martedì 24 dicembre 2013

l’Unità 24.12.13
Lampedusa
Abraham e gli altri giovani prigionieri
«Noi, scampati al naufragio ora prigionieri a Lampedusa»
di Khalid Chaouki

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l’Unità 24.12.13
Tra i dannati di Ponte Galeria
Le bocche cucite ora sono 17: due espulsi
Fra ex detenuti in attesa di essere allontanati dall’Italia
e disperati che non hanno commesso alcun reato
di Stella Bianchi e Roberto Roscani

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 l’Unità 24.12.13
Porre rimedio alla vergogna dei Cie si può, ecco come
di Luigi Manconi

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l’Unità 24.12.13
Cuperlo scrive a Letta: «Rivedere la Bossi-Fini»

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il Fatto 24.12.13
Il racconto quotidiano dell’altra Lampedusa
di Maurizio Chierici


DIGNITÀ L’ultima protesta è di un onorevole che si imprigiona sotto le tende dei profughi dalla speranza delusa: “Lampedusa negazione della dignità”. Lampedusa vuol dire dolore, tragedia, assenza di chi dovrebbe essere presente. Ma anche palcoscenico illuminato come conviene alle visite dei politici che arrivano per convincere la signora sindaco a far parte della nuova squadra Pd. Isola con 6 mila persone, ombre nascoste fra notizie che fanno piangere. Per scoprire chi sono uno studente di Ragusa va a vivere con loro. Tesi che diventa un libro: “Cristo si è fermato a Lampedusa, Allah è solamente sbarcato”, Università di Parma, editore Battei: Fabio Manenti ragazzo che parla coi ragazzi. Da principio diffidano, straniero curioso fuori stagione. Raccontare abitudini ripetute che senso ha. Ma il tempo scioglie le parole e comincia la scoperta di un’isola misteriosa per modo di dire perché rimbalza come un tormento nelle pagine dei giornali. Raccontano di chi arriva, sfuocano chi non si muove. E paga le tasse (come non tutti gli italiani) per avere quasi niente. Quando la sera accende la luce sborsa 35 centesimi in più del resto d’Italia. Il vecchio generatore va a petrolio. Come l’acqua anche il petrolio attraversa il mare. Latte, frutta, zucchero, farina, perfino il pesce congelato nelle offerte speciali degli ipermercati dell’isola dei pescatori, non fa concorrenza ai prezzi normali del continente. E il lavoro? Coi vacanzieri d’estate, stagione benedetta. Scioglie la solitudine e aiuta chi ha bisogno dell’ospedale: apre l’ambulatorio dei turisti e finalmente i residenti in dialisi non prendono l’aereo per Catania. Viaggi complicati. Chi non ce la fa a pagare vende casa o si indebita fino ai capelli. Tutti nascono e muoiono negli ospedali della grande isola. Lampedusa non esiste nella carta d’identità: solo siciliani. Manenti ne scopre umanità e fantasie. Ogni sera struscio attorno a via Roma come vitelloni di Fellini. In automobile, però. A passo d’uomo, radio alle stelle, gomito fuori finestrino, occhi sulle ragazze. Si incontrano mille volte nello stesso fazzoletto e gli amori nascono complicati: mai il lampo di una faccia sconosciuta. Lo straniero diventa la novità che scalda i cuori. Carabinieri, marinai, militari arrivano da fuori e non ripartono per amore. Manenti condivide anche la noia. Adulti puntuali sulle panchine per ripetere ciò che hanno visto in Tv. L’affanno degli studenti nelle scuole sgretolate. Orari sparsi dal mattino alla sera dentro edifici mangiati dalla salsedine. C’è una squadra di calcio che gioca metà campionato, soprattutto partite in casa.
DIFFICILE arrivare in Sicilia con piccoli aerei dai prezzi proibiti per non parlare della felicità di quando lo stadio si trasforma in bocciodromo dal centrocampo all’area di rigore. E la cultura? “Le edicole vendono più ricambi per cellulari che giornali”, amarezza di Giovanni Fragapane autore di un libro Sellerio che racconta la storia dell’isola. “Non l’ha letto nessuno…”. Pittore, sindaco gramsciano, assessore alla cultura con l’orgoglio di aver convinto Arnaldo Pomodoro a esporre le sculture. Una è rimasta: monumento in piazza. Nessuna biblioteca fino a quando il sindaco Giusi Nico-lini lancia l’appello in internet. Lo riprende Fiorella Mannoia e arrivano libri da ogni parte d’Europa. Dove metterli? Ci stanno pensando tra una tragedia e l’ipocrisia di chi a Roma finge di non sapere. La pazienza dei ragazzi aspetta uno spazio dove crescere nel confronto delle idee. E per non sentirsi fuori dal mondo cercano nella rete la voce di compagni invisibili e lontani.

il Fatto 24.12.13
Centri di espulsione. Ecco chi ci guadagna
Nel 2012 Coop e consorzi hanno intascato 19 milioni di euro
Operative 6 strutture su 13
A Ponte Galeria protesta continua
di Silvia D’Onghia


Diciotto milioni seicento mila euro per il 2011. Altrettanti – si stima – per il 2012. Soltanto per la gestione dei servizi interni. Altri 26 milioni di euro l’anno per la sorveglianza. Quasi cento milioni in cinque anni per i rimpatri. La partita immigrazione è una macchina mangia-soldi statali. E se è vero che ormai, dei 13 Centri di identificazione ed espulsione, ne sono rimasti aperti soltanto 6, e neanche a pieno regime, è pur vero che in sette anni, tra il 2005 e il 2011, la cattiva gestione del fenomeno migratorio (Cie, Cara, Cpsa) potrebbe essere costata allo Stato quasi un miliardo di euro. Su questo ha inciso molto il prolungamento della detenzione, da 60 a 180 giorni, voluto da Maroni nel 2008. Con grande soddisfazione delle cooperative e dei consorzi che, negli anni, si sono aggiudicati gli appalti.
A fare i conti è stata l’associazione “Medici per i diritti umani” che quest’anno ha stilato un dettagliatissimo rapporto sui Cie italiani. Fino a due anni fa, il costo pro capite di ogni immigrato rinchiuso in un Centro poteva andare dai 75 euro al giorno di Modena ai 38 di Trapani. Differenze che, oltre a suscitare le naturali polemiche, hanno determinato un drammatico gioco al risparmio. Nel 2012, infatti, è stato stabilito che tutte le gare d’appalto indette dalle Prefetture sono al ribasso con una base d’asta di 30 euro a persona al giorno. Una cifra che certo non garantisce l’esecuzione di quei “servizi e forniture” richieste dal capitolato del Viminale: raccolta giornaliera della carta, disincrostazione quindicinale dei servizi igienici, rimozione settimanale macchie e impronte. Roba da hotel a cinque stelle. “Con quella cifra ci rimane solo la gabbia”, ha spiegato al Medu il direttore di un Centro.
BARI. Il Cie, aperto dal 2006, potrebbe ospitare fino a 196 uomini, ma la capienza, in seguito a una rivolta nell’agosto 2010, si è ridotta a 112 unità. È gestito dal consorzio Connecting People, che ha sede a Trapani e che gestiva, fino al novembre del 2012, anche il Centro di Gradisca d’Isonzo, a Gorizia, chiuso dopo mesi di rivolte e proteste da parte dei migranti che ne denunciavano le condizioni inumane di trattenimento. Durante la visita a Bari del luglio 2012, gli operatori di Medu non poterono visitare le aree di trattenimento proprio a causa del clima di tensione.
CALTANISSETTA. L’area in cui sorge il Cie, entrato in funzione nel 1998, ospita anche un Centro richiedenti asilo e un Centro di accoglienza. Ha una capienza massima di 96 posti e, dopo un lungo iter di ricorsi giudiziari, ha visto aggiudicataria dell’appalto la cooperativa Auxilium, che gestisce anche il Cie di Ponte Galeria, a Roma. Nel periodo 2008-2012, quando la gestione era ancora della coop Albatros 1973, il costo totale del centro polifunzionale è stato di oltre 19 milioni di euro.
MILANO. Il Centro di via Corelli è aperto dal 1999 ed è affidato alla Croce rossa italiana. Ha una capienza complessiva di 132 posti ed è l’unica struttura in cui è possibile trattenere stranieri transessuali. A causa della mancanza di una convenzione con la Asl, è praticamente impossibile inviare all’esterno persone che hanno bisogno di cure: all’inizio del 2013, una trans brasiliana con Hiv al terzo stadio non riusciva a ottenere una visita con un medico che le somministrasse la terapia antiretrovirale.
ROMA. Il Cie di Ponte Galeria, teatro delle bocche cucite degli ultimi giorni (ieri sono stati espulsi i due clandestini che hanno dato origine alla protesta), è il più grande d’Italia: può ospitare fino a 354 persone, tra uomini e donne. È gestito da Auxilium che, in fatto di accoglienza, pensa di poter dare lezione: a proposito della “disinfestazione” di Lampedusa, il fondatore Angelo Chio-razzo ha dichiarato: “Sono immagini raccapriccianti che mai avrei voluto vedere nel nostro Paese. Ci richiamano scenari del passato che hanno fatto rabbrividire il mondo”. Finora la coop ha intascato 40 euro al giorno a migrante.
TORINO. Il Cie, aperto nel 1999, sorge in un’area residenziale ed è gestito dalla Cri. Ha una capienza massima di 210 persone e costa al giorno 47 euro pro capite. Durante l’ispezione, Medu ha riscontrato che, su 120 stranieri, 40 erano sottoposti a terapia ansiolitica.
TRAPANI MILO. Inaugurato nel 2011, è il terzo Cie nel territorio di Trapani (gli altri sono chiusi). È gestito dal consorzio Oasi, lo stesso che si era aggiudicato Modena e Bologna (chiusi anch’essi), con un costo di 27 euro al giorno. Si sta talmente male che, durante le tre ore di visita degli operatori di Medu, si sono registrati ben 13 tentativi di fuga.

Corriere 24.12.13
Cibo, stipendi e affitti: i Centri ci costano 200 mila euro al giorno
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Ai pasti per ogni migrante ospitato nel Cie di Ponte Galeria, a Roma, sono destinati 5 euro. In altre strutture si riesce addirittura a spendere di meno. E tanto basta per comprendere quale sia la qualità del cibo servito. Si cerca di risparmiare, anche se questo non è sufficiente a far scendere i costi complessivi per il mantenimento di queste strutture, che rimangono comunque altissimi.
Per averne un’idea più precisa, bisogna analizzare i numeri contenuti nel prospetto della legge di Stabilità e così si scopre che «per l’attivazione, la locazione e la gestione dei Centri di identificazione ed espulsione sono stati stanziati circa 236 milioni di euro per il 2013 — con un incremento di 66 milioni rispetto al 2012 — e 220 milioni nel 2014». Mentre la relazione dell’associazione «A buon diritto» del senatore Luigi Manconi, sulla base dei dati del Viminale, ha stimato una spesa di circa 200mila euro al giorno ai quali bisogna aggiungere le spese per i rimpatri.
Sei strutture con 749 posti
Erano dodici i Cie attivati per poter ospitare 1.851 persone, ne sono rimasti aperti sei e soltanto due funzionano a pieno regime con una capienza effettiva che al 15 novembre scorso era di 749 posti. Entrano migranti nei centri di Bari, Caltanissetta, Milano, Roma, Torino e Trapani ma solo in Sicilia viene effettivamente rispettata la capacità prevista. I costi di gestione variano dai 60 euro giornalieri di Milano, dove la responsabilità è affidata alla Croce Rossa, ai 25 di Bari dove opera un’associazione umanitaria. A Roma c’è «Auxilium» alla quale sono destinati 41 euro quotidiani così suddivisi: 32 euro per gli stipendi, 3,5 vengono consegnati a ogni migrante per l’acquisto delle schede telefoniche o di generi di prima necessità, il resto è per il vitto.
Le condizioni di vita sono decisamente peggiori di quelle carcerarie perché chi si trova lì dentro non ha possibilità di svolgere alcuna attività. Non ci sono libri, tv o qualsiasi altro modo per far trascorrere la giornata. Non sono nemmeno previste forme di contatto con l’esterno. La convenzione non prevede neanche la mediazione linguistica durante i colloqui tra i migranti e gli avvocati. Le persone vegetano per settimane, addirittura mesi, in attesa che la diplomazia fornisca i loro dati esatti e consenta di identificarli per rispedirli a casa. Oppure, se la nazionalità o le generalità non sono certe, per consegnare loro il foglio di via e sperare che lascino l’Italia.
Gare d’appalto  per medici e vestiti
Secondo l’ultimo rapporto dell’«Associazione Lunaria», «tra dicembre 2008 e aprile 2013 il ministero dell’Interno ha pubblicato gare di appalto per un valore complessivo di 108 milioni». Gli esperti spiegano che «il prezzo dell’appalto viene calcolato sulla base di un canone annuo rapportato alla capienza teorica della struttura moltiplicato per tre annualità. Il calcolo così effettuato porta alla definizione del prezzo massimo per l’erogazione dei servizi richiesti e costituisce l’importo messo a base d’asta. Il pagamento del corrispettivo viene invece calcolato sulla base delle presenze effettive nei Centri. Se la differenza tra la capienza teorica e quella effettiva è inferiore al 10 per cento, il corrispettivo rimane invariato, se è inferiore del 50 per cento rispetto a quella teorica per più di 30 giorni consecutivi, l’ente gestore può richiedere la sospensione del contratto.
Nel 2005, durante un’audizione davanti al Comitato Schengen, il prefetto Anna Maria D’Ascenzo responsabile del Dipartimento Immigrazione, dichiarò: «È chiaro ed evidente che, quando parliamo di un costo di 60, 70 euro al giorno pro capite, nel costo non è compreso solo il vitto, l’alloggio e il vestiario che assicuriamo alle persone, ma anche il costo dei mediatori culturali, degli interpreti e dei medici. Comunque, esiste sicuramente una differenza fra il nord e il sud: perché il primo è più caro del secondo, anche in termini di costo delle persone».
Per ogni rimpatrio 5 biglietti
L’eventuale revisione della legge Bossi-Fini certamente dovrà tenere conto delle spese sostenute per riportare in patria i migranti irregolari che vengono identificati e nei confronti dei quali i Paesi di origine concedono il nulla osta al rientro. Tenendo conto che per ogni straniero riaccompagnato in patria bisogna prevedere l’acquisto di cinque biglietti aerei, visto che va scortato da almeno quattro poliziotti che devono essere particolarmente addestrati.
Dichiara Nicola Tanzi, segretario del Sindacato di polizia Sap: «La mancata chiarezza sulle regole di ingaggio e i tagli alle risorse sono alla base del fallimento dell’attuale situazione nei Cie, senza contare che fu un errore, cinque anni fa, introdurre il reato di clandestinità e aumentare i tempi di permanenza in queste strutture. Il disagio dei migranti non è inferiore a quello dei poliziotti che operano nei centri. Il problema principale è quello del loro status: non sono detenuti, ma neppure possono godere di uno stato di libertà piena. Sono “trattenuti” e non abbiamo regole di ingaggio adeguate. Pertanto le forze dell’ordine hanno poco spazio di manovra, non possono intervenire preventivamente, ma solo successivamente in caso di violenze e reati».

Corriere 24.12.13
«Nei Cie solo 2 mesi»
La modifica che rischia di dividere il governo
L’altolà di Lupi al Pd: ci sono idee diverse
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Un emendamento al decreto «svuotacarceri» che si trova già all’esame del Parlamento per la conversione in legge. Potrebbe essere questa la soluzione utilizzata per cambiare la legge e portare da diciotto a due mesi il tempo massimo di permanenza nei Centri di identificazione ed espulsione. La nuova norma per rendere più snelle le procedure di accertamento delle generalità dei migranti irregolari sarebbe così discussa direttamente dalle Camere e in questo modo si eviterebbe una spaccatura più che probabile all’interno del governo. A sostenerla è in prima linea il viceministro dell’Interno Filippo Bubbico e questa eventualità trova sostegno ampio all’interno del Pd, con la consapevolezza che anche Sel è favorevole alla chiusura totale delle strutture e dunque favorevole a votare la modifica immediata.
Ma le posizioni all’interno dell’esecutivo guidato da Enrico Letta rimangono distanti. Appena ieri il premier ha ribadito l’intenzione di «intervenire su alcuni aspetti della Bossi-Fini» e per la «revisione degli standard dei Cie e del sistema dell’accoglienza in genere». Oltre alle resistenze del ministro dell’Interno e vicepremier Angelino Alfano, ci sono quelle dei ministri del Nuovo centrodestra. Non a caso il titolare delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, risponde a distanza al segretario del Pd Matteo Renzi che ha più volte sollecitato i cambiamenti della Bossi-Fini e afferma: «Il governo Letta non è il governo del Pd e sul tema dell’immigrazione ci sono due concezioni diverse che si confrontano. Pensare che dal 2014 si aprano assolutamente le frontiere mi sembra che sia un errore. Noi nel contratto di programma che dovremo fare entro fine gennaio porteremo le nostre proposte e Letta dovrà fare una sintesi perché ricordo a Renzi che quello non è il governo del Pd, ma è il governo del Pd e del Ncd e di altri partiti che sono alternativi al Pd. E sull’immigrazione ci sono due concezioni che si confrontano».
Il problema è stato affrontato anche dal procuratore capo di Agrigento, Renato Di Natale, durante la conferenza stampa di fine anno: «Soltanto quest’anno abbiamo aperto circa 16 mila fascicoli di inchiesta per il reato di immigrazione clandestina. Non facciamo altro che rispettare la legge. Se un giorno questa legge non ci sarà più non procederemo più, ma in questo momento la legge ci impone di farlo».
Proprio ieri dal Cie di Ponte Galeria a Roma sono stati espulsi quattro migranti verso la Tunisia e il Marocco. Due dei 4 erano tra quelli che da due giorni si sono cuciti la bocca con ago e filo per protestare contro le condizioni di permanenza nella struttura. Al Cie la protesta non accenna a diminuire con altri immigrati che oggi hanno deciso di cucirsi le labbra. Secondo il garante dei detenuti del Lazio, sono 10 gli immigrati ad aver aderito alla protesta choc. E si aggiungono a quelli già in sciopero della fame.

il Fatto 24.12.13
Minori soli
Lamin e gli altri, data di scadenza: 18 anni
di Elisabetta Ambrosi


La porta si apre all’improvviso. Un ragazzino entra ridendo con un ombrello giallo aperto. “Khalid (nome di fantasia, ndr) lo sai che porta sfortuna! ” gli dicono ridendo le due operatrici. “Gli egiziani sono così”, mi spiega Teresa, che si occupa della loro formazione. “Fisici, giocherelloni. Quelli del Bangladesh più diplomatici e introversi” .
In questa grande struttura romana a due passi dalla Palmiro Togliatti, gestita da una ventina di operatori della cooperativa “Un sorriso”, vengono accolti circa 60 minori non accompagnati (500 in poco più di due anni). Sono quei bambini-ragazzi che arrivano senza nessuno: sono 5.556 in tutta Italia, soprattutto bengalesi ed egiziani, più 1418 irreperibili, somali, afghani, tunisini ed eritrei. Per lo più maschi, hanno dai 15 anni in su (ma ce ne sono di più piccoli, poi trasferiti nelle case famiglia) e arrivano soprattutto sui barconi: “Ti fanno vedere i filmini girati da lì, con i delfini che saltando li accompagnano”, racconta Sandra. “Chi viene dall’Africa centrale spesso ha visto i genitori trucidati e fugge per la guerra. Il senso di colpa non li abbandona, hanno paura dell’acqua e del buio, soffrono d’insonnia. “Una volta per sbaglio spensi la luce mentre giocavano a biliardino”, aggiunge Teresa, “scapparono terrorizzati”. Li vedi aggirarsi tra i corridoi spogli ma colorati, oppure nella sala mensa a mangiare nei polibox riscaldati, ciabatte e felpa e lo sguardo ancora infantile.
QUI IL NATALE è un grande buco vuoto. Non solo perché sono quasi tutti musulmani, ma perché la tristezza aumenta. E soprattutto si perde tempo prezioso su altri fronti. La burocrazia rallenta, mentre loro hanno fretta di prendere i diplomi per accedere alla formazione professionale o avere il rinnovo del permesso di soggiorno per maggiore età, prima che arrivi quella maledetta data che incute in tutti, operatori compresi, un’ansia palpabile: 18 anni, quando la protezione dello Stato finisce di colpo. Quello che colpisce, rispetto alle nostre case stracolme, è l’assenza di oggetti. Ma almeno nel centro minori hanno un kit con vestiti e lenzuola, il wi-fi, una scheda telefonica e un abbonamento dell’autobus (che il Comune, spesso debitore con le cooperative, neanche fornisce in forma agevolata). Qui vanno a scuola, qualcuno fa sport (calcio e touch rugby, grazie ad associazioni che li accolgono gratis), seguono terapie mediche (“Per Md”, si legge nella tabellina sul muro, “Levotuss Sciroppo, per Hassan aerosol”), vedono persino qualche film, “soprattutto storie d’amore travagliato”. E almeno, per quanto è possibile, è tutto sotto controllo, se i ragazzi tardano anche di dieci minuti partono i fax di mancato rientro, c’è un diario di bordo per ogni turno dove tutto viene annotato: “Mustafa disturba durante la lezione, Lamin lamenta alito cattivo…”.
Poi, a 18 anni e un giorno si viene dimessi. Destinazione? Nulla. Se non si ha una casa, e nessuno ce l’ha, mentre pochi riescono ad affittarla, si finisce nei centri adulti, dove c’è di tutto, dal barbone all’ubriaco, e ti rubano quello che hai. Sempre che ci sia posto, perché se durante l’emergenza freddo le brandine nei casermoni sono tutte occupate si rischia di finire per strada. “Immagina come mi sento quando un ragazzo che ho seguito mi chiama di notte e mi dice: ‘Teresa sono in strada, ho paura’. È accaduto anche che arrivassero pochi giorni dopo la dimissione, sporchi e affamati”. Ma l’aspetto peggiore riguarda il lavoro. “I corsi di formazione sono pochissimi. Noi cerchiamo di inserirli con le nostre conoscenze – sono orgogliosa di un senegalese che oggi lavora sulle autoambulanze – ma molti finiscono nello sfruttamento e nel caporalato”.
La porta si apre di nuovo. Le operatrici si illuminano. “Ciao, come stai! ”. Manik, zaino in spalla e sguardo furtivo, è un ragazzo che ha lasciato il centro. “Sono tornato solo per un saluto”. Poi si confonde, e, con uno strano lapsus, se ne va dicendo, invece di “Buon Natale”, “Buon compleanno”.

Repubblica 24.12.13
Tra i ragazzi con le bocche cucite “Vogliamo solo essere liberi ci sigilleremo anche le palpebre”
Viaggio nel Cie di Roma. Quattro espulsi dopo la protesta
di Attilio Bolzoni


ROMA IL FILO che gli serra le labbra è verde, come il colore del suo maglione. Un piccolo grumo di sangue si è già fatto crosta, sotto il suo naso. È mutilato e quasi muto. A ogni parola sente uno strappo, una fitta che gli arriva al cervello. Si chiama Tahari. Un suo amico ha usato lo spago giallo, un altro quello nero della coperta. Nella stanza delle bocche cucite me li ritrovo davanti tutti insieme i prigionieri di quest’Italia che li ha nascosti a un passo da noi. Lui, Tahari, l’altra sera ha preso un pezzo di ferro e l’ha affilato come si fa con i coltelli, poi ha cominciato a incidere su una parte e sull’altra delle sue labbra.
DOVE ha trovato la carne più molle ha cominciato a spingere, verso giù, sempre più giù. Un punto dopo l’altro, piano piano. Un buco piccolo, poi un buco un po’ più grande, poi più grande ancora. Fino a quando dalla sua bocca di sangue non n’è uscito più. Non ha gridato mai, non ha versato una sola lacrima di dolore. «Pensavo a mia madre mentre me la chiudevo», racconta mentre mi trascina nella camerata dove ci sono i suoi compagni, il blocco numero 12 dopo il varco G.
Spago verde, spago giallo, spago nero. Li ho tutti intorno questi «stranieri» con le labbra gonfie di rabbia che uno dopo l’altro mi ricordano dei loro figli e delle loro mogli, dei padri che hanno lasciato uno o dieci anni fa a Fes o a Gabes, di Lampedusa e del mare che si è ingoiato fratelli e sorelle. Un ragazzo mi dice del suo cane che da sette giorni — da quando l’hanno preso senza documenti all’Arco di Travertino — è abbandonato in giro per Roma, un altro della fidanzata che l’ha visto dal balcone con le uova in mano — al Prenestino — epoi non l’ha visto più perché i poliziotti l’hanno rinchiuso qui. Gli amici che si sono perduti, le paure che non finiscono mai.
Dimmi Thari, dimmi perché ti sei cucito la bocca? «Perché non ce la faccio più a stare qui, per tre volte ho fatto lo sciopero della fame e per tre volte è stato tutto inutile: voglio la libertà, voglio essere libero».
Un volto, uno sguardo, una parola, le labbra deturpate: provateci voi a dimenticare le facce che ho visto ieri mattina a Ponte Galeria, provateci voi a venire in questo recinto e a non vergognarvi di cosa siamo stiamo facendo a questi ragazzi che vengono dall’altra parte del mondo. Prego, accomodatevi in questo carcere che per pudore nessuno vuole chiamare carcere e dove uno di loro ha preso la molla dell’accendino e se l’è conficcata lì fra i denti e la lingua intrecciando la lana della sua felpa, l’altro che ha scelto un chiodo o una spilla per ferirsi, il gancetto di un quaderno, un fermaglio, una molletta. Venite a vederli, per favore. Bianchi. Neri. Metà bianchi e metà neri. Magrebini, bosniaci, georgiani, serbi, palestinesi, ucraini, tunisini, romeni, egiziani, marocchini, senegalesi.
Sono in piedi. O sulle brande. Sonosdraiati al sole fra sbarre e vetri blindati di una galera in mezzo alla campagna romana.
Chi sei tu? «Sono Tahari Said, sono nato il 2 marzo del 1988 a La Goulette che è il porto di Tunisi e stasera mi cucio anche le palpebre così i miei occhi non si apriranno più davanti a questo schifo». Thari è un mucchio d’ossa, gli vedo le scapole che sporgono dal maglione, ha due gambe che sembrano fil di ferro, trema di freddo e forse anche di paura, mi porta in un cortile per raccontarmi la sua storia che è quella dei suoi 83 compagni e compagne — 29 donne e 54 uomini — che oggi sono sequestrati in questa fortezza al quale hanno dato ilnome di Cie, centro di identificazione e di espulsione, pochi chilometri da una Roma che è «zona franca», non è Italia e non è Europa, è una sacca sprofondata nel niente, isolata dal filo spinato, cinquantadue militari che fanno la ronda fuori e tanti poliziotti che fanno la guardia dentro.
Sono entrato nella prigione di Ponte Galeria verso le 11 del mattino di ieri, giornata con il cielo azzurro d’inverno, il cancello che si apre, la funzionaria della questura di Roma che spiega, un bravo medico che spiega, il direttore dell’Auxilium (la cooperativa sociale che ha in appalto i servizi di ristorazione fisica e psicologica del Centro) che spiega, tutti che spiegano tutto ma che non possono spiegare niente di questo luogo che c’è e non c’è, che è illegale nella sua legalità, che è spietato nella sua umana quotidianità. È tutto pulito, ordinato, niente di fatiscente o di lercio come a Lampedusa quando ne arrivano duemila tutti in una volta sola con i barconi, tutto organizzato, sistemato, strutturato, la mensa, l’infermeria, la sala colloqui, gli addobbi natalizi, l’albero con le palle colorate. Una bellissima prigione.
Varco A, varco B, varco C, a destra le femmine e a sinistra i maschi, un corridoio, un altro corridoio ed ecco le sbarre, le inferriate, i vetri blindati dei varchi G e H ed eccoli lì ragazzi tunisini e marocchini che si sono cuciti la bocca. A mezzogiorno sono 17 quelli che non possono aprire le labbra. All’una, quattro li portano via, espulsi e rimpatriati per legge e punizione. Dove? «Noi non lo sappiamo», mi risponde Mohamed Rmdida, tunisino di Sfax, l’imam, quello che secondo alcuni avrebbe fomentato la rivolta a Ponte Galeria. Ha indosso la sua lunga tunica e le sue labbra sono chiuse. Non parla, tira fuori una lettera: «Io sono vero e non deleqnuente. Oh fatto mia carcerazione due anni e 6 mese e dopo bortato me qui. Io mandato vaglia mio paize 20 agosto 2013 e ancquora non partito. Voglio torna indietro mia vaglia».
Siamo nella camerata numero 12, quella delle bocche cucite. Otto letti. Due vetri rotti e coperti dal cartone, un pezzo di pane su una branda, tre rotoli di carta igienica su un’altra, dentifrici, spazzolini, brioche, saponi, fazzolettini di carta, tre corani, un pacchetto di sigarette, quattro asciugamani stesi, un paio di mutande a righe, calze, pantofole, un giubbotto azzurro con la scritta Nsk, pantaloni di lana grezza che si asciugano al vento. È partita da questa camerata l’insurrezione di Ponte Galeria, mutilazioni e sciopero della fame, spago verde, spago giallo, spago nero. Sul muro dello stanzone una scritta in malfermo italiano. «Amo mie mamma». Sul muro fuori il volto di un uomo con baffi e occhiali a lenti spesse, un’altra scritta. «Comandante pericoloso». Ieri, 23 dicembre 2013, meno del quaranta per cento dei disperati rinchiusi nel Centro di identificazione di espulsione di Roma sono incensurati. «Di solito sono anche l’ottanta per cento i pregiudicati ma io li devo curare e non voglio sapere perché erano finiti in carcere», ci dice Maurizio Lo Piccolo, il dottore che ha in cura i disperati che passano da questa fortezza che è tra la capitale e l’aeroporto di Fiumicino, megasale cinematografiche e la caserma del reparto mobile della polizia di Stato. Il mare è lì ma è lontano. Non arriva neanche il suo profumo. Ci sono solo torrette, soldati, uomini in divisa, garitte. E quattro deputi del Pd — Pina Picierno, Emanuele Fiano, Micaela Campana, Stella Bianchi — che chiedono di vedere quello che nessuno vuole vedere in un’Italia che si volta sempre dall’altra parte.
Come ti chiami, perché ti sei cucito la bocca? «Mi chiamo Menu Rmari, ho 38 anni, sono bosniaco e sono chiuso qui dal 1 settembre e nessuno mi dice niente». Spago giallo. Come ti chiami? «Mohamedh Armah, 26 anni, sono di Sfax, ho tre figli nati in Italia e non vogliono che siano italiani». Spago nero. Come ti chiami? «Sono Youssef El Raah, ho 31 anni, sono palestinese e sono in Italia da 11 anni ma mi dicono che non posso lavorare perché non ho il permesso, non ho il permesso perché non ho i documenti». Spago verde.
Tutti con il loro chiodo e con il loro ferro, ago e filo per non parlare più. Poi ci sono gli altri con la testa fasciata da una benda bianca. Come Ben Nayr, il marocchino che il 3 ottobre si è salvato fra i gorghi del-l’Isola dei Conigli mentre altri 366 affogavano a un miglio dalla costa. Ben ha sbattuto la sua testa con il muro fino a farsi sanguinare. Dietro di lui gli altri, quelli che stanotte hanno promesso di cucirsi gli occhi.

Repubblica 24.12.13
La denuncia di un operatore della Comunità di Sant’Egidio che lavora nel centro:
“Il giro gestito da dipendenti della struttura con la complicità di alcuni migranti”
“Costrette a prostituirsi per cinque euro”, allarme a Mineo
di Alessandra Ziniti


MINEO — Cinque euro le somale, dieci le eritree, tredici le nigeriane. Il tariffario della prostituzione gira di bocca in bocca al centro richiedenti asilo, al bar, in mensa, negli uffici. Insieme alla “classifica” delle ragazze, giovani, giovanissime, molte anche minorenni.
«Lo sanno tutti, compresi i mediatori culturali e la direzione, si girano dall’altra parte e fanno finta di non vedere. Qui dentro c’è un giro di prostituzione spaventoso e gli operatori del Cara sono i primi a “beneficiarne” in tutti i sensi. Dentro e fuori, perché oltre che nelle stanze del villaggio, poi molte ragazze le vediamo ferme in attesa di clienti in strada, sulla Catania-Gela, a poche centinaia di metri dal centro. È davvero una vergogna che queste ragazze vengano sfruttate, umiliate per pochi spiccioli e nessuno faccia niente».
Chi parla è uno degli operatori della Comunità di Sant’Egidio che al Cara di Mineo (4000 ospiti gestiti dal Consorzio calatino Terre di Accoglienza) lavora ormai da tempo, che con quelle ragazze (anche loro come tutti gli altri costrette a rimanere al centro per mesi e mesi in attesa dell’esito dell’istruttoria sulla richiesta di asilo) cerca di costruire un percorso di integrazione. «Noi di Sant’Egidio siamo dentro al fianco di questi migranti e li ospitiamo anche fuori nelle nostre sedi. Adesso stiamo preparando per loro il pranzo di Natale, sempre che non le facciano lavorare anche quel giorno...».
Raccontano che al Villaggio degli Aranci, nelle 400 villette a schiera di prefabbricato, ormai le ragazze “lavorino” ad ogni ora, incuranti di tutto, probabilmente costrette da una mini-organizzazione “mista”, formata da migranti delle etnie più violente, Mali, Ghana, Nigeria e da alcuni spregiudicati tra i circa 600 operatori del Cara. «È imbarazzante — racconta l’esponente di Sant’Egidio — per onesti padri di famiglia o per studenti universitari che vengono qui a lavorare vedersi quotidianamente “offrire” delle ragazze per pochi euro. E ancor di più ascoltare in diretta, attraverso le pareti di cartongesso dei prefabbricati, i rumori degli incontri. Ed è umiliante ascoltare al bar o in mensa le “imprese” di chi è appena andato con una o con l’altra, sempre più spesso ragazzine anche di 15 o 16 anni».
Già l’anno scorso, la Procura di Caltagirone aveva aperto un’inchiesta su un giro di prostituzione all’interno del Cara di Mineo dove, per altro, continuano ad avvenire un numero spropositato di aborti. «Ma nell’ultimo mese — dice l’operatore — questo orribile “mercato” di donne sembra essersi moltiplicato. E tra i miei “colleghi” c’è persino chi pretende da queste ragazze delle prestazioni sessuali gratis in cambio di unlavoro ad ore come domestica procuratole fuori da parenti o amici. D’altra parte, ormai da tempo il livello socio-culturale di chi lavora al centro ha raggiunto i suoi livelli minimi. I posti di lavoro al Cara sono diventati merce di scambio politica e si fanno contratti anche per sole 14 ore, con il risultato che qui entra anche chi non ha alcuna preparazione per assistere i richiedenti asilo ».
Prostituzione ma non solo. Perché al Villaggio degli Aranci ci sarebbe anche chi lucra affittando stanze a migranti che non avrebbero diritto a starvi o a chi ha già ricevuto lo status di rifugiato e non ha dove andare. «Qui vige la legge del più forte. Tra i richiedenti asilo c’è chi, con la violenza, è in grado di dire ad un altro ospite: “Questa stanza mi serve, vai a cercarti un altro posto dove dormire”».
(ha collaborato Giorgia Mosca)

l’Unità 24.12.13
Pippo Civati
«Svolta? Solo mediazioni e soluzioni al ribasso»
«Su tutte le riforme promesse da Letta non siamo neanche a metà strada
Sul lavoro Renzi stia attento a non creare troppe aspettative»
intervista di V. Fru.

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il Fatto 24.12.13
“Non c’è un piano sul lavoro”. Ma Renzi perde pezzi
Maria Grazia Gatti lascia il ruolo di capogruppo in Commissioe al Senato
“Preferisco le mani libere per lavorare in minoranza”
di Wanda Marra


“Non sono d’accordo con la proposta politica di Renzi. Non condivido la genericità delle posizioni sul lavoro”. Con queste parole Maria Grazia Gatti, senatrice Pd, provenienza Cgil, annuncia le sue dimissioni da capogruppo della commissione Lavoro a Palazzo Madama. I mugugni, i paletti, l’opposizione annunciate rispetto all’annunciata rivoluzione del mondo del lavoro da parte del segretario in questi giorni sono stati molti. Per ora però solo nell’ambito delle dichiarazioni di guerra: quello della Gatti è il primo gesto formale. D’altra parte un Job act ancora non esiste, almeno non in forma definitiva. Sono giorni però che circolano bozze e indiscrezioni che agitano le acque democratiche. Il tema è sensibile e affrontarlo può provocare conseguenze non calcolabili.
AD OGGI LE LINEE guida note sono sussidio di disoccupazione per tutti, legge sulla rappresentanza sindacale, centri per l’impiego e soprattutto un contratto unico. Ovvero, nelle intenzioni di Renzi, un contratto per i neo assunti con tutele crescenti, e flessibilità in uscita. Così la spiegava domenica sera da Fazio: “Fatto un periodo di prova, hai un contratto di lavoro a tempo indeterminato, quindi hai flessibilità in entrata. Ma ci vuole maggior flessibilità anche in uscita, nel caso un’azienda sia in difficoltà. Lo Stato però deve farsi carico della situazione, con un sussidio di disoccupazione per due anni”. Formulazione sufficientemente generica per permettere al segretario e a chi sta scrivendo il piano (Filippo Taddei, responsabile Economia del Pd, Marianna Madia, responsabile Lavoro e il consigliere economico, Yoram Gutgeld) di trattare dentro il partito e di capire fino a che punto si può andare allo scontro con la Cgil. Tra l’altro lo stesso Enrico Letta ha in mente un suo piano per il lavoro, e su questioni come contratto unico e indennità di disoccupazione per tutti ha idee non coincidenti con quella di Renzi. E l’idea di un contratto senza articolo 18 fa alzare barricate universali. “È solo creando lavoro che si rimettono in moto domanda interna, produzione e crescita”, spiega la Gatti. La quale poi chiarisce: “Renzi ha stravinto. Ed è giusto che chi ha vinto governi”. Perché, “il mio è un ruolo non tecnico, ma politico, e preferisco avere le mani libere per lavorare in minoranza”. Una tesi interessante, visto che a Montecitorio per esempio c’è un capogruppo Roberto Speranza, bersaniano doc, che alle dimissioni non sembra pensare affatto.
Sul tema all’ordine del giorno, il lavoro, una proposta però ancora non c’è. E soprattutto non è chiaro dove si possono prendere i soldi. Chi pagherà le politiche attive del lavoro? Risponde Gutgeld: “Le aziende già pagano molto per coprire Aspi e Cig”. Ma qui si parla di sussidio di disoccupazione per tutti. “Dobbiamo fare i conti”. La Madia taglia corto: “Non parlo di lavoro. Un piano ancora non c’è”. Lo stesso Renzi ha notevolmente aggiustato il tiro rispetto alle dichiarazioni di rottura della campagna congressuale, in cui invitava a non considerare un tabù l’articolo 18. In occasione della presentazione del libro di Vespa: “Non ci sto a star dietro al totem ideologico dell’articolo 18”. Ha chiaro che se si parte da qui non si arriva lontano. Matteo Orfini, il leader dei Giovani Turchi, ha già pronto una sorta di contro Job Act, al quale stanno lavorando le parlamentari Valentina Paris e Chiara Gribaudo. “Servono investimenti per creare lavoro nei settori a più alto tasso di occupazione: ricerca, turismo, cultura. Poi la messa in sicurezza del territorio, il welfare sociale”. Chi paga tutto questo? “O il Pil senza sforare il 3 per cento si fissa un po’ sopra il 2,5 oppure si agisce sulla leva fiscale, facendo pagare chi ha di più”. Orfini ha aperto una linea di dialogo con lo stesso Renzi e con Gutgeld, per provare a contribuire dall’interno, perché “il Pd è di tutti”. Bisognerà vedere quanto la mediazione è possibile.

Repubblica 24.12.13
La lezione europea in vista del Job Act di Renzi
Incentivi a chi assume e flessibilità ma in Grecia, Spagna e Portogallo le riforme non hanno creato posti
di Ettore Livini


MILANO — Lacrime e sangue tanti. Risultati sul fronte dell’occupazione – almeno finora – pochi. E arrivati con il contagocce solo negli ultimi mesi. La crisi dei debiti sovrani e il pressing della Troika hanno costretto negli ultimi quattro anni Spagna, Portogallo e Grecia a mettere mano con riforme radicali al mercato del lavoro. Ognuno ha applicato la sua ricetta, rivista e corretta con la matita rossa da Ue, Bce e Fmi in cambio degli aiuti. Gli ingredienti però sono stati simili: lotta al precariato, licenziamenti più flessibili e meno costosi più incentivi alle assunzioni. E il risultato è stato al momento uguale per tutti: un netto calo del costo del lavoro unitario ma pochi nuovi posti. Proprio per questo, le gioie (a oggi scarse) e i dolori (molti) dei cugini del “Club Med” passati da queste riforme sono un base utile per ragionare su cosa è meglio fare o non fare qui da noi.
SPAGNA Il primo a fare il tagliando almercato del lavoro dopo lo scoppio della bolla del mattone, è stato l’ex premier socialista Jose Luis Zapatero congelando gli stipendi pubblici. Le vera rivoluzione però – in un paese dove non esiste l’Articolo 18 – è arrivata con lo sbarco alla Moncloa del Partito Popolare. Mariano Rajoy ha rimesso mano ai cardini del sistema. Ha reso più facili i licenziamenti abbassando gli indennizzi da 45 a 33 giorni per anno lavorato per quelli senza giusta causa e da 30 a 20, per un massimo di 12 mesi, per gli altri. E ha concesso ai gruppi in crisi di varare intese aziendali “al ribasso” rispetto ai contratti nazionali. Madrid si è mossa pure contro il precariato: il tetto dei contratti atipici è stato tagliato da 36 a 24 mesi e il numero delle lorofattispecie sforbiciato da 41 a cinque. Le imprese ricevono 3mila euro di aiuti l’anno per assunzioni a tempo indeterminato, cifra che sale a 3.500 per gli under 30 e a 4.500 per gli over 45.
Quali risultati hanno dato questi interventi? L’Ocse li celebra entusiasta: «Hanno fatto aumentare del 30% i nuovi posti fissi e dato lavoro a 25mila persone al mese ». Peccato che la disoccupazione – al 7,6% nel 2007 – viaggi ancora al 27% (quella giovanile è al 57%) malgrado un calo di 12 punti del costo del lavoro dal 2009.
PORTOGALLO Lisbona – anche lei sotto l’occhio vigile della Troika – ha clonato con qualche piccola variazione il modello iberico. L’indennizzo per i licenziamenti è stato ridottoda 30 a 20 giorni per anno lavorato con un tetto di 12 mesi di buonuscita. I costi degli straordinari sono stati dimezzati e dalle normative nazionali è sparita la pausa di 15 minuti obbligatoria per ogni ora di extra-time. Alle aziende sono state concesse fino a 150 ore all’anno di straordinari in caso di picchi d’attività e dal calendario sono spariti tre dei 25 giornidi festa comandata previsti nel paese. La durata del sussidio di disoccupazione è stata ridotta da 36 a 28 mesi senza lifting eccessivi alla contrattualistica per gli ingressi. Anche in Portogallo i risultati della riforma sono in chiaroscuro. Il costo del lavoro è calato di cinque punti dal 2009, il pil ha ripreso a salire (+1,1% già dal secondo trimestre). La disoccupazione (al 7,3% a inizio crisi) resta nella stratosfera anche se dal 17,7% di luglio siamo scesi a ottobre al 15,6%.
GRECIA La riforma del mercato del lavoro di Atene ha avuto – causa la gravita della crisi greca –un percorso molto più elementare e brutale. La prima ricetta sono stati i tagli agli stipendi. Dal 2008 ad oggi, calcola l’istituto di statistica, quelli pubblici sono calati del 34% e quelli privati del 27%. Una ferita dolorosa visto che nello stesso periodo lo stato ha tagliato del 26% le tutele del welfare. Lo stipendio minimo è stato ridotto a 490 euro. Non solo. Chi assume un giovane tra i 18 e i 25 anni può pagarlo il 25% in meno di questa cifra, mentre per chi dà un lavoro a tempo indeterminato è autorizzato a garantire un salario ridotto del 20% rispetto a quello previsto dai contratti nazionali.
Il governo di unità nazionale ha eliminato la quattordicesima, ridimensionato le tredicesime e sforbiciato i vari premi e bonus (tipo 6 giorni di ferie per chi donava sangue) un po’ anacronistici. Difficile sostenere che questa cura lacrime e sangue abbia per ora funzionato. Il reddito disponibile delle famiglie elleniche è calato del 40% e malgrado il crollo di 32 punti del costo del lavoro, la disoccupazione resta ai livelli massimi: 27,6%, con un sconfortante 55,1% tra gli under 25.

il Fatto 24.12.13
Cesare Damiano. Già ministro Pd
“Otto euro l’ora? Farinetti sbaglia. Senza contratti stabili non si va da nessuna parte”
di Carlo Di Foggia


"Lei mi chiede di Farinetti, io le dico che il suo non mi sembra proprio un modello”. Ministro del Lavoro con Prodi, ora presidente della commissione Lavoro della Camera, da ex sindacalista Cgil, Cesare Damiano è abituato alla concretezza. Non sembra essergli piaciuta molto la difesa che il patron di Eataly, Oscar Farinetti, ha fatto del suo modello, dopo l’inchiesta pubblicata dal Fatto sulle condizioni di lavoro dei precari del gruppo torinese del cibo di qualità.
Andiamo sul concreto. 8 euro l’ora le sembrano giusti come dice Farinetti?
(Damiano parte con un calcolo complicato “8 euro l'ora, per 40 ore settimanali, cioè 173 mensili, fanno 1.383 euro lordi al mese”).
Quindi, sono tanti o pochi?
Le dico questo: in Germania la Cdu di Angela Merkel e la Spd si accordano sulla base di un minimo salariale di 8,50 euro l’ora. Il minimo. I salari contrattuali sono ovviamente più alti.
Quindi sono pochi?
Prendo atto che da noi si parla di 8 euro l’ora, cifra più bassa del minimo di legge in altri paesi. Con questi numeri certo non si può andare avanti all’infinito.
Per capirci, si può mettere su famiglia con 800-1.000 euro netti al mese?
No. È questo il punto. Questi sono salari che potrebbero andare bene per chi è all’inizio, non ci si costruisce certo un futuro. Va bene per i giovani, per un periodo di prova, poi bisogna stabilizzare.
Quanto dovrebbe durare questo periodo?
Dobbiamo prendere atto che oggi i giovani hanno percorsi di prova lunghi, più lunghi di quelli delle generazioni che gli hanno preceduti. Ma c’è un limite. Se il lavoro non è stabile non si va da nessuna parte.
Stabile significa con tutte le tutele. Farinetti sì è detto critico sull’articolo 18
Mi sembra che lui lo voglia abolire. Invece deve restare.
Anche sul “lavoro garantito a chi non ha voglia di lavorare”?
Mi sembra il classico vecchio tentativo di contrapporre garantiti e non garantiti.
La realtà però sembra questa
Io resto a quello che ha detto Renzi nell’incontro con il segretario della Fiom, Maurizio Landini: le tutele non vanno tolte a chi ce le ha, vanno date a chi ora non le ha. Non bisogna creare due mondi paralleli.
Nel job act si parla di contratto unico di inserimento per tre anni, a tempo indeterminato ma senza articolo 18
Senza articolo 18 non è un contratto a tempo indeterminato. Stabilità significa tutele. Allo stato non esiste un “Job act”, solo indiscrezioni. Ma non mi trovano contrario.
Via l’articolo 18 per i primi tre anni?
Per poi stabilizzare il lavoratore. Guardi che è la stessa proposta che il Pd ha presentato la scorsa legislatura.
Non si rischia di andare allo scontro con la Cgil?
Se ne discuterà con le parti sociali. Ma il Pd ha la sua indipendenza.
Il sindacato è un “impedimento”, come dice Farinetti?
Le parti sociali sono una risorsa, non un ostacolo.
Vanno bene cosi come sono?
C’è una crisi di rappresentanza, impossibile negarlo.
Si parla di modello Ichino.
Sarebbe grave. Ichino vuole togliere l’articolo 18 anche dopo i tre anni, e che il lavoratore possa essere licenziato sempre, con un indennizzo. Il compromesso raggiunto sotto Monti è il limite massimo.
Renzi da Fabio Fazio ha detto che sul licenziamento per motivi economici poi si vedrà
Su questo non vedo nel partito margini di discussione.

l’Unità 24.12.13
Affitti, il governo promette correzioni
Ostruzionismo M5S
Il 27 voto finale al decreto salva-Roma.
444 milioni di euro spesi dalla Camera in 18 anni di affitti per gli uffici di deputati e senatori
Tra i beneficiari di tanto scialo la srl Milano 90 dell’immobiliarista Sergio Scarpellini
Lo Stato paga ogni anno 12 miliardi in affitti a fronte di migliaia di immobili di proprietà che restano invece sfitti
di Claudia Fusani

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il Fatto 24.12.13
Parla l’”affittaCamere”: “Ho dato soldi a tutti”
Intervista a Sergio Scarpellini, il proprietario dei palazzi della politica che costano allo Stato 48 milioni l’anno
“Durante la campagna elettorale vengono tutti qui: bianchi, rossi e verdi. E un contributo lo diamo sempre: gli imprenditori fanno così”
Un uomo davvero prezioso, visto che la norma taglia-canone non si riesce mai ad approvare
Affitti d’oro? La Camera da me poteva comprare
di Carlo Tecce


DAL COMUNE DI ROMA AL TAR: 48 MILIONI L’ANNO
La società Milano ‘90 di Scarpellini ha stipulato contratti con Montecitorio dal ‘97: ora restano tre palazzi, da piazza San Silvestro a via del Tritone. Milano ‘90 fornisce anche i servizi interni

"Io facevo il fornaretto. Me so’ comprato un piccolo immobile, poi l’ho venduto, poi un altro e un altro ancora. E so’ diventato Sergio Scarpellini. C’ho 76 anni e mi sveglio presto, mai dopo le cinque. Ho coccolato la politica: bei posti, ristrutturati, pulitissimi, pregiati e ora mi sbattono sui giornali”.
Dal lontano ’97, senza un bando pubblico, il romano Scarpellini ospita la politica: uffici per la Camera, un tempo per il Senato, e il Tribunale amministrativo regionale (Tar) e pure il Comune. La cifra, esatta, fa 48 milioni di euro l’anno, compresi i dipendenti che ci lavorano e sempre Scarpellini retribuisce. Montecitorio spende 30,5 milioni di euro a ogni bilancio, i contratti d’affitto non sono unici: tre per i tre palazzi Marini, scadenze dal 2016 al 2018. Il Movimento Cinque Stelle ha tentato di eliminare il rapporto inossidabile con Scarpellini, poi un emendamento del Partito democratico ha rimesso le clausole e poi ancora un cambio. Le interpretazioni sono varie, però “er fornaretto” non è preoccupato.
Scarpellini, la Camera vi lascia.
La rescissione con un mese di preavviso è contro la legge, contro la Costituzione e contro le regole. Se mi assumono il personale, cinquecento dipendenti, me ne vado subito. Io sono pentito, non lo farei più. Ho buttato una balena di soldi, perché non lo dicono questi politici?
Perché?
Non hanno coraggio.
Ha finanziato partiti di destra e sinistra, circa 650.000 euro negli ultimi tredici anni, li considera irriconoscenti?
Io non mi aspettavo nulla. Che farebbe al posto mio? Durante la campagna elettorale vengono qui bianchi, rossi e verdi e noi un contributo lo diamo sempre. A tutti. Gli imprenditori romani fanno così.
Come mai?
Un’abitudine. Non lo facciamo mica per piacere...
Come finirà?
Io rispetto i termini previsti dai contratti, mi riprendo i palazzi e ci faccio alberghi di lusso, però devo sbattere in mezzo a una strada più di 500 ragazzi.
La Camera poteva comprare questi palazzi?
Se volevano con questo denaro che mi hanno dato, circa 369 milioni di euro per le locazioni (più i servizi si supera il mezzo miliardo, ndr), un paio li potevano acquistare. Avevano una opzione, perché non l’hanno sfruttata? Se mi chiamano, vendo di corsa. Anzi, ci metto pure un fiocco su, però si devono prendere il personale. Per me questa storia è diventata una rogna. E la Camera ci risparmia.
Addirittura?
Sì, un commesso di Montecitorio costa più di 75.000 euro lordi! E poi i deputati non vogliono ricevere amici e colleghi ai semafori. Vogliono una scrivania, un ingresso, un salotto e noi li abbiamo accontentati. Pure la mensa è nostra! Ma basta infamie, querelo quelli che dicono stronzate.
Perché non s’è fatta una regolare gara d’appalto?
Non potevano. I palazzi vicini erano i miei, potevano venire soltanto da me.
La politica la fa arrabbiare.
Non può sapere quanto. Io non faccio politica, conosco tutti, destra e sinistra. Ho 76 anni, troppo tardi per scendere in campo. Non ho mai ricevuto qualcosa di buono.
Il piano regolatore di Alemanno l’ha trovato conveniente, no?
Per la Romanina, dice? Bè, quando il pubblico è squattrinato chiede soccorso al privato. È vero che Alemanno ha aumentato i metri cubi per costruire, ma io dovrò spendere 364 milioni per fare le fogne e la metro.
Vota a sinistra?
Mah. Forse dicono che sono di sinistra perché il Partito democratico mi paga l’affitto per la sede nazionale.
Non era dei monaci scolopi?
Sì, però i preti si fidano di me e mi fanno gestire il Nazareno. Ha visto che bella sala stampa ho creato per il Pd?
Insomma, dove si posiziona Scarpellini?
Io non sono né di sinistra né di centro o di destra, sono di tutti. Tifo per la Roma e vado a vedere pure la Lazio. Sono un imprenditore da larghe intese. Ma ricordi: chi lavora seriamente fa i soldi, io non conto sui politici. Se mi chiedono un aiuto, li aiuto, però loro non fanno nulla per me.
Ci va a Montecitorio?
Non più. Mi hanno descritto come un mostro, un orco. Mi guardano come se fossi un ladro. Quelli che sparano cazzate, se potessi, li acchiapperei e li ammazzerei.
Buone feste, comunque.

Repubblica 24.12.13
Il personaggio
L’immobiliarista attacca: se rescindono gli affitti 500 persone vanno a casa
Scarpellini e quei 444 milioni “Dopo le tasse resta mica tanto”
di Tommaso Ciriaco


ROMA — È al centro di una battaglia parlamentare spaventosa, Sergio Scarpellini. Affittando palazzi alla Camera, l’imprenditore ha incassato 444 milioni di euro in diciassette anni. E mentre le opposizioni denunciano i favori ai “palazzinari”, dalla maggioranza spuntano emendamenti che “proteggono” i contratti d’affitto. La linea dell’imprenditore è chiara: «Tutte stronzate».
Dottore, è seduto su una polveriera. Quanti attacchi, in queste ore.
«Tutte stronzate».
Scusi, ma nelle Aule parlamentari è in corso da giorni un furioso braccio di ferro attorno all’affitto dei suoi palazzi. E il cinquestelle Riccardo Fraccaro sostiene che lei, in un video, avrebbe detto di aver distribuito risorse a tutti i partiti.
«Tutte stronzate».
Proviamo a fare un passo in avanti. Cosa c’è di inesatto nelle accuse che le vengono mosse?
«Ma no, guardi, la politica...»
Dica.
«Tutte chiacchiere. La politica è fatta di chiacchiere».
La Camera potrebbe rescindere i contratti di affitto. Non sarebbe una bella notizia, per lei.
«Peccato che se rescindono gli affitti rischiano di andare a casa cinquecento dipendenti. A meno che non li assume la Camera».
Cioè, cinquecento persone lavorano in quei palazzi? Non si tratta di personale della Camera?
«Quelli sono altri».
L’attuale norma non permette di rescindere i contratti degli edifici controllati dai fondi d’investimento. I suoi edifici, per esempio. Ma le opposizioni chiedono di cancellare la norma. Possono farlo?
«Mah, secondo me non... Guardi, in questo momento si può fare tutto, vale tutto. E poi, senta, io adesso voglio passare il Natale tranquillo. Mi dispiace solo per la gente che lavora».
Capisco. Intanto il Movimento Cinque stelle non sembra darle tregua. È infastidito,ha qualche problema con loro?
«Con loro non ho nessun problema. Fanno tutto questo per uno scopo politico. Pensi che mi hanno anche chiamato per chiedermi di altri edifici e ho risposto: “Rivolgetevi al catasto”».
Il primo contratto d’affitto dei suoi palazzi fu firmato quando Luciano Violante era Presidente della Camera. Siete in buoni rapporti?
«Ma no. Scusi, ma che c’entra? Voglio dirle una cosa: la politica fa schifo».
Farà anche schifo, dottore. Ma dal 1997 ad oggi lei ha guadagnato 444 milioni di euro, affittando palazzi alla Camera.
«Ma lasci perdere... Bisognerebbe saperli fare, i conti».
Scusi, 26 milioni di euro all’anno per 17 anni porta più o meno a quella cifra. O no?
«Allora, innanzitutto deve levare l’Iva da quella cifra: sono tanti milioni. Poi deve togliere il 50% di tasse. E poi ci sono gli interessi bancari. Le ripeto, i conti bisogna saperli fare».
Non è che la cifra che resta sia così insignificante. Vedremo come andrà a finire, dottore.
«Ora le auguro un felice Natale ».

La Stampa 24.12.13
Salva-Roma, scontro sugli affitti d’oro
Il M5S: ostruzionismo se non salta la norma che vieta allo Stato di recedere dai contratti troppo onerosi
di Roberto Giovannini

qui

Repubblica 24.12.13
La fine del ventennio
di Piero Ignazi


Non basta la decadenza di Berlusconi a segnare la fine del ventennio post 1994. È tutta la classe politica emersa nella cosiddetta seconda Repubblica che, volente o nolente, passa la mano. Alla fine, seguendo il gioco eterno dei ricambi generazionali, da sempre intessuti di tradimenti e ingratitudini, i padri sono stati uccisi. Sia a destra che sinistra. A partire da Silvio Berlusconi e Romano Prodi, seppure per ragioni e con modalità completamente diverse.
Su Prodi si sono riversate misere ripicche, lontane o di un giorno, quando è stato impallinato dai 101 grandi elettori/traditori. La rapidità con cui Matteo Renzi sentenziò che la candidatura di Prodi non «esisteva più», non esprimeva solo una presa d’atto, rapida come lo sono sempre le reazioni politiche del sindaco di Firenze: faceva trasparire anche una certa fretta di archiviare una figura ingombrante della storia del Pd.
Negli ultimi tempi pazienti tessitori hanno cercato una ricucitura, ma il Professore rimane defilato: non ha rinnovato la tessera e, coerentemente, ha rifiutato di entrare in direzione come membro di diritto.
Berlusconi, invece, tenta di occupare ancora la scena, grazie alle sue risorse mediatiche e finanziarie. Ma è un’anatra zoppa. Prima ha chinato il capo di fronte ai rivoltosi di Angelino Alfano nel voto di fiducia al governo, l’ottobre scorso, poi ha subìto (o assecondato) la scissione. Anche se resta da stabilire chi abbia davvero voluto la rottura, il punto è che Berlusconi non è stato in grado di governare le tensioni interne. Mentre tre anni favolevadisfarsi di Gianfranco Fini perché era un competitore insidioso, e si sentiva in grado di gestire la rottura, ora ha dovuto inseguire gli avvenimenti, cedendo volta a volta pezzi della sua autorevolezza. Si è dovuto rifugiare nel ridotto della nostalgia aziendale, di una Forza Italia rimessa nelle mani (anch’esse ormai stanche) dei suoi fidati manager. Il Cavaliere cerca ancora di dirigere il partito ma le rivalità, gli appetiti e le gelosie interne lo debordano. Ora, come ha dichiarato, gli tolgono il sonno. Il suo comando non ha più il tocco imperioso del leader indiscusso. Più che la decadenza da senatore, è la decadenza politica all’interno del suo mondo che segna la fine di una epoca.
L’eclisse dei due contendenti per la premiership dell’ultimo ventennio oscura tutta la generazione politica protagonista di quel periodo. A destra gli uomini forti dei due tronconi, Forza Italia e Nuovo Centrodestra, sono giovani, a cominciare da Angelino Alfano da un lato, e da Raffaele Fitto dall’altro. E dietro di loro si affacciano volti nuovi. Ma è a sinistra, nel Partito democratico, che si registra un autentico rivoluzionamento. Mentre due anni fa la rottamazione invocata da Renzi sembrava solo la provocazione di un ambizioso giovanotto, adesso si è concretizzata. Alcuni dirigenti di lungo corso del Pd continuano ad avere audience nelle istituzioni e presso la classe dirigente del Paese. Ma all’interno del partito si è fatta tabula rasa. La competizione per la leadership ha visto due “novatori” non ancora quarantenni(Civati e Renzi) e un politico un po’ più sperimentato (Cuperlo): leader politici che erano irrilevanti nel dibattito congressuale che portò all’elezione di Pierluigi Bersani nel 2009.
L’età media della segreteria di Renzi è di 35 anni e la direzione è stata rinnovata drasticamente. In poche occasioni un grande partito della sinistra europea ha visto un tale rivolgimento della sua classe dirigente. E infine, alla guida del governo siede uno dei più giovani primi ministri della storia repubblicana, Enrico Letta.
Al di là delle formazioni di centro- destra e centro-sinistra, un contributo importante al rinnovamento e ringiovanimento del personale politico è venuto dal M5S che ha portato in Parlamento rappresentanti con la più bassa età media mai registrata: 33 anni tra i deputati e 46 tra i senatori. Una massa d’urto, questa, potenzialmente molto vivificante per le istituzioni, ma che si sta isterilendo in una rissosità esasperata e in una sorta di auto-emarginazione dal dibattito politico e dal processo legislativo.
Benché Berlusconi non si rassegni ad un ruolo defilato ed abbia ripescato il fido Dell’Utri per reclutare qualche giovane, il mutamento della classe politica nazionale è profondo e trasversale (ricordiamo anche la recente elezione del quarantenne Matteo Salvini alla guida della Lega). Gli eventi traumatici di quest’anno, con l’emergere e l’avvicendarsi di nuovi protagonisti segnano, un passaggio d’epoca. Il ventennio berlusconiano si chiude qui.

l’Unità 24.12.13
Napolitano: «Difendere l’Italia dal fanatismo»
Stop alle indiscrezioni sul passato. La lettera di Cossiga
Dal Quirinale hanno pensato bene di inviare precisazioni formali nei confronti di tre giornali, Corriere della Sera, La Stampa e Il Messaggero
di Marcella Ciarnelli

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il Fatto 24.12.13
Taranto. Ascoltato fino a tarda sera. La Procura: “Troppi non ricordo”
Ilva, Vendola interrogato dai pm per sette ore

L’ipotesi di reato è concorso in concussione nell’inchiesta per il disastro ambientale
Per i magistrati nel 2010 il governatore della Puglia avrebbe cercato di ammorbidire la posizione del direttore generale dell’Arpa sui veleni prodotti dall’impianto dei Riva

Corriere 24.12.13
«Pressioni per favorire l’Ilva»
Vendola sentito per ore dai pm


TARANTO — Interrogatorio di ore per il presidente della Regione Puglia Nichi Vendola: fino a tarda sera ieri ha risposto, nella caserma del comando provinciale della Guardia di Finanza di Taranto, alle domande dei magistrati della Procura ionica che lo hanno iscritto nel registro degli indagati con l’ipotesi di reato di concorso in concussione aggravata nell’inchiesta per disastro ambientale a carico dei vertici dell’Ilva. Nella stessa caserma, separatamente, è stato sentito anche il direttore generale dell’Arpa Puglia Giorgio Assennato accusato di favoreggiamento personale nei confronti di Vendola. Sono stati gli stessi Vendola e Assennato a chiedere di essere interrogati dopo che il 30 ottobre è stato loro notificato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari. Il governatore pugliese, accompagnato dal legale di fiducia Vincenzo Muscatiello, è arrivato in caserma poco prima delle 15, seguito a distanza di minuti dai magistrati inquirenti — il procuratore Franco Sebastio, il procuratore aggiunto Pietro Argentino, i sostituti procuratori Remo Epifani e Giovanna Cannarile, ai quali si è aggiunto più tardi il pm Raffaele Graziano —. Secondo la Procura nel 2010 Vendola avrebbe esercitato pressioni sul direttore generale dell’Arpa Puglia, Giorgio Assennato, per «ammorbidire» una relazione sugli elementi inquinanti prodotti dall’Ilva, ipotizzando anche una sua mancata riconferma ai vertici dell’agenzia regionale. Non è escluso che Vendola e Assennato abbiano consegnato ai magistrati anche memorie difensive. Assennato è accusato di favoreggiamento personale perché avrebbe negato, quando è stato sentito come teste dagli inquirenti, di aver ricevuto pressioni dal governatore per favorire l’Ilva. Stesso capo di imputazione contestato a Massimo Blonda, direttore scientifico di Arpa Puglia, che però ha rinunciato all’interrogatorio.

il Fatto 24.12.13
Morto il partigiano Franco, sopravvisse alla fucilazione


È MORTO ieri, all’età di 87 anni, il partigiano “Franco”, Arrigo Diodati, tra i fondatori e presidente onorario dell’Arci. Ne ha dato notizia l’associazione. Figlio di antifascisti, Diodati con i genitori riparò in Francia nel 1937. Rientrato in Italia nel 1943, iniziò giovanissimo la lotta partigiana a La Spezia, dove era nato e in seguito a Genova, diventando vice commissario politico delle Sap. Arrestato negli ultimi mesi del 1944, il 23 marzo 1945 fu prelevato dal carcere di Marassi per essere fucilato con altri compagni antifascisti, ma sopravvisse fortunosamente all’eccidio di Cravasco. Agli spari dei fascisti non fu colpito, cadde tra i cadaveri dei compagni e poco dopo scappò e si ricongiunse con le Brigate Partigiane. Fu uno dei protagonisti della Liberazione di Genova. Nel 1957 contribuì alla fondazione dell’Arci, a cui ha dedicato tutta la vita. Profondamente addolorata per la sua scomparsa, l’Arci si stringe con affetto alla sorella Soledad e a tutta la sua famiglia. La camera ardente verrà allestita il 27 mattina alla sede nazionale dell’Arci, in via dei Monti di Pietralata 16, a Roma.

La Stampa 24.12.13
Dietro Stamina un piano contro l’Italia
Tutte le debolezze del Paese dietro la grande bufala
Ecco perché non sono tranquilla
Rischiamo una nuova illusione sulle “staminali che curano”
di Elena Cattaneo

Caro Direttore, da tempo volevo inviare un sentito ringraziamento a La Stampa per avere costantemente, con fermezza ed efficacia, affrontato il «caso Stamina» nell’unico modo eticamente corretto, per quanto doloroso potesse essere per le famiglie che hanno scelto di affidarsi a pericolose illusioni.
Anche io spero che si stia arrivando all’unica conclusione possibile e auspico che l’indagine conoscitiva promossa dalla Commissione Igiene e Sanità del Senato di cui faccio parte (indagine che insieme ad altri Senatori ho fortemente voluto) aiuti a capire come tutto sia potuto accadere e come poter meglio tutelare istituzioni e cittadini contro i raggiri.

il testo segue qui

Corriere 24.12.13
Il laureato in Lettere che si faceva trattare da medico specializzato
di Mario Pappagallo


Sulla bacheca Facebook di Davide Vannoni compaiono in questi giorni istogrammi, certificati, risultati di analisi, tabelle sui telomeri cellulari. Le sue risposte alle accuse ufficiali. Documenti incomprensibili a tutti coloro che lo osannano, senza senso per le persone obiettive. Perché non si sa che cosa sono, a quali esami si riferiscano, chi garantisce per quelle tabelle messe su Facebook e mai date agli inquirenti di Torino (invitato a comparire, Vannoni si è valso della facoltà di non rispondere), o agli scienziati che ne devono valutare il metodo, a Miami il 15 gennaio quando andrà a testare le sue infusioni.
Davide Vannoni, 46 anni, fondatore della Stamina Foundation Onlus, è tutto fuorché medico, tantomeno neuroscienziato. Laureato in Lettere e filosofia, con cattedra alla Facoltà di Lingue e Letterature straniere a Udine. «Ma ama definirsi neuroscienziato», è scritto nelle carte della procura di Torino. Capi di imputazione basati su testimonianze dell’attività di Vannoni a Torino, Trieste, San Marino. Prima di Brescia. «Spesso entrava in sala operatoria quando si trattavano persone con il suo metodo», scrive il procuratore Raffaele Guariniello.
Nato a Torino nel 1967, autore di testi di psicologia della pubblicità e della comunicazione, esperto di semiotica applicata alle ricerche di mercato. Il «dottor Stamina», come formazione, ha ben poco del medico e molto di chi sa di marketing. Una sua ex collaboratrice della società torinese Cognition mette a verbale questa sua frase riguardo alla neonata Stamina Foundation: «Si può trarre guadagno dai pazienti con malattie degenerative senza speranza fortunatamente in aumento». Una filosofia sempre smentita dal Vannoni pubblico, quello che scende in piazza con la scritta «scelgo la vita» sulla t-shirt, capelli lunghi e disordinati, barba di qualche giorno. In abiti comodi ma griffati, calzature senza stringhe. Una Porsche con targa svizzera in garage. Il suo slogan: cure gratis per tutti (ma non a carico suo, bensì dello Stato), tutti contro di noi perché «abbiamo la cura». La cura per tutto. Lo dice il suo depliant pubblicitario agli atti dell’inchiesta torinese: «...oltre mille casi trattati, un recupero del danno dal 70 al 100% (90 ictus con 72 recuperi), una gamma di una ventina di malattie trattate». Come quei video che mostrano «un ballerino russo affetto da Parkinson che si alza dalla carrozzella e torna a ballare», «una giovane paralizzata dalla Sla che riprende a camminare», «un uomo che guarisce da una grave forma di psoriasi alle mani». Difficile pensare che una «cura» così miracolosa e efficace per tante patologie, diabete compreso, non sia di interesse internazionale. Ma Vannoni dice: «Io non voglio speculare sulla pelle dei malati, la cura dovrà essere gratis in Italia... ». E perché all’estero no? Vannoni vorrebbe, ma non può. Ha firmato un super accordo vincolante con un imprenditore farmaco-cosmetico. Quindi non può rendere pubblico il segreto della sua cura miracolosa. Perché non brevettarla allora? Negli Usa il brevetto viene rifiutato: «Nulla di originale nel metodo, a meno che non vi siano nuove informazioni». Ma Stamina Foundation preferisce rinunciare.
Nel maggio del 2009, in seguito ad un articolo del Corriere della Sera e all’esposto di un dipendente della società Cognition (marketing e indagini di mercato), di cui Vannoni è amministratore, viene avviata l’inchiesta di Guariniello, che vuole chiarire la posizione di Vannoni in merito all’uso di cellule staminali al di fuori dei protocolli sperimentali previsti dalla legge. Sul finire del 2009 compaiono articoli sulle attività di Vannoni, coinvolto in un intreccio di società e la fondazione Stamina. Guariniello arriva fino a San Marino, dato che le cure venivano praticate anche in un centro estetico sammarinese privo di autorizzazione medica. E un poliambulatorio di Carmagnola. Nell’agosto 2012, la procura dispone il rinvio a giudizio di 12 indagati, tra cui alcuni medici e lo stesso Vannoni, per ipotesi di reato di somministrazione di farmaci imperfetti e pericolosi per la salute pubblica, truffa e associazione per delinquere. Intanto Stamina va agli Spedali Civili di Brescia, con trattamenti a carico della sanità pubblica come cure palliative. I primi pazienti sono il «decisore» regionale Luca Merlino e il cognato della direttrice sanitaria. Nessuno sa chi abbia pagato.

Repubblica 24.12.13
“Applaudo i giovani al potere ma l’età non è una garanzia”
De Rita: anche i miei nipoti cercano fortuna all’estero
di Maria Novella De Luca


ROMA — «I quarantenni al potere? Vediamoli all’opera, poi potremo decidere se sono davvero la novità, se rappresentano quella svolta che il Paese attende. Ho ottant’anni, e forse il cinismo dei vecchi, ma so che la successione generazionale non è una garanzia in sé: il potere è un luogo vuoto come diceva Jean Baudrillard, e chi ci entra spesso si brucia. Aspettiamo i fatti». Giuseppe De Rita, presidente del Censis, da decenni analizza, osserva e anticipa i cambiamenti dell’Italia. Classe 1932, otto figli e 14 nipoti come ama ricordare, definisce oggi il nostro paese una nazione bloccata e con i canali ostruiti. Una società a «mobilità» zero.
Professor De Rita, milioni di italiani hanno chiesto e ottenuto un cambiamento anagrafico della classe politica. Non è un segno di risveglio?
«Di certo qualcosa è accaduto. Le primarie del Pd con la vittoria di Matteo Renzi sono state un evento, Letta è un premier giovane. Ma siamo all’inizio, l’evento non basta, e il cambiamento si vede sui tempi lunghi».
E il Movimento 5Stelle?
«Nasce dalla stessa volontà di qualcosa di diverso, di opposto, anche loro sono stati un evento, ma la politica li ha fagocitati».
Il nuovo che prende le sembianze del vecchio?
«Proprio così. Con tutti i vizi e le incrostazioni. Ed è il rischio anche della cosiddetta generazione della svolta, i quarantenni al potere».
Lei definisce l’Italia un paese con i canali ostruiti.
«Vuol dire che la nostra formidabile mobilità interna, quella che produceva ricchezza e possibilità si è ormai totalmente bloccata. Oggi un giovane che entra in una azienda sa che difficilmente farà carriera, vede davanti a sé soltanto vicoli ciechi. E così se ne va. Anche i miei nipoti stanno andando via...».
E quando e come la nostra mobilità si è fermata? E’ colpa della crisi?
«Quando parlo di canali aperti mi riferisco alla ricostruzione del Paese nel dopoguerra, alla migrazione dal Sud povero verso il Nord delle grandi fabbriche, alla nascita della piccola impresa negli anni Settanta, anche agli anni Ottanta del made in Italy. Poi il meccanismo si è inceppato, i processi di mobilità verticale si sono fermati».
Tangentopoli?
«No, qualcosa si è spento nella coscienza collettiva, abbiamo pensato che il boom non finisse mai, chi aveva il potere si è incollato alla poltrona e haostruito l’accesso alle generazioni giovani. Ovunque.
Politica, impresa, amministrazione, università».
E’ stato allora, come avete scritto nell’ultimo rapporto Censis, che siamo diventati un paese «sciapo»?
«In parte sì. Abbiamo perso quello che gli alchimisti medievali chiamavano il fervore del sale. Ossia la capacità di suscitare una reazione chimica. Il dramma dei giovani è proprio questo: non avere più canali aperti in cui collocarsi e realizzarsi».
E lei non crede che una classe dirigente giovane possa in qualche modo riaprire i canali ostruiti?
«Lo spero. Purché i politicicosiddetti giovani non si comportino esattamente come chi li ha preceduti».
Ci sarà pure una luce da qualche parte...
«Per fortuna ci sono nel nostro paese ancora settori mobi-li, vivaci e in espansione. Penso all’artigianato digitale, a chi esporta il made in Italy, al protagonismo e alla forza delle donne. Ma vedo anche migliaia di giovani che per trovare una possibilità vanno all’estero. E spesso non tornano più».
Ma altrove una strada la trovano?
«Sì, in gran parte sì. Il resto del mondo non è bloccato come l’Italia. Avendo una così grande famiglia ho un osservatorio privilegiato. In questo momento ho un nipote che sta facendo un concorso per essere assunto come pilota dalla British Airways. Non so se ce la farà, ma il dato di fatto è che la British fa un concorso, apre delle possibilità. Non mi risulta che l’Alitalia bandisca gare per piloti. Ho un’altra nipote che la sua strada l’ha trovata in California, dove fa la chef. Questi sono i canali aperti».
Renzi, Letta, Alfano, i quarantenni. Dovrebbero avere i codici culturali per capire questa generazione...
«Vorrei essere sorpreso positivamente. Ho esordito dicendo che mi concedo un po’ del cinismo dei vecchi. Se penso però ai candidati dell’ultima elezione del presidente della Repubblica, il più giovane aveva settantacinque anni. Chissà, quando un giorno arriverà un cinquantenne al Colle forse scopriremo che davvero l’Italia è cambiata».

Repubblica 24.12.13
Piero Angela, 85 anni, il padre di Quark
“Lavorare è l’unico modo per non invecchiare”
di Silvia Fumarola


ROMA — «Il mio corpo è come una macchina: il motore avrà anche 80.000 chilometri, ma il guidatore ha solo 45 anni». Parola di Piero Angela, 85 anni, giornalista, divulgatore televisivo che con “Quark” ha cresciuto generazioni di spettatori.
Angela, ha detto che non può stare senza lavorare.
«È vero, è l’unico modo per non invecchiare: chi si mantiene attivo non ha il problema dell’età. Io m’impegno su più fronti ».
Letta annuncia la svolta generazionale: avanti i quarantenni.
«“Avere un’età” significa anche avere più competenza, serietà, creatività. I quarantenni hanno più energia, ma le persone vanno valutate per quello che sono, non in base alla data di nascita. Però è vero, ci sono settori in cui occorre un ricambio».
Un esempio?
«I professori universitari sono molto longevi come docenti, negli altri paesi c’è un ricambio maggiore. Al di là delle capacità - la cosa più importante - burocrazia e potere hanno paralizzato interi comparti ».
Che pensa del verbo rottamare?
«È stata una trovata mediatica per emergere e attrarre l’attenzione; l’informazione è fatta di emotività. Ma il verbo è offensivo, le persone non si buttano via come auto usate».
Se le dicessero: Angela ha 85 anni, perché non si fa da parte?
«Perché dovrei? Non sono mica morto».
Avvocato del diavolo: ci può essere ricambio se chi acquisisce una posizione non molla mai?
«Sono sempre in competizione, non ho un contratto con la Rai da vent’anni. Durano un anno, se i programmi vanno male arrivederci, ho finito. I miei rottamatori sono gli spettatori: per lo speciale sul cervello ho ricevuto decine di tweet e sms. Fare tv e ascolti è difficile, c’è tanta offerta».
Ha una ricetta?
«Prepararsi alla vecchiaia come ci si prepara da giovani al futuro. Scriverò un libro sul tema, pochi si pongono il problema di organizzarsi la terza età. Aumenta la longevità e bisogna fare più figli: ci sono troppi pochi giovani per rottamare i vecchi ».

La Stampa 24.12.13
Il serial killer evaso: “Voglio vedere la mamma”
di Giulio Gavino

qui

Repubblica 24.12.13
“Più tutele per i nostri compagni” Il manifesto degli ambasciatori gay che scuote la diplomazia italiana
Lettera al ministro degli Esteri: li vogliamo al nostro fianco
di Vincenzo Nigro


ROMA — Gli ambasciatori italiani vogliono che i loro diritti vengano rispettati. Anche quelli dei diplomatici omosessuali. E se le leggi non sono aggiornate rispetto ai diritti, o magari anche solo alle pretese di un mondo che cambia, orami anche loro premono perché il vecchio, magico mondo incantato della Farnesina si dia una bella risvegliata.
Proprio in questi giorni, in coincidenza con la “conferenza degli ambasciatori”, un gruppo di diplomatici italiani ha scritto una lettera al ministro degli Esteri Emma Bonino e al segretario generale Michele Valensise chiedendo tutela e diritti per i diplomatici omosessuali, gay o lesbiche che siano. Vogliono un aggiornamento soprattutto nel campo delle tutele dei loro compagni e del ruolo che possono rivestire, delle protezioni e prerogative di cui devono godere soprattutto quando sono in missione all’estero.
In Italia la vita privata dei vari funzionari pubblici non necessariamente incontra in maniera critica le amministrazioni di cui fanno parte. Ma agli Esteri c’è un momento in cui il “coniuge” ha un suo status: gli ambasciatori in giro per il mondo sono accompagnati da moglie o marito, che hanno un passaporto diplomatico e soprattutto godono delle tutele che unnormale coniuge eterosessuale si vede riconosciute dalla leggi della Repubblica. «Con serenità ma anche con chiarezza abbiamo chiesto che anche chi fra noi ha un compagno omosessuale possa veder riconosciute tutele che ormai molti ritengono legittime e soprattutto né scandalose e tantomeno illegittime », dice uno dei diplomatici che ha firmato la lettera agli alti gradi del ministero.
La Farnesina, la “casa” come la chiamano loro, ha sempre accolto funzionari omosessuali senza nessun altro problema che non fosse quello dei pettegolezzi degli ignoranti (o semplicemente dei rivali interni). In passato oltre a ministri degli Esteri e sottosegretari, alla Farnesina anche segretari generali e grandi ambasciatori sono stati e sono omosessuali. Alcuni fra i migliori inviati italiani in Europa o Medio Oriente. «Il problema è trovare il modo giusto per uscire da una fase di tolleranza silenziosa che registriamo anche nelle capitali in cui siamo accreditati, per arrivare a una fase di serena ma pubblica consapevolezza», dice il nostro diplomatico che parla (con linguaggio diplomaticissimo), chiedendo l’anonimato.
Emma Bonino, che da quando è ministro si dovuta occupare più di diplomazia economica di un paese in crisi che di diritti umani, ha fatto rispondere agli appellanti che «ha ben chiaro il problema e si impegnerà per migliorare la condizione dei funzionari interessati ». Sceglie una strada di discrezione per provare a risolvere concretamente la cosa, e lo stesso fanno i diplomatici coinvolti. Della lettera era informato neppure il segretario del Sindmae, il sindacato dei diplomatici, Enrico De Agostini: «Non lo sapevo, ma sono a favore della tutela dei coniugi, dei compagni di ogni tipo che seguono i nostri colleghi in giroper il mondo e che oggi non hanno tutele da parte dell’amministrazione ».
Nel suo discorso alla Conferenza di qualche giorno fa la Bonino ha citato il caso davvero imbarazzante delle «promozioni bianche», ovvero dei diplomatici promossi di grado che però sono costretti a rimanere allo stipendio precedente. Ha ricevuto un applauso quando ha chiesto a Enrico Letta che questo taglio allo stipendio dei diplomatici venga cancellato. Per ora non ha voluto parlare dei diplomatici gay: prima o poi lo farà.

Repubblica 24.12.13
Europa, i legislatori del futuro
di Barbara Spinelli


SEI anni sono passati dall’inizio della crisi, e tre sono gli stati d’animo di chi in Europa governa lo squasso o lo patisce. C’è chi si complimenta con se stesso, convinto che il peggio sia alle spalle: nei Paesi debitori le bilance di pagamento tornano in pareggio, l’intervento lobotomizzatore è riuscito, anche se il paziente intanto è stramazzato. Ci sono i catastrofisti, che ritengono euro e Unioneun fiasco.
Di qui l’appello a riprendersi la sovranità monetaria sconsideratamente immolata. Infine ci sono gli europeisti insubordinati: essendo la crisi non finanziaria ma politica, è l’Unione che urge cambiare, subito e radicalmente.
I veri rivoluzionari sono gli ultimi, perché vogliono scalzare il potere delle inette oligarchie che l’hanno guastata e crearne un altro, non oligarchico. La questione della sovranità sequestrata non viene affatto negata, ma posta in altro modo: esigendo accanto alle malridotte sovranità statali una sovranità europea effettiva, solidale e quindi federale, dotata di una Banca centrale prestatrice di ultima istanza. Nietzsche li avrebbe chiamati i «legislatori del futuro», dediti a un «compito colossale» ma ineludibile: non contentarsi di constatare la crisi, ma «determinare il Dove e Perché» del cammino umano, fissando nuovi princìpi. Sono gli unici in grado di adottare l’antica, nobile filosofia scettica: la realtà costituita è apparenza, e il compito colossale consiste nel confutarla col pensiero e gli atti. A ogni tesi corrisponde un’antitesi: il mondo non è senza alternative. Quest’ultimo è insensato oltre che menzognero, ragion per cui i rivoluzionari sono avversari dell’immobilismo, che professa l’Europa a parole. Quando sentono parlare di bicchiere mezzo pieno s’impazientano, perché un pochetto di vino va bene per i tempi tiepidi, non per i bollenti. Non a caso la parola greca skepsis significa ricerca, indagine: gli scettici si dissero “ricercatori”, visto che tutte le questioni erano aperte.
Non stupisce che umori analoghi si manifestino a Atene, nei programmi di Alexis Tsipras, leader della sinistra radicale ellenica ed europea. La Grecia infatti è stata non solo un Paese immiserito dal trattamento deflazionistico. L’hanno usata come cavia, come animale da esperimento biologico. Biologico alla lettera: quanto e come avrebbe resistito, viva, alla cura da cavallo? Non ha resistito. La bilancia dei pagamenti è risanata ma si è gonfiato un partito nazista, Alba Dorata. Dal paese-cavia giungono notizie costernanti: ai suicidi, s’aggiungono quest’inverno i morti carbonizzati da malconce stufe a legna, usate quando non hai soldi per l’elettricità (sito di Kostas Kallergis). Tra i legislatori del futuro non dimentichiamo i Verdi di Green Italia.
Lista Tsipras e Verdi potrebbero unire gli sforzi, se non saranno esclusi dal Parlamento europeo che sarà eletto il 22-25 maggio.
La lotta non è tra europeisti e antieuropeisti (i poli sono tre, non due). È tra chi si compiace in pigri rinvii, chi fugge, e chi vuol scompigliare l’Unione disunita. Questo pensano i firmatari dell’appello di domenica sul Manifesto.
È urgente — dicono — un’inversione di tendenza, che affidi alle istituzioni nazionali e comunitarie il compito di realizzare politiche espansive, e alla Banca centrale europea una funzione prioritaria di stimolo alla crescita: «Ammesso che considerare il pareggio di bilancio un vincolo indiscutibile sia potuto apparire sin qui una scelta obbligata, mantenere tale atteggiamento costituirebbe d’ora in avanti un errore imperdonabile, e la responsabilità più grave che una classe dirigente possa assumersi al cospetto della società che ha il dovere di tutelare». Tra le firme: Stefano Rodotà, Luciano Canfora, Marcello De Cecco, Adriano Prosperi, Guido Rossi, Salvatore Settis.
C’è una cosa che abbiamo capito, in questi anni: l’Europa così com’è — e forse le democrazie — non sono attrezzate per pensare e affrontare le crisi, se per crisi s’intende non un’effimera rottura di continuità ma un punto di svolta, un’occasione che ci trasforma. Crisi simili sono temute, perché minano oligarchie dominanti e ricette fondate su vecchie nozionidi Pil, oggi molto contestate. Come nella peste di Atene o nella guerra civile di Corcira (Corfù), narrate da Tucidide, la corruzione dilaga e gli uomini diventano «indifferenti alle leggi sacre come pure a quelle profane» (alle costituzioni democratiche, oggi). Nessuno crede che otterrà giustizia e uguaglianza («Nessuno sperava di restare in vita fino al momento della celebrazione del processo e della resa dei conti»). Quanto ai capi della fazioni di Corcira: «A parole servivano lo Stato; in realtà lo consideravano alla stregua del premio di una gara ».
Quello che abbiamo visto in questi giorni a Lampedusa e a Roma — in centri sfacciatamente chiamati d’accoglienza — è rivelatore: uomini e donne denudati per ripulirli d’una scabbia contratta dopo l’ingresso nei recinti, e a Roma ribelli che si cuciono le bocche. Chi ha visto il film di Emanuele Crialese (Nuovomondo) ricorderà la vergogna di Ellis Island, presso la statua della libertà a New York: l’umiliazione dei controlli medici, fisici, mentali, cui i trapiantati erano sottoposti. Isola delle Lacrime, era chiamata. Il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini va oltre: denudare in pubblico un essere umano ricorda i Lager.
Se la crisi è paragonabile a una peste, se sconvolge costituzioni e democrazia, se secerne rabbie tanto vaste (la Lega parla di «euro criminale »), non bastano più i piccoli progressi di cui si felicitano i governanti. Esemplare è l’UnioneBancaria concordata il 18 dicembre a Bruxelles dai leader europei. È stata descritta come un «risultato storico». In realtà è un inganno, spiegano critici seri come Wolfgang Münchau e Guy Verhofstadt sulFinancial Times,o Federico Fubini suRepubblica.
L’unione delle banche vedrà la luce solo fra 10 anni, come se la crisi non esistesse già adesso, e le somme che saranno allora a disposizione delle banche in difficoltà sono ridicole: appena 55 miliardi di euro, «quanto basta per un unico intervento di medie dimensioni (una sola banca, ndr), a fronte di bilanci bancari che in totale valgono 25 mila miliardi» (Fubini, 20-12). Anche l’economista Rony Hamaui, sul sitoVoce. it,è esterrefatto: è bene che non siano i contribuenti ma i privati a pagare, ma la somma in cantiere è niente, «se pensiamo che igoverni europei hanno mobilitato in questi anni risorse per oltre 4500 miliardi ». Angela Merkel ha voluto quest’accordo al ribasso: la sua rielezione, e la coalizione con i socialdemocratici, sono non un progresso ma una regressione e una chiusura.
Non è la prima volta che l’Europa si trincera nell’ottusità, davanti a scosse gravi. Anche in politica estera è così. Parigi ad esempio chiede aiuti per gli interventi in Africa, ma si guarda dal condividere e discutere la sua politica estera con il resto dell’Unione, e con Berlino che lo domanda da quando nacque l’euro.
Purtroppo le dittature sembrano più equipaggiate delle democrazie, di fronte alle crisi e alle rivoluzioni. Vedono crisi e sovversioni in ogni angolo, il che le rende paradossalmente più mobili, guardinghe. La rapidità con cui Putin decide le sue mosse è significativa: sia quando profitta della sua ricchezza energetica per legare a sé l’Ucraina e vietarle l’associazione con l’Unione europea, sia quando scarcera i propri dissidenti: tardi ma al momentogiusto. La sete dell’uomo forte non meraviglia. È la sete dei catastrofisti, ma anche di chi difende lo status quo. Solo ilegislatori del futuro resistono. Sanno che il futuro dovrà costruirsi sul rispetto delle Costituzioni, e su un’idea di bene pubblico che è stata l’Europa a inventare, per far fronte col Welfare alla triplice sciagura della povertà, della disuguaglianza, delle guerre civili.

Repubblica 24.12.13
“Vi comportate come nel comunismo” lo sfogo della Merkel al vertice Ue
La cancelliera: senza coesione prima o poi l’euro deraglierà
di Federico Fubini


PRIMA o poi, senza la necessaria coesione, l’euro esploderà. A un certo punto la cosa deraglierà». Di rado Angela Merkel si lascia andare ad affermazioni anche minimamente provocatorie. Che abbia parlato così al Consiglio europeo alla fine della scorsa settimana, secondo Le Monde, dà la misura del solco che quattro anni di crisi dell’euro hanno scavato fra i leader europei e dell’esasperazione che circonda la convivenza nell’euro.
Lo si è visto venerdì scorso, quando i capi di Stato e di governo europei hanno iniziato a parlare dei cosiddetti «accordi contrattuali». Proposti dalla Germania, questi accordi prevedono dei piani nazionali vincolanti di misure per la competitività in contropartita di incentivi economici. Un Paese può impegnarsi a una serie di interventi, per esempio nelle regole sul lavoro, mentre il resto dell’area euro garantisce prestiti a tassi agevolati o garanzie finanziarie. Merkel da tempo è convinta che quasi tutti i Paesi di Eurolandia debbano cambiare alcuni elementi di base dei loro sistemi per coesistere sotto l’ombrello di una moneta che non svaluta. Al vertice di venerdì a Bruxelles, la cancelliera avrebbe elencato anche la Germania fra le economie che hanno bisogno di manutenzione. Ma la discussione sulle sue proposte non è stata facile. Werner Faymann, il cancelliere austriaco, ha ricordato che qualunque piano «deve rispettare i parlamenti », perché ciò che è in gioco è la «sovranità » degli Stati.
Lo spagnolo Mariano Rajoy ha ricordato che il suo Paese sta già affrontando una programma di riforme. «Se non fate le riforme - ha ribattuto il capo della Bce, Mario Draghi - perderete la sovranità nazionale ». Altrettanto duro il premier olandese: «Ora noi dobbiamo pagare per coloro che non hanno fatto le riforme».
È a questo punto che Merkel avrebbe difeso le sue posizioni con un riferimento alla sua esperienza di vita nella Ddr. «Sono cresciuta in uno Stato che ha avuto la fortuna di avere la Germania Ovest che lo ha tolto dai guai. Ma nessuno farà lo stesso per l’Europa», avrebbe detto la cancelliera secondo Le Monde (la cui ricostruzione non è stata smentita). Poi un nuovo affondo: «Se tutti si comportano come si poteva fare durante il comunismo, allora siamo finiti».
L’idea di Angela Merkel è che la mancata modernizzazione delle economie del Sud Europa non sia compatibile con l’euro. Ma i verbali pubblicati daLe Monde sono una rara finestra sul senso di frustrazione che prova di fronte alla realtà di Eurolandia oggi. Quando Rajoy ha chiesto che i contratti proposti dalla Germania non fossero considerati vincolanti nel comunicato finale, la cancelliera non ha trattenuto il sarcasmo: «Se questo testo non è accettabile perSpagna, lasciamo perdere, se ne riparlerà tra dieci anni», ha detto. «La base dei nostri accordi è la responsabilità. Presumo che ciascuno abbia il senso delle proprie responsabilità », ha aggiunto. «Se qui riusciamo ad agire solo quando siamo sull’orlo del precipizio, ogni volta, allora torniamo a casa e aspettiamo. Vedrete cosa succederà tra sei mesi e chi raccatterà i pezzi».
Alcuni dei testimoni diretti dell’incontro di venerdì riferiscono che il senso dell’intervento di Angela Merkel è stato più costruttivo di come appaia dalle frase riporla da Le Monde. Ma è una spia del logoramento dei rapporti il fatto stesso che qualcuno dal Consiglio europeo abbia scelto di rompere il patto di riservatezza su ciò che ha detto la leader tedesca. La sua iniziativa mira a rendere l’euro sostenibile nel tempo ed evitare nuovi piani di salvataggio troppo onerosi in futuro. Eppure l’irritazione che Merkel ha mostrato a Bruxelles appare una spia della debolezza della sua leadership in Europa. La cancelliera è arrivata al punto di fare riferimento alla fase più acuta della crisi: «Allora abbiamo discusso per capire se la Grecia avesse dovuto uscire dalla zona euro e credo che, se fosse successo, tutti avremmo dovuto lasciare l’euro in un secondo tempo» avrebbe detto Merkel, prima di aggiungere: «Finché sarò cancelliera, aiuterò tutti, ma non so se potrò farlo una seconda volta » dopo i piani di salvataggio dopo quelli per Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna. Chiaramente questo è un tema che preoccupa la cancelliera. Ai suoi colleghi, ha raccontato di aver letto «I sonnambuli» di Christopher Clark, il saggio su come i leader europei nel 1914 scivolarono nella prima guerra mondiale senza capire le conseguenze delle loro scelte. Ma per i leader di oggi ha riservato una metafora molto meno intellettuale: «La vita non è giusta - avrebbe detto Merkel - Se avete mangiato troppo e siete ingrassati, mentre altri sono magri, vi aiuto a pagare il dottore. Non è un diktat: aiutare chi non si può aiutare da solo richiede della comprensione da parte nostra».

Repubblica 24.12.13
L’orchestra dei nazisti, Vienna svela la vergogna
Dopo decenni di silenzi la Philarmoniker ammette la complicità con le SS
di Andrea Tarquini


BERLINO — Dopo oltre mezzo secolo di silenzio, i Wiener Philarmoniker si piegano al pressing degli storici e lasciano far luce sulle pagine orribili del loro passato di complicità attiva con il nazismo. La celebre orchestra filarmonica della capitale austriaca ha ritirato le decorazioni che dopo l’Anschluss (l’annessione dell’Austria al Reich) aveva concesso a sei alti gerarchi nazisti. Meglio tardi che mai, ma i decenni di silenzio restano vergognosi. Tanto più che scorrendo i nomi dei sei decorati dai Philarmoniker troviamo alti responsabili della tirannide, condannati al processo di Norimberga.
Lo stesso modo di prendere la decisione — adottata in segreto il 23 ottobre, ma resa nota solo ora grazie all’insistenza d’un team di storici guidato da Oliver Rathkolb — la dice lunga sull’ambiguità di fondo dei Wiener Philarmoniker con il loro passato di adesione entusiasta al nazismo. Basta evocare i nomi dei sei alti gerarchi, decorati fino alla revoca degli onori in ottobre: Arthur Seyss-Inquart, tra i responsabili della Shoah, condannato a morte a Norimberga. O Baldur von Schirach, Gauleiter di Vienna occupata, o Albert Reitter, alto ufficiale delle SS, Friedrich Rainer, governatore di Salisburgo e Carinzia, Rudolf Toepfer, alto dirigente delle ferrovie implicato nell’organizzazione dei treni piombati della morte per spedire gli ebrei ad Auschwitz, o Hanns Blaschke, sindaco di Vienna.
Da anni, Rathkolb e il suo team, dalla giovane Bernadette Mayrhofer al collega svizzero Fritz Truempi, chiedevano invano accesso agli archivi dei Philarmoniker. L’appoggio politico di un deputato verde, Harald Walser, è stata la chiave del loro successo. Walser aveva accusato in pubblico Clemens Hellsberg, dirigente dei Wiener Philarmoniker, di impedire da anni indagini storiche sul passato.
Aperti gli archivi, sono emerse realtà orribili. Almeno la metà dei membri dei Philarmoniker si iscrissero alla Nsdap, il partito nazista (tra i Berliner Philarmoniker si iscrisse solo uno su cinque). Tutti tacquero quando quindici musicisti ebrei, subito dopo l’annessione con Hitler che arrivò a Vienna accolto da una folla in tripudio, furono licenziati dall’orchestra in virtù delle leggi razziali. Sette di loro morirono, o nei campi di sterminio, o durante la deportazione, oppure a causa di brutali maltrattamenti negli ospedali nazisti.
Dopo la guerra, lo scandalo fu insabbiato dal silenzio dell’orchestra, e nessun’autorità (l’Austria tornò indipendente nel 1955) volle indagare. Fu un silenzio scelto ovviamente per salvarsi, e forse anche per esprimere gratitudine per i mille privilegi ottenuti dal Reich. I Philarmoniker furono spesso ingaggiati per concerti ufficiali, o per performance musicali private per i gerarchi. Ancora nel marzo 1945, due mesi prima della capitolazione, suonarono al “Quartiere del Fuehrer” nella caserma Glasenbach delle Waffen-SS. In cambio, Baldur von Schirach regalò loro per decreto l’esonero dal servizio mi-litare: nessuno di loro dovette mai temere di venire arruolato, e di morire a Stalingrado o in Normandia. Servirono Hitler, ma mai al fronte.

l’Unità 24.12.13
Libere le due Pussy Riot: Russia una colonia penale
L’amnistia voluta da Putin fa scarcerare anche le due punk girl
Le prime parole: «È una burla, soltanto propaganda»


«Il nostro è un Paese autoritario»
di Sonia Renzini

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il Fatto 24.12.13
Pussy Riot, libere con rabbia “Uno show in vista dei Giochi”
Putin scarcera Nadezha Tolonnkova e Maria Alyokhina
Le ribelli attaccano: “Rilasciate per le Olimpiadi di Sochi, ci lasciano le briciole
di Leonardo Coen


Un militare in tuta mimetica apre la porticina della baracca dove si controllano gli ingressi e le uscite della Colonia Penale Femminile numero 50, nella località di Nizhnij Ingash, Siberia Orientalei. Sono passate da poco le sei del pomeriggio, è già buio pesto, quando la 24enne Nadezha Tolokonnikova sbuca fuori sollevando entrambe le mani con le dita a “V”, vittoria. In russo, vittoria si dice pobieda, ma la “v” significa vihod, uscita. Sorride, mentre si avvicina al gruppo dei giornalisti e dei telereporter. “Ti piace il clima della Siberia?”, chiede ironicamente una giornalista russa. La leader delle Pussy Riot la ignora. Ha già in mente le prime parole da dire a tutto il mondo: “L’azione che ha portato alla mia liberazione a qualche mese dalla fine della mia detenzione non mi impressiona molto. Tutto ciò è abbastanza ridicolo. È come gettare degli avanzi per terra”. In russo, l’espressione che utilizza Nadezdha è più sprezzante: podachka, gli avanzi che il ricco getta ai poveri. “Tuttavia - continua - vorrei che tornassero liberi anche tutti coloro che furono presi dopo la manifestazione in piazza Bolotnaja a Mosca (6 maggio 2012, la famosa “marcia dei milioni”, ossia i milioni di russi che non vogliono Putin) e che sono stati condannati senza aver fatto nulla di illegale. A queste persone l’amnistia serve veramente, per loro non è una povera sceneggiata come quella che hanno fatto con me. Io sono stata la prima ad uscire e questo è il solito show fatto prima delle Olimpiadi”.
ANDREIJ Tolokonnikov, il padre, è in prima fila. È lui che ha avvisato i reporter. “È appena uscita. Evviva”, ha scritto su Facebook. Nadezdha in russo vuol dire speranza. In casa Tolokonnikov non è mai morta. La ragazza è molto bella, coi capelli lunghi che le cadono su un piumino scuro non molto pesante, sotto ha una camicetta a quadretti bianchi e rossi, ed è leggermente dimagrita. La gonna sotto al ginocchio è attillata, ai piedi due stivaletti corti. Un abbigliamento poco adatto al gelo della regione (-17 al momento della scarcerazione). La voce non tradisce l’e m ozione. Via via che parla, acquista sicurezza e cipiglio.
“Vorrei che l’amnistia (proposta da Putin e votata dalla Duma per il 20° anniversario della nuova Costituzione russa, ndr) fosse davvero applicata a tutti coloro che ne sono oggetto. Per quel che riguarda me, oggi è solo l’inizio. Perché posso tornare a fare le nostre azioni”, annuncia, con aria di sfida. Però poi, gioca di nuovo con le parole, e i loro doppi sensi: “Queste possibilità c’erano sempre. Perché la barriera tra libertà e non libertà è sottile. Un confine stretto, soprattutto in Russia che è un Paese totalitario”. Un Paese “costruito sul modello di una colonia penitenziaria” . È sempre lei ad avere l’iniziativa, non lascia tempo ai giornalisti per formulare domande. Cambia tema. Parla delle sue sensazioni: “Non sento niente di particolare. Sono del solito umore, come quando lavoro. La mia liberazione è una responsabilità che prendo. La responsabilità di fronte alle persone che sono rimaste dentro, sia qui che in Mordovia, dove ero detenuta prima, che vogliono avere supporto e aiuto”. Ma il freddo comincia ad aggredirla. E lei non è più concentrata, come vorrebbe. Aggiunge: “E questo semplicemente devono averlo da me. E io metterò tutto il mio impegno per aiutarle. Adesso sono legata al sistema di punizione russo, un legame di sangue e di fratellanza. E non mi stacco... provo a far qualcosa per migliorare questo sistema penitenziario”.
SEI ORE PRIMA era stato il turno di Maria Alyokhina, un’altra Pussy Riot, prigioniera nel campo di lavoro femminile numero 2 di Nizhni Novgorod. I poliziotti l’hanno caricato in auto così com’era, con la divisa da carcerata e il numero di matricola stampato sulla schiena. L’hanno lasciata alla stazione ferroviaria Moskovskij Voksal e le hanno proposto di tornarsene a casa. Maria ha chiamato gli amici del Comitato “Contro le torture”. Le sue dichiarazioni sono state assai critiche: “Non è stato un atto umanitario, ma una profanazione e una trovata pubblicitaria. A tutti interessa la sorte delle Pussy Riot, ma non delle altre detenute. Ho visto come le minacciavano, ogni volta che parlavano con me. Sono certa che dopo il mio rilascio, per loro la situazione peggiorerà. Spero che la Commissione di Vigilanza Pubblica controlli la situazione delle donne che sono rimaste in carcere”.
(ha collaborato Svitlana Matsuska)

Corriere 24.12.13
Nella Russia di Putin arriva la clemenza anche per le Pussy Riot.

di Franco Venturini

Sarà pur vero, come ha scritto gran parte della stampa internazionale, che le sue clemenze di fine anno Vladimir Putin le ha decise per migliorare l’immagine della Russia in vista delle Olimpiadi invernali di Sochi. Ma se prima gli attivisti di Greenpeace, poi a sorpresa l’arcinemico Khodorkovskij, e ieri le due Pussy Riot hanno fruito del perdono dello Zar, è assai probabile che all’origine delle mosse del Cremlino ci sia anche dell’altro. In fondo è stata la crociata anti-gay ad arrecare i danni maggiori a Sochi e a tenere lontano Obama, e su quella Putin non ha ceduto di un centimetro. No, la vera questione è che Vladimir Putin si sente forte come non mai, e ha la spiccata tendenza a volerlo dimostrare nella severità come nella clemenza del Principe. Dopotutto, quale è il bilancio del 2013 per la Russia, cioè per il terzo Putin? Un bilancio senza precedenti da parecchi anni, anzi unico nel dopo-Urss. Putin ferma una azione militare americana in Siria e patrocina un accordo sulle armi chimiche. Putin ospita Edward Snowden, sfidando Washington. Putin — come se ce ne fosse stato bisogno — riorganizza al suo servizio l’informazione russa. Putin prende in giro la Nato facendo trapelare che potrebbe aver schierato missili Iskander a Kaliningrad, forse sì e forse non ancora. Putin fa durare poco il braccio di ferro con l’Europa sull’Ucraina, e lo vince a peso d’oro. Putin, lo dice lui stesso, si pone come difensore della cristianità e dei suoi valori morali in contrapposizione al decadente Occidente. Insomma, Putin si guarda allo specchio e vede un imperatore. E si sa che gli imperatori con una mano tagliano le teste, e con l’altra elargiscono magnanimità e assoluzioni che piovono dall’alto. La liberazione di Khodorkovskij, negoziata con Berlino perché il sovrano ha comunque le sue esigenze, è quella che meglio corrisponde all’autoritaria auto-esaltazione del capo del Cremlino. Eppure, come tutti quando si credono invulnerabili, Putin corre più di un rischio. Le nevi di Sochi potrebbero rivelarsi sdrucciolevoli soprattutto per la protesta dei gay. La Siria è in bilico mentre il massacro continua. L’acquisto dell’Ucraina costerà alla Russia un occhio della testa. La società russa vuole più voce, non più propaganda dall’alto. E soprattutto l’economia va male (crescita media fino al 2030 circa 2,5%, un disastro per la Russia) , i capitali fuggono, gli investimenti tecnologici mancano, i tassi demografici non fanno ben sperare. Lo avranno detto, all’imperatore?

Repubblica 24.12.13
La mossa del padrone
Il realismo di Zar Vladimir in tempo di crisi
di Lucio Caracciolo


LA RUSSIA è Vladimir Putin. O almeno così pare. Il padrone del Cremlino decide e revoca, premia e punisce, fissa la rotta e tiene la barra. Lo spettacolare doppio colpo di Natale, con la grazia a Mikhail Khodorkovskij e la scarcerazione delle Pussy Riot, conferma che Putin resta l’alfa e l’omega del sistema. Il vertice della “verticale del potere”, che nella sua visione — in ciò non diversa da quella degli zar o dei bolscevichi — è la condizione stessa dell’esistenza della Russia.
Il titolo di uomo più potente del pianeta, assegnatogli quest’anno prima da Foreign Policy poi da Forbes, è dunque ben meritato. La questione è semmai quanto solidi siano i superpoteri di Putin. E quanto utili al suo paese. Con un tasso di approvazione del 61%, la sua popolarità resta alta. Le recenti performance, dal caso Snowden alla Siria e all’Ucraina, ne esaltano l’abilità strategica e diplomatica.
TALE da permettersi quell’aria di annoiata sufficienza che tanto infastidisce Obama, e non solo lui. La piazza di Mosca, dopo una intensa ma breve stagione di contestazione, sembra di nuovo infiacchita, i suoi fatui leader impegnati a beccarsi più che a organizzare l’opposizione. Insomma, nulla di nuovo sul fronte russo? Non proprio.
Nel febbraio 2002, quando Putin non era ancora il padrone della Federazione Russa e il brillantissimo quanto spregiudicato oligarca Khodorkovskij accarezzava l’idea di succedergli – che gli costerà dieci anni di galera – la rispettata Nezavisimaja Gazeta definiva il paese «un Alto Volta con missili nucleari, grandi atleti e silenziosi funzionari». A tenerlo in piedi, l’immenso tesoro energetico, quasi nient’altro. A minacciarne l’integrità, i separatismi latenti nelle periferie dell’impero e le contese per l’accesso alle ricchezze e alle casseforti pubbliche. Oggi Putin può esibire la riconquistata sovranità della Russia, la ricomposizione delle fratture geopolitiche che dopo il suicidio dell’Urss rischiavano di balcanizzare l’impero. Ma a ben guardare, le causestrutturali dell’arretratezza russa non sono state curate.
L’economia è sempre idrocarburi, armi e traffici mafiosi. I due terzi delle entrate fiscali derivano da gas e petrolio. Per tenere in equilibrio il bilancio dello Stato occorrerebbe che il prezzo del greggio si collocasse stabilmente intorno ai 120 dollari al barile. La demografia resta più che deludente. L’aspettativa di vita dei russi (63 anni per gli uomini, 75 per le donne) è condizionata dall’alcolismo di massa e dalle deficienze della sanità pubblica. La corruzione continua a corrodere Stato e società civile. Non stupisce quindi che nel 2013 l’economia risulti in quasi stagnazione (+ 1,4%, meno della metà del previsto) e che le prospettive per i prossimi anni non siano esaltanti.
È in questa luce che conviene leggere la liberazione di Khodorkovskij e l’amnistia promulgata per il ventesimo anniversario della costituzione russa. Tali mosse non si spiegano con il cedimento alle pressioni dell’opinione pubblica occidentale, né solo con l’imminenza delle Olimpiadi di Sochi, che pure sono costate già 50 miliardi di dollari e rappresentano il massimo investimento d’immagine mai azzardato dalla Federazione Russa. Più convincenti appaiono due altre interpretazioni. In primo luogo, il Cremlino ha bisogno di investimenti esteri per diversificare e modernizzare l’economia, dunque deve dare qualche segnale di apertura alla comunità degli affari. Ma soprattutto, Putin adotta una strategia flessibile per dividere e cooptare le opposizioni.
Sotto questo profilo, il destino di Khodorkovskij è esemplare. Di fatto, l’ex uomo più ricco della Russia ha scambiato la libertà con l’esilio. In linea con gli altri oligarchi della prima e della seconda ora, ai quali Putin offrì subito l’alternativa secca: o dedicarsi agli affari rinunciando alla politica oppure scegliere fra carcere e gaudente quanto obbligato soggiorno oltre frontiera. Le prime dichiarazioni di Khodorkovskij, fra no comment su Putin e ostentata rinuncia alla politica, hanno rassicurato il Cremlino. Allo stesso tempo, l’ex capo della Yukos ha criticato la debolezza dell’opposizione e la tendenza dei suoi dirigenti a giocare all’“uomo forte”: «Se continuano così, avremo un secondo Putin». Ma se è vero, secondo Khodorkovskij, che la società russa non vuole ancora cambiare sistema per emanciparsi dal paternalismo dello zar di turno, cresce il numero dei cittadini decisi a prendere in mano il proprio destino («molti più di cinque o dieci anni fa»).
Sicché Putin alterna bastone e carota. Nelle stesse ore della liberazione di Khodorkovskij, finiva in carcere il noto agitatore ecologista Evgenij Vitishko, disturbatore della quiete olimpica con le sue campagne nel Caucaso settentrionale. Insieme, negli ultimi mesi il Cremlino ha aperto il dialogo con la parte più addomesticabile dell’opposizione nazional-populista, offrendo cariche e prebende in periferia onde sradicarla dalle basi urbane (Mosca e San Pietroburgo), assai più strategiche per la stabilità del sistema.
Con l’economia in sofferenza e la rendita energetica sempre meno copiosa, la gestione degli oppositori non basta. Conquistato un posto d’onore nel Pantheon della storia patria come salvatore di ciò che residua dell’impero, ma non avendo affatto rinunciato all’idea di recuperare gran parte delle terre perdute nel 1991, Putin non può sperare di offrire un futuro dignitoso alla Russia senza riformare alle radici un regime asfittico. A costo di rischiare quel posto che Khodorkovskij non può più contendergli. Dopo il confronto televisivo del febbraio 2003, quando l’allora petroliere e finanziatore delle opposizioni filo-occidentali lo mise alle strette, Putin confidò al capo della British Petroleum, Lord Browne: «Da quell’uomo ho mangiato più polvere del necessario». Khodorkovskij l’ha pagata cara. Resta da stabilire quanta polvere dovranno mangiare i russi prima di vedere qualcuno – soprattutto qualcosa - di nuovo al Cremlino.

Repubblica 24.12.13
Mark Fejgin, avvocato delle attiviste: il presidente è nervoso, molti leader hanno già boicottato i Giochi di Sochi
“Erano diventate scomode si avvicinano le Olimpiadi”


MOSCA — Mark Fejgin, lei è stato sin dalla prima ora uno degli avvocati delle Pussy Riot. Qual è il vero motivo della scarcerazione di Nadia e Maria?
«È palesemente un motivo politico. Si avvicinano le Olimpiadi invernali di Sochi e avere in galera detenute del genere sarebbe stato scomodo per le autorità russe. Già alcuni leader mondiali hanno boicottato i Giochi, rifiutandosi di partecipare alla cerimonia d’inaugurazione e rendendo molto nervoso il Cremlino ».
Si può parlare di un’amnistia fatta su misura per le Pussy Riot e pochi altri?
«Dal punto di vista formale loro non dovevano essere scarcerate in quanto nella prefazione al testo della legge si dice che l’amnistia non si estende ai trasgressori fraudolenti del regime carcerario. E, in apparenza, “trasgressori fraudolenti” Nadia e Maria lo sono state più volte, perché le autorità carcerarie le hanno inflitto diverse sanzioni. Ovviamente non hanno trasgredito affatto: ma venivano ugualmente punite per non lasciarle uscire in anticipo,per evitare una scarcerazione per buona condotta».
Perché a suo avviso sono state scarcerate così in fretta, mentre altri detenuti che possono beneficiare dell’amnistia sono ancora dentro?
«La fretta è dovuta al puro interesse e all’opportunità politica: bisognava farlo adesso, prima che la società entri nel lungo letargo delle feste natalizie, con i giornali non escono e le tv che non trasmettono programmi politici ».
Si direbbe che le ragazze vogliano ricominciare a provocareil potere.
«Il potere non è cambiato ed è sempre pronto a perseguitarle. Se le autorità vedranno in loro un pericolo politico, le ritorsioni saranno immediate. Quindi al posto di Nadia e Maria eviterei di ripetere quella forma di attività politica che hanno praticato nel passato, tipo entrare in chiesa per maledire Putin. Direi che per loro si è creata una situazione abbastanza comoda per fare qualsiasi cosa tranne che quello che facevano prima ».
E adesso potranno rientrare in Russia le altre ragazze del gruppo che riuscirono a sfuggire e a nascondersi all’estero?
«Non mi risulta che siano all’estero. Secondo me è solo una voce che è stata lanciata per depistare le forze dell’ordine. So che l’inchiesta in merito alle altre due partecipanti non ancora identificate non è mai cessata. Ma credo che le autorità non siano più interessate a fermarle, perché frastornate dall’eco della condanna di Nadia e Maria».
(p. d. r.)

l’Unità 24.12.13
Morto Mikhail Kalashnikov: inventò l’Ak-47

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il Fatto 24.12.13
Addio all’inventore
Kalashnikov, il suo mitra su una bandiera
di Toni De Marchi


Sarebbe banale dire che è un’icona quasi senza tempo. Ma, davvero, che cosa si potrebbe dire di un fucile che sta, incrociato con una zappa, sulla bandiera del Mozambico? Che è un’icona, appunto. Un simbolo che travalica certamente la sua fama macabra che lo descrive come l’arma per eccellenza dei terroristi. Mikhail Kalashnikov, diciassettesimo di diciassette figli di contadini, neppure nei suoi sogni più audaci avrebbe potuto immaginare che il suo nome sarebbe stato conosciuto e citato in tutto il mondo, spesso con rispetto, altre volte con orrore. Non so quanti sapessero e sappiano che dietro quel nome c’era anche un uomo, morto ieri a 94 anni. Anche se in parte la storia di un uomo dietro la leggenda dell’AK-47 (questa la sigla del primo kalashnikov) è in gran parte leggenda essa stessa. L’equivalente armato del minatore Stakhanov: un esempio da esibire al mondo, ma soprattutto ai lavoratori sovietici. Così fu per il piccolo Mikhail Kalashnikov che certamente lavorò al progetto del fucile ma che di sicuro non ne fu il progettista. L’AK-47 fu concepito durante la guerra ma vide la luce solo due anni dopo la sua fine, frutto di un lavoro lungo e complesso che coinvolse molte persone. E soprattutto fece tesoro di quanto di meglio esisteva allora in termini di tecnologia per le armi leggere. Il di recupero dei gas, la parte più importante in un fucile automatico, la prese del tedesco StG 44 (Sturmgewehr, fucile d’assalto) di cui riprende anche le forme generali, così come il caratteristico caricatore ricurvo che aveva la particolarità di portare più proiettili a parità di ingombro ma che soprattutto riduceva gli inceppamenti. Il gruppo grilletto e altro vennero ispirati da un fucile americano, il mitico Garand M1, mentre la sicura era derivata dal fucile Remington M8. Insomma, un patchwork con una differenza sostanziale rispetto a tutte le altre armi dell’epoca: era molto economico da produrre, non si inceppava praticamente mai e aveva un potenza di fuoco ineguagliata. Fattori che ne determinarono un immediato successo, durato oltre sessanta anni. E che durerà ancora per chissà quanto tempo. Ma ciò che lo rese subito popolare fu la sua assoluta originalità delle forme che lo distingueva da qualsiasi altra arma del tempo (ancora per almeno quindici anni gli americani continuarono a usare i Garand semiautomatici che sparavano un colpo alla volta) e il fatto che combinava le caratteristiche di un mitra, velocità di fuoco e manegevolezza, con quelle di un fucile: potenza e relativa precisione
A MIKHAIL KALASHNIKOV il regime cominciò a riempire il petto di decorazioni e medaglie: venti, quaranta, cinquanta. Forse neppure il vecchio militare ha mai saputo davvero quante ne ha ricevute, così come nessuno sa quanti fucili siano stati prodotti nelle infinite declinazioni che si trovano in giro per il mondo. Qualcuno dice cento milioni, ma probabilmente sono di più, molti di più. Gli eserciti che li usano sono decine, quasi cento se uno prende per buona la lista degli utilizzatori pubblicata da Wikipedia, dove oltre al Mozambico che lo tiene sulla bandiera nazionale troviamo Cuba e lo Zambia, l’Albania che adesso sta nella Nato e il Togo, la Siria e la Libia. In Afghanistan lo usa l’esercito di Karzai e lo usano i Taleban. Per restare nella stessa zona lo hanno i militari indiani e quelli pachistani. E i cinesi: le sconfinate, in senso numerico e geografico, armate cinesi ne usano una copia (c’è da stupirsi?) fabbricata in casa, il Tipo 56. E ci sono anche i milioni di esemplari di tanti irregolari , dai narcos colombiani ai guerriglieri ceceni, ai bambini soldato africani.
Soprattutto il kalashnikov è assurto a simbolo assoluto, nel bene e nel male. Un simbolo potente di libertà come in quella famosissima foto di Salvator Allende che si dice lo abbia imbracciato per difendere i suoi ultimi minuti da presidente del Cile nel 1973. O simbolo drammatico di terrore come aveva ben capito Osama Bin Laden quando faceva giungere al mondo i suoi messaggi di minacce e di morte tenendo un AK-47 appoggiato di lato, ma ben visibile. Un silenzioso e macabro metamessaggio che nessun’altra arma avrebbe mai potuto mandare con la stessa, distruttiva potenza . In un’intervista del 2002 al quotidiano britannico Guardian Kalashnikov disse che se avesse saputo che la sua invenzione sarebbe stata usata dai terroristi “avrebbe preferito inventare una macchina che la gente potesse usare, che servisse ad aiutare i contadini nel loro lavoro. Ad esempio un tagliaerba”. Troppo simile a quello che disse Albert Einstein rispetto alla bomba atomica: “Se lo avessi saputo avrei fatto l’orologiaio”. Guerra e pace, realtà e propaganda. Il confine è spesso impervio e imperscrutabile. Come quello delle leggende.

Corriere 24.12.13
La morte di Kalashnikov l’uomo che ha armato gangster e rivoluzionari

Aveva 94 anni: «Era meglio inventare un tagliaerba»
di Guido Olimpio

WASHINGTON — Mentre leggerete queste righe da qualche parte nel mondo un «Kala» sta sparando. Perché è ovunque. Centro Africa, Siria, Messico, Corea del Nord. E in qualche angolo remoto chi lo imbraccia non saprà neppure che il suo inventore se ne è andato. Per sempre.
Mikhail Kalashnikov è spirato all’età di 94 anni a Izhevsk, nella regione degli Urali, consumato dalla vecchiaia e dai malanni. Ma non dai rimorsi, se vogliamo credere a quello che ci disse un giorno ad una mostra sulla difesa negli Emirati Arabi. Concetto ripetuto ad ogni intervista: lui pensava di aver dato un contributo fondamentale alla lotta contro i nemici. Aveva qualche rimpianto per non aver creato qualcosa di meno sinistro, «come ad esempio un taglia-erba». Però questo non gli impediva di essere fiero della sua creatura. Anche se ammetteva di esser dispiaciuto che fosse finita nelle mani di tanti terroristi e criminali comune.
Come è stato detto in questi anni l’Ak, caricatore dopo caricatore, si è tramutato nella vera arma di distruzione di massa. Altro che i gas. I tentativi di calcolare quante vite abbia spezzato sono inutili e sopratutto imprecisi. Appena finisci la lista, devi aggiungere subito altri nomi e molti anonimi. Il fucile d’assalto, in tutte le sue versioni, continua ad essere molto «popolare» tra gli insorti e chi li combatte. Cifre empiriche stimano tra i 70 ai 100 milioni di fucili. Ad ogni conflitto, arrivano altri ordini. Si è persino affermato che il suo costo «su strada» sia diventato un indicatore dello stato di una guerra.
Il prezzo medio globale è attorno ai 500 dollari, però in alcune zone, duranti fasi critiche, possono chiedere tre volte tanto. In altre lo trovi con pochi biglietti verdi. Nella zona del Delta nigeriano lo offrivano a 70. Nel Sudan a 86, ma ora che si è acceso lo scontro nel Sud potrebbe salire. In Siria ne arrivano molti dal vicino Iraq e i contrabbandieri chiedono un migliaio di dollari. In America, dove ha conosciuto negli ultimi due anni un boom di vendite tra i privati, lo hanno in catalogo dai 700 ai mille dollari. Circa la metà del prezzo per quelli reperibili con l’aiuto dei trafficanti. Una diffusione resa possibile anche dalle copie. Ak non autentici prodotti da altri Paesi per fare cassa con grande disappunto di Mr Kalashnikov che ha visto taroccare il suo prodotto, nato da un’altra idea. Più patriottica, «per difendere i confini del paese».
La storia racconta che Mikhail abbia messo a punto il primo fucile per offrire all’Armata Rossa qualcosa che potesse competere con i rivali tedeschi e americani. Sergente, dopo essere rimasto ferito in battaglia, questo ingegnere fai da te, figlio di un famiglia deportata in Siberia, si è messo al lavoro e ha fatto centro. In tutti i sensi. Dalla sua officina è uscito un pezzo robusto, «agile» da portare, facile da tenere in ordine, in grado di operare in qualsiasi condizione. Sabbia, ghiaccio, fango, sono nemici per armi troppo sofisticate, ma non per l’Ak. Inevitabile che fosse la prima scelta per insorti e movimenti. Portato a tracolla o nascosto sotto il giubbotto grazie al calcio pieghevole. Il Kalashnikov si è trasformato in un’icona. È stampato sulle bandiere dei movimenti, fa da corona al logo di fazioni, mescolato con stelle rosse, scimitarre, versetti religiosi, slogan rivoluzionari. Proseguimento di un pugno alzato che lo tiene in alto, segno di sfida e di forza.
Un successo che ha portato a Mikhail molto onore. Grado di generale, titolo di «eroe», riconoscimenti ufficiali per un uomo che ha vissuto come un trauma profondo la fine dell’Urss, le svolte di Gorbaciov e Eltsin. Ma nelle sue tasche non è mai arrivato il denaro che avrebbe ricavato chiunque altro. Le autorità moscovite non gli hanno mai riconosciuto i diritti. Stranezze della vita. Come conferma un episodio avvenuto pochi giorni fa nello Yemen. I familiari delle vittime di un raid americano sono stati risarciti con una forte somma e un centinaio di Kalashnikov. Serviranno a togliere di mezzo altri essere umani.

il Fatto 24.12.13
Conflitto segreto
Colombia, Obama ha ucciso come Bush
A rischio i negoziati tra Farc e governo
di Maurizio Chierici


Da mesi governo colombiano e guerriglia provano a fare la pace all’Avana, ed ecco che si apre un capitolo imbarazzante nella storia delle Farc (Forze armate rivoluzionarie colombiane), la più antica rivolta sopravvissuta al comunismo. Nel 2000 il governo di Bogotà si è affidato alla tecnologia Usa: Cia e mille uomini del Pentagono hanno cominciato a eliminare i comandanti Farc ritenuti “pericolosi”. Lo racconta il Washington Post. Soprattutto lo conferma El Tiempo, grande giornale di Bogotà, proprietà della famiglia Santos. Juan Manuel-Santos lascia il Tiempo per diventare ministro della Difesa del presidente Uribe e i rapporti con Bush figlio si trasformano in idillio. Santos ha studiato negli Stati Uniti: laurea ad honorem ad Havard, legame di ferro che Obama mantiene senza scandalo adesso che Juan Manuel governa da presidente.
Come in Afghanistan e Medio Oriente, il Pentagono applica la strategia collaudata dagli israeliani per sbarazzarsi di chi dà fastidio. Un piano iniziato con l’amministrazione Bush, e proseguito con Obama. Raul Reyes, portavoce internazionale Farc, è stato colpito un passo dentro l’Ecuador.  Com  ’è possibile che da un F16 Usa, di pattuglia lungo il confine colombiano, parta un missile che con precisione da chirurgo colpisce nella foresta l’accampamento di 16 guerriglieri d’alto rango, sorpresi mentre dormivano? Adesso c’è la spiegazione. I servizi colombiani infiltravano spie con l’incarico di deporre segnalatori radio attorno al bersaglio. Aerei dalla mira sicura. Delitti mirati di un paese non coinvolto. Scandalo internazionale? Nessuno alza la voce. Solo curiosità.
COMINCIANO nel 2007. Muoiono El Negro Acacio, comandante con briglie del narcotraffico e commercio d’armi, e Mono Jojoy, segretario generale Farc, radicale e violento. Santos ne annuncia felice la fine: “È scomparso un criminale “. Muore Martin Caballeros, specialista nelle operazioni urbane. A Cartagena de Las Indias aveva provato a sequestrare il presidente Usa quando Clinton era andato a far visita a Gabriel Garcia Marquez. Sequestra e tiene prigioniero per 7 anni il cancelliere colombiano Felix Araujo. Lo ricorda una tuta leopard coperta di strane medaglie: placche-distintivo dei militari che ha ucciso. Insomma, non proprio idealisti beatificati dall’impegno del difendere il popolo. L’ultimo censimento fa i conti delle vittime accumulate nel mezzo secolo di guerra civile: 5 milioni e 996 mila, senza contare le mine che hanno strappato mani e gambe ai contadini. E poi migliaia di bambini testimoni di una violenza che gli anni non hanno sfuocato. I consiglieri del presidente Santos commentano le rivelazioni dell’intervento Usa con il tono di una società che si considera “pacificata”. Un anno di trattative ha attenuato gli scontri. “Non paragoniamo – sostengono – le operazioni colombiane all’Afghanistan affamato e medioevale. Dieci anni fa Bogotà era la capitale degli omicidi. È tornata la città delle tertullias, caffè letterari dove si declamano poesie. Violenza e narcos si sentono meno”.
Non è proprio così. Al telefono Andrés Pastrana, ex presidente, è meno compiaciuto quando racconta la vita di Bogotà: “Al tempo del mio governo (anni 90 ) le relazioni con gli Stati Uniti erano cambiate. Nella sua prima visita Clinton aveva riconosciuto i vantaggi di una politica impegnata a dialogare con la guerriglia. Poi tutto è saltato. Non sono coinvolto nel Plan Colombia”. Lo riconosce il Washington Post aggiungendo che il piano antidroga appoggiato dagli Usa non è mai stato sincronizzato all’eliminazione dei comandanti ribelli. Come dire: continuiamo a combattere i narcos senza mescolare l’impegno umanitario con intrighi. Dall’Avana nessun commento. Mesi e mesi di incontri, ed ecco la notizia che può minacciare i protocolli concordati. Forse in previsione della protesta dei paesi Cono Sud, già arrabbiati per le rivelazioni di Snowden sulle interferenze Usa, ecco che un tribunale della Virginia chiede l’estradizione di Omar de Jesus Restrepo Correa (nome di battaglia Omero Ruiz) e di Adeam de Jesus Garcia (Conej): terrorismo e traffico di droga. Continuano l’eredità del Negro Acacio. Il guaio è che Correa e Garcia fanno parte della commissione che sta trattando a Cuba. Se per paura se ne vanno in Colombia ricominciano i fuochi.

Repubblica 24.12.13
“È festa anche senza Gesù” la sfida dei laici in piazza per l’altro Natale a New York
Riunione degli atei a Times Square: “Alziamo la testa”
Un’associazione di atei ha comprato uno spazio pubblicitario all’ingresso del Lincoln Tunnel che dal New Jersey conduce a Manhattan. A rotazione compaiono diversi messaggi con scritte luminose
di Massimo Vincenzi


NEW YORK — Il vento gelido pieno di acqua e neve li inzuppa e scoraggia i meno temerari, ma una ventina di persone resiste a Times Square, nel cuore di New York, con gli occhi all’insù puntati verso i grandi tabelloni luminosi della pubblicità. Qualche minuto e come un segno soprannaturale appare la scritta: «Chi ha bisogno di Gesù nel Natale? Nessuno», urla e applausi. Lo spot è un’iniziativa di una delle maggiori associazioni di atei, guidata da David Silverman, che in questi giorni spopola nei talk show delle televisioni: «Ci sono milioni di non credenti nel Paese, dobbiamo difendere i nostri diritti» è il suo ritornello. Il video è solo l’ultimo capitolo della battaglia che anima gli Stati Uniti da costa a costa: la chiamano The War on Christmas e nei due schieramenti si sfidano novelli Scrooge e ultraconservatori cristiani che respingono colpo su colpo i tentativi si laicizzare il loro rito. Uno dei paladini è l’opinionista della Fox Bill o’Reilly, che secondo un commento ironico della rivistaThe Atlantic, segue il conflitto con «dispacci che ricordano le diretta dal fronte iracheno». Al suo fianco arriva subito Sarah Palin che attinge al consueto vocabolario da crociata permanente: «Vogliono abortire Gesù dal Natale».
Ma in una nazione dove uno su cinque dichiara di non appartenere ad alcuna religione e se si scende sotto i trent’anni anni la percentuale passa al 33%, i non credenti non restano a guardare. A Sacramento un gruppo di “agnostici” si autofinanzia e tappezza le strade con una sessantina di manifesti che inneggiano ad una festa senza religione: «Molti di noi in questo periodo dell’anno si sentono soli, esclusi da una dittatura culturale. Non vogliamo combattere la Chiesa, ma aiutare questa gente ad uscire allo scoperto, a sentirsi partedi una comunità».
È l’orgoglio laico, che nei biglietti di auguri scrive “buone feste”, che appende agli angoli delle strade cartelli a metà tra il rito pagano e l’ironia: “Buon Solstizio”, la notte più lunga dell’anno che cade appunto tra il 22 e il 24 dicembre. IlNew York Timesracconta il fenomeno come una sorta di movida: «Non vogliamo essere tristi, non vogliamo sentirci emarginati. Come a tutti anche a noi piacciono le feste, soltanto le vogliamo celebrare a modo nostro», spiega Michael Dorian uno dei leader del movimento. E così ecco spettacoli, convegni, proiezioni didocumentari, ma soprattutto feste nei bar di Manhattan con concerti dal vivo e karaoke: «Sì, ci vogliamo divertire. Alziamo la testa fieri delle nostre convinzioni », ripetono i partecipanti, un variegato spaccato sociale di laici, agnostici, atei, anti clericali.
Ma la religione è materia delicata da maneggiare e così la guerra sul Natale vive anche momenti meno scherzosi. A Chicago le opposte fazioni vengono alle mani davanti ad un mercatino affollato di famiglie ed è dovuta intervenire la polizia. In una piccola cittadina del New Jersey il comitato locale dei noncredenti ha messo un taglia di duemila dollari per individuare i responsabili del rogo che ha bruciato il loro cartellone con la scritta: “Teniamo Saturno dentro i Saturnali” con riferimento alla festa pagana e in risposta allo slogan dei rivali: “Teniamo Cristo dentro il Natale”. In California un uomo, offeso dal grande presepe allestito nel suo paese ha denunciato il sindaco: «Offende la mia libertà». A Long Island, in una scuola, il coro della consueta recita di fine anno è stato epurato dai riferimenti religiosi facendo infuriare un papà per niente contento della novità. «Stiamo sconfinando nel ridicolo », scrive un blogger sull’Huffington Post.Tanto, alla fine, questa notte quando scende il buio e si accendono le luci dell’albero tutti gli Scrooge del mondo tornano bambini e aspettano fiduciosi lo Spirito del Natale, laico o cristiano che sia.

Repubblica 24.12.13
Egitto
La Spoon River di Piazza Tahrir in cella i protagonisti della rivoluzione
Gli attivisti che cacciarono Mubarak nel mirino dei militari
di Francesca Caferri


IL VOLTO migliore per raccontare questa storia è quello di Bassem Mohsen: rivoluzionario della prima ora, da subito in piazza in quel 18 gennaio del 2011 che vide l’Egitto risvegliarsi, Bassem era uno di quelli che non si erano mai arresi di fronte al declino della rivolta. Era rimasto in strada quando la giunta militare che aveva destituito Mubarak sembrava non voler lasciare il potere, aveva perso un occhio negli scontri con la polizia del novembre 2011, era finito sotto processo sotto il presidente islamista Morsi, poi era stato fra i leader dei Tamarod, il movimento che la scorsa estate aveva invocato la cacciata dei Fratelli musulmani e del loro leader. Bassem è morto domenica dopo essere stato colpito dai proiettili dei militari mentre manifestava contro quel governo che gli stessi Tamarod avevano contribuito a insediare. «Era un figlio della rivoluzione del 25 gennaio e di quell’Egitto che divora i suoi figli», scriveva ieri in Rete un blogger nel ricordarlo.
Di figli come lui, in questi quasi tre anni che lo separano dalla rivolta di Piazza Tahrir, l’Egitto ne ha divorati parecchi. Da mesi, uno dopo l’altro, i ragazzi che fecero la rivoluzione sono nel mirino: «La rete si stringe», titolava ieri l’Economist, ed è difficile dare torto al settimanale britannico. Da tempo è ormai chiaro che gli attivisti che hanno buttato giù Mubarak, i rivoluzionari che si erano illusi di aver cambiato il destino loro e del loro paese con quelle mitiche 18 giornate, sono diventati l’obiettivo del governo: composto da quegli stessi militari che erano stati loro a sostenere quando si trattava di buttare fuori dai palazzi del potere gli islamisti.
Domenica, mentre in un ospedale del Cairo moriva Bassem Mohsen, a qualche chilometro di distanza i giudici condannavano a tre anni di reclusione tre dei volti più noti del Movimento del 6 aprile, il manipolo di giovani, sindacalisti e blogger che ben prima del 2011 aveva chiamato l’Egitto alla rivolta. Ahmed Maher, Ahmed Douma e Mohamed Adel erano finiti in carcere in base a una nuova legge che punisce tutti coloro che protestano senza autorizzazione contro il governo. Ieri centinaia di persone hannomarciato nel centro del Cairo chiedendo la loro liberazione, ma è difficile che i tre possano uscire presto.
Con tutta probabilità una sorte simile a quella dei suoi tre amici toccherà anche ad Alaa Abdel Fatah, meglio noto come @Alaa, il più noto blogger egiziano, anche lui fra i fondatori del Movimento del 6 aprile, arrestato con le stesse accuse degli altri: a fine novembre la polizia ha fatto irruzione di notte nel suo appartamento terrorizzando moglie e figlio e lo ha portato via, nonostante Alaa avesse fatto sapere che si sarebbe presentato agli agenti il giorno dopo. «Qui i regimi cambiano, ma una cosa resta sempre uguale: tutti arrestano @Alaa», scriveva poche ore dopo un altro blogger egiziano, ricordando che Abdel Fatah era stato imprigionato dagli uomini di Mubarak prima e da quelli di Morsi poi.
Per evitare una sorte simile, da qualche mese non fa ritorno in Egitto Wael Ghonim, il manager di Google che con la pagina Facebook “Siamo tutti Khaled Said” era stato tra i primi ad usare la Rete come mezzo per convogliare il dissenso contro Mubarak: accusato di essere un sostenitore dei Fratelli musulmani tramite un video manomesso e diffuso in Internet, Ghonim rischia l’arresto. Così vive all’estero e da mesi mantiene un amaro silenzio sulla situazione nel suo paese.
Non va meglio alle ragazze, altre grandi protagoniste delle giornate di Tahrir: Asma Mahfouz, l’impiegata velata che spinse migliaia di persone in piazza con un video pubblicato su Youtube, è sospettata di essere una spia straniera ed è sotto inchiesta. Mona Seif, sorella di Abdel Fatah, nelle scorse settimane è stata prelevata di sera insieme ad altre due attiviste e scaricata in piena notte nel deserto fuori dal Cairo, dopo essere stata minacciata e molestata da uomini misteriosi. Il giorno dopo ha denunciato l’accaduto, puntando l’indice contro i militari al potere: «Non ci fermeranno », ha detto. Sarebbe bello pensare che ha ragione: ma mentre l’anniversario della rivoluzione si avvicina a grandi passi, sui giovani che fecero grande Piazza Tahrir si allungano ombre sempre più minacciose.

l’Unità 24.12.13
Sedotti dalle sirene
Un’anticipazione dal libro «Anche il mare sogna»
Un nuovo saggio dedicato alle filosofie dei flutti
Tra naufragi simbolici e grandi metafore
di Luciano De Fiore

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l’Unità 24.12.13
«La nostra poesia batte la guerra»
A Jalalabad, terra di pashtun, un circolo letterario davvero inusuale
«Distruggono anche le nostre scuole e noi ci difendiamo così»
Un gruppo di scrittori tiene alta la tradizione e tramanda versi e parole
di Giuliano Battiston

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il Fatto 24.12.13
“La mia vita tutta intuito e niente potere E nemmeno marito”
Rita Levi Montalcini “A vent’anni dissi a mio padre di non avere nessuna intenzione di avere né figli né una famiglia”
“Sono stata incerta tra la carriere scientifica o fare il medico. Mi è stato impedito l’uno e l’altro”
“Allora ho messo su un laboratorio in camera da letto e lì ho fatto quelle scoperte che mi hanno portato a Stoccolma”
di Enzo Biagi


Professoressa Montalcini lei è la sola donna italiana ad avere ricevuto il Nobel in discipline scientifiche. Come ha avuto la notizia di questo riconoscimento?
Il giorno prima che fosse reso noto ero a Stoccolma per una conferenza. Al termine il direttore della conferenza ci disse: “Tutti voi dovete immediatamente inviare la relazione scritta”. Poi si rivolse alla sottoscritta: “Lei non lo dovrà fare. Spero di rivederla presto”. Prima della partenza mi chiesero se volevo rimanere altri due giorni. Risposi che per impegni dovevo partire. Quando me ne andai non lo sapevo che avrei ricevuto il Nobel. Il giorno dopo, ero già a Roma, mi arrivò la telefonata con la notizia.
Come ha vissuto il giorno della consegna del premio?
È stata una bellissima cerimonia, ma non mi ha colpito più di tanto, ero preparata all’incontro con il re e con le altre personalità. Vedevo gente intorno a me che piangeva, che mandava fiori, io, invece, ho partecipato con un certo distacco a quelle emozioni. Le giornate importanti sono state quando ho fatto le scoperte scientifiche, quelle sì che hanno inciso nella mia vita.
Lei si accorse subito dell’importanza della sua scoperta sulla crescita della fibra nervosa?
Me ne sono resa conto immediatamente, perché quella scoperta andava contro i dogmi che sostenevano che la nostra vita è segnata dal programma genetico. È vero per gli insetti, per i più bassi livelli tra gli invertebrati e i vertebrati, ma non per la vita dell’Homo sapiens. Noi siamo programmati dai geni, in parte sì, ma è importante l’influenza che esercita la parte epigenetica: l’ambiente, le ore della prima infanzia, perché decidono come ci comporteremo nel futuro. Io avevo scoperto una molecola che interagiva con il sistema nervoso e questo era contro il dogma che diceva che invece il sistema nervoso era rigidamente programmato. Gli insetti sono esattamente uguali ai loro progenitori di seicento milioni di anni fa, l’Homo sapiens, invece, differisce dall’australopiteco non solo nel programma genetico ma per l’ambiente nel quale vive che può modulare completamente il suo modo di agire.
Che qualità deve avere un ricercatore?
L’impegno, l’entusiasmo e l’intuito. Da parte mia non c’è stata razionalità, ho fatto la scoperta per intuito, non ho mai avuto capacità raziocinanti. La biologia molecolare la conosco, ma non sarei mai stata una buona molecolare. Quando ho raggiunto l’obiettivo, è stato grazie all’intuito di andare contro corrente, non credere a ciò che era scritto nei libri sul sistema nervoso, l’intuito mi ha fatto capire quello che gli altri non capivano. Ho sempre lavorato fuori dalla norma sin dalla prima volta, e non ho più smesso. Ripeto: impegno, entusiasmo, intuito e tanta, tanta fortuna.
E un medico?
Come tutti, dall’artista, al ricercatore, all’operatore sociale, il medico deve impegnarsi nel suo lavoro. Deve credere nei valori e aiutare al massimo i malati.
Quali sono i limiti morali che uno scienziato si deve porre?
Esattamente gli stessi di tutti gli altri. Uno scienziato deve prevedere gli sviluppi di una scoperta? Quando, per esempio, Fermi ha scoperto la fissione dell’atomo, quando Watson e Crick hanno scoperto il Dna, non potevano prevedere gli sviluppi. È difficile per lo scienziato prevedere, del resto non si può mettere il chiavistello al cervello. Noi uomini differiamo dagli animali per questo formidabile sviluppo della neocorteccia cerebrale. La ricerca deve continuare ma sotto controllo. Tuttavia il controllo è difficile da portare avanti perché molte cose non sono controllabili.
Lei è religiosa?
Oh no, sono laica al cento per cento. Tuttavia ho il massimo rispetto per tutti, la religione è un fatto personale e ognuno ha il diritto di essere religioso o no. Io sono laica.
Nei momenti di tristezza e di disperazione quando molti si rivolgono a Dio lei come si regola?
Io ho cercato in me la forza. Come sto facendo in questo momento per la perdita della vista, che è grave, ma ancora di più la perdita di persone care come mio padre.
Lo chiesi anche a Primo Levi. Cosa significa essere ebreo?
Io e lui siamo stati ebrei di complemento. Abbiamo scoperto di essere ebrei quando ci hanno considerato di razza inferiore. Prima né io né lui lo sapevamo. Non gli ho mai dato tanta importanza, a casa mia non si era religiosi, non eravamo osservanti, non sono mai andata in sinagoga se non per la morte di mio padre.
Essendo la sua famiglia ebrea, la scuola, gli amici, le facevano sentire qualche differenza?
No, quando ero piccola le bambine prima di giocare chiedevano: “Cosa fa tuo papà e qual è la tua religione? ”. Per me era facile rispondere che mio papà era ingegnere. In quanto alla religione mio padre mi aveva insegnato che ero una libera pensatrice, lo sono diventata a tre anni, prima di sapere cosa volesse dire pensare. Quindi rispondevo: “Mio padre è ingegnere e io sono una libera pensatrice”.
E delle ingiurie verso gli ebrei?
Le ho sempre ignorate. Erano talmente di basso livello che non meritavano perdere tanto tempo di parlare di queste cose.
Ha avuto paura?
No, mai. La mia vita è stata tanto fortunata che la paura non so dove sta di casa. Ho una forte tendenza a vedere tutto con ottimismo anche le cose che non lo sono, come essere stata dichiarata di “razza inferiore”.
Come ricorda la vita di famiglia nella Torino della sua giovinezza?
Amavo mia madre, temevo mio padre. Poi dopo la sua morte ho riconosciuto quanto dovevo a lui. Era l’epoca vittoriana, l’epoca in cui l’uomo dominava. Mia madre era sottomessa come tutti noi. Mio padre era un uomo di grandissima intelligenza, generoso, amava molto noi figlie. Siccome le sue tre sorelle si erano laureate e non avevano avuto, secondo lui, una vita felice, aveva deciso che le tre figlie non dovevano coniugare la vita professionale con quella matrimoniale. A vent’anni gli ho detto di non avere nessuna intenzione di avere né un marito né figli, che mi lasciasse fare quello che volevo.
So che lei era incerta se scegliere tra filosofia e medicina.
Prima della morte della mia amata governante avevo questo dubbio, dopo, invece, mi sono resa conto che la mia vera vocazione non era la filosofia ma curare il vicino che stava male, così ho deciso di fare medicina. La prima idea fu quella di partire per l’Africa come infermiera per curare i lebbrosi. Poi, una volta laureata, ero allieva del professor Giuseppe Levi, padre di Natalia Ginzburg, grande scienziato, sono stata incerta se fare la carriera scientifica oppure fare il medico. Mi è stato impedito l’uno e l’altro. Allora ho messo su un laboratorio in camera da letto, piccolissimo, e lì ho fatto quelle scoperte che mi hanno portato a Stoccolma. Poi ci sono stati i bombardamenti del giugno 1940. Ho lasciato, con la famiglia, Torino, siamo andati in un piccolo paese della provincia di Asti. Lì ho continuato le mie ricerche in cucina, facendo altre scoperte. Quando sono arrivati i nazisti siamo andati a Firenze con un altro nome. Sono entrata nel Partito d’azione, ma non attiva in quanto con me c’era mia madre e tremavo per lei. Quando, nell’agosto del ’44, Firenze è stata liberata, mi sono dedicata alla cura di quelli che venivano dal Nord occupato, dalla linea gotica, persone, bimbi morenti. Io ero medico, assistevo i feriti e i malati giorno e notte. Avevamo messo su un ospedale in una caserma diroccata. Morivano tra le cinquanta e le sessanta persone al giorno. Alla fine della guerra ho continuato la carriera di medico. Poi sono stata invitata negli Stati Uniti perché le mie pubblicazioni scientifiche erano diventate note. Ho ricevuto l’invito nel ’46 e sono partita nel ’47 insieme a Renato Dulbecco.
Lei è partita su una piccola nave polacca per gli Stati uniti, lasciando il compagno che voleva sposarla. Ha qualche rimpianto?
Nessun rimpianto. Quando sono partita ho lasciato Guido. Ero consapevole che non sarebbe stata possibile una vita con lui. Guido era protestante, ma questo non c’entra, era un bravo medico, ma risentiva della mia dedizione scientifica e la vita insieme non sarebbe stata possibile.
Lei ha detto che se avesse avuto una famiglia l’avrebbe trascurata per il lavoro. Nella sua storia il lavoro che cosa rappresenta?
Tutto. Direi che ancora oggi il lavoro, occuparmi dei problemi sociali, sono le mie passioni. Il lavoro è il piacere. La ricerca ha sempre esercitato in me un grande fascino. Il lavoro era tutto, non ho mai cercato né il piacere dello svago, né della società, ero lontana da queste cose, mi lasciavano totalmente indifferente.
Gli incontri decisivi nella sua storia.
Giuseppe Levi per la sua personalità, non per il tipo di ricerca che detestavo, io non ero una istologa. Lo stimavo tantissimo, era un antifascista di alta moralità. È stata la figura che ha inciso di più nella mia vita.
Come ha vissuto l’esperienza americana?
Bene. Fortunatamente mentre la vivevo, non ero consapevole delle deficienze che oggi sento raccontare. Quando ritorno negli Stati Uniti sento acutamente l’errore di questa società così tesa al successo e al benessere. Oggi non potrei più vivere in America, ma quando ci vivevo ci stavo bene. Ero alla Washington University, erano tutti ebrei russi e polacchi, fisici di un’intelligenza eccezionale. I miei rapporti erano con loro e non con gli italiani, che erano tutti fascisti, innamorati di Mussolini, nonostante fosse morto da tempo. Piccola gente.
Da donna lei mi sembra come Cristoforo Colombo, è entrata in un mondo che era più maschile che femminile, forse un’eccezione come madame Curie, come si è trovata in questo mondo di uomini?
Benissimo, non ho mai avuto problemi né per essere ebrea, né per essere donna. Come donna mi hanno accettato appena arrivata, come anche in Italia.
Parliamo di un argomento che mi sta a cuore: la vecchiaia. Quand’è che uno è vecchio?
Dipende da noi. Se viviamo in paesi in via di sviluppo non si è mai vecchi perché si è necessari alla società. In paesi come gli Stati Uniti, dove conta la bellezza, il fisico, si è vecchi a cinquant’anni. Tra poco ho novant’anni, sono nella quarta età, la vivo con serenità e non mi pesa affatto, almeno fino a quando non ci sarà un buco nel cervello.
Il cervello non invecchia?
Certamente invecchia, muoiono centinaia di migliaia di cellule, ma il cervello ha una formidabile capacità di rinnovarsi. Se uno lo ha mantenuto in funzione e non è stato colpito da una malattia degenerativa, quel cervello non differenzia di molto da quando era giovane.
Professoressa un consiglio ai giovani per come affrontare le prove che li attendono?
È una domanda molto impegnativa, posso dire solo come ho vissuto io: completo disinteresse per se stessi e completo interesse verso gli altri e ai problemi che ci circondano. Evitare le catene senza ritorno come la droga, la criminalità, ma ancora di più il potere sia economico che di prestigio.

il Fatto 24.12.13
La mente infinita, dal Nobel a Palazzo Madama
Attaccata perché senatrice a vita, replicò: “Non esistono le razze, esistono i razzisti”
di Loris Mazzetti


A Torino, nei primi anni Trenta, tre studenti di Medicina frequentarono insieme l’istituto di Anatomia diretto dal professor Giuseppe Levi: Salvatore Edoardo Luria, Renato Dulbecco, Rita Levi-Montalcini. Tre eccellenze italiane che rispettivamente: nel 1969, 1975 e 1986 ricevettero il Premio Nobel per la Medicina. I tre ricercatori non avevano in comune solo il professor Levi, erano stati costretti a lasciare l’Italia per gli Stati Uniti per continuare la loro sperimentazione.
Luria arrivò a New York nel ’40, Dulbecco e Montalcini nel ’47. La loro è una storia di “cervelli in fuga” da un paese, l’Italia, che da sempre trascura la ricerca, e il più delle volte, se viene fatta, lo si deve al sacrificio dei cittadini e non al merito di chi governa. Se, negli anni della guerra e della ricostruzione, la carenza di risorse per la ricerca poteva essere giustificato, oggi no. Tutti i governi, chi più chi meno, hanno la loro dose di responsabilità. Nei momenti di crisi i primi contributi a essere tagliati sono quelli della ricerca e della cultura, ignorando che il progresso della scienza dipende esclusivamente dalle risorse destinate alla ricerca: è in gioco il futuro della nostra vita e del pianeta intero. L’intervista di Enzo Biagi che il Fatto Quotidiano pubblica oggi è alla professoressa Rita Levi-Montalcini, a pochi giorni dal primo anniversario dalla morte avvenuta il 30 dicembre 2012, alla straordinaria età di 103 anni. Il programma Fratelli d’Italia (in onda su Rai 1 e realizzato da Videa Produzioni di Sandro Parenzo) aveva come sottotitolo: “Medicina, viaggio nella speranza”. Uno degli ultimi appelli della professoressa Montalcini a favore della ricerca è datato marzo 2012 quando, insieme al senatore Marino, rivolse un appello al presidente del Consiglio Monti che stava per far approvare il decreto sulla Semplificazione: “Affinché non cancelli il futuro di tanti giovani ricercatori, che coltivano la speranza di poter fare ricerca in Italia”.
LA VITA della grande ricercatrice è stata interamente dedicata alla scienza: socia nazionale dell’Accademia dei Lincei, tra i creatori della Fondazione Idis-Città della Scienza, è stata la prima donna a essere ammessa alla Pontificia accademia delle Scienze. Nel 1986 ricevette il Nobel per la scoperta e l’identificazione del fattore di accrescimento della fibra nervosa o Ngf (Nerve groowth factor). “Quello che molti ignorano è che il nostro cervello è fatto di due cervelli” ha scritto Rita Levi-Montalcini. “Un cervello arcaico, limbico, localizzato nell’ipocampo, che non si è praticamente evoluto da tre milioni di anni a oggi, e non differisce molto tra l’Homo sapiens e i mammiferi inferiori. Un cervello piccolo, ma che possiede una forza straordinaria. Controlla tutte quelle che sono le emozioni. Ha salvato l’australopiteco quando è sceso dagli alberi, permettendogli di fare fronte alla ferocia dell’ambiente e degli aggressori. L’altro cervello è quello cognitivo, molto più giovane. È nato con il linguaggio e in centocinquantamila anni ha vissuto uno sviluppo straordinario, specialmente grazie alla cultura”. La Fondazione, che porta il suo nome, è rivolta alla formazione e all’educazione dei giovani. Annualmente vengono assegnate borse di studio universitarie a studentesse africane. L’istruzione è la chiave dello sviluppo. “Così come un battito di ali di una farfalla, nella foresta dell'Amazzonia” scrive sempre la Montalcini “può provocare, anche a distanza di tempo, un uragano al polo opposto del globo, allo stesso modo le finalità della nostra Fondazione, mediante l'assegnazione di borse di studio nelle più critiche situazioni africane, possono innescare meccanismi di trasformazione radicali, vantaggiosi a livello mondiale”. Nel 2001 fu nominata senatrice a vita dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. In molti si aspettavano che a 92 anni, il nuovo incarico, venisse considerato poco più che un’onorificenza, invece la senatrice Montalcini lo svolse fino all’ultimo con il massimo dell’impegno, e spesso il suo voto rappresentò l’ago della bilancia, al punto che, l’8 ottobre 2007, il centrodestra, capitanato da Storace, convocò una conferenza stampa per comunicare l’intenzione di “abolire i senatori a vita” attraverso l’abrogazione dell’articolo 59 della Costituzione. Concludendo: “Intanto giovani della Destra stanno portando a casa dei senatori a vita delle stampelle”. Le stampelle rappresentavano simbolicamente il sostegno dei senatori a vita al governo Prodi.
LA REPLICA della senatrice Montalcini non si fece attendere: “A quanti hanno dimostrato di non possedere le mie stesse facoltà mentali e di comportamento, esprimo il più profondo sdegno non per gli attacchi personali, ma perché le loro manifestazioni riconducono a sistemi totalitari di triste memoria”. Ricordando quel principio che l’accompagnò per tutta la vita: “Non esistono le razze. Esistono i razzisti”.

Corriere 24.12.13
Un secolo fa in America quella Vigilia di sangue nei locali dell’Italian Hall
Per uno sciopero proibito morirono 73 persone
Il folk singer Woody Guthrie dedicò al massacro una canzone, ripresa anche da Bob Dylan
di Gian Antonio Stella


Si erano messe un fiocco tra i capelli e il vestitino più bello, Teresa Rinaldi e Jenny Giacometto e le altre bambine invitate alla festa di Natale all’Italian Hall. E i ragazzini, come usava allora, avevano indossato la giacchettina e qualcuno era stato aiutato dalla mamma ad allacciarsi perfino una piccola cravatta. Avevano atteso con impazienza, quella festa. Perché nelle case, da mesi, c’era aria pesante. E nei piatti, quando era ora di mangiare, la carne era sempre più rara.
Calumet, un paese del Michigan sulla penisola di Keweenaw che si allunga nel Lake Superior verso il Canada e oggi è ridotto a meno di un migliaio di abitanti, era cento anni fa uno dei centri mondiali del rame. E in una manciata di anni e aveva attirato un sacco di immigrati. Slavi, finlandesi, italiani.
Erano poveretti arrivati lassù dopo viaggi interminabili inseguendo il sogno narrato, ad esempio, da Samuele Battista Turri che nelle sue sgrammaticate ma vivissime memorie scrisse: «Nel 1912 volli raggiungere anch’io i compagni nell’America del Nord dove il compenso era pari a tre dollari — 15 lire — per nove ore di lavoro: la fortuna era imminente». Un’illusione svanita davanti al primo menu di una trattoria: «Conoscevamo una sola parola, “bistek”, e l’indicammo col dito. Fummo serviti, come tutti, e anche il conto avemmo, come tutti: un dollaro e cinquanta pari a 7 lire e mezzo (…) Sospettammo che la fortuna non fosse così vicina…». Erano pagati una miseria e non avevano tutela sindacale, i minatori della penisola di Keweenaw. E quando i proprietari della «Calumet e Hecla Mining Company» introdussero un nuovo trapano che poteva essere manovrato da un solo uomo anziché due, videro affacciarsi lo spettro di licenziamenti di massa. Fu così che il 23 luglio 1913 proclamarono uno sciopero. Decisi a ottenere il riconoscimento dei sindacati, tre dollari di paga al giorno e una riduzione da dieci a otto ore al giorno di lavoro.
La reazione della Società mineraria fu durissima. Rastrellò un po’ di crumiri, portò da fuori migliaia di disperati disposti a tutto, minacciò gli scioperanti di buttarli fuori dalle loro case, arruolò i vigilantes della compagnia di sicurezza Waddell-Mahon di New York. Gente col pelo sullo stomaco. Pronta a sparare per difendere la produzione di rame.
Andò avanti per mesi, lo sciopero. E via via che l’autunno si fece più rigido lasciando il posto all’inverno, un inverno gelido e gonfio di neve, la vita dei minatori diventò sempre più difficile. Quando arrivò Natale erano stremati. Non vollero, però, rinunciare a organizzare, nel pomeriggio della vigilia, una festa per i loro bambini. Appuntamento all’auditorium della Società di Mutua Beneficenza Italiana, a tutti nota come l’«Italian Hall», sul cui pennone svettavano il tricolore e la bandiera americana.
A metà pomeriggio, quando già era buio pesto, i bambini erano felici. Avrebbe cantato un quarto di secolo dopo il grande folk singer Woody Guthrie in «1913 Massacre», più avanti ripresa anche da Bob Dylan, che i piccoli cantavano e giocavano intorno all’albero natalizio e finalmente anche gli adulti trovavano un po’ di tregua dopo mesi di tensione, di scontri con i vigilantes e di fame: «Si parla e si ride e si sentono canzoni nell’aria / e lo spirito del Natale è dappertutto / Prima che possiate saperlo siete già amici con tutti noi / e state ballando tutt’intorno nella sala». Finché, come ricorda la canzone, la festa sfocia in una tragedia: «Una ragazzina siede accanto alle luci dell’albero di Natale / a suonare il piano, perciò state in silenzio / Ad ascoltare tutta questa gioia non vi accorgete / che gli scagnozzi del boss del rame si stanno muovendo di fuori / Gli scagnozzi del boss del rame ficcarono le teste nella porta / ed uno di loro urlò: “C’è un incendio!” / Una donna gridò: “Non c’è niente del genere! / Continuate la festa, non c’è niente del genere!”».
I tentativi di placare il panico del fuoco sono inutili. Solo due anni prima, i racconti dell’incendio del 25 marzo 1911 alla camiceria della Triangle Shirtwaist Company che ha ucciso 146 operai e soprattutto operaie, in larga parte italiane, hanno colpito tutti gli americani. Le cronache sul «Daily» della catastrofe («Qualcuno pensò di tendere delle reti per raccogliere i corpi che cadevano dall’alto ma queste furono subito strappate dalla violenza di questa macabra grandinata...») si sono conficcate negli incubi collettivi. Il terrore si impossessa di tutti. Mamme, papà, bambini, atterriti all’idea che il fuoco divampi e possa ingoiare tutti, si precipitano giù per le scale verso l’uscita. Qualcuno cade. È travolto. E i primi corpi vengono schiacciati dai secondi e i secondi dai terzi. Le porte sono chiuse. Forse perché si aprivano solo dall’interno, forse perché erano sbarrate da fuori: «Un uomo afferrò sua figlia e la portò giù / ma gli scagnozzi avevano bloccato le porte / ed egli non potè uscire / E poi ne seguirono altri, un centinaio ed oltre / Ma la maggioranza restò sul pavimento…». Quando finalmente le porte furono spalancate e la gente pazza d’angoscia fu fuori e si placò, cominciò la conta dei morti. Una conta interminabile, con i genitori che risalivano disperati su per le scale urlando i nomi del figlioletto o della figlioletta e cercando i loro corpi tra i cadaveri. Settantatré furono, le vittime. In larghissima parte bambini.
«Non ho mai visto una cosa così terribile», proseguiva Woody Guthrie, «Portammo i nostri bimbi su accanto al loro albero di Natale / Quei poco di buono di fuori ancora ridevano…». Fu una notte di strazio, quella notte del Natale 1913 a Calumet. Adagiarono quei bambini e quelle bambine su un tavolato: la loro foto avrebbe colpito gli americani con una frustata in faccia. Un paio di giorni dopo, una folla immensa accompagnava i morti al cimitero. Le bare scure degli adulti nei carri funebri trainati dai cavalli, quelle piccole e bianche portate a mano dai padri e dai nonni.
L’Italian Hall è stata abbattuta trent’anni fa. Si era aperta una crepa nel muro. E una colletta lanciata per salvare quel monumento al dolore di tanti emigrati, nel silenzio italiano, era fallita. Restano soltanto vecchie fotografie ingiallite…

Repubblica 24.12.13
Natale mistico
La notte di luce che rivela noi a noi stessi
Il senso della festa non è nel mito, ma in un evento reale che ha diretta incidenza sull’animo umano
di Marco Vannini


La nascita di Gesù fu posta dalla Chiesa latina al solstizio di inverno perché in quella data i romani festeggiavano il sol invictus, ovvero il sole che, giunto al punto più basso del suo corso nel cielo, non scompare, ma sembra fermarsi in attesa, e riprende da allora in poi vigore. Come molte altre, questa festività cristiana prese così il posto di una pagana: Cristo, sole di giustizia, sostituì la precedente divinità astrale.
In questi giorni del solstizio tutti provano comunque una sensazione di pace, che invita al raccoglimento, alla meditazione, e non v'è dubbio che la stagione astronomica e meteorologica sia per questo determinante: il tempo sembra fermarsi, la natura sembra silenziosa, in ascolto, la vegetazione in attesa di rinascita. Oltre alla natura però contribuisce potentemente a questa sensazione la cultura, ovvero il passato cristiano, la cui influenza continua a farsi sentire nella nostra società post-cristiana: anche molti secoli dopo che Buddha era morto, come ricorda Nietzsche, la sua ombra continuò ad essere presente. E non meraviglia che sia così: quel passato era infatti ricco, forte, tanto – ad esempio - da dare a un oscuro maestro elementare e a un povero parroco di villaggio l'ispirazione per quella Stille Nacht, la cui struggente melodia, colma di nostalgia, muove tutti gli animi alla pace, all'amore, indipendentemente da ogni religione.
Si capisce allora come la Chiesa cerchi di far leva su questo sentimento per cercare di ravvivare la fede che una volta si riteneva fondata su reali eventi storici, ovvero sulla “storia della salvezza” che da Adamo procede verso Cristo. Oggi, però, dal momento che quella storia appare per ciò che è, una mera costruzione mitico-teologica, la fede si è ridotta a una combinazione di sentimento più fantasia: una cosa da bambini, dunque. Non a caso ai nostri giorni il Natale è festa non solo per un Bambino, ma soprattutto per bambini.
La fede è infatti in questo caso una credenza, che si difende con una sorta di infantile testardaggine, ignorando la realtà, tanto storica quanto psicologica. Se invece la fede è volontà di verità, essa guarda in faccia la realtà, scoprendo che quella credenza è desiderio di consolazione e rassicurazione, frutto del desiderio di permanenza di un ego che si sente debole e incerto e che perciò cerca “salvezza” nel rimando ad altro fuori di sé, restando così sempre nell'attesa, nell'anelito. La fede allora non produce affatto credenze ma, al contrario, le toglie via tutte, smascherando come menzogna anche l'immaginazione teologica. La fede - scrive san Giovanni della Croce - «non solo non produce nozione e scienza, ma anzi accieca e priva l'anima di qualunque altra notizia e conoscenza: la fede è notte oscura per l'anima e, quanto più la ottenebra, tanto maggiore è la luce che le comunica». Fede come notte, dunque, ma una notte che mentre libera da ogni presunto sapere di verità esteriori, fa risplendere una luce interiore, sapere non di altro ma di se stessa, sapere che è un essere: questa, possiamo dire, è la verastille nacht, heilige nacht, notte silenziosa, notte santa.
La notte in cui Dio nasce nell’umanità è la notte prodotta dalla fede, ovvero il silenzio, il vuoto che l'intelligenza ha fatto nell'anima. Il Natale, riferimento a una nascita del divino nel tempo, ha dunque il senso di ri-cordare, nel suo senso etimologico di riportare all'interiorità, risvegliare nell'anima nostra ciò che le è proprio ed essenziale: il divino che è nel suo fondo più intimo. Questo è il passaggio aus historie ins wesen, dalla storia all'essenza, come dicevano i mistici tedeschi, ovvero da una verità esteriore, che non ha alcun effetto, a una verità interiore, che salva davvero.
La salvezza non è infatti dal peccato di un altro, Adamo, da cui un altro, Cristo, ti deve liberare, ma da quel peccato davvero “originale” che è l'amore di sé. In te è Adamo, in te è Cristo, ovvero tanto l'amore di te stesso quanto l'amore del Bene, e la salvezza ti appare nella sua realtà, non futura ma presente, non sperata ma reale, quando il bene degli altri ti è caro quanto il tuo, assolutamente, in nulla di meno. Niente può turbare allora la pace dell'anima: non a caso i mistici ripetono la cosiddetta supposizione impossibile: se anche Dio mi destinasse all'inferno, sarei comunque “salvo”.
Il senso vero del Natale non va dunque cercato all'esterno ma in se stessi, non in una costruzione teologica, ma nel vuoto, nel distacco. Questo è anche il senso profondo della storia che precede e rende possibile la nascita del Figlio, come del resto ogni nascita umana, ovvero la storia della Madre: Maria fu capace di generare il divino per la sua umiltà, per la sua verginità, che non significa una condizione fisica, ma il vuoto fatto in se stessa. Il Logos nasce infatti nell’anima di ciascuno di noi quando essa è come Maria: distaccata, ovvero libera, spoglia di ogni preteso valore e preteso sapere. Il mistico poeta Angelus Silesius perciò recita: «Davvero ancor oggi è generato il Logos eterno! Dove? Qui, se in te hai dimenticato te stesso».
Il mistero del Natale si svela infatti quando si comprende il significato non blasfemo, ma al contrario profondamente spirituale - anzi, esso solo cristiano, senza il quale la religione resta superstizione, la fede credenza infantile - del principio che innerva la mistica: tutto quello che la Sacra Scrittura dice di Cristo, si verifica totalmente anche in ogni uomo buono e divino.
Purtroppo tale principio fu condannato come eretico da uno di quei papi avignonesi che Dante definisce “lupi rapaci”, separando così divino da umano, sacro da profano, avocando alla chiesa il monopolio del sacro e con questo ribadendo la divisione ragione-fede, scienza-religione che perdura ancora oggi e che costringe i “credenti” in quella condizione di minorità da cui l'illuminismo, secondo le celebri parole kantiane, ha inteso togliere l'uomo occidentale.
Accanto a un Natale storico, nel quale una sola volta, in un solo luogo e in una sola persona, il divino è nato sulla terra, c'è dunque un Natale eterno, per cui, secondo le parole di Origene, il divino si genera nell'anima non una volta soltanto, ma in ogni istante, in ogni luogo e in ogni uomo, in ogni pensiero che egli rivolge a Dio con purezza, in ogni gesto di amore che compie.
Anche se non legata al solstizio d'inverno, la nascita di Gesù è comunque un evento reale, non un mito. In quanto ha a che fare con realtà profonde ed universali dell'anima umana, il mito riguarda ciò che non è mai avvenuto ma in eterno avviene, come diceva un filosofo pagano, mentre per il Natale noi dobbiamo dire: ciò che è avvenuto una volta e in eterno avviene. Attenzione però: avviene solo se avviene. Perciò lo stesso poeta mistico che abbiamo prima citato lancia al suo lettore un avvertimento davvero terribile: «Nascesse mille volte Cristo in Betlemme, se in te non nasce, sei perduto in eterno».

La Stampa 24.12.13
Firenze, i ferri di un antico medico romano

Dagli scavi sotto Palazzo Medici Riccardi sono riemerse importanti tracce della storia di Firenze. È tornato alla luce anche un tratto dell’antico corso del torrente Mugnone deviato dagli antichi Romani. I resti della villa usata per riempirne il letto hanno restituito numerosi oggetti dell’epoca: di particolare interesse gli strumenti di medicina usati probabilmente dal proprietario della casa, tra gli altri una statuina usata per studi anatomici. Gli scavi hanno riportato alla luce anche un pezzo di muratura, che pare appartenere alla quinta cerchia muraria (1172-75) della città.