avevo il foglietto col numero dei conti. L’ho masticato”, e ride per la ragazzata.
Villarin scuote la testa. “Mai incontrato Sáenz. Racconti da ubriaco”. Adesso come vive? “I sindacati mi danno una mano”. Non mi pare sia il bosco dei sindacati ... “Qui si mescolano realtà diverse”. Continua il ricordo: “Quella notte preparo il discorso suggerito dall’ambasciata americana. Dovevo leggerlo il giorno dopo, 12 settembre ‘73...”. Lo recita a occhi chiusi: “Sospendiamo ogni agitazione avendo piena fiducia nel governo militare. Ribadiamo la nostra soddisfazione per aver contribuito più d’ogni altro alla caduta del governo”.
Mai incontrato Allende? “Cinque volte. Proponevo un accordo. Rispondeva: troppo impegnativo. Ne parliamo fra qualche mese. Era fine agosto. Il contatto dell’ambasciata Usa: lascia perdere, è tutto deciso”. Mani straniere robuste, mani italiane (speriamo) che s’agitano solo in piazza. Il generale in pensione Pappalardo non è Pinochet.

Repubblica 20.12.13
Ecco come è nata l’anomalia italiana
di Marco Revelli


Nel pieno dell’attuale “crisi di sistema”, la riproposizione di questa “anomala” Storia d’Italia (ma forse dovremmo dire di questa “storia dell’anomalia italiana”), costituisce un’utile occasione per tentare di “fare ordine”, quantomeno nelle idee. Essa rappresenta, a tutt’oggi, il più serio tentativo – forse l’unico, nella sua ambizione paradigmatica – di leggere le convulsioni politiche del presente, definite senza mezzi termini come transizione a una “Terza repubblica” in fieri, collocandole nel quadro di una lunga durata più che secolare. I 153 anni (proprio così, perché l’analisi è aggiornata fino a oggi, all’autunno del 2013) che ci separano dall’Unità, scanditi da ben due “crisi di regime”: il passaggio dallo stato liberale al regime fascista dei primi anni Venti e quello dalla dittatura alla democrazia della metà degli anni Quaranta. E da due “crisi di sistema”: la fine della Prima Repubblica e la dissoluzione della Seconda.
La tesi centrale è forte. L’anomalia italiana consisterebbe nella natura invariabilmente “bloccata” del suo sistema politico. Nella permanente assenza di qualsiasi «possibilità di un’alternativa di governo non provocata da un crollo di regime» o comunque da una “crisi organica di sistema”, che trasformerebbe quanto altrove costituisce una fisiologica alternanza di governo in una patologica palingenesi politica e istituzionale. La quale, tuttavia,non ha mai permesso di emendarsi davvero dal vizio d’origine. Pur nella assoluta discontinuità tra i tre tipi di “regime” che si sono succeduti, infatti, un dato essenziale è rimasto costante, e cioè l’impossibilità, nell’ambito di ognuno, del “nucleo dell’opposizione” di farsi governo e del “nucleo di governo” di diventare opposizione se non attraverso una rottura istituzionale. Un “mutamento di regime”, appunto. Con la conseguenza nefasta dell’identificazione dei Governi tout court con lo Stato e la configurazione dell’opposizione in “anti-stato”. Statalizzazione delle forze politiche di governo, e conventio ad excludendum per le opposizioni… Appropriazione monopolistica delle istituzioni – col seguito di corruzione, clientelismo, arroganza in alto – , ed emarginazione, ribellismo, familismo, arte di arrangiarsi in basso… Tutto ciò era già stato espresso esattamente dieci anni or sono, nella prima edizione del volume, nel pieno di quella conclamata “crisi di sistema” che segnò la fine della Prima Repubblica. E’ interessante che venga riproposto ora nelle ampie integrazioni, proprio a seguito di un decennio che avrebbe dovuto segnare l’approdo a una compiuta “democrazia dell’alternanza” e a un bipolarismo più o meno imperfetto nel quale centro-destra e centro-sinistra si sono alternati alla guida del paese.
Evidentemente, si può osservare, quella semplificazione dall’alto, attraverso la leva delle “riforme elettorali”, doveva essere ben fragile; quella superficie polarizzata ben sottile se al di sotto le coalizioni hanno continuato a covare la frammentazione micro-partitica. E si sono mantenute, anzi moltiplicate le pratiche trasformistiche. Se le vocazioni trasversali consociative e ministeriali sono prosperate sotto la finzione linguistica dell’invettiva e della scomunica reciproca. Se le convergenze pragmatiche hanno prevalso, dando vita a politiche di governo quasi indistinguibili e rendendo invisibile ogni alternativa programmatica. Al punto che quando la crisi finanziaria quasi-terminale dell’autunno del 2011 ha affossato l’ultimo governo Berlusconi, è imploso tutto il sistema politico, esattamente come nelle altre, precedenti, “crisi di regime”. E nell’emergenza si è imposto l’intervento “irrituale” di un deus ex machina – il Capo dello Stato – e la formazione di un “governo del Presidente” come già era avvenuto, dieci anni prima, con Scalfaro e i Governi Ciampi e Dini, e prima ancora con i “governi del re” (nel 1922, quando fu chiamato per via extra-parlamentare Benito Mussolini, nel 1943, quando fu sostituito da Badoglio), su su, fino all’invocazione del “ritorno allo statuto” durante la “crisi di fine secolo”… Occorrerebbe discutere a lungo sui molti stimoli che il volume ripropone. Sulla categoria, ad esempio, della “guerra civile ideologica” a cui Salvadori attribuisce una primaria importanza nella genesi dei mali italiani, ed a cui personalmente preferisco quella, gobettiana e apparentemente opposta, della diseducazione nazionale alla pratica del conflitto sociale e delle idee (l’eterno vizio del compromesso e del familismo amorale celato sotto la radicalità verbale dell’invettiva). O sul ruolo che ebbe l’“egemonia moderata” nel Risorgimento – più che non le divisioni tra i suoi protagonisti -, come tara storica che determinò la nascita di uno “Stato senza popolo” denunciata dai democratici radicali. Ma certo la rappresentazione storica del nostro attuale presente, impietosa, realistica nella descrizione della gravità della crisi, soprattutto della tendenziale dissoluzione dei partiti (“prodotti di un amalgama spurio e contraddittorio”, impegnati in una sorta di “guerra delle zanzare”) rimane un punto irrinunciabile da cui iniziare a riflettere.

IL SAGGIO Storia d’Italia Crisi di regime e crisi di sistema, di Massimo L. Salvadori - il Mulino pagg. 240, euro 16

il Fatto 20.12.13
Attici e dimore
Bertone, Giani e la casta del superlusso in Vaticano
di Marco Lillo


Papa Francesco continua a lanciare messaggi inequivocabili sulla Chiesa che immagina intorno a sé. Il 17 dicembre, giorno del suo compleanno, ha invitato alla messa mattutina a Santa Marta e poi alla colazione che ne è seguita, tre clochard, uno dei quali accompagnato dal cane che condivide la sua esistenza randagia nel quartiere vicino a piazza San Pietro.
Alla celebrazione della messa il Papa ha voluto partecipasse anche il personale della Domus Santa Marta per ricreare un clima quanto più possibile familiare. Bergoglio continua a vivere nella Domus mentre l’enorme appartamento papale nel Palazzo Apostolico rimane vuoto, a parte i fugaci passaggi dell’Angelus domenicale . A poca distanza dalla sua dimora, dentro le Mura Leonine, alti prelati e potenti laici della gerarchia vaticana, invece di seguire il suo buon esempio continuano però a comportarsi come prima, peggio di prima.
PER MISURARE la distanza tra la predica del pastore fuori le mura e gli atti delle pecore nel recinto vaticano bisogna fare una passeggiata a Porta Sant’Anna. Gli operai del Gruppo Alfano, una società di Busto Arsizio specializzata in ristrutturazioni di chiese e oratori, stanno ultimando i lavori di ampliamento della dimora del generale Domenico Giani. Il comandante della Gendarmeria Vaticana era dato in partenza verso un alto incarico all’Onu al quale era stato proposto dallo Stato italiano. Dopo che erano uscite le carte relative ai pedinamenti fatti nel territorio italiano dalla Gendarmeria sotto il suo comando, dopo lo scandalo destato dalle conversazioni telefoniche intercettate dalla Procura di Roma nelle quali Giani scriveva su carta intestata agli organi italiani di Polizia per aiutare Monsignor Nunzio Scarano a recuperare 400 mila euro date all’agente dei servizi segreti Giovanni Zito, le sue quotazioni sembravano in ribasso. Era quindi difficile che rimanesse al suo posto di responsabile della sicurezza del papa dopo che si era mostrato così incauto da mettersi a disposizione di un soggetto che, secondo i pm, aveva dato 400 mila euro a un agente dei servizi segreti italiani non per fare opere di bene ma per corromperlo al fine di far rientrare 20 milioni di euro dalla Svizzera. Persino il Papa aveva scaricato il contabile salernitano con una frase mai pronunciata da un pontefice: “Se un monsignore è finito in carcere non è certo perché assomigliava alla Beata Imelda”, come forse pensava Giani quando beveva le sue frottole.
IN VATICANO chi non vuol bene al generale dice che l’unica cosa che hanno in comune Giani e Bergoglio è l’appartenenza onoraria al Rotary. Eppure, invece di levare le tende, Giani ha raddoppiato. Quando era andato ad abitare in territorio italiano in una casetta sull’Aurelia, in molti avevano pensato a un suo progressivo allontanamento. Niente di tutto ciò. Giani ha lasciato il suo appartamento con affaccio su via di Porta Angelica perché è in corso una dispendiosa ristrutturazione.
Da poco sono state tolte le transenne e sopra il terzo piano è comparso all’improvviso un piano nuovo con tre finestre e due ampie vetrate che illuminano una sala con vista. A completare il sopralzo ci sono due bagni nuovi di zecca con una vasca idromassaggio e una terrazza mozzafiato con affaccio sull’Italia e Borgo Pio.
AI TEMPI di papa Ratzinger il generale Giani era costretto a vivere in una casa media in uno dei pochi palazzi grigi con le persiane consunte della Città del Vaticano. Nell’era francescana ha visto estendere la sua dimora e riverniciare il tutto di arancio sgargiante con grondaie in rame e verande in legno esotico. Giani è noto per le sue scorribande investigative in territorio italiano ma quando si tratta di affari personali i confini tornano sacri: se il sopralzo fosse avvenuto due metri dopo, in territorio italiano, saremmo di fronte a un colossale abuso edilizio. Nonostante le transenne (a tutela dei pellegrini che rischiavano di essere colpiti dai calcinacci) si trovino in Italia, in via di Porta Angelica, però, per pochi metri, la casa del gendarme numero uno, (soprannominato Kappa Zero in Vaticano) è in uno Stato estero. Così Sovrintendenza e vigili urbani devono stare a guardare. Come direbbe in dialetto salernitano monsignor Scarano, ’o pesce puzza dalla capa. Uno dei maggiori sponsor di Giani, l’ex Segretario di Stato Tarcisio Bertone, non è stato da meno del suo protetto.
GLI UOMINI di papa Francesco, pur di spedirlo lontano avevano proposto al presidente della Commissione di vigilanza sullo Ior un appartamento lussuoso a San Calisto. L’ex segretario di Stato invece ha preteso una casa nel cuore del Vaticano, nel palazzo San Carlo, di fronte alla celebre pompa di benzina con il rifornimento più economico d’Italia. Anche Bertone non si è accontentato dell’appartamento ordinario abitato in passato dal predecessore di Giani, Camillo Cibin. Da mesi sono in corso i lavori per inglobare l’appartamento vicino e trasformare la residenza in una reggia che si mormora arrivi a 400 metri quadrati.

Repubblica 20.12.13
Vaticano
Il progetto per il coordinamento di giornali e siti web affidato alla McKinsey
E per il ruolo di portavoce del Papa si fa già il nome del direttore di Civiltà cattolica Spadaro
Vaticano, svolta nella comunicazione: nasce una superagenzia
di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO — Una struttura nuova dedicata alla comunicazione. Un corpo unico dove giornali, siti web e agenzie agiranno in modo integrato. E, forse, un nuovo capo della Sala Stampa vaticana. Cioè, il portavoce del Papa.
Jorge Mario Bergoglio prosegue la sua opera di rinnovamento con l’impeto di uno schiacciasassi. E la sua rivoluzione passa adesso per un altro fronte, delicatissimo e vitale per la Chiesa: quello della stampa e della comunicazione. Anche qui, lo tsunami che colpisce il Vaticano è destinato ad abbattere antiche incrostazioni per proporre un sistema diverso di annunciare la parola di Dio.
Ieri la Commissione d’inchiesta sulle finanze vaticane, dopo una procedura di gara, ha affidato alla multinazionale statunitense McKinsey l’incarico di «fornire una consulenza che contribuisca allo sviluppo di un piano integrato per rendere l’organizzazione dei mezzi di comunicazione della Santa Sede maggiormente funzionale, efficace e moderna ». Nella nota ufficiale la Sala stampa parla di un progetto di consulenza che «avrà lo scopo difornire alla Commissione elementi utili per le opportune raccomandazioni in merito al Santo Padre».
Tradotto, significa che molto presto i mezzi di comunicazione del Vaticano si doteranno di unente unico al quale faranno riferimento. L’intento, rispettando la pluralità e diversità delle voci, è quello di evitare scompensi di comunicazione puntando invece a una linea editoriale chiara e univoca. Un altro obiettivo è anchequello di uniformare le questioni amministrative che riguardano in Sala stampa la concessione degli ambìti accrediti permanenti ai giornalisti che chiedono di lavorare in Vaticano, e l’accesso ai voli papali. In una riunione svoltasi ieri a porte chiuse, a cui hanno partecipato tutti i capi di dicastero interessati e rappresentanti di organi di stampa interni importanti come la direzione generale dell’Osservatore Romano, è stato ribadito che non dovranno più accadere errori di impostazione comunicativa come qualche volta avvenuto in passato.
A poter avere la responsabilità del progetto potrebbe essere Francesca Chaouqui, la giovane italiana che fa parte della Commissione referente sulle questione economiche e finanziarie della Santa Sede, ora impegnata sulla spending review vaticana. Per il nuovo capo della Sala stampa e portavoce papale si parla invece di padre Antonio Spadaro, anch’egli giovane e affermato direttore di Civiltà Cattolica, il quindicinale dei gesuiti. Spadaro, che al momento non ha ricevuto nessuna chiamata ufficiale («non ne so nulla», risponde), è però il nome in cima alla lista di Francesco. Non solo è un gesuita come Bergoglio — e come l’attuale portavoce, padre Federico Lombardi, apprezzato per la grande sensibilità, capacità e misura con cui continua a guidare il suo ufficio. Ma è anche il primo giornalista da cui il Papa ha accettato di farsi intervistare. Gode perciò di un’enorme stima da parte di Bergoglio, che ha avuto modo di pesare in lunghe ore fianco a fianco la sobrietà e la professionalità di questo sacerdote messinese esperto di giornalismo e letteratura.

La Stampa 20.12.13
Un uomo di Videla a capo dell’esercito della Kirchner
Argentina, il generale Milani è accusato di tortura
di Paolo Manzo

qui

il Fatto 20.12.13
Il Natale cancella la nascita di Mao
Ii regime impone festeggiamenti in tono minore per il 120° anniversario del “Grande Timoniere”
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Pechino L’Oriente è rosso, il sole sorge e in Cina è nato Mao Zedong”, così per decenni hanno intonato centinaia di milioni di cinesi fedeli al fondatore della loro patria. E ancora oggi è tra i motivi che si sente di più. È finanche una suoneria del cellulare, a pagamento. Il ritratto di Mao campeggia ancora sulla porta di ingresso della città proibita e domina Tian'anmen, una delle piazze più gradi del mondo. Il cosiddetto turismo rosso trasforma le economie dei villaggi simbolo della vita del Grande Timoniere. E il prossimo 26 dicembre sarà il 120° anniversario dalla nascita.
Dovevano essere festeggiamenti indimenticabili. I maoisti più accaniti chiedevano addirittura che diventasse una festività nazionale di modo da sostituire il “ Natale fittizio” degli occidentali con il “vero natale di Mao”. Ma negli ultimi giorni il concerto dell'Esercito in suo onore ha cambiato nome da “più rosso è il sole, più caro è il presidente Mao” a un più anonimo “galà di capodanno”.
Tutti gli eventi organizzati per commemorarlo dovranno ricevere in anticipo l'approvazione degli organi competenti e la serie tv da cento episodi che doveva ripercorre le gesta del “Grande Timoniere” è stata sostituita da una fiction sui grandi generali cinesi.
LA FIGURA STORICA di Mao è controversa. Alcuni lo considerano il tiranno che ha provocato la morte di decine di milioni di persone, altri lo venerano come una divinità e lasciano addirittura offerte ai piedi delle sue statue. I riformisti vorrebbero che il Partito non facesse più riferimento al suo pensiero, mentre i conservatori – che in Cina sono a sinistra – vorrebbero che si tornasse ai suoi insegnamenti: avere meno, ma tutti. Per il presidente Xi è un rompicapo. In questo primo anno al potere ha mostrato di avere fatto sua la retorica maoista. Ha lanciato quella che lui stesso ha definito una “campagna per la rettificazione della linea di massa” ovvero la ricerca della connessione tra i vertici e la base del Partito, la lotta contro i formalismi, la burocrazia, l'edonismo e la stravaganza dei quadri.
Anche il controllo sull'informazione, che nella sua idea dovrebbe essere asservita al Partito, può essere letta in questo senso. Ma di segno opposto sono le politiche che porta avanti. Il Plenum di novembre, pietra miliare delle volontà del suo governo, ha sancito che nel “socialismo con caratteristiche cinesi” sarà il mercato a giocare “un ruolo decisivo” nell'economia.
Le statue di Mao sono emblematiche della confusione. Quelle di cemento erette come funghi durante la Rivoluzione culturale - berretto militare e braccio alzato in segno di saluto - sono quasi tutte scomparse fagocitate dalla modernità. Nel Guangdong, la regione che per prima ha sperimentato le zone economiche speciali, sono completamente sparite. Eppure due giorni fa a Shenzhen, metropoli della Cina meridionale simbolo dell'epoca di apertura e riforme, ne hanno inaugurata una nuova. È un Mao assiso, d'oro e di giada, che vale di quasi 12 milioni di euro. Mao e morto, viva Mao.

Corriere 20.12.13
Le mani della Cia su Allende
L’11 settembre versione cilena
di Marilisa Palumbo


È l’11 settembre del 1973, siamo a Barcellona, in un ristorante non lontano dalle Ramblas. Agustin Edwards, direttore finanziario della PepsiCo spagnola, riceve una telefonata. Tornato a tavola, offre champagne per tutti: il «governo comunista» cileno è caduto. Si entra così, dopo aver letto delle ultime ore di Salvador Allende, nel cuore delle vicende raccontate da Maurizio Chierici ne Il presidente deve morire (edizioni Anordest, pp 222, €12,90): le complicità di governo e poteri forti di Washington nel golpe guidato dal generale Augusto Pinochet.
Quella che per anni era stata solo una teoria, un sospetto, diventa verità storica quando, nel 1999, Bill Clinton decide di declassificare migliaia di documenti della Cia. Carte dalle quali arriva la conferma che il presidente Richard Nixon e il suo consigliere per la sicurezza nazionale e poi segretario di Stato Henry Kissinger avevano cominciato a studiare come disarcionare Allende molto prima che il governo socialista mostrasse i limiti delle sue politiche, persino prima dell’insediamento. Spinti dalla paura di un’altra Cuba nel «cortile di casa», certo, ma anche dagli interessi economici di amici il cui sostegno il presidente americano non poteva dimenticare.
Soldi ai media che dovevano avvelenare l’opinione pubblica (Edwards era proprietario del «Mercurio», quotidiano più antico del Paese, e di una rete di canali radio e tv), pressione sulle istituzioni finanziarie internazionali per limitare i finanziamenti al Cile, dieci milioni di dollari distribuiti negli anni attraverso la Cia per aiutare i militari. Chierici — per trent’anni inviato del «Corriere», oggi al «Fatto quotidiano» — ricostruisce tentativi e complotti passo dopo passo, ma il fascino del libro non sta solo in quello che scopriamo sul presidente del Watergate e sull’uomo della Realpolitik premiato col Nobel per la pace, ma nel modo in cui l’autore anima i protagonisti, ci regala dettagli delle loro vite, ci porta dentro le scene chiave (del resto, di un «romanzo nella storia» si tratta, come recita la copertina).
C’è il Pinochet che si nasconde dietro gli occhiali neri perché «se non riescono a fissarmi negli occhi non indovinano cosa sto pensando». Il Pinochet che, messo a capo dell’esercito solo un paio di settimane prima, va da Allende e gli assicura fedeltà quando mancano poche ore al colpo di Stato. Il generale non ha ancora deciso cosa fare, e neanche la Cia si fida: non sappiamo chi è, recita una nota del dipartimento di Stato (gli americani non l’avevano mai avvicinato nei giorni di preparazione al golpe). C’è la tragedia familiare degli Allende, tra fughe e suicidi; la solitudine di Pablo Neruda, che muore pochi giorni dopo il presidente; la Chiesa resistente e quella complice.
Soprattutto, c’è la memoria delle vittime, le migliaia che morirono «l’altro 11 settembre», e quelle, molte di più, che scomparvero nei lunghissimi anni della dittatura. E c’è il racconto della rimozione (i libri di testo di regime) e del risveglio (il giudice Guzmán, ma soprattutto i parenti delle vittime e dei desaparecidos a Pisagua, «un Auschwitz senza forni: solo tortura e colpo alla testa»). Il libro arriva fino alla vigilia delle presidenziali di oggi, con Michelle Bachelet che si appresta a rientrare alla Moneda dopo il ballottaggio con Evelyn Matthei. Michelle ed Evelyn, figlie di generali e cresciute come sorelle fino al golpe, quando Alberto Bachelet, schieratosi con Allende, viene arrestato, torturato e ucciso, mentre Fernando Matthei entra nella prima giunta militare di Pinochet.
Uno scontro che parla di quanto è vicino il passato, ma anche di come il Cile sta imparando a farci i conti. E tra i deputati eletti con la Bachelet, domenica scorsa, c’è Maya Fernandez Allende, nipote di Salvador.

Corriere 20.12.13
Sartre e Camus spiati dall’Fbi

A partire dalla fine del 1945, l’Fbi, per volere del suo direttore John Edgar Hoover, mise sotto sorveglianza due intellettuali francesi di fama, ritenuti in grado di influenzare l’opinione pubblica «a favore del comunismo»: il filosofo Jean-Paul Sartre e lo scrittore Albert Camus. Lo sostiene il periodico britannico «Prospect magazine», in un articolo basato sulla lettura di documenti desecretati dell’Fbi. Il direttore del servizio investigativo americano Hoover era particolarmente preoccupato dalla diffusione delle idee di Sartre e Camus, e in particolare dell’influenza esercitata dal primo, membro tra l’altro del Fair Play for Cuba Committee, un’associazione a sostegno dell’isola di Fidel Castro.

Corriere 20.12.13
Nella palude del lavoro liquido. Dal post-fordismo alla dispersione: una parabola discendente
di Giuseppe De Rita


Da antico sodale nella ricerca sulla composizione sociale del Paese, ho ritrovato nel recente volume di Aldo Bonomi su Il capitalismo infinito tanti richiami alla mia storia intellettuale e professionale, con le tante scoperte e le tante delusioni che ci ha dato la straordinaria decennale dinamica della nostra struttura sociale.
All’inizio, negli anni 60 tutto sembrava chiaro e solidamente proiettato in avanti: stava contraendosi fortemente la componente agricola, che ancora al censimento del ‘51 contava sul 54% della popolazione; aumentava e si compattava come «classe operaia» la componente «fordista» dei lavoratori dipendenti dell’industria; cresceva con passo inarrestabile la componente impiegatizia, specialmente concentrata nel lavoro pubblico e nelle attività bancarie e assicurative. Sembrava un mondo destinato a durare per decenni, anche perché esso trovava la sua corrispondenza nella articolazione delle forze politiche, attraverso il tipico fenomeno del collateralismo categoriale (del mondo agricolo, della classe operaia, del ceto medio impiegatizio).
E invece con l’inizio degli anni 70 cambia tutto, e radicalmente, pur se non tutti allora se ne accorsero, impegnati com’erano su altre impressive ma sovrastrutturali tematiche. Succede che in quegli anni esplode l’economia sommersa (3-4 milioni di «spezzoni di lavoro» non riconducibili ad alcuna rappresentazione statistica come di rappresentanza); con l’economia sommersa matura ed esplode la piccola e piccolissima impresa (solo per il settore industriale ci fu il raddoppio del numero delle imprese create nei cento anni precedenti); esplode nel settore terziario non la grande organizzazione dei servizi, ma il lavoro autonomo e individuale (per esempio nei trasporti scomparve il grande Istituto Nazionale Trasporti e dilagò il popolo dei proprietari di camioncini e di camion); il pubblico impiego si dilata in maniera importante, ma perde compattezza e identità a vantaggio della moltiplicazione di nuove figure professionali e più ancora della corrosione operata da milioni di «secondi lavoristi»; si affermava un enorme processo di cetomedizzazione segnato più da una antropologica propensione alla soggettività dell’agiatezza che da una seria potenziale maturazione di classe borghese.
Noi ricercatori ci ritrovammo a lavorare in una realtà senza più confini e schemi certi; e dovemmo prendere atto che tutto era cambiato, e che vivevamo in una realtà di «post-fordismo», coscienti da un lato che la dimensione organizzativa non funzionava più come facitrice di composizione sociale; e dall’altro che tutto il nuovo (economia sommersa, piccola impresa, lavoro autonomo, ecc.) aveva un motore immobile e profondissimo: il valore della soggettività e della libertà di essere se stessi, contro ogni vincolo sovraordinato, e non è un caso che gli anni 70 furono anche gli anni, sul piano sociale e valoriale, dell’accettazione referendaria del divorzio e dell’aborto).
Cavalcammo allora, specialmente Bonomi e io, la tematica del post-fordismo, impegnati però ad uscire dall’indistinto tipico di ogni «post». E i lettori di quegli anni ritrovarono testi, anche nostri, su definizioni meno indistinte: si parlò di capitalismo molecolare, di capitalismo personale, di «piccolo è bello», di primato del fai da te, della centralità della creatività individuale. Cercando di incardinare questo panorama di scelte in alcuni processi più solidi e concreti (del territorio, con il localismo, ai mercati internazionali con il made in Italy). È stata, parlo almeno per me, una cavalcata fenomenologica di grande interesse, e anche di soddisfazione, visto che vedevamo cose che gli altri non capivano. Ma sapevamo che non potevamo restare a goderci lo studio del post-fordismo, della molecolarizzazione, del primato della soggettività. Sapevamo, anche perché lo constatavamo ogni giorno nelle nostre ricerche, che i meccanismi della articolazione molecolare del sistema continuavano a operare, sottotraccia, ma con estrema potenza. E così oggi ci ritroviamo in un mondo di totale varietà, dove l’economia dei servizi e la società della conoscenza producono non solo piccoli imprenditori, lavoratori sommersi e lavoratori in proprio ma una miriade di altre posizioni di lavoro, come (cito Bonomi) «classe creativa, capitalisti personali, lavoratori della conoscenza, professionisti metropolitani e globalizzati, imprenditori, cognitivi, giovani e adulti esodati, precari, quarto stato» e si potrebbe continuare nell’elencazione, in una quasi orgia di identità e figure professionali «liquide».
Mi viene, rileggendo, un po’ di vertigine. E ho la sensazione che una tale frastagliata fenomenologia non permetta più di esercitare quel riconoscimento collettivo che è necessario in ogni società (in termini di ricerca, di rappresentazione mediatica, di rappresentanza sociale e politica). Gli schemi, anche i nostri, non servono più, non bastano più; la realtà e la dinamica quotidiana sono soverchiati, dovremo solo aspettare che si sedimentino. Ci resta solo la soddisfazione, sempre gratificante per chi fa fenomenologia, che la realtà è più forte di ogni sforzo di programmazione e organizzazione, anche intellettuale .

Corriere 20.12.13
Rinoceronti e ippopotami in Molise
Così mangiava l’uomo del Paleolitico. Fossili esposti al museo di Isernia, che dà lavoro a 25 giovani ricercatori
L’età dei resti degli ominidi di Isernia è di 650mila anni
di Paolo Conti


ROMA — I resti sono tanti, circa cinquemila, spettacolari e spettrali: zanne di elefante, canini di ippopotami, le corna ramificate dei megaceri e quelle dei bisonti. Ma sono stati censiti anche bisonti. Un mare bianco che ricorda «Balkan Baroque» (l’installazione-performance con cui Marina Abramovic vinse nel 1997 il Leone d’oro alla Biennale d’arte di Venezia: un mucchio di ossa che l’artista ripuliva).
E in mezzo a zanne e canini, molte pietre lavorate: punte di frecce, rasoi rudimentali. Nel cuore dell’Isernia di oggi, 650 mila anni fa i cugini molisani dell’Homo Heidelbergensis mangiavano carne cruda di enormi animali feriti o già sbranati da altre bestie. Soprattutto raggiungevano le ossa, le spezzavano e si nutrivano del midollo. Finito il pasto, gettavano i colossali resti in una parte del fiume Volturno che oggi non esiste più: in quel letto prosciugato da decine di migliaia di anni, è stato ritrovato un materiale veramente unico intorno al quale il Museo nazionale del Paleolitico di Isernia ha aperto nell’aprile 2012 un primo padiglione espositivo. E ora ha inaugurato un secondo, innovativo spazio didattico di 800 metri quadrati.
Un linguaggio semplice ma scientificamente accurato, adatto sia agli adulti che ai bambini, con indicazioni in inglese e italiano. Molte fedeli ricostruzioni della vita degli ominidi di 650 mila anni fa, a partire dalle capanne. E un percorso sospeso a pochi centimetri dalla superficie degli scavi, circa 300 metri quadrati. Altri 700 sono attualmente in corso di scavo.
Già tutto questo rappresenterebbe un bel traguardo, per Isernia e per il suo territorio. Infatti dall’aprile 2012 a oggi i visitatori sono stati 11 mila per una città che conta 22 mila abitanti. Ma c’è un altro dato di notevole importanza. Come spiega Gino Famiglietti, direttore regionale dei Beni culturali del Molise, grazie ai parenti isernini dell’Homo Heidelbergensis sono stati creati venticinque posti di lavoro: cinque giovani archeologi molisani lavorano al Museo nazionale del Paleolitico mentre altri venti universitari sono impiegati negli altri siti museali del Molise: le aree archeologiche di Pietrabbondante, Sepino e Larino, il Castello Pandone di Venafro, il Museo archeologico di Isernia.
Spiega Famiglietti: «I giovani, tutti laureati in paleontologia, sono eccellenti assistenti didattici alle visite e aiutano ad avvicinarsi a un percorso che volutamente è spettacolare. Perché la conoscenza è anche allegria, piacere intellettuale. E sempre a questi ragazzi abbiamo affidato i servizi aggiuntivi: per esempio sono loro a ideare e a realizzare gli oggetti ricordo in vendita nel negozio del museo. Ho sempre pensato che le società esterne generalmente arrivano, prendono molto alla realtà locale e danno in cambio pochissimo. Noi abbiamo il dovere di offrire un’opportunità ai giovani che si laureano, altrimenti fatalmente se ne andranno via. Qui sperimentiamo la possibilità, per i ragazzi, di far coincidere la ricerca con la nascita di una piccola impresa culturale».
Famiglietti si sofferma soprattutto sul rapporto dell’offerta didattica con i bambini: «In questo museo scoprono il valore e il piacere della manualità, che sta gradualmente scomparendo. Noi spieghiamo per esempio come quegli uomini costruivano i loro utensili». Si ricorre a metodi divulgativi ma anche capaci di attirare l’attenzione: un touchscreen riproduce la superficie e se un qualsiasi osso viene toccato, si ascolta il verso dell’animale al quale quel pezzo appartiene. Nello stesso tempo si colorano gli altri pezzi che lo componevano. Una specie di puzzle sonoro, insomma.
Ora si aspetta un aumento del flusso turistico e, magari, altre assunzioni di laureati. L’Homo Heidelbergensis nella sua versione isernina, che frena la fuga dei cervelli molisani. Chi l’avrebbe mai detto.

l’Unità 20.12.13
Gaia tra le stelle per mappare la Via Lattea
Il satellite europeo censirà 1,5 miliardi di corpi celesti. La missione costata 740 milioni di euro
di Pietro Greco


E uscì a veder le stelle. Portata in alto da un razzo Soyuz, Gaia è regolarmente partita ieri dalla base Sinnamary alle 6:12 ora della Guyana francese (9:12 per noi) e poco dopo ha lasciato l’atmosfera terrestre. Se tutto andrà bene, tra un mese sarà in un punto che gli astronomi chiamano Lagrangiano L2, a circa 1,5 milioni dalla Terra, che noi potremmo definire il punto migliore per osservare, senza il minimo disturbo, la Via Lattea. Al costo di 740 milioni di euro, la nuova missione dell’Agenzia spaziale europea (Esa) getterà il suo sguardo profondo nella nostra galassia e realizzerà, almeno così promette, la mappa stellare più completa, dettagliata e precisa che l’uomo abbia avuto. Aveva iniziato Ipparco, il grande scienziato ellenista, a mappare il cielo con straordinaria precisione. A occhio nudo aveva catalogato e collocato al loro giusto posto nel cielo oltre 1.000 stelle. Solo il danese Tycho Brahe, quasi due millenni dopo, era riuscito a fare di meglio con la sola acutezza degli occhi.
Galileo Galilei con il suo cannocchiale ha inaugurato la stagione dell’astronomia strumentale, rendendo disponibili all’osservazione decine di migliaia di stelle. Ma c’è voluto un telescopio montato su una sonda perché una missione di astronomia spaziale, non a caso dedicata a Ipparco, facesse un salto di qualità e allestisse un catalogo con 100.000 stelle. Gaia intende andare ben oltre. La sua ambizione è quella di catalogare qualcosa come un miliardo e cinquecento milioni di stelle.
VENT’ANNI DI LAVORO
Per realizzare questa impresa dovrà affinare il suo occhio, che è composto da due telescopi e uno spettrografo integrati e capaci di catturare anche la minima quantità di luce visibile, fino a un milione di volte inferiore alla quantità minima di luce visibile all’occhio di Ipparco, di Brahe e di ogni altro uomo. Per essere sicura di aver posizionato ciascuna stella nella sua posizione, nel corso di cinque anni Gaia ripeterà più e più volte le sue misure. In modo da raggiungere una capacità di discriminare i dettagli e di commettere un errore così piccolo da essere equivalente, assicurano i tecnici all’Esa, al diametro di un euro posto sulla superficie della Luna e visto dalla Terra.
Non è cosa facile raggiungere queste performance. Per realizzare Gaia, scienziati e tecnici hanno lavorato vent’anni. Le stelle che catalogherà rappresentano l’1% della popolazione stellare dell’intera galassia: non è davvero poco. Ed è sufficiente, sostengono all’Agenzia Spaziale Europea, per consentire agli astrofisici di viaggiare nello spaziotempo della nostra galassia. Capire come e quando si è formata la Via Lattea, come e quando si sono formate le sue stelle, capire persino come al gioco della gravità galattica partecipi anche la materia oscura, quella che né noi né Gaia possiamo vedere. Ma di cui possiamo avere indicazioni indirette, che Gaia saprà individuare e collocare precisamente nello spazio.
Non basta. Gaia studierà le stelle che osserverà in dettaglio, determinando ciò che Ipparco non poteva determinare a occhio nudo: ovvero la temperatura, la gravità superficiale, la metallicità. Non basta. Si calcola che Gaia individuerà e catalogherà anche 500.000 quasar, oggetti stellari di cui gli astrofici non conoscono ancora molto. E poi individuerà pianeti extrasolari. Così avremo dati più precisi per capire quali hanno un sistema planetario simile a quello del Sole e quanti orbitano intorno alla «fascia abitabile» delle stelle.
Nel corso di questo intenso lavoro, Gaia otterrà una quantità così grande di dati che il problema sarà come avere il tempo e il modo di analizzarli. Ci sarà lavoro, per gli astrofisici. Intanto si preparano gli informatici, che tra un mese dovranno iniziare a raccogliere e a processare le informazioni. Ci saranno diversi centri, uno dei quali in Italia, a Torino, deputati a questo compito. Tutto è coordinato da un consorzio, il Data Processing and Analysis Consortium (Dpac), cui già lavorano 400 scienziati da 22 paesi europei. Primi fra tutti, Francia e Italia. Il nostro paese, con l’Agenzia Spaziale Italiana (Asi) e l’Istituto Nazionale di astrofisica (Inaf) è tra i leader della missione Gaia. Ora non resta che attendere che Gaia raggiunga la sua postazione e, Tempo un mese, potremo uscire a veder le stelle.

l’Unità 20.12.13
Renoir, i corpi sono paesaggi
Superbo ritrattista il pittore prediligeva la figura umana
di Renato Barilli


RENOIR. Dalle collezioni del Musée d’Orsay e dell’Orangerie
A cura di G. Cogeval, S. Patry, R. Passoni Torino Galleria d’Arte Moderna
Fino al 23 febbraio Catalogo Skira

TORINO IN GENERE MI SONO DATO LA REGOLA DI NON PARLARE DI MOSTRE, IN SEDI NOSTRANE, RICAVATE TRASPORTANDO DA MUSEI STRANIERI I CAPOLAVORI FIN TROPPO NOTI CHE VI RISIEDONO, magari approfittando delle loro chiusure temporanee. Faccio un’eccezione per una mostra di Pierre-Auguste Renoir (1841-1920) alla Galleria d’Arte Moderna di Torino, nella speranza che la sua comparsa in forze possa contrapporsi all’eccessiva visibilità che si dà al suo pur grande collega, Claude Monet, di cui l’abile Marco Goldin si è fatto scudo per una invasione commerciale di tante piazze italiche, fino a far credere che l’Impressionismo si concentri e riassuma in una sorta di monettismo obbligatorio. Renoir gli fu fianco a fianco negli anni di nascita del movimento, fine ’60, primi ’70, con relative «scandalose» esposizioni. Ai due si può applicare addirittura una formula rovesciata: in Monet il paesaggio va espandendosi sempre più, fino a ingoiare ogni traccia di presenza umana, inducendolo soprattutto a evitare un confronto diretto con la nostra immagine quale è imposta dal ritratto, di cui quasi non ci sono tracce nella sua opera. Si ha invece un percorso inverso nel caso di Renoir, nel senso che la figura umana, soprattutto femminile, con la sua sensualità, col nero morbido e vellutato delle pupille, o magari con le trasparenze che dominavano le velette delle signore bene, va a stamparsi sul paesaggio, rendendone a loro volta sensuali e femminei i vari aspetti. Non per niente il nero, bandito dalla tavolozza monettiana, imperversa invece in quella del suo amico e rivale nello stesso tempo, basta mettere a confronto le rispettive vedute ricavate dai bordi del fiume fatale per le sorti dell’Impressionismo, la Senna, e si constaterà appunto che nelle versioni del primo il sole e l’aria bruciano, consumano, mentre in quelle dell’altro ci sono ombre morbide, suadenti, che resistono, insinuando pieghe voluttuose, recessi misteriosi. Ma soprattutto, si impone il fatto che Renoir, lungo la sua intera carriera, fu un superbo ritrattista, non si contano i capolavori che seppe ricavare lungo questa strada, dati dalle varie Madame Darras, Madame Fournaise, Madame Bernheim, quest’ultima appaiata anche al marito, in un trattamento aperto a entrambi i sessi che però manifestava un evidente favore verso quello cosiddetto «debole», di cui l’artista si faceva un’arma preziosa per andare a ottenere una immersione panica nel cosmo, pronta a ridondare in ogni altro elemento, a conseguire una congiunzione stretta di ogni aspetto. E se Monet procedé lungo tutta la sua carriera verso una dissoluzione via via più spinta dei dati, delle sensazioni, Renoir al contrario si impose un freno su questa strada, rafforzando i contorni, ancora una volta delle sue presenze muliebri, anzi, adottò, soprattutto per le teste, una specie di calotta, per racchiuderne e comprimerne i tratti fisionomici, come per raccoglierli in cuscinetti gonfi, quasi al limite, come frutti maturi vicini a squarciarsi e a mostrare allo scoperto la loro ghiotta interiorità.
Risulta pure molto interessante prendere in considerazione il «gran finale» verso cui entrambi si rivolsero, dotati come furono di una notevole longevità. Monet, lo si sa bene, ebbe il suo appuntamento estremo con le ninfee, da cui era assolutamente esclusa la presenza di qualche simulacro umano, si trattava di un puro spettacolo di acque, pronte a catturare i riflessi delle nubi in alto o le insorgenze delle ninfee dal basso, il tutto fuso in un unico impasto. Ebbene, anche Renoir ebbe una sua full immersion, ma non fu certo in una visione paesaggistica, bensì nella carne umana, con preferenza rivolta come sempre alla carne femminile. Egli andò a immergere la sua percezione nei nudi di bagnanti, caldi, procedenti anch’essi, in definitiva, a pulsazioni continue, simili a movimenti ondulatori, ma dati dalle masse morbide, infinitamente sensuali, di seni e natiche, con le sfere ben arrotondate dei volti a dare un supremo tocco finale a questa sinfonia di ritmi curvilinei. Egli fu sempre amico e sodale di Cézanne, frequentandone la compagna e il figlio dopo la sua scomparsa, eppure non si trova maggiore distanza tra i due modi di risolvere proprio questo tema delle Bagnanti. Nell’artista provenzale, sono dure esercitazioni plastiche, situate ormai a un passo dal Cubismo, nel Nostro, invece, sono abbandoni senza limiti ai piaceri di una carne abbondante, straripante.

Corriere 20.12.13
Se l’artista è tentato dall’albero della follia
La «stranezza» come fenomeno di massa della modernità. Ma l’ispirazione è un’altra cosa
di Gillo Dorfles


Il vocabolo greco skizo è certamente il più idoneo a indicare quella separazione, scissione, dissociazione della personalità che costituisce la caratteristica più tipica della schizofrenia: quella che è certamente la più grave e più complessa forma morbosa mentale. Infatti, la differenza tra tante altre alterazioni mentali e la schizofrenia è per l’appunto il fenomeno dissociativo di questa forma morbosa. E, infatti è proprio il fatto dissociativo che più di ogni altro costituisce la vera essenza della dementia praecox come fu definita ai tempi di Bleuler e Binswanger. Una forma psichiatrica che si differenzia nettamente da quelle della paranoia, della melanconia o della mania, nonché da quelle dove la coazione è dominante.
L’elemento delle molteplici patologie mentali — anche nelle forme più lievi fino a quelle addirittura demenziali — è quasi sempre presente, anche se spesso non riconosciuto come forma morbosa. La dissociazione, infatti, tra mente e sentimento, tra azione e reazione, tra istinto e ragione, è molto spesso presente in parecchi casi patologici, anche quando rimangono non identificati o considerati soltanto come «un po’ strani». E questo può spiegare come accada spesso che la dissociazione affettiva e cognitiva siano invece indice di uno stato morboso che spesso non viene identificato nelle prime fasi della malattia.
Ma, a prescindere dalla vera e propria forma morbosa e dalle diversità del suo trattamento, quello che mi sembra più interessante, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti societari è che, al di là di una vera e propria forma morbosa, è il quoziente dissociativo a presentarsi anche in molte situazioni normali della nostra società. Sicché ritengo che effettivamente uno degli aspetti più significativi della nostra epoca — anche in ambiti lontani da ogni morbosità e anomalia psicologica — possa essere considerata una parziale, se non una totale forma dissociativa; che può essere ovviamente distinta dal settore psicologico, soprattutto quando colpisce esclusivamente quello societario e politico.
La nostra, dunque, può essere considerata un’età dissociata, non soltanto nei casi patologici, ma in un certo senso come testimonianza della «psicosi» di cui spesso la nostra società è affetta. Un interessante saggio — un vero e proprio manuale scientifico — sui problemi del rapporto tra schizofrenia e modernità nelle diverse arti, è il recente trattato di Louis A. Sass, Follia e modernità (Raffaello Cortina), che costituisce una messa a punto dei rapporti effettivi o apparenti tra schizofrenia e alcune forme creative come la letteratura e la pittura quando si realizzano da parte di letterati come Musil, Sartre, Breton o di artisti come De Chirico, Modigliani, Klee, sia per la particolare personalità degli stessi che per i personaggi da loro concepiti.
Tali opere naturalmente vanno considerate con molta attenzione e cautela; l’importanza del parallelismo compiuto da Sass — pur riconoscendo il valore del noto psicologo della Rutgers University del New Jersey — è un ampio tentativo di tracciare una analogia tra la vera e propria follia e le varie forme impersonate o citate dagli artisti considerati. Sarà opportuno pertanto prendere con molta cautela l’effettivo valore di questa associazione, giacché molto spesso gli artisti citati vanno riconosciuti come perfettamente normali dal punto di vista psichico e soltanto fantasiose le opere letterarie da loro prospettate.
È fin troppo semplicistico individuare nelle diverse opere pittoriche e letterarie la presenza di una «vena di pazzia» senza che questo abbia nulla a che fare con un’autentica schizofrenia; ma è assai facile individuare in ogni creazione artistica quella anomalia dalla norma, che può essere classificata come patologica da chi non possiede le dovute conoscenze scientifiche. Per cui citare Klee o Modigliani come affetti da anomalie psichiche non è che un «vezzo», il quale non va assolutamente considerato come una diagnosi scientifica.
Lasciando da parte il tema del volume — che del resto è senz’altro un’ottima guida da parte di uno dei più acuti specialisti di psicologia patologica — è meglio non soffermarsi sulla presunta psicosi di queste personalità senza rendersi conto di come la loro mentalità non basti a giustificare quella che rimane soltanto una «stranezza» e non ha nulla o poco a che fare con una vera anomalia psichica. Già a partire da Binswanger, l’alterazione spazio temporale, la Schrumpfung (il «raggrinzimento») della componente spazio-temporale era stata esaminata in alcuni casi di schizofrenia, ma senza precisare fino a che punto tale alterazione — ideativa ma anche percettiva — si potesse mettere in rapporto con l’esistenza di una componente conoscitiva. Ossia, fino a che punto le difficoltà interpretative della vita di tutti i giorni da parte del malato mentale potessero essere ricondotte alle alterazioni della componente spaziale e temporale di cui sopra.
Questo, forse, è uno dei punti salienti che risulta anche dall’analisi compiuta dall’autore per giustificare il problema di talune esperienze psicotiche come inerenti alla condizione normale dell’uomo e per svelare alcuni rapporti tra linguaggio letterario e artistico e linguaggio schizofrenico.
Ecco perché, per vincere il «raggrinzimento» spazio temporale del pensiero che conduce alla presentificazione di ogni ideazione e a un irrigidimento spaziale, è spesso necessario da parte del paziente servirsi di un linguaggio simbolico. In questo senso, si può forse ammettere che il linguaggio schizofrenico abbia quel rapporto con i linguaggi artistici di cui parla l’autore.
Non intendo soffermarmi più a lungo nei meandri delle diverse forme schizofreniche e del loro rapporto con le forme artistiche della contemporaneità, perché purtroppo l’elemento dissociativo è presente non solo in alcuni malati mentali, ma in molta parte dell’umanità, tuttavia non considerata come affetta da disturbi del rapporto affettivo cognitivo come in molti esempi di schizofrenia. Il fatto che una fascia dell’umanità — considerata di solito normale — abbia avuto la possibilità di sviluppare degli elementi creativi di tipo nettamente dissociativo (romanzi, pitture, teatri), ma accettati come tali dalla popolazione «normale», dimostra una differenziazione notevole dalla realtà quotidiana, così da poter essere assimilata con alcuni dei deliri schizofrenici.
Quello che invece mi sembra più importante è distinguere tra il livello di anomalia psichica e la carica creativa di un artista, in maniera da non creare quegli spiacevoli compromessi che portano a dare un giudizio estetico a un’effettiva anomalia, mentre quelle che sono le sollecitazioni fantastiche di una mente creativa presentano quasi sempre un elemento simbolico e metaforico che ha la meglio sulla nuda realtà esistentiva.

Il saggio di Louis A. Sass, «Follia e modernità. La pazzia alla luce dell’arte, della letteratura e del pensiero moderni», editore Raffaello Cortina, pagine 516, e 32

Repubblica 20.12.13
Jacques Lacan e l’inconscio visto da vicino
di Massimo Recalcati


La parte più rilevante dell’insegnamento di Jacques Lacan è orale. Essa si condensa nei suoi famosi Seminari che a partire dai primi anni Cinquanta egli tiene continuativamente sino alla sua morte avvenuta nel settembre del 1981. E tuttavia la celebrità pubblica di Lacan coinciderà con la pubblicazione dei suoiScritti nel 1966. Questa raccolta volutamente al limite della leggibilità uscì in piena epoca strutturalista e il suo successo consacrò lo psicoanalista francese come uno dei più grandi pensatori del Novecento. Emergeva lì il senso più autentico del suo “ritorno a Freud”: l’inconscio non è il sottosuolo, l’irrazionale romantico, l’animale imbizzarrito, il selvaggio caotico, l’istintuale. Lacan ci mostra come l’inconscio di Freud sia strutturato come un linguaggio, appaia cioè come una vera e propria ragione sebbene diversa da quella che regola i nostri comportamenti diurni. Si tratta della ragione che anima la trama complessa dei nostri sogni e il tessuto scabroso dei nostri sintomi, della ragione che sostiene l’istanza del desiderio inconscio. Di qui il nuovo orientamento che egli imprime alla pratica analitica: contro le derive post-freudiane che tendevano a concepire il lavoro dell’analisi come una rieducazione emotiva e disciplinare del paziente, Lacan mostra che la “disalienazione” prodotta dall’esperienza dell’analisi non consiste nel raddrizzamento ortopedico dell’Io, ma nel fare emergere la verità del desiderio inconscio come ciò che spiazza l’Io costringendolo a ridimensionare il proprio narcisismo.
La pubblicazione per Einaudi degliAltri scritti di Lacan, apparsi originariamente in lingua francese nel 2001 a cura di Jacques-Alain Miller, è di straordinario interesse perché ci consente di dettagliare ancora meglio la visione lacaniana della psicoanalisi che senza negare il potere rivelatore della parola affronta con più decisione tutti i suoi limiti. Questa raccolta riunisce testi che vanno dalla fine degli anni Trenta sino alla fine degli anni Settanta. In cinquant’anni si srotola una vita dedicata allo studio e alla pratica clinica della psicoanalisi. Il lettore potrà così trovare testi capitali per la ricostruzione genealogica del suo pensiero — come il celebreI complessi familiari del 1938 che anticipa un grande tema della contemporaneità come quello del tramonto dell’Imago paterna — o altri che lo sintetizzano con grande energia come Televisione oRadiofonia.
Ma non manca in questa raccolta il Lacan maestro che possiamo ritrovare nei brillanti e inediti resoconti del suo insegnamento. Il clinico curioso che offre un intenso e rispettoso ritratto di Wilfred Bion e della sua esperienza pionieristica nell’applicazione della psicoanalisi ai gruppi di soldati che nel corso della Seconda guerra abbandonavano traumatizzati il fronte. L’intellettuale appassionato che omaggia Merleau-Ponty o che resta affascinato dagli ideogrammi della lingua giapponese e dalla scrittura neologistica di James Joyce. Il capo scuola impegnato nella trasmissione della psicoanalisi e nel dare vita ad una comunità di psicoanalisti capace di non tradire il sapere di cui essa si vorrebbe destinataria. Qui Lacan sbatte la testa contro il muro della contraddizione che separa la formazione dell’analista da ogni sua possibile regolamentazione. Per questo si congeda identificandosi con Tommaso D’Aquino nel momento finale della sua vita, mostrando come il destino dello psicoanalista sia quello dello scarto, null’altro che “Sicut palea”, povero letame di cui si è nutrito l’humusumano.

IL LIBRO Altri scritti di Jacques Lacan Einaudi pagg. 624, euro 34