domenica 22 dicembre 2013

l’Unità 22.12.13
La lettera
Caro Farinetti ti sbagli: l’Unità non è un bollettino
di Matteo Fago


CARO FARINETTI, SONO RIMASTO MOLTO SORPRESO IERI LEGGENDO SUL FATTO QUOTIDIANO DEI SUOI PROGETTI PER IL QUOTIDIANO L’UNITÀ. Sorpreso perché non sapevo che Lei immaginasse di far diventare questo giornale un settimanale o un mensile da distribuire agli iscritti. Il motivo sarebbe che vendiamo meno della Gazzetta di Alba e che «ci vuole un organo di partito».
Se è una proposta seria e non una battuta le rispondo subito: «Non ci interessa». Uso il plurale perché sono certo che con me sono tutti quelli che vogliono bene a questo giornale.
Come Lei certamente sa l’Unità è stata fondata da Antonio Gramsci nel 1924 come giornale della sinistra, giornale che avrebbe dovuto «unire» i contadini del meridione con gli operai del settentrione. Nelle intenzioni del fondatore nessuna indicazioni di partito dunque, ma solo quella di una unità fondata su un’uguaglianza. E anche se per lungo tempo è stato il quotidiano del Pci, nei fatti è sempre stato il giornale dell’intera sinistra italiana. Per moltissimi avere l’Unità in tasca era segno di identità e di appartenenza ad un ideale, più o meno definito, che aspirava ad una società migliore. Ad un mondo migliore.
Su queste pagine hanno scritto le migliori menti di questo Paese e a queste pagine hanno sempre fatto riferimento tutti coloro che questo Paese lo volevano cambiare davvero.
Reichlin scriveva giovedì scorso che è necessario un nuovo umanesimo per creare una sinistra nuova. Una sinistra, dice Reichlin, che non pensi solo alla redistribuzione della ricchezza, come è stato nel Novecento, ma anche ad altro. Io direi che «non pensi solo ai bisogni ma anche alle esigenze degli esseri umani».
Noi, la ricerca di quella sinistra nuova la vogliamo fare proprio su questo giornale. E finché io ne sarò l’editore, il giornale sarà indipendente e sarà un quotidiano.

l’Unità 22.12.13
Camusso: «Stabilità senza visione e senza strategie»
La delusione del leader Cgil per le scelte del governo Letta
Ancora una volta si è scelto di «non partire dal lavoro», mentre trionfano gli interessi particolari
No alle privatizzazioni
La discussione sull’art 18 è vecchia e inutile: abbiamo bisogno di lavoro non
di favorire i licenziamenti
di Marco Tedeschi


MILANO Susanna Camusso boccia la legge di Stabilità. Il segretario della Cgil mostra tutta la sua delusione per un’occasione persa, per il fatto che il governo guidato da Enrico Letta non abbia colto l’occasione di cambiare nettamente strada, di dare una segnale di maggiore equità, di giustizia sociale.
«La legge di Stabilità è senza visione e senza strategia, è una sommatoria di piccoli interessi, che non produce il cambiamento necessario» è il giudizio della leader della Cgil, che assieme ai vertici di Cisl e Uil, nelle ultime settimane ha fatto pressione sull’esecutivo per un intervento di politica economica che segnasse una svolta profonda per un Paese che viene da una lunga e dolorosa crisi che produce ancora disoccupati e cassintegrati. Invece, niente. «Gli interessi particolari, finanziari, hanno interagito e trionfato» nel confronto parlamentare sulla legge di Stabilità, a scapito delle vere, urgenti esigenze del lavoro, delle imprese, dei giovani.
PERSO TEMPO SULL’IMU
Soprattutto la Cgil mostra tutta la sua delusione perchè «ancora una volta non si è voluto partire dal lavoro, sono stata fatte scelte sbagliate, abbiamo perso mesi e mesi in inutili discussioni sull’Imu e su come definire la nuova tassa comunale per gli immobili e i servizi: il governo ha trascurato il lavoro, il principale fattore che può far ripartire l’economia e il Paese». La Confederazione guidata da Susanna Camusso avrebbe preferito che il governo concentrasse le risorse disponibili «sul lavoro e i redditi di famiglie e pensionati, si sarebbe prodotto un risultato, anche sui consumi, certo migliore in queste condizioni di crisi continua».
Il giudizio del segretario Camusso è negativo anche per quanto riguarda l’impostazione generale della politica economica del governo Letta. «La strada delle privatizzazioni è molto preoccupante» spiega, «le vendite di Stato non hanno conseguito in passato risultati positivi e basta guardare cosa sta succedendo in questi giorni a Telecom Italia».
TELECOM INSEGNA
In più, secondo la Cgil, «c’è poca chiarezza sulla direzione che il governo intende seguire con le nuove privatizzazioni». Possiamo mettere a rischio imprese importanti, strategiche per il Paese consegnandole a investitori o concorrenti stranieri che certo non hanno interesse a rafforzare lo sviluppo italiano. Difficile pensare, insomma, che gli investimenti sulla rete d’accesso o lo sviluppo dell’Agenda digitale in Italia possano essere le priorità per un concorrente come Telefonica. C’è bisogno, invece, «un chiaro intervento pubblico, di pianificazione e di indirizzo, di una regia pubblica sulle grandi scelte industriali del Paese».
La mobilitazione di risorse, una chiara politica industriale, il sostegno ai redditi più bassi, una nuova polituca del lavoro sono i fattori che possono portare l’Italia fuori dalla crisi, una crisi che allarga la diffirenza tra Nord e Sud e alimenta nuove ingiustizie sociali. In questo contesto il leader della Cgil non riesce a comprendere il valore di certe rinnovate discussioni in merito alla modifica dello Statuto dei lavoratori che frenerebbe la ripresa.
«È una discussione vecchia, inutile quella che è stata ripresa sull’articolo 18» conclude Camusso, «oggi il problema sono le aziende che chiudono, non si può pensare a nuove strade per favorire i licenziamenti. Le persone stanno già perdendo il posto di lavoro, la nostra priorità è di creare occasioni di nuova occupazione non di cacciare i lavoratori dai loro posti».

Corriere 22.12.13
Camusso: «Le tasse? Troppe sul lavoro, poco eque sulla casa»
intervista di Antonella Baccaro


Dire delusa è poco. Il leader della Cgil Susanna Camusso parla della legge di Stabilità, che il Senato ha appena blindato con la fiducia, come «un’occasione mancata» e con un accoramento che lascia trasparire come avesse sperato in una «stagione nuova».
E invece, segretario?
«Invece è una legge di “continuità”, che non determina un cambiamento di fase perché è la sommatoria di tante piccole cose, molte non particolarmente eleganti, senza visione, senza strategia. Sostenendo che siamo alla vigilia di una ripresa, che francamente non vediamo, questo governo non introduce alcun elemento di equità in un Paese in cui il reddito da lavoro e da pensioni è sceso e la restituzione fiscale è marginale rispetto all’insieme del provvedimenti presi».
C’è un fondo per il taglio del cuneo e il viceministro dell’Economia, Stefano Fassina dice che per la prima volta le maggiori risorse che vi affluiranno non dovranno essere strutturali.
«Non vedo niente di certo in questo fondo che doveva essere l’avvio di un percorso automatico di finanziamento. Il sindacato, insieme alle imprese, lo aveva individuato come il minimo indispensabile per poter parlare di inversione di rotta. Ma i condizionamenti sono stati tali che qualsiasi spinta innovativa è subordinata ad altre necessità».
A cosa si riferisce?
«Prima di tutto all’Imu. Se non si fosse scelto di restituirla e se invece ci si fosse occupati della grandissima ingiustizia per cui un lavoratore dipendente ha un’aliquota di tassazione superiore a quella delle rendite finanziarie, allora si sarebbero compiute scelte che andavano nella giusta direzione di dare valore al lavoro. E non mi vengano a dire che non ci sono i soldi: si è scelto di agire solo su una parte del reddito del Paese».
La nuova Imu, cioè in realtà la tassa sui servizi chiamata Tasi, sta ancora cambiando: aumentano le detrazioni mentre l’aliquota sulla prima casa potrebbe salire dal 2,5 per mille al 3,5. Vicina al 4 per mille della vecchia Imu. Le sembra più equa così la tassazione?
«A me pare che produca nuovi problemi di comprensione prima di tutto. E poi continua a non essere equa perché non è chiaro cosa succeda rispetto agli affittuari che sono stati coinvolti. In più c’è un errore di fondo, di principio: è il concetto di ”prima casa” a non essere equo. Se si tratta dell‘unica casa di un pensionato è un conto, altro se si tratta della prima di molti altri immobili».
Secondo lei il governo ha disatteso le promesse fatte al proprio insediamento? E perché?
«Il governo era nato promettendo “una stagione di crescita”. Evidentemente si sono persi nella fumosità degli equilibri politici e non si sono chiariti su come operare. Rilevo che anche questo governo continua a non pensare che bisogna ripartire dal lavoro, che occorre lavorare sulla domanda interna. Non voleva agire sul terreno fiscale? Allora si doveva andare su quello degli investimenti che creano l’occupazione».
Nel «piano del lavoro» della Cgil si suggerisce un ritorno dell’intervento pubblico in economia. Non le pare anacronistico?
«Intanto il caso Telecom sta lì a spiegarci che le privatizzazioni non portano miglioramenti nei settori in cui sono state fatte, anzi... Devo dire che questa nuova stagione di privatizzazioni ci preoccupa perché mette a rischio imprese fondamentali per il Paese riducendone le risorse. Quando parliamo di ritorno del pubblico pensiamo a un piano che diriga, che convogli le risorse sulle migliori forme d’investimento, a partire dalla ricerca».
Lei dice che l’esecutivo non ha tra le priorità il lavoro, ma Letta ha molto spinto perché in Europa si finanziasse lo «youth guarantee».
«E noi stiamo collaborando per attuarlo ma quel piano riguarda la formazione, l’accompagnamento a lavoro. E’ importante soprattutto in un Paese dove ci sono molti “neet”. Ma prima il lavoro bisogna crearlo: per questo abbiamo fatto la nostra battaglia sul taglio del cuneo fiscale. Poi però quando vediamo che il Fondo sarà costituito da risorse della lotta all’evasione fiscale e non ci sono norme che vadano in quella direzione, allora chiunque sarebbe sospettoso. Non va bene».
Che norme avrebbe voluto?
«Passi avanti sulla tracciabilità del denaro, per cominciare».
Si torna a parlare di regole del lavoro. L’ex ministro Fornero in una lettera a “la Stampa” ha sospeso il giudizio circa l’effetto della sua riforma sull’articolo 18. Lei che ne pensa?
«La modifica apportata dal governo Monti è molto parziale rispetto all’obiettivo iniziale e ha avuto effetti non omogenei sul territorio nazionale per i casi che noi abbiamo potuto verificare. Ma poi la crisi ha reso evidente l’inutilità di quelle norme perché oggi la vera urgenza sono le imprese che chiudono e non certo l’articolo 18. Abbiamo un milione di disoccupati in più negli ultimi mesi ma nel nostro dibattito ci si ostina sul paradosso ideologico e ottocentesco di ragionare su come ridurre gli occupati. Continuando a ignorare ad esempio che le imprese più internazionalizzate, quelle che affrontano meglio la crisi, sono anche quelle che non agitano l’articolo 18, fanno contrattazione, non hanno precarietà. Per non dire che in Italia ci sono ancora problemi di schiavismo e caporalato. Altro che far saltare le regole».
Il neosegretario del Pd, Matteo Renzi, ha detto che non vuole parlare di articolo 18. Ci crede?
«Ho apprezzato la sua dichiarazione. Credo che abbia colto che parlare di lavoro è tutt’altra cosa».
Dialogherà con lui?
«Il dialogo non solo è necessario, ma se c’è chiarezza nelle posizioni e rispetto reciproco può essere costruttivo».

il Fatto 22.12.13
Landini al sindaco segretario Pd “Ripristini l’art. 18”


“SE RENZI vuole fare una cosa intelligente ripristini l’articolo 18 per impedire i licenziamenti ingiustificati. Ripristini un diritto di civiltà”. Così il leader della Fiom Maurizio Landini, intervistato da Fabio Fazio a Che tempo che fa. “Oggi il problema non è rendere più facili i licenziamenti ma le assunzioni” ha aggiunto Landini ricordando che l’art.18 “è già stato cambiato dal governo Monti e ha aumentato la possibilità di licenziare”. E ha spiegato nel merito: “Adesso determinate imprese possono licenziare per ragioni economiche” ha ricordato Landini, evidenziando che dopo la riforma dell’art.18 “la disoccupazione è aumentata e gli investimenti non sono aumentati”. Invece “ci avevano detto che la riforma avrebbe creato lavoro e aumentato gli investimenti”. Sulla stessa linea Cesare Damiano, Pd, presidente della commissione Lavoro alla Camera: “Nella legge di Stabilità non sono passati alcuni emendamenti che estendevano tutele sociali e previdenziali per i lavoratori precari. Il Pd, se vuole continuare la sua battaglia per i diritti universali di vecchie e nuove generazioni, deve riprendere e sostenere queste proposte e non ascoltare altre sirene”.

Repubblica 22.12.123
Cassa integrazione record, 1 miliardo di ore
Cgil: in 11 mesi colpiti 520 mila lavoratori, ognuno ha perso 7300 euro
di Riccardo Raimondi


ROMA — Non ha ancora superato il miliardo, ma lo farà entro fine anno, per la terza volta dall’inizio della crisi. Secondo la Cgil, anche nel 2013 il numero di ore di Cassa integrazione oltrepasserà quella barriera psicologica già scavalcata nel 2010 (1,2 miliardi) e nel 2012 (1,1 miliardi). «Si prospetta l’ennesimo anno record in termini di ricorso alla Cig da quando, ormai sei anni fa, siamo stati investiti da una violenta crisi» afferma il segretario confederale della Cgil, Elena Lattuada, attaccando la Legge di Stabilità «che non mette in campo misure per invertire la tendenza. La discussione sulla riforma degli ammortizzatori sociali è mossa solo in termini di taglio delle risorse e mancano misure di contrasto alla crisi. Il Paese è in ginocchio e la situazione sociale diventa sempre più insostenibile: serve una svolta e serve ora».
A tutto il 30 novembre sono stati accumulati 990 milioni diore, un dato sostanzialmente invariato rispetto all’anno scorso (—1,41%). Un numero che lo studio del sindacato traduce in oltre mezzo milione di persone azero ore, circa 517 mila, ciascuna delle quali perderebbe 7300 euro all’anno al netto delle tasse. In totale, infatti, i lavoratori in Cassa hanno visto un taglio del reddito pari a circa 3,8 miliardi di euro, più o meno l’importo delle entrate statali dell’Imu sulla prima casa nel 2012. Nell’ultimo mese, le ore non lavorate sonostate 110 milioni, venti milioni in più rispetto a ottobre. E, dall’anno scorso, è cresciuto del 18% il numero di aziende che hanno fatto ricorso, tra gennaio e novembre, all’ammortizzatore: nel 2013 sono state quasi seimila. Aumentano quelle che lo fanno per crisi aziendale, mentre diminuiscono gli interventi che prevedono percorsi di reinvestimento e rinnovamento strutturale. «Un segnale evidente del progressivo processo di deindustrializzazione in atto nel Paese », sottolinea lo studio della Cgil. E si creano anche situazioni difficilmente sostenibili sui contributi Inps. Come nel caso della Fiat, che riceverebbe in cassa integrazione più di quanto versa all’istituto previdenziale. Altre aziende, come l’Alcoa, hanno rinnovato la cassa integrazione all’inizio di quest’anno, dopo aver minacciato la chiusura l’anno scorso. Il Centro Studi di Confindustria prevede un miglioramento a partire dall’inizio del 2014, ma le prospettive sono tutt’altro che rosee: secondo il Csc, infatti, proprio la diminuzione della Cig avrà effetti negativi sull’occupazione, che nel 2014 rimarrà sostanzialmente invariata e nel 2015 potrebbe aumentare — nella migliore delle ipotesi — di mezzo punto percentuale. Non migliorerà molto nemmeno il tasso di disoccupazione, che rimarrà superiore al 12% per i prossimi due anni. Un dato, questo, particolarmente preoccupante soprattutto alla luce del fatto che il tasso di disoccupazione non considera le persone inattive: le persone, cioè, che non sono alla ricerca di un’occupazione. E, tra queste, è in continuo aumento l’esercito di quelli che il lavoro non lo cercano perché hanno perso le speranze di trovarlo. Sono i cosiddetti “lavoratori scoraggiati”, che dall’inizio della crisi a oggisono aumentati del 54,1%.

Repubblica 22.12.13
Contratto unico a tempo indeterminato e articolo 18 solo dal terzo anno
Via i precari, contratto unico e sussidio per scavalcare l’articolo 18
Lavoro. Ecco il piano di Renzi: nel Job Act anche il sussidio di disoccupazione
di Roberto Mania


UN CONTRATTO di lavoro stabile a tempo indeterminato con tutele crescenti per tutti i nuovi assunti. È il perno del “Piano per il lavoro” che il segretario del Partito democratico Matteo Renzi punta a presentare entro la fine di gennaio. Un Job Act pensato più per creare lavoro che per regolare il lavoro. Per questo l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, diventato comunque soft dopo le modifiche introdotte con la legge Fornero, ha un ruolo marginale nell’impostazione renziana.
L’obiettivo è ricomporre il lavoro frantumato negli ultimi decenni che ha prodotto il dualismo tra garantiti e non, tra lavoratori giovani e lavoratori maturi. La strada non è però quella di bloccare la flessibilità, cancellando magari i contratti atipici o riducendone le tipologie, come era stato proposto nel passato dal Partito democratico in cui prevaleva l’ancoraggio alla cultura operaista, intorno alla quale era stato costruito a partire dagli anni Settanta tutto il sistema di protezioni sociali, dalle pensioni alla cassa integrazione. Ora alla guida del Pdc’è una generazione di trentenni che è cresciuta nella flessibilità. Dunque non saranno loro a pensare di imbattersi in una battaglia contro la flessibilità. Sarebbe persa. Sarà invece una battaglia contro la precarietà che ha resto fragile proprio la loro generazione.
UN CONTRATTO STABILE
Il gruppo che ha in mano il dossier lavoro (ci sono la responsabile dell’area Marianna Madia, quello del Welfare Davide Faraone, Taddei ma anche l’economista-matematico Yoram Gutgeld alle cui tesi è molto sensibile Renzi) pensa che si debbano innanzitutto impedire gli abusi dei contratti flessibili. Se un contratto è a tempo per esigenze produttive non può surrettiziamente trasformarsi in contratto a tempo indeterminato attraverso una serie di pause e rinnovi. Stesso ragionamento per i contratti interinali. Da qui l’idea di un contratto unico, sulla scia delle proposte già avanzate da tempo dagli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi e dal giuslavorista Pietro Ichino.
Resta il nodo dell’articolo 18, che regola la tutela dei licenziamenti senza giusta causa, prevedendo il reintegro ormai solo nel caso della discriminazione. La discussione è ancora aperta ma sembra prevalere l’impostazione (modello Boeri-Garibaldi) in base alla quale i neoassunti verrebbero esclusi dall’applicazione dell’articolo 18 per i primi tre anni, durante i quali, peraltro, l’imprenditore non pagherebbe i contributi che sarebbero a carico dello Stato. Mentre per i lavoratori flessibili il progetto prevede l’estensione delle tutele: dalla maternità alla malattia.
Non c’è dubbio che, anche questa volta, l’applicazione o meno dell’articolo 18 sarà uno spartiacque. Ieri è arrivato il messaggio del segretario della Fiom, Maurizio Landini: «Se Renzi vuole fare una cosa intelligente, ripristini l’articolo 18 per impedire i licenziamenti ingiustificati. Ripristini un diritto di civiltà».
SUSSIDIO E FORMAZIONE
Chi perderà il lavoro avrà diritto a un sussidio di disoccupazione universale al posto dell’attuale cassa integrazione. Sarà uguale per tutti, senza distinzione in base alle dimensioni dell’azienda, all’area geografica, all’età anagrafica. Nel ragionamento della squadra di Renzi sarà il «paracadute » per tutti, visto che attualmente solo un lavoratore su tre ha diritto alla cassa integrazione, e che compenserà la maggiore flessibilità in uscita. Renzi punta a rafforzare lo schema già introdotto dalla Fornero con l’Aspi (l’assicurazione sociale per l’impiego). E guarda al modello tedesco, a quel “pacchetto Hartz” che dal 2005 ha sostenuto la ripresa della Germania: sussidio di disoccupazione e obbligo di frequentare un percorso di formazione. «Riqualificazione e formazione devono essere gli obiettivi per far funzionare il mercato del lavoro», spiegano i renziani. In sostanza il sussidio diventerebbe il paracadute, la formazione la leva per rientrare nel mercato attivo del lavoro.
CENTRI PER L’IMPIEGO
Per fare questo sarà necessario intervenire sui centri per l’impiego che oggi intermediano meno del 5 per cento delle assunzioni contro, per esempio, un 20 per cento in Gran Bretagna. Il Pd sta ragionando sulla possibilità di integrare il servizio dei centri pubblici con quello delle agenzie private per il lavoro.
SINDACATI E PARTECIPAZIONE
Il singolare asse tra Renzi e Landini, comincia a dare i suoi frutti. Il segretario del Pd pensa che, tanto più in una fase di crisi della rappresentatività dei soggetti sociali, si debba misurare il peso di ciascun sindacato. Serve dunque una legge sulla rappresentatività. Un cavallo di battaglia della Cgil e della Fiom che, anche a causa dell’assenza di un normativa di questo tipo, è stata esclusa dai tavoli negoziali con la Fiat di Sergio Marchionne. Certo, Renzi su que-sto si imbatterà sulla contrarietà della Cisl di Raffaele Bonanni, che considera questa materia di competenza delle parti sociali. E Renzi rischia di trovare il muro della Confindustria per frenare l’altra proposta sui sindacati: quella di far entrare i rappresentanti dei lavoratori (anche qui il modello tedesco) nei consigli di amministrazione delle aziende. Gli industriali si sono sempre opposti a questa eventualità. Comunque il “Piano per il lavoro” sarà oggetto di confronto con tutte le parti sociali, con la maggioranza e con il governo.
DIFESA DEL LAVORO
Il punto centrale resta — come dicono nello staff renziano — la creazione del lavoro. Così una delle ipotesi su cui si sta ragionando è quella di fissare alcuni paletti per difendere il lavoro in Italia. Esempio: ogni anno vengono stanziati più di 200 milioni a sostegno della produzione di film. Che poi vengono spesso girati in altri paesi, dal Marocco alla Romania, creando lì le occasioni di lavoro. Bene, si potrebbe fissare una regola secondo la quale l’accesso ai fondi sia vincolato alla produzione almeno per il 50 per cento in Italia.

l’Unità 22.12.13
Pd, diamo voce a una nuova sinistra
di Pietro Folena

Laboratorio della Sinistra/Costituente delle Idee

CIAK. LA PRIMA NON ERA BUONA. IL CONFUSO «STOP AND GO» DI MATTEO RENZI E DEI RAGAZZI DEL SUO STAFF SULL’ARTICOLO 18 E SUL LAVORO NON FA PRESAGIRE NULLA DI BUONO. Ora Renzi frena gli ardori del suo staff, che forse non ha ancora capito quale responsabilità ha di fronte a milioni di persone, sentendo il rischio di prendere una dura musata. Rimane il fatto che, ad una settimana dall’elezione del nuovo segretario, il Partito democratico sembra aver sposato, nel suo gruppo dirigente, l’ideologia su cui liberali e liberisti, di diversa gradazione, avevano martellato in questi anni. Peccato che Renzi non avesse chiesto il plebiscito su questa linea. Forse i risultati sarebbero stati diversi.
Il lavoro non c’è per i giovani, si dice, a causa delle garanzie eccessive di chi ha lavoro. Una bugia colossale. Recenti studi dicono che le aziende che assumono più giovani sono anche quelle che sanno valorizzare le esperienze, le conoscenze e la saggezza dei lavoratori più anziani. In Italia, invece, grazie alla legge Fornero, si è allontanata l’età pensionabile per milioni di lavoratori, anche quelli che hanno cominciato presto a lavorare e che fanno lavori pesanti e stressanti; si sono lasciati in mezzo alla strada lavoratori messi in mobilità in attesa della pensione, ed ora esodati. In Italia i lavoratori lavorano più ore dei loro colleghi dei grandi Paesi europei, e alle aziende conviene fare gli straordinari piuttosto che far entrare nuovi giovani.
Da una moderna forza di sinistra ci aspetterebbe un discorso sulle pensioni simile a quello che la SPD ha imposto in questi giorni ad Angela Merkel: abbassare l’età pensionabile, e far entrare i giovani. E una strategia di redistribuzione del lavoro, poiché non basterà da sola una ripresa della crescita che comunque sarà limitata a creare lavoro. Le esperienze di molti contratti di solidarietà vanno già in questa direzione.
Al contrario rullano i tamburi dell’offensiva finale contro la Cgil. Ricordo nel 2001-2002, propositi analoghi da parte del centro-destra. Un esponente dello staff di Renzi annuncia la necessità di primarie per la Cgil. È una idea singolare quella di far votare i forconi, oppure Marchionne, per eleggere i rappresentanti sindacali della Cgil! La legge sulla rappresentanza è un’altra cosa, e sinceramente fatico a capire gli applausi di Maurizio Landini a Renzi, se ha queste idee. Addirittura da parte di Nichi Vendola e di alcuni esponenti di Sel si tessono le lodi del nuovo segretario del Partito democratico.
È bene mettere le cose in chiaro, senza mezze parole. Se l’intento è quello annunciato in questi stop and go, annunci e smentite (tecnica tipica del ventennio passato), è necessario che si sappia che su questa linea non passeranno, anzitutto nel Partito democratico. Sull’articolo 18 e su altri argomenti sociali facciamo votare davvero gli iscritti al partito, perché scelgano la linea.
È quindi giunto il momento, finito il Congresso, di dare voce a una vera e nuova sinistra nel Pd. Di superare le divisioni correntizie e i gruppi di potere che hanno prima impedito un’unica candidatura alternativa a Renzi, e poi hanno appesantito quella di Gianni Cuperlo. Penso a una Costituente della sinistra, che rifletta e proponga nuove idee per il tempo presente, e che apra un confronto con Renzi, per sfidarlo sul «verso» dell’innovazione: dove si deve andare, per fare che cosa.
Perché non chiamare presto a un confronto stringente tutte quelle e tutti quelli che hanno maturato un pensiero critico sulla crisi e sulla necessità di contrastare la finanziarizzazione dell’economia e del mondo, che svalorizza e svuota il lavoro?

l’Unità 22.12.13
Consulta, il 13 gennaio le motivazioni sulla legge elettorale
Si allungano i tempi per la riforma
di Claudia Fusani


Lunedì 13. Al massimo martedì 14. Fino ad allora saranno solo chiacchiere. O speculazioni per fare tattica politica. Solo in quei giorni, infatti, i giudici della Consulta depositeranno le motivazioni della sentenza che il 4 dicembre ha bocciato il Porcellum perché incostituzionale. E solo allora, in quelle pagine, sarà possibile leggere i confini della prossima legge elettorale. L’indiscrezione emerge dagli ambienti della Consulta chiusa per ferie quasi a voler mettere a tacere altre speculazioni che in questi giorni fissano il deposito nella prima settimana di gennaio. Altre, invece, la spingono molto più in là, tra fine gennaio e i primi di febbraio.
La prassi vuole che il relatore, Giuseppe Tesauro, legga le motivazioni nel primo giorno utile dopo la pausa natalizia che sarà la camera di consiglio del 13 gennaio. In quella riunione ciascuno degli altri quattordici giudici potrà, se vorrà, aggiungere, togliere, correggere. Un dibattito che dovrebbe concludersi il 13, al massimo il 14.
È chiaro che fino ad allora il Parlamento potrà, se vorrà, fare per conto proprio essendo l’unico legislatore possibile. Ma vista la posta in gioco il voto anticipato l’aria che tira, tra ultimatum, fughe in avanti, minacce di crisi di governo e di creare maggioranze diverse fuori dal recinto della maggioranza, è più che probabile che la stessa commissione Affari costituzionali della Camera che ha incardinato martedì il provvedimento non riuscirà, prima di metà mese e al netto della pausa natalizia, a produrre un testo condiviso da una maggioranza almeno numerica.
Aspettare i giudici, insomma, sarà utile per tutti. Non tanto perché diranno cosa fare con premio di maggioranza e liste bloccate (i due punti del Porcellum giudicati incostituzionali). Quanto perché le motivazioni spiegheranno «in che modo dovrà agire il premio di maggioranza per essere costituzionale».
Contro le speculazioni e i sistemi di voto fatti filtrare sui giornali come quelli possibili e proposti da Renzi a Forza Italia e magari sponsorizzati dal Colle, ieri l’ufficio stampa del Quirinale ha diffuso una nota secca e perentoria che mette in guardia da «interpretazioni arbitrarie». «Il Presidente della Repubblica si legge ha espresso pubblicamente i suoi punti di vista sulla riforma elettorale e sulle riforme costituzionali nel discorso pronunciato lunedì 16 dicembre scorso in occasione dello scambio di auguri con i rappresentanti delle istituzioni, delle forze politiche e della società civile. Tutto il resto è soltanto frutto di interpretazioni arbitrarie».
Palla a terra, dunque. E al centro del campo. La sensazione è che alla fine nessuno voglia veramente accelerare per andare a votare a maggio con le europee che invece è il must di Berlusconi. Fare la legge, sicuramente. Anche entro la primavera. Ma il resto della fretta appartiene alla tattica.
Il Nuovo centrodestra manda avanti il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi che promette: «La legge nascerà dal confronto con tutti ma è certo che la maggioranza farà una proposta unica». Toni che smentiscono le ipotesi di offerte di Renzi alla destra circa il Mattarellum corretto.
Per ora «non è in agenda» l’incontro tra Alfano e Renzi». Mentre ieri mattina la deputata renziana Maria Elena Boschi, ufficialmente incaricata di portare avanti il dossier della legge elettorale per il Pd, ha riunito i suoi deputati in Commissione. Un giro di orizzonte che non ha prodotto posizioni specifiche e che in ogni caso ha chiarito che la soluzione non possa essere il Mattarellum corretto.
«Non mi sembra che le posizioni di Ncd e di Renzi siano lontane» ha spiegato Lupi. «Noi siamo per il bipolarismo e per un modello tipo quello per l’elezione del sindaco. Con un tripolarismo come quello che si sta presentando anche il Mattarellum non funziona».
I tempi della Consulta aiutano a prendere un po’ di fiato. Non certo a perdere tempo. «A metà mese dice una fonte di palazzo Chigi ci metteremo intorno a un tavolo, da una parte la maggioranza con la sua proposta, dall’altra le opposizioni con la loro. Difficilmente il testo potrà lasciare la Camera tra fine febbraio e primi di marzo».
In Forza Italia ieri ha taciuto sul tema il capogruppo Renato Brunetta dopo alcune fughe in avanti in questi giorni che non sono piaciute a Berlusconi. Il dossier legge elettorale è tornato così saldamente e unicamente nelle mani di Denis Verdini che vanta una buona conscenza e consuetudine con il giovane concittadino Matteo Renzi.
Verdini, Boschi, Quagliariello, Franceschini: saranno sicuramente questi gli attori intorno al tavolo della legge elettorale. Non pervenuti, al momento, i nomi di chi seguirà la pratica per conto della Lega e dei Cinque stelle.
Il fatto è che Forza Italia è al momento distratta da seri guai interni. La maggior parte del partito non vuole andare a votare: non c’è un leader e sarebbe un rischio. «Meglio aspettare» dice un vertice azzurro. Rischia di trovarsi emarginato chi la pensa diversamente. E già si sussurrano i nomi di Fitto e Gelmini al posto di Brunetta alla guida della pattuglia di Montecitorio.

l’Unità 22.12.13
Votare assieme alle Europee?
Secondo costituzionalisti ed esperti nessuna norma impedirebbe l’abbinamento
in un’unica giornata delle due consultazioni
Per Capotosti non ci sono ostacoli tecnici
Onida: «Per le istituzioni europee meglio elezioni separate»
«Problema solo politico»
di Gigi Marcucci


Alla fine la spuntò Giulio Andreotti, ma su basi tecnico-giuridiche non molto consistenti. Per l’Europa si votò per la prima volta tra il 7 e il 10 giugno 1979, mentre per le politiche si andò alle urne una settimana prima. Con buona pace del leader socialista Bettino Craxi, che dall’abbinamento delle due consultazioni si aspettava un cospicuo vantaggio elettorale. Lo ricorda il costituzionalista Augusto Barbera, per il quale l’ostacolo all’accorpamento in un unico election day oggi è di natura politica e non giuridica. Esattamente come allora. Il divo Giulio, per separare le due consultazioni, invocò i differenti numeri di scrutatori previsti per l’una e l’altra: problema facilmente aggirabile dal punto di vista legislativo. «Anche oggi dice Barbera, docente di diritto costituzione all’università di Bologna la questione è solo politica. Sul piano tecnico non esiste norma del diritto europeo o italiano che possa impedire il voto in un solo giorno per le elezioni politiche e quelle europee». Ma sbaglierebbe chi considerasse lo scoglio politico più morbido di quello giuridico. In primo luogo perché in questo caso gli scogli sono due, come Scilla e Cariddi. «Da una parte ci sono le reiterate dichiarazioni del presidente Napolitano, che ha detto di non voler sciogliere le Camere», spiega Barbera. Dall’altra, la necessità di approvare entro marzo una nuova legge elettorale. Perché è evidente che non si può andare a votare con una legge, il Porcellum, dichiarata incostituzionale.
La proposta di votare prima piace a destra e a sinistra. Tenta la nuova maggioranza renziana del Pd e, ovviamente, viene cavalcata da Silvio Berlusconi, recentemente dichiarato decaduto e molto interessato a miscelare campagne ed esiti delle due consultazioni. Anche perché è molto difficile accreditarsi sul piano europeo per un leader a cui provvedimenti della magistratura inibiscono l’uso del passaporto e quindi la possibilità di movimento, come si è visto per il convegno del Partito popolare europeo. Naturalmente ci sono motivazioni meno ad personam per scegliere l’una o l’altra delle due possibilità. Il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti, veterano di una battaglia lunga e sostanzialmente solitaria contro il Porcellum, ha di recente chiesto all’Ufficio legislativo se un giorno di votazioni, come prevede anche la legge di Stabilità, sia abbastanza per accogliere due elezioni. La risposta è stata affermativa. Non sussisterebbero ostacoli di natura tecnica, come conferma anche Piero Alberto Capotosti, presidente emerito della Corte costituzionale, ricordando tra l’altro il decreto 98 del 2011, che stabiliva che dal 2012 l’ election day dovesse essere uno solo. Ma anche Capotosti sottolinea l’esistenza di due condizioni fondamentali per il voto anticipato. «La valutazione è di pertinenza eclusiva del capo dello Stato», da cui dipende lo scioglimento delle Camere. Cosa che non può ovviamente avvenire fino a quando in Parlamento esista una maggioranza. Il provvedimento di scioglimento, ricordano vari costituzionalisti, deve essere controfirmato dal presidente del Consiglio. E così la palla ritorna nella metà campo della politica. Enrico Letta dovrebbe convincersi di non avere più il sostegno necessario, ma al momento è evidente che non è così: ha da poco annunciato che il governo mangerà il panettone anche nel 2014. Come se non bastasse, c’è una legge elettorale da riscrivere. Certo, dice Barbera, volendo sarebbe sufficiente un solo articolo, che abroga il Porcellum e ripristina il Mattarellum, ma al momento manca una maggioranza pronta a votare un testo poco più lungo di un tweet . Ne sa qualcosa il democratico Giachetti, che ha a lungo digiunato per cercare di smuovere equilibri consolidati e profondamente ostili a questo tipo di soluzione. Certo, la ormai prossima pubblicazione delle motivazioni con cui la Corte costituzionale ha solennemente cassato la legge tenuta a battesimo dal leghista Caldarola potrebbe fornire una traccia su cui elaborare un nuovo testo. Ma questa possibilità trova profondamente scettico il professor Capotosti: «Si tratterebbe in ogni caso di una soluzione di estremo ripiego». Anche secondo Valerio Onida, un altro presidente emerito della Consulta, dal punto di vista tecnico un eventuale abbinamento elettorale si troverebbe di fronte un’autostrada in discesa. «La legge del 1979 dice che la data delle elezioni europee deve possibilmente coincidere con quella delle elezioni nazionali. Mentre il decreto 98 del 2011 parla di unificazione in ogni caso delle consultazioni, cosa che appare addirittura eccessiva: come sarebbe possibile fissare preventivamente una data che comprenda anche elezioni anticipate?». Il problema vero per Onida è un altro. «Per la crescita delle istituzioni europee, sarebbe auspicabile la non coincidenza tra le due consultazioni. Un loro abbinamento può sollecitare una maggiore partecipazione, ma d’altro canto finirebbe per “oscurare” almeno parzialmente i temi europei». Insomma la tecnica, anche quella giuridica, è importante. Ma non è tutto.

l’Unità 22.12.13
Luciano Violante
«Il vecchio sistema non dà certezza di maggioranze e favorisce le larghe intese o la paralisi: la prima opzione è gradita a Forza Italia, la seconda a Grillo»
«No a leggi transitorie. Il Mattarellum non aiuta»
«Con i collegi decidono le oligarchie di partito e non i cittadini Meglio le preferenze»
intervista di Maria Zegarelli


ROMA «Io, per abitudine, non argomento in base ai sospetti e diffido dei retroscena. I fatti ci dicono che abbiamo tutto il tempo, cioè tutto il 2014, per una riforma costituzionale, come quella proposta da Matteo Renzi, e approvare una coerente riforma elettorale». Tanto che per Luciano Violante, che è stato coordinatore della Commissione per le Riforme, non é necessaria una legge di salvaguardia, se l’orizzonte temporale che Enrico Letta e Matteo Renzi si sono dati è quello di quindici mesi.
Già, ma ora che Fi è fuori dalla maggioranza e il Pd ha un nuovo segretario, il lavoro fatto fino allo scorso novembre, sembra ormai superato. Si ricomincia. «È cambiato il quadro politico, ma non sono cambiate le esigenze. A volte, non da oggi, quando sento dibattere di legge elettorale mi vengono in mente quei signori che discutono quale taxi prendere ma non sanno dove andare. Bisognerebbe prima stabilire le priorità e poi scegliere il modello elettorale che permette di raggiungerle».
Le priorità i cittadini le hanno espresse chiaramente: vogliono sapere con certezza chi vince e vogliono poter scegliere i propri rappresentanti in Parlamento. Quindi?
«Vogliono anche che siano garantite la parità di genere e una maggioranza in grado di governare. Ci sono varie strade per raggiungere questi risultati».
Una di queste può essere il Mattarellum con il doppio turno di cui si parla in questi giorni?
«Il Mattarellum non consentirebbe di raggiungere quelle priorità. Tre blocchi elettorali di peso simile non danno, con quel sistema, la certezza della maggioranza e aprirebbero la strada a nuove grandi coalizioni o a nuove paralisi: la prima opzione é gradita a Forza Italia, la seconda a M5S. Non mi pare sia il caso di favorirli. I cittadini, inoltre, non sceglierebbero i propri parlamentari. Li sceglierebbero le oligarchie dei partiti nazionali, e locali. Se poi facessimo le primarie collegio per collegio, potremmo precipitare in un processo di desolidarizzazione del partito proprio alla vigilia del voto; e non parlo del rischio che si ripetano alcuni recenti gravi episodi. In ogni caso andrebbero rivisti i collegi perché il censimento effettuato nel 2011 importa l’obbligo costituzionale di ridisegnarli per rispettare la rappresentanza dei cittadini. Dev’essere chiaro, infine, che l’unico secondo turno in grado di far nascere una maggioranza è il ballottaggio nazionale tra i primi due».
Ma il ballottaggio nazionale applicato al Mattarellum non metterebbe d’accordo i desiderata di Pd e Ncd?
«Forse si. Ma le alleanze nei collegi uninominali hanno sempre creato maggioranze ibride, non limpide, con le quali si vince ma non si governa. Non a caso con il Mattarellum nessuno dei governi usciti vincenti dalle urne ha concluso la legislatura». L’alternativa?
«L’alternativa è il voto di preferenza; conosco le critiche e non le sottovaluto. Ma la preferenza ha il pregio ineguagliabile di ricostruire un rapporto di fiducia tra cittadino ed eletto e di selezionare i parlamentari sulla base di una battaglia politica alla luce del sole; inoltre la seconda preferenza favorirebbe la parità di genere».
Renzi l’ha contattata dopo la sua elezione per avere un suo parere?
«No e non aveva alcun dovere di farlo. Ha personalità competenti e capaci che lo stanno aiutando sul tema delle riforme».
Dal suo punto di vista, gli interessi contrapposti di Alfano e Renzi, rispetto ai tempi elettorali, non sono un freno per la riforma?
«Io sto ai fatti e non ai sospetti. E i fatti parlano di un patto per tutto il 2014 e forse anche oltre».
Ma fatta la legge elettorale la tentazione di tornare alle urne sarebbe fortissima, soprattutto di fronte ad un Parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale.
«Se si fa una legge elettorale di salvaguardia può esserci il rischio».
Lei propone di andare direttamente alla legge definitiva per evitare il rischio di urne troppo anticipate?
«Se non ci si perde in chiacchiere, c’è il tempo per fare la riforma costituzionale, stabilire che la fiducia viene votata solo dalla Camera e fare poi una coerente legge elettorale. Perciò preferirei una legge stabile. Ma se si ritenesse assolutamente necessaria una legge ponte si potrebbe approvare un provvedimento diviso in due parti: la prima parte disciplinerebbe il voto nella situazione attuale, la seconda detterebbe le regole che varranno dopo l’entrata in vigore della riforma. Si eviterebbe così di riprendere in mano il tema dopo la riforma costituzionale»

il Fatto 22.12.13
Riforme interrotte
“Legge elettorale con la maggioranza”
Così Ncd e Colle spingono sull’intesa
di Wanda Marra


In un sabato pre-natalizio in cui la Camera è alle prese con legge di stabilità e Province, la legge elettorale diventa l’oggetto di uno scontro tutto sotterraneo tra le varie forze politiche e al loro interno. Sono due - a grandi linee - i sistemi a confronto: il Mattarellum corretto con una quota di maggioritario (soluzione gradita a Berlusconi, invisa ad Alfano che a Renzi va bene, ma non va bene a una parte del Pd) oppure una sorta di doppio turno di coalizione, che scatta se nessuno al primo turno supera la soglia del 40%, e va bene anche ad Alfano. Tra le tante soluzioni allo studio, l’ultima arrivata sarebbe una sorta di Mattarellum corretto col doppio turno di coalizione (dai 475 seggi assegnati nella quota maggioritaria sarebbe ritagliato un premio di governabilità di 75 seggi, che scatterebbe solo se un partito raggiunge i 200 seggi, altrimenti c’è il doppio turno di coalizione). Una soluzione di “mediazione”. Ma la vera questione sono i tempi: con Renzi che vuole approvarla subito e i governativi (del Pd o suoi alleati) che tendono a rimandarla per non rischiare di accorciare la vita del governo. E così ieri è bastato un pezzo di Repubblica in cui si raccontava che Napolitano avrebbe chiesto giovedì alla Boschi di partire dalla maggioranza per provocare reazioni composte e scomposte. Cominciava Maurizio Lupi (Ncd) cantando vittoria: “La maggioranza farà una proposta unica”. Ma i deputati democrat della commissione Affari Costituzionali, riuniti in tarda mattinata, ribadivano la linea di Renzi: si tratta con tutti.
   ARRIVAVA l’altolà di Bondi: “Spero che il Quirinale smentisca quanto riferisce Repubblica ” La replica: “Il presidente della Repubblica ha espresso pubblicamente i suoi punti di vista nel discorso pronunciato lunedì 16 dicembre scorso. Tutto il resto è soltanto frutto di interpretazioni arbitrarie”. Oltre e ad arrivare a ventilare le sue dimissioni pur di evitare il voto anticipato, re Giorgio invitava ad “allargare il perimetro della maggioranza” per fare le riforme. Evidentemente non a farle fuori dalla maggioranza. Fatto sta che la Boschi due giorni dopo la sua salita al Colle si sente sufficientemente chiamata in causa per replicare: “Con Napolitano è stato un colloquio privato” e “mi sono attenuta alla riservatezza”. Evidentemente gli spifferi hanno creato qualche problema. Perché in realtà i renziani il dialogo con gli alleati di governo l’hanno tenuto dall’inizio . E anzi è il canale privilegiato. Negli scorsi giorni rendere noti gli incontri di Brunetta con i Dario Nardella, aveva avuto come primo obiettivo quello di mettere pressione ad Alfano, per costringerlo a fare la riforma nei tempi voluti da Renzi. Perché se Nardella parla con Brunetta, Matteo Richetti parla con Fabrizio Cicchitto (Ncd). Nessuno crede davvero che gli alfaniani possano permettersi di sfidare Renzi e rimandare la riforma elettorale, ma se così fosse il neo segretario democrat si tiene una carta di riserva. Che poi potrebbe essere quella che lo porta al voto anticipato. Cicchitto entra nella polemica: “Tutti i plenipotenziari di Forza Italia che hanno colloquiato con il Pd hanno avanzato proposte, dal Mattarellum al sistema spagnolo, che hanno un unico scopo quello di ridurre il Ncd ai minimi termini”. Replica la Gelmini: “Volete intestarvi la rappresentanza di tutto il centrodestra italiano”. Mentre loro litigano, il Pd chiede formalmente che un proprio esponente possa essere il relatore della legge a Montecitorio.

Corriere 22.12.13
Legge elettorale, mossa degli alfaniani
Ma ora nel Pd crescono le tensioni Lupi: proposta unica di maggioranza. La Bindi si smarca dalla Boschi
di Alessandro  Trocino


ROMA — «Sia chiaro, c’è un segretario appena eletto dalle primarie e c’è una segreteria che ha il mandato pieno per trattare sulla legge elettorale». Maria Elena Boschi conclude così la sua relazione al gruppo pd della commissione Affari costituzionali della Camera. Non una notazione pleonastica, perché nei minuti precedenti Rosy Bindi, con il consenso di alcuni esponenti cuperliani, aveva chiesto che venisse formato un comitato ristretto, che sottraesse la trattativa per una nuova legge elettorale alla sola responsabilità della segreteria (e quindi dei renziani). Ma il nuovo corso concede poco alle vecchie liturgie e Renzi ha fretta. Vuole chiudere entro la prima settimana di febbraio alla Camera e ottenere una maggioranza ampia, non necessariamente legata a quella di Palazzo Chigi. Ma intanto il centrodestra di Angelino Alfano prova a blindare un patto nella maggioranza. E lo fa con il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi: «Ben venga il dialogo con le opposizioni, ma la maggioranza farà una proposta unica».
La discussione dentro il gruppo pd verte su questi due punti: la scelta di un modello e quella degli interlocutori. Sul primo punto, vengono smentite le voci circolate su un «Mattarellum» con doppio turno eventuale di coalizione. La Boschi, nella relazione introduttiva, spiega che non c’è un modello predefinito: «Non partiamo da nessun modello base. C’è un verdetto delle primarie, che ha stabilito alcuni principi: la governabilità, il rapporto diretto con gli elettori e soprattutto la certezza del risultato, per cui gli eventuali accordi si fanno prima. Non vogliamo istituzionalizzare le larghe intese a vita».
Molti esponenti cuperliani, nella riunione, hanno insistito sul doppio turno, alternativo al Mattarellum (possibile terreno di confronto e di scambio con Forza Italia). Marco Meloni: «Credo che ci sia largo consenso per il testo di Michele Nicoletti, che prevede il doppio turno». Così sostiene anche Alfredo D’Attorre: «La stragrande maggioranza degli interventi ha ribadito la necessità di partire dalla proposta storica del Pd, il doppio turno».
Il modello è collegato alla platea dei partiti interessati. Secondo D’Attorre, «siamo d’accordo sul partire da un confronto interno alla maggioranza». Ma i renziani lasciano ampi spazi a una trattativa che non la includa necessariamente. La Boschi alla riunione lo dice esplicitamente: «La legge elettorale non è nell’accordo di governo e quindi se non si trova un accordo di maggioranza, non è che l’esecutivo viene meno automaticamente. Detto questo, noi continuiamo a parlare con tutti, compresa Forza Italia».
Dissenso netto nell’opposizione interna. D’Attorre: «Sarebbe un grave errore consegnare la golden share a Berlusconi, già in passato siamo finiti in un vicolo cieco». La Bindi è d’accordo: «Ho detto nella riunione che il Pd deve avere una proposta propria. E che non si può scrivere contro la maggioranza in modo tale da rimettere il gioco in mano a Berlusconi». Su questo però i renziani non sembrano disposti a cedere, convinti di dover agire su un due binari paralleli, e usando la «minaccia» di un’intesa con Forza Italia per sventare eventuali meline del Nuovo centrodestra. La Bindi è critica: «Si deve agire, certo, con decisione, ma anche con collegialità».
Sull’altro fronte, il ministro Ncd Gaetano Quagliariello avverte: «Le riforme devono partire dalla maggioranza. Il Nuovo centrodestra è stato decisivo per far andare avanti il governo, se qualcuno facesse venire meno le condizioni, sarebbe decisivo per farlo cadere».
Alle indiscrezioni su un ventilato intervento del capo dello Stato proprio per chiedere che il confronto sulla legge elettorale cominci dalla maggioranza, risponde il Quirinale, con una nota. Nella quale si spiega che la posizione del presidente della Repubblica è quella del discorso del 16 dicembre: «Tutto il resto è frutto di interpretazioni arbitrarie».

Corriere 22.12.13
Nardella, il mediatore violinista: Brunetta più simpatico in privato
di Al. T.


ROMA — Alla riunione dei deputati, scherza: «Ci manca solo che Renato Brunetta dica in giro che siamo parenti e che mi proponga di andare insieme in vacanza». Il riferimento è ai colloqui sulla legge elettorale, che secondo il capogruppo di Forza Italia sarebbero «quotidiani». Dario Nardella è finito sui giornali nei giorni scorsi per la battuta di Brunetta, ma da tempo ha un ruolo chiave nella macchina da guerra renziana.
Originario di Torre del Greco e trapiantato da qualche anno a Firenze, è considerato un «fedelissimo» di Renzi (è stato suo vicesindaco a Firenze) e non proprio un moderato tra i suoi. Lo conferma spiegando la sua filosofia: «Credo che nessun vero cambiamento nella politica si possa fare senza una frattura, senza un confronto aspro. Non credo nei cambiamenti pilotati, morbidi. Serve lo scontro». Per questo ha condiviso la filosofia della rottamazione dei big. Ben sapendo che questo atteggiamento nel partito spaventa: «Fa paura, perché viene percepito come un fattore destabilizzante. Ma l’establishment ha bisogno di uno scossone». C’è chi dice che i renziani lo scossone lo vogliano dare anche al governo: «Ma no — scherza — al governo diamo solo colpettini amichevoli. Qualche scossetta tutt’al più».
Nardella e Renzi sono gemelli diversi. Entrambi nati nel ‘75 e laureati in Giurisprudenza alla stessa facoltà: «Siamo stati tutti e due scout, ma io nel Cngei, il corpo dei laici, Matteo nell’Agesci. Lui era un giovane popolare, io un giovane ds. Fui l’unico del partito a sostenerlo alle primarie, quando era un atto di coraggio farlo. Le nostre sono convergenze parallele».
Consigliere giuridico di Vannino Chiti, nel secondo governo Prodi, fondatore e direttore della Fondazione Eunomia, con Enzo Cheli, Nardella da deputato è stato il primo firmatario della legge per l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Ora è tra chi vuole il dialogo aperto a tutti sulla legge elettorale: «È giusto privilegiare la maggioranza ma non fino al punto di lasciare che gli alleati possano esercitare un diritto di veto. E comunque ricordiamoci che nel 2005 Ds e Margherita si opposero più di tutti alla prepotenza di chi impose il Porcellum a maggioranza». I colloqui con Brunetta li conferma: «Sì, tutti alla Camera. Pur di portare a casa una legge si può anche digerire il rospo di parlare con gli avversari, purché sia alla luce del sole. Brunetta, comunque, è più simpatico in privato che in pubblico. Vedo ora che i suoi colleghi lo vogliono cambiare: se questo è il risultato, vorrà dire che incontrerò altri leader. È una buona strategia per creare confusione tra gli avversari».
Diplomato in violino al Conservatorio di Firenze e appassionato di Bach, Nardella ogni tanto suona ancora: «La musica aiuta molto ad affrontare la politica. Ti insegna ad ascoltare e ti insegna il metodo. Ora stiamo organizzando un concerto alla Camera, con il presidente della prima commissione Francesco Paolo Sisto». Che è di Forza Italia, come Brunetta: «Sì, lui suona il piano, io il violino. Ma non sarà un concerto elettorale».

Corriere 22.12.13
Renzi e il timore di non controllare i parlamentari
I dubbi sui veri obiettivi del Cavaliere
di Maria Teresa Meli


ROMA — Matteo Renzi non si fida. Non di Alfano e tanto meno di Berlusconi. «Tutti e due — è il convincimento del segretario del Pd — stanno utilizzando la legge elettorale per fare i loro giochi rispetto al governo. Il vicepremier perché vuole protrarre la legislatura il più a lungo possibile per paura di andare alle elezioni. L’altro perché pensa di utilizzare questa storia per andare alle elezioni a maggio. E noi non dobbiamo restare incastrati in questi giochini perché vogliamo cambiare il sistema sul serio».
Già, adesso il timore di Renzi e del suo entourage è che, alla fine della festa, sia Alfano che Berlusconi vogliano tenersi questa legge elettorale. Il primo per timore che, appena cambiata, si vada dritti alle urne, lasciando il Ncd a metà del guado e con pochi consensi. Il secondo perché andando al voto con il proporzionale rimarrebbe comunque determinante per i giochi politici futuri e schiaccerebbe Alfano.
Ma c’è un altro dubbio, ancora peggiore, che assilla in questi giorni Renzi: il rapporto con i gruppi parlamentari del Pd. I quali, com’è noto, sono stati creati a immagine e somiglianza della maggioranza bersaniana. È vero che Matteo Orfini dice che per quanto lo riguarda «tentare di fregare il segretario, come da tradizione, sarebbe una stupidaggine perché equivarrebbe a fregare tutta la baracca del Pd». Ma tra gli avversari interni del leader è uno dei pochi a pensarla così. I bersaniani non nascondono le loro intenzioni. O, almeno, faticano sempre di più a farlo. Alfredo D’Attorre spiega ai giornalisti un tipo di riforma che non sembra quella immaginata da Renzi. Poi a qualche compagno di partito dice: «Comunque, vanno lette bene le motivazioni della sentenza della Corte costituzionale prima di decidere».
Sì, il dispositivo della Consulta è un altro appiglio per chi vuole evitare che il segretario faccia un blitz sulla riforma elettorale. C’è chi dice nel Transatlantico di Montecitorio che la sentenza della Corte potrebbe delimitare la legge elettorale che verrà, insomma, metterle dei paletti. E c’è chi lo spera. Soprattutto tra chi punta a impedire a Renzi di raggiungere il suo obiettivo: dimostrare di mantenere la parola data e mandare in porto alla Camera la riforma elettorale entro la fine di gennaio, al massimo nella prima settimana di febbraio, non oltre.
Se Renzi non centrasse questo obiettivo non farebbe certamente una bella figura. Per questa ragione guarda con apprensione all’«ostruzionismo strisciante» non solo del Nuovo centrodestra, ma anche del fronte bersaniano. Nonché di una fetta degli ex popolari, che sembrano esprimersi non troppo diversamente da Angelino Alfano. Beppe Fioroni, per esempio, sottolinea con forza che occorre andare avanti sulla strada di un nuovo sistema, ma aggiunge una postilla di non poco conto: «Che senso ha fare la riforma elettorale adesso se poi dobbiamo approvare un sistema improntato sul monocameralismo? Significherebbe dover rimettere mano subito dopo alla legge».
E, nel frattempo, in quel pezzo del Pd che vorrebbe frenare il segretario si sta pensando di unificare alcune proposte di legge in materia di riforma elettorale per valorizzare le preferenze e indebolire il premio di maggioranza. Si tratta di progetti che potrebbero avere il via libera anche del Nuovo centrodestra, il che, naturalmente, metterebbe in difficoltà il segretario.
Il leader del Pd, infatti, non intende veramente strappare con la maggioranza, ma vuole allargarne il perimetro, che è cosa diversa. Piuttosto, sono i renziani a temere che il vero obiettivo dei bersaniani sia proprio quello di accollare al leader del Pd la colpa dello strappo, inducendolo a farlo con il loro «ostruzionismo strisciante», e addossandogli a quel punto la responsabilità della rottura della maggioranza e della caduta del governo.
Insomma, quella elettorale può trasformarsi per il segretario in una materia incandescente, anche perché alla Camera sulla riforma si può votare a scrutinio segreto. Per questo c’è chi gli suggerisce — finora inascoltato — di procedere spedito sul Mattarellum senza scorporo. Ma Renzi è convinto che ci voglia troppo tempo per ridisegnare i collegi.

Repubblica 22.12.13
Un dittatore è una sciagura, un vero leader una fortuna
di Eugenio Scalfari


OPPRESSA dai sacrifici e dalla disperazione, la gente ha perso ogni fiducia nel futuro ed è dominata dalla rabbia o schiacciata dall’indifferenza. Nel 2012 questi sentimenti erano appena avvertiti ma quest’anno e specie dall’inizio dell’autunno sono esplosi con un’intensità che aumenta ogni giorno. Siamo ancora lontani dal culmine ma indifferenza, disperazione e rabbia non sono più sentimenti individuali; sono diventati fenomeni sociali, atteggiamenti collettivi che sboccano nel bisogno di un Capo. Un Capo carismatico, un uomo della Provvidenza capace di capire, di imporsi, di guidare verso la salvezza di ciascuno e di tutti. Ha bisogno di fiducia? Sono pronti a dargliela. Chiede obbedienza? L’avrà, piena e assoluta.
L’uomo della Provvidenza non ha bisogno di conquistare il potere poiché nel momento stesso in cui viene individuato, il potere è già nelle sue mani.
Carisma e potere, fiducia e potere, obbedienza e potere: questo è lo sbocco naturale che non solo domina la gente orientando le sue emozioni, ma sta diventando anche l’obiettivo che molti intellettuali vagheggiano come la sola soluzione razionale da perseguire.
Non importa che la loro cultura sia stata finora di destra o di sinistra. L’uomo della Provvidenza supera questa classificazione, la gente che lo segue l’ha già abbandonata da un pezzo e gli intellettuali “à la page” se ne fanno un vanto.
Destra o sinistra sono diventati valori arcaici da mettere in soffitta o nelle cantine, materiale semmai di studio, ammesso che ne valga la pena. L’epoca moderna che ne fece i suoi valori dominanti è finita, il linguaggio è cambiato, il pensiero è cambiato o è del tutto assente.
Questa è al tempo stesso la diagnosi di quanto sta accadendo e la terapia risolutiva. L’ha scritto, ma non è né il solo né il primo, Ernesto Galli Della Loggia sul “Corriere della Sera” dello scorso martedì 17 con il titolo “Puntare tutto su una persona”. Ne cito il passo dominante: «Non inganni il mare di discorsi sulla presunta ondata di antipolitica. È vero l’opposto: diviene ancora più forte la richiesta d’una politica nuova, sotto forma di una leadership che sappia indicare soluzioni concrete... La leadership in questione però — ecco il punto — dev’essere garantita solo da una persona, da un individuo, non da una maggioranza parlamentare o da un’anonima organizzazione di partito. Nei momenti critici delle decisioni alternative è unicamente una persona, sono le sue parole, i suoi gesti, il suo volto che hanno il potere di dare sicurezza, slancio, speranza. Nei momenti in cui tutto dipende da una scelta, allora solo la persona conta. Dietro l’ascesa di Matteo Renzi c’è un tale sentimento. Così forte tuttavia che alla più piccola smentita da parte dei fatti essa rischia di tramutarsi in un attimo nella più grande delusione e nel più totale rigetto».
Io non so se Renzi sia e voglia essere il personaggio qui così analizzato ma so con assoluta esattezza e per personale esperienza che Della Loggia ha descritto con estrema precisione Benito Mussolini e il fascismo. Non un leader, ma un dittatore del quale Bettino Craxi fu soltanto una lontana e breve copia fantasmatica e Berlusconi una farsa comica durata tuttavia vent’anni come il suo lontano predecessore.
Io ho conosciuto bene che cosa fu la dittatura mussoliniana. Nacqui che Mussolini era al potere già da due anni, studiai nelle scuole fasciste e fui educato nelle organizzazioni giovanili del Regime, dai Balilla fino ai Fascisti universitari. Il liberalismo e il socialismo risorgimentali ci furono raccontati come una pianta ormai morta per sempre; i comunisti come terroristi che volevano distruggere a suon di bombe lo Stato nazionale. Nel gennaio 1943 fui espulso dal Partito dal segretario nazionale Scorsa per un articolo che avevo scritto su “Roma Fascista”, il settimanale universitario. Cominciò così il mio lungo viaggio nella ricerca d’una democrazia che fosse diversa da quella pre-fascista ed ebbi come compagni e guide in quel viaggio i libri di Francesco De Sanctis, Giustino Fortunato, Benedetto Croce, Omodeo, Chabod, Eugenio Montale. So di che cosa si tratta; so che in Italia molti italiani sono succubi al fascino della demagogia d’ogni risma e pronti a evocare e obbedire all’uomo della Provvidenza. Caro Ernesto, ti conosco bene e apprezzo la tua curiosità politica. Ma questa volta l’errore che hai compiuto evocando l’uomo della Provvidenza è madornale.
Il leader non è l’uomo solo che decide da solo col rischio che i fatti gli diano torto.
Quando questo avvenisse — ed èsempre avvenuto — le rovine avevano già distrutto non solo il dittatore ma il Paese da lui soggiogato.
Il leader non è un dittatore. È un uomo intelligente e carismatico, certamente ambizioso, attorniato da uno stuolo di collaboratori che non sono cortigiani né “clientes” o lobbisti; ma il quadro dirigente con una sua visione del bene comune che si misura ogni giorno con il leader.
Il Pci lo chiamò centralismo democratico e tutti i segretari di quel partito, dal primo all’ultimo, si confrontarono e agirono in quel quadro.
Togliatti era il capo riconosciuto, Enrico Berlinguer altrettanto, ma il confronto con pareri difformi era costante e quasi quotidiano, con Amendola, Ingrao, Secchia, Macaluso, Pajetta, Napolitano, Reichlin, Terracini, Alicata, Tortorella.
La formula nella Dc era diversa ma il quadro analogo, da De Gasperi a Scelba a Fanfani a Moro a Bisaglia a De Mita. E poi c’erano anche i socialisti di Pietro Nenni e c’era Ugo La Malfa che impersonava gli ideali di Giustizia e Libertà, del Partito d’Azione, di Piero Gobetti e dei fratelli Rosselli.
I leader riassumevano il quadro ed erano loro ad esporlo e ad esporsi, ma prima il confronto era avvenuto e la soluzione non era affatto d’un uomo solo ma di un gruppo dirigente che comprendeva anche personalità rappresentative della società, economisti, operatori della «business community», sindacalisti (ricordate Di Vittorio, Trentin, Lama, Carniti e prima ancora Bruno Buozzi che fu ucciso alle Fosse Ardeatine?).
Questo fu il Paese capace di affrontare gli anni difficili. Caro Ernesto, il tuo ritratto del Paese di oggi èpurtroppo esatto, ma la soluzione non è quella che tu indichi e fai propria, anzi è l’opposto e non credo sia necessario che io la ripeta qui, l’ho fatto già troppe volte. Dico soltanto che la rabbia sociale c’è, è motivata, va lenita con tutti i mezzi disponibili, ma va anche affrontata sul campo che le è proprio e questo campo è soprattutto l’Europa.
Molti che si fingono esperti e non lo sono affatto sostengono che l’Europa non conta niente e che — soprattutto — l’Italia non conta niente.
Sbagliano.
L’Europa è ancora il continente più ricco del mondo e se quel continente fosse uno Stato federale, il suo peso di ricchezza, di tecnologia, di popolazione, di cultura, avrebbe il peso mondiale che gli compete.
Quanto all’Italia, a parte il fatto che è uno dei sei Paesi fondatori dai quali la Comunità europea cominciò il suo cammino, essa trascina sulle sue (nostre) spalle il debito pubblico più grande del mondo. Questo è il nostro più terribile «handicap» che ci distingue da tutti gli altri ma è, al tempo stesso, un elemento di forza enorme perché se l’Europa non ci consente di adottare una politica di crescita, di lavoro, di equità, l’Italia rischia il fallimento economico e il dilagare della rabbia sociale. Ma se questo dovesse avvenire, salterebbe l’intera economia europea insieme con noi.
L’Italia non è la Grecia né il Portogallo né l’Irlanda né l’Olanda e neppure la Spagna. Italia ed Europa si salvano insieme o insieme cadranno.
Questo Letta deve dire e batta anche il pugno sul tavolo perché questo è il momento di farlo. Lo batta sul tavolo europeo ed anche su quello italiano. E non tralasci nulla, né a Romané a Bruxelles, che ci dia fin d’ora respiro e speranza. Faccia pagare i ricchi e gli agiati (tra i quali mi metto) e dia sollievo ai poveri, ai deboli, agli esclusi. Non si tratta di aumentare il carico fiscale; si tratta di distribuirlo. Questo è il compito dello Stato.
Ma finora — bisogna dirlo — chi chiede a Letta di alleviare il malcontento, si guarda bene di indicargli le coperture, le risorse immediatamentedisponibili. Ho grande stima di Enrico Letta e gli sono amico, ma è adesso che deve parlare e non dica che non può fare miracoli che solo i malpensanti gli chiedono. I benpensanti — che vuol dire la gente consapevole — gli chiedono di fare subito quel che può essere fatto subito. Tra l’altro, proprio in questi giorni, è stato raggiunto un accordo di grandissima importanza sull’unione bancaria: in buona parte è merito di Letta e soprattutto di Mario Draghi.
Tassare ricchi e agiati si può.
Dare una stretta all’evasione e al sommerso si può.
Votare a maggio non si può. Parlare di legge elettorale con Verdini e Brunetta non si può. Debbo spiegare perché? Ma lo sapete tutti il perché.
Quando Alessandro per vincere contro eserciti cinque volte più potenti del suo, schierava i suoi uomini a falange, c’erano soltanto i macedoni a maneggiare lancia e scudo. Brunetta e Verdini e Grillo non sono arruolabili nella falange. Strano che Renzi non lo sappia o se lo dimentichi. Può essere un buon leader e forse vincente al giusto momento, ma di errori ne fa un po’ troppi e sarebbe bene che smettesse di farli. È giovane, si prepari per il futuro e intanto crei uno staff preparato, non di ragazzi che debbono ancora impararea camminare.
Una parola tanto per concludere al capo di Confindustria, che dice di capire i forconi.
È un fatto positivo che Squinzi capiscai forconi e sono positive le richieste che fa per l’economia italiana.
Ma le imprese che rappresenta che cosa hanno fatto finora e da trent’anni a questa parte? Il “made in Italy” ha fatto, ma è una piccola parte dell’imprenditoria italiana che comunque merita d’esser segnalata e appoggiata. Ma il resto?
Non ha fatto nulla. Ha tolto denari alle aziende abbandonando il valore reale per dedicarsi all’economia finanziaria. Ha ristretto le basi occupazionali; ha distratto i dividendi; spesso ha evaso; spesso ha delocalizzato. Non ha inventato nuovi prodotti e ha usato i nuovi processi produttivi per diminuire gli occupati.
A me piacerebbe sapere da Squinzi che cosa ha fatto dagli anni Ottanta il nostro sistema. Poi ha tutte le ragioni per chiedere, ma prima ci documenti su che cosa i suoi associati hanno dato. Così almeno il conto tornerà in pari.
Quanto al sindacato, vale quasi lo stesso discorso. Il sindacato rappresentava una classe che da tempo non c’è più. Adesso rappresenta i pensionati. Va benissimo, i pensionati hanno diritto ad essere rappresentati e tutelati, ma poi ci sono i lavoratori, gli anziani e i giovani, gli stabili e i precari.
A me non sembra che il sindacato se ne dia carico come si deve. Ripete le stesse cose; dovrebbe cercare il nuovo.
Si sforzi, amica Camusso. Questa è l’ora e il treno, questo treno, passa solo una volta.

il Fatto 22.12.13
La casta sotto l’albero
di Antonio Padellaro


“Non sono Babbo Natale”, ha detto Enrico Letta che malgrado l’aria da studente secchione possiede senso dell’umorismo e propensione a prendere per i fondelli gli italiani. Eppure le dieci grandi sorelle delle slot machine avevano brindato in anticipo al regalone del governo, la norma che penalizza regioni e comuni se contrari a limitare l’installazione delle micidiali macchine succhiasoldi. Purtroppo per il premier nipote e compagnia la porcata è stata scoperta in tempo ma l’annunciata retromarcia non cancella il profilo di un governo volpino che privo di una maggioranza forte dopo l’uscita dei berluscones tenta di guadagnare qualche straccio di consenso distribuendo favori a piccole e grandi lobby. É un Babbo Natale un po’ losco quello che toglie ai poveri per dare alla casta, in queste ore protagonista a Montecitorio dove gli onorevoli deputati si battono impavidi a protezione delle sostanziose indennità, con le eccezioni di M5S e della Lega che si è astenuta. É il solito gioco delle tre carte: si fa finta di cancellare il finanziamento pubblico dei partiti ma si sostituisce con un marchingegno che succhia gli stessi quattrini, a carico dei contribuenti neanche a dirlo. Mentre ai costi della politica si fa fronte restituendo a un potente immobiliarista i ricchi canoni dovuti per l’affitto di vasti uffici parlamentari, incautamente aboliti da un emendamento del solito grillino. Passano gli anni e nulla cambia. Anche se, dice la Confindustria, la crisi ha provocato “danni commisurabili solo a quelli di una guerra”, anche se i disoccupati sono raddoppiati e i poveri sono aumentati di tre milioni, lassù si fa finta di niente. Lorsignori si sentono invulnerabili, ancora di più dopo che la protesta dei forconi a Roma si è rivelata numericamente poca cosa. La verità è che una classe cosiddetta dirigente così priva di senso della misura e autocontrollo rischia di fare impazzire il Paese. Quando appaiono in televisione è l’esasperazione che leggiamo negli occhi e nelle grida degli operai senza più lavoro, dei commercianti senza più attività, degli studenti senza tutto. Dopo le feste quegli assembramenti torneranno, sempre più numerosi e arrabbiati. E allora ci sarà d’aver paura.

Corriere 22.12.13
Finocchiaro si sfoga: la mia esclusione?
Noi non siamo rami da tagliare
intervista di Dino Martirano


ROMA — Alla senatrice Anna Finocchiaro tutto si può dire tranne che abbia perso la voglia di combattere, pure con grinta, la sua battaglia di dirigente politico di lungo corso: «La rottamazione? Direi che l’ho metabolizzata, e anche il fatto di non esser più nella direzione, come Rosy Bindi e tanti altri, l’ho trovato un fatto naturale quando un giovane gruppo dirigente vuole imprimere una forte svolta al partito. Direi che questa esclusione l’avevo messa nel conto... Però, e questo è il punto, io nelle relazioni personali e in quelle politiche non sono stata abituata all’aggressività e talvolta anche alla volgarità...».
L’accusa è rivolta alla nuova leva e al segretario Matteo Renzi che ora guida il Pd?
«Penso che questo gruppo di giovani che vuole esercitare pienamente la propria funzione rischi di commettere un errore. Sbaglia chi ritiene che la qualità dell’esperienza e il bagaglio di relazioni politiche vadano buttate via. Sarebbe un errore tragico, un impoverimento del partito, che poi alla fine si paga in termini di rinuncia all’autorevolezza, alla forza di convincimento, alla capacità di perseguire il risultato. Non siamo rami secchi da tagliare...».
Lei, come presidente della I commissione del Senato, ha avuto in carico la legge elettorale. Ora l’iter, anche su input di Renzi, è stato spostato alla Camera: i deputati sapranno fare meglio dei senatori?
«Si è definito il Senato una palude. Ma è stato semplicemente l’effetto di una decisione politica che aveva un nome preciso: doppio turno proposto dal Pd. Purtroppo quel testo non ha avuto la maggioranza...».
Alla Camera, ora, i termini della questione non cambiano.
«Non cambiano, malgrado Renzi stia facendo confusione sull’elezione del “sindaco d’Italia”... Comunque il dato politico è che il Pd sembra aver scelto Forza Italia, un partito di opposizione ostile al doppio turno, come interlocutore privilegiato. Addirittura in conflitto con l’Ncd che è nostro alleato».
Ha capito qual è la legge elettorale che vuole il segretario?
«Se il fine è, come ha dichiarato Renzi, quello di sapere la sera delle elezioni chi ha vinto, allora lo schema non può essere che quello del doppio turno. Solo il doppio turno garantisce la governabilità mentre il premio di maggioranza può non essere raggiunto».
Quindi, quando lei sente parlare di «sindaco d’Italia» intende doppio turno di collegio o di coalizione?
«Quando sento parlare di “sindaco d’Italia” la prima cosa che mi viene in mente è il semipresidenzialismo. Cioè l’idea che il “sindaco d’italia” non sia altri che il presidente della Repubblica o il premier eletto direttamente. E credo che questo sia il piatto ricco al quale è interessato Berlusconi anche perché noto che dai discorsi di Renzi e di Letta è sparito ogni riferimento alla forma di governo. Così, quasi quasi, mi viene l’idea che ci sia la voglia di fare al contrario: prima la legge elettorale e poi, per default, la riforma della forma di governo. E questo significa una spinta forte verso il semipresidenzialismo».
La preoccupa che Renzi stia trattando con Forza Italia?
«La maggioranza mi sembra già in subbuglio per questa iniziativa. E registro una punta di amarezza: al Senato, il testo concordato con il Pdl, allora alleato di governo, fece gridare all’”inciucio”. Ora invece Renzi che tratta con Forza Italia, che sta all’opposizione, è “genio politico”. Se questo è il metro... Mi amareggia. In un passaggio così difficile non tenere in considerazione la voce degli alleati e cercare una interlocuzione prioritaria con il partito di Berlusconi qualche problema di stabilità lo crea. Oltre al fatto che sceglierlo come interlocutore gli ridà un peso politico e strategico».
Le piace il Mattarellum corretto che tanto va di moda?
«È la mia proposta depositata a maggio. Però andava bene prima che nascesse la destra di Alfano il cui arrivo abbiamo salutato con favore sulla strada di una destra moderna. Ecco, il Mattarellum sarebbe un regalo per Berlusconi e significherebbe la morte politica di Alfano».
Che impatto ha la linea Renzi sui gruppi del Pd?
«Non ne abbiamo mai discusso. Immagino che ne avremo occasione, come si fa nei partiti. Nella nostra storia, i gruppi parlamentari non sono solo gli esecutori istituzionali di scelte politiche che vengono adottate senza ascoltarli. Non siamo amanuensi. I gruppi non potranno essere accantonati, andranno anche ascoltati. Fare leggi non è così facile come comunicare. Gli slogan spesso sono efficaci. Ma poi bisogna trovare le maggioranze in Parlamento»».

Corriere 22.12.13
Show in Aula dei 5 Stelle: ecco il funzionario lobbista
di Alessandra Arachi


ROMA — La denuncia è stata fatta ieri mattina nell’aula di Montecitorio con tanto di cartelli, foto, didascalia: «Tivelli, caro Pd qui decido tutto io». I deputati del Movimento 5 Stelle hanno rischiato l’espulsione dall’Aula per fare questa denuncia. Per smascherare quello che, a loro dire, altro non era «se non un mercante del tempio».
Ma andiamo con ordine. Luigi Tivelli, funzionario di lungo corso dei palazzi del potere, 32 anni a servizio bipartisan di svariati governi della nostra Repubblica. Secondo Giorgio Sorial, deputato di M5S, è lui il protagonista di un’intercettazione scandalosa, dove si vantava di aver fatto lobby per bloccare i tagli annunciati alle pensioni d’oro.
Un audio che giovedì scorso è finito nel blog di Beppe Grillo e dove si sentiva il lobbista, ancora misterioso, che si vantava di aver fatto cambiare un emendamento del pd Roberto Speranza che avrebbe inciso sulle pensioni d’oro: «Ho dovuto scatenare mari e monti...», avrebbe detto fra le altre cose il misterioso lobbista che da ieri ha un nome, Luigi Tivelli, appunto. E avrebbe aggiunto: «È stata una battaglia di lobby... Io sono stato questa settimana in full immersion , giorno e notte, avevo una marea di gente che mi chiamava chi perché c’hanno i privilegi, che fanno i consiglieri di Stato, i professori universitari, ste cose qua....».
Tivelli non nega di essere lui l’autore di quella telefonata, intercettata dal M5S perlomeno. «Ma era evidente che stavo parlando al telefono usando delle iperbole. Ero in linea con un amico avvocato, il mio amico del cuore», dice ed è basito dal fatto che quella telefonata sia stata intercettata nella saletta vicino alla commissione Bilancio della Camera. Luigi Tivelli ammette la telefonata, secondo lui volutamente dai toni esagerati, ma nega decisamente di aver esercitato azione di lobby per le pensioni d’oro. «Ero andato a seguire la commissione Bilancio per motivi letterari», afferma categorico, spiegando che adesso sta scrivendo un libro dove un capitolo importante è dedicato alla commissione Bilancio, quella della seconda metà degli anni Ottanta, quella guidata da Paolo Cirino Pomicino. E adesso voleva vedere come erano cambiati i tempi. In ogni caso, gli Stellati fanno sapere che la telefonata potrebbe essere trasmessa ai magistrati.
È serafico e deciso Luigi Tivelli: «Non capisco come i neofiti del Parlamento possano arrivare a fare accuse così dirette». I neofiti sarebbero i deputati del Movimento 5 Stelle, visti dagli occhi di una persona che attraversa i palazzi del potere da più di trent’anni, ora come consigliere parlamentare del presidente del Consiglio, ora come capo gabinetto del ministero dei Rapporti con il Parlamento, ora come portavoce di ministri vari, ora come membro di svariate commissioni governative.

l’Unità 22.12.13
Metodo Stamina
L’incredibile storia di una crudele illusione
di Pietro Greco


CRONACA DI UN RAPPORTO ANNUNCIATO. LA RIVELAZIONE DE «LA STAMPA» SUL RAPPORTO top secret elaborato lo scorso 4 dicembre dai medici degli Spedali Civili di Brescia sulle cartelle cliniche dei 36 malati trattati con il cosiddetto «metodo Stamina», pone fine si spera in maniera definitiva a una vicenda che, vista dall’estero, è risultata persino difficile da credere.
Un signore, laureato in psicologia, senza esperienza scientifica e/o medica nel settore, sostiene di aver messo a punto un metodo, a base di cellule staminali mesenchimali, capace di curare decine di malattie degenerative. Chiede di essere creduto sulla parola, perché non rivela né i risultati di test e neppure il contenuto della sua pozione. Incredibilmente un ospedale, quello di Brescia, applica il metodo a un certo numero di pazienti. I genitori di due bambini e un adulto sostengono di aver ottenuto miglioramenti dopo la cura. Ma ora gli stessi Spedali Civili rivelano che nessun medico ha trovato il minimo riscontro a queste affermazioni.
I documenti pubblicati da La Stampa rivela che gli stessi medici degli ospedali Civili hanno utilizzato il trattamento non seguendo certo alla perfezione le normali procedure cliniche. Non registrando, per esempio, la reale condizione dei pazienti prima del trattamento. Sulla base di affermazioni soggettive da parte dei genitori di due bambini e di un adulto si scatena una campagna di stampa a favore della cura miracolosa. Molti genitori di bambini ammalati e senza speranza, si aggrappano a questo appiglio e chiedono che il «metodo Stamina» venga somministrato anche ai loro figli.
Incredibilmente un numero elevato di tribunali, contro il parere dell’intera comunità scientifica nazionale e internazionale, ordina che il «metodo Stamina» venga somministrato come «cura compassionevole». Molti pazienti protestano, perché questa decisione non è uguale per tutti, ma solo per alcuni. E non si sa bene sulla base di quali considerazioni un tribunale dica sì e un altro no. Grande e inaccettabile l’incertezza del diritto. Il Ministero nomina una commissione scientifica perché verifichi se è il caso di procedere comunque a una sperimentazione. La commissione studia la vicenda e sostiene che non ci sono le condizioni minime per iniziare il trial. Incredibilmente il Tar del Lazio ordina al Ministero della salute di nominare una nuova commissione, paritetica. Ovvero con una congrua delegazioni di ricercatori «favorevoli» alla cura. Intanto Vannoni continua a rifiutare di svelare il contenuto della sua pozione. E, soprattutto, a centinaia di ammalati viene data una falsa speranza.
La prima domanda, al termine (speriamo) di questa triste e incredibile vicenda, è: chi ripagherà gli ammalati e i loro parenti per questa crudele illusione? Questa vicenda, più grave persino di quella Di Bella, che divampò nel Paese 15 anni fa, è stata un formidabile cortocircuito tra medicina, comunicazione di massa e diritto a danno di decine e decine di ammalati. Non solo alcuni medici, ma addirittura un grande ospedale hanno seguito procedure non ortodosse. Dovrebbero spiegare perché. Alcuni mass media hanno contribuito a diffondere le false speranze. Molti tribunali hanno pensato di potersi sostituire alla medicina clinica e alla scienza biomedica, indicando quali cure devono essere somministrate col denaro pubblico e addirittura chi e come deve condurre esperimenti scientifici.
Per un volta l’unica componente a comportarsi bene è stata la politica. Il Ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ha cercato di opporsi a questo delirio. Onore al merito. Tutte le persone coinvolte in questa sconcertante vicenda – medici, giornalisti e giudici – dovrebbero assumersi le propria responsabilità. Tuttavia è proprio la politica a doversi muovere per evitare che in futuro succedano fatti analoghi. In particolare è il Parlamento, ascoltata la comunità scientifica, che deve stabilire bene, con una legge chiara e inequivocabile, cosa debba intendersi per cura compassionevole. E deve stabilire che non tocca ai magistrati, ma, appunto, alla comunità scientifica, stabilire, con chiarezza e trasparenza, cosa è scienza e cosa non lo è. È questo l’unico modo per ripagare, almeno in parte, gli ammalati per le false speranze che sono state date loro.

l’Unità 22.12.13
Nel Cie di Ponte Galeria in otto si cuciono la bocca
I giovani maghrebini sono in buone condizioni
Dilaga la protesta contro i centri di detenzione
Marino e Sel: «Abrogare la Bossi-Fini, la privazione di libertà senza reati
è insopportabile»
di Jolanda Bufalini


ROMA Prima in quattro, poi in otto, si sono cuciti le labbra, in segno estremo di protesta, nel Cie di Ponte Galeria, alle porte di Roma. Un ago, sembra, ricavato dalle parti metalliche di un accendino, filo sfilato dalle coperte in dotazione del centro. Protesta estrema, sembra, per la detenzione, la privazione della libertà che può durare fino a 18 mesi, senza che venga contestato alcun reato, e la possibilità in qualsiasi momento di essere messi su un aereo e riportati in patria.
Sull’onda dell’emozione di ciò che è accaduto a Lampedusa, dove i richiedenti asilo venivano lavati e disinfettati nudi, in gruppo, al freddo, in mdo fortemente lesivo della loro dignità umana, la protesta di ponte Galeria ha rinfocolato la protesta contro la Bossi-Fini, contro il reato di clandestinità, che consente di trattenere anche chi non ha commesso nulla di male, per il solo fato di non avere i documenti in regola. A Ponte Galeria è andata una delegazione di Sel. Filiberto Zaratti, deputato,
ha spiegato che «alla testa della protesta ci sarebbe un giovane imam tunisino. Tunisini sarebbero infatti i primi quattro che si sono cuciti la bocca, poi si sono aggiunti quattro marocchini». Ieri sera gli otto sono stati visitati da un medico che ha affermato di averli trovati in buone condizioni e lo stesso Zaratti ha riferito che le ferite sono molto superficiali. «C’è un forte clima di tensione», ha detto il parlamentare. «La nostra richiesta resta quella di chiudere i Cie, sono dei veri e propri centri di detenzione ha aggiunto Zaratti per persone che non sono accusate di alcun reato. Gli operatori ci dicono che i migranti qui vengono detenuti per un periodo medio di 4 mesi».
A rafforzare la protesta la testimonianza di una suora: «Io sono una religiosa e sono contro la violenza. Ma se vivessi così non so dire se mi comporterei diversamente da loro. Obbligare delle persone a restare senza fare niente per mesi vuol dire esasperarle. Sono costretti ad aspettare uno che ti accenda la sigaretta e l’altro che ti autorizzi a farti la barba. Neanche in carcere si fa così». La suora lavora per l’ufficio pastorale migranti della diocesi di Torino ed è volontaria al Cie del capoluogo piemontese. «Io racconta sono stata 24 anni in Tunisia. Lo scopo delle comunità religiose in questi Paesi islamici è proprio creare dei ponti. Siamo riusciti anche a creare rapporti di amicizia. Ma qui invece siamo riusciti a farci odiare. La gente che è lì dentro odia l’Italia e odia gli italiani». «Il Cie continua crea delle situazioni assurde, di sofferenza e umiliazione. Non si può obbligare 25-30 persone a stare insieme 24 ore su 24. C’è solidarietà tra loro ma c’è anche tensione. Ho appena parlato con un ragazzo che minaccia di impiccarsi, ho cercato di tranquillizzarlo. Due giorni fa si è impiccato un altro ragazzo. Mi hanno detto che si è salvato e che lo hanno liberato. Ma non riesco a capire dove sia finito. C’è una ragazza da 20 giorni in isolamento. Ha dei problemi psichiatrici e la tengono lì, non va benema, d’altra parte, se la lasciano andare fuori finisce in strada, col freddo che fa. Mi sto informando per capire se c’è una struttura che la accolga». «Gli scioperi della fame racconta sono continui». Ricorda «un ragazzo ridotto al punto che quando è stato ricoverato non riusciva più a camminare».
Un’altra denuncia viene da Khalid Chaouki, responsabile Pd del dipartimento nuovi italiani, che ha fatto due interrogazioni parlamentari insieme a Luigi Manconi: «Un cittadino tunisino 29enne il 5 agosto 2013 avrebbe subito un’aggressione ingiustificata con calci e pugni e con lo sfollagente da due agenti delle forze dell’ordine italiane, mentre veniva accompagnato da Ragusa al Cie di Pian del Lago, a Caltanissetta per poter accedere alla procedura di emersione dal lavoro in nero».
La protesta di Ponte Galeria ha suscitato la reazione indignata del sindaco di Roma Ignazio Marino, su Facebook: «Si deve riaprire il dibattito nazionale su questi luoghi disumani e su una legge, la Bossi-Fini, che equipara a criminali chi fugge da guerre, violenze e povertà. Non possiamo, e non vogliamo abituarci alle tragedie. Dobbiamo, impegnarci tutti contro l’indifferenza».

Repubblica 22.12.13
Rivolte, pestaggi e atti di autolesionismo
“I centri per l’espulsione degli extracomunitari sono polveriere”
La gabbia per farsi la barba e altri orrori “In quei lager ogni diritto è sospeso”
di Vladimiro Polchi


ROMA — «I Cie sono delle polveriere pronte a esplodere». A parlare è un funzionario di polizia che lavora come «guardiano in un lager per migranti ». È il buco nero dei centri d’espulsione: rivolte, atti di autolesionismo, pestaggi, fughe. «Indipendentemente dagli enti gestori - sostiene Alberto Barbieri, coordinatore di Medici per i diritti umani - i Cie sono incapaci di garantire il rispetto dei diritti fondamentali e inutili nel contrasto all’immigrazione irregolare».
LA GABBIA DI LAMEZIA TERME
Nel maggio di quest’anno un team di Medici per i diritti umani (Medu) ha pubblicato un rapporto sui centri in Italia. «Nel Cie di Lamezia Terme - raccontano - l’ente gestore ha messo una gabbia nel cortile dove i trattenuti vengono costretti a entrare per potersi radere, alla vista delle forze dell’ordine, e questo per evitare atti di autolesionismo». E ancora: nel Cie di via Corelli a Milano «la situazione di costante tensione ha portato a numerosi episodi di rivolta che hanno reso inutilizzabili quattro dei cinque settori della struttura. Critica è l’assenza, da circa un anno, di ogni servizio di assistenza psicologica e sociale».
GLI IMPICCATI DI TORINO
Dal recente rapporto della commissione diritti umani del Senato a quello del commissario europeo Thomas Hammarberg, i Cie sono da anni al centro delle polemiche. «Ho appena parlato con un ragazzo che minaccia di impiccarsi, ho cercato di tranquillizzarlo. Due giorni fa si è impiccato un altro, adesso mi hanno detto che si è salvato». A parlare è suor Anna (il nome è di fantasia), volontaria al Cie di Torino. «C’è una ragazza da venti giorni in isolamento - prosegue - ha dei problemi psichiatrici e quindi la tengono lì. E gli scioperi della fame sono continui».
LE RIVOLTE IN FRIULI
«Il Cie di Gradisca - racconta Gabriella Guido, portavoce della campagna nazionale “Lasciatecientare”, che chiede la chiusura dei centri e la revisione della Bossi-Fini - è stato a lungo un territorio di nessuno, privo di controlli esterni. Ricordo che c’è ancora un ragazzo in coma, dopo essere caduto ad agostodal tetto della struttura durante una protesta. Stando alle testimonianze dei suoi compagni, era imbottito di psicofarmaci».
I SETTE CIE FANTASMA
Stando all’analisi dei Medici per i diritti umani, «attualmente solo sei dei tredici Cie italiani sono effettivamente funzionanti». I Cie di Trapani (Serraino Vulpitta) e quello di Brindisi non funzionano da oltre un anno. Il centro di Lamezia Terme è stato chiuso nel novembre 2012. I Cie dell’Emilia Romagna sono stati chiusi a febbraio (Bologna) e ad agosto (Modena) per lavori di ristrutturazione, dopo che le prefetture avevano revocato gli appalti al ribasso. Il Cie di Crotone è stato chiuso al principio di agosto dopo la morte di un giovane migrante e la successiva rivolta dei trattenuti. Il centro di Gradisca d’Isonzo è stato svuotato a inizio novembre dopo mesi di proteste.
AGENTI IN PRIMA LINEA
Durante l’indagine svolta da Medu, le condizioni di lavoro degli operatori degli enti gestori (per lo più privati) e degli agenti sono apparse critiche, per la difficoltà a gestire quelle che un funzionario di polizia ha definito «polveriere pronte a esplodere». L’introduzione dei bandi di gara al ribasso (fino al 30% in meno) sembra aver avuto l’effetto di un detonatore: dal 2012 il governo ha infatti adottato come unico criterio per la gestione dei centri, quello dell’offerta economica minima.
IL FLOP DELLE ESPULSIONI
Lo scopo dichiarato dei Cie è quello di rimpatriare gli irregolari. Ebbene, nel corso del 2012 solo la metà dei circa 8mila trattenuti nei centri è stata espulsa: in sostanza l’1% dei 326mila irregolari stimati dall’Ismu al primo gennaio 2012. Scarsi risultati a fronte di alti costi, se si pensa che per tutti i centri per immigrati, l’Italia spende oltre un milione 800mila euro al giorno. «Il prolungamento dei tempi massimi di trattenimento da 60 a 180 giorni (che risale al 2009) e successivamente a diciotto mesi (dal 2011) denunciano i medici che hanno visitato i centri - non ha avuto alcun effetto in termini di efficacia nei rimpatri».

Repubblica 22.12.13
Noi e loro, muti per l’orrore
di Conchita De Gregorio

DICE: sono marocchini, tunisini. Se ne stiano al paese loro. Cosa volete che ce ne importi degli africani, non vedete che non c’è da mangiare per noi. Dice: non li vedete i forconi in piazza, e voi ancora lì al tepore delle vostre belle case a menarla con la solidarietà, con l’accoglienza. Dice: pensate agli italiani, prima. Va bene, allora cominciamo da qui. Da una conversazione qualsiasi di quelle che toccano ogni giorno, a volerle ancora sostenere.
Quando sei in fila all’Agenzia delle entrate o alle Poste a pagare un bollettino, al forno a comprare il pane. Non ce n’è per noi, cosa volete che ce ne importi di quelli, che poi alla fine sono anche mezzi criminali. Sempre, quasi sempre. Va bene. Allora diciamo che sì, è così: se non ti salvi tu non puoi salvare gli altri, te lo spiegano bene ogni volta che l’aereo decolla. Prima assicurati di aver messo la tua maschera di ossigeno e il tuo giubbotto, poi aiuta il vicino. Il bambino, la donna incinta, il vecchio. Non importa. Prima metti al sicuro te stesso. Perfetto, è giusto. Se poi c’è di mezzo la paura, la diffidenza, il sospetto che il vicino possa essere o diventare un nemico, figuriamoci se c’è bisogno di dirlo. Sono anche mezzi criminali, quasi sempre. La tua maschera di ossigeno, prima.
Però poi arriva, un giorno, il gesto che azzera la rabbia livida del tuo personale benessere negato, il gesto che ti ricorda cosa siamo, tutti, prima dei nomi che ci danno e che ci diamo: esseri umani, siamo. Lo riconosci, quel gesto, perché lascia muti. La conversazione consueta si spegne in uno sguardo che si abbassa, una voce che borbotta, la replica che tarda ad arrivare, non arriva. Cos’hanno fatto? Si sono cuciti la bocca. Come cuciti? Cuciti. Ma le labbra? Le labbra, una insieme all’altra. E come? Con una specie di ago ricavato dal ferro di un accendino, e col filo di una coperta. Otto hai detto? Otto. Quattro tunisini e quattro marocchini. I nomi no, non li so. Non li dicono mai i nomi degli stranieri, solo il numero. C’è una ragione. Il nome ti porta diritto dentro una storia, dentro una vita. Il numero fa numero, e basta. Però dicono l’età. Questi sono ragazzi: vent’anni i più giovani, trenta i più vecchi. Hai detto venti? Venti, sì. Ce l’avete un nipote divent’anni? Come vi sentireste se tornando a casa lo trovaste con la bocca cucita con ago e filo? Ve lo riuscite ad immaginare? Ecco, così. Tornate e lo trovate col sangue che cola dalla bocca cucita. Allora magari uno torna a casa e va a vedere su Internet le foto del posto dove è successo, il Cie di Porta Galeria a Roma. Cie, che vuol dire Centro di identificazione ed espulsione. Ci si può stare fino a un anno e mezzo in quel posto lì, con le sbarre delle gabbie ricurve verso l’interno, come quelle delle bestie pericolose in certi zoo. Che ora si chiamano bioparchi, in genere, e quelle gabbie non ci sono più nemmeno per le tigri. Allora magari anche se è il sabato prima di Natale e devi andare a comprare il bagnoschiuma per tua nuora, con quei pochi soldi che hai, ecco magari allora ci pensi che in Italia c’è una legge che si chiama Bossi-Fini (ha proprio i nomi di quelli che l’hanno fatta, Bossi e Fini, se ti concentri te li ricordi tutti e due) che autorizza a tenere in quel lager degli esseri umani che hanno l’età di tuo figlio, di tuo nipote, e certo anche tuo figlio e tuo nipote non hanno lavoro ma almeno non vengono annaffiati nudi d’inverno con una sistola, almeno parlano una lingua che la gente intorno capisce, almeno hanno te e se sono in pericolo ti possono chiamare al telefono, vienimi a prendere che c’è un problema serio. Loro no. Quelli che si sono presi le labbra con la mano sinistra e con la destra se le sono cucite non hanno nessuno da chiamare: si possono solo dare fuoco, e certo anche gli italiani lo fanno a volte, si possono ammazzare, anche questo capita senza bisogno di venire dall’Africa, o anche — ti possono dire con questo speciale martirio di ago e filo — nemmeno la parola gli è rimasta più per gridare. La parola, che viene dal pensiero e distingue l’uomo dalla bestia. Non serve più a niente nemmeno quella. Ecco, magari dieci minuti, allora, prima di uscire a comprare il pandoro, ci pensi.

Corriere 22.12.13
Senza migranti il mondo si ferma
di Danilo Taino


Qualsiasi cosa si pensi dell’immigrazione, occorre sapere che senza migranti pezzi considerevoli di mondo si fermerebbero. Due esempi, uno che riguarda i Paesi di origine di chi parte e uno che riguarda i Paesi di destinazione. Le rimesse degli emigranti — cioè il denaro che mandano a casa — sono quasi triplicate, tra il 2000 e il 2013 , da 180 a 511 miliardi di dollari in termini reali (cioè a valore del dollaro stabile al livello di quest’anno). Se si considera la parte di denaro (il 77% contro il 60% del 2000 ) che va ai Paesi a basso o medio reddito (la cui media pro-capite è sotto i 12.615 dollari l’anno, secondo la definizione della Banca mondiale), si tratta di tre volte quanto gli aiuti internazionali destinano loro. Un motore essenziale, per lo sviluppo di queste economie: per i Paesi a basso reddito (in media inferiore ai 1.036 dollari l’anno) le rimesse degli emigrati rappresentano l’ 8% del Prodotto lordo, per quelli a reddito medio il 2% . I dati, basati su statistiche della Banca mondiale, sono stati elaborati in uno studio del centro di ricerche americano Pew Research.
È interessante notare come siano i Paesi a reddito medio (1.036-12.615 dollari, per esempio Cina, India e Messico) a giocare una parte sempre più consistente nel fenomeno migratorio. Su 232 milioni di migranti (erano 154 milioni nel 1990 , sempre il 3% della popolazione mondiale), il 58% è nato in Paesi oggi a medio reddito (il 48% nel 1990 ) e il 15% in nazioni a basso reddito (18% nel 1990 ): quelli da Cina, India e Messico sono passati da 16 a 37 milioni . Le rimesse verso i Paesi a reddito medio sono aumentate dal 58% del 2000 al 71% del 2013 , quelle dei Paesi più poveri dal tre al 6% . Viene da pensare (ma la correlazione andrebbe approfondita) che le rimesse abbiano giocato un ruolo molto rilevante nella crescita economica dei Paesi oggi giudicati emergenti.
Vista dall’angolo dei Paesi di destinazione degli emigranti, è evidente che la parte maggiore del flusso (il 69% rispetto al 57% del 1990) finisce nei Paesi ad alto reddito (in media superiore a 12.616 dollari l’anno), mentre il 26% si stabilisce in nazioni a reddito medio e il restante 5% nei Paesi poveri. In questo quadro, ci sono nazioni che senza gli immigrati non sarebbero in grado di funzionare: l’84% degli abitanti degli Emirati Arabi Uniti è nato all’estero; in Qatar, il 74% ; il 60% in Kuwait; il 55% in Bahrein. Esclusiva del Golfo Persico, si può pensare. Niente affatto: a Singapore, il 43% della popolazione è immigrata, il 40% in Giordania, il 39% a Hong Kong. E il 29% in Svizzera. Gli stessi Stati Uniti — di gran lunga il maggior ricevente di immigrati — conta quest’anno 45,8 milioni di nati all’estero su 317 milioni di abitanti: il 14,4% . La vicina Germania, 9,8 milioni su 81 : il 12% . L’argomentazione secondo la quale gli immigrati sarebbero una delle cause della disoccupazione palesemente non sta in piedi, essendo le percentuali ben più alte del tasso di disoccupazione stesso. Senza questa forza lavoro, anzi, alcuni Paesi non funzionerebbero proprio. E gli altri avrebbero problemi serissimi.

il Fatto 22.12.13
La renziana Eataly punta ai soldi della Cassa Depositi
Il gruppo alimentare di Oscar Farinetti ha avviato i contatti col fondo strategico che è pronto ad investire, sognando lo sbarco in borsa
di Stefano Feltri


Oscar Farinetti è l'imprenditore più ricercato del momento, il legame con un Matteo Renzi in piena scesa rende la sua Eataly ancora più invitante. Anche per il Fondo strategico italiano, cioè la Cassa depositi e prestiti, il braccio finanziario del ministero del Tesoro (partecipato dalle Fondazioni bancarie). Il Sole 24 Ore di ieri riferiva l'indiscrezione che il Fondo strategico guidato da Maurizio Tamagnini è pronto a investire su Farinetti. E dal Fondo confermano: “É soltanto un pourparler, l'ipotesi ha un senso ma la trattativa non è ancora iniziata”. Non è chiaro se sia stato Farinetti a bussare alla porta del Fondo, o se l'input sia partito dalla Cassa depositi e prestiti su cui regna il presidente Franco Bassanini con l'amministratore delegato Giovanni Gorno Tempini.
DI CERTO LA CDP VEDE con interesse l'ingresso di Eataly nel portafoglio investimenti del Fondo, per ora un po’ eterogeneo: dalla banda larga con Metroweb alla società di servizi bancari Sia, alla società di componentistica per il petrolio Valvitalia. La Cassa avrebbe voluto comprare la catena di supermarket Finiper, “la grande I”, ma l'operazione si è rivelata più complessa del previsto. E allora si cambia: gli spazi espositivi di Eataly che mettono in vetrina i prodotti dell'agroalimentare di qualità, è l'ideale per l'approccio Cdp, secondo cui l'Italia è troppo debole nella grande distribuzione, col risultato che i francesi dominano il settore promuovendo sugli scaffali prodotti gestiti da loro a scapito del Made in Italy. Il gruppo di Farinetti ha conti buoni, si avvia ai 300 milioni di fatturato, ha una struttura azionaria un po’ farraginosa per gli standard del fondo ma prospettive di sviluppo interessanti. Da tempo, a Torino, circola voce che Farinetti stia preparando la successione, per dedicarsi a valorizzare il vino dopo prosciutti e formaggi, oppure per fare il ministro, chissà, in un governo Renzi. Portare il gruppo in Borsa, forte dell'investimento del Fondo strategico e di un testimonial come il nuovo segretario del Pd, è un'ipotesi allettante: ci sono tutte le premesse per ripetere il boom di Moncler dei giorni scorsi, c’è una storia di successo che piacerà sicuramente a giornali e piccoli risparmiatori. E per Farinetti non c’è modo migliore per uscire di scena che incassare qualche centinaio di milioni di euro vendendo a Piazza Affari quote della holding Eataly srl (di cui Eatinvest, la scatola a monte della catena, detiene il 79 per cento). Vedremo.
PER ORA L’UNICA certezza è che il Fondo strategico italiano non è più considerato, come in origine, l’ultima barriera pubblica a difesa delle aziende strategiche e dei loro asset più preziosi (è rimasto fuori dalla partita Telecom e non si occupa del destino della rete fissa). Ormai il Fondo di Tamagnini, con i suoi 4,4 miliardi di euro di risorse, si muove come un private equity vero, capitali in cerca di affari, con una prospettiva di medio periodo e più pazienza dei loro concorrenti perché rispondono a un azionista pubblico. Alla Cassa depositi e prestiti circola l’ipotesi che la notizia dei colloqui tra Fsi e Farinetti sia stata divulgata proprio da uno dei tanti fondi privati che ambiscono a investire in Eataly. “Il Fondo ha incontrato oltre 300 aziende in questi mesi, non tutte note come quella di Farinetti”, dicono da Fsi. Ma qualcuno vuole bruciare la Cdp e tuffarsi su Eataly.

il Fatto 19.12.13
Renziani. Centinaia di contratti precari. E il premier apre ai neoassunti senza art 18:“Discutiamone”
Forza Eataly: l’azienda modello di Farinetti paga 8 euro all’ora
Questo è il mondo del lavoro di Oscar Farinetti che tanto piace a Renzi
Chissà se sarà d’ispirazione per il nuovo “Job Act”
di Carlo Tecce

qui

il Fatto 22.12.13
Atto d’accusa Salvatore Borsellino
“Dal Csm un preoccupante schiaffo a Di Matteo e ai pm”
intervista di Sandra Rizza


Palermo Salvatore Borsellino, l’associazione culturale Libertà e Giustizia, presieduta da Gustavo Zagrebelski e Sandra Bonsanti, definisce “indecorosa” la trasferta del Csm che venerdì a Palermo ha snobbato Nino Di Matteo e il pool della trattativa, e sostiene che il risultato è l’esatto contrario di quello declamato: nessuna solidarietà ai pm minacciati da Cosa nostra. Lei che ne pensa?
Altro che trasferta indecorosa. È stato uno schiaffo vero e proprio ai pm della trattativa Stato-mafia, uno sgarbo istituzionale estremamente grave. L’opinione pubblica dovrebbe reagire.
Ora Libertà e Giustizia chiede che il Csm ripari a questo “gravissimo errore istituzionale” con una dichiarazione pubblica di sostegno al pool della trattativa. È d’accordo?
Sì, ma questa vicenda è una farsa. Ho letto che Vietti a Palermo ha dichiarato: “Se Di Matteo fosse qui, l’avrei abbracciato”. Ma che vuol dire? Di Matteo doveva passare di lì per caso? Se voleva abbracciarlo, perché non lo ha chiamato nell’aula magna dove avvenivano le audizioni? È ridicolo. È la farsa dentro la tragedia. Quello che spero è che ora almeno il Csm archivi al più presto il procedimento disciplinare su Di Matteo, accogliendo la richiesta del pg Gianfranco Ciani. Voglio ricordare che anche mio fratello Paolo fu sottoposto a procedimento disciplinare del Csm prima di essere ammazzato.
Totò Riina dal carcere viene intercettato in diretta mentre ordina un attentato contro Di Matteo. E l’allarme ignorato del ministro Alfano ricorda quello di Scotti, all’inizio del ’92, che fu disatteso in Parlamento dopo che Andreotti ne sminuì la portata con una battuta. Eppure in quell’occasione Scotti aveva visto giusto. Si ripropongono nel Paese scenari già vissuti?
Sì, sento un’aria troppo simile a quella degli anni Novanta. Sono in ansia per Di Matteo, isolato delle istituzioni e delle minacce di Cosa nostra. Ho le stesse paure che avevo vent’anni fa per mio fratello e che poi purtroppo sono state tragicamente confermate. Ma su Alfano, facciamo attenzione: non dimentichiamo che è un allievo di Berlusconi, che ha fatto sempre una politica di annunci fasulli. Quando nei giorni scorsi è venuto a Palermo, Alfano mi ha detto che aveva già concesso il bomb-jammer a Di Matteo. Era una menzogna.
Antonio Ingroia sostiene che “in un momento come quello attuale, un attentato mafioso avrebbe l’effetto di stabilizzare il governo delle larghe intese, soprattutto quando c’è un vicepremier come Alfano che dice di essere dalla parte della magistratura”. Condivide?
Non posso non essere d’accordo. Il nostro è un momento di assestamento politico, e la storia recente del nostro Paese ci insegna che, proprio in momenti come questi, le stragi sono servite a orientare gli equilibri istituzionali.
Come valuta l’atteggiamento di Napolitano che, durante la Cerimonia dello scambio degli auguri di Natale, si è limitato a esprimere una generica solidarietà ai magistrati vittime di minacce, senza mai nominare Di Matteo o i pm della trattativa?
Non mi stupisce. L’ho detto varie volte e lo ripeto: Napolitano è il garante di quella trattativa Stato-mafia, sulla quale oggi è in corso un processo che si vuole fermare.
Come è possibile che nel Paese delle stragi Falcone e Borsellino, Di Matteo – il nemico numero uno del capo della mafia stragista – sia diventato un “innominabile”?
È possibile proprio perché abbiamo un capo dello Stato che da più di vent’anni copre la congiura del silenzio sui patti scellerati tra Cosa nostra e le istituzioni.

Chi c’è dietro Renzi
il Fatto 22.12-13
L’intervista Diego Della Valle
“Finita l’emergenza Napolitano lasci il posto”
L’imprenditore marchigiano racconta le sue idee per uscire dalla crisi: competitività e solidarietà devono andare insieme. “Ci vuole una politica nuova, nel segno della discontinuità”. E sul “Co r r i e re della Sera” dice: “Non deve più essere merce di scambio tra quello che resta dei poteri forti e politica. Bazoli ci ha costruito una carriera, per fortuna tutto questo è alla fine”
di Silvia Truzzi


Questa è la pelle. Ma si vede ancora l'animale. Se volesse vedere l'animale, eccolo qui: la testa, il posteriore, le zampe anteriori, le zampe posteriori”. La spiegazione è dello Svedese, protagonista della Pastorale americana di Philip Roth. Eppure, più o meno, è quello che racconta Toni, decano della fabbrica di Diego Della Valle nelle Marche, dentro il caveau delle pelli pregiate. Qui si fanno le Tod’s da donna, tra mille ulivi, l'asilo per i figli dei dipendenti, la mediateca dove si possono prendere in prestito libri, giornali e dvd. Un grande quadro con l'ombra di un uomo sovrasta la sala riunioni di Diego Della Valle. Sembra Enrico Berlinguer. “É John Kennedy. Ma potrebbe essere anche Berlinguer: mi piaceva molto”.
Dottor Della Valle, il tema di queste interviste è lo stato di salute del Paese. Come sta l’Italia?
Purtroppo alla deriva. É chiaro a chiunque che il Paese vive una situazione difficilissima che si è venuta a creare grazie a una cattiva gestione dell’Italia negli ultimi trent’anni, e non solo da parte della politica, ma anche di un certo tipo d'impresa e finanza, della burocrazia: mondi che hanno sempre stretto legami reciproci e sono ugualmente responsabili.
Che impressione le fanno le immagini delle proteste di piazza?
I cittadini hanno seri motivi di lamentarsi, da anni. Hanno finora sempre avuto pazienza e civiltà, trovando modi pacati per protestare: penso per esempio all'astensionismo elettorale, una manifestazione chiara di malcontento e sfiducia. Oggi all'insofferenza si aggiunge la sofferenza di chi è veramente sopraffatto dai problemi. Attenzione: bisogna vedere come questo malcontento si manifesterà nel futuro. É un fenomeno che, se mal guidato, può essere potenzialmente pericoloso.
Teme che la situazione precipiti?
Speriamo di no e bisognerà capire bene cosa c'è dietro. E se dietro questo malumore delle persone per bene tentino di nascondersi quelli che chiamano i “professionisti della protesta”: sarebbe un problema. Ma la risposta all’esasperazione la dovrebbe dare la classe politica e chi ci governa facendo le cose più urgenti che servono al Paese. Se nell’arco di massimo qualche mese sapranno mostrare che finalmente non siamo di fronte alle solite chiacchiere inconcludenti, forse i cittadini saranno disposti a dare fiducia. I nuovi protagonisti della politica che negli ultimi tempi hanno preso in mano il Paese sono persone giovani che hanno promesso di fare le cose importanti in fretta. Soprattutto hanno promesso che ci sarà discontinuità. La discontinuità è indispensabile se si vuole veramente cambiare e annullare il potere di una classe dirigente che rappresenta la vecchia politica.
Il nostro premier è stato ministro 15 anni fa. Mica tanto “discontinuo”...
Come ho avuto modo di dire spesso, Enrico Letta è una persona che non ci fa vergognare per come ci rappresenta in giro per il mondo. Già questo è un passo avanti: negli ultimi trent'anni ci è capitato una o due volte al massimo. Ora però deve assolutamente, nell'arco dei prossimi due mesi, fare cose importanti per il futuro del Paese. Sarà giudicato in base ai risultati che otterrà. Capiremo per come sarà disposto anche ad affrontare il tema della discontinuità, se sarà da considerare un giovane politico con una visione nuova e positiva oppure un giovane politico ancorato al vecchio sistema e ai vecchi riti della politica. Mi auguro che le cose le possa fare e che possa dimostrarcelo in fretta.
Sulla legge elettorale però una sveglia l'ha data la Consulta.
La Consulta è arrivata prima della politica e questo non ha certamente migliorato le aspettative degli italiani: speriamo recuperino in tempi brevissimi. Ho sentito in tv il discorso di Renzi a Milano. Ha preso impegni precisi, a brevissimo termine. Nella stessa direzione hanno dichiarato di volersi muovere gli altri nuovi leader politici: voglio dare fiducia a ciò che hanno detto e aspettare insieme a tanti italiani che queste cose vengano fatte per davvero. Il problema non è una politica di destra o di sinistra, ma se avremo una politica seria e preparata.
Destra e sinistra esistono ancora?
I politici proclamano le loro differenze, visto l'appiattimento degli ideali però si fatica a capire chi è di destra e chi di sinistra. Alla gente interessa di più valutare la serietà e la competenza dei politici, non la loro provenienza. Tutti continuano a dire che in troppi non arrivano alla fine del mese, ma oltre a parlarne molto, bisognerebbe capire che “fare le cose” e “farle in fretta”, è fondamentale ora più che mai. C’è bisogno di competenza per agire, di competitività per poter avere un futuro e di molta solidarietà. In questo momento, secondo me, è importantissimo che competitività e solidarietà marcino nella stessa direzione.
Ecco: solidarietà è una parola svanita nel lessico della sinistra.
Non ne farei una questione di colore politico. La solidarietà tra le persone per bene esiste, fa parte dell’animo umano. A questo dobbiamo aggiungere le energie di chi sa essere competitivo: è una ginnastica mentale, bisogna imporsi di non trascurare i due aspetti. Chi fa impresa, vista la drammatica situazione, ha una responsabilità in più. Senza prevaricare il ruolo delle istituzioni, le imprese sane possono fare molte cose per il sostegno di chi ha più bisogno.
Facciamo un esempio concreto.
Se vuole le faccio un esempio che ci riguarda. Oltre a tante altre cose che facciamo da tempo, quest’anno il consiglio d’amministrazione ha stanziato l'1% dell'utile netto del gruppo per iniziative di solidarietà locali, per aiutare chi ha bisogno di aiuto nel nostro territorio. I risultati sono stati ottimi e molte persone ne hanno avuto beneficio. Se con un compasso segnassimo i territori delle imprese che hanno la fortuna di funzionare bene, si potrebbe coprire buona parte del territorio italiano e aiutare molto le persone in grave disagio. Quindi in attesa che lo Stato riesca a pensare a tutti, oltre a dare soluzioni pratiche, queste operazioni servirebbero ad alleggerire la tensione sociale che si respira. Le persone vogliono che siano garantiti salute, sicurezza e istruzione, una vita dignitosa e prospettive per il futuro dei loro figli.
L'Italia è ancora una Repubblica fondata sul lavoro?
Deve esserlo: i cittadini chiedono di poter lavorare, non favori o regali.
Quanto ha pesato il rigore del governo Monti sulla situazione attuale?
Oggi c'è un tiro al bersaglio su Monti. Credo però che all'inizio abbia fatto bene e che il suo arrivo sia in qualche modo servito ad arginare problemi gravi, che magari qualcuno in Europa ha un po’ ingigantito. Poi la mancanza di una conoscenza del tessuto industriale, dell'Italia e del mondo del lavoro, credo l'abbiano allontanato dalle vere esigenze e dalle priorità. Dire che ha sbagliato tutto però lo trovo ingiusto. Secondo me avrebbero dovuto avere più carattere nel discutere con la Germania dei nostri problemi, in modo da ottenere le necessarie moratorie per permetterci di sistemare i conti e allo stesso tempo di pensare allo sviluppo.
Che posizione ha sull'Euro?
Non mi pongo nemmeno il problema di uscirne: è una cosa che non reputo possibile e utile. Dobbiamo stare nella moneta unica. Dobbiamo poter usare il sistema dell'euro per uscire dalla situazione in cui ci troviamo, strutturando un piano di sistemazione dei nostri debiti che ci permetta anche di pianificare una parte di sviluppo. Un’Europa senza l'Italia credo potrebbe avere grossi problemi. Non abbiamo altre strade e quindi chi per noi discute in Europa di questi argomenti deve farlo con determinazione e autorevolezza.
Meglio la prima o la seconda Repubblica?
Se proprio debbo scegliere, la prima. È stupido generalizzare, ma prima c'erano persone con più spessore e ideali. Non voglio dire che nella seconda Repubblica non ci siano anche persone per bene, ma credo che l'etica e la morale si siano enormemente ridotte. I nuovi circuiti politici - che hanno estremizzato il concetto di “stare dentro o fuori”, “chi non è con me è contro di me” - hanno costretto i meno forti ad accettare mediazioni pur di rimanere al loro posto. Nella classe politica precedente c'erano un senso della cosa pubblica e dello Stato più forti, forse perché alcuni leader venivano dalla guerra e da situazioni di forte disagio.
Tanti si sono riciclati.
Vero, per questo ci vuole discontinuità: sarebbe bello e civile. Anche se - mi rendo conto - è un'utopia credere che molti di questi protagonisti decidano da soli di fare un passo indietro.
É andato a votare alle primarie?
Si. Ho votato per Matteo Renzi: ha detto cose condivisibili e soprattutto che si sarebbe mosso in fretta. Il vantaggio è che il giudizio su Renzi lo potremo dare tra qualche mese. Da come parla, ha voglia di farsi giudicare in tempi brevi. Questo vale anche per Letta e Alfano: diamo loro fiducia e vediamo cosa faranno.
La vicenda del Colle - la nuova elezione di Napolitano e il modo in cui lui ha interpretato il nuovo mandato - non è stata nel segno della discontinuità. Sarà un ostacolo al rinnovamento?
Penso che il Presidente Napolitano sia una persona per bene, che ha fatto una buona cosa per il Paese quando ha deciso di rimanere ancora per un breve periodo, mettendo una politica inadempiente di fronte alle proprie responsabilità: in primis penso alla legge elettorale. Stiamo tutti aspettando questa cosa, con i tempi siamo già in ritardo. Credo però che appena terminati questi passaggi sia giusto che Napolitano, come lui stesso ha detto di voler fare, possa lasciare il posto a un nuovo Presidente che non debba essere più garante di una classe politica che buona parte dei cittadini non rispetta più. Il rischio oggi è che molti politici si nascondano dietro l'autorevolezza del Quirinale e questo francamente non è giusto. Gli italiani vogliono potersi scegliere le persone e valutarle per il loro operato.
Il Parlamento ha abdicato alla propria missione? Si è fatto dire cosa fare e in che tempi dal Presidente della Repubblica, si è fatto dire dalla Consulta che la legge elettorale è incostituzionale... La Corte dei conti ha pure sollevato una questione di legittimità sul finanziamento ai partiti: sono sempre all'inseguimento.
Non c'è dubbio: infatti la gente non si riconosce più in loro. La fiducia dei cittadini nei partiti è sprofondata. Basta guardare i sondaggi. E se quelli non bastano, il crescente astensionismo. Si evoca spesso la “responsabilità” dei cittadini ma credo che oggi sia la politica a dover dimostrare responsabilità. Le distinzioni tra competenze del Presidente del Consiglio e del Presidente della Repubblica devono essere precise, senza nessuna ingerenza reciproca. Altrimenti si toglierebbe credibilità al sistema.
Cos ’è l'antipolitica? I partiti che hanno indici di gradimento da prefisso telefonico o quelli che dicono “tutti a casa”?
Più le situazioni sono difficili, più ci vuole la necessaria calma nel gestire le cose. Io credo che tante persone per protestare abbiano “prestato” il proprio voto, ma che sarebbero pronti a dare fiducia a qualcuno che dimostri, con i fatti, la volontà di cambiare. Urlare molto e non fare dove ci porta? L'interesse di chi vuol bene all'Italia è ricostruire, non distruggere. Ciascuno deve dare quello che può. Mi pare chiaro che il mondo del lavoro ha dato anche più di quello che poteva, ora è la classe dirigente che deve darsi da fare.
È favorevole a una tassazione dei grandi patrimoni?
Sì sono disponibile, ma a patto che non sia un sacrificio che finisca nel mare magnum, dell’inefficienza della macchina statale. Vorrei aggiungere una cosa, però: non dobbiamo pensare che sia un obbligo. Ci può essere qualche mio collega che dice “io faccio già abbastanza perché vivo e produco in un Paese strangolato dalla burocrazia e dalle tasse”. Non avrebbe torto a pensarla così, ma penso che chi può dovrebbe essere il primo a rispondere alla chiamata.
Mai stato tentato dalla politica? Nemmeno quando Montezemolo è quasi “sceso in campo”?
Personalmente mai. Ho sempre detto a Luca che ha fatto buone cose, che la politica è un altro mestiere completamente diverso dal nostro, cui bisogna dedicarsi completamente. Credo che esporsi, come faccio io, sia comunque un modo per dare un contributo come cittadino. Tenga conto che oggi ho l’età di quelli che dovrebbero andare a casa e comunque non è affatto detto che un bravo imprenditore sia un bravo politico. Sicuramente l’efficienza e il pragmatismo aiutano, ma la politica vuol dire sapersi occupare soprattutto del bene comune, un argomento più complesso.
Ne abbiamo avuto un esempio con Berlusconi.
Io e Berlusconi ci siamo detti con chiarezza e magari durezza quello che pensavamo anni fa. Ce lo siamo detti in faccia e in pubblico. Le nostre posizioni sono reciprocamente chiare. Adesso parlerei invece della nuova classe politica di destra e sinistra, di altre persone giovani che hanno voglia d'impegnarsi per il bene dell'Italia. Noi possiamo, se richiesto, dare qualche consiglio e mettere a disposizione la nostra esperienza. La palla ora è a loro. Non ci sono soluzioni diverse.
Letta ha sempre fatto il politico. Così - in misure e modi diversi - Alfano, Cuperlo, Renzi e Civati. Essere professionisti della politica è un bene?
Se fosse concepita come la costruzione di un percorso, nel senso dell'acquisizione di competenze, sarebbe una cosa buona. Il problema della vecchia politica era che a fare il ministro dell’economia si metteva o un amico o uno cui si dovevano dei favori o qualcuno che garantisse equilibri: spesso venivano privilegiati gli amici fidati e non le persone di grande competenza. La politica ha grandi colpe, ma altrettante ne ha la grande impresa e la finanza che ha spesso manovrato la politica.
Lei è molto amico di Clemente Mastella: quando fu nominato Guardasigilli non aveva competenze in materia di giustizia.
Mastella più che un amico per me è un fratello. Per come lo conosco io, è un uomo con pregi e difetti della politica della prima Repubblica, ma non un uomo di potere. Se fosse stato un uomo di potere non avrebbe avuto tutti i problemi che ha avuto negli ultimi anni. Per quanto riguarda le competenze, quando ha avuto incarichi di governo, anche lui come tanti altri era carente. Ma ho sempre visto in lui una grande umiltà nel farsi consigliare da buoni tecnici. A Clemente mi accomuna l'attaccamento alle origini, semplici, le abitudini ai nostri luoghi e anche il fatto di non aver dimenticato le persone del nostro mondo.
Le clientele finiranno mai?
Guardando anche fuori dal nostro Paese mi viene da dire di no. In Italia, in questo senso, si possono fare passi da gigante.
Le capita spesso che le chiedano favori?
Qualche volta le persone semplici più che favori chiedono lavoro. Se intende favori ad “alta quota” io non ho né il carattere né la reputazione di uno che sta in quei giochi. Il mondo delle auto-cooptazioni non l’ho mai accettato e sicuramente è un mondo che non ha mai accettato me. Avevo l'idea che certi ambienti, diversi dal mio mondo imprenditoriale, fossero utili per cercare di aiutare o cambiare il Paese.
Quali ambienti?
Quelli che ho frequentato al di fuori del mio mondo. Poco più che trentenne consideravo Mediobanca, Rizzoli, Comit i sancta sanctorum del Paese. Visti dal di fuori erano gli ambienti dove si decidevano le cose importanti dell’Italia. Ho dovuto, appena ci ho messo piede comprando pacchetti azionari, rendermi conto che qualcuno pretendeva di pesare le azioni e non di contarle. Alcuni di questi, sono quelli che io ho definito, senza voler mancare di rispetto, “arzilli vecchietti”.
... Giovanni Bazoli?
In quel caso mi riferivo a Cesare Geronzi e Giovanni Bazoli, ma la fila può allungarsi con facilità. Non avevo nulla di personale nei loro confronti, ma era necessario iniziare, appunto, un processo di discontinuità per cambiare quei mondi. Questa presa di posizione mi ha creato qualche dispiacere personale perché con Geronzi ci conoscevamo bene e avevo simpatia per lui.
Piergaetano Marchetti - membro del cda Rcs e arbitro della grande finanza milanese - ha detto che il capitalismo di relazione è finito: lei lo auspicava da tempo.
Ho visto che il professore si è chiamato fuori: ma lui è stato uno dei grandi sacerdoti del capitalismo di relazione! Credo che Marchetti idealmente avrebbe voluto chiamarsi fuori, ma non ha avuto mai il coraggio necessario. Alla fine ha barattato il suo sincero atteggiamento ideologico per qualche poltrona e per un po' di potere. Detto questo lo considero una persona per bene.
Che cosa succede al Corriere della Sera?
Purtroppo chi gestisce il Corriere oggi non ha le competenze necessarie per guidare un'operazione tanto complessa. Credo che gli azionisti dovranno responsabilmente prendere qualche decisione. Del resto il patto di sindacato, che anch'io desideravo sciogliere, è finito grazie anche alla lungimiranza di persone come Alberto Nagel, Merloni e Carlo Cimbri. Perché in tanti restano all'interno di una casa editrice che fatica ad avere una prospettiva se immediatamente non cambia qualcosa? Tenteranno di rimanere finché il Corriere potrà essere considerato uno dei due giornali leader del Paese, cioè una merce di scambio tra quello che resta dei poteri forti e politica. Bazoli si è inventato di tutto per restare lì e sicuramente il Corriere è stato uno dei mezzi che gli hanno permesso di costruire la sua carriera. Ora, per fortuna, tutto questo è alla fine.
Perché ha sottoscritto l'aumento di capitale del Corriere?
Se a luglio - sapendo bene che quel denaro era buttato dalla finestra - non avessi sottoscritto l’aumento di capitale, avrei lasciato il campo libero a quel vecchio mondo che ho descritto poco fa. Essere rimasto e aver contribuito allo scioglimento del patto di sindacato è stato, credo, un modo per mantenere il Corriere libero da forti pressioni. Ora sarebbe auspicabile che gli azionisti prendessero atto che il Corriere è anche uno strumento necessario alla ripartenza del Paese: quindi dev’essere guidato con indipendenza e senza interessi di sorta. Se riuscissimo a trovare un editore vero che si occupasse della gestione sarebbe utile per il futuro della casa editrice e di chi ci lavora.
E lei? Perché ha fatto battaglie all'ultimo sangue al Corriere?
Per la libertà. Perché la mia linea era “proviamo a fare tutti un passo indietro, troviamo un editore puro a cui far gestire il giornale”. Non è stato trovato, ma sarebbe stato meglio dimensionare le quote e fare comunque un passo indietro. Pensavo e dicevo che i patti di sindacato non servissero più anni fa, quando sono uscito da Mediobanca. Chi ha capito che i patti, come sistema, erano anacronistici? Persone giovani come Nagel e Cimbri.
Anche John Elkann è giovane.
Al di là delle polemiche che ci sono state, mi dispiace per Yaki che conosco sin da quando era ragazzino. Credo sia mal consigliato. A parte quello che ho tentato di dire a lui e a Sergio Marchionne (di cui ero amico) credo che la famiglia Agnelli, che tanto ha avuto dal Paese, in un momento difficile come questo, avrebbe dovuto restituire qualcosa agli italiani.
Ultima: si fanno battute sui suoi braccialetti. Cosa risponde?
Abbiamo parlato di cose serie fino a ora... Comunque i braccialetti sono regali che io e miei figli ci facciamo a vicenda, ricordi delle vacanze insieme. E forse un modo per non invecchiare troppo convenzionalmente. Come i jeans slavati.

il Fatto 22.12.13
Sfilano i cortei
L’Italia che va in piazza fra rabbia e solitudine
di Furio Colombo


Martedì 17 dicembre. Un grande corteo Fiom sfila per via del Corso, a Roma, da piazza del Popolo verso il centro. Uomini e donne dignitosi e ordinati portano bandiere del sindacato, mostrano striscioni con il nome di fabbriche (capisci subito: fabbriche chiuse o abbandonate o svuotate), scandiscono slogan che riguardano il lavoro (capisci subito: il lavoro di tutti, non il loro). E noti che, ai due lati del corteo, c’è chi vigila, senza apparire “servizio d'ordine”, in modo che i negozi restino aperti e i passanti rassicurati.
Mercoledì 18 dicembre. Corrono verso piazza del Popolo, lungo via del Corso, gruppi di ragazzi (gran parte maschi, quasi tutti in nero) dieci, venti per gruppo, si allargano, anche se in pochi, su strada e marciapiede in modo da intercettare i passanti e creare ingombro. Se necessario spintonano di spalle, senza voltarsi, lasciando il dubbio fra l’errore e il teppismo. Ognuno ha una piccola bandiera tricolore. Non la sventola, sarebbe un segno di festa. La impugna come identificazione, in un curioso processo rovesciato: la bandiera nazionale serve per notificare la spaccatura. Sono, come diranno fra poco a un migliaio di persone come loro, quelli di “Casa Pound”.
COME INTERPRETARE questi due “spettacoli di strada” in cui tutto è sintomo di tutto? Se fosse l’inizio di un film, diresti che il grande corteo ordinato del sindacato stava uscendo di scena, con le sue fabbriche chiuse e i suoi slogan al vento. E che i gruppi che avrebbero voluto spaccare e non hanno potuto (per ora qualcosa o qualcuno li tiene fermi), con le loro bandierine segnaletiche in mano, stanno arrivando. E il fatto che arrivino un po’ alla volta, e spesso sotto mentite spoglie, travolgendo e imbarcando la buona fede di molti, è un pericolo in più. A quel pericolo, negli stessi giorni, ha dedicato la sua riflessione Claudio Magris: “Quasi tutti mettono, mettiamo in conto al mondo le nostre insoddisfazioni e frustrazioni, il grigiore della nostra vita, il risentimento (...). L’ira del rivoluzionario non ha nulla a che vedere con il meschino livore inciso su certe facce di petulanti contestatori, un mix di supponenza e di acidità di stomaco più frequente nei salotti radical chic che nelle fabbriche in sciopero. Ma, incapaci come siamo di sentirci appagati, sarebbe crudele toglierci la soddisfazione di crederci incompresi”. Ho tratto queste frasi, spero in modo accurato, da un testo intitolato La via sbagliata del risentimento (Il Corriere della Sera, 20 dicembre) credo che sia evidente l’intento dell’autore di svalutare la “soddisfazione della protesta”, e di raccomandare, invece, la protesta (esibizione) della soddisfazione, ovvero dell’appagamento, che è la parola chiave dell’articolo. Dato il prestigio dell’autore, Magris ci mette in un bel pasticcio. Perché non dovrebbe essere “meschino”, in quanto frutto di umiliazione improvvisa e immeritata, il “livore” di coloro che di colpo non sono più sindacato né classe operaia perché gli hanno venduto, svuotato o esportato la fabbrica e non trovano luogo o persona presso cui depositare “la protesta”?
UN DISABILE che precipita nel terrore dopo che gli hanno tolto la modestissima indennità di accompagnamento perché qualcun altro, in famiglia, supera di pochi euro una certa soglia, e non potrà che ripetere la sua invocazione che nessuno ascolta, è un “petulante contestatore”? Se parliamo di società liquida, di lavoro liquido (come fa De Rita, sulla stessa pagina dello stesso giornale, lo stesso giorno) che non si può più organizzare, non si può classificare o, quando è in pericolo, non si può salvare perché è un “fai da te” ogni volta inventato e senza regole, quando, come puoi dirti e mostrarti appagato? Il riferimento di Magris ai “salotti radical chic” (strano richiamo a un passato morto e sepolto negli anni novanta) fa pensare che vi sia una sinistra che fomenta il dovere di non mostrarsi mai appagati come divisa di militanza politica. Ma non è vero. Controllate parole e azioni del pacatissimo Pd e la mite Sel. Ciò che l’Italia ha rischiato e rischia con l’anarco-fascismo dei forconi e dei movimenti satellite del fenomeno, non deriva da una contrapposizione fra appagamento e protesta, ma da una solitudine disperata di gente che precipita mentre grida e continua a precipitare. E poi a chi mostrerebbe, il buon cittadino, il suo appagamento? La condizione di vita di chi sta precipitando è l’isolamento. Il più delle volte, se non ci fosse l’altro “fai da te”, quello delle informazioni spontanee e dei telefonini, non sapremmo nulla di eventi terribili, come le “docce anti scabbia” di Lampedusa. Ciò che ha ingannato Magris nel suo commento - io credo - è che gli appagati (detti “i ricchi”, nelle ricerche statistiche) non si fanno vedere perché non desiderano far sapere di averla scampata. I disperati sono già al di sotto del fare e agire nel grande corteo. In mezzo, una folla passiva accetta che le portino via a strappi, un po’ per volta, persino la pensione, che riteneva un diritto acquisito, e che, un po’ per volta, la circondino di tasse, alternativamente abolite e aumentate, la casa, mentre diminuiscono tutti i servizi sociali del Comune e della Regione. Resta la classe dirigente, impegnata nel gioco delle tre palle in aria, bravi a sottrarre ancora risorse (quelle che si pensava servissero alla ripresa) a chi non ne ha più, e a imporre patetiche “solidarietà” obbligate fra semi-poveri. Operano in una quasi clandestinità in cui persino tra loro sbagliano ministro, e in cui non sai chi autorizza le cure, chi libera i carcerati e chi favorisce, con piccoli e abili colpi di mano, le slot ma-chine (che, bisogna riconoscere, sono forse le sole che generano speranza). L'unico messaggio che mandano all’ultimo corteo della Fiom e alla prima adunata dei forconi è che, per quanto li riguarda, continueranno a mangiare il panettone.

il Fatto 22.12.13
Pace e affari iraniani dietro il velo della Bonino
La titolare della Farnesina incontra il Presidente riformista Rohani
Nucleare, Siria, diritti, ma anche 7 miliardi di interscambio commerciale
di Giampiero Gramaglia


Detto, fatto: Emma Bonino va a Teheran per rendersi conto di persona se l’Iran del presidente Hassan Rohani può e vuole davvero avere un ruolo strategico sulla scena internazionale, dopo l’abbozzo d’accordo sul nucleare con i ‘5-1’. Diplomazia mediorientale e anche affari: alleggerite le sanzioni, c’è la speranza che l’interscambio italo-iraniano, oggi sceso a meno di un miliardo d’euro, possa risalire a 6-7. Con questa mossa “da apripista” occidentale, il ministro degli Esteri conferma abilità e tempestività nel muoversi nei contesti a lei più familiari, Egitto, Siria, Iran, tutto il Medio Oriente, oltre che Ue e Usa. L’azione esterna del governo Letta diventa, invece, impacciata quando i problemi internazionali intersecano la politica interna. I momenti forti della missione oggi, quando la Bonino incontra il presidente Rohani e l’omologo Mohamed Javad Zarif, che è già stato a Roma.
È LA PRIMA VISITA d’un ministro degli Esteri italiano in Iran da oltre 10 anni e coincide – nota la stampa iraniana, traendone buoni auspici - con la ‘notte di yalda’, festività pre-islamica, la notte più lunga dell’anno.
La Bonino, che aveva inviato in avanscoperta il vice Lapo Pistelli per l’insediamento di Rohani, gode a Teheran di più credito dell’Italia: la diplomazia iraniana la giudica “coraggiosa e realistica”, mentre valuta i rapporti con Italia “discreti”, ma non “ideali”. Il sentiero lungo cui muoversi è stretto: si tratta di verificare gli spazi di collaborazione con l’Iran, sdoganato dopo anni di diffidenze e sospetti; ma, prima di partire, il ministro si preoccupa di ricordare che “il dialogo con l’Iran non è contro Israele”, che sta sul chi vive.
La prima giornata è al femminile: la Bonino incontra Masoumeh Ebtekar - “Suor Maria”, per i media Usa - leader degli studenti islamici nella rivoluzione khomeinista nel 1979, oggi vice-presidente e capo dell'Agenzia per la tutela dell'Ambiente. L’intento è rivitalizzare un memorandum del 2008 sulle tecnologie verdi. Sono discorsi sia ecologici che economici: per le aziende italiane “si aprono grandissimi spazi di collaborazione bilaterale e prospettive non solo nei settori tradizionali”, come quello energetico, ma pure sui fronti culturale, archeologico e ambientale.
C’è dialogo pure su diritti umani, condizione femminile, pena di morte. La Bonino vede spiragli nell'approccio iraniano alla pena capitale, “sia per i minorenni sia per i reati di droga”. L'Iran è uno dei Paesi con il maggior numero di esecuzioni condotte ogni anno, anche di ‘under 18’. Ma i temi politicamente più caldi, nucleare e Siria, sono per oggi. La strada per un’intesa definitiva sui programmi nucleari, dopo la provvisoria di novembre, è fitta d’ostacoli: quindi, ci vuole cautela. “Dipenderà da loro, ma anche da noi non fare errori - osserva la Bonino. È un periodo fragile e bisogna tenere i nervi a posto”. Quanto alla Siria, “la responsabilizzazione dell'Iran nella crisi è importante”, nota la Bonino. La partecipazione di Teheran alla conferenza di pace del 22 gennaio potrebbe essere sia diretta che indiretta, ma l’approccio deve essere “collegiale”.

l’Unità 22.12.13
Rajoy cancella i diritti. Scontro con la sinistra
Dall’aborto alla religione a scuola, fino alle norme sul lavoro, il governo vira sempre più a destra sperando di recuperare consensi alle Europee
I socialisti: «Ci stanno togliendo la libertà Faremo in modo che ne paghino le conseguenze»
di Gabriel Bertinetto


L’opposizione spagnola promette battaglia contro la legge sull’aborto annunciata dal governo di destra. Una legge che riporta la Spagna indietro di trent’anni e che rientra nel quadro di un attacco a tutto campo contro le conquiste civili dell’era Zapatero. «Ci impegniamo a bloccarla -dichiara la vicesegretaria generale del Psoe, Elena Valenciano-. Ci stanno togliendo la libertà e faremo in modo che ne paghino le conseguenze». Il progetto varato venerdì sera dall’esecutivo, aggiunge Valenciano, tratta le donne come «incapaci».
Secondo i socialisti, se il disegno venisse approvato dal Parlamento, dove il Partido Popular del premier Rajoy ha la maggioranza, la Spagna diventerebbe «un’eccezione in Europa», ma in senso negativo, dopo essere stata per anni con la sua legislazione avanzata sull’interruzione di gravidanza «un modello di riferimento» per il continente.
Un effetto immediato della controriforma conservatrice, sarebbe l’incoraggiamento all’aborto clandestino. Torneremo a vedere ciò che accadeva un tempo, quando «le donne che potevano permetterselo economicamente erano costrette ai voli charter per Londra» se decidevano di abortire. Così Valenciano nel corso di una riunione del Psoe cui ha partecipato anche il numero uno Alfredo Pérez Rubalcaba. «Sono due anni che Rajoy è alla Moncloa, e non ha fatto che recar danni alle donne. Venerdì ha raggiunto il culmine».
La riforma annunciata dall’esecutivo sottintende una concezione delle donne «come mere incubatrici o portatrici di feto», commenta indignata Justa Montero, portavoce della Federación Estatal de Organizaciones Feministas. «Saranno altri a decidere sul nostro corpo, la nostra maternità, la nostra salute», incalza Yolanda Besteiro, presidente della Federación de Mujeres Progresistas. Sull’account twitter della scrittrice e giornalista progressista Maruja Torres, impazzano interventi in cui lo sdegno si mischia a incredulità. C’è ad esempio chi si chiede se il promotore dell’iniziativa di legge sull’aborto, il ministro della Giustizia Alberto Ruiz Gallardon, sia «una specie del paleolitico o semplice neotardofranchista»...
CONTRO I DIRITTI
L’attacco alla facoltà di abortire, che d’ora in poi verrebbe consentita solo in caso di stupro o di minaccia per la salute della madre, è solo l’ultimo colpo sferrato dalla destra iberica al sistema di diritti civili e sociali dell’era Zapatero. Pochi giorni fa intervenendo in Parlamento il premier Rajoy aveva sfidato su questo terreno il leader del Psoe Rubalcaba che si era pronunciato in difesa di quelle conquiste. Il welfare è stato costruito dagli spagnoli «attraverso il loro duro lavoro e le tasse versate -aveva dichiarato il premier-. Non sono una tua proprietà -aveva tuonato Rajoy rivolgendosi direttamente a Rubalcabané le politiche sociali né i servizi pubblici, né i sentimenti popolari».
L’offensiva anti-libertaria della destra è ad ampio raggio. Va dalla riforma scolastica in cui lo studio della religione (diventato facoltativo con Zapatero) dà maggiori garanzie per ottenere borse di studio, alle drastiche limitazioni imposte all’organizzazione di cortei e manifestazioni; passa per le norme che facilitano i licenziamenti e li rendono meno gravosi per gli imprenditori, e arriva sino ai tentativi (sinora falliti) di ribaltare la legislazione che riconosce i matrimoni omosessuali.
A pochi mesi dalle elezioni europee della prossima primavera l’esecutivo accentua la virata a destra in materia di diritti civili e sociali anche per recuperare consensi nella parte più conservatrice della popolazione, in un momento in cui il malcontento generale per il cattivo stato dell’economia spinge gran parte degli elettori verso l’astensionismo o i partiti estremisti. Per la prima volta dopo 17 anni, in novembre le statistiche mostrano un leggero calo della disoccupazione, ma un rapporto presentato pochi giorni fa al governo da Price Waterhouse Coopers contiene fosche previsioni sul futuro dell’economia nazionale.
«La Spagna -si legge nel documento riuscirà solo nel 2033 a raggiungere la media dei tassi di disoccupazione dei Paesi vicini, posizionandosi al 6,8 per cento. Ma in questo scenario ci vorranno 15 anni per portare il tasso sotto il 10% e 20 anni per tornare a creare il lavoro, distrutto dalla crisi economica». Solo nel 2033 l’economia iberica tornerà ai ritmi di crescita antecedenti alla crisi, che è iniziata nel 2008. Il tasso di disoccupazione resterà sopra il 10% addirittura sino al 2024. Naturalmente ci si può chiedere quanto margine di errore possa esserci in previsioni proiettate su distanze temporali così ampie, ma sembra evidente che almeno per un po’ di tempo le prospettive rimangano assai poco rosee. Tanto che lo stesso ministro dell’economia Guindos è stato costretto ad ammettere che «c’è ancora molta strada da fare».

l’Unità 22.12.13
Tangentopoli  in Turchia: arrestati i figli di due ministri di Erdogan
di Roberto Arduini


La giustizia turca ha incriminato e disposto l’arresto preventivo dei figli di due ministri molto vicini al premier Recep Tayyip Erdogan, nel quadro di uno scandalo di corruzione senza precedenti che sta travolgendo il governo islamico conservatore, a soli quattro mesi dalle elezioni municipali. Al termine di una notte di interrogatori nel palazzo di giustizia di Istanbul, Baris Güler e Kaan Caglayan, figli del ministro dell’Interno Muammer Güler e dell’Economia Zafer Caglayan, sono stati arrestati su richiesta del procuratore. Oltre a questi ultimi due arresti, circa altre venti personalità vicine al governo sono state arrestate venerdì in Turchia, fra cui il direttore della banca pubblica Halk Bankasi, Suleyman Aslan, e il manager azero, Reza Zerrab, tutti sospettati di corruzione, frode e reciclaggio, nell’ambito di un’inchiesta sulla vendita di oro e su transazioni finanziare tra Turchia e Iran sotto embargo. L’inchiesta ha portato anche alla rimozione di numerosi alti ufficiali della polizia.
L’indagine arriva in un momento di tensioni, che sembrano aver assunto i toni di una lotta ormai all’ultimo sangue, tra Erdogan e la potentissima confraternita islamica Hizmet, guidata da Fetullah Gulen, influente religioso che vive in esilio negli Stati Uniti dal 1999 e ha molti sostenitori in Turchia. Erdogan ha definito l’inchiesta in corso una «sporca operazione» portata avanti da uno «Stato nello Stato» mirata a far cadere il suo governo islamista-conservatore, al potere dal 2002.
Sempre più in difficoltà, il primo ministro ha puntato il dito anche contro alcuni non meglio precisati ambasciatori stranieri, responsabili a suo dire di «provocazioni», e che ha perciò minacciato di espulsione. «Negli ultimi giorni, in maniera del tutto insolita, certi ambasciatori sono stati coinvolti in iniziative provocatorie», ha osservato Erdogan a margine di un comizio tenuto a Samsun, città nel nord dell’Anatolia affacciata sul Mar Nero. «Mi rivolgo a loro da qui», ha incalzato il premier. «Limitatevi a fare il vostro lavoro, perché se uscite dall’ambito delle vostre mansioni potreste finire con l’invadere la sfera di competenza del nostro governo. Noi non siamo tenuti a tenervi nel nostro Paese». Il riferimento implicito è parso rivolto agli Stati Uniti, la cui ambasciata ad Ankara ha peraltro smentito qualsiasi ruolo nello scoppio dello scandalo delle tangenti.

La Stampa 22.12.13
La nuova Cina è capitalista
Ma il vero leader resta Mao L’icona comunista ancora indispensabile per legittimare un Partito convertito agli affari
di Ilaria Maria Sala

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Corriere 22.12.13
L’altolà (verbale) di Pechino ai piani militari del Giappone


È una raffica di accuse quella sparata dal ministero della Difesa cinese contro il Giappone, che ha appena annunciato un piano di riarmo da 180 miliardi di euro in cinque anni. «Tokyo continua a negare la sua storia di aggressioni durante la Seconda guerra mondiale, ferisce i sentimenti delle nazioni che furono sue vittime, sfida l’ordine postbellico», dice il comunicato dei militari di Pechino. Tra le motivazioni dell’acquisto di 28 caccia-bombardieri, 17 apparecchi a decollo verticale, cinque cacciatorpediniere e sei sottomarini, il governo del premier giapponese Shinzo Abe aveva messo la «minaccia cinese». I due Paesi sono divisi da una disputa territoriale per le isole Senkaku/Diaoyu: la Cina ha introdotto una «zona di difesa e identificazione aerea» che copre anche le isole amministrate dal Giappone; l’ha seguita la Corea del Sud, allargando la propria zona fino a delle isole contese con Pechino. E intanto la spesa militare continua a crescere: il Giappone è al quinto posto nel mondo, la Cina è seconda dietro gli Stati Uniti. Molti analisti danno ormai per inevitabile un incidente, uno scontro a fuoco, una collisione tra aerei. Due settimane fa una nave americana e una cinese si sono tagliate la rotta. Il capo del Pentagono ha definito l’azione «irresponsabile». Ora è il turno di Pechino di addebitare ai giapponesi «una mentalità da guerra fredda». Churchill, che di guerre calde e fredde era un esperto, nel 1954, al culmine della tensione tra mondo libero e blocco sovietico, disse: «It is better to jaw-jaw than to war-war»: «Sproloquiare-sproloquiare è meglio che guerreggiare-guerreggiare». Aveva ragione, Est e Ovest continuarono a minacciarsi senza spararsi. C’è da sperare che anche tra Pechino e Tokyo finisca con molto «jaw-jaw».

l’Unità 22.12.13
La politica indispensabile
Il carteggio Ingrao-Bettini diventa un libro sull’uomo
Una sequenza di lettere che partono dall’analisi del Paese fino a trattare sentimenti, incanti e disincanti
di Claudio Sardo


«Un sentimento tenace», Bettini Ingrao pag. 112 Euro 9,50 Imprimatur Editore

NON DA UN’ETICA. NON DA UN DOVER ESSERE. LA POLITICA, SCRIVE PIETRO INGRAO, nasce dai tornanti della vita. Da un bisogno di giustizia che ti assale. Da una passione insaziabile. Al fondo, la politica nasce da ciò che è «irriducibile alla ragione». Può sembrare un paradosso per chi ha pensa al comunismo come una dottrina figlia dell’illuminismo. Ma Ingrao è un comunista eretico. Militante di partito dalla scorza dura, e al tempo stesso poeta. Che nei lunghi anni di battaglia ha maturato una «coscienza del limite» dalla politica: «È curioso che abbia lavorato tanto dentro le istituzioni, con la crescente, fredda coscienza che la norma è riduzione, quantificazione di fronte all’immisurabile, allo smisurato della vita. Così succede: sto dentro la misura, e la rifiuto».
È un Ingrao di qualche anno fa, ma non molti, quello che l’editore Imprimatur ha deciso di pubblicare (titolo del libro: Un sentimento tenace). Si tratta di un carteggio inedito con Goffredo Bettini, cominciato con un articolo di quest’ultimo, nel gennaio 1992, dedicato a Ingrao che aveva appena annunciato che non si sarebbe ricandidato alla Camera (dove era stato eletto ininterrottamente dal ’48). Ingrao rispose con una lettera. Sul suo ingresso in politica, nel tornante della guerra, dove per lui la vita stessa coincideva con la vittoria dall’oppressione hitleriana. Sul senso dell’impegno civile, ma soprattutto sulla sua dimensione trascendente: da laico Ingrao rifiuta di frequentare il «sacro», ma da combattente per la giustizia sente il bisogno di andare oltre il presente, oltre il possibile, oltre le «mura» della compatibilità. E poi Bettini riscrive a Ingrao nel 2005, in occasione del novantesimo compleanno. Lo aveva conosciuto quando era entrato nella Fgci, lo aveva seguito per anni come un maestro, fino allo scioglimento del Pci, quando il dissenso sulla «svolta» di Occhetto ruppe bruscamente ogni colloquio. Queste lettere, però, hanno aperto un nuovo dialogo. Non più sulle scelte contingenti. Ma sul senso della politica e dell’«umano». Ingrao rispose a novant’anni con un testo più lungo, sulla pena di morte inaccettabile, sulla pace continuamente ferita, sull’articolo 11 della nostra Costituzione. Il testo muoveva da un’esecuzione capitale in California e dal ricordo di un film di Chaplin del ’47, Monsieur Verdoux.
Il cinema è un altro filo che lega questo libro. Una passione comune. Bettini racconta che si iscrisse al Pci, alla sezione Campo Marzio, dove si organizzavano i cineforum, e che il suo primo compito fu appunto quello di presentare i film. «Oggi la politica si consuma nell’ansia del fare... C’è la ricerca del potere più che l’ambizione dell’esperienza...» scrive Bettini. «La politica e il fare, lo Stato e il produrre si domanda Ingrao possono consentire il silenzio dell’interrogarsi e del contemplare? Non sembra. L’inutile e il gratuito sono disprezzati in questo attuale modo di vivere». Eppure l’inutile e il gratuito sono parti indispensabili nella lotta per l’uguaglianza. Ci vuole una politica che torni a sfidare l’inerzia della storia, anche se non è incalzata dai «momenti terribili» della guerra. Ci vuole l’«incanto» e il «disincanto» di Ingrao, dice Bettini.

il Fatto 22.12.13
Il dialogo Ingrao-Bettini e la politica oltre le macerie
di Oliviero Beha


C’è in giro un libello assolutamente controcorrente: pensate che le due persone che vi dialogano si pongono fondamentalmente, ognuno a suo modo, l’esiziale interrogativo “perché si fa politica? ”. Perché si fa politica, mentre siamo circondati dalle macerie e sorvolati dagli sciacalli, mentre la schiera dei Penati (nomen omen?), Lusi, Fiorito ecc. è ormai interminabile, mentre tutto ciò che in qualche modo attiene alla politica si macchia, si intorbida, si guasta e del famoso o famigerato binomio “sangue e merda” che dovrebbe riassumerla è rimasta solo la seconda? E il valore politico della protesta, con tutti i suoi limiti e i suoi rischi, contro questo profondo degrado viene definito con lessico truffaldino “anti-politica”? Chi sono i due “avventurosi” interlocutori intessuti di politica fino al midollo che azzardano un discorso storico, culturale, psicologico e politico sì, ma solo come cornice di tutto ciò in un momento come questo, di fronte a un teatrino come questo, in un Paese come questo?
I DUE DIALOGANTI con sprezzo di ogni pericolo, così inattuali nel trattare quella che è ormai un’apparente inattualità se non preistoria della politica eppure così attuali nell’affacciarsi sul baratro, sono il quasi centenario Pietro Ingrao e il politico comunista e post-comunista ormai di lungo corso Goffredo Bettini. Il libro è Un sentimento tenace (Imprimatur Editore, pp. 107, euro 9,50), dal sottotitolo significativo “riflessioni sulla politica e sul senso dell’umano”. È un libro logico e cronologico, di lettere tra i due negli ultimi vent’anni abbondanti, con una prefazione di Bettini praticamente all’impronta sull’oggi. Sull’oggi di Renzi e di Letta, di Napolitano e di D’Alema, anche se non ne parla… Ci dice più cose nelle righe e tra le righe il libretto dei corrispondenti in questione che non montagne di pubblicistica politica ammalata dello stesso morbo della politica contemporanea, la mancanza di senso. Perché dunque i due hanno fatto politica, decisiva da parte del maestro di pensiero di Lenola, influente o molto influente da parte del “compagno Goffredo” in alcuni snodi degli ultimi vent’anni per la sinistra e il Pci, Pds, Ds, Pd (siamo arrivati?) nazionale e segnatamente romano/capitolino? Ingrao reagisce alle catastrofi della storia (cfr. Hitler e cinematograficamente alle “traduzioni” artistico-popolari di Charlie Chaplin), lottando per gli altri, “i più deboli o ancor meglio i più offesi”, e quindi per sé perché “senza gli altri non sarei neppure nato”.
L’altoborghese Bettini investe in politica e in politica comunista i propri personali e culturali riti di passaggio, nella prima trasformazione italiana interclassista del secondo dopoguerra. Anche lui dalla parte dei più deboli. Il tutto scritto egregiamente pur con diversi registri. Ma non conta tanto l’esercizio di parola e di scrittura in un carteggio ricco di spunti anche nella sua stringatezza quanto la contrapposizione continua tra “politica e senso dell’umano” che entrambi recuperano con formule spesso ricorrenti. All’umano - troppo umano di Ingrao, reso splendidamente nella sua poesia (“Sognammo una torre/scavammo nella polvere”), corrisponde la necessità di Bettini di “empatia”, di visione pre-politica e solo dopo politica (partitica?) mettendo al centro di ogni progetto le persone. Entrambi sanno e dicono sia pure con parole diverse di come la tecnicalità della politica abbia sostituito i suoi valori e i suoi fini. Il più giovane dei due, periodicamente e intermittentemente presente nelle vicende politiche anche più recenti, torna spesso sul concetto di “egemonia” culturale d’antan che la destra bolla come un retaggio antidemocratico e la sinistra ha invece polverizzato anche nella memoria conservandone solo potere e poltrone. Scrive Bettini: “E i politici, sensali di giornata, rinunciano all’egemonia, alla qualità, alla creatività necessarie per tenere insieme una comunità. Non resta che riporre una fiducia cieca e interessata nella rapidità dello sviluppo della tecnica e della scienza, sperando che esso sia più veloce del degrado che l’azione umana determina”. Siamo a Zenone, ad Achille e la tartaruga…, ma con l’attuale politica politicante & esercente, quella di D’Alema e dei “capitani coraggiosi” per capirci, purtroppo nella parte della tartaruga. Neppure sfugge ai dialoganti l’eterna contrapposizione tra condizione umana e regole della politica (Ingrao: “Sto dentro la misura e la rifiuto”, Bettini: “Le leggi e le norme non sono separabili dall’angoscia dell’esistenza”), oggi tradotta dalla politica che abbiamo sotto gli occhi nell’occupazione di “suolo pubblico” in un’invasività senza scrupoli e senza domande. Riempire di senso una visione del mondo di cui discutere e per cui battersi, resta l’orizzonte di una politica di cui non solo non vergognarsi ma da porre al centro di una condizione umana riqualificata nel suo essere. A giocare con le parole, direi forse una sorta di “ante-politica” dopo un secolo di “politique d’abord”, almeno per scacciare quella artata definizione di “antipolitica” che ci prende in giro da anni. La intendo come una serratura da aprire, dopo un lunghissimo lasso di tempo e di storia in cui tale serratura sembra essere servita solo per chiudere, lasciandoci in piena asfissia, prigionieri senza cielo.

La Stampa 22.12.13
Non tutto il comunismo viene per nuocere
La riscoperta del Pci a 25 anni dal cambio di nome nel carteggio tra il vecchio Ingrao e il veltroniano Bettini
di Marcello Sorgi

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Repubblica 22.12.13
Che cos’è il comunismo? Un gioco da ragazzi, anzi bambini
di Leonetta Bentivoglio


«I bambini capitalisti quando nascono sono uguali a tutti gli altri. Non sono ancora dei bambini capitalisti. E non lo sono nemmeno nei primissimi anni della loro vita. Poi a un certo punto succede qualcosa nella loro testa e invece di continuare a essere dei bambini uguali a tutti gli altri diventano dei bambini capitalisti. Non è colpa loro, ma quando sono diventati capitalisti è molto difficile che riescano a immaginare qualcosa di diverso da quello che hanno intorno e finiscono per credere che quello sia il mondo normale, l’unico possibile. Cioè sono diventati davvero capitalisti».
È il primo paragrafo del libro Il comunismo spiegato ai bambini capitalisti (Edizioni Clichy), che affronta un temachiave dell’umanità con limpidezza disarmante. Eppure non succede mai che quest’approccio semplice contempli un filo di semplicismo. L’autore è lo svizzero Gérard Thomas, individuo così misterioso (nessun risultato emerge da Internet, a parte un pittore seicentesco fiammingo) che è altamente sospettabile l’uso di uno pseudonimo. Chiunque egli sia, offre una prosa sana e divertente, capace di equilibri giusti nelle proporzioni date ai fenomeni. Se è un testo per i piccoli, rappresenta comunque un ottimo ripasso per i grandi. Fornendo un’eccellente soluzione per faticosi dibattiti politici tra genitori più o meno di sinistra e figli bambini o adolescenti agitati o curiosi. Bello che un volume su un soggetto tanto sterminato sia comprensibile e spassoso evitando superficialità e scemenze.
Si parte dal 1600 e dal Leviatano di Thomas Hobbes – la cui visione di un mondo dominato dalla “legge del più forte” costituisce la prima radice del discorso – per passare al concetto di “mercato” di Adam Smith. Si prosegue volando dagli uomini primitivi al cristianesimo, dal Medioevo all’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese a quella industriale. Ancora: Marx, gli anarchici, la Comune di Parigi, la Rivoluzione russa, la Guerra di Spagna, i comunismi del dopoguerra, Mao, Fidel Castro, il Sessantotto. Maitoni giudicanti, predicatori, moralistici o faziosi. Semplicemente un racconto, ornato da panciute illustrazioni rosse e blu (di Alfredo Vullo). Perché la Storia è fatta sostanzialmente di due colori. Infine: comunismo o capitalismo? Risposta fluida: «Il comunismo è una voce che dovrebbe risuonarci in testa ripetendoci che tutti sono uguali e nessuno può sfruttare qualcun altro. Ogni essere umano deve avere le stesse possibilità e il medesimo diritto di essere felice ». Più chiaro di così.
IL LIBRO: Il comunismo spiegato ai bambini capitalisti di Gérard Thomas (Clichy, traduzione di T. Gurrieri, illustrazioni di A. Vullo, pagg. 150 euro 9,90)

Repubblica 22.12.13
Spencer, l’apologia dell’individualismo
di Francesca Bolino


«Le esperienze ripetute ed accumulate non insegnano nulla finché le condizioni intellettuali non sono tali da assimilare quelle esperienze». Herbert Spencer(filosofo inglese, liberale) va collocato nella tradizione individualistica ed evoluzionistica (molto simile a von Hayek che ritroveremo un secolo dopo). Scrive che «la società non è altro che la somma delle vite dei cittadini». Ciò che esiste davvero sono gli individui e le loro azioni e «tutte le azioni sociali sono determinate dalle azioni individuali». Dunque, non esiste una società in sé e per sé. «Troppa legislazione. Strapotere dei parlamenti», afferma a voce alta Herbert Spencer nel 1853 con sguardo rivolto alle nascenti democrazie liberali europee. Combatte la pericolosa convinzione (e ahimè come si vedrà in seguito in via di consolidamento) secondo cui il legislatore democraticamente eletto rappresenta il rimedio a ogni male e persino ai problemi personali. Dunque la propria vita messa nelle mani di un legislatore. Una notevole difesa sociologica e giuridica della libertà. Rileggendo le sue opere, e questo prezioso pamplhet, colpisce la modernità epistemologica del loro impianto teorico.
TROPPA LEGISLAZIONE di Herbert Spencer Rubbettino, trad. di V. Ross, pagg. 138, euro 9

Repubblica 22.12.13
Un libro di Lucio Villari
Ecco l’America dei nostri sogni
di Simonetta Fiori


Un“giocointel-lettuale” che non finisce mai, proiezione di “una nostra eterna infanzia” e promessa di “un futuro misterioso”. Tra le tante definizioni della leggenda americana, questa di Lucio Villari appare tra le più efficaci. Un modo per raccontare un legame persistente, molto complicato, tra il vecchio e nuovo mondo, ed anche tra speranze e disillusioni, tradizione democratica e accecamento ideologico, costruzioni mitiche e bagni di realtà. È l’approdo di un lungo viaggio nella storia di Stati Uniti ed Europa, che nel passo narrativo sembra ispirarsi non allo stile ingessato dell’accademia, ma alle rapsodie del jazz. In compagnia di personaggi non troppo raccontati come Robert Owen, il primo capitalista capace di realizzare il sogno di un “illuminismo americano”. Melville e Leopardi, lumeggiati negli inediti incontri di carta. I tanti americani a Parigi, non solo Gershwin ma, tornando indietro, Nathaniel Hawthorne, Mark Twain, Henry James. E naturalmente i cervelli più lungimiranti dell’economia, capaci di guardare con disincanto ai sussulti del capitalismo, sempre pronti a definire le regole per frenarlo. Senza trascurare artisti come Charlie Chaplin e Woody Allen che dell’America narrano gli aspetti più inquietanti.
In fondo questo libro è anche autobiografia, perché Villari ci racconta le ragioni di un innamoramento che investe la sua generazione, cresciuta nel mito della terra promessa alimentato dai Pavese e dai Vittorini, ed anche sulla lettura più critica di Emilio Cecchi, da cui lo storicoin prestito il titolo di
America amara. Amara per tante ragioni, ci dice Villari. Amara per le lobbies di costruttori di armi e di banchieri indecenti. Amara per il razzismo occulto e per una destra reazionaria peggiore perfino di quella europea. Ma anche nei momenti peggiori, anche tra le sue innumerevoli contraddizioni, è il paese che ha inventato un nuovo modello di democrazia, accendendo l’ammirazione degli illuministi europei. Ed è il paese che ha saputo trovare le soluzioni per uscire dalle crisipiù devastanti.
Nel viaggio americano di Villari una tappa centrale — che poi dà unità alla riflessione — è il New Deal di Roosevelt, un capitolo della storia del Novecento che ha il segno della “verità della politica”, nel senso di «una politica costruita giorno dopo giorno », del «rapporto di fiducia tra chi governa e chi è governato», del «coinvolgimento dei cittadini nella sperimentazione di programmi sociali, culturali ed economici ». Un tentativo di combinare la ripresa con la riforma sociale che avrebbe portato alla nascita del Welfare State. Ed è proprio albrain trust rooseveltiano — ammonisce lo studioso — che bisogna tornare a guardare, soprattutto in un momento di colpevole liquidazione di quella tradizione.
E a proposito di Roosevelt, Villari pubblica per la prima volta la lettera scrittagli nel 1933 da Benito Mussolini. È l’unica missiva che il duce abbia inviato al presiprendedente americano, un messaggio molto cordiale che è anche il segno dell’interesse con cui il capo del regime guardava alle leggi, ai codici e agli istituti messi in atto dall’amministrazione statunitense. Politiche in cui vedeva riflesse alcune idee del fascismo. L’anno successivo Tugwell — collaboratore stretto di Roosevelt — nel corso di un soggiorno romano avrebbe definito Mussolini «il più efficiente campione di macchina sociale che abbia mai visto». Una sintonia presto destinata a rompersi, e da cui — puntualizzano gli studiosi — non si può ricavare un’influenza reciproca tra i due leader. Ancora nove anni e quel campione che procurava “invidia” a Tugwell sarebbe diventato per gli americani un «imperatore di segatura».
Che ve ne pare dell’America?
La domanda se la pose quasi ottant’anni fa William Saroyan, uno dei padri fondatori del mito novecentesco in Italia. Ma in forme profondamente modificate continua a provocarci oggi, con il successo delle cult seriespresso le generazioni più giovani. Un’ipnosi collettiva, un reciproco “erotismo culturale” lo definisce lo studioso, da cui nessuno riesce più a svegliarci. Neppure le voci più allarmate che arrivano dalla terra del sogno infranto.
AMERICA AMARA di Lucio Villari Salerno pagg. 118 euro 9,90

l’Unità 22.12.13
Camilleri e De Mauro: così la nostra lingua cambia e ci cambia
Un saggio a doppia firma per spiegare
le trasformazioni del Paese e i suoi mutamenti linguistici
di Salvo Fallica


SI PUÒ REINTERPRETARE LA STORIA PARTENDO DAL RAPPORTO FRA LINGUA E LINGUAGGI, si può capire meglio l'attualità analizzando la costruzione della lingua nazionale. Questi ed altri temi importanti si trovano in un libro pubblicato da Laterza, con un titolo emblematico, La lingua batte dove il dente duole. Gli autori sono lo scrittore Andrea Camilleri e lo studioso del linguaggio Tullio De Mauro. Il testo scritto in maniera efficace e divulgativa ha una filosofia di fondo molto importante, la cultura come dimensione democratica nel suo senso più pieno, come dimensione aperta a tutti e non uno spazio elitario. Il dialogo è in quest'ottica filosoficamente gramsciano, e non a caso vi è un passaggio dove vien messa in luce la forza comunicativa della scrittura di Antonio Gramsci. Non solo del Gramsci filosofo, ma anche del grande giornalista.
COME UN ALBERO
Da Dante ai nostri giorni il racconto è sempre vivo e mostra come le trasformazioni linguistiche sono legate ai mutamenti sociali ed antropologici. Gli stessi esperimenti linguistici dei narratori riescono quando hanno il fuoco della passione e la concretezza dell'emozione esistenziale, con tutte le contraddizioni vitali ad esse legate. Con la consueta capacità sintetica Camilleri scrive: «Così vedo la lingua italiana: ciò che ci fa raggiungere degli scopi comuni. Ecco perché tengo sempre a dichiararmi uno scrittore italiano nato in Sicilia, e quando leggo scrittore siciliano mi arrabbio un poco, perché io sono uno scrittore italiano che fa uso di un dialetto che è compreso nella nazione italiana, un dialetto che ha arricchito la nostra lingua. Se l'albero è la lingua, i dialetti sono stati nel tempo la linfa di questo albero. Io ho scelto di ingrossare questa vena del mio albero della lingua italiana col dialetto, e penso che la perdita dei dialetti sia un danno anche per l'albero». La risposta di De Mauro: «Sono d'accordo. La cosa interessante è che interrogarsi su che cos'è una lingua significa per te restare accosto al che cosa è la lingua italiana, al che cosa sono i dialetti e qual è il loro rapporto e apporto all'italiano. La frequentazione meno intensa dei linguisti ti permette di dire una profonda, giusta verità: in Italia abbiamo tante lingue».
Del resto in Italia la lingua che si è affermata su tutte le altre (diventando quella nazionale) era all'origine un dialetto (quello fiorentino). Ancor più emblematica la storia del latino ricorda De Mauro. «Roma era un paesetto, nel 390 avanti Cristo ci arrivano i Galli, una banda di ladroni che scorazzavano per l'Italia, e la mettono a ferro e fuoco, cacciando gli abitanti. Questa, al principio, era Roma, la futura Urbe, eppure il dialetto di quel paesetto è diventato il latino».
La lingua è profondamente legata alle mutazioni storiche, sociali, culturali, ma non vi è un meccanismo positivista, vi è l'elemento della creatività umana a rendere l'evoluzione dei linguaggi ancor più originale. Spesso si dice che Dante è un padre della lingua italiana, e non vi è alcun dubbio che ne è uno dei riferimenti fondamentali ma in realtà ne è anche figlio. Dante, Petrarca e Boccaccio sono stati individuati da un gruppo di persone colte nel Cinquecento come i padri della lingua italiana. De Mauro cita giustamente le Prose della volgar lingua(1525) di Pietro Bembo. L'italiano è nato da una operazione culturale elitaria, vicenda che ha fatto scaturire contraddizioni notevoli sul distacco fra lingua scritta e parlata, ma anche in relazione alla sua diffusione nel Paese dopo l'unificazione italiana.
Solo nella seconda metà del Novecento e grazie soprattutto alla Rai (che svolse un ruolo straordinario di divulgazione della lingua) si arrivò ad una vera unificazione nazionale. Eppure, ancora una volta, son stati alcuni grandi scrittori italiani ad anticipare l'unificazione del Paese, si pensi a Manzoni. Sostiene Camilleri: «Un piemontese e un siciliano, pur parlando il loro dialetto, potevano entrambi leggere e comprendere I Promessi Sposi. Mentre questo non avviene tra due popoli come il francese e l'italiano. La radice delle parole, il senso profondo delle parole, anche quelle dialettali, è comune». Anche i grandi scrittori di livello europeo nati in Sicilia, da Verga a Pirandello, da De Roberto a Sciascia, hanno dato un importante contributo al processo di unificazione. Ma allora qual è stato il vero limite? L'affermarsi nel linguaggio burocratico, ufficiale e spesso anche scolastico, di una antilingua, che ha privilegiato termini aulici e lontani dalla vita concreta, formule astruse ed incomprensibili alla maggioranza delle persone. Per fortuna il linguaggio chiaro della Costituzione italiana è sfuggito a questa antilingua; peccato che non pochi politici degli ultimi lustri invece di ispirarsi alla sua limpidezza, preferiscano abbandonarsi agli insulti, non solo volgari ma spesso orribili e sgrammaticati. Ma questa è un'altra storia...

Repubblica 22.12.13
Mosca, la poesia, Moravia, Raboni i ricordi della grande slavista
Serena Vitale
“Puskin, Mandel’stam e la mia anima russa Ho vissuto insieme a meravigliosi fantasmi”
“Lilja Brick, la musa di Majakowskij: sessualmente un vulcano
“Quando nel 967 giunsi in Russia il ghiaccio si era esteso alle menti”
intervista di Antonio Gnoli


Se c’è ancora un’anima russa che gira per l’Europa questa è nel cuore e nella testa di Serena Vitale: la nostra più grande slavista, dotata di una intelligenza talmente veloce che i pensieri si inseguono al ritmo delle zampe scatenate di un cosacco. Ho amato i suoi libri tersi e scintillanti: a cominciare dal Bottone di Puskin per finire con quel mirabolante racconto dei suoi anni moscoviti. Sono certo che amerò anche i prossimi. Smanetta sul cellulare, con la sigaretta accesa che le pende dal lato della bocca. Sta cercando le foto di Majakovskij: «Era bellissimo, anche da morto, guardi qui», dice con trasporto. Sono mesi che gira intorno al poeta. Lo pedina, lo osserva, lo studia. Ride con lui, piange con lui, vede attraverso lui. Penso che gli amori veri sono così: un po’ ossessivi. Ti fanno dimenticare del resto del mondo. Ora è Majakovskij, ieri era Puskin o Mandel’stam, o Belyj. Pezzi di vita e di strada fatta assieme a questi meravigliosi fantasmi. È l’anima russa. Dove nulla è più vero dell’impalpabile. Nulla è più al centro di ciò che è ai margini. Ride. Si tocca i capelli. Mi aspetto, da un momento all’altro, che cominci a declamare una poesia. E invece improvvisamente si fa seria.
Sono stati importanti i poeti nella sua vita?
«In tutti i sensi, la cosa più importante».
Dove è nata?
«Fieramente a Brindisi. Poi, quando avevo dodici anni, i miei si sono separati. Con mia madre ci siamo trasferiti a Roma. Cominciarono gli anni difficili».
Quanto difficili?
«Parecchio. Una certa povertà, mia sorella che non stava bene. Vivevamo al quartiere Africano. Dai palazzoni si scorgevano gli ultimi bagliori pasoliniani: baracche e promiscuità. Poi, giovincella, cominciai a uscire: il liceo Giulio Cesare, un flirt con un ragazzo. La sera, spesso, in una trattoria specializzata in mezze porzioni. Il must era il pollo con i peperoni. Poi il cinema. Al Farnese. C’era quello dei gelati che somigliava a Dostoevskij. Una sera l’incanto finì. Qualcuno dalla sala gli gridò:A Gorkij portece du cremini».
Fantastico, un battesimo slavo in piena regola.
«Chissà, del resto venivo da una famiglia di russomani».
Cosa facevano i suoi?
«Mio padre era violinista. Veniva da una famiglia di liutai. Insegnò musica anche a Domenico Modugno. La mamma nel sistema dei pianeti voleva essere il centro».
In che senso?
«Stabiliva il ruolo di tutti: il figlio maschio medico, mia sorella pianista e io, la bruttina intelligente, professoressa. Pensi che per invogliare mio fratello alla futura professione gli regalò Sinue l’egiziano».
La storia del medico e del faraone. E si vedeva nel ruolo assegnatole?
«Non lo so. La signorina Fucile — zitella abbandonata sull’altare e insegnante di matematica — diceva che ero una peciona ma molto dotata nella sua materia. Sì, potevo trasformarmi in una professoressa di matematica. Oggi ho l’impressione di aver dimenticato tutto. Mi è restata la logica. Ogni tanto penso che nei momenti difficili la logica mi sia stata utile».
A quali momenti pensa?
«A quelle tre o quattro storie che mi hanno schiantata».
Prima faceva un cenno su sua sorella.
«Fu una vicenda terribile. Studiava al conservatorio, era una pianista promettente. Poi un giorno le diagnosticarono una forma di schizofrenia. Girammo l’Europa nella speranza che potessero aiutarla. Un medico svedese le praticò la lobotomia. Era una creatura bellissima. Fu deprivata di una parte di sé. E poi è morta a Santa Maria della Pietà. Questo è tutto».
E lei come ci sta in questo tutto?
«Malissimo, ancora oggi. Mi accorsi della malattia un giorno che eravamo nella stessa stanza. Stava lavorando a un maglione di lana a righe grigie e arancioni. A un certo punto, con una forbice lo tagliòin due. Le dissi: ma che fai, così lo rovini. Lei mi guardò sbigottita: no, rispose seria, dov’è il taglio metterò dei bottoni. Non aveva senso. Ma era la separazione a colpirmi. Un’altra volta vidi le sue foto appese al muro con le punte di spillo sugli occhi».
Cosa pensò?
«Ero terrorizzata. In seguito, mi spiegarono che è un classico della schizofrenia operare l’autocancellazione di sé. È la prima volta che ne parlo. In certi momenti, quando è più acuto il dolore, ho pensato di scriverne. Ma resisto, so che non è giusto».
Forse sarebbe liberatorio.
«Non ci si libera mai interamente. Qualcosa resta sempre sul fondo. Ma poi ci sono anche le cose belle. Il nonno aveva un’agenzia di spedizioni marittime. Da bambina mi faceva salire sulle navi. E lì avvertivo che la Puglia è una terra di vento e di altrove. Fu in una di quelle circostanze che percepii che la mia storia volgeva a Est. Un giorno il nonno mi portò a bordo del piroscafo La valigia delle Indiee mi raccontò dei favolosi viaggi in Oriente».
Perché poi scelse la Russia?
«Fu grazie all’incontro con Angelo Maria Ripellino, il grande slavista. Assistetti a una sua prima lezione all’Università di Roma. Non andò un granché bene. C’erano almeno 500 persone. Cominciai a sudare. Soffrivo di claustrofobia. Il disagio crebbe. Uscii di corsa. Eppure...».
Eppure?
«Quell’uomo aveva un’anima speciale. Tornai in seguito ad ascoltarlo. Mi stregò la forza teatrale delle sue lezioni. Le schede colorate che esibiva, agitandole come carte da prestigiatore. Per lui nulla è quello che è, ma ogni cosa rimanda ad altro. Mi aprì la mente. Mi laureai con lui su Andrej Belyi. Andai a Mosca e mal me ne incolse ».
Cosa non funzionò?
«Ci volle del tempo perché mi abituassi a quel mondo. Arrivai con tre compagne dell’università nel 1967. Ci installammo nel convitto dell’Università di Mosca, sulle colline Lenin. Eravamo in piena epoca brezneviana. Il ghiaccio si era esteso alle menti. Il primo grande shock me lo procurò lo scarafaggio: iltarakano fulvo, lablattella germanica come la classificò Linneo. Fu un incubo. Ma compresi quando, finalmente vinto l’orrore e la paura, riuscii a dormire in sua presenza, che ero di casa in Russia».
E che paese trovò?
«Immenso, straordinario, dedito alla sopravvivenza e alla delazione. L’alcol, la vodka in particolare, era il solo vero collante del socialismo realizzato. Pensavo a cosa era stata la Russia, soltanto ai primi del secolo, quando tutto era permesso: il sesso, l’intelligenza, la provocazione. Certe volte telefonavamo di notte, ubriache, a Ripellino: non è più un paese per giovani, gli gridavamo dalla cornetta ».
«È vero. Il più grande è stato Viktor Shklovkij, strepitoso letterato. Volevo scrivere un libro su di lui. Andai a trovarlo nel 1978-79, durante l’inverno più freddo del secolo. Mi diressi a casa sua. Vidi quest’uomo, piccolo e agitato, che si intratteneva con una troupe televisiva. Cominciò a urlare contro un giovanotto che gli dava ordini su come disporsi davanti alla telecamera: ho lavorato con Pudovkin e con Ejzenštejn, io, cosa vuole insegnarmi? Era molto incavolato. Incline all’ira. A volte sibillino. Ironico: non ho mai avuto talento, come scrittore, il mio è solo un trattenuto furore, mi disse».
«Andai a trovarla a Mosca, ormai anziana. Fu la musa e compagna di Majakovskij. Sessualmente un vulcano. Collezionava amanti con la facilità con cui noi respiriamo. In più adorava esibirli. Le piaceva farlo strano».
«Mah, si incontrava con Majakovskij nei bordelli di Mosca. Era una donna scatenata, perfino coraggiosa. Erede di quella stagione senza pudori che fu l’età Ma non era una donna geniale. Odiava la Achmatova, lei sì talento assoluto. Un odio che la poetessa contraccambiava con la rabbia di chi aveva sofferto profondamente ».
«Belle, complicate, deludenti, a volte dolorose. Quella più importante fu con Giovanni Raboni. Iniziò nel 1970, lavoravo alla Garzanti. Ci sposammo. Ci siamo lasciati nel 1981. Fu una strana miscela: io sgangherata, venivo da Brindisi e poi da Roma e lui a modo, con la sua moralità milanese. Mi colpì l’uomo: bello e discreto. Penso che i veri amori, come i poeti, vanno protetti».
«Dalla stanchezza e dalle maldicenze del tempo. Con Giovanni passammo un bel periodo a Praga. E pensare che gli anni della normalizzazione furono più neri di quelli della stagnazione sovietica. Eppure, la città dagli anni Trenta in poi fu un tesoro di cultura russa. Conoscemmo persone interessanti, fra cui Kundera. Diventammo amici. A noi chiedeva se doveva andarsene, emigrare. E poi nel 1975 si trasferì in Francia. Rimasi affascinata dai suoi primi libri. Tradussi e lo diedi alla Mondadori. Ricordo un imbarazzato Vittorio Sereni che mi fece vedere il giudizio di lettura che ne era stato dato: il libro fa schifo! Era un libro bellissimo che in seguito sarebbe uscito per Bompiani».
«Una volta Pasolini mi scrisse ringraziandomi di avergli fatto conoscere quel poeta meraviglioso che è Osip Mandels’shtam».
«Alcune volte. Di solito si cenava alla Carbonara. Gli ho voluto bene. Voleva sapere di Tolstoj e della sua fuga del 1910, l’anno in cui lo scrittore russo morì. Parlava pochissimo. La sua morte mi sorprese e mi addolorò. L’appresi che ero con Giovanni a Parigi. Tornammo a Milano. Frastornati da quell’evento».
«Naturalmente Laura Betti, che frequentai nel suo periodo buono. Poi Elsa Morante. Fu vera amicizia tra noi. Ma non per questioni letterarie. Piuttosto per l’amore che avevamo per i gatti. E poi Moravia ».
«Meno del cantante Robertino e Sofia Loren. Ma insomma un’autorità. Ricordo una cena in suo onore a Mosca al ristorante Sovietskaya, luogo di antiche abboffate per il Komintern. A un certo punto, tra una portata e l’altra, vidi Moravia irrigidirsi, come l’intarsio di una betulla e rimanere in silenzio. Il coro intonò
«La Russia è diventata un’altra cosa. Ricordo che quando Jurj Andropov era a capo del Kgb disse che avrebbero sconfitto la dissidenza aumentando la produzione di salame».
«Pensava così di combattere la corruzione: cominciando dai
«Mi dicono i miei amici che a Mosca la corruzione non è più un problema, è un sistema».
«Vorrebbero andarsene. Non ce la fanno più a stare dove stanno. Mosca, mi pare, ha perso la sua anima. Gli scrittori scrivono
Lei ha iniziato con Puskin e ora è lì immersa in Majakovskij. Cosa hanno in comune?
«Boh, non lo so. Forse il fatto che entrambi sono morti a 37 anni. E con storie di donne alle spalle».
«La sorprenderò. Sì. Conobbi a Praga negli anni Sessanta un ragazzo. Lo invitai a Roma e lo feci conoscere a Ripellino. Filammo per un po’. Era molto romantico anche se figlio di un pezzo grosso del comunismo. Tornò nel suo paese. Ripellino lo convinse a trasferirsi in Italia. Ma non fece in tempo: quei giorni chiusero le frontiere. Ci perdemmo così di vista. Si chiamava Vladimir Novák».
«Passarono gli anni. Mi dimenticai di quella storia. Poi nel 2000 tornai a Praga. L’indomani dovevo incontrare Havel del quale ero amica fin dai tempi di Kundera. Ma Vaclav ebbe un contrattempo. A quel punto, non sapendo cosa fare, mi ricordai di lui, di Vladimir. Provai a rintracciarlo telefonicamente. Feci un numero. Chiesi, emozionata di lui. Sicura dell’inutilità del tentativo. Mi rispose: sono io e sono un uomo vedovo! Il giorno dopo si presentò all’Archivio dell’emigrazione russa, dove stavo facendo delle ricerche, con un grande mazzo di rose. L’anno dopo ci siamo sposati».
«È un artista affermato, un pittore. Abbiamo deciso di non vivere insieme. Di non scegliere una città: Milano o Praga. Ma di vederci, con la giusta frequenza, da me o da lui. O in qualunque posto dove desideriamo essere. È un amore fisso e volatile. Una bella storia, insomma ».
«Non ha nulla di malinconico. Effettivamente mi fa pensare a una storia festosa».

Serena Vitale, nata a Brindisi nel 1945, è una scrittrice e traduttrice italiana.
Nel 2001 ha vinto il Premio Bagutta conLa casa di ghiaccio

Corriere La Lettura 22.12.13
Machiavelli come Sartre: un esistenzialista
di Antonio Carioti


L’interesse di Gennaro Sasso per Niccolò Machiavelli risale ai tempi del liceo. Il primo libro sul grande autore fiorentino lo pubblicò trentenne, nel 1958. Mentre termina un 2013 di celebrazioni un po’ retoriche per i cinque secoli del Principe , la sua lettura spicca per il richiamo alla radicalità di un pensiero che, da giovane, ha approfondito in parallelo a filosofi di tutt’altro genere, gli esistenzialisti. «All’università — racconta Sasso — leggevo con passione Karl Jaspers e Jean-Paul Sartre, autori che insistono sulla precarietà di una condizione umana esposta alla contingenza. Suggestioni che mi sono servite per intendere meglio un motivo centrale in Machiavelli: la contestualizzazione estrema dell’azione politica in quella che lui chiama la fortuna, cioè gli accadimenti che non si controllano. Il dramma del principe è appunto la lotta con la fortuna, l’esigenza di sfruttare opportunità che non dipendono da lui».
Fronteggiare l’imponderabile, continua Sasso, diventa così la priorità assoluta: «Il destino dello Stato è sempre incerto. E bisogna difenderlo, perché ne va della vita di chi ne fa parte. Sono i venti della fortuna che spingono a usare i mezzi più utili nella situazione concreta, anche se malvagi. Perciò per Machiavelli bontà e cattiveria non contano. Lui stesso se ne duole, ma osserva che rimanere sempre fedeli ai valori etici nell’agire politico non produrrebbe alcun bene, perché causerebbe la rovina dello Stato».
Ma come si concilia tale crudo realismo con la chiusa del Principe , l’appello a liberare l’Italia dagli stranieri? «Il capitolo finale si riallaccia al sesto, dove si parla dell’azione salvifica svolta da individui eccezionali, come Mosè o Teseo, in situazioni che richiedevano una particolare virtù politica. In fondo proprio il realismo induce a ritenere che tempi terribili esigano personalità provvidenziali. Qui Machiavelli unisce acutezza di analisi e capacità d’immaginazione».
Tuttavia è ben lontano dall’affidarsi solo ai capi carismatici: «Machiavelli — osserva Sasso — esalta la virtù individuale del principe, ma la sua preferenza va a una repubblica in cui la solidità dello Stato risieda negli ordini, cioè nel quadro istituzionale. Nei principati c’è il problema spinoso della successione personale al potere, mentre nelle repubbliche la continuità è assicurata da un intreccio di forze diverse che, garantendo se stesse, tutelano anche il complesso dello Stato, in modo che non dipenda dall’autorità di un solo individuo. Machiavelli considera un modello ideale la tripartizione della repubblica romana: consoli, senato, plebe. E vede il perno della garanzia istituzionale nel coinvolgimento del popolo».
Eppure Machiavelli descrive un volgo infido e credulone. «Ma si riferisce al popolo dell’Italia di allora, abbandonato alla sua vena deteriore. Invece il popolo romano, con i tribuni della plebe, era un soggetto politicamente attivo. Le buone istituzioni servono appunto a fare in modo che le cattive inclinazioni umane non provochino troppi danni. Del resto Machiavelli è uno scrittore pagano, estraneo al senso cristiano del peccato. Per lui l’uomo non è malvagio in sé, ma perché è un essere a rischio, sempre in lotta per la sopravvivenza: un altro punto di consonanza con l’esistenzialismo ateo».
La religione gli importa solo come fattore politico: «Nell’Arte della guerra Machiavelli narra che, quando aveva cercato di arruolare contadini nella milizia fiorentina, si era trovato di fronte individui “venuti su per li bordelli”, ben poco affidabili. E si era chiesto su quale Dio farli giurare per trasformarli in soldati. Insomma, per lui la religione serve a creare un legame sacrale tra i cittadini e lo Stato. A tal fine si può usare anche il Dio cristiano, ma così lo si paganizza. Per Machiavelli il messaggio caritatevole del Vangelo ha “effeminato il mondo”: quando evoca il fallimento dei profeti disarmati, non si riferisce solo a Girolamo Savonarola, ma allo stesso Gesù. A suo avviso la venuta di Cristo non ha migliorato i costumi degli uomini, semmai li ha rammolliti».
Un altro tema centrale in Machiavelli è appunto la decadenza: «Pensa che la caduta dell’impero romano abbia aperto una lunga fase di declino. L’Italia dei suoi tempi sta rinnovando i fasti dell’antichità quanto a splendore artistico e letterario, ma sul piano politico è in ginocchio, percorsa dagli eserciti di popoli barbari e rozzi. Machiavelli disprezza francesi e spagnoli: lo tormenta il fatto che la forza militare consenta a quelle genti incivili di straziare la sua terra».
Nel motivo della decadenza Sasso coglie aspetti attuali: «Nei Discorsi Machiavelli si chiede che fare quando un sistema politico va in crisi e nulla funziona più. Se le istituzioni sono a pezzi, non possono risanarsi da sole. Servirebbero uomini adatti a restaurare i princìpi originari dello Stato, ma è difficile che nascano in un’era di corruzione. L’Italia di oggi mi pare in condizioni del genere: necessita di governanti seri, con le idee chiare, e non sa dove trovarli».
Qualcuno vede il presidente Giorgio Napolitano come un aspirante principe. «Non capisco perché da tante parti si spari sul capo dello Stato. Non credo che, alla sua età, nutra ambizioni monarchiche: se può aver ecceduto i limiti costituzionali, è perché siamo nel caos e i vuoti vanno riempiti. Chiede solo che si faccia una legge elettorale, per mandare il Paese alle urne con qualche speranza che ne esca un governo stabile».
Forse il principe del XXI secolo dovrebbe avere una dimensione europea: «Invocherei piuttosto un legislatore capace di dare all’Europa consistenza politica. Oggi, con la crisi dell’euro, l’Unione è al tempo stesso una casa da cui sarebbe folle uscire, ma anche una gabbia soffocante. Del resto l’Ue è un’entità indefinibile dal punto di vista giuridico. Ci vorrebbe un punto di riferimento forte per andare oltre la visione angusta, monetarista e burocratica dell’Europa, per trasformarla in un vero Stato federale».

Corriere La Lettura 22.12.13
Il Sant’Uffizio, oggi
I nuovi eretici oggi aggrediscono l’uomo
Gerhard Ludwig Müller è il «guardiano della fede» della Chiesa cattolica
«Schiavitù, sfruttamento, malattie: la società ha smarrito il senso della dignità»
di Gian Guido Vecchi


L’ingresso al Palazzo del Sant’Uffizio è un portone a cuspidi di ferro, sul quale è ritagliata una porticina che in Vaticano chiamano «porta Ratzinger», perché colui che fu il «guardiano» della fede per ventitré anni ne aveva la chiave — troppo pesante da smuovere, il battente principale — e passava di lì. Il suo successore nella più antica e importante Congregazione, la Dottrina della Fede, è l’arcivescovo Gerhard Ludwig Müller, 66 anni, nominato l’anno scorso da Benedetto XVI e confermato a settembre da Francesco. Un uomo imponente, che nell’ingresso dello studio ha messo la statuetta d’un vescovo a cavallo che innalza l’ostensorio, una tradizione della sua vecchia diocesi di Ratisbona. Ama raccontare che quando ne ha parlato a Bergoglio, «pensi che resto in sella per sei ore», il Papa ha sorriso: «Povero cavallo!». Figlio di un operaio, per sedici anni docente all’Università Ludwig-Maximilian di Monaco di Baviera, Müller è il teologo scelto da Ratzinger come curatore della propria opera omnia e insieme l’amico e «discepolo» di Gustavo Gutiérrez, padre dalla Teologia della Liberazione. Così lo dipingono come conservatore o progressista, secondo i casi, «ma la schizofrenia non è mia!». Certo ha chiaro il suo compito: «Il primo scopo della Congregazione è promuovere la fede per la salvezza dell’uomo, ma il secondo è difenderla». E non si sottrae a nessuna domanda: dai sacramenti ai divorziati risposati alle nuove «eresie», compreso il «rischio di particolarismo» nella Chiesa: «Alcuni interpretano la Evangelii Gaudium come se il Santo Padre volesse favorire una certa autonomia delle chiese locali, la tendenza a distanziarsi da Roma. Ma questo non è possibile. Il particolarismo, come il centralismo, è un’eresia. Sarebbe il primo passo verso l’autocefalia».
In che senso, eccellenza?
«La Chiesa cattolica è composta di chiese locali ma è una. Non esistono chiese “nazionali”, siamo tutti figli di Dio. Il Concilio Vaticano II spiega in concreto il rapporto tra il Papa e i vescovi, tra il primato di Pietro e la collegialità. Il Pontefice romano e i singoli vescovi sono di diritto divino, istituiti da Gesù Cristo. Anche la collegialità e la collaborazione fra i vescovi, cum Petro e sub Petro , hanno qui il loro fondamento. Ma i patriarcati e le conferenze episcopali, storicamente e oggi, appartengono solo al diritto ecclesiastico, umano. I presidenti delle conferenze episcopali, pur importanti, sono coordinatori, niente più, non dei vicepapa! Ogni vescovo ha un rapporto diretto e immediato con il Papa. Non possiamo avere una decentralizzazione nelle conferenze, ci sarebbe anche il pericolo di un nuovo centralismo: con la presidenza che ha tutte le informazioni e i vescovi sommersi da documenti senza il tempo di prepararsi».
E cosa intendeva Francesco quando parlava di «conversione del papato» e scriveva che le conferenze dovrebbero avere «qualche autentica autorità dottrinale»?
«Il Papa partiva dalla riflessione sull’esercizio del primato che Wojtyla fece nel ‘95 con la Ut unum sint . Il senso è chiaro nella dimensione ecumenica e anche rispetto alla collegialità. Quanto alle conferenze, a certe condizioni hanno una loro autorità anche magisteriale: quando ad esempio preparano un catechismo locale, si occupano del messale, governano università e facoltà teologiche. Lavorano nella dimensione concreta, il Papa non può sapere tutto ciò che accade in ogni Paese. Si tratta di trovare un equilibrio pratico. Non possiamo accettare antichi errori, come il conciliarismo, il gallicanismo o all’opposto un certo curialismo...».
Il 2013 ha visto le dimissioni di un Papa. È cambiato qualcosa nel papato?
«Certo la rinuncia di Benedetto XVI è stata sorprendente, un caso assolutamente nuovo: ha detto che gli mancavano le forze per adempiere a questo grande compito, tanto più gravoso nel tempo della globalizzazione delle informazioni. Ha deciso perché si potesse eleggere il nuovo Papa, e adesso Francesco è “il” Papa. Ratzinger è come un Padre della Chiesa e il suo pensiero resterà, Francesco lo richiama spesso anche per sottolineare la continuità teologica. Ma il Papa può essere solo una persona, non un collettivo. Non ce ne sono due. È il fondamento e principio permanente dell’unità della Chiesa. Eletto dai cardinali ma istituito dallo Spirito Santo».
E il suo, di ruolo, è cambiato? Francesco dice che la Chiesa «non è una dogana»...
«È vero, neanche la Congregazione lo è! Il Papa ha il carisma di esprimersi non solo con concetti teologici ma attraverso immagini vicine al cuore della gente che esprimono la vicinanza di Gesù a tutti noi. Noi teologi corriamo sempre il rischio di chiuderci nel mondo della riflessione accademica. Ma Francesco non va da un’altra parte: combina la tenerezza del pastore e l’ortodossia, che non è una teoria qualsiasi, ma la retta dottrina espressa nella pienezza della Rivelazione. Il primo custode della fede è Pietro e il suo successore come vescovo di Roma. E noi della Congregazione siamo in questo al suo diretto servizio».
Sui divorziati e risposati esclusi dai sacramenti, Hans Küng ha scritto: «Il Papa vuole andare avanti, il prefetto della fede frena».
«Guardi, a Magonza abbiamo una grande tradizione del Carnevale...Io sono e sarò sempre con il Papa. La verità è che non possiamo chiarire queste situazioni con una dichiarazione generale. Sui divorziati e risposati civilmente, molti pensano che il Papa o un sinodo possano dire: riceveranno senz’altro la comunione. Ma non è possibile, così. Anche la prassi ortodossa della “seconda unione” non è uniforme e gli stessi ortodossi la tollerano senza favorirla. Un matrimonio sacramentale valido è indissolubile: questa è la prassi cattolica riaffermata da Papi e Concilii, in fedeltà alla Parola di Gesù. E la Chiesa non ha l’autorità di relativizzare la Parola e i Comandamenti di Dio».
Francesco ha detto che i sacramenti non sono per i «perfetti» e possono essere un «aiuto»...
«Certo che il sacramento è una grazia, non siamo pelagiani! Il Papa ne ha giustamente richiamato l’aspetto medicinale. Ma ci sono delle condizioni obiettive. Una situazione irregolare nel matrimonio è un ostacolo oggettivo a ricevere l’Eucarestia. Non va vissuto come una punizione: non lo è. E non impedisce di partecipare alla Messa».
E allora non c’è niente da fare?
«Le cose non stanno così. Dobbiamo cercare una combinazione tra i princìpi generali e la situazione particolare, personale. Trovare soluzioni ai problemi individuali, ma sempre sul fondamento della dottrina cattolica. Non si può adeguare la dottrina alle circostanze: la Chiesa non è un partito politico che fa sondaggi per cercare consenso. È necessario un dialogo concreto, pastorale. Ci sono situazioni differenti da valutare in modo differente».
La soluzione è l’annullamento del matrimonio?
«Se ci sono le condizioni per dichiararlo nullo, sì. Per questo abbiamo i tribunali ecclesiastici...».
Ma è possibile se si hanno figli?
«Sì, non sono i figli che fanno la validità ma il consenso tra coniugi consapevoli del sacramento. In molti Paesi ci sono solo resti della tradizione cristiana, si è perso il senso, c’è una confusione totale».
Quali sono le nuove eresie, oggi?
«I problemi si concentrano nell’antropologia. Manca una coscienza della dimensione trascendente dell’uomo, della sua vocazione divina. Il senso della dignità umana. Penso alle nuove schiavitù, ai poveri, allo sfruttamento delle donne, agli abusi non solo sessuali sui minori, ai malati visti come un costo da eliminare, alla vita ridotta alla funzionalità produttiva, alle condizioni di lavoro: un’organizzazione economica che tende a distruggere la vita della famiglia con grave danno per la vita stessa, i figli...».
Fallite le trattative, qual è la posizione dei lefebvriani?
«Ai vescovi è stata revocata la scomunica canonica per le ordinazioni illecite, ma resta quella sacramentale, de facto , per lo scisma: si sono allontanati dalla comunione con la Chiesa. Dopodiché non chiudiamo la porta, mai, e li invitiamo a riconciliarsi. Ma anche loro devono cambiare atteggiamento, accettare le condizioni della Chiesa cattolica e il sommo Pontefice come criterio definitivo di appartenenza».
Che cosa può dire dell’incontro fra Francesco e Gutiérrez, l’11 settembre?
«Alle correnti teologiche capitano momenti difficili, si discute e chiarisce. Ma Gutiérrez è sempre stato ortodosso. Noi europei dobbiamo superare l’idea di essere il centro, senza peraltro sottovalutarci. Ampliare gli orizzonti, trovare un equilibrio: questo ho imparato da lui. Ad aprirmi a un’esperienza concreta: vedere la povertà e anche la gioia della gente. Un Papa latinoamericano è stato un segno celeste. Gustavo era emozionato. Lo ero pure io. E anche Francesco».

Corriere La Lettura 22.12.13
Psichiatria
I nostri dèi sono i farmaci , non le malattie
Il Dsm è il manuale per la diagnosi dei disturbi mentali
Il nuovo affondo viene dallo scienziato Allen Frances: «Non va curato chi è normale»
di Emanuele Trevi


P ubblicato in America e tradotto in tutto il mondo, il Diagnostic and Statistical Manual , meglio conosciuto come Dsm , è un formidabile atlante della psiche umana e dèi suoi malanni, dai disturbi più rimediabili alle peggiori psicosi. Non è solo uno strumento di lavoro pratico, come moltissimi altri manuali, ma un vero e proprio Codice, che stabilisce un confine certo tra ciò che è normale e ciò che è patologico, con conseguenze anche giuridiche importantissime. Ogni edizione del Dsm , come si può facilmente capire, genera un notevole numero di ripercussioni, e si può considerare un vero e proprio evento.
È normale che tutte le enciclopedie, a ogni aggiornamento, non si limitino a correggere gli errori del passato, ma tendano ad aumentare la mole delle conoscenze. Ma nel caso specifico del Dsm , il rischio di dar vita a decine di malattie mentali prima sconosciute non è innocente. Una volta stabilito che un dato comportamento è una patologia, ne conseguono una diagnosi, e soprattutto una terapia farmacologica. Quella che ne può venire fuori, è una società esageratamente medicalizzata, senza risparmiare i bambini e gli adolescenti con le loro famigerate sindromi.
Esplicito fin dal titolo: Primo, non curare chi è normale , l’atto d’accusa di Allen Frances è doppiamente significativo: in primo luogo chi l’ha scritto è uno dèi più autorevoli psichiatri americani; Frances è stato inoltre a capo dell’équipe di studiosi che ha curato la quarta edizione del Dsm . Il suo, dunque, in una certa misura è un tradimento, un’abiura. Ma la filosofia alla base dèi lavori per la quinta edizione del Dsm lo ha così turbato da ripensare a fondo tutta la questione e farlo scendere sul terreno di una spinosissima polemica. Quello di Frances, si badi bene, non è uno dèi tanti attacchi alla psichiatria che si sono succeduti nel secolo scorso (il più celebre, dal punto di vista filosofico, rimane senza dubbio l’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari).
Al contrario, Frances è uno psichiatra convinto della necessità di affrontare i mali reali con tutto l’accanimento e tutti i farmaci necessari. D’altra parte, è convinto che non tutti i dolori siano malattie che richiedono la loro pasticca. Ci ricorda che «siamo una specie dalla pelle dura», che può contare su una naturale capacità di recupero e sul potere lenitivo del tempo. Ma ci stiamo abituando a una «medicalizzazione della normalità» che si riflette direttamente nell’incredibile numero di tonnellate di psicofarmaci che nel mondo occidentale si ingurgitano ogni giorno. Frances ha ragione, e il suo ragionamento ha il merito di fotografare una delle più sconcertanti mutazioni antropologiche del nostro tempo.
Forse però l’unica responsabile di questo doping planetario non è la volontà di potenza della psichiatria. Anche il rapporto fra pazienti e farmaci andrebbe indagato, cercando di capire come il consumo dèi farmaci si sia trasformato in una vera e propria devozione personale, molto simile alla bhakti degli induisti. In un suo celebre aforisma Carl Gustav Jung, che viveva ancora in un mondo con pochissimi farmaci, affermò che gli antichi dèi si erano trasformati in malattie.
Oggi è necessario aggiornare l’intuizione: i nostri dèi sono le molecole, i princìpi attivi dèi farmaci, efficaci o meno a seconda dèi riti, dèi sacrifici, della fede che si riserva loro. Come un romano del tardo impero cercava il favore di Iside, così noi ci trasformiamo in fedeli del Tavor. E questo nuovo politeismo chimico è la grande religione dèi nostri giorni. Gli psichiatri dovrebbero occuparsene a fondo, magari inserendolo nel Dsm . Ma esiste un farmaco che curi la fede nei farmaci?

Corriere La Lettura 22.12.13
Stragi nazi: la mappa mancante
di Dino Messina


Sembra incredibile, ma a settant’anni dai fatti, nonostante le centinaia di pubblicazioni, le mostre, le ricerche locali condotte dagli Istituti per il movimento di Liberazione, le commissioni d’inchiesta parlamentari, le commissioni internazionali, i processi, le inchieste giornalistiche... ebbene, nonostante tutto questo, non esiste ancora una mappa precisa delle stragi compiute dai nazisti contro i civili italiani tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945. Gli episodi maggiori sono arcinoti, dalla rappresaglia delle Fosse Ardeatine del marzo 1944 agli eccidi di Monte Sole e Marzabotto, tra il 29 settembre e il 4 ottobre 1944, che con oltre 1.800 vittime, tra cui centinaia di bambini e donne, rimane l’episodio più cruento di questo tipo in tutta la guerra europea. Ma dalle maglie tessute dagli storici mancano tanti fatti minori, avvenuti per esempio al Sud.
Prendiamo queste considerazioni dal saggio dello storico Paolo Pezzino, La costruzione di una mappa complessiva delle stragi , che fa parte del volume collettaneo Le stragi nazifasciste del 1943-1945. Memoria, responsabilità e riparazione , a cura dell’Anpi (Carocci, pp. 125, € 14). La regione più colpita dalla cruenta anabasi nazista dalle coste del Sud verso il Nord, fu la Toscana, che pagò con oltre 3.650 vittime civili. Ma più che il dato numerico, resta ancora aperto il problema interpretativo. Come giustificare tanta violenza? Secondo Roberto Vivarelli, che ha paragonato la violenza nazista a quella degli americani in Vietnam, tutte le guerre si somigliano; per Leonardo Paggi le stragi sono figlie di una cultura della morte gratuita e irrazionale; Pezzino invece sposa la tesi di Enzo Collotti sulla specificità della guerra nazista, e sull’importanza che nell’uccisione dei civili italiani ebbe il sistema di ordini impartiti all’esercito, a cominciare dalla direttiva di Kesselring del marzo 1944 che chiedeva alle truppe di far terra bruciata attorno ai partigiani. La maggior parte delle violenze non furono commesse per rappresaglia: erano crimini programmati. Aperta è anche la questione dei risarcimenti. Una questione ampiamente analizzata nel volume che ospita tra gli altri un saggio conclusivo del giurista e presidente dell’Associazione partigiani, Carlo Smuraglia.

Corriere La Lettura 22.12.13
L’intervista con Michel Serres
Un Tocqueville per il XXI secolo
La tecnologia ha cambiato uomini e istituzioni
Serve un filosofo che inventi una nuova società
di Hans Ulrich Obrist


Vorrei cominciare dal libro più recente di Michel Serres, Petite Poucette . Ho scritto un articolo su Petite Poucette e vorrei chiedere a Michel Serres — che è filosofo e scrittore — com’è nata l’idea di questo libro, che per il XXI secolo è così bello e ottimista. «L’avvio è stato lento e veloce al tempo stesso — mi dice —. Da un lato, è da molto che scrivo libri sulla comunicazione, cioè su Hermes, sul luogo della comunicazione, sul parassita, sugli ostacoli della comunicazione, perciò mi occupavo da tempo di questi argomenti. Dall’altro lato, da trentacinque anni insegno a Stanford, nel cuore della Silicon Valley, e sono stato quindi portato a occuparmi di tecnologia, di industrie, di startup. Insomma, ero preparato».
Sarebbe interessante parlare un po’ di più di Hermes. Ho discusso a lungo di comunicazione con Bruno Latour quando ha realizzato il libro di interviste con lei. Ma ancor prima, negli Anni 80, lei parlava dell’era della comunicazione. Può spiegarci questa sorta di anticipazione?
«Non è stata affatto un’anticipazione, perché c’è stata una lunga preparazione, e si va a ben prima degli Anni 80. Già negli Anni 60 si vedeva che l’industria si stava trasformando e che nel mercato del lavoro l’occupazione nei servizi andava sostituendo quella nella produzione. Si capiva che la comunicazione guadagnava terreno rispetto alla produzione e che già dagli Anni 60 le società stavano cambiando rotta. Allora ero molto sensibile a questo cambiamento che poi, con l’avvento dei computer e delle nuove tecnologie, ha avuto un’accelerazione incredibile. Questo è stato il mio percorso in quegli anni».
In «Petite Poucette» lei si occupa di tre rivoluzioni, l’ultima delle quali è quella che stiamo vivendo oggi, con tutte le conseguenze che ne derivano. Me ne può parlare?
«Ho parlato di tre rivoluzioni storiche: il passaggio dall’oralità alla scrittura, la rivoluzione della stampa nel XV secolo con l’arrivo di Gutenberg e del libro, e la terza rivoluzione, quella dei computer. È una rivoluzione che si basa sulla coppia mezzo/messaggio, ossia sulla coppia hard/soft. Nell’oralità il mezzo è il corpo e il messaggio è il parlato; poi il mezzo è la carta e il messaggio è quel che è scritto o stampato. Oggi il mezzo è materiale e il messaggio è elettronico. Tutte queste rivoluzioni — della scrittura, della stampa e la nostra — hanno trasformato quasi completamente la società. Hanno prodotto cambiamenti finanziari, industriali, commerciali, nel linguaggio, nella scienza e anche nella religione. Alla scrittura, ad esempio, è associata la religione del libro, la religione ebraica e poi quella cristiana, e in seguito, al tempo della stampa, vi è stata la riforma, il protestantesimo, in opposizione al cattolicesimo. Ogni volta ci sono state quindi delle rivoluzioni in quasi tutti i settori della società, e anche oggi ci dobbiamo aspettare crisi analoghe».
Qualche giorno fa parlavo con il mio amico Adam Curtis, un importante regista inglese che lavora con la Bbc, di crisi delle istituzioni. Ormai quasi tutte le grandi istituzioni sono in crisi, compresa la Bbc. Forse questo si collega a quello di cui parlava. Mi può dire da che cosa saranno sostituite queste istituzioni?
«Rispondo alla sua prima domanda, sulla crisi generale delle istituzioni, con un atteggiamento diagnostico, di tipo medico. Vi sono, ad esempio, alcuni tipi di media che perdono terreno, come il giornale o il libro. Ma la crisi è ancora più radicale per l’università — dato che i corsi online stanno prendendo il sopravvento — e tocca anche le istituzioni politiche. Possiamo fare, come dicevo, una diagnosi di questo cambiamento e giudicarlo con lucidità. Per rispondere alla sua seconda domanda, vale a dire da quali società o istituzioni saranno sostituite, bisogna fare delle previsioni, ma io non sono ancora in grado di farne. Mi sembra che avremmo bisogno di un grande filosofo politico che inventi nuove istituzioni».
Anch’io mi sono chiesto recentemente chi fossero i pensatori politici del XXI secolo. Ne ha visti i primi segni?
«Vorrei non dover morire prima di aver cercato di rispondere alla sua domanda».
Allora questo potrebbe essere l’argomento di un suo prossimo libro?
«È per questo che mi sto occupando del problema. Nel XIX secolo ci sono stati molti pensatori innovativi, come i socialisti utopisti, Marx e altri ancora. Nel XX secolo, invece, ne abbiamo avuti assai meno, e anche oggi ne sentiamo molto la mancanza».
Lei ha detto che le nuove tecnologie creano un nuovo essere umano. Mi piacerebbe che spiegasse meglio quest’idea.
«A proposito dell’invenzione della stampa, in uno dei suoi saggi Montaigne aveva detto: “È meglio una testa ben fatta che una testa ben piena”. Aveva notato una strana cosa: la testa, cioè il soggetto del pensiero, cambiava. Con l’avvento della stampa si aveva l’impressione che fosse nato un nuovo modo di pensare. Lo prova il fatto che proprio allora è nata la fisica matematica. Anche oggi sta emergendo un nuovo modo di pensare, una nuova testa. Il computer è già la nostra memoria e buona parte delle nostre reti di collegamento. Pertanto molte delle vecchie funzioni del pensiero sono sostituite dal computer e quindi la testa sta cambiando. Questa è la nuova persona. Cambia anzitutto il soggetto del pensiero, ma cambia anche il modo di stare insieme. Nelle metropolitane di Londra o di Parigi vediamo che tutti telefonano, e in questo modo trasformano completamente la comunità della metropolitana di una volta. Ci sono due cose che stanno cambiando, il soggetto del pensiero e il soggetto della comunità».
Mi ha molto appassionato, nel suo libro, la tesi che le reti sono spazi del passato e che oggi la nostra idea di spazio è cambiata, è in realtà uno spazio topologico, senza distanza. Può parlare di questo spazio topologico e di cosa significherà per il futuro?
«Una volta un indirizzo stradale era un codice che si riferiva a un’area della mappa di una città disegnata secondo la geometria metrica, in cui sono definite le distanze. Con la nuova tecnologia la distanza scompare. Non si riduce solamente, come avveniva prima, quando le distanze si accorciavano grazie a un cavallo o a un aereo. Oggi vengono annullate, e quindi il nostro nuovo indirizzo è l’indirizzo del telefono cellulare o del computer, che funziona ovunque ci si trovi e permette di inviare messaggi ovunque sia il destinatario. In un certo senso non abitiamo più lo stesso spazio dei nostri genitori. Abbiamo cambiato spazio, e questo cambiamento è fondamentale sotto molti aspetti. Prendiamo ad esempio il diritto, la legge. Ricorda Robin Hood e la foresta in cui viveva? Era uno spazio senza legge, e credo che anche il web sia uno spazio senza legge. Quando i viaggiatori attraversavano la foresta, si accorgevano improvvisamente che i ladri e i criminali che vivevano lì obbedivano a Robin Hood. Robin è un nome straordinario, perché robe è la veste del magistrato, e Robin è colui che ha la veste del giudice. È colui che fa le leggi in un luogo senza legge. Credo che da questo luogo senza legge che è il web scaturirà presto uno spazio organizzato in maniera molto diversa da prima».
È in questo contesto che possiamo collocare il recente caso Snowden, di cui si è tanto parlato. Sono cose strettamente legate, vero? Come vede il caso Snowden?
«Sì, è così. È proprio il caso di una sorta di scontro tra il vecchio e il nuovo diritto, tra l’antico luogo di non-diritto e la nuova legge».
E come vede il caso WikiLeaks di Assange in rapporto a tutto questo?
«Anche qui è la stessa cosa. All’interno dello spazio del web c’è un diritto che non ha nulla a che fare con il diritto che organizzava lo spazio in cui vivevamo prima. Vi è pertanto una sorta di conflitto tra i due sistemi. Da un certo punto di vista, chi abita nel web è favorevole alla libertà che viene messa in questione con il caso WikiLeaks».
L’altro giorno, alla radio, lei parlava di Tocqueville come del suo eroe. Mi chiedevo se questa fosse la risposta, un Tocqueville per il XXI secolo?
«È così, ci vorrebbe un Tocqueville per il XXI secolo».
So che lei è un amante di Wikipedia perché è una democrazia del sapere. Mi può parlare di questa sua passione?
«Quel che è interessante di Wikipedia è l’accesso libero e diretto alla totalità del sapere. In America la si utilizza da dieci anni in molti campi professionali. Perché pagare tanto degli studi che ci danno accesso a un sapere già a nostra disposizione? L’accesso immediato al sapere di Wikipedia cambia molte cose. Le faccio un esempio: quando si è malati si va dal medico. Una volta il medico era competente e noi non sapevamo quasi nulla della nostra malattia. Oggi, prima di andare dal medico, se consultiamo Wikipedia raccogliamo informazioni sui nostri malanni. Quindi — come ho detto in Petite Poucette — il rapporto tra medico e paziente si sta trasformando, come sta cambiando il rapporto tra docente e studente. Wikipedia cambia molte cose: le relazioni sociali, le relazioni umane e le relazioni educative».
Ho ancora qualche domanda. Una riguarda il quasi-oggetto. L’altro giorno avevo in mano il Blackberry e mi sono chiesto se fosse un quasi-oggetto. Lei sostiene che il quasi-oggetto non è né un oggetto né un soggetto, è una relazione. È un’idea apparsa nel 1980 in «Le parasite». Volevo sapere se pensa che l’iPhone o il Blackberry siano dei quasi-oggetti.
«Sì, sono dei quasi-oggetti, sono quasi-oggetti quasi-intelligenti. Non c’è dubbio che si tratti di quasi-oggetti, oggetti di relazione. In questo momento siamo in contatto reciproco grazie a essi».
Com’è nato il concetto del quasi-oggetto?
«È nato dalla mia passione per il rugby. Sono cresciuto nel Sud-Ovest della Francia e ho giocato molto a rugby. Osservando la palla, mi sono chiesto: che cos’è? Che funzione ha all’interno del gioco del rugby? E ho avuto l’idea del quasi-oggetto».
Ho letto l’esempio del Golfo del Messico, che diviene un’entità giuridica che può difendersi, e mi interessa questa dimensione giuridica del quasi-oggetto.
«Questo concetto si trova in un altro mio libro, Le contrat naturel . In questo libro cerco di spiegare che la nozione di soggetto di diritto oggi si sta trasformando e che gli oggetti naturali potrebbero diventare dei soggetti di diritto. Ad esempio, il parco di Yellowstone potrebbe ricorrere alla giustizia e denunciare chi lo inquina. So che in vari Paesi si comincia a riflettere su questo e a sostenere che alcuni oggetti della natura possono diventare soggetti di diritto».
È un fatto importante per affrontare i problemi dell’ambiente.
«Sì, sono delle nuove tappe del diritto occidentale».
Passiamo all’arte, visto che mi occupo di arte e lavoro soprattutto con gli artisti, per i quali il suo lavoro è molto importante. Ho parlato di recente con l’artista francese Philippe Parreno, che è stato ispirato da lei. Mi ha detto che alcuni film o opere d’arte si comportano come dei quasi-oggetti. Pensa che l’opera d’arte possa diventare un quasi-oggetto?
«Il quasi-oggetto ha contribuito a creare dei rapporti in una data società, in certi casi ha addirittura favorito la creazione di una società. Ci sono dei quasi-oggetti che sono opere d’arte, come gli oggetti religiosi, che creano una comunità. In un certo senso questa è sempre stata una delle funzioni dell’opera d’arte».
Pensa che il quasi-oggetto possa creare la realtà?
«Certamente! Quando il quasi-oggetto crea una comunità, questa comunità diventa reale. Noi uomini passiamo il tempo a trasformare il virtuale in reale. Che cosa è una moneta? È un quasi-oggetto. Si può trasformare in qualsiasi cosa. È un equivalente generale. Quindi non c’è oggi nulla di più reale della moneta, che all’inizio era un quasi-oggetto».
Ho una domanda sulla collaborazione. Con l’artista Philippe Parreno abbiamo discusso di lei e di collaborazione. Lei ha spesso collaborato con altri e la conversazione è una parte importante della sua filosofia. Mi può parlare della collaborazione? Con la collaborazione o anche con l’amicizia si possono creare delle nuove forme?
«Senza dubbio. L’essenziale per una conversazione è che non ci sia uno scontro tra due opinioni fisse. Bisogna che le parti siano libere e aperte».
Lei ha pubblicato finora sessanta libri. Ha dei progetti non realizzati? Recentemente, poco prima della sua scomparsa, la scrittrice Doris Lessing mi ha parlato dell’idea che ci sono sempre dei libri non scritti — libri che nessuno ha osato scrivere, o avuto il tempo di scrivere o potuto realizzare. Quali sono i suoi progetti non realizzati o utopici?
«C’è di sicuro ancora un problema che vorrei risolvere: quello delle istituzioni politiche. Questo, senza dubbio, è il libro che vorrei scrivere.
(Traduzione di Maria Sepa )

Repubblica 22.12.13
Ora lo dice anche la scienza se lui la accontenta sempre il matrimonio dura 12 giorni
L’esperimento:così i mariti yesman rovinano il rapporto
di Elena Dusi


ROMA — Non è usuale che un esperimento scientifico finisca con il knock out di uno dei partecipanti. Ma quando si va a chiedere a un marito, nel nome della scienza, «di dare ragione alla moglie qualunque opinione lei esprima e di fare senza esitare qualunque cosa lei chieda» è chiaro in partenza che i guai sono in vista. Gli scienziati dell’università di Auckland volevano capire se una coppia tutta sorrisi e compiacenza è una coppia felice. E si sono ritrovati con un marito al tappeto che ha alzato bandiera bianca dopo solo 12 giorni di “sì cara, con piacere”.
«È meglio avere ragione o essere felici?» si erano chiesti con una certa gaiezza prenatalizia i medici di Auckland, ignari dell’ordigno che stavano innescando. Conviene cioè strapparsi un sì di bocca e retrocedere dalle proprieposizioni per evitare litigi e salvaguardare la pace familiare? La risposta è stata netta come raramente avviene negli esperimenti: no. «Siamo stati costretti a interrompere l’esperimento a causa di gravi eventi avversi dopo soli 12 giorni» hanno scritto alla fine i ricercatori sul British Medical Journal.«L’uomo si è lamentato perché la donna stava diventando ipercritica e aveva iniziato ad attaccarlo qualunque cosa facesse ». Quando la situazione è diventata intollerabile si è seduto al bordo del letto, le ha preparato un tè e ha detto chiaro e tondo che non ce la faceva più.
Per salvaguardare la naturalezza del test, il marito aveva ricevuto istruzioni precise su come comportarsi (“anche se pensi che tua moglie abbia torto, dallecomunque ragione”), mentre lei era ignara di avere gli occhi dei ricercatori addosso. Visto però che il marito si mostrava conciliante e cedevole di fronte a ogni capriccio, in tutta spensieratezza lei ha occupato ad ampie falcate il terreno sgombrato da lui. Nemmeno due settimane, e il dominio è risultato completo, con il test quotidiano sulla “qualità della vita” (unico impegno richiesto a lei) che giorno dopo giorno vedeva l’uomo tracollare e lei arrampicarsi da un già soddisfacente 8 a un invidiabile 8,5. Il miglioramento del giudizio è avvenuto nel giro di soli sei giorni, con la stessa naturalezza di un fiume che tracima dagli argini e senzanemmeno accorgersi che il voto del marito sulla propria qualità della vita stava precipitando: da un 7 iniziale al 3 che ha decretato il fallimento anticipato dell’esperimento.
«Molte persone nel mondo vivono in coppia - scrivono i ricercatori di Auckland - e siamo giunti alla conclusione che la condizione in cui un partner dà sempre ragione all’altro sia pericolosa». Non sazi di questa osservazione, gli esperti annunciano ora che il test sarà ripetuto a parti inverse: con le donne invitate a sottomettersi e gli uomini autorizzati a impugnare il bastone del comando.
Ma se il test neozelandese può essere visto come una ricerca naif e tutto sommato divertente, nel suo piccolo ricorda un esperimento molto più inquietante, organizzato nel 1971 dall’università di Stanford. Anche questa prova dovette essere interrotta in tutta fretta (dopo appena 6 giorni), ma per ragioni ben più serie di una crisi matrimoniale davanti a un tè. Allora 70 studenti vennero presi come volontari, divisi in base al lancio della moneta in guardie e carcerati e portati in una prigione posticcia ricreata nel seminterrato dell’università. Alle guardie, occhiali a specchio sul viso e manganello in mano, fulasciata ampia discrezionalità sui metodi per imporre la disciplina. E anche loro ci misero meno di una settimana a rompere gli argini. Dei tranquilli ragazzi californiani si trasformarono in aguzzini, mentre fra i prigionieri comparvero gravi segni di depressione e stress. Alcuni iniziarono un (vero) sciopero della fame e lo psicologo che aveva condotto l’esperimento venne accusato di crudeltà.
«Lo studio dimostra - scrivono oggi, oltre 40 anni più tardi, i ricercatori di Auckland - che avere a disposizione un potere illimitato ha effetti negativi sulla qualità della vita di chi si trova dall’altra parte». E questa per fortuna è l’unica verità in comune fra i due esperimenti.

RTV-LAEFFE Alle 13.50, canale 50 digitale terrestre. videocommento sui mariti yes man

l’Unità 22.12.13
Il film sulla Arendt di von Trotta in sala il 27 e 28 gennaio


IL NUOVO FILM DI MARGARETHE VON TROTTA «HANNAH ARENDT» sarà distribuito in Italia da Ripley’s Film e Nexo Digital solo per due giorni: il 27 ed il 28 gennaio 2014 come evento cinematografico in occasione della Giornata della Memoria. L’elenco delle sale dove sarà proiettato sarà presto disponibile digitando su www.nexodigital.it.
La pellicola ripercorre la drammatica vita della filosofa ebreo-tedesca, scappata dagli orrori della Germania nazista nel 1940, trovando rifugio insieme al marito e alla madre negli Stati Uniti, grazie all'aiuto del giornalista americano Varian Fry. Qui, dopo aver lavorato come tutor universitario ed essere divenuta attivista della comunità ebraica di New York, collaborò con alcune testate giornalistiche. Come inviata del New Yorker in Israele, Hannah seguì da vicino il processo contro il funzionario nazista Adolf Eichmann, da cui prende spunto per scrivere La banalità del male.

l’Unità 22.12.13
Il film di oggi. ORE 23,10 RAI 5
Il flauto magico di Branagh risuona nella Prima Guerra Mondiale

«IL FLAUTO MAGICO» (2006) Non proprio natalizio ma si addice al periodo per frizzante verve e visionarietà fiabesca. Al regista Kenneth Branagh è stato chiesto di rileggere l’opera di Mozart che traspone alla Prima Guerra Mondiale, dove un giovane soldato, Tamino, viene magicamente trasportato in un mondo crepuscolare tra il sogno e l'incubo. Umorismo, immaginario liberty, bizzarria garantiti.

Repubblica 22.12.13
Quel treno a vapore più lento di una lepre
Così Turner il visionario aveva previsto il futuro
di Melania Mazzucco


Diventare vecchi è come approdare su un altro pianeta, mi ha detto una volta un anziano parente mentre cercava di spiegarmi quanto fosse cambiato il mondo intorno a lui. Nato quando al suo villaggio non esisteva l’elettricità e le persone si spostavano a piedi o con l’asino, aveva visto la prima automobile a dodici anni, parlato al telefono a quaranta, e guardato la televisione a più di sessanta. Molti vecchi hanno paura delle cose nuove. Lui ne era curioso. Sognava di viaggiare su un aereo. Anche J.M.W. Turner era così. Morti l’amato padre e il protettore più caro, lord Egremont, pensionato dopo 31 anni da professore di prospettiva, attraversò una fase malinconica: temeva di non saper abitare il futuro. In un quadro del 1838, La valorosa Temeraire, rappresentò proprio il tramonto di un mondo: l’enorme veliero che aveva partecipato alla battaglia navale di Trafalgar viene trainato al molo, dove sarà rottamato, da un arrogante battello a vapore. È il suo ultimo viaggio, e il veliero lo compie nella luce del crepuscolo.
Ma a differenza della Temeraire, Turner non si lasciò rottamare. Stava perdendo il favore dei committenti, che non apprezzavano più le sue «pitture sfocate e senza disegno», e si ritrovava spesso bersagliato da critici, già pittori falliti, irridenti quanto malevoli, cui non si degnò mai di rispondere. Non perse mai il piacere di dipingere, né di vivere. Gestiva anzi con abilità camaleontica due esistenze separate — una da pittore ricco e vezzeggiato dall’aristocrazia, l’altra da londinese dei bassifondi, energico frequentatore dei bordelli di Margate. D’estate si regalava viaggi avventurosi in Italia e in Svizzera.
Nel 1844 espose 7 quadri alla Royal Academy (istituzione di cui era membro dal 1802): 3 vedute di Venezia, 3 marine e questo. Gli spettatori rimasero sbalorditi. Era la prima volta che un treno — il cavallo a vapore che dapochi anni affumicava le campagne londinesi — diventava oggetto di rappresentazione artistica. L’effetto sui visitatori può essere paragonato a quello dell’Arrivée d’un train en gare de La Ciotat,il film dei fratelli Lumière: quando apparve sullo schermo, nel 1896, il pubblico fuggì, atterrito.
Turner aveva intuito da tempo il potenziale artistico della modernità. Anche l’artificiale, come il naturale, poteva generare il sublime. Insieme ai paesaggi classici e romantici, agli orridi precipizi alpini, agli incendi e alle burrasche di mare, ormai dipingeva anche baleniere e battelli a vapore. Il fumo delle ciminiere gli offriva la possibilità di studiare varianti della caligine. Turner sapeva riprodurre l’umidità (e l’acqua) con prodigiosa abilità tecnica. Gli rimproverarono «l’indistinto » dei suoi quadri, che sembravano «verosimili rappresentazioni del nulla». Lui rispose: «L’indistinto è il mio forte».
Pioggia, vapore e velocità è costruito con il rigore compositivo quasi geometrico che Turner aveva imitato e appreso da Poussin e Claude Lorrain, e con schizzi, grumi e turbini di colore alla Rembrandt. Competitivo e ambizioso, era sempre stato convinto di poter fare come i suoi maestri e meglio dei suoi rivali. La grigia luce lattiginosa e l’atmosfera satura di pulviscolo dissolvono la solidità delle forme. Nessuna linea di contorno le trattiene, impedendo loro di evaporare. Più che gli oggetti, rappresentano il mezzo immateriale (fumo, luce e acqua) attraverso il quale sono viste. Le tre arcate del ponte, sulla sinistra, richiamano quella del ponte ferroviario di Maidenhead, a destra, su cui s’avventa la locomotiva. Il taglio obliquo dell’inquadratura, la prospettiva e l’angolazione non frontale aumentano la profondità di campo, accrescendo la sensazione di un movimento inarrestabile. Nell’acqua del fiume sottostante baluginano i corpi evanescenti dei bagnanti, e una barchetta di pescatori (cui corrisponde, nella campagna a destra, un aratro). Il Tamigi era sempre stato caro a Turner, che era cresciuto vicino al fiume e amava vederlo mentre dipingeva. Il treno emerge dalla nebbia e dalla pioggia come una massa scura dagli occhi di brace.
Ma Turner non aveva terrore del “mostro infernale”, come molti suoi contemporanei. Per spirito di conoscenza e d’avventura, per vedere coi propri occhi ciò che voleva dipingere, aveva affrontato tempeste di neve e tempeste sul mare: aveva sperimentato subito la ferrovia. La presunzione degli uomini e la caducità delle loro ambizioni (Fallacies of Hope era il titolo di un suo poema) lo avevano sempre ossessionato e intristito. La decadenza degli imperi di Cartagine, Roma e Venezia avevano alimentato la sua passione romantica per la rovina. Ora, a 69 anni, il suo pessimismo tragico virava in serena ironia. Nel 1844 gli uomini credevano di aver inventato la velocità. Che la velocità fosse sinonimo di modernità (anni dopo, ci avrebbero creduto anche i futuristi). Turner rimase scettico. Dipinse il treno in corsa sul ponte inaugurato da appena 5 anni. E davanti al treno, in primo piano, quasi indecifrabile nella macchia di colore, la creatura che è sempre stata simbolo di pavidità. Una piccola lepre, che fugge sulle rotaie.
Il quadro sconcertò come una stravaganza. Il principale estimatore di Turner, Ruskin (che lo aveva sempre difeso, anche con veemenza), si limitò a commentare che lo aveva dipinto «per mostrare cosa sapeva fare perfino con un brutto soggetto». Rimase invenduto e dopo l’esposizione Turner lo riportò nella sua galleria privata. Non se ne dispiacque. Esponeva sempre meno e ormai realizzava solo per sé la maggior parte delle sue opere. Non mostrava a nessuno i suoi acquerelli astratti. Ricomprava sul mercato i quadri più riusciti che aveva dovuto vendere in gioventù. Aveva già deciso di lasciare in eredità allo Stato inglese tutto ciò che aveva creato e che era ancora in suo possesso: 300 tele e 20.000 fogli. I posteri lo avrebbero compreso. Benché la sua vista cominciasse a offuscarsi, vedeva ancora assai lontano. La vecchiaia non è una malattia, ma un’opportunità. Il treno non prenderà la lepre. La velocità è nell’attitudine alla corsa, non nella potenza del motore. A quasi settant’anni, Turner è più giovane di tutti i suoi colleghi e dei suoi spettatori.
L’OPERA Pioggia, vapore e velocità olio su tela 91 x 122 cm National Gallery Londra

Repubblica 22.12.13
Sergio Rubini uno zio Vanja emarginato e struggente
di Rodolfo Di Giammarco


L’attore protagonista del dramma di Cechov con la regia “cinematografica” di Marco Bellocchio Co-protagonisti Michele Placido e Pier Giorgio Bellocchio
ANZICHÉ irritarsi, Cechov si lasciò andare a un sonoro scoppio d’allegria, quando raccontò a Konstantin Stanislavskij — che avrebbe poi impersonato il medico Astrov al battesimo diZio Vanja — come la Commissione per il Repertorio del Teatro gli avesse raccomandato di riscrivere la fine del terzo atto della commedia, dove Vanja, indignato, spara al professore. Quella risata di Cechov ottiene il suo effetto anche più d’un secolo dopo, se è vero che aleggia quasi un clima di farsa, di paranoia ridicola, quando Sergio Rubini nei panni di Vanja insegue Michele Placido ovvero il pedante Serebrjakov per prenderlo di mira, facendo cilecca, con una pistola. Già, perché nella messinscena adattamento odierna di Marco Bellocchio non c’è più troppo spazio per i plumbei sentimentalismi o per le tensioni angosciose, e aleggia invece dappertutto una psicopatia grottesca, uno squilibrio puerile o bislacco, un’alterazione della dignità, fino ai tic più nevrotici (con qualche eccesso) di un tragicomico Vanja/Rubini cui ballano sempre le gambe. Le passioni tutte malriposte dei personaggi cechoviani lasciano il passo, nell’attuale edizione, a flemme strampalate, o a ridondanze goffe. Ed è come se questo capolavoro venisse sdoganato dalla desolazione e dall’emozione enfa-tica, per essere ricondotto a uno studio dei rapporti umani in un impianto frugale e lineare, una scultorea urna dei malesseri che, appena ornata da un samovar e da mobilio modulare, affaccia su tronchi di betulle sospesi nell’aria. E Bellocchio si conferma coerente regista-entomologo, allestitore di traumi che si manifestano dentro la natura umana, nonfuori (tant’è che in alcune sequenze pare che “filmi” in un padiglione della drammaturgia classica le depressioni, i disincanti, con musiche o effetti cinematografici a volte non proprio pertinenti al linguaggio dal vivo). Ma qui una decisa risorsa dello spettacolo sta, lo si capisce e non lo si sottovaluta, nell’apporto attorale. Sergio Rubini, che a teatro è una bella scoperta per il pubblico non testimone dei suoi esordi squisitamente scenici,sverna la figura di Zio Vanja, ne fornisce un dna schizoide e struggente con debita caricatura d’un emarginato di provincia (d’una Puglia corrispettivo della Russia), e in fondo i suoi inquieti ed estemporanei 54 anni tengono bene il confronto coi 47 anni (un’età che un tempo logorava di più) denunciati dal personaggio, e la sorpresa sta nel fatto che Rubini rende amabile un profilo che di solito compatiamo. Michele Placido che si cala nelle vesti dello scrittore trombone con moglie giovane, sfoggia un’aura sfacciatamente dispotica (ma anche malaccorta, vacua) i cui toni sono più che appropriati. Pier Giorgio Bellocchio esprime bene l’ineffabilità del civismo e la labilità della solitudine del medico Astrov, amato in silenzio e inutilmente dalla modesta Sonia cui Anna Della Rosa, sempre piùbrava, riserva un’interpretazione da ricordare. Ad essere preda delle attenzioni maschili è la moglie del professore, Elena, resa dall’ucraina Lidiya Liberman attraverso curiose e tenere cadenze dell’Est. E Lucia Ragni è una madre-icona. Va da sé che in questa regia, e nella scena di Giovanni Carluccio, regna un’infelicità non più solo cechoviana ma anche da ibrida alienazione in vitro. Nessuna sofferenza di pancia, poche questioni di cuore, tanti impacci anche risibili della mente. In fondo Cechov stesso era il primo a sorridere delle questioni sollevate dalle sue scene madri.
ZIO VANJA Roma, Teatro Quirino