lunedì 23 dicembre 2013

In via sperimentale, oggi “Segnalazioni” non pubblica i testi degli articoli che segnala dal numero odierno dell’Unità
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l’Unità 23.12.13
I dannati di Lampedusa
Nel centro di accoglienza ci sono ancora superstiti della strage del 3 ottobre
Il deputato pd Chaouki si barrica per solidarietà con i migranti
«Resto qui fin quando non sarete usciti tutti»
Cresce la protesta al Cie di Roma: parte lo sciopero della fame
di Paola De Rosa

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l’Unità 23.12.13
Il diario
Vi racconto l’inferno di Stato
di Khalid Chaouki

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l’Unità 23.12.13
Ponte Galeria
La protesta continua: «sciopero della fame»
Il Centro ospitato dentro una caserma della Polizia è un luogo invisibile a tutti
«I migranti? Li abbiamo visti soltanto quella volta che sono evasi in massa»
di Salvatore Maria Righi

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l’Unità 23.12.13
Cécile Kyenge
«Il nostro sistema di accoglienza sia equiparato a quello europeo»
«Il mio incarico all’Integrazione rischia di creare aspettative che vengono deluse. I Cie dipendono dal ministero dell’Interno»
«La repressione porta più costi che benefici al Paese. Investire per contrastare le povertà»
«Renzi ha ragione ma attraverso l’Unione stiamo già cambiando anche la Bossi-Fini»
di Jolanda Bufalini

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l’Unità 23.12.13
Per chiudere i Cie basta un po’ di umanità
di Franco Bordo

Deputato di «Sinistra Ecologia Libertà»
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il Fatto 23.12.13
Con i migranti
Deputato Pd si barrica nel Cie di Lampedusa
di Enrico Fierro

È arrivato ai cancelli dell’inferno, ha chiesto di entrare perché era un suo diritto di parlamentare della Repubblica Italiana e nell’inferno ha deciso di rimanere. Come i suoi fratelli venuti dal mare, dalla pelle troppo scura e dal nome strano. Khalid Chaouki, nato trent’anni fa a Casablanca, Marocco, una moglie e un figlio, italiano della “generazione 2” e deputato del Partito democratico, da ieri mattina si è fatto rinchiudere nel Centro di accoglienza di Lampedusa. “Non me ne andrò fino a quando non sarà ripristinata la legge, dormirò qui fino a quando la gente illegittimamente trattenuta in condizioni disumane non sarà trasferita altrove. È mio dovere farlo e lo sto facendo”. Il telefono è disturbato dal rumore della pioggia che tormenta le povere anime segregate nel carcere per immigrati di Contrada Imbriacola. “Qui ci sono condizioni di vita allucinanti, alcune stanze sono allagate, nelle docce mancano le luci e bisogna lavarsi al buio. Nei cameroni dove si dorme la puzza è insopportabile, ci sono materassi sporchi accatastati da mesi, sono di spugna ed emanano un odore nauseabondo. Non si può trattare della gente che soffre in questo modo, mi chiedo di chi siano le responsabilità, questi trattamenti sono disumani”.
LA VOCE al cellulare è quella di un ragazzo giovanissimo ma dalle convinzioni forti. Le parole che pronuncia e il suo gesto riscaldano il cuore, illuminano la mente e riaccendono la speranza. Forse non è finita, forse questo Paese può ritrovare l’umanità strozzata da leggi assurde, le Turco Napolitano e le Bossi-Fini, e da un razzismo becero e leghista diventato cultura di governo. Forse riuscirà a cancellare la vergogna di Cie e Centri che chiamano di accoglienza, forse anche la politica può ritrovare la dignità perduta. “Sono un parlamentare della Repubblica italiana e vorrei che da domani altri miei colleghi andassero a visitare i Cie per vedere come vivono gli uomini e le donne rinchiusi in quelle strutture”. Khalid Chaouki ci racconta l’inferno senza enfasi, lo sta toccando con mano, ne sta assaporando gli umori. “Cosa ho mangiato oggi? Un pezzo di pollo, un po’ di patate, acqua e un caffè. Questo è il pasto dato a tutti gli altri. Lo abbiamo consumato sulle brandine dove dormiremo stanotte, perché non c’è una mensa. È uno schifo, qui non vengono rispettati i diritti minimi elementari. Questo centro è un luogo indegno”. Che però tutti conoscevano. Dopo i naufragi di ottobre con 600 morti, molti bambini, moltissime donne, tantissimi giovani, sull’isola sono arrivati Letta e Alfano, Barroso e i responsabili della civilissima Europa. Tutti hanno promesso. “Mi sento anch’io responsabile – ci dice con franchezza il giovane onorevole –, da ottobre non abbiamo fatto nulla, le condizioni sono peggiorate. Il discorso di Alfano non mi ha convinto. Qui ci sono ancora sette sopravvissuti del naufragio del 3 ottobre, devono stare a Lampedusa perché sono a disposizione della procura che sta conducendo le indagini. Ma siamo matti? Qui è tutto illegale, almeno questi trasferiteli ad Agrigento in condizioni più umane. Altri sei migranti sono da due giorni in sciopero della fame. Tra di loro c’è anche Khaled, il giovane siriano che con il suo video ha fatto scoppiare lo scandalo delle disinfestazioni da lager”.
IL GESTO del parlamentare è forte, ha scosso Lampedusa ma ancora di più i palazzi romani svuotati dal Natale, dobbiamo interrompere la nostra comunicazione, è il viceministro Bubbico. “Voleva sapere come stavo – ci dice qualche minuto dopo Chaouki – e si è impegnato far intervenire il Viminale. Vedremo, io resto qui fino a quando non verranno ripristinate la dignità e la legge”. Condizioni disumane, dice il parlamentare, in un centro gestito da una coop diretta da un iscritto al Pd, Cono Galipò. “Non me ne frega niente, se la coop ha sbagliato pagherà, se a sbagliare è stato un iscritto al mio partito che paghi il doppio. Io sto nel Pd perché credo in valori forti come la solidarietà e il rispetto della dignità umana”.
COME L’HANNO accolta i profughi, onorevole? “Prima con scetticismo, ora, dopo alcune ore, fanno a gara per ospitarmi accanto alla loro branda. Qui c’è gente che soffre, uomini e donne che hanno visto annegare i loro figli, ragazzi che fuggono da guerre e fame, ma nessuno ha perso la voglia di sorridere. Sono qui per loro. Noi abbiamo celebrato i loro compagni morti in mare come martiri e abbiamo fatto bene, i sopravvissuti invece sono qui, rinchiusi e disperati. È una ingiustizia intollerabile, piangiamo i vivi e maltrattiamo i morti. Sarò qui anche a Natale se le condizioni di questa gente non cambieranno, lo faccio per loro ma anche per l’Italia. Sono davvero stanco di vergognarmi per quello che è diventato questo nostro Paese”.

La Stampa 23.12.13
Esplodono le tensioni nei Cie, il governo studia un provvedimento per ridurne il numero e svuotarli più rapidamente
“Clandestini espulsi in un mese”
Il governo studia un provvedimento per cancellare la detenzione prolungata degli extracomunitari nei Cie, riportando il periodo di identificazione ed espulsione a un mese
di Guido Ruotolo

qui

La Stampa 23.12.13
“Questi Centri peggio delle carceri”
Lo sfogo di poliziotti e volontari: “Un sistema di violenze e sprechi. Politici ipocriti, sanno bene cosa succede”
di Guido Ruotolo

qui

La Stampa 23.12.13
“Resto qui con voi”
E il deputato del Pd si barrica a Lampedusa
La battaglia di Chaouki dopo il video-choc
di Laura Anello

qui

La Stampa 23.12.13
Il diario del deputato Pd a Lampedusa
“Io, recluso volontario”
di Khalid Chaouki
Non avrei mai immaginato di passare una notte insieme ai tanti profughi in questo centro, che pure, negli ultimi anni, ho visitato altre volte
qui

Corriere 23.12.13
Il deputato barricato nel Centro: stanze allagate e niente mensa
Il pd Chaouki: «Resto finché non si trova una soluzione»
Rinaldo Frignani


ROMA — «Non mi muoverò da qui finché non sarà trovata una soluzione e i migranti saranno trasferiti. Finché l’Italia non deciderà di adeguarsi ai trattati internazionali e di ripristinare la legalità». Dal Centro di prima accoglienza di Lampedusa, Khalid Chaouki, deputato Pd di origini marocchine, racconta da 24 ore con il telefonino la cronaca di un’occupazione senza precedenti: un parlamentare a fare la vita dei clandestini trattenuti nella struttura di contrada Imbriacola. «Un luogo indegno — racconta Chaouki, 30 anni, giornalista, padre di due bambini — dove sette eritrei, compresa una donna, sopravvissuti al naufragio del 3 ottobre, sono ancora qui e dove sei siriani, fra i quali l’autore del video mostrato dal Tg2 sul lavaggio antiscabbia, sono da due giorni in sciopero della fame e della sete». La cronaca del deputato è puntuale, inequivocabile: «Piove dai tetti, i pavimenti sono allagati, i bagni non funzionano, non c’è una mensa. Mangiamo panini, a letto o in cortile — twitta a ripetizione, allegando fotografie di quei luoghi —. Non si può restare qui per più di 96 ore invece da anni gli ospiti ci soggiornano per mesi. Ai miei colleghi chiedo: presidiate tutti i centri perché è ora che dalle favole si passi ai fatti».
Il suo atto d’accusa arriva nel giorno delle nuove proteste al Cie di Ponte Galeria, dopo che 10 nordafricani (fra i quali quattro ex detenuti e cinque provenienti proprio da Lampedusa) si sono cuciti la bocca in segno di protesta. C’è il timore che iniziative di questo genere, e perfino rivolte (come è già accaduto in passato), possano coinvolgere strutture simili in altre regioni. A Ponte Galeria i protagonisti della provocazione (un punto cucito sulle labbra) sono guidati dall’imam tunisino Mohamed Rmida, 32 anni, ex recluso a Roma, Civitavecchia e Viterbo. Doveva essere espulso oggi e fra le sue rimostranze c’erano i 160 euro spediti ai familiari l’estate scorsa e mai arrivati. Con lui protestano i tunisini Said Tahari, Abdellah Faouzi Abidi, Mohamed Ben Gi e Rahim Abdel Arami, e i marocchini Khaled Al Mazzouz, Marach Hicham, Karim Majjane e Yassine Chingune. Altri sono in sciopero della fame e delle terapie mediche contro quella che definiscono «una detenzione». Nei mesi scorsi altri «ospiti» avevano inscenato la stessa protesta con la cucitura della bocca. Ci sono state anche sommosse ed evasioni in massa.
Sulla questione immigrazione pende la mozione approvata dalla Camera il 9 dicembre scorso che impegna il governo a compiere una serie di iniziative fra le quali la riforma della disciplina di ingresso, soggiorno, allontanamento e trattenimento degli stranieri, l’abbattimento di costi e tempi di permanenza nei Cie, l’eliminazione del trattenimento in quelle strutture di chi non è stato identificato in carcere. Primi firmatari i deputati Sandra Zampa (vice presidente Pd) e Mario Marazziti (Per l’Italia). «I Cie sono inefficaci e costosi — spiega Zampa —. Un sistema fallimentare, chi non viene identificato nel primo periodo non viene identificato più. Trattenerlo al Cie è una violazione dei diritti umani e uno spreco di risorse. È assurdo, tutto quello che un tempo era politica per l’immigrazione è diventata politica di sicurezza». Per Marazziti invece «siamo oltre la soglia di tolleranza, il Parlamento ha fatto tutto quello che poteva. Ho chiesto una commissione d’inchiesta della Camera su Cie, Cara e Centri di prima accoglienza: serve un gesto chiaro del governo prima di Natale. Così è una vergogna». Ma per il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni «per affrontare l’emergenza non occorrono provvedimenti straordinari, basta solo applicare le norme e portare a regime progetti che già esistono».

Corriere 23.12.13
Il piano del governo per ridurre i tempi di permanenza ed evitare altre proteste
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Ridurre i tempi di permanenza nei Cie per evitare che la protesta si allarghi. In attesa di una decisione definitiva sull’eventuale chiusura dei Centri di identificazione ed espulsione, il governo pensa a misure tampone che limitino a un massimo di 60 giorni il lasso concesso per conoscere la reale identità e origine dei migranti irregolari. E già nei prossimi giorni potrebbe presentare un disegno di legge, o addirittura un decreto, per fare fronte a quella che può trasformarsi in un’emergenza, anche tenendo conto del periodo delle festività natalizie. Lo dice con chiarezza il viceministro dell’Interno Filippo Bubbico quando afferma: «Si tratta di luoghi di costrizione che costano moltissimo e non hanno alcuna utilità. Sulla necessità di superarli siamo tutti d’accordo, ma intanto bisogna intervenire in fretta perché la situazione è diventata insostenibile. E dobbiamo farlo partendo da un dato incontrovertibile: se entro 30 giorni non si riesce a sapere il nome e la nazionalità dello straniero, difficilmente si otterrà un risultato. Dunque sono altre le strade che bisogna percorrere per garantire sicurezza ai cittadini e al tempo stesso offrire condizioni di vita dignitose a chi arriva in Italia e cerca di costruirsi un futuro. Ecco perché bisogna mettere subito un tetto molto più basso rispetto ai 18 mesi attualmente previsti dalla legge».
Il costo 41 euro al giorno
La trattativa tra Viminale e palazzo Chigi sulle modifiche alla Bossi-Fini va avanti ormai da mesi, più volte rallentata anche dalle resistenze del ministro e vicepremier Angelino Alfano che teme ripercussioni all’interno del centrodestra. Dopo il naufragio di Lampedusa il presidente del Consiglio Enrico Letta aveva assicurato che la legge sarebbe stata cambiata o addirittura eliminata. Ancora non se ne è fatto nulla, ma a questo punto sono diverse le «pressioni» per affrontare subito la questione.
Al primo punto del piano di interventi c’è proprio la revisione del sistema di identificazione degli stranieri irregolari. Perché nei Cie si vive in condizioni disumane e perché la spesa non appare più sostenibile rispetto ai risultati ottenuti. Basti pensare che ogni «recluso» costa in media 41 euro al giorno e a questo bisogna aggiungere i soldi per alcune attività delle forze dell’ordine, straordinari compresi.
La procedura in carcere
Uno sforzo che, almeno a leggere i dati, si rivela quasi inutile. Le stime dell’Interno assicurano infatti che appena il 40 per cento delle persone espulse lascia effettivamente l’Italia soprattutto perché la maggior parte dei Paesi di origine non accetta il rimpatrio. Tutti gli altri ritirano il foglio di via, escono dalla struttura, ma poi restano senza fissa dimora e spesso tornano a delinquere non avendo alcuna possibilità di regolare la propria posizione. Un numero appare indicativo per comprendere la situazione: tra il 2005 e il 2011 sono stati rintracciati nel nostro Paese 550 mila clandestini e il 60 per cento di loro aveva già un ordine di allontanamento firmato dal questore.
Nel decreto sullo svuotamento delle carceri firmato dal ministro Annamaria Cancellieri e varato la scorsa settimana c’è una norma ritenuta fondamentale dagli esperti per «alleggerire» il carico dei Cie. Impone infatti l’identificazione degli stranieri detenuti nelle carceri italiane e serve ad evitare che uno straniero senza documenti, dopo aver scontato la sua pena sconti un ulteriore periodo di detenzione presso i Centri in attesa di essere identificato dal Consolato competente, come invece avviene sempre più frequentemente. Anche perché ci sono Stati che rispondono dopo mesi alle istanze delle autorità italiane — il Senegal generalmente invia il lasciapassare al rimpatrio non prima di quattro mesi dalla comunicazione — e Stati che non forniscono alcuna risposta.
I centri chiusi
Da tempo Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti Umani del Senato, effettua visite nei Cie. E non a caso ha già formulato proposte urgenti di modifica alla normativa per evitare «a queste persone di vivere in condizioni di non luogo e non tempo visto che nessuno di loro sa perché è “recluso”, sa quanto rimarrà nella struttura e soprattutto sa dove andrà dopo. A tutto ciò si aggiunga che gli stranieri non hanno nulla da fare, perché non svolgono alcuna attività, non hanno neanche un libro da leggere o un corso da seguire come invece avviene nei penitenziari e vengono tenuti in condizioni anche sanitarie che non sono accettabili».
In Italia esistono dodici Cie, ma soltanto sei sono ancora aperti e quattro lavorano a capienza ridotta perché sono stati danneggiati durante le proteste dei mesi scorsi. Anche le forze di polizia hanno più volte sollecitato soluzioni alternative ed è proprio Manconi a sottolineare come sia possibile ricorrere a «misure di sorveglianza individuale che sono certamente più efficaci anche per la sicurezza dei cittadini visto che garantirebbero l’effettivo controllo degli stranieri non regolari».

Repubblica 23.12.13
L’intervista
La protesta dell’onorevole Chaouki nel centro di accoglienza dell’isola: condizioni disumane, dai politici solo parole
“Resto qui finché non se ne andranno tutti”
di Alessandra Ziniti


«QUESTO posto è indegno di un paese civile come l’Italia. Me ne andrò da qui solo dopo che se ne saranno andati anche loro». Khalid Chaouki, il deputato del Pd che da ieri mattina, è nel centro di accoglienza di Lampedusa, ha passato la sua prima notte da profugo.
Chaouki, lei è già stato al centro dopo i naufragi di ottobre. Cosa ha visto stavolta che non aveva visto prima?
«Ho visto persone in uno stato di prostrazione psichica e fisica inaccettabile, costrette a dormire in stanze dove piove dentro, senza una doccia con l’acqua calda, con servizi igienici indecenti, sporcizia ovunque e costrette a mangiare lì dove dormono perché in questa struttura non c’è una mensa».
E quindi ha deciso di rimanere lì con loro e diffondere sui social network una sorta di diario giornaliero?
«Sì, resterò qui fino a quando non saranno portati via tutti. È inammissibile che qui, ormai da quasi tre mesi, ci siano ancora superstiti dei naufragi del 3 e dell’11 ottobre. Sembra che debbano restare a disposizione dell’autoritàgiudiziaria ma nessuno dice loro nulla e non capiscono perché i loro compagni di sventura siano già stati trasferiti da tempo e loro invece no. È incredibile. Queste persone che hanno avuto il coraggio di individuare gli scafisti e testimoniare contro di loro dovrebbero essere premiate e invece subiscono dall’Italia questo trattamento».
Tra di loro c’è anche Khalid, il giovane avvocato eritreo autore del video dello scandalo sul trattamento antiscabbia. Ha ancora paura di ritorsioni?
«Sì, Khalid è ancora qui. La mia presenza l’ha un po’ rincuorato, ma anche lui come gli altri sta facendo lo sciopero della fame da sei giorni perché vuole andarsene. Questo è un centro non attrezzato per le lunghe permanenza. Qui gli ospiti dovrebbero restare,per legge, non più di quattro giorni e invece sono qui da quasi tre mesi. E passano le giornate letteralmente senza fare nulla, perché qui non c’è niente da fare. Si può solo impazzire».
Ha sentito la relazione del ministro Alfano in Parlamento e non l’ha convinta. Perché?
«Perché ero già venuto qui e non mi pare affatto che le cose fossero così come le ha descritte lui. Qui siamo fuori da ogni regola, da ogni legge e purtroppo, dopo le tragedie che tutto il mondo ha visto, dopo il lutto e il cordoglio, siamo ancora alle promesse. Ma stavolta non mi muoverò da qui finché non sarà trovata una soluzione e i migranti saranno trasferiti; finché l’Italia non deciderà di adeguarsi ai trattati internazionali e ripristinare la legalità».
Chi l’ha chiamata? Ha avuto delle risposte?
«Il mio partito è con me e questo è molto importante. Mi ha chiamato il presidente Gianni Cuperlo e mi ha espresso la sua solidarietà. Il Pd condivide la battaglia per l’abolizione della Bossi-Fini e per un’accoglienza degna di questo nome e di un paese civile come l’Italia che si sta vergognando davanti al mondo. Io ringrazio tutti per la grande solidarietà e invito i miei colleghi ad entrare nei centri vicini alle loro città e a vigilare che siano rispettati le condizioni minime di vivibilità».(a.z.)

Repubblica 23.12.13
Labbra gonfie
I miei amici che hanno usato ago e filo sono deboli, hanno le labbra gonfie e non mangiano Ma vogliono continuare
Niente pasti
“Trattati come animali, era meglio il carcere ci tengono rinchiusi per i soldi dello Stato”
Ahmed e i compagni con la bocca cucita: vi racconto l’inferno di Ponte Galeria
di Mauro Favale


ROMA — «Come gli animali: in gabbia ». Ahmed lo ripete due, tre volte per spiegare cosa significa vivere dentro un Cie. Lui a Ponte Galeria, periferia ovest di Roma, a due passi dall’aeroporto di Fiumicino, c’è arrivato tre mesi fa, spedito qui dal carcere di Lanciano dove ha scontato 4 anni per droga. In questi giorni di tensioni e proteste si è fatto portavoce della situazione all’interno del centro: sabato in otto hanno deciso di cucirsi la bocca con ago e filo improvvisati. Ieri se n’erano aggiunti altri due: in totale sono in 10 ad avere le labbra serrate da uno o due punti. Ci aveva pensato anche lui, Ahmed. Poi ha lasciato stare: «Ma non perché ho paura: lo farei pure io, sono pronto anche a bruciarmi i vestiti. Solo che adesso ho bisogno di avere la bocca libera. Devo parlare, voglio raccontare com’è qui». Intanto, lui e altri 50 hanno iniziato uno sciopero della fame.
Perché queste forme così estreme di protesta?
«Perché qui si sta peggio del carcere. Non è vita questa. C’è gente arrivata da Lampedusa che è già stata chiusa per 2 mesi nel Cie di Caltanissetta: non hanno fatto niente, non hanno compiuto nessun reato. La maggior parte di loro è scappata dalla miseria. Semplicemente non hanno i documenti. Non parlano nemmeno italiano e non capiscono perché devono restare ancora qui».
Ieri sono arrivati numerosi politici a Ponte Galeria: cosa avete chiesto?
«Di andare via: vogliamo essere liberi. Ma loro non possono promettercinulla».
Quali sono le vostre condizioni di vita lì dentro?
«Viviamo quasi tutto il giorno nelle camerate: in alcune c’è la televisione, in altre no. I muri delle stanze sono scassati, il riscaldamento non funziona tanto bene. L’acqua una volta è calda e un’altra è fredda. Per non parlare di asciugamanie lenzuola».
Cos’hanno che non va?
«Sono di carta: lenzuola di carta, asciugamani di carta. Secondo quelli del centro dovrebbero durare anche tre giorni. Se qualcuno, quando entra, prova a portarsi qualcosa da fuori glielo fanno lasciare ».
Avete una mensa?
«Sì, c’è una mensa ma alla finemolti di noi preferiscono portarsi da mangiare in stanza. Il cibo va bene, non è quello il problema. Ringraziando dio, ci basta un po’ di pane e un po’ d’acqua».
Come venite trattati?
«Dipende: i lavoratori della cooperativa che gestisce il centro ci trattano normalmente, non si comportano male. Ma spesso abbiamo a che fare con la polizia. E basta che facciamo qualcosa che a loro non piace per essere minacciati: “Ti portiamo via, ti portiamo in carcere”, ci dicono. Ma qui è peggio del carcere e io lo posso dire perché ci sono passato».
Dove?
«A Lanciano. Mi hanno messo dentro per droga nel 2009. Ma ho scontato e ora sono qui».
Da quanto sei in Italia?
«Da 12 anni: ne compio 26 a marzo e la maggior parte della mia vita l’ho vissuta a Bologna».
Come stanno i ragazzi che si sono cuciti la bocca?
«Sono deboli, non mangiano da due giorni, hanno le labbra gonfie. Ma vogliono continuare. E noi con loro faremo lo sciopero della fame».
In quanti siete a farlo?
«Una cinquantina: ci sono tunisini, marocchini, georgiani, bosniaci. Solo i nigeriani non si sono uniti alla protesta».
Cosa vi dicono dal Cie sui tempi di permanenza?
«Niente, non ci dicono nulla. Io sono già stato tre volte davanti a un giudice di pace: vai lì, non ti chiedono spiegazioni, praticamente non ti fanno parlare, ti dicono che devi restare chiuso un altro mese, poi altri due mesi. Da quando sto qui nessuno è stato scarcerato».
Ma qualcuno è stato rimpatriato?
«Sì, ogni tanto arrivano, di solito la mattina verso le 4, e si prendono un paio di marocchini. Vengono una volta ogni dieci giorni ma io non capisco».
Cosa?
«Il consolato marocchino li ha già identificati tutti, ha dato il via libera al rimpatrio. E allora perché non li rimandano via tutti e 30 quanti sono quelli che stanno qui?».
Perché?
«Perché se vanno via tutti insieme qui non c’è più da lavorare. Rimane troppa poca gente: oggi siamo 90, 60 uomini e 30 donne. La verità è che ci tengono così a lungo qui perché così prendono i soldi dallo Stato».
Tu quando uscirai?
«Non lo so, non me l’hanno detto ».
Verrai rimpatriato?
«Così dicono ma io non voglio. Vivo qui dal 2001, a Bologna vive mio padre, ci sono tre miei fratelli. Cosa ci torno a fare in Tunisia? Sono stato già in carcere, ho pagato per quello che ho fatto: perché devo soffrire ancora?».

Repubblica 23.12.13
“Noi, prigionieri anche senza sbarre” A Mineo, dove l’asilo è un miraggio
Il villaggio a 5 stelle dei profughi: anche qui proteste e suicidi
di Alessandra Ziniti


MINEO — «Why not, why». Louis grida con tutto il fiato che ha in corpo, gli occhi iniettati di sangue per spiegare perché due giorni fa ha sfogato tutta la sua rabbia tirando pietre contro i poliziotti che vigilavano sull’ennesima manifestazione di protesta, in strada, a bloccare il traffico sulla superstrada Catania-Gela. Un viaggio durato oltre un anno, quello di Louis, dal Ghana lungo il deserto fino alla Libia, la fame, la sete, le vessazioni dei trafficanti di uomini, poi la traversata del Canale di Sicilia e ora, dopo un anno e due mesi di infinita attesa dell’asilo politico, il “no”, per lui incomprensibile, della commissione chiamata a valutare le richieste di migliaia di profughi.
Mineo, Piana di Catania, tra gli agrumeti che sconfinano verso Caltagirone. È qui la “città” dei richiedenti asilo. Nel villaggio degli Aranci, fino a tre anni fa abitato dalle famiglie degli ufficiali americani di stanza alla base militare di Sigonella, oggi vivono 3758 persone, di 15 etnie diverse. Una convivenza difficilissima, soprattutto se la “resistenza” psicologica di questi profughi, quasi tutti arrivati qui fuggendo a guerre, persecuzioni politiche o religiose, è minata da una attesa infinita. Secondo la legge, chi arriva qui non dovrebbe attendere più di 35 giorni prima di sapere se lo status di rifugiato sarà concesso o meno, ma chi entra al Cara di Mineo, il più grande d’Europa, non esce prima di un anno. Una sola commissione per Catania e Siracusa, composta da quattro membri (in rappresentanza di prefettura, questura, enti locali e Unhcr), è chiamata a decidere sul destino di questa gente, a studiare i loro fascicoli, ad ascoltarli, a ricostruire le loro storie prima del verdetto. Che dovrebbe arrivare entro tre giorni e che invece si fa attendere spesso molto più a lungo. Alla fine, in un anno, la commissione non riesce ad evadere più di 2500 “pratiche”, poco più della metà dei migranti che, nel frattempo, vengono stipati nelle villette a schiera del Villaggio degli Aranci con un esplosivo mix di razze, etnie e religioni che spesso innesca una miscela esplosiva.
La settimana scorsa un giovane eritreo di 21 anni ha preso la cintura dei pantaloni, l’ha appesa ad un gancio in una delle stanze del centro e si è impiccato. Era lì da sette mesi, ma non riusciva più a sopportare il peso dell’incertezza del futuro. «Quel ragazzo - dice don Mussie Zerai, sacerdote eritreo punto di riferimento dei profughi in Italia - è rimasto vittima di un sistema di accoglienza incapace di rispettare la dignità della persona e di offrire un futuro che non sia quello di essere gettati per strada come un rifiuto. Voleva andare a vivere dalle sue sorelle, in Germania, dove poteva essere supportato e accompagnato da loro per ricominciare a vivere, dopo le traversie della fuga e dell'esilio, ma gli accordi europei glielo hanno impedito, hanno ucciso ilsuo sogno».
Quando lo inaugurarono, nella primavera del 2011, al tempo dell’emergenza Nordafrica, le immagini di quelle villette a schiera bifamiliari, i campi sportivi, il piccolo ospedale, la mensa, la scuola per imparare l’italiano, l’asilo per i più piccoli, fecero il giro del mondo. «Inauguriamo un modello di solidarietà ed accoglienza che ci invidiano in tutto il mondo», disse l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi a Mineo insieme a Maroni, ministro dell’Interno, il “creatore” del Cara. Si temeva addirittura che le immagini di quel “villaggio a cinque stelle” trasmesse in tv potessero addirittura attirare dal Nordafrica migliaia di persone invogliate da un “lusso” chenon avevano mai visto. Ma non è andata così e ben presto il Cara di Mineo si è trasformato in una piccola città sovraffollata, in cui abusi e violenze sono all’ordine del giorno, con intere famiglie “deportate” qui da altre piccole realtà in cui si erano ormai inserite.
E soprattutto Mineo si è rivelato un grande business, tanto che, al cessare dei fondi per l’emergenza Nordafrica, quegli stessi Comuni confinanti che per i primi mesi protestavano per le scorrerie dei migranti che facevano razzia nelle aziende agricole e mettevano a rischio la sicurezza dei cittadini, hanno deciso di costituire un consorzio per partecipare alla gestione di una vera e propria azienda di servizi all’immigrazione. Il “Consorzio Calatino Terre di accoglienza' incassa circa 50 milioni di euro all'anno. E anima del Consorzio è Sisifo, di Legacoop, che si è appena visto rescindere dal Viminale il contratto per il centro di Lampedusa dopo lo scandalo del trattamento antiscabbia.

Repubblica 23.12.13
La condizione disumana
Il gesto di un nuovo italiano che spalanca la porta sull’orrore
di Gad Lerner


LA SCELTA del deputato Khalid Chaouki, responsabile Nuovi Italiani del Pd, che si autoreclude nel Cie di Lampedusa con i 219 migranti lì trattenuti in violazione della legge e in condizioni disumane, è un gesto inedito di condivisione.
UN GESTO davvero onorevole perché nobilita la funzione del parlamentare, chiamato a farsi prossimo di una sofferenza che ha generato scalpore ma che finora non ha rotto il muro d’indifferenza delle istituzioni.
Chaouki è un giovane cittadino italiano nato in Marocco di fede musulmana, da tempo impegnato nel dialogo contro ogni forma di integralismo. Non stupisce che incontrando i superstiti del naufragio del 3 ottobre scorso ancora detenuti a Lampedusa, e gli altri migranti in sciopero della fame contro il trattamento umiliante che loro stessi hanno filmato, sia scattato in lui un impulso d’immedesimazione. Non lo aveva programmato, aveva in tasca il biglietto aereo di ritorno a Roma. Proverà cosa vuol dire dormire al freddo e nella sporcizia di quella struttura diroccata che in troppi visitano per poi voltarle le spalle. Il suo esempio testimonia quant’è importante che sia approdata in Parlamento l’esperienza di vita dei nuovi italiani, ormai una percentuale significativa della nostra popolazione. Ma sarebbe miope relegare la sistematica violazione dei diritti umani dei migranti a questione marginale, riguardante solo una sia pur cospicua minoranza. La negligenza delle strutture amministrative coordinate dal ministero degli Interni nel tutelare profughi e richiedenti asilo, così come la prolungata reclusione nei Centri di Identificazione e Espulsione di cittadini stranieri privi di documenti in regola, configura un degrado di civiltà cui sarebbe pericoloso assuefarsi. Deturpa la natura democratica dello Stato e quindi incrina i pilastri della nostra convivenza civile.
Già la legge Bossi-Fini e i suoi successivi inasprimenti col reato di clandestinità e con la proroga dei limiti di detenzione nei Cie, ha trasformato questi Centri in focolai di disperazione. Se otto ragazzi di vent’anni senza pendenze giudiziarie sono giunti a cucirsi la bocca per protesta nel Cie romano di Ponte Galeria, significa che l’infezione è degenerata, senza che le ripetute denunce abbiano mosso il governo a intervenire.
Decenni di allarmismo e propaganda hanno costruito purtroppo un vasto consenso intorno alle misure discriminatorie varate dai governi di destra. Ancora ieri c’è chi ha reagito con stizza alla protesta del deputato Chaouki, compiacendosi che sia tornato “fra i suoi simili” perché non riescono ad accettare l’idea che un nativo del Maghreb possa diventare cittadino italiano e addirittura rappresentante del popolo. Soffriamo un ritardo culturale drammatico che ha incentivato la pavidità delle istituzioni. Il ministro Alfano è ancora lì che adopera espressioni anacronistiche come “prima gli italiani” per giustificare le sue inadempienze. Fingendo di ignorare che il flusso migratorio ci ha già profondamente trasformati come nazione, e che il riconoscimento dei diritti dei migranti e dei profughi rappresenta un’urgenza dell’intera comunità italiana.
Chaouki è giunto a Lampedusa all’indomani della visita del segretario del suo partito, Matteo Renzi che vuole modificare la legge Bossi-Fini. Ma nel frattempo? Ci era già andato in pellegrinaggio papa Francesco, scuotendo le coscienze. Il presidente della Commissione europea Barroso e il premier Letta vi hanno versato lacrime di indignazione. Com’è possibile che in tuttiquesti mesi la situazione non sia cambiata, anzi, se possibile, è peggiorata? Sorge legittimo il sospetto che la nomina di un ministro dell’integrazione nella persona significativa di Cécile Kyenge sia stata escogitata come mero atto dimostrativo. Possibile che in tutti questi mesi nulla sia stato fatto per correggere l’obbrobrio dei Cie e del Centro di Lampedusa? Possibile che il governo non abbia varato alcuna modifica della Bossi-Fini e neppure un disegno di legge per la cittadinanza dei minori figli di immigrati?
La stessa Kyenge dovrebbe finalmente battere il pugno sul tavolo, se non vuole apparire una foglia di fico del menefreghismo altrui, come le ha ricordato nei giorni scorsi Chaouki. Ma intanto c’è da augurarsi che l’esempio di quest’ultimo sia seguito da altri parlamentari, non solo “nuovi italiani”, perché la violazione dei diritti umani è una vergogna che tutti ci accomuna.

il Fatto 23.12.13
Stabilità e Salva-Roma: affitti d’oro e finta abolizione delle Province
Esce la slot-porcata, salvi però gli affitti d’oro
Maratona alla Camera, Letta in difficoltà, ostruzionismo delle opposizioni per le nuove “porcate”
di Sara Nicoli


I nodi arrivano al pettine di solito all’ultimo respiro. E così, come nelle migliori tradizioni, l’altra notte la Camera ha approvato, tra una marea di polemiche, il ddl sulle Province e le città metropolitane che quindi passa al Senato dove oggi si darà il via libera definitivo alle modifiche della legge di Stabilità. Solo che, sempre ieri, i 5 stelle e la Lega hanno trovato un inghippo. Ossia: un emendamento con cui Camera e Senato “salvano” i loro affitti d’oro. A denunciarlo, per prima, Laura Castelli del M5s: “Abbiamo trovato questo emendamento, scritto sotto invito della Ragioneria dello Stato, con il quale il relatore del provvedimento della legge di Stabilità esclude dalla rescissione dei contratti di affitto dello Stato a quei privati che hanno dei fondi di garanzia legati agli immobili in questione. Significa – ha spiegato la deputata – che se i proprietari degli immobili hanno una assicurazione su quell’immobile, lo Stato non può disdire il contratto. E guarda caso, sembra che la società Milano 90 che affitta i locali alla Camera dei deputati una assicurazione del genere ce l’hanno…”. La Lega, Gianluca Buonanno ieri si è presentato in Aula brandendo un forcone, annuncia ostruzionismo a oltranza. Insomma, chi dava per intascata la legge di Stabilità senza scosse si dovrà ricredere, anche se il governo sta valutando un decreto correttivo (l’ennesimo) sull’argomento, ma nulla è scontato. Come non lo sono le conseguenze del decreto “Salva Roma”, su cui ieri il governo ha posto la fiducia che sarà votata oggi alle 14,30. È stata trovata una soluzione al pasticcio delle slot machine provocato dagli alfaniani al Senato, ma viste le cannonate dei leghisti, che minacciavano di tenere inchiodati tutti “fino a Capodanno” con il loro ostruzionismo, il governo ha deciso di tagliare corto. Il decreto scade il 30 dicembre, dalla sua approvazione deriva il salvataggio del devastato bilancio capitolino, il 27 sarà di nuovo al Senato, di nuovo con la fiducia. “È emerso in queste ore – ha spiegato Dario Franceschini – un problema nella legge di stabilità (la norma sugli affitti, ndr) che non si può modificare in questo provvedimento (il decreto salva Roma, ndr). Prendo l’impegno, a intervenire per correggere tutto per decreto”. Insomma, si approvano leggi che poi dovranno essere modificate a gennaio per decreto per tappare le falle create da chi vuol mantenere lo status quo. A partire proprio dal “salva Roma” che davvero non piace a nessuno. Il partito di Grillo lo ritiene pieno di “marchette”, quello di Berlusconi – che nella scorsa legislatura aveva approvato un provvedimento simile a beneficio di Alemanno – dice che si va ad aiutare un’amministrazione di sinistra. E la Lega lo ha usato per fare propaganda suol denaro che viene profuso a pioggia su “Roma ladrona”.
IL GOVERNO, però, va avanti, incurante delle critiche. Come sulle province. Approvate a Montecitorio in piena notte di sabato con 277 voti favorevoli, 11 contrari (Sel) e senza i voti della Lega, di Forza Italia e del M5s. Si prevede la trasformazione dei Consigli provinciali in assemblee dei sindaci, che lavoreranno a titolo gratuito, l’istituzione di 9 città metropolitane e la disciplina della fusione dei comuni. Chiaro il taglio delle “poltrone” locali, che ha fatto infuriare la Lega e Forza Italia, ma – soprattutto – l’eliminazione delle elezioni provinciali, con gli enti che si trasformano in altro rispetto a quello che sono adesso. Il provvedimento ora passa al Senato, dove sono attesi fuochi di sbarramento. Ma anche lì, una fiducia e la promessa di intervenire “dopo, per decreto” alla fine chiuderà il cerchio parlamentare, anche se i grillini (e non solo loro), intravedono già l’inciampo: “Il governo canta vittoria per il ddl sulle Province, parlando di tagli e riordino – si legge in un comunicato 5 stelle – nulla di più falso; il ddl sarà presto dichiarato incostituzionale perché trasforma degli enti elettivi in non elettivi e per fare questo serve una riforma costituzionale” . “A un governo M5S sarebbero bastate poche righe – chiude il comunicato – per tagliare le Province, un semplice disegno di legge costituzionale, sopprimendo all’articolo 114 della Costituzione la parola Province”. E invece no. E tutto sta ancora in piedi come prima.

Corriere 23.12.13
Da salva Roma a salva tutti
Assalto per i milioni a pioggia
di Sergio Rizzo


ROMA — «Nelle lanterne semaforiche, a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, le lampade ad incandescenza, quando necessitino di sostituzione, devono essere sostituite con lampade a basso consumo energetico, ivi comprese le lampade realizzate con tecnologia a Led». Con una prosa piuttosto incerta e supremo sprezzo del ridicolo, nel passaggio in Senato del decreto cosiddetto salva Roma hanno infilato anche questo. Certo è arduo immaginare che in un Paese normale serva una legge approvata dal Parlamento per cambiare le lampadine fulminate dei semafori. Ma questa è la prova che di normalità, quando qui si fanno le leggi, è davvero difficile parlare.
Prendiamo il decreto di cui sopra. Il governo l’aveva fatto per risolvere la rogna degli 864 milioni di debiti spuntati nei conti di Roma Capitale, ma già sapendo di far partire una diligenza destinata all’assalto generalizzato. E a palazzo Madama ci è stato caricato di tutto. Venti milioni per tappare i buchi del trasporto pubblico calabrese. Ventitré per i treni valdostani. Mezzo milione per il Comune di Pietrelcina, paese di Padre Pio. Uno per le scuole di Marsciano, in Umbria. Un altro per il restauro del palazzo municipale di Sciacca. Ancora mezzo per la torre anticorsara di Porto Palo. Un milione a Frosinone, tre a Pescara, 25 addirittura a Brindisi. Quindi norme per il Teatro San Carlo di Napoli e la Fenice di Venezia, una minisanatoria per i chioschi sulle spiagge, disposizioni sulle slot machine, sulle isole minori, sulla Croce Rossa, sul terremoto dell’Emilia-Romagna, sui beni sequestrati alla criminalità organizzata. E perfino l’istituzione di una sezione operativa della Direzione investigativa antimafia all’aeroporto di Milano Malpensa per prevenire le infiltrazioni mafiose nell’Expo 2015.
Per non parlare di alcune perle, nel solco della tradizione di estrema trasparenza delle leggi made in Italy. Esempio: «All’articolo 1 del decreto-legge 29 dicembre 2011, n. 216, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 febbraio 2012, n. 14, il comma 4-bis è abrogato». Abrogato al pari del «terzo comma dell’articolo 2 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 10 aprile 1948, n. 421, ratificato, con modificazioni, dalla legge 5 marzo 1957, n. 104». Chi ci capisce qualcosa? Alla faccia di quella norma approvata dal Parlamento quattro anni fa, che imporrebbe di scrivere le leggi in modo chiaro e comprensibile a tutti, senza costringere i cittadini a scavare nei codici e nelle Gazzette ufficiali di cinquant’anni prima per capire di che si tratta.
Ma tant’è. Quella norma, voluta dall’ex ministro della Semplificazione Roberto Calderoli, non è mai, e sottolineiamo mai, stata applicata. Né hanno avuto seguito i reiterati richiami dei presidenti della Repubblica, prima Carlo Azeglio Ciampi e poi Giorgio Napolitano, a evitare di produrre grovigli sterminati di norme incomprensibili che si sovrappongono ad altre norme incomprensibili, con rimandi a decreti ministeriali che espropriano il Parlamento del potere legislativo e talvolta non vengono neppure emanati. Non è servita di lezione nemmeno la vicenda incredibile della finanziaria 2007, costituita da un unico articolo di 1364 commi. La sera prima dell’approvazione si seppe che nella confusione generale una manina aveva inserito una norma per tagliare le unghie alla Corte dei conti. Il premier Romano Prodi andò su tutte le furie e impose di eliminarla. Gli esperti degli uffici legislativi la cercarono nel testo tutta la notte senza però riuscire a trovarla. La finanziaria fu così approvata con il comma incriminato (il numero 1346) che fu eliminato il giorno dopo, una volta finalmente rintracciato, con un altro decreto legge. L’autore del misterioso geroglifico era un senatore della maggioranza, Pietro Fuda: presidente della commissione parlamentare per la Semplificazione della legislazione. Nientemeno.
Ma c’è ben poco da fare. Senza eliminare il bicameralismo perfetto, che esaspera i passaggi parlamentari in un ping pong infinito fra Camera e Senato, sarà impossibile uscirne. Anche se, a giudicare da quello che capita nelle Regioni dove quel problema non esiste, qualche grossa responsabilità ce l’hanno di sicuro le persone. Il bilancio della Regione Lazio che si discute in queste ore, per esempio. Sul testo della giunta si è riversata una massa di 5.300 emendamenti capaci di far dilatare il fascicolo d’aula a 8.172 pagine. Denuncia nel suo sito la consigliera regionale Teresa Petrangolini che i 653.760 fogli necessari a stampare le 80 copie di quel fascicolo saranno abbattuti 8,28 pini alti quindici metri.
Non c’è governo che negli ultimi anni non abbia dovuto mettere in campo maxiemendamenti con relativi voti di fiducia per far passare finanziarie, decreti omnibus, leggi milleproroghe… Un delirio legislativo al quale nessuno è riuscito a sottrarsi. Ci aveva provato Giulio Tremonti, trasformando la legge finanziaria in «legge di Stabilità». Doveva essere una semplice tabellina di numeri sul modello della legge britannica: prendere o lasciare. Aveva faticato non poco, il superministro delle stagioni berlusconiane. Di «legge di stabilità» ne aveva parlato per primo Giuliano Amato, in quel terribile 1992. Poi Tremonti aveva rilanciato il concetto nel 2002, riuscendo però a imporla solo nel 2009. Ma a poco a poco il Parlamento e le lobby se la sono mangiata, cosicché di «stabilità» rimane solo il titolo. Siamo dunque tornati alla vecchia finanziaria, l’ultimo treno che passa e sicuramente arriva in stazione: perciò i vagoni devono essere capienti e ospitali. Esattamente come quelli degli altri provvedimenti che necessariamente vanno approvati, tipo il decreto salva Roma o la legge milleproroghe, ormai un classico dell’orrore cui già si sta pensando di rifilare le cose non partite con i convogli precedenti.
La frenesia è tale che i vagoni vanno pericolosamente a sbattere gli uni contro gli altri, manovrati da interessi contrapposti. E la confusione, niente affatto casuale, è tale da permettere ogni colpo basso. Dice tutto il caso degli affitti d’oro. Nella «manovrina» approvata dal Senato il 13 dicembre spunta una norma grillina che dà allo Stato diritto di recesso con soli trenta giorni di preavviso dai contratti d’affitto stipulati con privati. Se un locale non serve più, la pubblica amministrazione lo può lasciare senza essere costretta a pagare l’affitto fino alla scadenza del contratto. Il minimo sindacale, insomma. L’obiettivo? I lucrosi contratti della Milano 90 srl di Sergio Scarpellini con la Camera per gli uffici dei deputati. Ma il 19 dicembre, sempre al Senato, ecco un emendamento del Pd, catapultato in un altro decreto, che la cancella. La cosa finisce sui giornali e scoppia un putiferio: il 21 dicembre la norma viene ripristinata alla Camera in un terzo decreto ancora, quel salva Roma di cui parlavamo. Senza però sapere che nel frattempo si era già provveduto, prima della guerra degli emendamenti, ad aprire un paracadute nella legge di Stabilità. In che modo? Escludendo dal diritto di recesso non solo i palazzi dei ricchi fondi immobiliari, ma anche quelli di proprietà di chi ha investito negli stessi fondi. Si mormora che l’inciso possa rappresentare un assist a Scarpellini. Sarà vero? Viene in mente la celebre battuta di Giulio Andreotti: «A pensar male si fa peccato ma quasi sempre ci si azzecca…»

Repubblica 23.12.13
Lo scontro
Affitti d’oro, barricate dei grillini “Se restano blocchiamo la Camera”
Renzi: i 5Stelle hanno ragione. Province, rivolta dopo lo “svuotamento”
di Silvio Buzzanca


ROMA — Le ferie incombono, i decreti legge scadono, le norme entrano ed escono dai testi in un balletto folle e, spesso, ridicolo, in un caos che ha poco di creativo. Capita per esempio, ai commi fatali che dovrebbero dare ai poteri pubblici il potere di disdire i contratti di costosi palazzi. Ieri era il giorno del trionfo del fronte contrario agli “affitti d’oro”, con i grillini tutti contenti a rivendicare l’entrata in vigore della norma che, tanto per fare un esempio, avrebbe permesso alla Camera dei deputati di lasciare il salatissimo Palazzo Marini di proprietà di una società di Sergio Scarpellini. Una svolta apprezzata da Matteo Renzi: «Nessuno ha il monopolio delle buone idee. É giusta l’idea del M5S sugli affitti per i palazzi della politica», ha detto il segretario del Pd.
Così, tutti d’accordo i deputati avevano deciso di rimettere nel decreto legge “salva Roma” questa norma che il Senato aveva cancellato dalla “manovrina” che il governo aveva presentato per tenere i conti pubblici nei famosi parametri del 3 per cento. Ma ieri sera è arrivata la doccia scozzese.I leghisti, questa volta il compito è toccato a loro, hanno scovato un codicillo della legge di Stabilità che il Senato dovrebbe approvare oggi che svuota la presunta vittoria dei moralizzatori. In poche parole l’affitto non si cancella per i fondi immobiliari che offrono come garanzia ai propri investitori i contratti con il potere pubblico.
Una notizia che è piombata nell’aula di Montecitorio dando nuovo vigore alle opposizioni alla ricerca del “trappolone” dentro cui fare cadere Letta. E così Dario Franceschini da un lato ha annunciato che il governo mette la fiducia sul decreto “salva Roma”, che mette a posto le cose ridando ai poteri pubblici il potere di disdire gli affitti. Ma di fronte alla minaccia grillina «il governo si impegni e trovi una soluzione attraverso un decreto ad hoc o siamo pronti all’ostruzionismo», Palazzo Chigi è stato costretto a promettere che oggi pomeriggio spiegherà all’aula cosa è successo.
In aula Franceschini potrebbe assicurare che il governo il 27 dicembre, nel Consiglio dei ministri in programma per i soliti adempimenti di fine anno, cancellerà con un decreto le norme contenute nella legge di Stabilità che prevedono delle eccezioni a quelle che dovrebbero essere approvate nel decreto “salva Roma”.
Alla fine tutto sembra però un pasticcio da fare girare la testa. Che arriva a poche ore dall’approvazione del progetto che, in attesa della modifica costituzionale, trasforma le Province in enti di secondo livello, trasferisce lecompetenze e crea le città metropolitane. In pratica, man mano che scadono, presidenti e consigli provinciali non saranno rieletti e arriverà un commissario a gestire la transizione. La Camera ha approvato il progetto con 277 voti, mentre leghisti, forzisti e grillini hanno lasciato l’aula in segno di clamorosa protesta contro il provvedimento. Pier Ferdinando Casini ha preso le distanze dallariforma: «È un gran pasticcio, se non cambia al Senato anch’io voterò contro, come già feci per quel federalismo leghista alla base di tanti guai».
La Lega ne fa una questione di democrazia per via della cancellazione delle assemblee elettive, i grillini e i forzisti temono che le città metroplitane diventino punti di forza dei democratici. E poi si contesta il fatto che si cancelli qualcosa che incida veramente sui costi. Polemiche e critiche che riassume il presidente dell’Unione delle province, Antonio Saitta: «È un provvedimento pieno di incongruenze, getterà nel caos il Paese. Invece di produrre risparmi farà aumentare la spesa pubblica e moltiplicherà enti strumentali e agenzie regionali ».

Repubblica 23.12.13
Marchi (Pd), relatore della legge di Stabilità: la norma contestata vuol tutelare chi ha investito in fondi immobiliari
“Favore ai palazzinari? No, ai risparmiatori”


ROMA — Onorevole Maino Marchi, lei è un esponente del Pd ed è stato il relatore sulla legge di Stabilità. Che dice di questa vicenda degli “affitti d’oro”?
«C’è un intreccio fra varie cose. Tutto nasce da una parte dalla cosiddetta “manovrina”, il decreto legge fatto per rientrare nel 3 per cento del rapporto deficit-Pil. E siccome ci sono problemi per disdire i contratti della Camera. si è messa una norma generale che prevede appunto la possibilità di recedere dai contratti in 30 giorni da parte di Stato, organi costituzionali, Regioni ed Enti locali...».
L’obiettivo è risparmiare. E poi che è successo?
«Questa norma generale è stata cancellata al Senato durante la discussione del decreto “salva Roma”. Ma sabato sera alla Camera abbiamo soppresso questa soppressione ».
E la legge di Stabilità come entra nella partita?
«Nella legge di Stabilità vi è un percorso parallelo. Nasce da un emendamento del Nuovo centrodestra che prevedeva questo: quando scade un contratto di affitto pubblico, prima di rinnovarlo l’Agenzia del demanio deve verificare se nell’area ci sono palazzi pubblici dove collocare gli uffici. Su questo la Ragioneria dello Stato ci ha dato un parere favorevole, ma ha segnalato la necessità di collegare il tutto ad una norma che salvaguardasse i fondi di investimento... «.
Allora quello che è uscito dalla porta rientra dalla finestra?
«Il rischio segnalato era quello di produrre un danno ai risparmiatori che investono in fondi collegati ad edifici preziosi grazie all’affitto pubblico. La possibilità di recedere dagli affitti potrebbe fare perdere valori aquesti fondi. Io credo che questa norma sia giusta perché si tenta di tutelare il denaro dei risparmiatori e non dei proprietari. Questo non significa essere amici dei palazzinari, ma dei risparmiatori».
Ma c’è un comma oscuro che parla anche di “terzi”...
«Io interpreto, perché la norma l’ha scritta la Ragioneria, che il proprietario dell’immobile può avere una parte del fondo. Questa norma va verificata e forse modificata. Vedo però che ci sono pareri contrastanti. Perché è la norma generale che andrebbe modificata, ma va fatto bene».
E ora che succede?
«Il governo già il 27 dicembre verificherà se c’è da fare una correzione a quanto prevede la legge di Stabilità».
(si.bu.)

l’Unità 23.12.13
Stop agli affitti di Stato, sì a proposta 5 Stelle

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l’Unità 23.12.13
Renzi: contratto unico per il lavoro
l segretario Pd: «Per dare garanzie a tutti va rivoluzionato il sistema»
«Basta discutere di articolo 18». A gennaio il «job act» democratico
Renzi: «Sì al contratto unico Basta polemiche ideologiche»
Il segretario democratico: «Se sei licenziato per una discriminazione non va bene, ma se il lavoro lo perdi per altre ragioni ci può stare»
Sul M5S «Non sono fascisti ma sfascisti»
di Maria Zegarelli

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l’Unità 23.12.13
Il Job Act va bene, purché non sia il piano Ichino
L’idea di sospendere l’articolo 18 i primi tre anni di assunzione è contenuta già nel nostro progetto di un «Contratto unico di inserimento formativo»
di Cesare Damiano

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l’Unità 23.12.13
Più occupazione meno ore
Per creare lavoro bisogna ridurre l’orario
di Pierre Carniti

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Corriere 23.12.13
Renzi: mi ispiro a Obama che ha aumentato l’occupazione
«Due anni di sussidio per tutti. Obbligatorio il servizio civile»


ROMA — «Sul lavoro farò come Obama, che ha fatto crescere l’occupazione negli Stati Uniti». Matteo Renzi interviene a tutto campo a Che Tempo che fa , parlando di costi della politica, legge elettorale, job act, scuola, Bossi-Fini.
Il segretario del Pd torna a escludere che il punto sia l’articolo 18: «Non si può partire dal lato ideologico. Dobbiamo semplificare un sistema barocco di regole, fare un grande intervento per creare posti di lavoro e dare garanzie a chi lo perde». In cambio di una maggiore flessibilità in uscita, Renzi assicura che ci sarà un sistema di tutele: «Finora solo un cittadino su tre era protetto. Con questo piano tutti avranno due anni di sussidio. E nel frattempo ci sarà un sistema di formazione professionale serio». Fabio Fazio lo incalza sulla web tax: «Abbiamo spiegato al parlamentare pd che l’ha proposta che non era il caso. Ma come si fa a partire dalle tasse per un sistema che ha creato 700 mila posti di lavoro in 15 anni?». In Europa si potrebbe provare a ragionare su regole fiscali comuni: «Ma anche su una legge sulla cooperazione internazionale e sul servizio civile obbligatorio europeo».
Renzi per ora deve combattere in Parlamento. Se da una parte dà ragione ai 5 Stelle sulla battaglia sugli affitti d’oro al Senato, dall’altra li attacca: «A volte hanno ragione, nessuno ha il monopolio delle buone idee. Però gridano allo scandalo su tutto, quando potrebbero dare una mano. Non sono un movimento fascista, ma sfascista». Sulla legge elettorale: «Le regole del gioco le voglio fare con tutti. Non voglio tenere fuori Grillo o Forza Italia. Quando hanno fatto da soli, con il Porcellum, hanno fatto una legge che faceva schifo». La legge che vuole non c’è ancora: «Ce ne sono otto possibili. Doppio turno ma anche turno unico. Purché si garantisca governabilità e non ci siano inciuci e si sappia chi ha vinto».
Prima di tutto, però, «la politica deve tagliare se stessa, per essere credibile». Poi si ragionerà d’altro. Per esempio di scuola: «Il punto debole è la scuola media, va scatafasciato il programma». Ma c’è anche l’immigrazione: «Cambieremo la Bossi-Fini, glielo garantisco».
Renzi si prepara anche alle elezioni per provare a diventare per la seconda volta sindaco di Firenze. Al quotidiano La Nazione ha spiegato che nella coalizione che lo sosterrà «ci saranno anche liste civiche di persone legate al centro, cittadini moderati che magari a livello nazionale votano per il centrodestra ma che a Firenze vogliono votare per me e non per il Pd e avranno una loro lista». C’è un rischio: «Probabilmente qualcuno del Pd se ne andrà. Ma non mi preoccupa. Ci sono persone che fanno una battaglia di testimonianza, noi vogliamo vincere». Sull’ipotesi di primarie per Firenze, è scettico: «C’è stato qualche caso raro in cui siamo andati alle primarie per il secondo mandato e sono stati fatti grandi pasticci. Ma se ci saranno le primarie, le faremo». Renzi ha poi spiegato che «magari non farò tutto il secondo mandato, ma sono felice del fatto che Firenze è cambiata davvero».
Al. T.

il Fatto 23.12.13
“In tutta Europa”
Idea Renzi: servizio civile obbligatorio
di S. N.


A sentirlo, sembra che di dubbi non ne abbia neanche uno. Non gli basta l’Italia, Matteo Renzi vuol fare l’Europa. Come? “Con il servizio civile europeo obbligatorio”. Nella diatriba sull’articolo 18 non riesce a pronunciare la parola “licenziamento” e parla di “uscita dal lavoro”. Per il resto è legge elettorale: “Va fatta in fretta – dice Matteo Renzi – e non credo che l’Italia sia un Paese finito. A me va bene qualsiasi modello che ci dia governabilità, che non ci faccia tornare alla prima Repubblica. Deve essere chiaro chi ha vinto subito, mi va bene tutto, purché sia una legge più possibile votata a maggioranza; io non voglio tenere fuori Grillo o Forza Italia, ma voglio fare una legge, purché si faccia”. Però, un conto è quello che si dice in tv, officiante Fabio Fazio, un conto sono i dubbi che realmente assillano il sindaco di Firenze sull’idea di dar seguito al desiderio di fare una legge elettorale che tenga conto di tutti, anche delle opposizioni: impossibile. Ieri il Cavaliere è tornato a ricordargli che lui non ha alcuna intenzione di mollare e che, anzi, alle urne ci vuole tornare il prima possibile, a maggio, con le europee. Alfano, invece, tira dalla parte contraria, vuole che il governo duri fino a tutto il 2014 ma non vuole sentir parlare di maggioritario. Così, seppure per opposti obiettivi, sia Alfano che Berlusconi vogliono tenersi questa legge elettorale che è uscita dalla bocciatura del Porcellum. Il primo per timore che, appena cambiata, si vada dritti alle urne, il secondo perché andando al voto con il proporzionale rimarrebbe determinante per i giochi politici futuri e schiaccerebbe Alfano.
IL TUTTO, con il Pd nel mezzo che è, come sempre, diviso sul bersaglio. C’è chi, infatti, lavora per trovare una mediazione e chi, invece, lavora per mettere in difficoltà il segretario. “La mediazione è possibile – spiega un renziano – ma vanno deposte le armi, la legge elettorale purtroppo è terreno di battaglia di Fi e Ncd, se si sgombrasse il campo da queste polemiche l’intesa si troverebbe in un minuto”. Ed è quello a cui diverse anime del Pd stanno lavorando. I renziani con toni più cogenti, i governativi con toni più sfumati. “Ma la legge elettorale si deve fare in tempi brevi” condivide un deputato lettiano. Peccato che i bersaniani non la pensino così. E stanno lavorando per fare in modo che Renzi, sulla legge elettorale, conosca la sua prima sconfitta da segretario. Il primo stop “interno” è infatti legato alla “fretta” di Renzi, a cui i bersaniani replicano: “Prima bisogna leggere le motivazioni della Consulta, poi si decide il resto”. Sui contenuti della riforma, i renziani puntano al Mattarellum corretto, mentre per Alfano, il modello migliore sarebbe quello del “sindaco d’Italia”, con una base parlamentare decisa dal corpo elettorale e una quota destinata a un premio di maggioranza con eletti, sempre scelti dai cittadini, ma la cui elezione è legata alla vittoria del capo della coalizione. La mediazione tra i due disegni con Alfano “è possibile”, dicono tra i renziani, ma il problema è il Pd. Gli uomini dell’ex apparato del Nazareno lavorano ad una proposta di legge che unifichi tutti i testi fin qui arrivati in materia di riforma per valorizzare le preferenze e indebolire il premio di maggioranza, un modo per avere il via libera del Ncd, ma per mettere in difficoltà Renzi.
MA A QUEL punto si renderebbe responsabile di quello che pavenatava Berlusconi, di aver rotto la maggioranza e di far cadere il governo prima del tempo. A rendere i bersaniani sicuri del loro schema c’è poi il fatto che alla Camera la legge si potrà votare a scrutinio segreto. Ecco perché, tra i renziani, c’è chi sta spingendo il sindaco a procedere spedito sul Mattarellum senza scorporo, che crea meno problemi. Poi, se davvero si andrà alle elezioni, non si potrà mai dire che è stata colpa sua.

Corriere 23.12.13
Lavoro, quell’asse tra Bonanni e il leader del Pd
«L’articolo 18? Già disapplicato»
di Antonella Baccaro


ROMA — Raffaele Bonanni non sa se essere più sorpreso o soddisfatto. Le indiscrezioni di questi giorni sul piano del lavoro del neosegretario del Pd, Matteo Renzi, contratto unico per i neoassunti, formazione continua, partecipazione dei lavoratori alla gestione, coincidono con alcune delle tesi a lui più care. «Non ci crede? Legga qui», dice porgendo una sua lettera a un giornale in cui chiede che si affrontino «quei nodi» da cui da troppo tempo il Paese è legato. Come? Con la sperimentazione per tre anni di un contratto unico che trasformi tutti quelli precari in graduali assunzioni a tempo indeterminato. L’articolo in questione è dell’agosto del 2001. «Con ciò si dimostra — dice il segretario della Cisl — che il nostro sindacato era molto avanti. Quando proposi queste soluzioni invece successe l’ira di Dio. I tempi sono maturati».
Sì, ma quali tempi? Può essere quello della peggiore crisi che il Paese abbia vissuto dal dopoguerra il momento migliore per affrontare il tema della flessibilità abbattendo definitivamente il totem dell’articolo 18? «Non abbiamo scelta — è la risposta di Bonanni —. Ma dobbiamo agire con più accortezza. Purtroppo la legge Fornero ci ha portati indietro. Quello che non si può fare oggi è affrontare questi temi senza fare nel contempo una buona economia. I governi fin qui hanno pensato che l’occupazione si crei cambiando le regole del lavoro. Ma i fatti dimostrano che ciò non basta, che bisogna creare sviluppo prima di tutto. Perciò non accetteremo ulteriori discussioni senza che questi due binari procedano insieme».
L’allusione, neanche troppo velata, è alla cocente delusione della legge di Stabilità che ha mancato l’obiettivo di tagliare coraggiosamente il cuneo fiscale per far ripartire la domanda. «Anche se la creazione del fondo, pur con qualche contraddizione nel testo, è sicuramente un fatto positivo, frutto della mobilitazione del sindacati», dice Bonanni, non citando mai Letta, cui lo lega un rapporto di anni e una radice culturale comune, ma è a lui che pensa quando sollecita una «buona economia», come una sorta di promessa ancora pendente.
Il dibattito su come cambiare il lavoro intanto però è partito con la firma del neosegretario del Pd, Matteo Renzi: «Chiunque proponga maggiore flessibilità in cambio di maggiori salari, noi lo sosteniamo», dice il segretario della Cisl, mostrando un approccio laico che gli è consueto. «Bisogna combattere il freno posto da chi difende rendite di ogni tipo, che è lo stesso che ha affossato la legge di Stabilità. Perciò sono proprio le forze politiche nuove o rinnovate i migliori interlocutori di un sindacato che ideologico non è».
E se Renzi finisse vittima di una guerra sotterranea con la Cgil? «No, semmai io penso che Renzi stia riportando il Pd a quello dell’origine, quello di Walter Veltroni che non faceva guerre di religione ma dialogava pragmaticamente con tutti senza pregiudizi, cercandosi interlocutori moderni. Con lui mi sono trovato più a mio agio. Certo, lui non si sognava di entrare nelle dinamiche dei sindacati come io penso sia giusto, per un sindacato, non entrare in quelle politiche».
Eppure è difficile non notare che tra Letta e Renzi, ad esempio, ci sia al di là della proclamata collaborazione anche una competizione che può essere virtuosa oppure viziosa. «Scommetto che sarà virtuosa — azzarda Bonanni —: Letta e Renzi sono moderni. Possiamo dirci fortunati perché se ci sarà sfida, sarà per innovare». Bonanni non chiude nessuna porta insomma, sapendo che il cammino per la riforma sarà impervio.
Nel merito è d’accordo con Renzi «quando dice di vincolare la cassa integrazione alla formazione» mentre trova «sbagliato intervenire per legge sulla rappresentanza: stiamo chiudendo l’accordo attuativo con le imprese. Basta e avanza». Poi c’è da affrontare il tabù dell’articolo 18: «È il momento di andare alla sostanza: l’articolo 18 oggi è ampiamente disapplicato grazie alla giungla di contratti precari che va disboscata, a cominciare dalla piaga delle finte partite Iva, transitando verso un contratto unico che gradualmente si trasformi in un tempo indeterminato. Eviterei di farne una discussione estetica».

Repubblica 23.12.13
Ok degli industriali al piano Renzi apertura della Cisl, la Cgil dice no “ Èsolo una minestra riscaldata”
Rocca (Assolombarda): “Convincente”. Plaude anche FI
di Luisa Grion


ROMA — Tutti con Renzi, o quasi. Il piano per il lavoro disegnato dal nuovo segretario del Pd incontra favori diffusi. Piace a Forza Italia, che dice «è simile al nostro, ce l’hanno copiato», piace al resto del partito democratico che assicura «è una nostra vecchia idea», piace anche agli industriali che lo giudicano «decisamente convincente». Una pioggia di consensi che s’interrompe solo davanti al fronte sindacale dove, accanto ad una Cisl che apre con cautela, c’è il parere negativo della Cgil che definisce il piano come l’ennesima, inutile «minestra riscaldata».
L’approdo ad un contratto unico con applicazione dell’articolo 18 solo dopo i primi tre anni di lavoro e ad un sussidio di disoccupazione universale - i due punti di forza della ricetta per l’occupazione targata Renzi - secondo Vincenzo Scudiere, segretario confederale Cgil «non rappresentano una novità, sono idee già presentate in passato, non emerse proprio perché non risolutive della questione». «Qui c’è un difetto di fondo - assicura - per creare occupazione c’è una sola cosa da fare: rilanciare gli investimenti pubblici e privati, il resto è roba vecchia, minestra riscaldata». Quanto all’articolo 18 «i diritti vanno estesi, non negati e dal nuovo segretario del Pd mi aspetto qualcosa di meglio, anche per quanto riguarda la legge di Stabilità: Renzi è intervenuto solo sulla web tax».
Più possibilista la Cisl che - pur ricordando come la sperimentazione sull’articolo 18 sia una sua vecchia idea del 2001 - apre con qualche cautela. «Apprezzo la decisione di Renzi di partire dal lavoro e condivido la scelta di mettere al centro del progetto il problema dei giovani, ma bisogna pensare anche a chi perde il lavoro a 40 o 50 anni» dice Anna Maria Furlan, segretario confederale. «Prima di pensare alle regole sull’assunzione bisogna stimolare l’attività produttiva cambiando il fisco, facendo ripartire le grandi e medie opere, tagliando i costi dell’energia». Del piano di Renzi, precisa Furlan «non mi piace la legge sulla rappresentanza: in tema deve essere trattato dalle parti sociali » e «non funziona l’idea di un sussidio che cancelli la cassa integrazione che, al contrario, va estesa a tutti».
Ma se il Cgil boccia e Cisl ci va piano, dagli industriali arriva un’entusiastica adesione. «Il piano di Renzi è decisamente convincente - commenta Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda - questo Paese deve essere a fianco delle imprese». Stessa enfasi da parte di Renato Brunetta: «Se il piano è questo diciamo Forza Renzi, Forza Italia » commenta il presidente dei deputati forzisti, «quel piano sembra copiato dal nostro». Cesare Damiano allontana le ipotesi di dissensi interni al Pd: «Escludere l'applicazione dell'articolo 18 soltanto per i primi tre anni, non è nient'altro che una riproposizione aggiornata del contratto unico di inserimento formativo depositato nella scorse legislatura dal Pd che ho condiviso ». Tanta omogeneità di vedute sorprende lo stesso Renzi che intervistato a «Che tempo che fa» commenta: «Se Brunetta e Damiano sono d’accordo dove ho sbagliato?». Il segretario ribadisce l’intenzione di perfezionare il piano entro gennaio: «il Pd deve ritornare ad essere il partito del lavoro». Quanto all’articolo 18: «Non torniamo a discussioni ideologiche, non é importante un articolo, ma semplificare per dare garanzie a tutti».

l’Unità 23.12.13
Per mettere tutti d’accordo serve un (semi) doppio turno
di Luigi Ferrajoli

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La Stampa 23.12.13
Legge elettorale, brusca frenata
I partiti giocano a scacchi Bisognerà comunque aspettare le motivazioni della Consulta
di Ugo Magri


Solita storia: all’inizio grandi promesse che questa volta si farà di corsa, anzi la nuova legge elettorale verrà approvata a tempo di record. Entro fine gennaio, si diceva quando la Corte costituzionale bocciò il «Porcellum», e comunque prima che siano rese note le motivazioni della sentenza... Poi, strada facendo, sono emerse le solite divergenze: chi vuole il modello tedesco e chi lo preferisce spagnolo, chi guarda alla Francia e chi alla Svizzera. Sembrava a un certo momento che il «Mattarellum» potesse rappresentare il minimo comune denominatore perlomeno tra i tre maggiori partiti (Pd, M5S e Forza Italia), ma poi Berlusconi si è ricreduto, e circa le vere intenzioni di Grillo nessuno metterebbe la mano sul fuoco. Col risultato che dopo 20 giorni il treno della riforma è già fermo in stazione. Tra i partiti (tutti) l’ansia da prestazione è ora rimpiazzata da una prudente e, per certi aspetti, ragionevole attesa di come la Consulta argomenterà l’incostituzionalità del premio (nella versione «Porcellum») e delle liste bloccate. In particolare, ai piani alti della politica si vuol capire se il nuovo sistema elettorale dovrà prevedere per forza le preferenze, oppure la libertà di scegliere il proprio rappresentante sarà compatibile con altri congegni. A qualunque porta si bussi in queste ore, la risposta è più o meno la stessa: «Non possiamo mettere in piedi adesso una riforma, col rischio che venga smontata dalla Corte costituzionale...».
D’accordo. Ma la Corte, quando renderà pubbliche le proprie motivazioni? Non è dato sapere con certezza. Gli addetti ai lavori se le aspettano nella seconda metà di gennaio. Qualcuno ipotizza addirittura, data la complessità dell’argomento, i primi di febbraio. Secondo Luciano Violante, ex presidente della Camera e «saggio» quirinalizio, questa attesa della Consulta è un po’ una scusa, nel senso che serve a mascherare una certa confusione di idee. «Mi ricorda», spiega Violante con una battuta, «dei signori che litigano per prendere il taxi, però non sanno ancora dove vogliono andare...». C’è un’ulteriore spiegazione. Renzi sta usando la riforma elettorale come una pistola puntata contro il Nuovo centrodestra alla vigilia della verifica di governo. Casomai Alfano dovesse mettersi di traverso su qualche nodo programmatico, oppure volesse rifiutarsi di rinunciare a qualche poltrona ministeriale, il segretario Pd si riserverebbe di fare una legge con Berlusconi e Grillo («Non li tengo fuori», ha ribadito durante una puntata di Fazio) in modo da tornare alle urne il 25 maggio, insieme con le Europee. I tempi della riforma, insomma, saranno in qualche misura condizionati dal negoziato sul governo (e viceversa).
Fatto sta che in Commissione affari costituzionali della Camera, spiega il suo presidente Sisto, il calendario dei lavori è al momento il seguente: «Entro sabato 28, i partiti potranno proporre i nomi degli esperti da consultare. Ai primi di gennaio si riunirà l’ufficio di presidenza per fissare le audizioni e la tempistica successiva». Nella speranza che, nel frattempo, qualcosa si sblocchi.

Corriere 23.12.13
Le trattative sulla legge elettorale

Appena presa la guida del Pd, Renzi ha accelerato sul tema della legge elettorale e delle riforme. Le proposta che sta mettendo a punto lo staff del segretario si basa sul sistema misto del Mattarellum (75% in collegi uninominali, 25 proporzionale) con l’aggiunta di un doppio turno di coalizione. Sono Maria Elena Boschi e Dario Nardella a portare avanti le trattative con gli altri partiti, di maggioranza e opposizione

Corriere 23.12.13
Berlusconi scende in campo per trattare con il sindaco
L’obiettivo di un confronto su legge elettorale e lavoro
«No a larghe intese, sarebbe gravissimo un asse Pd-M5S»
di Tommaso Labate


ROMA — Arriverà oggi a Roma accompagnato dalla scia di messaggi pubblici che ha lasciato dietro di sé con l’obiettivo di far sapere che «io non mi arrendo». Anzi, come ha detto in collegamento telefonico con la riunione di un movimento di centrodestra nato a Catania, che «non diserto il campo di battaglia e non tradisco la fiducia di milioni di italiani».
Il Silvio Berlusconi pronto a sbarcare nella Capitale per una trasferta lampo ha le idee chiare. E anche un piano in testa. Che non riguarda soltanto quegli organigrammi di Forza Italia che — visto l’innesto di volti nuovi (Giovanni Toti sarà uno dei tre coordinatori nazionali) — hanno già creato una tempesta nella vecchia guardia. A meno di colpi di scena, infatti, tutte le nomine «nazionali» del partito saranno rinviate a dopo le feste, come anche il direttore di Tg4 e Studio Aperto ha lasciato intendere ieri. E l’unico intervento che il Cavaliere potrebbe autorizzare oggi potrebbe essere la promozione dei coordinamenti di Calabria, Lazio e Campania, tre Regioni in cui il partito ha bisogno quantomeno di «un commissario straordinario».
Ma la vera novità nello schema di gioco berlusconiano riguarda il rapporto col Pd. Anzi, per la precisione, quello con Matteo Renzi in persona. Da Confalonieri a Ermolli passando per Toti, con cui il Cavaliere ha condiviso anche la visione in tv del derby Inter-Milan, tutto il «ramo azienda» preme perché ci «sia un cambio di passo nel rapporto col segretario del Pd». Di più, come s’è sentito dire l’ex premier nelle ultime quarantott’ore, «non puoi lasciare che sia Verdini a gestire la partita della riforma elettorale». Anche perché, è stato il ragionamento del pacchetto di mischia di Cologno Monzese, «difficilmente Renzi accetterebbe di avviare una trattativa su queste basi».
E così, tra una telefonata col responsabile dei club «Forza Silvio» Marcello Fiori e l’impegno sul progetto animali-ambiente di Michela Vittoria Brambilla, ad Arcore sono state tirate giù le bozze di «un’offerta» da sottoporre al segretario dei Democratici quanto prima. E cioè «l’apertura formale di un confronto tra Forza Italia e Pd» su legge elettorale e Job act. Un tavolo che, nello schema immaginato a villa San Martino, dovrebbe essere apparecchiato con intorno sei sedie. Una a testa per Berlusconi e Renzi, e altre quattro per i capigruppo di Camera e Senato dei due partiti. Un modello non troppo dissimile da quello con cui il Cavaliere avviò un dialogo con Walter Veltroni all’alba della legislatura passata.
Vuole trattare di persona con Renzi, adesso, Berlusconi. E, per quanto fossero da decrittare, gli ha anche mandato dei messaggi pubblici cifrati. Due dei riferimenti della telefonata catanese — «Bisogna cambiare il nostro Paese e renderlo moderno come gli Stati Uniti, dove ci sono solo due grandi partiti» e anche l’ennesima stoccata ai rischi futuri di «nuove larghe intese» — assomigliano tanto alla musica preferita del sindaco di Firenze. Mentre il rischio paventato «di un’alleanza tra Pd e Cinquestelle», invece, era un modo per avvisare anzitempo i lealisti e i falchi. E per far capire, senza neanche troppi giri di parole, «che con il leader del Pd voglio trattare io».
Ce n’è abbastanza per alimentare l’ennesima tempesta all’interno di un partito sempre più diviso tra la vecchia guardia romana dei Fitto e dei Verdini da un lato, e «l’ala Mediaset» dall’altro. Questi ultimi, che considerano i primi «responsabili della scissione almeno quanto Alfano», stanno premendo perché il cuore pulsante del movimento tornino ad essere «Milano e la Brianza», come nel ’94. Al punto che vorrebbero che la convention nazionale forzista del 26 gennaio si tenga proprio nel capoluogo lombardo. E la toppa con cui Berlusconi ha negato con una nota «fantomatici ripulisti e presunte liti dentro Forza Italia», ormai, sembra troppo piccola per la voragine che si è creata.

Repubblica 23.12.13
Elezioni regionali
Sardegna, veto di Sel su Barracciu “Se si candida rompiamo col Pd”

CAGLIARI — Prima crepa visibile per la candidatura di Francesca Barracciu alla Regione Sardegna come portabandiera del centrosinistra. Ieri Sel ha dato l’aut aut: se la Barracciu non farà un passo indietro, il partito di Vendola romperà l’alleanza con il Pd alle elezioni di febbraio. La candidata è indagata nell’inchiesta sui presunti abusi nell’utilizzo di fondi dei gruppi. Proprio ieri l’attuale eurodeputata ha confermato che non ha intenzione di ritirarsi, come pure le avevano chiesto in modo riservato alcuni esponenti del suo partito. La Barracciu è sicura di dimostrare che non ha compiuto irregolarità, e dice di voler rispettare l’esito delle primarie da lei vinte.

La Stampa 23.12.13
Retroscena
Cossiga, la lettera con cui fece la pace con Napolitano
L’attuale presidente nel ’91 chiese le dimissioni, non l’impeachment Nel 2005 il picconatore gli scrisse: “Ho apprezzato il dissenso dei riformisti Pci”
La profezia di Cossiga: “Napolitano Presidente”
di Marcello Sorgi


Il testo
Caro Giorgio, ho letto con grande interesse e viva partecipazione le pagine del tuo libro “Dal Pci al socialismo europeo” che hai voluto cortesemente inviarmi. A parte la precisione e la incisiva sintesi nel riferire i fatti, mi ha colpito la obiettività con la quale descrivi decenni di vita politica italiana nei quali hai svolto da protagonista un importante ruolo con equilibrio e spirito critico. Ho molto apprezzato il riferimento al dissenso dell’area riformista del Pci su episodi che hanno dolorosamente
coinvolto la mia persona [aggiunto a mano] Ma alcuni che dissentirono da te si sono ricreduti.
La lettura del tuo libro ha confermato in me i sentimenti di stima e di amicizia che nutro da sempre nei tuoi confronti e che ti ho recentemente manifestato in occasione della tua meritatissima nomina a Senatore a vita. Nella speranza di incontrarti presto, ti ricambio i saluti più affettuosi. Francesco [aggiunto a mano] Ps Mi auguro che il centrosinistra (anche con il trattino) si realizzi! Ma perché non eleggerti Capo dello Stato? Io ti voterò!!!

Una lettera di Cossiga, uscita dall’archivio di Napolitano, dimostra che il Picconatore, il Capo dello Stato più discusso nella storia della Repubblica, non considerava l’attuale Presidente tra i suoi carnefici. E gli riconosceva, anzi, di essersi opposto alla rude campagna con cui l’ex-Pci, da poco trasformato in Pds, tentò di sfrattarlo dal Quirinale. Una vecchia storia di vent’anni fa, a cavallo tra la caduta della Prima e l’avvento della Seconda Repubblica. Tornata d’attualità ora che Grillo minaccia l’impeachment di Napolitano e lo accusa di comportarsi come il predecessore di cui allora chiedeva le dimissioni.Chissà se tra i tanti argomenti del messaggio di Capodanno il primo del nuovo settennato, dopo quello conclusivo del 2012 il Presidente deciderà di parlarne, magari inserendola tra le preoccupazioni espresse senza mezzi termini il 16 dicembre, nel discorso di auguri alle alte cariche dello Stato. Un anno fa il bilancio della sua presidenza, senza ridimensionare l’elenco delle difficoltà del Paese, era percorso da un filo di speranza che Napolitano sentiva di dover lasciare ai cittadini, a cui pensava di rivolgersi per l’ultima volta dal suo studio al Quirinale, a una classe politica in attesa di rinnovarsi con le elezioni politiche, e ovviamente al suo successore. In quel momento non immaginava proprio di dover succedere a se stesso. E neppure che il 2013, l’ottavo anno della sua presidenza, si sarebbe rivelato più difficile degli altri sette.
I risultati elettorali che per la prima volta, nei vent’anni della Seconda Repubblica, non hanno incoronato un vincitore; l’incapacità della classe politica di trovare un’intesa, sia per formare un governo, sia per eleggere un nuovo Capo dello Stato; la rielezione a sorpresa, decisa nel corso di una notte; la nascita svogliata del governo di larghe intese, la sua rapida consunzione dopo la condanna definitiva di Berlusconi in Cassazione, con l’avvento del nuovo equilibrio nato dalla divisione del centrodestra; tutto ciò, sullo sfondo di una crisi economica e sociale che non accenna a risolversi e ogni giorno apre nuove crepe nelle fasce più deboli della società. I dati fondamentali dell’anno che sta per concludersi sono questi e il Presidente, non a caso, ha voluto ricordare di recente quanto «gravoso» sia diventato il suo incarico, specie in un quadro in cui ogni solidarietà tra le forze politiche rischia di venir meno e s’è rotta pure la larga convergenza che lo aveva convinto a restare al Quirinale.
L’attacco di Grillo, che ha proposto l’impeachment di Napolitano, è fondato infatti sulle parole che lui stesso aveva usato in un articolo del 29 novembre 1991, dedicato a Cossiga, in cui definiva «incompatibile» con il suo ruolo il comportamento avuto nell’ultima parte del suo mandato, quando non perdeva occasione per andare all’attacco della Prima Repubblica che stava per franare. Napolitano, secondo il leader di M5s, oggi esagera come il Picconatore e per questo dovrebbe essere messo in stato d’accusa. In pochi giorni questa è diventata più o meno anche la posizione di Berlusconi, che accusa il Capo dello Stato di essere stato il regista del «golpe» che lo ha deposto e ora punta addirittura a mandarlo in galera. Così, nel giro di pochi giorni, il clima politico attorno al Colle è radicalmente mutato, senza peraltro che dal centrosinistra, lo schieramento in cui il Presidente ha militato per tutta la vita, si levino grandi voci in sua difesa.
In realtà la storia del (mancato) impeachment di Cossiga, tra la fine del 1991 e l’aprile del ’92, quando appunto il Picconatore, a sorpresa, decise di dimettersi due mesi prima della fine del suo mandato, andò in modo diverso da come Grillo l’ha rievocata e Berlusconi l’ha fatta sua, seppure senza associarsi fino in fondo alla minaccia della messa in stato d’accusa. La decisione di puntare sul Colle, e colpirne l’inquilino che da qualche tempo aveva cominciato a sparare le sue cannonate, l’aveva presa Achille Occhetto, ultimo segretario del Pci e primo leader del Pds, dopo la famosa svolta della Bolognina dell’89 e il cambio di nome imposto dalla caduta del muro di Berlino. A maggio del ’91, con quattro interpellanze parlamentari, aveva preannunciato la richiesta di impeachment, alla quale, invece, s’erano opposti Napolitano e tutta la corrente riformista del partito. La tesi dei «miglioristi» così erano definiti spregiativamente dagli occhiettiani gli esponenti della ex-destra comunista era che la messa in stato d’accusa non poteva e non doveva essere l’unica strada per opporsi agli sconfinamenti del Picconatore. Piuttosto si potevano chiedere le dimissioni, o mettere in conto che, constatata la durezza della posizione del maggior partito di opposizione, il Presidente, che aveva sconfinato, decidesse di rientrare nei ranghi.
Cossiga seguiva a distanza il dibattito nel Pds. Abituato alle liturgie comuniste, in cui la regola ferrea del centralismo democratico impediva al dissenso di manifestarsi apertamente come negli altri partiti, trovava un po’ debole l’opposizione di Napolitano, Macaluso, Chiaromonte e di quel che restava degli amendoliani, che di lì a poco, qualche settimana dopo le dimissioni del Presidente contestato, sarebbero stati liquidati e cancellati, quasi, dal vertice del Pds (anche se Napolitano trovò poi nuovi sbocchi sul piano istituzionale, prima come Presidente della Camera nel ’92 e poi come ministro dell’Interno nel ’96). Per sfotterli, li chiamava «vegetariani», come a dire che quando la carne è lacerata e corre il sangue, non serve andare tanto per il sottile.
Ma ora appunto la lettera uscita dall’archivio personale di Napolitano rivela che, col tempo, il Picconatore si ricredette, rendendosi conto che i miglioristi non potevano fare di più, alla vigilia della loro sconfitta interna nel partito. La missiva è datata 2 novembre 2005 ed è dedicata al libro Dal Pci al socialismo europeo, l’autobiografia di Napolitano, che Cossiga aveva ricevuto dall’autore e di cui aveva notato le pagine (261 e 262) in cui si descrivono gli ultimi mesi difficili di convivenza tra la maggioranza e la minoranza nel Pds: «Ho molto apprezzato scrive il riferimento al dissenso dell’area riformista del Pci (usa il vecchio nome anche se è stato accantonato da due anni) su episodi che hanno dolorosamente coinvolto la mia persona». Poi, a segnalare che anche tra gli occhettiani c’era stato chi si era pentito, aggiunge a penna un riferimento «ad alcuni che dissentivano da te» e «si sono ricreduti». Ma il capolavoro finale sta nella conclusione, sempre a penna, in cui l’ormai ex-Picconatore si augura che «il centro-sinistra valorizzi» Napolitano, e conclude: «Ma perché non eleggerti Capo dello Stato? Io ti voterò». E’ una profezia che nel giro di sette mesi si avvererà. Ma al di là di questa ulteriore prova della capacità visionaria di Cossiga il cui ruolo nella vita politica italiana non si era concluso con l’abbandono del Colle, ed era stato decisivo, tra l’altro, per portare a Palazzo Chigi Massimo D’Alema, primo presidente del consiglio post-comunista -, la lettera, venuta fuori
in questi giorni di sorde contrapposizioni, testimonia di uno stato dei rapporti interni alla classe politica (in cui la durezza degli scontri non doveva mai intaccare le relazioni personali), forse perduto per sempre. E oggi più che mai rimpianto da Napolitano.

Corriere 23.12.13
No all’impeachment, quando Cossiga ringraziò Napolitano
La lettera inedita del «picconatore»
di Marzio Breda


Rievocano l’ultima incendiaria stagione di Francesco Cossiga per usarla contro di lui. Lo dipingono come un suo storico e giurato nemico che oggi però starebbe scivolando sulle stesse «prassi irrituali», «forzature», «interferenze», «esorbitanze dai poteri» e «giochi politici» che si era concesso il Picconatore una ventina d’anni fa. Così, ricordano la prova di forza aperta tra la primavera del 1991 e l’inizio del ’92, quando il Pds, dopo una lunga gestazione, preparò un dossier di quaranta pagine per la messa in stato d’accusa di quel presidente della Repubblica che, con una traumatica profezia della catastrofe irrigata da durissime e asfissianti esternazioni («vi prenderanno a pietrate per le strade», ripeteva ai leader di partito, compreso il proprio) aveva messo il sistema sotto stress — e quasi in torsione — facendosi in prima persona patrocinatore di una vasta riforma della Carta costituzionale.
L’iniziativa presa allora da Botteghe Oscure fu archiviata dal Parlamento al termine di un esame trascinatosi fino all’11 maggio 1993, quando al Quirinale c’era già da un pezzo Oscar Luigi Scalfaro. E ora, per una sorta di straniante legge del contrappasso, un certo fronte politico-mediatico recrimina che anche Giorgio Napolitano avrebbe tracimato dagli argini costituzionali e sarebbe meritevole di impeachment. Con un destino che dovrebbe quindi ricalcare quello di Cossiga.
Pretesa che poggia su basi più che fragili, costituzionalmente inesistenti, lanciata dal circuito Movimento 5 Stelle—Fatto Quotidiano . Ma su cui soffia aggressivamente pure Forza Italia, nella speranza di alzare il più tossico dei polveroni. In modo da intimidire il capo dello Stato, condizionarne i passi (in vista di un impossibile salvacondotto per il Berlusconi decaduto da senatore?), spingerlo a sloggiare dal Colle dopo averlo pregato con il cappello in mano, appena otto mesi fa, di concedere il bis.
Un pressing incrociato che si alimenta di ricostruzioni spesso confuse e distorte, come minimo approssimative e in qualche caso platealmente fuorvianti, per Napolitano. Insopportabile, per lui, passare alla stregua di un irriducibile avversario ideologico del vecchio presidente scomparso un paio d’anni fa. E, in quanto tale, congiurato di spicco in quel «partito trasversale» che avrebbe voluto far processare Cossiga per attentato alla Costituzione e spodestarlo.
Altro che fedeltà con la rigida disciplina imposta dal vertice dell’ex Pci. Napolitano fu tra i pochi a contrastare la linea più aspra scelta dal Pds. Certo, era anche lui colpito e sotto choc per le devastanti provocazioni del Picconatore, e non a caso sottolineò che «al Quirinale si era totalmente smarrito il senso della misura». Tuttavia indicò le dimissioni come la via d’uscita che avrebbe salvaguardato di più la saldezza di un sistema se non sabotato, di sicuro ferito. Con Emanuele Macaluso, Gianni Pellicani e Umberto Ranieri — la corrente riformista, cosiddetta dei «miglioristi», di cui era leader — spinse per quella soluzione. Pagandone un prezzo rispetto ai compagni di partito. E lo stesso Cossiga glielo riconobbe. Lo dimostra una lettera chiarificatrice finora inedita che Maurizio Caprara, suo portavoce in questo nuovo mandato, ha fatto avere al Corriere proprio per sgombrare certe intossicate letture.
Il contrasto su quella decisione — «presa non collegialmente» — il capo dello Stato lo aveva sintetizzato nella propria Autobiografia politica , pubblicata da Laterza nel 2005, quand’era da poco tempo senatore a vita e non ancora eletto al Quirinale. Rammenta in quelle pagine Napolitano: «Non eravamo d’accordo con quella esasperazione, in termini istituzionali, della polemica con il presidente della Repubblica... ma nessun dissenso politico poteva giustificare il protrarsi di quella campagna di deformazioni e insinuazioni contro noi riformisti».
Cossiga, che dei travagli interni di Botteghe Oscure sapeva molto, dimostrò di non considerare «in alcun modo tendenziosa o ostile la posizione» tenuta all’epoca dall’attuale capo dello Stato. «Caro Giorgio», gli scrisse tra l’altro il 2 novembre 2005 l’ex picconatore, «ho molto apprezzato il riferimento al dissenso dell’area riformista del Pci su episodi che hanno dolorosamente coinvolto la mia persona. Ma alcuni che dissentivano da te, si sono ricreduti...». E chiuse la missiva con un auspicio affettuoso, che aveva il sapore del presentimento: «Mi auguro che il centrosinistra (anche con il trattino) ti valorizzi! Ma perché non eleggerti capo dello Stato? Io ti voterei!!!».

l’Unità 23.12.13
L’autodeterminazione delle donne
di Francesca Izzo

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Corriere 23.12.13
Spini, Machiavelli e la buona politica
di Renato Benedetto


MILANO — Alla ricerca della buona politica, Valdo Spini — deputato dal 1979 al 2008, ex ministro alle Politiche comunitarie e all’Ambiente nei governi Amato e Ciampi — ripercorre la sua attività, l’impegno nel Partito socialista poi travolto dagli scandali. Si intitola, appunto, La buona politica. Da Machiavelli alla Terza Repubblica. Riflessioni di un socialista (Marsilio) il suo ultimo libro. Dove la «buona politica» va intesa secondo la lezione di Niccolò Machiavelli, quella capace di ricucire i rapporti con i cittadini, quella del «moderno principe in grado di acquisire un reale consenso che gli venga dalla capacità di affrontare realmente i problemi sul tappeto, ossia di governare il Paese». E quella che serve in tempi in cui il Palazzo evoca «sporcizia» e «scandali» e chi «vive alle spalle dei cittadini». È nel 1956 che Spini la scopre, quando ancora bambino (è del ’46) insieme al padre Giorgio ascolta Tristano Codignola, costituente e deputato socialista, tra i fondatori del Partito d’Azione nella sua Firenze. L’iscrizione ai socialisti per Spini arriva nel 1962.
Tanti i ricordi affidati alle pagine. Quando Luigi Mariotti, futuro ministro della Sanità, chiese «al bancone della Casa del popolo non una Coca-Cola, ma una spuma, perché costa meno» e bisognava «dimostrare sobrietà» («che differenza con quello che il partito sarebbe diventato più avanti», commenta Spini). Il primo incontro con Bettino Craxi, che poi sarebbe divenuto il primo presidente del Consiglio socialista, durante la campagna per il referendum sul divorzio nel 1974 («uno scambio di vedute cordiale rispettoso da una parte e dall’altra, ma, nel sistema delle correnti allora vigente, io non ero uno dei “suoi” e lui non era il mio “capo”»). L’incontro con Berlinguer, che pranzava da solo a Montecitorio. Quando Pertini confidò a Spini, tra i primi a saperlo: «Se Craxi se la sente gli affiderò l’incarico». L’attività internazionale, gli incontri con Mitterrand, Jospin, Arafat. E le tante battaglie. Alcune che sembrano anticipare i tempi: per riformare il sistema del finanziamento pubblico ai partiti, dopo che nell’84 erano affiorati i primi scandali; l’impegno per raggiungere l’intesa con le confessioni minori, con un significato particolare per lui, socialista e valdese; la critica alla «scala mobile»; l’occasione mancata delle riforme istituzionali. Addirittura, già nei primi anni 90, la proposta di una legge Severino ante litteram, sull’incandidabilità dei condannati. «Il colpo di grazia sarebbe venuto da Tangentopoli», scrive Spini, ma «a decretare la morte della Prima Repubblica fu il Trattato di Maastricht che provocò la fine del modello di consenso basato sull’espansione della spesa pubblica su cui allora i partiti si reggevano». E adesso, alle soglie della Terza Repubblica, è la lezione di Machiavelli a tornare d’attualità. Ma come tornare alla «buona politica»? Se il governo riuscisse a portare a segno un intervento per l’occupazione, abbassando il costo del lavoro, la legge elettorale e le riforme istituzionali, allora potrebbe presentarsi come il «moderno principe». Sono queste le azioni da portare avanti, insieme alla lotta alla corruzione, il conflitto di interessi, il taglio dei costi della politica, per ricucire i rapporti tra cittadini e classe politica. «Coraggio, Valdo, guardiamo avanti», è l’invito di Carlo Azeglio Ciampi, che ha scritto la prefazione, «c’è ancora tanto da fare per la nostra Italia» .

Corriere 23.12.13
Educare per sconfiggere le mafie
di Maria Falcone, Nando Dalla Chiesa, Salvatore Calleri, Elena Fava, Rita Borsellino, Fondazione Rocco Chinnici,  Centro studi Pio La Torre, Centro studi Paolo Borsellino


È davvero importante l’autocritica che apre l’editoriale di Ernesto Galli della Loggia sui limiti della cultura dell’antimafia in Italia. La stampa e l’opinione pubblica, secondo l’autore, non hanno saputo vedere in tempo ciò che di falso e corrotto si nasconde dietro alcune delle icone di recente osannate nel dibattito pubblico. È un richiamo che condividiamo e da anni rilanciamo. Ciascuno ha il dovere di essere vigile contro la corruzione che colpisce il nostro Paese in ogni suo snodo, dalla politica alla società civile, dai media e all’impresa, alle associazioni. Vorremmo però invitare stampa e opinione pubblica a evitare di raddoppiare l’errore, sommando a quella mancanza di attenzione un giudizio ottuso che liquida realtà decisive dell’associazionismo antimafia, che danno un contributo concreto a formare giovani generazioni più consapevoli. Per troppo tempo le istituzioni erano state sorde alle tante voci dei familiari delle vittime che chiedevano di «ricordare» e di «far ricordare» i giovani, e le tante iniziative e percorsi didattici che per tutto l’anno scolastico le diverse associazioni contribuiscono a realizzare con il supporto del ministero dell’Istruzione sono un importantissimo risultato per l’educazione alla legalità dei giovani, perché il valore della memoria è imprescindibile. La commemorazione del 23 maggio e le Navi della Legalità organizzate insieme al ministero dell’Istruzione sono il momento conclusivo del percorso di educazione alla legalità che le scuole intraprendono e che permette ai ragazzi di imparare a conoscere storie e persone della battaglia contro le mafie e a comprendere i mille modi in cui sa esprimersi e ferire una cultura criminale. In questi anni, con l’impegno di tanti insegnanti, di tanti volontari, l’energia inesauribile dei ragazzi e il supporto delle istituzioni, si sono raggiunti risultati che meritano attenzione e rispetto. Venga il prossimo 23 maggio 2014, Galli della Loggia, insieme a tutti noi, viaggi accanto a studenti e insegnanti, si faccia raccontare ciò che hanno vissuto nei mesi precedenti. Venga a visitare qualche scuola coinvolta e ad ascoltare i percorsi didattici sulla cultura della legalità che stiamo realizzando, parli con gli studenti, chieda loro se si sentono «precettati». Ci venga a trovare nella sede delle nostre associazioni e fondazioni. Scoprirà luoghi in cui si inventa ogni giorno una via di uscita credibile e costruttiva dalla retorica, in cui si ragiona su come illuminare quei «luoghi silenziosi» in cui si combatte contro il crimine organizzato. Troverà persone che chiedono esattamente quello che chiede lui nell’appello con cui chiude il suo articolo — più magistrati, più forze dell’ordine e uno Stato presente davvero — ma che, oltre a esprimere quelle richieste, hanno deciso di impegnarsi ogni giorno per fare in modo che il frammento d’Italia che dipende da loro sia migliore. A pochi giorni dalla morte di Giovanni Falcone, della moglie e degli uomini della sua scorta, in un momento in cui mai come prima il Paese avvertiva l’esigenza di una presenza concreta dello Stato nel contrasto alla mafia, Paolo Borsellino disse: «La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità». Quello stesso giorno, un esponente di una delle organizzazioni da sempre impegnate nell’educazione alla legalità, chiese al magistrato: «Cosa possiamo fare noi per la lotta alla mafia?». E Borsellino rispose: «Noi arresteremo i padri, voi educherete i figli».

Repubblica 23.12.13
Tra insicurezza e benessere perduto ecco l’Italia ai tempi dei Forconi
Punto critico per la democrazia di un Paese impotente
di Ilvo Diamanti


IL “tempo dei Forconi” segna un altro passaggio della crisi della nostra democrazia rappresentativa. Tanto più esplicito ed evidente perché amplificato dal ri-sentimento sociale prodotto dalle crisi: economica e politica. I Forconi. Esprimono il senso di deprivazione relativa alimentato dalla percezione del declino.
NON si tratta solo di perdita del lavoro e del reddito. Ma dell’insicurezza pesante che pervade quanti, nel passato recente, erano saliti, faticosamente ai piani medi della scala sociale. I lavoratori autonomi. L’Italia dei lavori, appunto. Che non ha mai avuto una vera rappresentanza organizzata. I Forconi: colpiscono i punti nevralgici del Paese. Il sistema delle comunicazioni e della mobilità. Bloccano strade e autostrade. E generano grande disagio con uno sforzo, relativamente, limitato. I Forconi. Non sono un “movimento”, orientato da obiettivi comuni. Diversamente dal M5S, che è un non-partito organizzato, presente alle elezioni e in Parlamento. Dunque: un partito. I Forconi.
Non sono una “rete”, che collega esperienze diverse. Ogni iniziativa che tenti di unificarne l’azione, come la manifestazione di Roma della settimana scorsa, ne mostra i limiti. Perché non sono in grado di coalizzare i diversi luoghi e i diversi attori della protesta. Né, tanto meno, di riassumere i diversi motivi di disagio e rivendicazione in una piattaforma comune. I Forconi. Ri-producono molte manifestazioni e molte immagini. Quanti sono i luoghi e i protagonisti della protesta. Camionisti, artigiani, allevatori, contadini. Lavoratori autonomi diverse aree, di vari e diversi lavori.
Alcuni li hanno definiti una “moltitudine”, echeggiando una formula coniata da Antonio Negri, per evocare “un insieme di singolarità”, capaci di antagonismo. Non rappresentabili. Se non fosse che, in effetti, i “Forconi” hanno una “rappresentazione”, riassunta dal nome con cui sono conosciuti. Ereditato dalle proteste contro le accise, in Sicilia, nel 2012. E oggi attribuito a tutti coloro che protestano, in tutta Italia. Indipendentemente dal luogo e dalla professione. E dallo specifico motivo di disagio espresso. Non a caso, al proposito, si è parlato di “jacquerie” (come ha fatto, alcuni giorni fa, Barbara Spinelli). Echeggiando le sollevazioni spontanee dei contadini francesi, nel XIV secolo.
Ma il termine stesso, “Forconi”, costituisce, appunto, una “rappresentazione” unificante. Che evoca la rabbia popolare. Contro il “potere”. Indefinito e indeterminato, quanto la moltitudine che protesta. È questa la ragione che, oggi, rende così rilevante — e inquietante — la mobilitazione dei “Forconi”. Il fatto è che dà evidenza — rappresentazione — alla sfiducia di gran parte della popolazione contro “tutti” i soggetti della rappresentanza. I politici e partiti. Il Parlamento e le amministrazioni locali. L’Europa. Lo Stato. I “forconi”, dunque, sono pochi. Differenti e divisi. Eppure godono di grande consenso. Secondo un sondaggio Ipsos (per Ballarò) il 29% degli italiani ne condivide obiettivi e forme di lotta. Il 49% solo gli obiettivi. In altri termini: 8 italiani su 10 condividono le ragioni dei forconi.
Anche se non il modo in cui le manifestano. D’altronde, ieri anche il Papa ha espresso l’invito a “dare un contributo senza scontri e violenza.”. Ma Papa Francesco è l’unico che oggi si possa permettere di dare “buoni consigli”. Perché è l’unica figura pubblica che disponga di una base di fiducia estesa. Anzi: larghissima (quasi il 90%). Tutte le altre autorità, tutte le altre istituzioni — locali, nazionali e internazionali — godono di un credito limitato. Spesso bassissimo. E in calo costante. Dallo Stato, al Parlamento, alla UE. Ne ha risentito perfino il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in particolare dopo la rielezione. Oggi, infatti, la quota di italiani che esprime (molta-moltissima) fiducia nei suoi riguardi è sotto il 50%. Sicuramente elevata, ma 5 punti in meno rispetto a un anno fa. Per questo i Forconi sono tanto popolari, in Italia. Perché rendono visibile la sindrome di cui soffre il Paese. La sfiducia. Verso le istituzioni e i soggetti politici. Ma non solo.
Gli italiani (oltre 6 su 10, Demos dicembre 2013) non si fidano neppure delle persone che incontrano, con cui hannorelazioni. Insomma, non si fidano e basta. Tanto che, alla fine, la sfiducia è diventata un a risorsa — la principale — da spendere in politica e nella rappresentanza. Non a caso, l’indulgenza verso i Forconi è tanto ampia. Anche fra coloro che, in fondo, ne sono fra le cause (e i bersagli). Sindacati e associazioni imprenditoriali. Colpiti, pesantemente, dalla sindrome della sfiducia (lo ha rammentato ieri Eugenio Scalfari). Per la stessa ragione, paradossalmente, i Forconi sono divenuti protagonisti del fenomeno contro cui protestano. La politica come spettacolo.
Lo spettacolo della politica. Da qualche settimana, i loro leader appaiono dovunque, in TV. Perché la sfiducia è, mediaticamente, attraente. Contribuisce ad alzare l’audience dei programmi, anche se ne abbassa la credibilità. D’altronde, i cittadini, o meglio, gli spettatori, quando guardano i talk politici e le inchieste di denuncia, si incazzano. Si “sfiduciano” ulteriormente. Ma, nonostante tutto, insistono a seguire e a inseguire questi programmi. La Rete, d’altra parte, contribuisce a rafforzare questo sentimento. Visto che la sfiducia verso le istituzioni e i partiti sale fra coloro che utilizzano internet con più frequenza (Sondaggio Demos-Coop sull’Informazione, dicembre 2013).
Per questo la protesta dei Forconi segna un punto critico, per la nostra democrazia. Non per la misura (circoscritta) di chi ne è coinvolto direttamente. Ma perché rivela, in modo aperto, quanto sia profondo, in Italia, il deficit della rappresentanza.L’assenza di canali e soggetti capaci di “rappresentare” e di “organizzare” le domande e i problemi della società, dei territori e delle persone. In mezzo a una società dissociata e anomica, popolata da individui mobi-litati solo dalla sfiducia. Così, non resta che gridare, inveire e insultare. Per sfogare la nostra rabbia. La nostra frustrazione. Non contro il potere, ma contro chi lo dovrebbe esercitare. E contro noi stessi. Il Paese dei forconi: è un Paese impotente.

Repubblica 23.12.13
“Il prof negò la Shoah ma non fu propaganda”
Roma, le motivazioni shock dell’assoluzione: “Con gli studenti solo una conversazione informale”
di Francesco Salvatore


ROMA — È stata una semplice “conversazione informale e personale” quella tra il professore Roberto Valvo e una sua studentessa di origine ebraica. Le tesi negazioniste sostenute dal docente di storia dell’arte del liceo Ripetta di Roma, cinque anni fa in classe, di fronte a tre studenti entrati a scuola in una giornata di sciopero, sebbene “certamente e moralmente censurabili e lesive della sensibilità della giovane” non hanno nulla a che fare con la “propaganda delle idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale”. Un reato che ricorre, come specificato nella sentenza che ha assolto Valvo un mese fa, “quando la propaganda è svolta per diffondere fra ampi strati della popolazione le proprie idee facendo ricorso a tutti i mezzi per modificare le opinioni e i comportamenti”. Valvo, invece, “ha rivolto le sue parole esclusivamente all’alunna”. Questo il concetto con il quale il giudice Maria Cristina Muccari ha motivato la sentenza, che fece discutere un mese fa, nei confronti dell’insegnante, oggi in pensione, finito sul banco degli imputati e poi assolto in primo grado “perché il fatto non sussiste”.
Sebbene Valvo “abbia esplicitato le sue teorie negazioniste, carpendo in classe anche l’attenzione di un secondo studente”, ciò non è stato giudicato “sufficiente a integrare la condotta di propaganda”. Reato che sussiste, secondo il magistrato, nei casi in cui si vada “oltre la manifestazione di un personale convincimento ad un singolo o a un numero ristretto di interlocutori”. Sotto un altro punto di vista l’insegnante, difeso dall’avvocato Giuseppe Pisauro, “nel riportare le teorie negazioniste dell’Olocausto, certamente aberranti e risibili sotto il profilo storico e culturale, lo ha fatto, però, con modalità del tutto asettiche. Non ha utilizzato termini indicativi della superiorità del popolo ariano né ha manifestato odio verso quello ebreo”. Tuttoruota intorno al termine “propaganda”, concetto diverso da quello di “adesione”. Nelle motivazioni si paragona la legislazione italiana a quella francese e austriaca, dove la semplice “adesione a queste teorie costituisce di per sé reato” a differenza dell’Italia, “dovenon è l’adesione ad essere punita ma la propaganda”. «Al di là delle motivazioni specifiche è un’ulteriore dimostrazione che in Italia c’è bisogno di confini legislativi più rigidi per combattere il negazionismo della Shoah — ha commentato Ruben Della Rocca, assessore alle relazioni istituzionali della comunità ebraica di Roma — È arrivato il momento che il nostro paese si adegui alle normative europee, come hanno già fatto altri paesi del vecchio continente».
La vicenda risale all’ottobre del 2008. Durante una giornata disciopero, al Ripetta, scuola dove una lapide vicino all’Aula Magna ricorda una studentessa dell’istituto uccisa nel 1944 ad Auschwitz, entrano solamente tre studenti, fra cui Sofia, una ragazza ebrea. Il professore Valvo, incuriosito dal suo cognome, le domanda qualisiano le sue origini. La giovane risponde e a sua volta gli chiede lumi sull’Olocausto. A quel punto l’insegnante, secondo il racconto della ragazza, inizia a parlare minimizzando il numero di vittime e aggiungendo che “i video dei campi di concentramento sono stati girati al termine della guerra da registi come Hitchcock e i cumuli di cadaveri nei filmati non sono verosimili, altrimenti gli ufficiali nazisti non avrebbero potuto sopportarne l’odore”. Il docente, interrogato, aveva detto che il numero di vittime “era stato oggetto di contestazione da parte di storici non negazionisti”. Poi aveva spiegato “che molti documenti dell’Olocausto erano stati secretati e che da sempre venivano riproposti servizi cinematografici senza alcuna rilevanza probatoria, che tendevano a valorizzare l’aspetto emozionale della vicenda”.

Repubblica 23.12.13
Sanità confusa tra urgenza e scelte impossibili
di Mario Pirani


Uno di quei lettori attenti ai miei scritti sulla salute, Marino Rubini, si rifà ad un recente articolo per sostenere la incostituzionalità della legge sanitaria per quanto riguarda la infortunistica assistita gratuitamente nei nosocomi, un modo per recuperare circa 30 miliardi annui. Il Ssn assiste, infatti, gratuitamente nei nosocomi tutti i traumi dell’infortunistica stradale, sportiva, sul lavoro e da responsabilità di terzi che non rientrano nel costituzionale “diritto alla salute”.
Il 30%del budget sanitario è assorbito da tale spesa che invece dovrebbe far carico alle assicurazioni, all’Inail e a terzi come negli altri paesi e si possono configurare come aiuti di Stato per le compagnie private. Queste, dove vige il rimborso, svolgono anche un contestuale controllo sanitario sulla qualità dell’assistenza ospedaliera per via degli infortunati da risarcire, controllo da noi inesistente.
Si obietterà che le polizze aumenterebbero ma ad esempio in Francia negli ultimi 10 anni sono diminuite del 6% mentre da noi aumentate del 108%.
Ovviamente le lobby assicurative si adoperano per lo status quo perché l’obbligatorietà della polizza le affranca finanziariamente con il ricarico di maggiori costi sulle stesse, ma è chiaro che un tale sistema copre un giro sommerso di intrallazzi che ne lievitano spese e corruzione.
Naturalmente molti altri sono i punti che necessitano di una valutazione critica a 35 anni dalla promulgazione della legge di riforma del Ssn. L’Italia ha uno dei sistemi sanitari migliori al mondo, ma col passar degli anni sempre più evidenti appaiono i punti di caduta quale la mancanza di una nuova organizzazione efficace ed al passo con i tempi. Uno dei motivi che genera le crisi dei pronti soccorsi, oggi in estrema difficoltà, sta nella incapacità di differenziare percorsi ed organizzazioni per emergenza ed urgenza da un lato ed elezionedall’altro. Per chiarire “emergenza e urgenza” sono tutte quelle situazioni che, se non trattate subito comportano un rischio per la vita o l’integrità della persona; “l’elezione” comprende tutti quegli interventi sanitari, pur necessari, ma rinviabili nel tempo senza pregiudizio per il paziente. La stessa malattia può avere fasi in cui sia necessario un trattamento d’urgenza, superato il quale spesso si ritorna in una fase di “elezione”.
Rimane il problema che all’interno degli ospedali le risorse non sono differenziate e ogni volta si deve decidere se utilizzarle per l’“urgenza” o per l’“elezione”. Interviene qui il taglio o la carenza dei letti che comprimendo queste due attività in spazi ristretti le pone in conflitto tra loro a discapito dei pazienti. Anche da un punto di vista organizzativo i due comparti sono differenziati: l’“urgenza” deve mantenere la stessa efficienza 7 giorni su 7, h 24, l’“elezione”, in quanto programmabile deve avere un’alta efficienza solo nelle ore di attività. Mentre all’origine della riforma gli ospedali per acuti si sarebbero dovuti occupare quasi esclusivamente di emergenza/ urgenza, tale caratteristica è stata cambiata dal diritto alla scelta del medico e dal regime delle incompatibilità (impossibilità di operare in strutture diverse a quella di appartenenza), introdotta da De Lorenzo. È stata quindi regolamentata la libera professione all’interno delle strutture pubbliche, (legge Bindi) e la commistione tra emergenza ed elezione è diventata totale ed ingovernabile. A riprova di questo vi sono numerosissime giornate in cui l’accettazione dei ricoveri in “elezione” è bloccata con prolungamento sine die delle chiamate da lista di attesa. Ecco che il ricorso “all’intramoenia” per garantirsi l’accesso ai percorsi di diagnosi e cura diventa una necessità e una tassa aggiuntiva per i cittadini. Spesso pesante.

La Stampa 23.12.13
Invisibili ma tenaci, le donne ribelli del mio Pakistan

Fatima Bhutto esordisce nel romanzo. Nipote dell’ex premier Benazir, “eroina della democrazia” uccisa nel 2007, esalta le sue protagoniste: “Danno battaglia al sistema, combattono l’ingiustizia”
di Alberto Simoni

qui

Corriere 23.12.13
Mikhail Khodorkovskij
Guanti e brande di ferro,  in cella è diventato un eroe
di Ljudmila Ulitskaja


È appena passato il solstizio d’inverno, una festa davvero importante. In questi giorni si celebrava la nascita di Mitra, di Dioniso e di Osiride. Anche l’Hanukkah degli ebrei era legata all’aumentare delle ore di luce e così, più tardi, è stato per il Natale cristiano. E oggi gran parte dell’umanità festeggia l’anno nuovo in quest’ultima decade.
Quest’anno molte persone hanno ricevuto un regalo inaspettato: la liberazione di Mikhail Khodorkovskij dopo una prigionia durata dieci anni. I dieci anni — dai 40 ai 50 anni — più importanti nella vita di una persona. Forse, se fosse stato libero, l’oligarca Khodorkovskij avrebbe potuto far crescere i suoi affari a livelli incredibili e avrebbe fatto beneficenza. Ma il destino aveva altri piani per lui. È stato spedito al Nord, nei campi detentivi più tremendi, prima al confine con la Cina, poi con la Finlandia. Era a contatto con veri criminali e ha subito aggressioni, provocate dalle autorità carcerarie. Ha imparato a cucire guanti e a seguire un programma, a dormire su una branda di ferro e a mangiare la zuppa del carcere. Ha conosciuto quel lato della vita che non tutti vedono, che molti ignorano e che alcuni vogliono dimenticare. Da oligarca di spicco è passato ad essere un semplice detenuto, e questa trasformazione ha cambiato molti tratti della sua personalità.
Non so chi sarebbe oggi, se avesse abbandonato il Paese quando si iniziarono a manifestare i rischi per la sua attività e per la sua libertà personale. Molti ricchi fecero così dieci anni fa. Senza dubbio, ognuno di questi aveva le sue buone ragioni. Ma Khodorkovskij aveva le sue ragioni per rimanere. Forse a convincerlo è stata l’eccessiva fiducia in se stesso o, magari, la sua indipendenza e il suo amor proprio. In ogni caso, i dieci anni trascorsi in prigione sono stati un decennio di forte opposizione e di coraggio eccezionale. Lui non si è tirato indietro di fronte a nessuna delle lezioni che la vita gli ha presentato. E non ha chiesto la grazia, che nel suo caso avrebbe rappresentato un’ammissione di colpevolezza e una promessa di fedeltà a quel regime che, nei suoi confronti, era stato così inflessibile. L’opinione pubblica, che lo condannava in modo così spietato nei primi anni del processo (anzi, dei due processi!), ha cambiato atteggiamento. Le autorità, con il loro comportamento, lo stavano trasformando in un eroe, e lui, un eroe, lo è diventato davvero. Negli ultimi anni sono arrivate le esperienze giornalistiche di Khodorkovskij, la cronaca reale di com’è la vita dietro le sbarre nella Russia del XXI secolo. Il tutto scritto in uno stile conciso, forte, asciutto e obiettivo. Ogni suo testo è marcato dall’attenzione nei confronti dell’uomo e dall’empatia. Anche il sistema di valori che aveva nel corso del primo processo era cambiato. Ecco un brano di un’intervista che gli fecero quell’anno: «La famiglia è la cosa più importante che una persona possa avere. Qui in carcere, le storie di molti sono segnate dalla disperazione, dalla solitudine, dalla perdita dei genitori. Di fronte a loro, mi vergogno per la mia ricchezza. Perché gli amici e la famiglia sono un vero tesoro». Poche settimane fa Khodorkovskij ha scritto una richiesta di grazia. E il motivo di questa decisione è chiaro: i genitori di Mikhail ormai non sono più giovani e sua madre, Marina Filippovna, è gravemente malata. Così è successo un miracolo, e proprio il 20 dicembre, nel giorno dedicato ai «čekisti», i nostri servizi segreti. Mikhail Khodorkovskij ora è a Berlino, dove ha incontrato i suoi genitori. E, come per ogni copione che si rispetti, è arrivato il lieto fine. Tutti in piedi ad applaudire, allora! E intanto i protagonisti sono felici e contenti. O quasi...
Il sipario, infatti, non è ancora calato su questo dramma durato anni. Lo spettacolo non è terminato. E la conclusione prevede dei colpi di scena, probabilmente impensabili. Nessuno ha smentito le informazioni sui preparativi per il terzo processo a Khodorkovskij. Oggi il mondo celebra il trionfo della giustizia e — una parola da pronunciare con molta attenzione — della misericordia. Molti ritengono che dietro a un gesto misericordioso così inaspettato ci sia la prossima Olimpiade invernale di Sochi. Come si comporteranno le autorità dopo la fine dei Giochi resta un mistero. E nessuno sa neanche quali impegni si è preso Khodorkovskij quando ha ottenuto la grazia. Lui lega a doppio filo il futuro del Paese alla nascita di una società civile, un elemento troppo scomodo per qualsiasi potere autoritario. Non è che, in questo modo, entrerà in una nuova fase di scontro con il potere? Esiste una qualche garanzia che non venga toccato?
Auguriamo molta fortuna a Khodorkovskij e alla sua famiglia. E auguriamo fortuna anche a questo nostro Paese così incredibile, in cui coesistono i tantissimi paradossi che fanno parte dell’enigmatica anima slava e del suo mistero: la forte perseveranza e la vaghezza di obiettivi, la passione per gli esperimenti sociali e l’inerzia secolare, l’idealismo più alto e il cinismo più becero, le ambizioni elevate e i gabinetti coperti di fango.
(Traduzione di Sara Bicchierini)

Corriere 23.12.13
Contraddizioni ucraine, un Paese tra due mondi
risponde Sergio Romano


Vedendo le centinaia di migliaia di persone in piazza a Kiev si capisce quanto questo popolo aspiri alla Libertà, all’Occidente, all’Europa; e la non adeguata presenza di McCain col suo discorsino mal letto non penso abbia rincuorato i presenti. Già una volta, in tempi recenti, l’America ha dichiarato di essere dalla parte di Saakashvili, poi tutti abbiamo visto come è andata a finire. Allora con chi dovrebbe stare l’Ucraina?
Paolo Lombardo

Caro Lombardo,
Quando la Georgia di Mikheil Saakashvili, nel 2008, cercò di riprendersi l’Ossezia del Sud con la forza, scoprimmo che il leader georgiano poteva contare, a Washington, sull’appoggio di alcuni ambienti della Casa Bianca (fra cui il vice-presidente Dick Cheney) e soprattutto sull’amicizia del senatore repubblicano John McCain. Saakashvili lo aveva conosciuto quando era studente alla Columbia University e sembra che i due, nel corso della crisi, avessero frequenti conversazioni telefoniche. Ma né Cheney né McCain volevano o potevano andare al di là delle manifestazioni di simpatia. A me sembrò in quella circostanza che l’America di Bush avesse permesso a Saakashvili di provocare la Russia di Dmitrij Medvedev (Putin, allora, era Primo ministro) per saggiarne le reazioni, e lo avesse abbandonato a se stesso non appena aveva capito che la partita era diventata pericolosa. Quanto al ruolo di McCain nella recente crisi ucraina, ho l’impressione che il senatore abbia obbedito ai tic anti-russi della sua personale politica estera e abbia rappresentato soltanto se stesso. Il presidente Obama e il suo segretario di Stato, fortunatamente, hanno una posizione molto più guardinga.
Ho scritto «fortunatamente» perché non credo che la vicenda possa essere giudicata con gli schemi semplicistici usati persino da certi ambienti dell’Unione Europea. Non ho capito, ad esempio, perché l’Ue abbia perentoriamente chiesto al presidente ucraino la liberazione di Julija Timoshenko come pegno di democrazia. È evidente che il presidente Michail Janukovic la voglia tenere in prigione per non averla di fronte a sé nelle elezioni presidenziali dell’anno prossimo. Ma la pasionaria ucraina non è Giovanna d’Arco e la sua carriera politica non ha meno ombre di quelle dei suoi avversari. In un libro recente (Julija Timoshenko, la conquista dell’Ucraina , Sandro Teti editore), un buon conoscitore del mondo russo che si firma Ulderico Rinaldini (ma è in realtà l’editore), ricorda che la protagonista del libro fu agli inizi della sua vita una spregiudicata oligarca, arricchita dal commercio del gas e del petrolio. Oggi è una icona del nazionalismo ucraino, ma fino ai trent’anni, secondo Rinaldini, parlava soltanto russo, aveva capelli corvini e non portava quella treccia bionda che proclama orgogliosamente la sua nuova identità nazionale. Non sarebbe molto diversa, in altre parole, dagli altri ambigui personaggi politici che hanno popolato negli ultimi due decenni l’Ucraina post-sovietica.
I giovani che hanno occupato per parecchi giorni piazza Maidan sono in buona parte attratti dalla cultura dell’Europa centro-occidentale e appassionatamente convinti che saranno più liberi nell’ambito dell’Ue di quanto sarebbero all’ombra della Russia. Ma in piazza Maidan, accanto ai giovani, ci sono anche i militanti di Svoboda, il partito di Oleg Tyagnibok che si chiamava sino al 2004 «socialista nazionale» e discende da quel movimento partigiano che negli anni della Seconda guerra mondiale fiancheggiava occasionalmente i tedeschi per meglio combattere contro l’Armata Rossa. In Ucraina esiste oggi un nazionalismo filo-europeo, ma anche un nazionalismo anti-russo, xenofobo e non privo di qualche inquietante coloritura antisemita.
Nella società ucraina esistono infine spinte economiche contraddittorie. Le simpatie europee delle regioni occidentali sono evidenti, ma le più importanti zone industriali del Paese sono nei territori filorussi dell’est. Il trattato di associazione con l’Ue priverebbe l’Ucraina del mercato russo e molte industrie e dei loro tradizionali clienti. Stretto fra le attrazioni dell’ovest e quelle dell’est, Janukovic ha cercato di sfruttare al meglio la posizione strategica del suo Paese barcamenandosi fra i due campi. È un acrobata opportunista. Ma è anche un nazionalista prudente e pragmatico con cui l’Unione Europea dovrebbe dare prova di maggiore pazienza.

Corriere 23.12.13
Artisti e start-up: l’Iran che tifa Rouhani
di Paolo Valentino


Teheran è in piena ebollizione E la classe media «punita» da Ahmadinejad spera che i negoziati aprano il Paese DAL NOSTRO INVIATO TEHERAN — Raccontano che Hassan Rouhani, nella notte fra il 14 e il 15 giugno, si sia visto circondare la casa da un centinaio di Guardiani della Rivoluzione. Rouhani aveva appena vinto a sorpresa le elezioni presidenziali. Ma mostrandosi sull’uscio per parlare con i capi dei Pasdaran non era affatto sicuro se si trattasse delle prime misure di protezione o se fossero venuti ad arrestarlo. L’aneddoto, la cui veridicità non è per nulla accertata, è molto popolare nei luoghi pubblici, nei salotti, come nelle conversazioni in famiglia di un popolo ossessionato dalla politica. Ma vero o meno, è perfettamente sintomatico della condizione tutta speciale, densa di speranze, incertezze e timori, in cui la vittoria della fazione riformista ha posto l’Iran.
Presidente quasi per caso, costretto dallo strangolamento economico delle sanzioni «che mordono», per usare la metafora di Hillary Clinton, Rouhani ha aperto il primo spiraglio di dialogo sostanziale con l’Occidente dopo anni di chiusura totale. Limiti al programma nucleare, in cambio di un progressivo alleggerimento dell’embargo, che ha fin qui privato l’Iran di fondi tra 50 e 100 miliardi di dollari, congelati all’estero. Poi, il salto verso una totale normalizzazione dei rapporti con la comunità internazionale. Ma la sua finestra d’opportunità è breve. Il credito apertogli dalla Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, è a tempo. E se la squadra dei progressisti, che Rouhani ha richiamato in servizio dall’emarginazione degli anni di Ahmadinejad non produrrà un accordo, i duri e puri del regime, in testa i Guardiani dai mille interessi economici, torneranno alla carica. Per questo il governo ha fretta ed è preoccupato. Ieri, il ministro degli Esteri Mohammad Zarif lo ha ripetuto a Emma Bonino, accolta con calore a Teheran, per una missione che ha confermato il ruolo di riferimento e di apripista che l’Italia ha assunto in questa fase: «Siete il Paese pioniere in Iran», ha detto Zarif nei colloqui riservati. Concetto poi ribadito dallo stesso presidente Rouhani nell’incontro con Bonino: «L’Italia è la nostra porta verso l’Europa». Al capo della Farnesina Zarif ha spiegato di temere i colpi di freno e le trappole, che in tanti stanno disponendo sulla strada del perfezionamento dell’intesa firmata a Ginevra in novembre con i Paesi del «5+1», i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza più la Germania. Perfino in pubblico, Zarif ha esortato a «non sabotare» il lavoro necessario «per completare e rendere pienamente operativo l’accordo». «Mi rendo conto che non sia facile — ha detto — che l’andamento non sarà veloce, ma bisogna andare avanti».
È una corsa contro il tempo. Nel clima d’attesa e speranza creato dall’elezione di Rouhani, dalla cruna dell’intesa sul programma atomico passa la possibilità di ridare fiato all’economia e alla classe media, messa in ginocchio dalle sanzioni e dalle politiche di Ahmadinejad, tutte rivolte a sovvenzionare i ceti più popolari. «Il sistema ha capito. Stavano perdendo la classe media e hanno tirato fuori Rouhani. Attenzione però, l’accordo con l’Occidente è nell’interesse di tutti: della nostra economia, non più che della vostra», spiega Firouz, un architetto che ha studiato in Europa. Declinato in italiano, è stato proprio Rouhani a ricordare che prima delle sanzioni l’interscambio con Roma era di 7 miliardi di dollari l’anno e oggi è ridotto a poco più di uno.
La tela di fondo è quella di una società in piena ebollizione. Parte autoritarismo religioso, parte democrazia, l’Iran è oggi un Paese dalla doppia identità. E sotto la crosta dell’ufficialità islamica, del proibizionismo imposto dalla sharia e della censura, si muove una realtà vitale e moderna. «Ci sono due società parallele — dice Firouz — e non è una novità. Ma quella civile è andata già molto avanti». Sono soprattutto i giovani, più della metà della popolazione, a fare la differenza. Amin, trent’anni, ha già al suo attivo diverse start-up: «La gioventù iraniana è colta, viva, ricca di idee, ha molto spirito d’iniziativa. E sta già cambiando il Paese. In un certo senso ignora la classe politica e i suoi giochi, è totalmente post-ideologica. Il potere degli ayatollah prima o poi finirà, ma non siamo interessati a farlo finire col sangue. Vede, la differenza tra le primavere arabe e l’Iran è che lì le rivoluzioni hanno portato tutte o quasi al ritorno dell’islamismo. Qui la società sta andando nella direzione opposta. La maggioranza dei giovani iraniani non prega».
Ci sono più di 300 gallerie d’arte a Teheran e nessuna censura riesce a impedire mostre come quelle della Mah Gallery di Shahnaz Khonsari: «Il ministero della Cultura e della Guida Islamica ogni tanto fa dei controlli, ma l’ultimo allestimento era dedicato a un’artista donna, surrealista e un po’ erotica. Non hanno detto nulla». «Siccome tutto è sulla carta proibito, quello che succede avviene in modo esagerato — dice la signora Nevihi Mahdavi — questo è un Paese che sta cercando la modernità quasi con frenesia. E nonostante la sharia, le donne sono la parte più attiva della società iraniana. Usano il velo per liberarsi e avere le possibilità di scelta degli uomini. Lo sa che il 60% della popolazione universitaria è composto da donne?».

Repubblica 23.12.13
Tra le donne di Teheran che vogliono cambiare il Paese degli Ayatollah
di Adriano Sofri


TEHERAN SONO partito per l’Iran dopo aver sentito Lucio Caracciolo, dunque affidabilmente, riferire di un’indagine secondo cui i Paesi del mondo più americanizzanti sono l’Iran e il Vietnam. Notizia che vale quanto un Bignami di storia contemporanea.
SU UN cambiamento nel regime e nella posizione internazionale dell’Iran la politica estera guidata da Emma Bonino ha puntato la sua posta più impegnativa, a ridosso delle decisioni sulla catastrofe siriana. Gli sviluppi, preparati segretamente da tempo, hanno mostrato come questa carta pesi per un vasto schieramento internazionale e specialmente per Obama. E anche come sia insidiata dentro e fuori. Negli Stati Uniti, l’opposizione è forte e rumorosa. In Iran, dove la grottesca bancarotta dei mandati di Ahmadinejad ha fatto terra bruciata, il partito dei duri ha dovuto rassegnarsi a un ricambio che si augura provvisorio.
Ancora una volta, si può dubitare che la partita si giochi tutta all’interno del regime, tra la sua ala più fanatica e superstiziosa e quella più aperta, e i diversi interessi che rappresentano. La linea era stata: se hanno fame, mangino nucleare e preghiere. Le sanzioni hanno arricchito i profittatori; i protagonisti del ricambio promettono di dare respiro a produzione e commerci.
Della dilapidazione di Ahmadinejad si parla con vergogna, come di una lunga ubriachezza molesta. Ma al centro del cambiamento sta una doppia questione anagrafica: i giovani e le donne. Gli iraniani sono più di 76 milioni, l’età media è di 27 anni, contro i quasi 44 dell’Italia. Persone che non hanno conosciuto il regime dello scià, la rivoluzione khomeinista, gli otto anni di guerra con l’Iraq. Le donne subiscono costrizioni mortificanti: nell’abbigliamento, nelle separazioni in scuole, mezzi di trasporto, avvenimenti pubblici. Perfino la demagogia stracciona di Ahmadinejad promise di ammetterle come spettatrici negli stadi: è appena venuto il Milan, e nemmeno le signore italiane di Teheran sono potute entrare. Allo stesso tempo, le ragazze sono maggioranza e si distinguono negli studi e nell’insegnamento, guidano l’auto, taxi compresi, altrettanto spietatamente dei maschi (titolo di un thriller necessario: “Attraversare la strada a Teheran”), hanno avuto e avranno una parte di protagoniste nelle ribellioni, come quella bella e generosa del 2009 che anticipò da lontano le primavere arabe e poi ha lavorato in modo sotterraneo per arrivare all’esito attuale. (I persiani, come si sa, non sono arabi).
Una nuvola copre l’Iran, bieca come la cappa di smog in cui l’aereo entra per atterrare a Teheran, ed è la questione di genere e più peculiarmente sessuale. Il fanatismo dei duri del regime, e lo stesso populismo plebeista (e negazionista) che ha egemonizzato così a lungo il governo, ha il suo nocciolo nella sessuofobia e nella paura che le donne evadano dalle loro galere portatili. Nel 1988 la guerra finì, ma le spedizioni punitive contro capelli e gonne no. Un giorno sarà istruttivo confrontare il populismo plebeista che vuole tenere le donne chiuse dentro un sudario nero col populismo ricchista, diciamo così, che va pazzo per gli spogliarelli.
L’apertura internazionale appena inaugurata grazie alla rottura del tabù, vero o recitato, sul nucleare (tabù vero dovrebbe essere,e universale), costringe a confrontare l’Iran, per la condizione femminile come per il sostegno al terrorismo islamista, con l’alleato incrollabile, e il più scandalizzato, più di Israele, dal paventato “cedimento”: l’Arabia Saudita. La Siria è diventata il terreno martoriato del loro cimento, per interposta barbarie alauita e terrorismo sunnita. E’ evidente quale enorme sconvolgimento geopolitico porterebbe il disgelo iraniano, fino a Cina e Russia, che sull’Iran incattivito e rintanato fanno fior di affari economici e politici. E’ altrettanto evidente come si tratti, da parte dei suoi attori, di una scommessa ad alto rischio: con la parziale rassicurazione che lasciare che le cose vadano come vanno garantisce disastri.
In questa scommessa il governo italiano, e personalmente Emma Bonino, si sono impegnati con una risolutezza inaspettata e ancora, in Italia, poco percepita, tanta era l’assuefazione alla rinuncia a una politica estera — cioè a una politica. La posizione di Bonino sull’eventualità dell’intervento in Siria all’indomani della strage chiinterventomica poteva sembrare estemporanea e contraddittoria con la stessa antica campagna dei radicali (non soli: anche di un Wojtyla, per esempio) per il cosiddetto diritto-dovere di ingerenza. In realtà l’intervento in Siria era stato reso pressoché impraticabile dalla lunga viltà con cui si era abbandonata una popolazione alla repressione feroce della dittatura prima, e poi all’irruzione di un’internazionale del terrore. Appellandosi prima al suo collega russo, Lavrov — che nei fatti avvenne, a metà fra intelligente e furbo, ed esonerò Obama da una promessa solenne che non vedeva l’ora di mancare — poi alla partecipazione iraniana, Bonino aveva maneggiato un’emergenza drammatica (arrivò ad alludere a una Terza guerra mondia-le, e, credo, fece male) per imboccare una strada dotata, una volta tanto, di un orizzonte. Quella strada è diventata, o si è rivelata, comune alla presidenza americana e a una parte consistente benché sconclusionata dell’Unione Europea. Bonino contava su alcuni atout,punti forti: è insospettabile di pregiudizi anti-israeliani, e caso mai sospettata del contrario. Si è procurata una conoscenza non libresca dei paesi arabi e del vicino oriente. E, ciò che mi pare più contare, è una donna.
Ieri, aprendo la conferenza stampa accanto al collega iraniano Zarif, pieno quanto a lui di buonumore e accoglienza, si è congratulata per la ressa di telecamere, fotografi e giornalisti: «Vedo con particolare piacere tante giornaliste iraniane e mi rallegro con la loro intelligenza, franchezza e professionalità ». Mi sono voltato a guardare le tante giornaliste iraniane, molto giovani quasi tutte, ene ho vista una dal viso che rimaneva serio serio, ma solo perché stava ancora aspettando che si completasse la traduzione, per aprirsi poi in un sorriso infantilmente felice, come per un regalo. Sono contento di stampare qui quel sorriso, perché non passi inosservato e inadempiuto. E anche di registrare, in una conferenza stampa distesa quanto vaga, che voleva essenzialmente trasmettere una decisione di reciproca cordialità e ospitalità, la risposta di Bonino sul piazzamento dell’Italia nella gara agli affari (c’è molto da scavare, in questo Iran ibernato dal suo regime, per archeologi e petrolieri, e archeologipetrolieri) che si aprirebbe, si è aperta già, ai primi scricchiolii del disgelo: che vinca il migliore.
Iraniani fiduciosi e preoccupati dicono che se la delusione seguita al fallimento di Khatami si ripetesse oggi col pragmatico Rouhani, la mortificazione della gente sarebbe irreparabile. La popolazione sarebbe disperata se dipendesse dall’insipienza o dal tradimento dei nuovi governanti ed esasperata, e capace di incendiare le piazze, se dipendesse da colpi di coda dei vecchi. Purché non dipenda da insipienza e colpi di mano del resto del mondo.

Corriere 23.12.13
La guerra segreta della Cia
Eliminati venti ribelli colombiani
Il piano mai rivelato voluto da Bush e proseguito da Obama
di Guido Olimpio


WASHINGTON — Era stato scritto già nel 2008. Anche sulle pagine del Corriere : se i guerriglieri delle Farc avevano subito perdite pesanti era grazie al «Piano Colombia», un programma di aiuti varato dagli Usa. Un sostegno sopratutto nel campo dell’intelligence che ha permesso all’esercito di colpire con precisione. Ora ci sono nuove conferme in una lunga inchiesta del Washington Post basata su fonti interne all’apparato statunitense. E il bilancio è di una ventina di capi sono stati eliminati, con il movimento ribelle ridimensionato in modo drastico. Infatti ha deciso finalmente di trattare.
Il momento della svolta ha una data precisa. Il 13 febbraio 2003. Le Farc uccidono un consigliere anti-droga americano e ne prendono prigionieri altri tre. L’allora presidente George W. Bush approva un intervento più deciso in favore della Colombia affidato alla Cia e alle forze speciali. Nell’ambasciata Usa di Bogotà creano «il bunker», un centro di coordinamento dove affluiscono informazioni d’ogni tipo. Intercettazioni radio e telefoniche, immagini dei satelliti spia, soffiate dall’interno, rapporti. Molto del «raccolto» è il risultato del lavoro delle «talpe», agenti infiltrati tra i ribelli e dotate di microspie sofisticate. Denaro elargito in quantità scioglie le lingue, favorisce il pentitismo, induce alla collaborazione. Sono molti i combattenti che decidono di rinunciare alla lotta armata.
L’altra punta della lancia è rappresentata da nuove armi fornite dagli Stati Uniti. In particolare apparati Gps che sono applicati alle bombe piazzate sugli A-37, vecchi aerei veterani della guerra in Vietnam. Il sistema è articolato. Il lavoro di spionaggio — condotto da uomini e dalle antenne, imprescindibili, dell’Nsa — cerca i bersagli. Poi intervengono gli A-37 con ordigni di precisione, seguono i Tucano con bombe tradizionali, quindi i «passaggi» di un’altra reliquia aeronautica, i Dakota trasformati in cannoniere volanti. Infine lo sbarco elitrasportato dei commandos pronti a raccogliere documenti, prove, elementi, memorie di computer utili per successivi raid. Nella prima fase la Cia detiene i codici degli ordigni e controlla l’impiego per evitare che i governativi ne abusino. Successivamente le «chiavi» passano totalmente nelle mani di Bogotà.
La strategia — continuata anche con l’amministrazione Obama — produce dei risultati. I colombiani neutralizzano un gran numero di dirigenti ribelli, tra questi Raul Reyes, sorpreso nel sonno da un bombardamento mirato. E la stessa fine fanno molti suoi compagni. In alcuni casi gli attacchi dei governativi sono facilitati da «cimici» che segnalano con sicurezza il nascondiglio delle prede. Si racconta che Victor Suarez Rojas, numero 2 delle Farc, sia individuato grazie ad una microspia celata nel tacco dei suoi stivali speciali. Un’altra storia coinvolge una guerrigliera che, dopo essere stata reclutata dai militari, torna in mezzo agli insorti nascondendo un micro-chip sotto pelle. Pare che sia stata scoperta e poi eliminata. L’avrebbero spinta in un dirupo. Poi c’è l’azione che porta alla liberazione di Ingrid Betancourt, un grande successo per il governo. La manovra è condotta dai soldati colombiani ma c’è la copertura dell’intelligence Usa mentre un team delle unità speciali, sempre americane, è pronto a intervenire. Ricostruzioni spesso da romanzo, con molte verità, fatti non sempre facili da verificare, però vicini alla realtà di un lungo conflitto. Oggi le parti, pur con le armi in pugno, negoziano sperando di trovare una soluzione diversa.

Repubblica 23.12.13
“Gli Usa aiutarono a uccidere i leader delle Farc”
Scoop del Washington Post sulle operazioni segrete della Cia in Colombia
di Massimo Vincenzi


NEW YORK — È il primo settembre del 2007, in Colombia sono le 4 e 30 del mattino, Tomas Medina Caracas, detto Negro Acacio, boss del narcotraffico e uno dei capi delle Farc, il gruppo marxista antigovernativo, sta dormendo nel suo campo-rifugio nell’est del paese. Le sentinelle non sentono nemmeno il rumore della bomba che viene sganciata da un aereo dell’esercito: per identificare il corpo del comandante si dovrà ricorrere agli esami del Dna. Poche settimane dopo Gustavo Rueda Diaz, in arte Martin Caballero, sta parlando al telefonino quando viene fatto saltare in aria con lo stesso metodo. Sono i primi due obiettivi del programma segreto messo in piedi dalla Cia per aiutare Bogotà nella sua guerra contro i ribelli delle Farc: dopo di loro almeno un’altra ventina di elementi verranno uccisi grazie alla consulenza e alla competenza dell’intelligence americana.
La cooperazione viene da lontano: è il 2000, alla Casa Bianca c’è George W. Bush che - non ancora alle prese con l’11 settembre - è preoccupato di quel che sta accadendo “nel giardino di casa sua”. La Colombia è a rischio collasso, 3mila omicidi in un anno, persone sparite, un mix letale di ribelli, forze dell’ordine e politici corrotti, narcotrafficanti, gruppi paramilitari fuori controllo: da qui la decisione di intervenire. Il Congresso approva un piano di 9 miliardi di aiuti militari chiamato Plan Colombia, ma l’azione ufficiale viene ben presto affiancata da una missione segreta tutt’ora in corso e rifinanziata anche sotto la presidenza Obama.
A convincere Bush della necessità di raddoppiare l’intervento è il rapimento di tre ostaggi americani che cadono nelle mani delle Farc nel febbraio del 2003: il presidente chiama George Tenet allora capo della Cia e gli dà il via libera: «Ci sono piovuti soldi da tutte le parti: potevamo fare quello che volevamo», dice un ex agente dei servizi alWashington Postche, con uno scoop, ora rivela la storia. Nell’ambasciata di Bogotà viene creato un bunker dicontrollo: computer, mappe satellitari, strumenti ad alta tecnologia per le intercettazioni grazie all’aiuto della Nsa, l’Agenzia per la sicurezza nazionale al centro delle ultime polemiche sullo spionaggio. Gli americani nonvengono direttamente coinvolti ma forniscono addestramento, armi, tecniche di interrogatorio. Soprattutto la Cia fornisce un’arma segreta che si rivela decisiva: un kit Gps con cui trasformare una normale bomba in un’armaintelligente in grado di individuare e colpire ogni tipo di obiettivo, quella dei bliz contro Negro Acacio e Martin Caballero. Per i guerriglieri è un colpo da ko e negli ultimi anni infatti il loro potere di fuoco è praticamente annullato. E quando qualcuno all’interno dell’Amministrazione solleva dubbi di legittimità sulle operazioni viene respinto con i precedenti della lotta ai cartelli del Messico e poi con le operazioni contro Al Qaeda: «Le Farc sono una minaccia per la sicurezza del Paese e dunque siamo autorizzati all’uso della forza», è il ragionamento.
Così, anche se con minor intensità, rispetto ai quasi cinquemila uomini che erano sul campo nel 2003 (spiegamento di forze superato solo da Kabul), il programma continua, per la gioia dei militari colombiani, come spiega ancora un alto ufficiale alWashington Post: «Abbiamo imparato tanto dalla Cia, noi prima tralasciavamo molti dettagli e non eravamo equipaggiati come ora».

Repubblica 23.12.13
Pechino è accusata di espiantare organi dai condannati in carcere Da sette anni un avvocato canadese chiede al mondo di intervenire
La battaglia di David per i galeotti cinesi
di Paolo G. Brera


Lo sapete perché la Cina, pur non avendo che una manciata di donatori volontari, è diventata in pochi anni il secondo Paese al mondo per numero di trapianti? Tenetevi forte, perché certe mostruosità fanno male anche solo a pensarle: «Uccidono un giovane detenuto compatibile, prelevano gli organi e li vendono a peso d’oro ai pazienti. Prove? Tutte quelle che volete, tutte quelle che servono ». Sono sette anni e mezzo che David Matas, 70enne canadese, avvocato, libero combattente per i diritti dell’uomo, si è trasformato nel più formidabile cacciatore di trafficanti d’organo del mondo.
Nel 2010 lo hanno candidato al Nobel per la Pace, per quella battaglia che somiglia a un film horror: in un rapporto firmato nel 2006 insieme all’ex segretario di Stato canadese David Kilgour ha accusato il governo cinese di avere ucciso sistematicamente migliaia di prigionieri di coscienza del Falun Gong — un movimento spirituale fondato in Cina nel 1992 e messo al bando dal 1999 — per prelevare i loro organi. David contro Golia: «Le uccisioni e i prelievi, 41.500 tra il 2000 e il 2005, dopo il nostro rapporto sono addirittura aumentate », dice. «Semplicemente, hanno alzato il livello di segretezza».
Il 12 dicembre il Parlamento europeo ha approvato una proposta di risoluzione comune chiedendo la fine immediata di questa pratica disumana di «espianto coatto di organi da prigionieri di coscienza non consenzienti in Cina, in particolare da un gran numero di seguaci del movimento Falun Gong». In un’audizione alla Commissione per i diritti umani del Senato, giovedì scorso Matas ha fatto un appello perché l’Italia non si renda complice di questo crimine: occorre «cambiare la legge per punire non solo gli intermediari del traffico d’organi, come avviene oggi, ma anche i pazienti e i medici ».
«A maggio — spiega — anche il Comitato di bioetica italiano ha segnalato la lacuna legislativa. Per il sistema carcerario cinese questo è un business colossale: abbiamo stimato che valga un miliardo di dollari l’anno, soldi che vengono divisi tra i centri ufficiali di trapianto, in cui avvengono le operazioni chirurgiche, e le carceri che selezionano e forniscono i detenuti». Per un rene, il centro trapianti Omar Healthcare Service di Tianjin, in Cina, chiede 350mila dollari, ha scoperto un mese fa il settimanale tedesco Der Spiegel.
Il fatto è che uno i trafficanti di organi se li immagina brutti e cattivi, criminali incalliti nascosti nei bassifondi di metropoli del terzo mondo, e invece sono persone che operano in cliniche regolari in cui non si commette alcun reato, a comprare un organo facendo uccidere un uomo incarcerato per il suo credo. «In Cina è tutto legale, e purtroppo pochi Paesi hanno varato leggi che sanzionino penalmente il turismo dei trapianti».
La terribile “catena di smontaggio” è iniziata nel 1999, quando il governo ha messo al bando il movimento spirituale del Falun Gong. Gente pacifica che crede in tre principi fondamentali — la verità, la compassione e la tolleranza — esercitandole con quattro esercizi fisici, più uno di meditazione da eseguire nella posizione del loto. Per questo i militanti sono quasi sempre in ottima salute: seguono regole di vita sobrie e sane, etiche e fisiche. Ma la persecuzione è feroce. Quando vengono arrestati, la condanna teorica è a pochi mesi di detenzione nei “Centri per la rieducazione attraverso il lavoro”. «Ed è qui che spariscono. Non solo sono luoghi di prigionia arbitraria — dice Matas — ma vere e proprie banche di organi da donatori vivi. Il governo cinese afferma che il 90 per cento degli organi proviene dai condannati a morte giustiziati: se fosse vero, se non si trattasse di uccisioni mirate, i tempi di attesa per un donatore compatibile non potrebbero essere così brevi».
Le segnalazioni, i corpi restituiti con segni di “autopsie” che non avevano ragion d’essere, le denunce dei parenti e dei militanti si sono depositate sulla scrivania di Matas fino a seppellirla. E gli indizi sono lentamente diventati prove. «Alcuni investigatori hanno telefonato agli ospedali di tutta la Cina — racconta — fingendosi pazienti in cerca di trapianto e chiedendo se avessero da vendere organi di membri del Falun Gong, visto che grazie agli esercizi i praticanti sono sani: abbiamo ottenuto risposte affermative e confessioni da tutta la Cina».
I militanti rilasciati raccontano che in carcere, insieme a pestaggi e torture, i praticanti del Falun Gong — solo loro — subiscono continuamente esami del sangue e controlli medici. Ma non è uno scrupolo dei carcerieri per la salute dei detenuti. «È una selezione della “merce” che si tengono pronti a prelevare. Prima della messa al bando e della violenta persecuzione del movimento e dei suoi adepti, in Cina si calcolavano cento milioni di militanti. Sono diventati un immenso giacimento vivente di organi da estirpare».

Corriere 23.12.13
Il robot donna che salverà gli umani dalle catastrofi
di Viviana Mazza


NEW YORK — Diciassette robot umanoidi si sono sfidati in Florida in una specie di «Olimpiade della robotica». E se nell’immaginario collettivo l’androide per eccellenza è Terminator, nemico dell’umanità, a questo concorso organizzato dal Pentagono nel fine settimana ha partecipato Valkyrie, robot-donna di 1 metro e 80 creata dalla Nasa con sembianze che ricordano gli Assaltatori di Guerre Stellari. L’obiettivo è di promuovere la creazione di macchine che possano salvare le vittime dei terremoti e di altre catastrofi: un’idea nata dopo il disastro nucleare di Fukushima dalla consapevolezza che ci sono missioni di salvataggio troppo rischiose per gli esseri umani. I robot hanno affrontato prove ben poco olimpiche: guidare un’auto, aprire la porta... (uno di loro twittava, benché non fosse richiesto). Google possiede due delle aziende in concorso. Alla fine il migliore è stato Shaft, giapponese, capace di muoversi tra le macerie. Sa anche aprire la porta e varcare la soglia, due volte su tre. Eh sì, ci vorrà un po’ prima che possano salvare il mondo.

l’Unità 23.12.13
Avanguardia
Tzara, l’anarchia contro l’ordine
Moriva 50 anni fa uno dei principali esponenti del Dadaismo
Il poeta e scrittore francese di origine rumena aveva un bersaglio preciso: distruggere la bellezza estrema, l’eternità dei principi, le leggi della logica, l’immobilità del pensiero a favore della sfrenata libertà dell’individuo
di Anna Tito

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l’Unità 23.12.13
L’arte di immaginare un mondo diverso
Il pensiero di Tommaso Campanella magnifico «eretico mentale»
Un filosofo controcorrente che si finse pazzo per non finire sul rogo e passò 26 anni in carcere
Autore di libri su fisica, magia, astrologia e altro, scrisse anche poesie oggi edite da Bompiani
di Giuseppe Montesano

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La Stampa 23.12.13
Pollini: quello straordinario
Beethoven in fabbrica
Il pianista: “Negli anni Settanta la Scala di Grassi e Abbado voleva portare la musica ovunque. Un esperimento disatteso”
di Egle Santolini

qui

Corriere 23.12.13
Per Beccaria vittoria a metà su tortura e pena di morte
Violenze ed esecuzioni capitali restano pratiche diffuse
di Paolo Mieli


Bibliografia:
Contro gli abusi e le crudeltà Esce in libreria il prossimo 9 gennaio il saggio Beccaria (Il Mulino, pagine 120, e 11) dello studioso svizzero Michel Porret. Sono già disponibili invece il libro di Massimo La Torre e Marina Lalatta Costerbosa
Legalizzare la tortura? Ascesa e declino dello Stato di diritto (Il Mulino, pagine 208, e 19) e il volume Dei diritti e delle garanzie (Il Mulino, pagine 192, e 15), una conversazione di Luigi Ferrajoli con Mauro Barberis.

Tra breve cadranno i 250 anni del 1764, allorché Cesare Beccaria diede alle stampe Dei delitti e delle pene . Beccaria aveva 26 anni (era nato nel 1738) quando pubblicò — senza firmarlo — quel libro e, ai tempi, era un giovane funzionario dell’amministrazione austriaca in Lombardia. Il saggio è uno straordinario atto d’accusa contro la pena di morte e contro la tortura (quest’ultima già abolita in Svezia nel 1734, a Ginevra nel 1738, in Prussia nel 1740, in Austria nel 1752: però in Francia lo sarà solo nel 1780). Ma, a metà Settecento, l’abolizione della pena capitale è ancora un tabù. Beccaria, per privilegiare il carcere al patibolo, scrive: «Non è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, bensì il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti». Il condannato che espìa sul patibolo suscita una «compassione mescolata al disprezzo», piuttosto che «il salutare terrore che la legge pretende ispirare».
Dopodiché si pone un problema che molti (ad esempio qui da noi i Radicali) affrontano ancora oggi: non è da considerarsi la schiavitù perpetua, vale a dire l’ergastolo, contraria quanto la morte a ogni principio di civiltà e ugualmente crudele? Beccaria risponde che sommando tutti i momenti infelici della schiavitù, lo sarà, crudele, anche di più, ma questi «sono stesi sopra tutta la vita e quella esercita tutta la sua forza in un momento… ed è questo il vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa più chi la vede che chi la soffre». Laddove più che l’argomento usato per ribattere ai fautori del patibolo, va considerata la sensibilità che lo porta ad individuare, già a metà Settecento, il labile confine tra capestro e prigione a vita.
Beccaria si batte con decisione per la secolarizzazione della giustizia. I crimini, secondo lui, non devono più essere concepiti come peccati, ma soltanto come infrazioni sociali: «Io non parlo che dei delitti che emanano dalla natura umana e dal patto sociale, non dei peccati, de’ quali le pene, anche temporali, debbono regolarsi con altri principii che quelli di una limitata filosofia». Spingendosi a chiedere una riformulazione di tutte le pene, ivi compresa quella per i suicidi, che all’epoca si traduceva nella pratica dei «processi ai cadaveri» (una sentenza del Parlamento di Parigi del 1749 disponeva che — a offesa dei parenti — i corpi di coloro che si erano dati la morte fossero messi pubblicamente su una graticola, «testa in giù, faccia rivolta contro la terra»). La repressione del suicidio, scriveva Beccaria, è socialmente inutile: punisce una famiglia innocente, agisce senza effetto «sul corpo freddo e insensibile» del morto. Inoltre la pena «non farà alcuna impressione sui viventi, come non lo farebbe lo sferzare una statua». Il «processo ai cadaveri» è per lui un’usanza «ingiusta e tirannica perché la libertà politica degli uomini suppone necessariamente che le pene sieno meramente personali».
Parole di fuoco spendeva poi contro la lentezza dei processi: «La prontezza delle pene è più utile, perché quanto è minore la distanza del tempo che passa tra la pena ed il misfatto, tanto è più forte e più durevole nell’animo umano l’associazione di queste due idee, delitto e pena, talché insensibilmente si considerano uno come cagione e l’altra come effetto necessario immancabile». Va ricordato che quando Beccaria scrive non sono ancora stati del tutto aboliti i roghi delle streghe ed è ancora vivo il ricordo dell’atroce morte inflitta nel 1757 (dopo il «supplizio delle tenaglie») a Robert Damiens, «squartato da quattro cavalli» per aver ferito con un colpo di temperino il «corpo reale» di Luigi XV.
In Francia, l’abate André Morellet lesse Dei delitti e delle pene e lo tradusse nella sua lingua, impegnandosi a diffonderlo. A operazione compiuta, il 3 gennaio del 1766 scrisse a Beccaria i sensi della propria ammirazione. Beccaria gli rispose raccontandogli quanto fosse stato importante per lui la lettura delle Lettere persiane di Montesquieu, del rilievo che avevano avuto per la sua formazione autori come Helvétius, Diderot e d’Alembert, di quanto avesse contato, più in generale, la cultura francese per aprirgli gli occhi dopo «otto anni di istruzione fanatica e servile» ricevuta dai gesuiti. Sembravano le premesse per un asse illuminista che avrebbe presto congiunto Milano a Parigi. E invece…
Anno fatidico il 1766. In febbraio, Dei delitti e delle pene viene messo all’Indice dalla Chiesa di Roma e alcuni mesi dopo (in settembre) Voltaire proclama Beccaria «fratello in filosofia». Nel 1767 il libro sarà tradotto in inglese da John Almon. Quello stesso anno ne comparirà una vibrante confutazione ad opera di Pierre-François Muyart de Vouglans (definito da Voltaire «l’avvocato della barbarie»). Il monaco Ferdinando Facchinei accuserà Beccaria di essere il «Rousseau degli italiani». Definizione che lui accoglierà come un encomio. Nel 1770, Gustavo III di Svezia esprime il suo apprezzamento per l’opera. Lo stesso faranno in Spagna Carlo III e negli Stati Uniti Thomas Jefferson. Nel 1786, il granduca di Toscana Leopoldo II, in omaggio alle sue tesi, abolirà la pena di morte.
Ma torniamo al 1766. Quell’anno, scrive Michel Porret, nel libro Beccaria. Il diritto di punire (di imminente pubblicazione per i tipi del Mulino), il nostro autore sarà amareggiato da alcune circostanze. In particolare da un viaggio a Parigi che compirà in autunno. I suoi due più cari amici Alessandro e Pietro Verri, fondatori dell’Accademia dei Pugni e della rivista «Il Caffè», lo convincono ad andare in ottobre, a Parigi, dove per merito, come si è detto, dell’abate Morellet il suo libro è già molto famoso. Lì in Francia, però, «l’intellettualismo gelido e il clima libertario dei salotti letterari parigini», racconta Porret, «infastidiscono il milanese; la sua timidezza invece delude i francesi… Malinconico, geloso della moglie corteggiata da Pietro Verri, Beccaria, in dicembre, lascia prematuramente Parigi e ritorna a Milano… Progettato per sei mesi il suo “tour filosofico” è un fallimento».
Da quel momento si fa sempre più schivo e sospettoso. È invitato in Russia per entrare in una commissione legislativa voluta da Caterina II, così come Diderot che viene chiamato a fare da istruttore al futuro zar Paolo I. D’Alembert sconsiglia a Beccaria quel passo: «Perderete molto al cambio, un bel clima per un Paese molto sgradevole, la libertà per la schiavitù, e i vostri amici per una principessa di gran merito, ma che tuttavia è meglio avere come amante che come moglie». Risultato: Diderot accetta, mentre Beccaria rifiuta. Poi una nuova delusione. Nell’Enciclopedia , che viene pubblicata dal 1751 al 1772 (quindi per ben otto anni ancora dopo l’uscita di Dei delitti e delle pene ) di lui non si fa menzione. Nel 1769 Beccaria accetta di essere nominato professore in «Scienze camerali» presso le Scuole palatine di Milano. Nel 1791 accoglierà l’invito a far parte della commissione per la revisione del sistema giudiziario civile e criminale della Lombardia austriaca. Nel 1794, all’età di 56 anni, morirà per un colpo apoplettico. Nove anni dopo che sua figlia Giulia aveva dato alla luce Alessandro Manzoni. Quella Giulia che, per uno strano intreccio della storia, a dispetto del matrimonio con l’anziano conte Pietro Manzoni, aveva perso la testa per il vivace Giovanni Verri, fratello minore di Pietro e Alessandro.
Oggi, ad oltre due secoli dalla morte di Beccaria, Michel Porret ricorda che nel mondo solo 109 Stati su 192 (poco più della metà) hanno gradualmente eliminato la pena capitale, oppure rinunciano al suo impiego. Ma, come con ostinazione ci riportano alla memoria i seguaci di Marco Pannella e di Emma Bonino, accanto a regimi autoritari (Cina, Iran, Iraq, Pakistan) e teocratici, nei quali la sfera religiosa contamina sempre quella penale (Afghanistan, Arabia Saudita, Nigeria), gli Stati Uniti restano l’unica potenza democratica che si sottrae all’abolizione totale della pena di morte. Anche se la Corte suprema ne limita ora l’applicazione (esclusa per i malati di mente), essa rimane in vigore in 38 Stati. E tutte, ma proprio tutte, le rivoluzioni del secolo scorso si sono distinte per il ricorso al capestro.
A 250 anni dalla pubblicazione del suo libro, siamo dunque ben lontani dall’aver assistito al trionfo di Beccaria. Anzi in alcuni campi, come quello delle sevizie sui prigionieri, si sono fatti addirittura dei passi indietro. Per fortuna, però, il solco da lui tracciato è ancora assai fecondo. E un bel libro di Massimo La Torre e Marina Lalatta Costerbosa, Legalizzare la tortura? Ascesa e declino dello Stato di diritto (Il Mulino), ne è la riprova. Il libro è interamente dedicato al mondo del dopo 11 settembre 2001, dove «tutto pare rimesso di colpo in discussione». Vengono ricordate la dure parole di Beccaria contro le crudeltà nei confronti dei sospettati: «Un altro ridicolo motivo contro la tortura è la purgazione dell’infamia, cioè un uomo giudicato infame dalle leggi deve confermare la sua deposizione collo slogamento delle sue ossa. Quest’abuso non dovrebbe essere tollerato nel decimottavo secolo». «Noi scriviamo nel XXI», si limitano ad aggiungere i due autori. I quali ricordano come Josef von Sonnenfels, consigliere della corona asburgica, nel 1775 scrisse, nel saggio Sull’abolizione della tortura (pubblicato a Zurigo), che quello poggiato sulle afflizioni non era potere legittimo, bensì tirannia.
Tirannia che si regge su un intreccio di violenza e paura, intreccio che dà l’illusione a colui che vi fa ricorso di aumentare la propria stabilità, proprio nel momento in cui sta imboccando il cammino del suo declino. Quel che avrebbe ripetuto con forza anche Gaetano Filangieri. E che avrebbe ribadito nel Novecento Hannah Arendt: « Il dominio per mezzo della pura violenza entra in gioco quando si sta perdendo il potere». In Sulla violenza (Guanda) la Arendt scrive: «Sostituendo la violenza al potere si può ottenere la vittoria, il prezzo però è molto alto; in quanto viene pagato non solo dal vinto ma anche dal vincitore… In nessun caso il fattore di autodistruzione nella vittoria della violenza sul potere è più evidente che nell’uso del terrore per mantenere la dominazione… Il terrore non è la stessa cosa della violenza; è piuttosto la forma di governo che viene in essere quando la violenza, avendo distrutto tutto il potere, non abdica, ma al contrario rimane in una posizione di controllo assoluto».
Va ricordato però che il citato Sonnenfels, a differenza di Beccaria, concesse una deroga all’abolizionismo: definì la tortura «lecita» laddove si tratta di scoprire i complici del reo. È possibile che l’«eccezione di Sonnenfels» sia stata pensata, concedono La Torre e Lalatta Costerbosa, «al fine di rendere la sua proposta abolizionista meno radicale e dunque capace di ottenere l’approvazione della corona». Resta il fatto che il suo abolizionismo non è «assoluto» e «lascia aperto un varco all’uso della tortura nelle situazioni di emergenza che sono oggi — come sappiamo — quelle che si invocano per giustificare la revisione del consolidato e assoluto divieto di torturare». Proprio quelle che Friedrich von Spee già all’inizio del Seicento aveva riconosciuto come «insidiose e infondate». A rendere più evidenti i tratti della sua grandezza, La Torre e Lalatta Costerbosa fanno notare quante resistenze incontrò Beccaria. Per ironia della sorte nel Ducato di Milano fu Gabriele Verri, padre di Pietro, Alessandro e Giovanni a formulare un parere del Senato contrario all’abolizione della tortura. Gabriele Verri suggerisce un «uso temperato della tortura» (cioè non esteso a tutti i reati, escludendo «i casi senza prova alcuna e coloro che già sono stati condannati a morte»); tortura che, però, Verri padre conferma valida tanto nell’interrogatorio come mezzo per l’accertamento della verità, quanto come pena prevista per taluni reati.
Per mettere meglio in risalto la novità rappresentata da Beccaria, molte pagine di questi libri sono dedicate a importanti pensatori che in un modo o nell’altro hanno giustificato la tortura. È il caso di Jeremy Bentham, che «sorprendentemente» accetta, nel 1843, questo genere di vessazioni. Colpisce un passaggio in cui Bentham sostiene che la tortura è una specie di pena, la quale, però, ha uno scopo ben più, e meglio, circoscritto, o determinato, e dunque si presta meno all’abuso. Quale sia lo scopo della detenzione del reo per Bentham «è poco chiaro»; il rapporto tra fatto (pena detentiva) ed effetto (comunque vago) è in tal caso ipotetico e indeterminato. Nella tortura al contrario la «catena causale» tra fatto ed effetto o risultato è assai più definita e precisa (meglio, proporzionale) di quanto non accada in ogni altra forma di pena. Infatti torturando si infliggerà solo ed esclusivamente quella misura di coazione e di sofferenza che sia necessaria ad indurre il reo a una certa azione o ammissione. Nella detenzione invece, osserva Bentham, la proporzionalità è violata, poiché lo scopo della punizione non risulta affatto chiaro. A Bentham si sarebbe potuto obiettare che «la detenzione è predeterminabile nella sua durata, e dunque non si presta sotto questo profilo all’abuso di colui che la commina, mentre la tortura è necessariamente indeterminata tanto per la durata quanto per l’intensità delle sofferenze inflitte». Ma Bentham risponde preventivamente che tale indeterminatezza è prodotta dalla condotta del reo, il quale continua a non rispondere alle domande che gli vengono rivolte o a non cedere alle richieste che gli vengono indirizzate.
Restando alla tortura, importantissimo è poi, secondo La Torre e Lalatta Costerbosa, il discorso di Beccaria sulla presunzione di innocenza. «Un uomo», scrive Beccaria, «non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può togliergli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch’egli abbia violato i patti coi quali gli fu accordata. Quale è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dà la podestà ad un giudice di dare una pena ad un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente?». Discorso qui fatto per la tortura, ma che può tranquillamente essere esteso a forme particolarmente afflittive della carcerazione preventiva. Come è quella di far calare una cappa di infamia sul «detenuto in attesa di giudizio».
«Parlò invano e ancora per molti anni Cesare Beccaria», ha scritto Francesco Calasso nella voce «Tortura» della Enciclopedia italiana (1937), «ma la Rivoluzione francese spazzò via per sempre» la tortura, «chiudendo così una delle pagine più dolorose e lugubri della storia dell’umanità». «E colpisce, anzi scoraggia», affermano nel 2013 La Torre e Lalatta Costerbosa, che quell’analisi che doveva «apparire ovvia» alla fine degli anni Trenta, oggi risulti invece «ottimistica e ingenua».
Pur tuttavia Beccaria ebbe molti riconoscimenti dopo la morte. Ma all’epoca in cui visse fu un incompreso. Anche negli ambienti che avrebbero dovuto essergli non ostili. A favore della pena capitale, sia pure in casi limite, era stato Montesquieu per il quale «un cittadino merita la morte, quando ha violato la sicurezza al punto da togliere la vita, o da cercare di toglierla… Tale pena di morte è come il rimedio della società malata». Lo sarà Rousseau, secondo cui la forca è legittima contro il «nemico pubblico» che si manifesti in contrasto allo Stato: in questo caso è «un atto contro un nemico piuttosto che un’azione contro un cittadino» (quel «nemico pubblico», gli risponderà Beccaria, non è altro che un «uomo vinto»). E contro l’abolizione della pena di morte saranno sia Kant che Hegel. Kant — ricorda Michel Porret — intorno al 1796 rimprovera a Beccaria «il sentimento di falsa umanità» che lo ha ispirato e stabilisce che «il diritto di punire è il diritto del sovrano nei confronti dei suoi sudditi di infliggere loro una pena dolorosa in ragione del crimine commesso». Senza questo diritto, afferma il filosofo, «il diritto cede, l’ordine crolla, il legame sociale si sfalda, lo Stato vacilla». E Hegel la pensa più o meno nello stesso modo.
Del resto, Voltaire — che pure di Beccaria era stato un grande estimatore — nel 1768 gli aveva scritto una lettera di encomio sì («Voi avete spianato il cammino dell’equità, nel quale tanti uomini procedono ancora come barbari»), ma con uno spiraglio aperto nei confronti della pena di morte. Voltaire aveva paragonato la propria difesa di Jean Calas — nel Trattato sulla tolleranza (1763) — a quella che Beccaria aveva fatto del cavaliere de la Barre mandato a morte, non ancora ventenne, il 1 luglio 1766 per non essersi tolto il cappello al cospetto di una processione e per aver pronunciato frasi blasfeme. Una vicenda quest’ultima «più orribile» di quella di Calas il quale, scrive il filosofo, «avrebbe meritato il suo supplizio se l’accusa fosse stata provata». E invece no: secondo Beccaria nessuno e per nessun motivo può mai meritare quel supplizio.
Ancora più dirompente è — sempre nel solco aperto da Beccaria — quel che afferma Luigi Ferrajoli in un libro-conversazione con Mauro Barberis: Dei diritti e delle garanzie (Il Mulino). Ferrajoli, uno dei magistrati che alcuni decenni fa fondarono Magistratura democratica, se la prende con l’attuale «andamento circolare della logica inquisitoria, che rende le tesi accusatorie di fatto infalsificabili». Una «tentazione pericolosa soprattutto nei grandi processi, nei quali, anche a causa della loro risonanza mediatica, il magistrato inquirente è portato a vedere nella conferma in giudizio delle ipotesi accusatorie una condizione della propria reputazione professionale». D’accordo, ma che c’entra Beccaria? «È questa forza del pregiudizio», risponde Ferrajoli, «che trasforma il procedimento in quello che Cesare Beccaria chiamò il “processo offensivo”, nel quale il giudice anziché essere “un indifferente ricercatore del vero… diviene nemico del reo”». E non vuole trovare la verità del fatto, «ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia, e crede di perdere se non vi riesce, e di far torto a quell’infallibilità che l’uomo si arroga in tutte le cose».
A Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Diderot e Condorcet, vale a dire ai filosofi dei Lumi è ispirata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino decretata dall’Assemblea nazionale il 26 agosto 1789, che pure manteneva in vigore «l’ultimo supplizio». E in Francia, a dispetto delle molteplici battaglie abolizioniste (la più celebre delle quali fu quella di Victor Hugo con il libro L’ultimo giorno di un condannato e altri scritti sulla pena di morte pubblicato in Italia da Rizzoli), l’abrogazione della pena di morte si avrà solo nel 1981, ad opera del ministro della giustizia Robert Badinter.
Dopodiché, prosegue Ferrajoli (qui in sintonia piena con i Radicali italiani), «si dovrebbe avere il coraggio di togliere al carcere la centralità che occupa negli odierni sistemi punitivi, e non solo nel nostro, approvando misure di drastica decarcerizzazione». Il carcere, «lo sappiamo, è un’invenzione moderna: una conquista dell’illuminismo penale, in alternativa alla pena capitale, ai supplizi, alle pene corporali, alla gogna e agli altri orrori del diritto premoderno; tuttavia, poiché consiste nella privazione di un diritto fondamentale come è la libertà personale, oltre che di vessazioni lesive della dignità della persona, esso si giustifica solo nella misura “minima possibile” secondo l’insegnamento di Beccaria: come extrema ratio , cioè soltanto per reati lesivi di altri diritti o beni fondamentali costituzionalmente stabiliti».
Ciò che, a detta di Ferrajoli, richiede almeno tre riforme. La prima è «l’abolizione della vergogna, in Europa ormai quasi soltanto italiana, della pena dell’ergastolo, palesemente in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione e al reinserimento sociale del condannato». La Corte costituzionale ha dichiarato con due sentenze (nel 1974 e nel 1983) che questo genere di pena non è incostituzionale perché di fatto virtualmente non è perpetua, essendo riducibile a 28 anni di reclusione grazie alla sospensione condizionale e a circa vent’anni grazie ai benefici di pena introdotti dalla riforma penitenziaria del 1975 ed estesi dalla legge Gozzini del 1986. Ma, osserva Ferrajoli, «a parte che questo non è vero, essendoci ancora nelle nostre carceri molti ergastolani che hanno espiato ben più di 28 anni di reclusione, la Corte costituzionale non deve decidere sui fatti bensì sulle norme, censurandone l’invalidità, quale che sia il numero di violazioni costituzionali da esse reso di fatto possibile».
La seconda delle tre riforme, sempre secondo Ferrajoli, dovrebbe consistere in un drastico abbassamento della durata della reclusione, fino ai livelli degli altri Paesi europei: non più quindi gli attuali trent’anni, ma venti o quindici, come in Francia, in Germania, in Danimarca e nei Paesi scandinavi e come potenzialmente avviene anche in Italia qualora siano concessi, nella forma delle attuali misure alternative alla detenzione, i benefici di pena previsti, in base ai progressi nella rieducazione, dalla legge Gozzini. Ne conseguirebbe «oltre alla restaurazione della certezza delle pene, l’eliminazione di tutti quegli strani esami diagnostici oggi richiesti per la concessione dei benefici e consistenti, quando non si risolvono in giudizi puramente burocratici, in lesioni della libertà interiore della persona, cioè del suo diritto di essere e rimanere quella che è».
Terza riforma che ci imporrebbe la coerenza con Beccaria e «forse la più importante» dovrebbe essere «la previsione della reclusione per i soli reati più gravi e, per tutti gli altri reati, di pene più lievi quali sono le attuali misure alternative, che occorrerebbe perciò trasformare in pene principali, irrogate direttamente dal giudice al momento della condanna: come gli arresti domiciliari, la detenzione di fine settimana, la sorveglianza speciale, la libertà vigilata e l’affidamento in prova ai servizi sociali». Ripetiamo: c’è una grande sintonia con alcune importanti battaglie dei Radicali italiani nonché di settori consistenti (e trasversali) della politica, ma anche della cultura del nostro Paese. È probabile che il prossimo anno, quando si ricorderanno i due secoli e mezzo dalla pubblicazione dell’importante libro di Cesare Beccaria, dai convegni a lui dedicati vengano fuori idee (e iniziative) destinate ad avere un’eco maggiore di quella prodotta dalle celebrazioni. È molto probabile.

Corriere 23.12.13
Nella selva oscura di Dante, cercando l’anima di una persona cara


Una donna in stato avanzato di gravidanza muore in un incidente stradale. Si chiamava Katherine. Quarantacinque minuti prima di andarsene, riesce a dare alla luce Isabel. È un miracolo reso possibile da un cesareo d’urgenza.
Sul New York Times di ieri Joseph Luzzi (associate professor di italiano al Bard College) ricorda il triste evento, soprattutto rivela che le parole di Dante lo hanno aiutato dopo la dipartita dell’amata. I versi della Divina Commedia , rimeditati nei tempi che seguirono i tragici fatti, gli hanno recato «la forza di non arrendersi». Dopo anni di ricerche, intenti all’analisi e a «decodificare i suoi temi», confessa lo studioso, «ho finalmente sentito la sua voce». Nell’articolo riporta l’incipit del XXV canto del Paradiso: «Se mai continga che ‘l poema sacro/ al quale ha posto mano e cielo e terra,/ sì che m’ha fatto per molti anni macro,/ vinca la crudeltà che fuor mi serra/ del bello ovile ov’io dormi’ agnello,/ nimico ai lupi che li danno guerra;/ con altra voce omai, con altro vello/ ritornerò poeta...». Di più: chiude ricordando che «dopo la morte di Katherine, sono stato ossessionato per la prima volta dalla questione se abbiamo un’anima, se una parte di noi sopravvive al nostro corpo». Il miracolo della Divina Commedia sta appunto nell’aiuto che offre per esplorare questo enigma «con lungo studio e grande amore».
Che dire? Dante, anche se lo si studia svogliatamente, ha in sé qualcosa che aiuta nei momenti difficili. Forse sono suggerimenti, forse illusioni, di certo egli conosceva il dolore e sapeva cosa dire quando esso entra lentamente o di colpo in un’esistenza. Così come Boezio, che sarà un modello per l’Alighieri, nel VI secolo è consolato dalla singolare presenza dell’amore del sapere che gli appare in carcere mentre attende l’esecuzione e si convince che i rovesci della fortuna nulla possono sulla vera felicità, allo stesso modo il sommo fiorentino si diede alla filosofia — come ci racconta nel Convivio — dopo la morte di Beatrice per trovare requie da tristezza e disperazione. Dedicandosi alla lettura di Boezio e del trattato Sull’amicizia di Cicerone, consegnò il suo dolore alla filosofia: la immaginava come una donna gentile, «figlia di Dio, regina di tutto, nobilissima e bellissima».
Alexandre Dumas ne Il conte di Montecristo ha scritto che «parlare dei propri mali è già una consolazione». Ma, se non fosse stato tanto impegnato nel mettere a punto il sentimento liberatorio della vendetta, avrebbe potuto aggiungere che proprio madonna consolazione ci visita in maniera diversa, a seconda di come ne parliamo. Dante sa consolare forse perché presenta riferimenti alti, rifuggendo inorridito dagli omuncoli e dai gregari; egli sembra quasi dire che la consolazione è una forma di grandezza, una grazia che giunge a coloro che non soffrono di bassezza d’animo, ché agli altri sono sufficienti le semplici bugie. Arthur Schopenhauer, che lo conosceva bene, nei suoi scritti postumi coglie la consolazione che gli uomini sono costretti a costruirsi nelle diverse situazioni della vita attraverso l’odissea di rimandi che intraprendono durante gli affanni: in fondo è un viaggio che l’anima tenta per cercare non il piacere ma l’assenza di dolore. E Cioran scoprirà nei Quaderni che esiste un’arte della consolazione, da lui trovata nelle forme religiose. Quanto dice un sacerdote non abita nella realtà ma nessuna «dottrina secolare» potrà mai annullare il sollievo delle sue parole.
Joseph Luzzi si è inoltrato nell’aldilà dantesco, tra eminenti passioni che non riescono a sopirsi per cercare risposte a un dolore. Dialoga con Paolo e Francesca che soffrono ancora per amore, con Ulisse che non smette di navigare; Cacciaguida continua a raccontargli del buon tempo antico e Manfredi gli parla nel Purgatorio incurante della scomunica, senza valore per il sommo poeta. Lo studioso scopre la pace tra modelli che Dante rende eterni. Ripetono senza stancarsi una storia: è ancora la nostra.

Repubblica 23.12.13
Lo strapotere delle lobby del denaro nel libro di Amedeo Feniello: pare oggi, ma è Medioevo
La donna che sfidò i banchieri
Storia di Sybille che nel ’300 combatté la finanza fiorentina
di Federico Fubini


Ibanchieri dei grandi scambi internazionali sono una categoria così impopolare da far spesso dimenticare un dettaglio: li abbiamo inventati noi. I primi uomini di finanza, capaci di garantire gli scambi di merci, valuta o di debito attraverso le frontiere europee, furono quasi tutti italiani. Fiorentini, pisani, senesi, lucchesi, astigiani, genovesi o parmensi nati nel dodicesimo o nel tredicesimo secolo e cresciuti nell’idea di creare denaro tramite altro denaro, aiutando (in teoria) il prossimo a concludere i propri affari in spezie, tessuti o derrate agricole.
Neanche all’epoca aveva l’aria di essere una professione dignitosa. A Firenze o in Piemonte la pratica di prelevare un tasso d’interesse sui prestiti appariva talmente spregevole da essere riservata unicamente agli ebrei. Questo non impedì al numero di professionisti del settore in Italia di continuare a crescere durante i decenni del «big bang» finanziario e commerciale del basso medioevo. Solo a Firenze, fra il 1304 e il 1314, il numero dei cambiavalute salì da 274 a 314 e le «tavole di cambio» passarono da 93 a 135.
Era una finanza spesso sregolata, da robber barons del capitalismo americano di fine ‘800 o da locuste di Wall Street dei momenti più febbrili delle bolle dell’ultimo ventennio. Allora come oggi, c’era chi non apprezzava e provava a ribellarsi contro i banchieri che si accaparravano le risorse dei propri stessi clienti. Ma allora come oggi, non era facile prevalere sulla forza del denaro e dei professionisti che esso è in grado di mobilitare. Ce lo mostra un lavoro sorprendente di Amedeo Feniello, uno storico del medioevo con una lunga carriera d’insegnamento negli Stati Uniti e in Francia: la storia di una giovane vedova francese che da sola decide di sfidare in tribunale i banchieri fiorentini che l’avevano raggirata. Avesse avuto qualche altro cliente dalla sua parte, la si potrebbe chiamare la prima “class action” della storia, alla quale avrebbero fatto seguito quelle dei clienti di Lehman Brothers, di quelli di Bernie Madoff, degli obbligazionisti di Parmalat o di quelli del governo argentino.
Purtroppo però la donna, Sybille de Cabris, era sola.Dalle lacrime di Sybille. Storia degli uomini che inventarono la banca
(Laterza, 2013) di Feniello ricostruisce la vita e la battaglia giudiziaria di una ragazza provenzale, figlia di cacciatori di saraceni, che non corrisponde in niente allo stereotipo della donna medievale. Da quello che sappiamo, Sybille fu capace di autonomia di giudizio, tenacia di fronte ai banchieri che le avevano sottratto il patrimonio, spirito imprenditoriale e coraggio. Trasferite settesecoli più tardi, le vicende drammatiche della sua vita potrebbero diventare la trama di una produzione hollywoodiana. Nel 1335 Sybille sposa giovanissima Annibal de Moustier, cavaliere e signore della valle provenzale d’Entrevennes, oggi nota soprattutto per i campi di lavanda cari agli impressionisti francesi.
Interessante che all’epoca la Germania eravamo noi: la dote portata ad Annibal è della ragguardevole somme di duemila fiorini d’oro di Firenze. Era infatti la città-Stato toscana a battere la moneta emblema di valore, stabilità e affidabilità negli scambi internazionali dell’epoca. Da quando era stato coniato nel 1252, il fiorino d’oro di Firenze si era imposto in Europa in quanto moneta di riserva e di scambio,un po’ come nel ventesimo secolo era successo alla Deutsche Mark sin quasi dalla creazione nel 1948.
Ma neanche il patrimonio in valuta pregiata, a cui si aggiungono i possedimenti in Campania e in Sicilia, permette Sybille e al marito Annibal un avvenire sicuro.
I due sono giovani, belli e, secondo quanto riferisce per lettera un amico di famiglia, realmente innamorati. Lui però muore all’improvviso nel giorno di Ognissanti del 1335, lasciandola vedova a meno di vent’anni e incinta. La famiglia di lui a quel punto complotta contro di lei nel tentativo di impossessarsi dei suoi beni, accusandola di fingere la gravidanza solo per accaparrare l’eredità del marito defunto.
Seguono umilianti prove corporali per dimostrare agli emissari dei suoceri di essere realmente incinta. Sybille si difende e alla fine prevale, ma questo è solo l’inizio delle sue peripezie. Con un sorprendente spirito imprenditoriale, questa vedova del basso medioevo passa in rassegna i suoi beni decisa a valutare quanto le rendano e se abbia senso mantenerli. Molto presto decide di vendere il suocastrum nel Regno di Sicilia, dal quale l’amministratore non trasmette alcuna rendita da anni, per reinvestire invece a scelta in una di tre proprietà provenzali in quel momento sul mercato. Sybille è una giovane donna capitalista, il cui problema è trasferire il ricavato della sua vendita in Sicilia verso la Provenza.
È qui che i banchieri entrano nella sua vita. I Buonaccorsi di Firenze prendono in consegna il denaro a Napoli e si impegnano, dietro commissione, a produrre una somma equivalente a chi presenti una lettera di credito da loro emessa presso la filiale della banca ad Avignone. Ciò avrebbe evitato il pericoloso viaggio delle monete d’argento attraverso tutta l’Italia e la Costa Azzurra.
Il secondo dramma nella vitadi Sybille esplode però all’arrivo ad Avignone: in città non c’è più alcuna filiale dei Buonaccorsi. La banca era fallita e i banchieri erano scappati senza liquidare i clienti, un’esperienza oggi ben nota ma allora quasi incomprensibile. Come in questo secolo, gli uomini di finanza non avevano svolto a dovere il loro mestiere ma potevano prevalere sui clienti anche grazie a quelle che gli economisti chiamano “asimmetrie informative”: conoscevano circostanze che gli altri ignoravano, ad esempio sull’effettivo stato della loro impresa o dei mercati.
Sybille piange, ma non si arrende. Oltre dieci anni più tardi, nel 1355, la troviamo a Firenze dove affida una denuncia contro i Buonaccorsi al tribunale della Mercanzia. Vuole indietro i suoisoldi. Sarà una sfida giudiziaria lunga molti anni, nella quale i banchieri si difendono mettendo in dubbio l’identità giuridica della ricorrente, le qualifiche professionali del suo “notaio” (avvocato) ser Zanobi di Buonaiuto Benucci e mille altri passaggi procedurali. Nel 1362 le parti stavano ancora litigando davanti ai giudici, e dell’esito della loro battaglia legale non resta purtroppo traccia. Certo i grandi banchieri fiorentini si seppero difendere con ogni possibile argomento tecnico a loro disposizione. E se la loro opaca cavillosità oggi ricorda qualcosa, ci sarà pure un perché.
IL LIBRO Dalle lacrime di Sybille di Amedeo Feniello (Laterza, pagg. 308, euro16)

Repubblica 23.12.13
Se la Scienza non basta più. Il ritorno dei guaritori
di Giorgio Cosmacini


Medicina e ciarlataneria sono territori spesso contigui; talvolta càpita che l’una sconfini nell’altra. La medicina è basata su modalità comunicative utilizzate anche dalla ciarlataneria: essa, infatti, si fonda sul dialogo, sullo scambio verbale, su una efficiente ed efficace modalità applicativa di quella che oggi viene chiamata “scienza della comunicazione”. Tale applicazione al rapporto interpersonale consta di parole trasmettitrici di competenza e motivate da disponibilità; ma talora càpita che tali parole siano chiacchiere o ciarle.
Tre esempi storici, con varie sfumature, possono essere significativi al riguardo. Il grande malato non immaginario Molière, divorato dalla tisi, al Re Sole che gli domandava: «Che cosa vi consiglia il vostro medico?» rispondeva riassumendo la relazione interumana tra medico e paziente in due sole parole: «Sire, chiacchieriamo».
Il re di Spagna Filippo IV, volendo distinguere tra scienza vera (teologia) e scienza fittizia (medicina), annotava in margine a un suo documento, conservato nell’archivio storico di Simancas, questa frase: «Parlar di scienza è ciarlare».
Il medico Jean Paul Marat, prima d’essere (con Danton e Robespierre) il padre trinitario della rivoluzione francese, pubblicò sul proprio giornale, L’ami du peuple, dodici lettere intitolate Les charlatans modernes e dirette contro il “ciarlatanismo accademico”. A proposito di ciarlatanismo medico, ha scritto Roberto Satolli (“La salute consapevole”, Bari 1990, p.300): “Chissà se qualche lettore non faccia una divertente scoperta, trovando tracce o dosi consistenti di ciarlataneria anche in personaggi insospettabili, come medici famosi, primari d’ospedale e direttori d’istituto?”.
Sull’annosa questione del possibile intreccio fra ciarlataneria e medicina (o della ciarlataneria in medicina) si fece carico fin dal 1910, anno della sua fondazione su scala nazionale, l’Ordine dei medici. Ponendosi anzitutto quale coscienza sanitaria della nazione, l’Ordine neofondato aveva tra i suoi fini la lotta senza quartiere all’abusivismo e alla ciarlataneria, ovviamente al di fuori dei propri ranghi. Tale finalità ha conosciuto fino ad oggi, nell’arco di un secolo, alti e bassi, venendo a confrontarsi anche con fatti non esterni, ma interni alla categoria: negli anni Cinquanta il caso Bonifacio, negli anni Sessanta il caso Vieri, negli anni Novanta il caso Di Bella. Quest’ultimo caso è esploso nel 1997. Il professore Luigi Di Bella, già docente di fisiologia nelle Università di Parma e di Modena, non era il primo venuto: sapeva di scienza e tuttavia sottraeva la propria “multiterapia del cancro”, a base di somatostatina, alla regola aurea che esige per ogni trattamento medico il vaglio preliminare di una rigorosa sperimentazione scientifica e l’osservanza ineludibile del principio di precauzione.
La Cuf (Commissione unica per i farmaci) confermò che la “cura Di Bella” non aveva nécredibilità scientifica, né utilità pratica. Tanto bastò per far scattare in molti incauti o sprovveduti opinionisti, e in larga parte dell’opinione pubblica, assalita da notizie condite d’imprecisione e d’iperemotività, il sospetto di una persecuzione di casta da parte della medicina ufficiale nei confronti dell’anziano guaritore — un omino mite per molti un sant’uomo — che prometteva ai malati di guarirli del loro male inguaribile. In più, la questione assunse una coloritura politica, partitica. Si assistette a una ondata emotiva cavalcata da destra a favore, in nome di una presunta “libertà di cura” e di un malinteso “diritto alla vita”, e da sinistra a sfavore, in nome della “responsabilità dei medici” e del loro rifiuto di ogni “ricatto verso i pazienti”.
Il disorientamento della classe medica, assillata da pazienti e da loro familiari in trepidante attesa, era grande e non mancavano autorevoli esponenti di gran nome che invece di dire parole chiare e distinte si barcamenavano in chiacchiere e in ciarle. A commento di tutto ciò, le riviste medicoscientifiche internazionali Lancet e Nature parlavano senza mezzi termini di “commedia all’italiana”. Personalmente ricordo che fra i non pochi commedianti, giunse a fare chiarezza la voce dell’allora neo-eletto presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici, Aldo Pagni, portatore di una ritrovata vocazione ordinistica contro i guaritori con laurea atteggiati a profeti osteggiati e contro i medici atteggiati a soloni ma incapaci di una presa di posizione veramente scientifica e umana.
Per riuscire vittoriosa sulla ciarlataneria contemporanea, la medicina deve ritrovare rapporti di cura più affabili e modi di azione più affidabili. Il ciarlatano o sedicente guaritore non profitta soltanto della credulità e fragilità altrui; profitta anche della ragione saccente e della scienza distante. Fin che queste troveranno cittadinanza, la ciarlataneria, in medicina, vivrà.
(L’autore è uno storico della scienza, docente a contratto all’università San Raffaele)

Repubblica 23.12.13
Quando la cura non fa miracoli
di Maria Nvella De Luca


Oggi le staminali di Vannoni, ieri le promesse di Di Bella, prima ancora il siero di Bonifacio: pozioni spacciate per terapie che riaccendono le speranze in chi le ha perdute. I pazienti le invocano anche se inutili o addirittura pericolose.
E si ribellano contro chi vuole vederci chiaro. A cominciare dallo Stato

Oggi è il metodo Stamina, ieri era la cura Di Bella, settant’anni fa il siero di Bonifacio. Ma anche il veleno dello scorpione cubano o il bicarbonato in vena per sconfiggere il cancro. In mezzo feroci battaglie giudiziarie, processi, manifestazioni, un grande dolore e un’infinità di lutti. L’umanissimo desiderio di guarire, l’algida freddezza (spesso) della medicina ufficiale, e il mercato della speranza, che di volta in volta assume le forme del business spregiudicato, della missione caritatevole, o della semplice e pura illusione. C’è tutto questo dietro la triste battaglia pro e contro il metodo Stamina, qualcosa che in Italia è già accaduto, con i malati in piazza, la comunità scientifica scettica, i tribunali che impongono agli ospedali di non sospendere le cure. Un’anomalia, una contraddizione, che assume la forma estrema dei pazienti che si strappano i respiratori davanti ai palazzi del potere e si tolgono il sangue per gettarlo in faccia ai politici.
E i genitori di bimbi malati che dichiarano di essere pronti a tutto, pur di vedere qualche piccolo miglioramento nei loro figli già condannati da malattie neurodegenerative, come la leucodistrofia, o la Sma, l’atrofia muscolare spinale. Celeste, Sofia, Chantal, Noemi. Impossibile non comprendere il dramma umano. Eppure i dati scientifici sulla “cura” inventata da Davide Vannoni bocciano senza appello il metodo Stamina, anzi ne sottolineano tutta la pericolosità. Ma i pazienti non mollano: «Mia figlia sta meglio, questo conta, sono un genitore, come potrei non volereil suo bene?». Muro contro muro. Di qua la Scienza, quella ufficiale, di là le famiglie, il dolore. Un confine all’interno del quale prosperano guaritori e venditori di illusioni. E il ruolo, particolare, dei tribunali amministrativi, che possono ordinare il ripristino di cure e terapie pur contro il parere dei medici. Bisogna provare a capire. Ascoltare la sofferenza. Perché, spiega lo psichiatra Luigi Cancrini, «la medicina ha ormai raggiunto livelli altissimi nella battaglia alle malattie, ma ha via via perso la capacità di stare con le persone, di comunicare la diagnosi, di accompagnarle nel dolore ». Di fronte alla durezza e alla freddezza dell’istituzione, aggiunge Cancrini, «chiunque offra una possibilità, anche se non suffragata da prove, viene visto come una luce, si creano gruppi, movimenti che si alimentano di quella speranza, è un po’ come andare a Lourdes o a Medjugorie». E se la medicina ha ormai dimenticato la persona, gli altri, quelli fuori dalle istituzioni, missionari per alcuni, stregoni per altri, fanno il contrario, ricorda Cancrini, «abbandonano la malattia e si occupano della persona».
Stamina, la cura Hamer, il metodo Simoncini, la contraddittoria terapia Di Bella. Salvo Di Grazia di professione fa il medico, e come secondo lavoro il “cacciatore di false illusioni scientifiche”. Nel suo sito “Medbunker”, da anni raccoglie prove e testimonianze sulle presunte cure miracolose che di volta in volta catalizzano cuori e anime dei malati. «Non è un caso che questo tipo di terapie nascano per patologie che la scienza ufficiale ritiene ancora incurabili, il cancro, le malattie neurodegenerative. Oggi ci occupiamo di Stamina, ma in Italia ci sono centinaia di persone ammalate di tumore che abbandonano le cure e seguono ad esempio il metodo di Rike Geerd Hamer, il quale afferma che il cancro altro non è che un trauma, e basta risalire a quel trauma per guarire. Decine di persone che si sarebbero potute salvare sono morte così, senza nemmeno le cure palliative...».
Ma Salvo Di Grazia ricorda anche il tragico caso di Luca Olivotto, un giovane di 27 anni affetto da un tumore al cervello, morto esattamente un anno fa fra atroci sofferenze, dopo essersi sottoposto in Albania alla cura di bicarbonana,to per endovena inventata da Tullio Simonicini, oncologo radiato dall’Ordine dei medici. «Ho enorme rispetto per ciò che dicono i pazienti, come i genitori dei bambini trattati con il metodo StamiÈ i quali affermano che i loro figli hanno avuto dei miglioramenti. Come non credere ad una madre o ad un padre? E non penso nemmeno che le famose infusioni siano contaminate o infette: ciòche però vorrei sapere è perché Vannoni non mostra veramente i passaggi del suo metodo, perché rifiuta un confronto scientifico reale... Se le sue staminali funzionano, perché tanto segreto?».
Nel muro contro muro, infatti, alla fine chi decide è la giustizia. Ma può un Tar imporre qualcosa che la scienza non ha sperimentato fino in fondo? «Infatti siamo di fronte ad un paradosso», commenta Filomena Gallo, avvocato e vicepresidente dell’Associazione Luca Coscioni. «Noi siamo sempre stati per la libertà di cura, e proprio per questo chiediamo che le infusioni vengano bloccatefino a quando Vannoni non renderà pubblico il suo metodo. Esperti di tutto il mondo ne hanno messo in dubbio la validità, allora intervenga la politica a fermarlo, se non verrà dimostratoche la cura è sicura. Come possiamo lasciare che a decidere se applicare Stamina ad un bambino — si chiede Filomena Gallo — sia il giudice di un tribunale ammini-strativo, e non un medico?».
Un gioco di paradossi. Ma dove sotto accusa finiscono ospedali e istituzioni, una sanità sempre più distante dai malati e dalle famiglie, un mondo dove l’handicap è spesso soltanto una tragedia privata, che non trova ascolto né sostegno. E Big Pharma con i suoi giochi opachi di interessi e denaro. Eppure in questa battaglia non ci sono solo i pazienti pro Stamina. Ci sono anche, e sul fronte opposto, i genitori dei bimbi affetti da “Sma”, l’atrofia muscolare spinale, che dalle promesse di Vannoni si sono sentiti offesi. Daniela Lauro è la presidente di “Famiglie Sma Onlus”, ed è anche la mamma di un bambino “Sma” che non c’è più. «Noi vogliamo certezze non illusioni. I bambini trattati con Stamina hanno respiratori e ausili per l’alimentazione esattamente come i nostri, che vengono curati attraverso la ricerca di Telethon, attraverso studi trasparenti fatti di prove ed evidenze scientifiche. Dov’è il miglioramento della cura Vannoni se quei bimbi stanno come tutti gli altri? Magari si fosse trovata una terapia. Ci sentiamo feriti perché per aver chiesto dati certi su Stamina siamo stati trattati come genitori che non vogliono curare i loro figli... ».
«Ministro Lorenzin, venga a vedere come sta Sofia, non spezzi il suo futuro», ha detto pochi giorni fa una delle mamme in prima linea per il metodo Vannoni, Caterina Ceccuti, che da sempre dichiara i miglioramenti della sua piccola affetta da leucodistrofia metacromatica. Il 28 dicembre, subito dopo Natale, pazienti e genitori dei bambini in cura agli Spedali riuniti di Brescia si daranno appuntamento a Roma per mostrare le loro cartelle cliniche, i certificati che attestano i miglioramenti dei loro cari in trattamento con le infusioni di Stamina. Daniela Lauro è scettica: «Perché soltanto adesso tirano fuori le cartelle cliniche? Perché non le hanno consegnate agli esperti del ministero? Che senso ha mostrarle in piazza?».
Dice ancora Luigi Cancrini, neuropsichiatra di lungo corso: «Entrare in questa dimensione del dolore è arduo, difficile, ma il medico non si può sottrarre. Invece è quello che accade nei nostri ospedali. Ci vuole una rieducazione psicologica di chi fa il medico, il cui compito è anche sostenere il paziente nella sofferenza».