domenica 29 dicembre 2013

l’Unità 29.12.13
Sfratti, stop per 6 mesi Cgil critica: «Non basta»
Nel Milleproroghe una tregua per chi è indigente e ha il contratto scaduto
Il sindacato: «La vera emergenza è quella di chi non ce la fa più a pagare»
di Andrea Bonzi


La Stampa 29.12.13
Renzi gela Letta e Alfano «Niente in comune con loro»
«Mai chiesto rimpasti, non ho interesse a mettere pedine. Dovevano abolire i prefetti, ne hanno aggiunti 17»
Intervista al leader Pd: “Il governo? Dalle larghe intese alle marchette”
di Federico Geremicca

qui

Corriere 29.12.13
Il peso dei leader nelle democrazie
di Ernesto Galli della Loggia


Da sessant’anni il fascismo ci fa compagnia. Non già perché in tutto questo tempo vi sia mai stato il pericolo di una sua reincarnazione — se non nei deliri di sparute frange folli o forse nelle intenzioni di qualche personalità alla prova dei fatti priva però di qualunque base reale — ma perché da sessant’anni il fascismo è presente nel nostro discorso pubblico come un comodo (e dunque adoperatissimo) termine di paragone negativo a disposizione per giudicare sbrigativamente uomini e cose.
Così per l’appunto lo ha adoperato Eugenio Scalfari quando domenica scorsa ha scritto su la Repubblica che l’impetuosa ascesa di Renzi, la sua figura e l’attesa che suscita gli ricordano pericolosamente «il bisogno di un Capo», di un «uomo della Provvidenza»: in poche parole Mussolini e il fascismo. Non di un capo l’Italia ha però bisogno, egli ci ammonisce, bensì di un leader: che è cosa ben diversa. Proprio tanto diversa non direi, per la verità. Capo, infatti, non è altro che la traduzione italiana di leader, una traduzione per così dire addolcita anzi, dal momento che quella esatta dovrebbe essere «guida». Se leader suona più rassicurante (ma a Pyongyang spadroneggia un «caro leader», mi sembra) è solo perché il termine evoca il mondo del costituzionalismo anglosassone, che per sua fortuna il fascismo non l’ha mai conosciuto.
Qui comunque non è questione di parole ma di cose. Ciò di cui stiamo parlando, ciò di cui l’opinione pubblica italiana sente oggi un acuto bisogno, non è un Capo, non è un «uomo della Provvidenza» né l’«uomo forte» dai tratti grotteschi di un disegno di Maccari. È una «guida» (va bene così? dunque anche una donna, sì una donna), ma in ogni caso con due caratteristiche fondamentali: il dono di una personalità spiccata e la possibilità di esercitare il potere in modo incisivo. Una personalità spiccata vuol dire qualcuno con le idee chiare su ciò che serve al Paese e sul proprio ruolo, determinato a perseguire le proprie idee senza tentennamenti e rinvii, pronto a dire con chiarezza il proprio pensiero, ad agire di conseguenza e con la prontezza necessaria, disposto a impegnare tutto se stesso nell’impresa. Capace altresì di convincere, di trascinare, anche di entusiasmare, perché dotato di quella misteriosa qualità individuale che si chiama «carisma». Che cosa c’è di fascista in tutto questo? Io non lo vedo. E che cosa c’è mai di fascista nel fatto che una collettività in un momento di crisi grave, d’incertezza profonda circa il proprio futuro, desideri un capo (pardon: una guida) di tal fatta? Qualcuno, come dicevo sopra, dotato di «poteri forti». A proposito di fascismo, il punto vero sta forse proprio qui. Sgombriamo allora il campo da un errore storico in cui incorsero più o meno consapevolmente i nostri costituenti.
Essi non capirono — o non vollero capire — che nel 1919-’22 una delle principali cause (se non addirittura la principale) della vittoria del fascismo era stata non tanto la violenza squadristica ma l’esistenza di governi deboli sorretti da malcerte maggioranze parlamentari. E che dunque la migliore garanzia contro il ripetersi della storia era una Costituzione volta a dar vita a esecutivi stabili e dotati dei poteri necessari per governare.
Invece la nostra Costituzione, sbagliando, non ha seguito questa strada. Che però è la strada della democrazia: bisogna convincersi, infatti, che quando un leader, alla testa di un partito, ottiene sul proprio programma il consenso del corpo elettorale, democrazia vuole che egli abbia il diritto incontrastato (e l’obbligo, aggiungo) di realizzare quel programma. E quindi democrazia vuole che abbia anche tutti i poteri per farlo. Abbia, per esempio, il diritto di nominare i ministri che preferisce, di presentare i disegni di legge che vuole potendo contare su tempi rapidi di discussione, ma soprattutto che egli sia il padrone effettivo della propria maggioranza parlamentare. Disponendo quindi del potere di sciogliere le Camere o, come minimo, potendo contare sulla regola per cui qualsiasi mozione di sfiducia nei suoi confronti rechi obbligatoriamente l’indicazione di un successore, e cioè di una diversa, predefinita, maggioranza.
Perché mai, mi chiedo, desiderare che anche in Italia ci sia un presidente del Consiglio con simili poteri — che esistono in moltissimi regimi democratici — deve essere considerato equivalente a un desiderio più o meno strisciante di autoritarismo? Perché mai sperare che un qualunque leader di qualunque schieramento riesca a spezzare in questo Paese la trama di poteri più o meno legittimi, di lobby, di parentele, di circuiti occulti d’interessi, di reti di relazioni tra «alte personalità», la quale in mille modi soffoca, condiziona, diluisce, corrompe e procrastina (salvo che per i propri interessi) non solo la formazione della volontà politica, ma anche l’esecuzione della stessa; perché mai, mi chiedo, sperare che qualcuno compia quest’opera meritevole senza la quale per l’Italia non c’è salvezza, equivarrebbe a invocare il duce d’infausta memoria?
Già un secolo fa Max Weber scriveva che la democrazia aveva una sola speranza di continuare anche per il futuro a dipendere dalla fonte vivificatrice della volontà popolare rompendo la micidiale gabbia d’acciaio delle burocrazie e degli interessi costituiti che ne minacciavano sempre più la vita: la presenza alla sua testa di un «Cesare democratico», che egli vedeva modellato sulla figura del presidente degli Stati Uniti.
Opporre a una tale figura quella di un «gruppo dirigente», come fa Scalfari rievocando nostalgicamente i partiti della Prima repubblica, mi sembra sbagliato per due ragioni almeno. La prima è che anche qualsiasi «capo» — che si tratti del presidente Usa o di Hitler — si è sempre circondato — e non può che essere così — di una cerchia di collaboratori, di un «gruppo dirigente»; la seconda è che pure i partiti della Prima repubblica (la Democrazia cristiana è l’eccezione che conferma la regola) hanno funzionato per l’appunto (e non a caso!) finché alla loro testa c’è stato sì un «gruppo dirigente», ma chi poi decideva era una sola persona: Togliatti, La Malfa o Saragat; cioè finché quei partiti hanno avuto un vero capo. Non ho mai sentito che nel Partito comunista l’ultima parola non spettasse a Togliatti o a Berlinguer.
In realtà, oggi più che mai gli italiani capiscono quello che chiunque abbia qualche dimestichezza con le cose di questo mondo ha sempre saputo benissimo: e cioè che in politica la personalità individuale è un elemento decisivo. Che si tratti di Renzi o di qualcun altro non ha importanza. Renzi per ora è poco più di una promessa, il suo ruolo di leader nazionale attende ancora di essere collaudato, deve ancora superare non pochi passaggi decisivi. E non è per nulla detto che ci riesca: le probabilità d’insuccesso sono almeno pari a quelle di successo. In ogni caso, però, è difficile vedere nel vasto favore che egli riscuote il desiderio o il pericolo di qualche forma di regime autoritario. A garantircene ci sono, se non sbaglio, un presidente della Repubblica, una Corte costituzionale, una magistratura e un’opposizione parlamentare, tutte cose certamente non d’obbedienza renziana; senza contare un sistema d’informazione che, per quanto sbrindellato, ha ancora dentro di sé sufficienti anticorpi liberali. La divisione dei poteri serve precisamente a questo: a impedire le usurpazioni da parte dei malintenzionati. Solo in Italia essa è da troppo tempo il paravento per il dominio di un’avida oligarchia trasversale votata all’immobilismo.

l’Unità 29.12.13
Landini apre a Renzi sul contratto unico
Il segretario Fiom: «Può essere la strada per ridurre la precarietà». Sì anche da Bonanni Fassina: «Mi sembra un’ipotesi impraticabile perché aumenterebbe il costo del lavoro»
di Maria Zegarelli


Corriere 29.12.13
Contratto unico
La mossa di Landini che spiazza Camusso


È proprio vero, Matteo Renzi e Maurizio Landini la pensano diversamente su molte cose ma — ognuno con le sue caratteristiche — appaiono entrambi come dei rottamatori delle rispettive burocrazie di riferimento, senza curarsi troppo del rispetto dei riti interni, al Pd il primo, alla Cgil il secondo. E così ieri il segretario della Fiom, con un’intervista a «Repubblica», ha sorpreso tutti, aprendo sulla proposta di contratto unico a tutele crescenti, la ricetta che di fatto mette in discussione l’articolo 18 alla quale sta lavorando il nuovo segretario del Partito democratico per rilanciare l’occupazione. Una mossa, questa di Landini, che, a pochi mesi dal congresso della Cgil, spiazza il numero uno della confederazione, Susanna Camusso, finora guardinga sulla novità rappresentata da Renzi e dalle sue idee. Ma soprattutto una mossa molto abile. Sedendosi metaforicamente per primo al tavolo della discussione sul Job act che il leader del Pd vuole proporre a gennaio, Landini diventa l’interlocutore che può chiudere la partita per il sindacato: paradossale per uno che fino a ieri è stato il rappresentante della minoranza di sinistra dei lavoratori. Eppure se Renzi dovesse trovare l’accordo con Landini, chi nel sindacato potrebbe scavalcare il capo della Fiom a sinistra? Certo, si tratta di uno scenario improbabile se misurato sulla distanza che separa i due. Accanto alla disponibilità a discutere, Landini infatti ha posto paletti precisi sulla intangibilità a regime dell’articolo 18 e sulla durata stessa del periodo di prova (mesi sì, anni no), durante il quale il lavoratore sarebbe licenziabile. Ma sia Renzi sia Landini hanno la propensione a rompere gli schemi, a sorprendere l’interlocutore. Ecco perché i colpi di scena sono possibili. La rottamazione renziana ha già travolto il Pd. Quella landiniana bussa alle porte del sindacato.

Repubblica 29.12.13
Cgil, il gelo della Camusso su Landini
Cremaschi: l’asse con il sindaco per scalzarla. Pensionati e Cisl per il contratto unico
di Roberto Mania


ROMA — «Quella è la sua opinione, non la nostra». Basta questa frase di Elena Lattuada, segreteria confederale, fedelissima di Susanna Camusso, per comprendere come sia stata accolta nella Cgil l’apertura di Maurizio Landini, leader della Fiom, al contratto unico proposto da Matteo Renzi. Con disappunto e freddezza. La Camusso è in vacanza all’estero ma da quando Renzi è diventato il segretario del Pd ha deciso di non commentare le ipotesi sul Job Act. Lo farà solo quando il piano per il lavoro sarà definito e presentato formalmente. Per ora – dice il suo portavoce - «è come discutere sulle sabbie mobili».
Di certo è ormai chiaro un punto, nella Cgil come nel Pd: l’alleanza tra Renzi e Landini non è casuale, ma sta diventando strategica. Renzi ha scelto il leader della Fiom come suo interlocutore privilegiato all’interno del sindacato; Landini ha scelto Renzi per scardinare un pezzo dell’apparato di Corso d’Italia. E lo farebbe puntando alla leadership del sindacato che ha avviato proprio ora l’iter congressuale che si concluderà ai primi di maggio a Rimini. «C’è solo una spiegazione razionale in quel che con spregiudicatezza sta facendo Landini: diventare il segretario della Cgil con l’appoggio di Renzi», sostiene Giorgio Cremaschi, fiommino in pensione, ora a capo della mozione congressuale alternativa “Il sindacato è un’altra cosa». Insomma Landini e Renzi starebbero stringendo a tenaglia la Camusso, con obiettivi diversi Che poi Landini possa scalzare la Camusso appare piuttosto improbabile tanto più che ha sottoscritto la stessa mozione congressuale dalla quale si è distinto solo con alcuni emendamenti. Ma da qui a maggio molti giochi si potrebbero riaprire. Ieri, per esempio, va registrato anche un apprezzamento di Carla Cantone, segretaria del sindacato dei pensionati Cgil, schierata con Gianni Cuperlo nelle primarie del Pd, nei confronti di Landini. Avere sostanzialmente contro i pensionati (la metà degli iscritti alla Cgil) e i metalmeccanici (per quando decaduti sempre la categoria più prestigiosa) non fa immaginare un congresso in discesa per la Camusso.
Avere Landini dalla propria parte, invece, consente a Renzi di coprirsi a sinistra. I Giovani turchi di Matteo Orfini criticavano il piano del segretario mentre quasi contemporaneamente dal leader della Fiom movimentista, corteggiata dal influenti aree dell’intellighenzia di sinistra, arrivava un clamoroso endorsement. Un passo che ha spiazzato la Cgil, la sinistra più radicale, ma non il Pd renziano.
Questa, dunque, è una partita che si gioca su più piani. E nella quale il merito delle proposte – per ora – sembra contare abbastanza poco. Landini, per esempio, ha detto sì al contratto unico(nel quale per i primi anni non si applicherebbe l’articolo 18), ma nelle tesi congressuali non ce n’è traccia. Piuttosto c’è la richiesta di ripristinare l’articolo 18 nella versione originale, precedente alle modifiche introdotte con la leggeFornero. «Maurizio Landini come un golfino double face», ha twittato con malizia il portavoce della Camusso, Massimo Gibelli.
Così non è un caso che il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, abbia ieri definito«un’interessante novità» l’apertura di Landini al contratto unico, per poi aggiungere: «Spero che mantenga questa opinione». Perché siamo solo all’inizio di questa inedita sfida. Con tante incognite. A cominciare da quella sulla leggesulla rappresentatività sindacale promessa da Renzi a Landini: si può immaginare che ci sia una maggioranza in Parlamento disposta a votare una legge che il sistema delle imprese e la Cisl non vogliono? Intanto per il 10 gennaio la Camusso ha convocato una riunione a porte chiuse di tutti i segretari generali di categoria. Appuntamento a Firenze, nella città di Renzi. Ma questa è davvero una coincidenza.

l’Unità 29.12.13
Fallite le vecchie ricette, serve un New Deal europeo
Evitiamo di riaprire la diatriba sull’articolo 18
Il lavoro si crea solo grazie a un piano di investimenti pubblici, come sta facendo Obama negli Usa
di Laura Pennacchi


l’Unità 29.12.13
Matteo Orfini
«Sul lavoro serve un contratto di inserimento che elimini l’attuale giungla di formule, questa parte della proposta di Renzi è positiva e va discussa»
«Il governo non va ma oggi chi sta male ci chiede di farlo funzionare, non di votare»
intervista di Maria Zegarelli


Corriere 29.12.13
Spot e assunzioni: tutte le spese extra nel bilancio del Pd
di Maria Teresa Meli


Assunzioni, consulenze, manifesti: se nel 2012 il bilancio del Pd registrava 7 milioni di perdite, nel 2013 il buco rischia di essere maggiore. Tanto che il nuovo tesoriere Francesco Bonifazi pensa a una «due diligence». Affiderà, cioè, a un gruppo di professionisti il compito di verificare i rapporti bancari, i contratti e quant’altro. Dopo verrà messo tutto in Rete. Intanto dal partito ultimatum a Letta.
Manifesti, consulenze, assunzioni «extra» Le falle nel bilancio dei democratici Il nuovo tesoriere Bonifazi pensa a una due diligence: poi verrà messo tutto sul web ROMA — Quando nel novembre scorso Antonio Misiani, fedelissimo di Bersani, nominato tesoriere dall’allora segretario, aveva detto che Matteo Renzi «tanto avrebbe trovato le casse vuote», gli uomini del sindaco l’avevano presa come una battuta. Ora dovranno ricredersi. Ai renziani è stato lasciato in eredità ben di peggio.
Se nel 2012 il bilancio del partito registrava 7 milioni di perdite nel 2013 il buco rischia di essere ancora maggiore. E questo è avvenuto quando i rimborsi elettorali erano già stati dimezzati e il disegno di legge per la loro graduale abolizione già incardinato alla Camera. Tant’è vero che si sta pensando di rispondere a questa situazione d’emergenza con una «due diligence», come si fa per le aziende. Si affiderà, cioè, a un gruppo di professionisti il compito di verificare tutti i rapporti bancari, i contratti e quant’altro. Ci vorrà un mesetto di tempo. Dopodiché probabilmente verrà messo tutto in Rete: il passato, il presente e il futuro. In modo che le spese del Pd siano trasparenti e ogni elettore possa verificarle.
Immerso nel lavoro, il nuovo tesoriere del partito, Francesco Bonifazi, fedelissimo del segretario, non si fa strappare una parola nemmeno sotto tortura. Ma le mura del palazzo del Nazareno hanno occhi e orecchie. E le prime indiscrezioni cominciano a trapelare. Gli elementi che saltano all’occhio sono fondamentalmente tre. Il primo: i dipendenti del Pd e i dirigenti politici avevano stipulato un accordo interno per il blocco delle assunzioni nell’arco del 2012-2013. Patto che non è stato rispettato quando si è trattato di piazzare al Nazareno, come quadri, otto nuovi dipendenti, nel gennaio del 2013. Guarda caso un mese prima delle elezioni. Guarda caso tutti e otto poi eletti in Parlamento. A loro, evidentemente, bisognava fornire una rete di protezione, in caso di scioglimento anticipato della legislatura.
Non finisce qui: altre assunzioni sono state fatte anche nell’agosto del 2012, sempre nell’era bersaniana. Anche questi dipendenti presi come quadri, il che significa che hanno una tutela maggiore di altri in caso di ristrutturazione dell’organico. Per chiarire la situazione dal punto di vista degli oneri finanziari, il Pd ha circa 200 dipendenti, 150 lavorano al partito, gli altri sono distaccati e il costo medio di un dipendente è di 67 mila euro lordi. Ma ecco che arriva il secondo capitolo relativo alla gestione delle spese del Nazareno. Al 31 ottobre del 2012 sono stati spesi 958 mila euro di consulenze in un anno. E sempre in quello stesso arco di tempo giù una sfilza di cifre: 446 mila euro che vanno sotto la voce «viaggi nazionali», 333 mila per «servizi generali», 230 mila per rimborsi di alberghi, 236 mila per le agenzie di stampa, 635 mila per la manutenzione. In quest’ultimo ambito rientra anche la manutenzione del sito web del partito, che ha un costo notevole: sono stati spesi 327 mila euro in un solo anno.
Ma la voce che impressiona di più è un’altra. Riguarda la propaganda: sei milioni di euro. Una cifra da capogiro, tanto più se si pensa a quali sono stati poi quattro mesi dopo i risultati per il Partito democratico di questo sforzo economico a livello elettorale. Di questa somma la metà circa è andata in inserzioni e pubblicità sui media. Mentre ben più di un milione è stato il costo delle affissioni dei manifesti. Un ritmo di spese a dir poco sostenuto, che sembrava quasi dare per scontato il fatto che in realtà, alla fine della festa, i rimborsi elettorali, in un modo o nell’altro, non sarebbero stati mai veramente cancellati. Un ritmo che non si è interrotto neanche l’anno dopo, nel 2013. Ancora è presto per avere un dato finale riguardo questa stagione che ha visto il Pd impegnato in una campagna elettorale che ha prodotto altri significativi esborsi di soldi. Ma le previsioni sono improntate al pessimismo.
Racconta qualche dipendente, ovviamente con la premessa di voler mantenere l’anonimato, che i renziani si aggirano per il palazzo del Nazareno con le mani ai capelli e che si lasciano sfuggire frasi del tipo: «Vuoi vedere che ce l’hanno fatto apposta a lasciarci queste voragini?». Processo alle intenzioni? La dietrologia in politica, si sa, ha sempre la meglio. Ma i numeri, invece, sono quelli che sono, immagazzinati in un computer o stampati nero su bianco su fogli che vengono letti e riletti quasi ogni giorno. E si giunge così al terzo e ultimo capitolo di questa storia. Riguarda il rapporto tra il Partito democratico e l’Unità . Nel corso del tempo il Pd si è impegnato, come è normale che sia, ad acquistare un certo numero di copie e di abbonamenti del quotidiano fondato da Antonio Gramsci. Ogni volta veniva stipulato un contratto. Ma di contratti ce ne sono stati diversi in questi ultimi due anni. L’ultimo porta la data del 17 ottobre del 2013, quando Pier Luigi Bersani si era già dimesso e al suo posto era stato eletto segretario Guglielmo Epifani, all’Assemblea nazionale del Pd , alla Fiera di Roma.

Repubblica 29.12.13
Il presidente della commissione Lavoro apre alla proposta renziana: “Pronto a far partire subito l’esame alla Camera”
Il cuperliano Damiano dice sì al job act “Ma la cassa integrazione non si tocca”
di Giovanna Casadio


ROMA — «Sono d’accordo con Matteo Renzi sul contratto unico d’inserimento. Se vuole, io da presidente della commissione Lavoro della Camera posso mettere subito in discussione la proposta che era già stata presentata da Marianna Madia». Cesare Damiano, il “compagno” anti renziano, ex segretario della Fiom e a capo del dicastero del Lavoro nel governo Prodi, a sorpresa si schiera con il neo segretario.
Damiano, quindi condivide la flessibilità per nuove assunzioni prevista dal Job Act renziano?
«Il contratto unico di inserimento presentato dalla Madia nella scorsa legislatura e ripresentato nell’attuale, l’ho firmato e sostenuto. Se si tratta di un periodo di apprendistato della durata da sei mesi a 3 anni, terminato il quale c’è la stabilizzazione, condivido».
E si può sospendere l’articolo 18?
«Dopo la prova, si passa a un contratto a tempo indeterminato con tutte le tutele dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ovvero la possibilità in caso di licenziamento senza giusta causa, per il giudice di scegliere tra reintegrazione o risarcimentodel lavoratore».
Insomma, anche per un operaista di sinistra come è lei, la flessibilità in entrata è diventata indispensabile?
«Sì, perché stiamo parlando di un periodo di prova più lungo. È normale che durante la prova sia possibile licenziare il lavoratore. A Renzi però suggerisco di prevedere lo sgravio fiscale per l’impresa se c’è l’assunzione a tempo indeterminato».
Questi provvedimenti bastano ad abbattere la precarietà del lavoro?
«La precarietà si abbatte solo se c’è una ripresa dell’economia. È illusorio che queste regole possano da sole risolvere il problema. Possono aiutare. Sarebbe giusto un disboscamento delle attuali forme di assunzione, anche per risolvere la precarietà. L’avevo fatto quando ero ministro, cancellando il lavoro a chiamata e lo staff leasing forme reintrodotte da Sacconi. È chiaro che tra destra e sinistra ci sono concezioni opposte».
Un piano di rilancio del lavoro è perciò difficile da varare se si resta alleati con Alfano?
«Se la base di un accordo tra Pd e Nuovo centrodestra è quella proposta da Alfano, cioè la cancellazione dei contratti nazionali sostituiti dai contratti aziendali o addirittura individuali, è improponibile. Se l’altra condizione fosse poi quella del superamento dell’articolo 18, ancora peggio».
Il Job Act resterà al palo?
«Ripeto, posso subito mettere in calendario in commissione alcune proposte. Naturalmente Renzi dovrebbe chiarire la sua posizione sull’articolo 18».
Cos’altro non la convince delle anticipazione del Job Act?
«Una cosa che mi fa accapponare la pelle è l’idea che si possa cancellare la cassa integrazione e sostituirla con una indennità di disoccupazione: sarebbe disastroso».
Perché non ci sono i soldi?
«Lo strumento della cassa integrazione è pagato da lavoratori e imprese, andrebbe esteso a tutti i settori che non l’hanno adottato, mantiene il rapporto di lavoro nel momento della crisi. Se questo rapporto venisse tagliato, noi getteremmo nel mercato del lavoro centinaia di migliaia di persone che da cassintegrati diventerebbero disoccupati, una bomba sociale».

l’Unità 29.12.13
L’analisi
La crociata di Grillo contro l’Unità e la stampa scomoda
di Michele Di Salvo


Corriere 29.12.13
L’orrore di quelle minacce di morte che delegittimano la battaglia di Grillo
di Paolo Conti


«Attaccate la corrente a 3000 volt sotto le loro poltrone». «Ma quali famiglie, direttamente al crematorio, assassini statali siete». «Andate a casa dalle vostre famiglie, ci penso io a mettervi il tritolo nelle poltrone». «Dovete bruciare vivi». «Dovete solo che morireeeeeee». «Ma perché, dico io, non li abbiamo ancora bruciati col lanciafiamme». Si potrebbe continuare a lungo. È il mare di post apparsi ieri sera sulla pagina Facebook di Beppe Grillo. Tutti contro Titti di Salvo (Sel) e Andrea Romano (Scelta civica) «colpevoli» di aver chiesto al M5S di non protrarre la discussione in Aula alla Camera fino ai giorni del 24 e del 25 dicembre anche per «rispetto delle nostre famiglie». Grillo ha collocato il video su Facebook col suo commento: «Avevano paura che il M5S li facesse lavorare durante le feste! Guardate come reagiscono questi parlamentari pagati dai cittadini. Massima diffusione! Tutti devono sapere!». E giù, il diluvio di autentiche minacce di morte.
Perché espressioni di questo tipo non appartengono alla categoria della metafora, dell’allegoria o del traslato. Qui si parla di tritolo, di crematorio, di lanciafiamme. Senza che arrivi un minimo di distinguo da Beppe Grillo o da qualche deputato del Movimento Cinque Stelle. È perfettamente legittimo battersi perché alla Camera si voti il 24, il 25 e il 31 dicembre. Appartiene alla dialettica democratica, lo fece in anni lontani Marco Pannella. Ma con la sua non violenza e senza mai permettere ai propri sostenitori di sperare nella morte di qualsiasi avversario politico. Grillo ha sempre sostenuto di aver avuto il merito di canalizzare il dissenso, grazie al suo Movimento, evitando «la guerra civile» (parole sue).
Ieri ha scelto la strada diametralmente opposta: quella di soffiare su un pericolosissimo fuoco demagogico indicando nomi e volti di chi meriterebbe una punizione atroce. Assumendosi così la pesantissima responsabilità di chi si mette alla guida di un Movimento politico che augura la morte, i roghi, le bombe. Semplicemente spaventoso.

il Fatto 29.12.13
Claudia Ioannucci
L’ombra di Lavitola sull’Unità: nuovi soci, incroci pericolosi
L’Unità passa da Gramsci a Lavitola
Maria Claudia Ioannucci, ora azionista con il 20% della Nie, è un’amica dell’ex editore dell’Avanti
Ex senatrice Fi, già moglie del dirigente di Confindustria Dell’Erario, rileva il 14% del quotidiano del Pd: “Ho investito perché credo nel pluralismo”
di Marco Lillo


La nuova azionista dell’Unità è un'amica di Valter Lavitola. Alcune sue conversazioni con l'ex editore dell'Avanti! (che era intercettato) sono finite negli atti dell'indagine napoletana sugli affari panamensi del faccendiere. Si chiama Claudia Maria Ioannucci, avvocato e professore di diritto amministrativo a L'Aquila, 64 anni, già senatrice di Forza Italia nel 2001 quando sconfisse Ottaviano Del Turco. Dal 2011 è consigliere di amministrazione delle Poste, nominata per 'concessione' di Berlusconi a Lavitola, stando almeno alle rivendicazioni di Valter.
LA SOCIETÀ della professoressa Ioannucci, Partecipazioni Editoriali Integrate Srl, controlla poco meno del 20% della NIE Spa, Nuova Iniziativa Editoriale spa, la società che edita il quotidiano fondato da Antonio Gramsci nel 1924. La Srl azionista dell'Unità è stata creata dall'attuale amministratore del giornale, Fabrizio Meli, nell'aprile scorso ed è stata poi ceduta alla Ioannucci il 29 ottobre 2013 dallo stesso Meli, manager del gruppo Tiscali di Renato Soru, a ottobre. Fondata nell'aprile scorso da Rita Lombardo (10%) e Fabrizio Meli (90%), ex giornalista sardo, promosso a manager del gruppo di Soru e poi ad amministratore dell'Unità, la società Partecipazioni Editoriali Integrate Srl, dopo avere rilevato le quote dell'Unità, è stata ceduta il 29 ottobre all'ex senatrice berlusconiana. In particolare il 90% delle quote di Meli sono andate all'ex marito di Maria Claudia Ioannucci, il responsabile comunicazione del Sole 24 Ore Alfonso Dell'Erario che si dichiara: “Intestatario temporaneo della quota che è della mia ex moglie Maria Claudia Ioannucci”. Mentre il restante 10% è stato comprato subito anche formalmente dalla Ioannucci. Chissà cosa avrà spinto il consigliere delle Poste in scadenza nel 2014 a investire in una società che ha chiuso l'ultimo bilancio del 2012 con 4,6 milioni di perdita su 12 milioni di ricavi. Il quotidiano diretto da Luca Landò non attraversa un grande momento, come tutta la stampa.
Oggi il primo socio è Matteo Fago con il 30%. Segue la Gunther Reform Holding Spa, dell'imprenditore pisano Maurizio Mian, con il 25,9%. La Partecipazioni Editoriali Integrate Srl di Ioannucci è quindi il terzo socio con una quota del valore nominale di un milione di euro che vale il 19,94 per cento del capitale. L'ex governatore sardo del Pd, Renato Soru, come persona fisica, passa dal 26 al 2 per cento ma resta con la società Monteverdi, a lui riferibile, anche se scende al quarto posto con una quota del 17 per cento. La Soped Spa delle Coop rosse è scesa dal 3 al 2,5 per cento e la Chiara Srl dell'ex presidente di Impregilo e Bpm, Riccardo Ponzellini, scende all'1,5 per cento.
Per capire qualcosa di più sul nuovo azionista dell'Unità può aiutare il verbale dellla sua audizione come persona informata dei fatti davanti al pm Vincenzo Piscitelli che indagava a Napoli sugli affari panamensi di Lavitola. Il 19 settembre del 2011 Claudia Ioannucci racconta: “Ho conosciuto Lavitola, se ben ricordo, nel 2004, per una questione legale relativa a un suo amico, poi è divenuto, oltre che mio cliente, uno dei miei più cari amici e tali rapporti di amicizia, nel tempo, si sono estesi all'intera famiglia”.
Il 21 agosto del 2011 Riccardo Martinelli, il presidente di Panama corrotto da Lavitola per l'appalto di Finmeccanica, secondo l'ipotesi di accusa dei pm napoletani, va a Villa Certosa da Silvio Berlusconi. Lo accompagna proprio Claudia Ioannucci che ne approfitta per siglare un intesa tra Poste Spa e Poste Panama. Dalla Sardegna Ioannucci chiama Lavitola, che paga le spese degli extra alberghieri del presidente e del suo codazzo. L'ex senatrice di Forza Italia magnifica villa Certosa e l'ospitalità di Berlusconi poi passa il telefono a Martinelli per salutare l'amico Valter. Nella lettera a Berlusconi scritta durante la latitanza e consegnata al messaggero Carmelo Pintabona perché la portasse a Berlusconi, Valter scrive a Silvio: “Lei mi ha promesso di collocare la Ioannucci nel Cda dell'Eni, mi ha concesso la Ioannucci nel cda delle Poste (aveva promesso di darle anche la presidenza di Banco Posta, anche ciò non è stato mantenuto)” .
AL “FATTO”, Maria Claudia Ioannucci spiega così l'acquisto: “Ho fatto il senatore di Forza Italia, ma mi piace sentire le voci di tutti. Ho acquistato una società per contribuire al salvataggio di un giornale”. I lettori dell'Unità potrebbero essere preoccupati nel vedere il 20% del quotidiano fondato da Gramsci che finisce a una ex senatrice di Forza Italia, diventata famosa perché è amica di Lavitola ed è stata con Martinelli a Villa Certosa? “Vorrei evitare di chiederle i danni”, azzanna lei, “sono famosa perché sono un bravo avvocato e un professore universitario. Lavitola non è uno dei miei più cari amici. Non ricordo la frase del verbale che mi sta leggendo. Era un mio cliente e poi è nato un rapporto con la sua famiglia. Ero stata nominata già nel Cda delle Poste una volta durante il governo Prodi. Se anche fosse vero che Valter mi ha raccomandata, vuol dire che ha apprezzato l'avvocato. Ai lettori del giornale fondato da Gramsci dica che le ragioni non sono mai tutte da un lato”.

La Stampa 29.12.13
Dopo 34 ore in Italia
La Shalabayeva vola a Ginevra dai tre figli


ROMA Poco più di 24 ore. Tanto è rimasta a Roma Alma Shalabayeva, la donna kazaka espulsa dall’Italia lo scorso maggio su pressione delle autorità di Astana e rientrata ieri dopo sette mesi di lavorio diplomatico. La moglie del dissidente kazako Muktar Ablyazov, detenuto in Francia, è partita da Fiumicino alla volta di Ginevra con i suoi tre figli: la piccola Alua di 6 anni, il maschio Madiyar e la maggiore Madina che da tempo risiedono in Svizzera dove Alma intende prendersi un periodo di riposo. «Non è una scelta definitiva», dice il suo legale Anna d’Alessandro. «Rientrerà in Italia a metà gennaio e solo dopo deciderà dove stabilirsi definitivamente».

Corriere 29.12.13
Stamina
Il non-medico grida al complotto
E gioca sulla pelle dei suoi malati
di Aldo Grasso


Sulla pelle di chi sta morendo. Secondo le cartelle cliniche, fornite in sintesi dagli Spedali Civili di Brescia, non c’è alcuna prova di miglioramento nei 36 pazienti in cura con il cosiddetto «metodo Stamina». I parenti dei malati sostengono invece che sono stati riportati dati falsi e accusano i mezzi di informazione di gravi scorrettezze.
Intanto si è scoperto che Davide Vannoni non è nemmeno un medico, è solo un laureato in Lettere e Filosofia, ex imprenditore del settore marketing e call center (le sue prime attività di rilievo risalgono alla fine degli anni Novanta quando gli furono affidate consulenze dalla Regione Piemonte, firmate dal dirigente Angelo Soria, fratello di Giuliano, i due dello scandalo «Premio Grinzane Cavour»), di certo una figura carismatica, un grande imbonitore. Che ora però rischia il rinvio a giudizio per esercizio abusivo della professione medica.
Il «metodo Stamina» è finito nel mirino della magistratura e Vannoni grida al complotto: «Siamo vittime della lobby dei farmaci, della burocrazia e della politica. Tutto sulla pelle di chi sta morendo». Esattamente come si diceva ai tempi della cura anticancro del «metodo Di Bella» o, anni prima, per il «siero Bonifacio», un intruglio a base di feci e urine delle capre.
Ma chi gioca sulla pelle di chi sta morendo è proprio lui, Davide Vannoni. Lui e il suo entourage. Sconfessato dalla comunità scientifica internazionale (la rivista Nature ha svelato come la documentazione, presentata per la richiesta di brevetto per il metodo, si avvalesse di documenti «scippati» ad altri ricercatori), ma «tollerato» dalle solite indeterminatezze della politica e della giustizia, ha sempre fatto leva sulla comprensibile disperazione degli ammalati e dei loro parenti. E su alcuni media compiacenti: Giulio Golia, delle «Iene», ha confezionato una ventina di servizi uno più temerario dell’altro, un manuale della tv del dolore, senza mai farsi venire un dubbio.
C’è solo da sperare che scienza e cure compassionevoli si spartiscano ora i loro ambiti. La medicina occidentale avrà i suoi limiti, ma si può dare un calcio al controllo scientifico, approfittando della disperazione delle famiglie dei malati?

Repubblica 29.12.13
Nell'ospedale dove lotta Caterina:
“I nazi-animalisti mi fermeranno. È una battaglia per la vita"
di Luigi Spezia

qui

Corriere 29.12.13
«Chi si batte per gli animali non ignori i malati»
Il filosofo Cimatti: è inutile preoccuparsi dei polli in batteria se non si prova empatia per chi vive attaccato a una macchina
intervista di Elena Tebano


«Gli animalisti sollevano un problema vero: che diritto abbiamo di prendere qualcuno che vive e di manipolarlo, di usarlo come mezzo per i nostri scopi? È una domanda centrale anche per il nostro futuro — basta pensare a quello che stiamo facendo all’ambiente — eppure in un certo senso nuova, proprio perché l’umano, per definizione, è l’animale che vive e prospera usando altri animali: da sempre li addomestica, li uccide, li mangia. Si è costruito così come vivente».
Felice Cimatti, 54 anni, filosofo, insegna all’università della Calabria, e con questi interrogativi si confronta da tempo: ha appena dato alle stampe per Laterza Filosofia dell’animalità , una riflessione sul rapporto tra l’uomo e gli altri animali. Sul caso di Caterina Simenson, la ragazza malata insultata sul web perché ha difeso la sperimentazione sugli animali, però, vuole fare una premessa: «Ci sono stati attacchi davvero violenti e assurdi. Inutile preoccuparsi per un pollo in batteria se poi non si prova empatia per una giovane che deve vivere attaccata a una macchina. Credo che queste persone tradiscano il senso dell’animalismo. Ciò detto, la questione rimane».
Tra le obiezioni che le hanno mosso, c’è che oggi la medicina può fare a meno dei test sugli animali. È vero?
«Si sono già fatti molti passi avanti in questa direzione. Ed è ovvio che se si possono evitare, non vanno usati. Ma cosa succede se non abbiamo alternative? Se scopriamo che possiamo trovare una cura per la sclerosi multipla solo sacrificando cento scimpanzé? Questa è la questione vera da un punto di vista medico, prima ancora che filosofico».
Gli «antispecisti» sostengono che non possiamo usare gli altri animali, perché significherebbe presupporre che siamo migliori, che la nostra vita vale più della loro, e così non è.
«È una risposta assoluta, come se non esistessero soluzioni intermedie, e cade nella trappola che vorrebbe denunciare: l’antropocentrismo».
Perché?
«Si tendono a riconoscere i diritti solo agli animali che più ci “assomigliano”: gli scimpanzé, per esempio, o quelli che hanno un sistema nervoso o una forma di linguaggio. In questo modo l’uomo torna a essere la misura di tutto, quello da cui discende il valore degli altri animali».
L’India, questa estate, ha vietato di tenere i delfini negli acquari definendoli «persone non umane»...
«Non è che un topo soffre meno di un delfino. Nessuno, per esempio, si preoccupa degli insetti. Perché? C’è un esperimento mentale ben noto in filosofia: provare a pensare che una zanzara sia grande come un cane. Non ci verrebbe più da schiacciarla, così, sovrappensiero».
Sta dicendo che bisogna essere ancora più radicali degli animalisti?
«No, che bisogna imparare a prendere in considerazione l’alterità degli animali, dobbiamo smettere di umanizzarli. Questo cambia radicalmente la prospettiva, anche se non semplifica la questione».
In che senso?
«La vita è appropriarsi di altre forme di vita e metterle dentro di sé. È inevitabile. Invece alcuni animalisti estremi hanno immaginato leoni geneticamente modificati per diventare erbivori. Perché gli animali non si dovrebbero mangiare e le piante sì? Perché le pecore ci sembrano più simili a noi dei carciofi?».
Così è una vertigine, non se ne esce...
«Appunto. A me non sembra possibile una forma di vita che non mangi un’altra forma di vita. Ma più consideriamo la questione in forma generale, più diventa intrattabile».
E quindi cosa bisogna fare?
«Distinguere. Dobbiamo opporci allo sfruttamento industriale degli animali: lì l’aspetto più spaventoso è la violenza sistematica. Su questo gli animalisti hanno il merito di farci guardare ciò che preferiamo non vedere. E credo che abbiano ragione loro: sul lungo periodo probabilmente smetteremo di mangiare gli animali, così come abbiamo abolito la schiavitù».
E per quanto riguarda la medicina: lei dice sì o no alla sperimentazione sugli animali?
«Se l’alternativa è: o vivo io o vivi te, io cerco di difendermi. Ma una risposta unica a questa domanda non c’è. Dobbiamo continuare a porcela, di caso in caso. E intanto lavorare per renderla meno urgente. Infine si potrebbe immaginare una sorta di “consenso informato”».
Consenso informato?
«Si potrebbe dire ai pazienti, prima che prendano una medicina, se è costata la vita a degli animali. In modo che possano decidere se usarla o no».
Lei lo farebbe?
«Non lo so, me lo chiede ora, ma se ne avessi davvero bisogno per la mia vita ... Non direi di no».

Repubblica 29.12.13
Quel giusto equilibrio tra il cuore e la mente
di Vito Mancuso


CATERINA Simonsen, studentessa di veterinaria all’Università di Bologna da tempo seriamente malata, qualche giorno fa su Facebook ha scritto così a favore della sperimentazione animale in ambito medico: «Ho 25 anni grazie alla vera ricerca, che include la sperimentazione animale, senza la ricerca sarei morta a 9 anni». Ha aggiunto di studiare veterinaria «per salvare gli animali», di essere vegetariana, e nel suo profilo mostra una foto che la ritrae mentre bacia il suo criceto di nome Illy.
Nel giro di qualche ora ha ricevuto centinaia di messaggi offensivi, tra cui una trentina di questo tipo: «Era meglio se morivi a 9 anni brutta imbecille, io sperimenterei su persone come te»; oppure: «Se per darti un anno di vita sono morti anche solo 3 topi, per me potevi morire pure a 2 anni». Penso sia lecito chiedersi dove siamo finiti e che ne sia ormai della solidarietà umana.
Come Caterina Simonsen, anch’io ho scelto di non mangiare più carne, è una scelta che mi fa sentire solidale con la vita, che reputo sacra in ogni sua manifestazione, umana e animale. Anzi, penso che la vita sia sacra già a livello vegetale e che di per sé non si dovrebbero mangiare neppure le patate e le cipolle che sono tuberi e possono generare vita, e infatti i monaci giainisti non le mangiano cibandosi solo di frutti. Ma non basta, occorrerebbe chiedersi se un albero voglia darci i suoi frutti, che non ha certo prodotto per noi, e se raccoglierli non implichi una forma di violenza, per lo meno di quella legata al furto. Non a caso Gandhi scriveva che «il consumo dei vegetali implica violenza», aggiungendo però subito dopo: «Ma trovo che non posso rinunciarvi ». Da qui il profeta della non-violenza concludeva che «la violenza è una necessità connaturata alla vita corporea ». La nostra vita, in altri termini, per esistere si deve nutrire di altra vita che deve necessariamente sopprimere. Per questo nessuno è innocente e nessuno è in grado di stabilire con certezza dove si debba attestare il rispetto per la vita.
Tale conclusione sull’alimentazione vale anche per la cura medica: anche qui c’è un’inevitabile dose di violenza, come mostra già il nostro sistema immunitario del tutto simile a un esercito di professionisti senza scrupoli. Si potrebbe obiettare che i batteri eliminati dai globuli bianchi e le cavie su cui viene condotta la sperimentazione nei laboratori non sono la stessa cosa perché i primi sono aggressori e gli altri no, ma io penso che anche i batteri che entrano nel nostro corpo siano innocenti perché fanno solo il loro mestiere senza nessuna intenzione di aggredirci. In realtà la violenza è intrinseca in ogni sistema di difesa: se vuole continuare a vivere, nessun vivente può uscire indenne dalla catena di violenza di cui è impastata la vita, e per questo nessuno ha il diritto di tirare la prima pietra condannando chi mangia carne o chi sostiene la ricerca mediante sperimentazione animale.
Tuttavia dalla catena di violenza di cui è intrisa la vita alcuni esseri umani desiderano emanciparsi, e questo è un nobile ideale che a mio avviso va sostenuto. Nessun altro essere vivente può concepire tale emancipazione, solamente l’uomo lo può, mostrando in questo di essere ben al di là della vita animale. Sto dicendo che gli animalisti, con il loro sostenere un comportamento del tutto privo di violenza verso gli animali e con il loro volere per gli animali gli stessi diritti dell’uomo, mettono in atto un comportamento che li distanzia al massimo dal mondo animale. Nessun animale carnivoro infatti cesserà mai di mangiare carne, nessun animale erbivoro deciderà mai di astenersi dai bulbi e dai tuberi, nessuna specie animale estenderà mai alle altre specie i diritti di supremazia che la natura lungo la sequenza della selezione naturale le ha concesso. A parte quella umana, nessuna specie cesserà mai di seguire l’istinto sotto cui è nata. L’uomo al contrario ha imparato a poco a poco a estendere gli ideali di giustizia a tutti gli esseri umani, compresi quelli dalla pelle diversa, e oggi alcune avanguardie stanno lottando per allargare tali ideali ad altri esseri viventi. Tutto ciò, esattamente al contrario del naturalismo professato da alcuni animalisti, mostra in modo lampante lo iato esistente tra Homo sapiens e gli altri viventi. Se gli esseri umani lottano per estendere agli animali gli stessi diritti dell’uomo non è quindi perché non c’è differenza tra vita umana e vita animale, ma esattamente al contrario perché tra le due vi è una differenza qualitativamente infinita.
Ponendosi in tale prospettiva di estensione degli ideali di non-violenza anche al mondo animale, Gandhi scriveva: «Aborrisco la vivisezione con tutta la mia anima. Detesto l’imperdonabile macello di vita innocente nel nome della scienza e della cosiddetta umanità, e considero del tutto prive di valore le scoperte scientifiche macchiate di sangue innocente». Per questo, al di là delle ignobili offese a Caterina Simonsen che meritano solo l’oblio, io ritengo che nella campagna animalista contro la sperimentazione sugli animali vi sia qualcosa di importante. Si tratta dell’appello a estendere a tutti i viventi l’imperativo categorico della vita etica, formulato da Kant alla fine del Settecento solo in prospettiva antropocentrica: «Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre come fine e mai solo come mezzo». Oggi si tratta di giungere a trattare «sempre come fine e mai solo come mezzo» non solo l’umanità, ma, per quanto è possibile, tutto ciò che vive: gli animali, le piante, i mari, le montagne, il pianeta, il cosmo… tutto dovrebbe essere visto in una prospettiva non utilitaristica ma vorrei direcontemplativa, in cui si contempla la natura delle cose rispettandole per quello che sono e cessando di calcolare solo l’utile che ne viene a noi, per una filosofia ecologica di cui il nostro tempo e il nostro spazio hanno urgente bisogno.
Attenzione però alla saggezza del grande filosofo: dicendo «mai solo come mezzo», Kant ricordava che un elemento di strumentalità è sempre connaturato al vivere, nel senso che ognuno di noi in alcune circostanze è anche un mezzo per la vita degli altri. Ciò ci dovrebbe portare a quel saggio equilibrio del cuore e della mente che mette al riparo da ogni radicalismo fanatico e che porta ad appoggiare la liceità etica della sperimentazione animale laddove davvero non vi sia altra possibilità per sconfiggere le malattie degli uomini e degli stessi animali.

l’Unità 29.12.13
Mps, Profumo perde la partita
«Ma Siena perde la banca»
di Bianca Di Giovanni


l’Unità 29.12.13
È ora di decisioni non convenzionali: nazionalizzare Monte dei Paschi
di Massimo Mucchetti


Corriere 29.12.13
La banca-città senza certezze e il rischio della nazionalizzazione
Le incognite politiche sull’operazione salvataggio
L’alleanza tra Mansi e il sindaco Valentini, il silenzio dei dirigenti nazionali del Pd
di Fabrizio Massaro

qui

l’Unità 29.12.13
Senza difesa
Ancora cemento L’Italia dimezza le aree sotto tutela
Nel 2008 la percentuale del territorio vincolato era del 48%, In tre anni è sceso al 20&
Anche per l’assenza di piani regionali, come nel Lazio
di Luca Del Fra


Corriere 29.12.13
Cellophane e bacinelle fra le teche del museo: piove sui tesori di Sibari
Non ancora riparati i danni dell’alluvione
di Gian Antonio Stella


Che Zeus abbia pietà di Sibari. Se dovesse essere un inverno piovoso, infatti, l’antica città greca ancora sotto il fango dell’alluvione del gennaio scorso, sarebbe allagata di nuovo. E tornerebbero a riempirsi d’acqua anche le bacinelle posate a raccogliere lo sgocciolio dal soffitto nello splendido e sgangherato museo.
Potesse tornare in vita il focoso «Toro cozzante», la magnifica statuetta di bronzo che rappresenta uno dei pezzi più belli esposti nell’edificio costruito una ventina di anni fa, saprebbe lui chi incornare. E schiumando rabbia dalle narici se la prenderebbe con tutti i governi nazionali degli ultimi decenni colpevoli di tagli scellerati (anche se va dato atto all’attuale ministro dei Beni culturali Massimo Bray di essere andato in incognito mesi fa a visitare il museo pretendendo pure, o res mirabilis!, di pagare il biglietto) e poi con le giunte regionali di sinistra e di destra sempre distratte davanti ai disastri dei parchi archeologici calabresi e ancora coi sovrintendenti troppo timidi nel denunciare le calamità dovute all’incuria e gli amministratori locali innamorati del «marchio» ma indifferenti alla cura quotidiana.
Fatevi un giro, nei dintorni dell’antica città fondata dagli Achei che secondo Strabone dominò su quattro tribù e venticinque città e arrivò a mettere insieme nelle guerre ai Crotoniati anche trecentomila uomini e aveva tanti abitanti da riempire un circuito di 50 stadi, cioè circa nove chilometri quadrati. Fatevi un giro e troverete un «Sibari golf club», un «Sibari Green village», un «Sibari petroli», «Sibari cantieri nautici», una «radio Sibari», un «villaggio Sibari Otium Resort», una «Marina di Sibari» e così via. E tutta la Calabria trabocca di residence Magna Grecia, campeggi Costa degli dei, appartamenti Olimpo, alberghi intitolati a Pitagora, ristoranti dedicati a Zeus, Atena o Poseidone. Tira, il fascino del nome ellenico. C’è chi pensa possa bastare ad attrarre torme di turisti. E la manutenzione dei tesori antichi? Uffa, chissenefrega!
Per carità, sarebbe ingiusto sostenere che dopo lo straripamento del fiume Crati che nel gennaio scorso sommerse il sito archeologico non sia stato fatto nulla. Non c’è settimana in cui i (pochi) addetti non puliscano i filtri, sempre intasati, delle pompe che tirano su la fanghiglia. Più di tanto però, coi mezzi e i finanziamenti che hanno, non possono fare.
Lo stesso Battista Sangineto, l’archeologo che col collega Taliano Grasso e una quindicina di studenti dell’Università della Calabria ripulirono volontariamente almeno alcune parti delle rovine coperte dal fango, ha affidato al Quotidiano della Calabria uno sfogo esasperato: «Come è possibile che i finanziamenti promessi, con relative passerelle politiche, a seguito della battaglia e dell’appello che questo giornale promossero all’indomani dello straripamento del Crati, non siano arrivati o siano arrivati in così esigua quantità da far iniziare e smettere i lavori nel giro di qualche settimana? Come è possibile che nonostante l’impegno e la dedizione di tutti gli operatori della Soprintendenza archeologica della Calabria (…) il fango e l’acqua continuino a ricoprire la maggior parte delle strutture della città antica? Come è possibile lasciare che una delle più importanti aree archeologiche del Mezzogiorno versi in queste condizioni, a quasi un anno dal catastrofico evento? Quali misure urgenti sono state adottate, sulla riva idrografica sinistra del Crati, affinché il fiume non straripi nel corso di quest’inverno?».
Le foto dicono tutto: certi mosaici pavimentali ancora sotto la melma, le passerelle del percorso pedonale devastate dalle acque e buttate lì su un fianco, il Parco del Cavallo e la maestosa Plateia, cioè la strada che solcava l’antica città, impantanati alla prima pioggerella invernale…
Non se lo merita, un degrado così, questo eccezionale accumulo l’una sull’altra, per la gioia di ogni amante dell’archeologia, di tre città diverse: la sontuosa Sibari voluta dagli Achei distrutta dai Crotoniati nel 510 a.C. e poi la panellenica Thurii successivamente conquistata dai Lucani e infine la romana Copia. Non se lo merita quella che, come ricorda Salvatore Settis, fu per un paio di secoli «la più opulenta città dell’Occidente greco, lasciandosi dietro una scia di narrazioni, spesso leggendarie» e fu «il modello di ricchezza e di cultura urbana avanzata».
Come fosse questa costa fino a qualche decennio fa lo testimoniò l’archeologo francese François Lenormant: «Non credo che esista in nessuna parte del mondo qualcosa di più bello della pianura ove fu Sibari. Vi è riunita ogni bellezza in una volta: la ridente verzura dei dintorni di Napoli, la vastità dei più maestosi paesaggi alpestri, il sole ed il mare della Grecia». Cosa sia oggi, lo dicono le immagini degli orrendi condomini edificati a ridosso dei Laghi di Sibari trasformati in porticcioli con annesso villino.
In condizioni forse peggiori del sito archeologico, tuttavia, e non per colpa di chi ci lavora mettendoci passione e amore, versa il museo. Lo costruirono un paio di decenni fa e ospita una collezione di pezzi straordinari provenienti dagli scavi nei dintorni. Il «Toro cozzante» di cui dicevamo, un magnifico pettine di avorio, un bellissimo frammento di mosaico, un corredo funerario del IV secolo a.C., le arcaiche «dame di Sibari», una «mano panthea» di bronzo avvolta tra le spire di un serpente, una targa di bronzo appartenente a «Kleombrotos figlio di Dexilaos», un sibarita vincitore di una gara ad Olimpia… Pezzi che farebbero fare un figurone a ogni museo del mondo ma che sono stati mediamente visitati nel 2012 da 31 persone al giorno. Per tre quarti con biglietto omaggio.
Bene: su quel tesoro, nelle giornate di pioggia come giovedì, Santo Stefano, sgocciola. Al punto che i responsabili del museo, in attesa che comincino i lavori di ristrutturazione per i quali sono già stati stanziati pacchi di soldi, sono stati costretti a posare per terra un bel po’ di bacinelle e a coprire varie bacheche con teloni di cellophane. Uno spettacolo indecoroso. Tanto più per un edificio progettato dall’architetto Riccardo Wallach e terminato, come dicevamo, negli anni Novanta. E meno male che le autorità locali non perdono occasione di autocelebrarsi come i «gelosi custodi della civiltà della Magna Grecia»…

Repubblica 29.12.13
La capitale e le ramazze scomparse mentre il sindaco sfoglia curricula
L’ossessione per il prestigio, ma il problema è la cura di tutti igiorni
di Francesco Merlo


QUELLA sconcertante foto dei maiali che grufolano tra i rifiuti di Roma è «una situazione reiterata e in parte creata ad arte» dicono l’assessore Estella Marino e il sindaco Ignazio Marino (non sono parenti) evocando il complotto dei maiali, forse il porco-Napoleone di Orwell. Eppure Boccea aRoma non è suburra.
MA UN quartiere di piccolo decoro borghese: «Stiamo facendo verifiche». E lo sproloquio comunale riserva altre sorprese, proprio come uno di quei cassonetti che attorno a Fontana di Trevi vengono rovistati alle 5 del mattino dalle bande dei barboni scortati dai cani. Il sindaco infatti dichiara: «La spazzatura irrita me più ancora delle romane e dei romani» e dunque «stiamo esaminando da qualche settimana i curricula più prestigiosi per cambiare la leadership».
Come vedete, in un solo straparlio ci sono tutti i tic ideologici e tutte le cautele da tartufo del linguaggio: “le verifiche”, la cospirazione suina, “le romane e i romani”, “la leadership”, i “curricula più prestigiosi”. Ma purtroppo non è con l’igiene della lingua che si pulisce Roma. Questo è un codice di indignazione che fa il paio con il famoso vestito da spalaneve indossato da Alemanno: a ciascuno la sua demagogia. La verità è che, anche per il sindaco di sinistra come fu per quello di destra, la preoccupazione dell’immagine, comprensibile entro certi limiti, prevale ormai su tutto. Forse davvero per rendersi finalmente efficace, Ignazio Marino dovrebbe, come prima mossa, diventare invisibile.
Di certo lui, che va in giro in bici e non sfreccia in auto blu, avrebbe dovuto sapere com’è ridotta Roma almeno da quando è stato eletto, se non altro per evitare che la situazione peggiorasse come sta accadendo in queste settimane. E invece per irritarlo c’è voluta la foto dei maiali che io, in vacanza in Inghilterra, ho visto suun giornale del Sussex. È come se il sindaco vivesse all’estero e avesse bisogno delle immagini più strambe per scoprire che la sporcizia a Roma fa subito plebaglia da esportazione.
Attenzione: non stiamo parlando qui del problema delle discariche e del riclico, ma della manutenzione normale, roba da ramazza, sporcizia ordinaria di una città che una volta, diceva Moravia, era disordinata e perciò sembrava sporca. Mentre adesso, nel disordine generale, solo la sporcizia è ordinata. E addirittura è pianificata. Chi decide di sporcare sa infatti dove collocare i propri sacchetti, e chi decide di non pulire sa dove non deve andare.
Ci sono archi e piccoli passaggi tra i vicoletti attorno a Piazza Navona, Campo dei Fiori e Piazza Farnese che sono diventati “non luoghi spontanei” direbbe Marc Augé, re-cessi che tutti conoscono, anche le amministrazioni che fanno finta di non sapere: sacchetti, materassi, porte sfasciate, e qualcuno al Testaccio li butta direttamente dal balcone di casa come nei film di Ficarra e Picone. E il disordine di Trastevere, che per Moravia era vita, mercato, pannolino usato e brulichio di casbah, ora è putrefazione e liquame, i graffiti sono sporcizia che sporca sporcizia, e su tutto domina il fetore di marcio, di orina, una puzza sempre uguale di cibo andato a male, come di topo fritto.
Davvero basterebbe al signor Sindaco una passeggiata a piedi, senza pubblicità e senza fotografi, per accorgersi dove si sono trasferiti i brutti sporchi e cattivi delcinema, che il gioioso Colle Oppio è ridotto a triste e infetto letamaio, e che Alberto Sordi e Silvana Mangano oggi “lo scopone scientifico” lo giocano tra le lamiere della sosta abusiva, nelle stradine più belle del mondo che sembrano glistudios di un nuovo neorealismo, non più straccione e poetico ma lercio e umiliante, non sottoprelatariato ma sottosviluppo.
E forse davvero è riassuntivo di tutto il Paese quel prato che fa risacca attorno alle fondamenta diCastel Sant’Angelo. Già dall’alto vi fanno spicco i giallo bruni degli escrementi. Nessuno lo pulisce, nessun se ne cura: è il gabinetto dei cani. E Castel Sant’Angelo è preso d’assedio dai topi. Prima sotto i cassonetti ho notato il nereggiare di un piccola folla aggrumata, poi, come in un vero spettacolo di orrore, le sorche d’acqua e i ratti di venti centimetri si sono disputati i rifiuti in tutta tranquillità, mentre due turisti giapponesi, con la macchina fotografica pendula sul petto, li scrutavano con degli aggeggi che somigliavano a piccoli binocoli fosforescenti.
E invece, vicino al gasometro e agli ex mercati generali, quartiere di nuova movida, ma anche lungo la commerciale via Gregorio VII, i cassonetti ogni sera più alti, più schiumosi e strabordanti vengono presi d’assalto da gruppi di nuovi poveri che razzolano alla ricerca di roba da riciclare, squartano e sventrano plastica e cartoni, raccolgono ogni cosa su vecchi carrelli di supermercato, anche pezzi di elettrodomestici ancora funzionanti. Sono gli scarti della più incivile civiltà che finiscono nei punti vendita dei mercatini, da non confondere con le bancarelle selvagge che invadono, tanto per citarne una a caso, la via Appia Nuova, davanti ai portoni, e producono altra sporcizia, altri rifiuti che in queste sere senza vento si spalmano sui marciapiedi come una patina di decomposizione.
Eppure ci sono città dove buttare la spazzatura è poesia civile. Calvino la racconta magnificamente ne “La poubelle agréée” e si dilunga nel descrivere «la compe-tenza e la soddisfazione del mettere fuori l’immondizia… Ecco che già scendo le scale reggendo il secchio per il manico a semicerchio, attento a che non dondoli tanto da ribaltare il carico…». È una prosa magnifica del 1976 che al sindaco Marino potrebbe essere dedicata sin nel titolo: la pattumiera infatti è agréée (splendido anglesismo) perché condivisa, accettata, regolata e «gradita anche quando non è gradevole». Tutto il contrario di Roma dove gettare la spazzatura non è rassettare, ma spurgare. E difatti non trovi mai i cestini dei rifiuti e poi improvvisamente ne scopri tre o quattro in pochi metri, vaghi dunque con in mano il cono o la carta sporca a Largo Chigi, in via del Corso, in via Nazionale, in corso Rinascimento. Mi hanno spiegato che dove ci sono i palazzi della politica, cioè dappertutto, anche i tombini vengono sigillati e, così, quando piove la città eterna si allaga ma non si lava mai.
Infine al sindaco Ignazio Marino vorrei raccontare che, invitato da Renzo Piano il 29 ottobre scorso, ho vissuto con lui la sua prima giornata in Senato. Ebbene, l’architetto fece togliere dalla sua stanza a palazzo Giustiniani, come fosse spazzatura, gli arredi umbertini, gli arazzi di gusto rinascimentale, le Savonarola, i Fratini e le consolle dorate sostituendo il tutto con un grande tavolo di compensato attorno al quale fece sedere architetti, ingegneri e intellettuali. Spiegò che avrebbe utilizzato il suo salario di senatore a vita per finanziare i progetti di dieci giovani studiosi. E pregò i presenti di selezionarli: «Ma per favore non con i curricula. Migliori sono i curricula e peggiori sono le persone». Ecco, le vie della spazzatura sono infinite.

Repubblica 29.12.13
Roma sepolta dai rifiuti. Marino: cambio tutto
Il primo cittadino ai residenti: io più arrabbiato di voi, via ivertici dell’azienda per la raccolta
di Cecilia Gentile


ROMA — Altro che isola pedonale ai Fori Imperiali. Adesso Roma rischia di finire sulle copertine delle testate internazionali per quei maiali, ben otto, che nel giorno di Natale grufolavano tra i rifiuti abbandonati davanti ai cassonetti della periferia, immortalati in una foto che continua a spopolare sul web. «Situazione inaccettabile — tuona il sindaco Ignazio Marino — nel giro di poche settimane cambieremo i vertici dell’Ama. Non è dignitoso per le romane e i romani e per tutti quelli che vengono da fuori».
Perché il problema dei rifiuti nellacapitale non sono solo quegli otto maiali. Sono i cassonetti stracolmi tutti i giorni dell’anno a tutte le ore e in tutte le zone della città, nella cornice di strade sporche, non spazzate con regolarità e in queste ore ricoperte da spessi e pericolosi tappeti di foglie. Un degrado cronico che a Natale ha conosciuto una vertiginosa escalation: spazzatura aumentata per pranzi e cenoni e operatori Ama a riposo con la raccolta interrotta il 24 e il 25 dicembre, mentre i sacchi continuavano a lievitare trasformandosi in cataste maleodoranti.
«Rome sweet home» recita lo slogan a colori gialli e rossi che gira sul retro degli autobus della capitale e reclamizza una città in festa, pronta ad accogliere i turisti con via dei Fori Imperiali chiusa al traffico da Natale all’Epifania e il concerto di Capodanno al Circo Massimo. Ma la realtà è un’altra. Chi arriva a Roma attirato dalle atmosfere e dagli eventi natalizi, dai saldi al via il 4 gennaio, si trova davanti alla sporcizia e all’incuria delle stazioni della metropolitana, ai rifiuti per le strade e ai cassonetti stracolmi. E adesso i maiali. È la Caporetto del sistema rifiuti romano, con la raccolta porta a porta che non funziona, gli impianti di selezione del materiale fermi da anni, e l’organico che prende la strada del nord Italia per essere trasformato in fertilizzante perché nella capitale lo stabilimento èchiuso. «Sono veramente molto molto irritato. Sono più arrabbiato di voi — risponde il sindaco Marino ai cittadini che protestano — È una situazione che deve essere corretta con sentimento di urgenza, perché questa è la capitale. Per questo da una ventina di giorni stiamo conducendo i colloqui con i candidati alla leadership dell’azienda, con i curricula più prestigiosi, da tutta Italia. Spero che nel giro di poche settimane avremo un nuovo amministratore delegato e un nuovo presidente nello spirito di una grande discontinuità in un settore cruciale per la qualità della vita dei cittadini».

Corriere 29.12.13
Una Svizzera di emigranti, soldati, architetti, artisti
risponde Sergio Romano


In questo periodo tutti parlano di migrazioni (quella verso il nostro Paese dal Sud del mondo e quella dei nostri giovani in cerca di lavoro) e ricordano il nostro passato di emigranti; ma nessuno rammenta che — in alcuni periodi — dalla Svizzera emigravano verso di noi. Una prima ondata di emigrazione avvenne a metà del 1500, composta per lo più da soldati di ventura (per i quali la Svizzera era famosa) e casari. Probabilmente fuggivano dagli eccessi del Calvinismo (a quel tempo Ginevra doveva sembrare come Kabul oggi!) verso i confini della Repubblica Veneta che arrivava fino a Bergamo e Lodi ed era molto più comprensiva dei cattolicissimi spagnoli che governavano a Milano. Un nuovo periodo di emigrazione dalla Svizzera avvenne fra metà ‘800 e il primo ‘900 e fu caratterizzato dalla presenza di personaggi di alto livello quali, ad esempio, l’editore Hoepli, gli imprenditori del tessile Legler e Honegger; e ricordo che anche la maggioranza dei soci della neonata squadra di calcio Inter erano svizzeri. Per quale motivo il Nord del nostro Paese a quel tempo attirava l’emigrazione d’élite? Mi auguro solo di non dover aspettare altri 200 anni per un’inversione di tendenza del genere.
Gino Codella

Caro Codella,
Le ricordo anzitutto che Ulrico Hoepli chiamò in Italia un giovane svizzero, Giovanni Scheiwiller, fondatore a sua volta di una piccola casa editrice che divenne nazionale quando il figlio Vanni ne prese la guida. Il catalogo delle edizioni Scheiwiller è apparso recentemente presso l’editore Unicopli a cura di Laura Novati.
Come Hoepli, tutti gli svizzeri che scelsero l’Italia verso la fine dell’Ottocento furono attratti dai molti progressi realizzati dopo la formazione dello Stato unitario, dalla nascita di una borghesia nazionale e dai primi segni di una rivoluzione industriale e bancaria che avrebbe fortemente accelerato la crescita economica del Paese agli inizi del Novecento. Ma gli svizzeri furono sempre migranti. Nei pressi di Ginevra, a Pregny Chambésy, esiste un elegante Museo degli Svizzeri nel mondo in cui è raccolta una interessante documentazione sulle grandi correnti migratorie della Confederazione e sulle personalità di spicco — da Rousseau alla famiglia Necker, dai grandi architetti agli imprenditori, dai leader religiosi agli scienziati — che la Svizzera ha «esportato» nel mondo.
Una delle maggiori correnti migratorie fu quella dei militari. Dopo la sconfitta dei cantoni confederati contro la Lega franco-veneta a Marignano nel 1515, e dopo il trattato di pace perpetua firmato allora con il re di Francia, la Svizzera mise il grande talento militare dei suoi abitanti al servizio dei maggiori Stati europei. Erano mercenari, ma dotati di una straordinaria etica professionale; e il primo Stato ad arruolarli fu quello che li aveva visti all’opera sul campo di battaglia. Nella prima sala del Museo di Pregny Chambésy vi è un grande busto marmoreo di Luigi XIV che gli svizzeri considerano ironicamente uno dei loro maggiori «datori di lavoro». Nessuno, nemmeno nella Francia repubblicana, ha dimenticato il loro sacrificio alle Tuileries nel 1792 quando l’intero reggimento morì per sottrarre Luigi XVI alla rabbia del suo popolo.
Un’altra corrente migratoria non meno importante è quella degli scalpellini ticinesi, presenti per parecchie generazioni nei cantieri di molte chiese e cattedrali dell’Europa centro-meridionale. Quegli artigiani sono gli antenati di una lunga schiera di architetti, creatori di chiese e palazzi dall’Italia alla Russia: Francesco Borromini, Carlo Maderno, Le Corbusier, Mario Botta. Come in questo, anche in altri casi gli svizzeri nel mondo hanno sempre sofferto di una sorta di malinteso linguistico. Quelli con un nome francese (Benjamin Constant o il linguista Ferdinand de Saussure, tanto per fare qualche esempio) vengono automaticamente accreditati alla Francia; quelli con un nome italiano (lo scultore Giacometti, il saggista e filologo padre Giovanni Pozzi), vengono accreditati all’Italia; e quelli con un nome tedesco (Max Frisch, Friedrich Dürrenmatt, lo psicoanalista Carl Gustav Jung, il compositore Arthur Honegger) vengono accreditati alla Germania. Oltre a prestare soldati agli eserciti, la Svizzera ha anche prestato scrittori, artisti, scienziati a tutta l’Europa. Anch’io sarei felice, caro Codella, se continuasse a fare qualche prestito umano all’Italia.

l’Unità 29.12.13
Droga, lezione uruguaiana
Il presidente Mujica ha legalizzato la marijuana
Così il suo Paese è all'avanguardia nella lotta alla criminalità collegata agli stupefacenti
di Umberto Veronesi


l’Unità 29.12.13
Striscia nel gelo: catastrofe umanitaria a Gaza
Dopo sei anni d’embargo totale, manca di tutto
Chiusa da ieri l’unica centrale elettrica: la condizione disperata per due milioni di persone
Lanciata la campagna «una coperta per Gaza»
di U. D. G.


Corriere 29.12.13
E adesso Assad scrive a papa Francesco
di Davide Frattini


Prima l’omaggio a Nelson Mandela («la sua battaglia è una lezione per i tiranni, alla fine saranno loro a perdere»), adesso il messaggio inviato a papa Francesco. Bashar Assad cerca di rompere l’isolamento: condivide con parole giudicate grottesche l’addio del mondo al leader che ha sconfitto l’apartheid in Sudafrica, reagisce alla preghiera del Pontefice che nella benedizione Urbi et Orbi di questo Natale ha condannato le «troppe vite perdute» della guerra siriana. Una delegazione del suo governo ha incontrato ieri in Vaticano monsignor Pietro Parolin, il segretario di Stato, e Dominique Mamberti, il «ministro degli Esteri» della Santa Sede, per consegnare la lettera del presidente. Assad ribadisce la posizione di Damasco: la crisi va risolta senza interventi esterni attraverso il dialogo nazionale. Il regime si presenta come protettore dei cristiani, agita fin dall’inizio della rivolta la minaccia dei fondamentalisti islamici che ora spadroneggiano nel nord. Il Papa ha supplicato da piazza San Pietro i ribelli e le truppe lealiste di «garantire l’accesso agli aiuti» per quei quattro milioni di civili che sono diventati rifugiati nel loro stesso Paese. È la stessa richiesta delle Nazioni Unite e delle organizzazioni umanitarie a cui il governo continua a opporre ostacoli burocratici e veti politici: vuole controllare a chi vengono distribuiti il cibo e le coperte contro il gelo. Assad si prepara alla conferenza di Ginevra (fissata per il 22 gennaio, vorrebbe trovare una soluzione al conflitto) provando a guadagnare terreno diplomatico e militare. Nel giorno della visita in Vaticano la sua aviazione ha bombardato un mercato in uno dei quartieri di Aleppo dominati dai rivoltosi, gli attivisti locali stimano 25 vittime tra i civili. Dopo 33 mesi di scontri e 125 mila morti, il capo e i suoi consiglieri vogliono presentarsi al vertice in una posizione di forza. Che demoralizzi l’opposizione e ne smonti le rivendicazioni. Che convinca gli americani e gli europei di quello che i russi e i cinesi pensano da sempre: «Bashar deve restare».

l’Unità 29.12.13
Cairo, università in fiamme: esplode la rivolta islamista
Cinque giorni fa il governo ha dichiarato «gruppo terroristico» i Fratelli Musulmani
di Umberto De Giovannangeli


il Fatto 29.12.13
I gattopardi di Pechino chiudono i laojiao
Amnesty denuncia la sostituzione dei campi di lavoro con carceri segrete per sfuggire alle statistiche della vergogna
di Alessandro Oppes


Cambiare, senza però mai ammettere di aver sbagliato. La Cina del nuovo corso di Xi Jinping manda in archivio due delle sue più polemiche e contestate scelte degli ultimi decenni in politica sociale e nel settore dei diritti umani: un mese e mezzo dopo l'annuncio da parte del Partito Comunista, l'Assemblea nazionale popolare -massimo organo legislativo di Pechino- ha reso effettiva l'abolizione dei campi di rieducazione, i famigerati laojiao, e l'allentamento (anche se non la totale soppressione) della cosiddetta “politica del figlio unico”.
Nel primo caso, si tratta della scomparsa di un sistema creato quasi 60 anni fa, ai tempi di Mao Zedong, in origine per incarcerare “controrivoluzionari”, “capitalisti” e critici del regime, ma poi esteso a prostitute, tossicodipendenti e autori di reati minori, fino a essere utilizzato come forma di repressione contro dissidenti politici e religiosi, compresi i membri della setta Falun Gong, messa fuorilegge nel 1999. Un modo rapido per privare della libertà – fino a quattro anni - gli oppositori senza necessità di una sentenza della magistratura (era sufficiente una decisione della polizia). Ora i campi di lavoro scompaiono “dopo aver compiuto la loro missione storica”, sentenzia pomposamente l'agenzia ufficiale Xinhua, definendo “validi” i castighi imposti sino ad oggi. Una volta promulgata la risoluzione, tutte le persone recluse dovrebbero tornare in libertà (secondo l'emittente pubblica Cctv sono 310mila, confinate in 310 centri), ma le organizzazioni per i diritti umani invitano alla cautela, temendo che si tratti solo di una mossa propagandistica. Secondo Amnesty International, la Cina sta già sostituendo i laojiao con “prigioni nere”, o illegali, che sfuggirebbero alle statistiche della vergogna. E viene segnalata anche l'istituzione di “centri per il lavaggio del cervello”, nei quali la tortura sarebbe dilagante.
La revisione della politica di controllo delle nascite è invece una scelta strategica imposta dalla crisi demografica: nei prossimi tre lustri, secondo proiezioni delle Nazioni Unite, la forza lavoro in Cina è destinata a perdere 67 milioni di persone, tanto che le autorità pensano già a un aumento dell'età pensionabile per fronteggiare il calo della manodopera. Con la riforma, le coppie potranno avere due figli se uno dei due genitori è figlio unico. Prima (sin dagli anni '70) una coppia poteva avere un secondo figlio solo se entrambi i genitori erano figli unici. In questo modo, Pechino ha evitato 400 milioni di nascite nell'ultimo trentennio.

La Stampa 29.12.13
Xi Jinping come Obama in coda al fast food
Il presidente cinese rompe i tabù: piace per lo stile sobrio e schietto
di Ilaria Maria Sala

qui

Corriere 29.12.13
Addio al «figlio unico» La Cina vuole ringiovanire
Un milione di nuovi nati: ma non sarà baby boom
di Guido Santevecchi


PECHINO — «Fate meno figli e allevate più maiali»: gli striscioni con le scritte in caratteri rossi sono ancora attaccati ai muri. Le autorità di centinaia di città e paesoni nelle lontane province dell’immensa Cina non li hanno tolti. E probabilmente non li staccheranno nemmeno oggi che è stata varata la riforma per allentare la «legge del figlio unico». Laggiù il contrordine di Pechino deve ancora arrivare e ci vorrà tempo, come al solito, perché le disposizioni emanate dal centro vengano applicate dalla sterminata burocrazia dell’impero.
Ma ieri il Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo, il Parlamento di Pechino, ha messo il timbro che ratifica la decisione presa a novembre dal Plenum del Partito comunista: la modifica della legge di pianificazione familiare del 1979 per permettere a molti genitori di avere un secondo figlio. Negli anni Settanta le coppie cinesi avevano in media quattro figli e il peso di quelle bocche da sfamare rischiava di bloccare la grande rincorsa che in tre decenni ha portato la Cina a diventare la seconda economia del pianeta. Così, alle famiglie delle aree urbane fu vietato di avere più di un figlio. Nelle campagne se ne potevano avere due, se il primo era una bambina; e altre eccezioni venivano ammesse per le minoranze etniche e le coppie formate da genitori che erano entrambi figli unici. Ora anche le famiglie di città in cui almeno uno dei due genitori non abbia fratelli o sorelle potranno mettere al mondo un secondo bimbo.
Il sistema del 1979 ha obbligato circa un terzo dei cittadini cinesi a rinunciare ad avere più di un figlio. A chi lo violava veniva inflitta una «tassa di mantenimento sociale», termine burocratico che significava una multa molto elevata la cui entità era stabilita arbitrariamente da funzionari locali. In realtà, il partito aveva cominciato ad «incoraggiare» le famiglie a fare meno figli ed allevare più maiali già dal 1970. Il ministero della Salute ha pubblicato questi dati: in quarant’anni i medici statali hanno praticato 336 milioni di aborti e sterilizzato 196 milioni di uomini e donne, oltre ad avere impiantato 403 milioni di spirali intrauterine.
Molti di questi aborti e sterilizzazioni sono stati forzati. Un metodo odioso e odiato che ancora oggi genera storie atroci. A dicembre un contadino del Guangdong ha ricevuto la visita dei funzionari della pianificazione: avevano saputo che nella sua casa c’era un neonato illegale e per mettere a posto la pratica esigevano una multa di 60 mila yuan, circa 7 mila euro. Il contadino non li aveva, allora il capo del villaggio, segretario del Partito comunista locale, ha pensato bene di fargli sequestrare il raccolto. L’agricoltore è andato dal funzionario per spiegargli che senza il raccolto non avrebbe avuto di che sfamare la famiglia: nessuno sconto, la legge è legge, è stata la risposta. L’uomo, disperato, ha bevuto veleno per topi ed è morto. Le autorità hanno promesso di dare dei soldi alla vedova per aiutarla a tirare avanti. Sono storie di ordinaria ferocia burocratica che negli ultimi mesi hanno cominciato a trovare spazio sui giornali cinesi. Segno che i tempi erano maturi per la riforma.
Ma non sono i motivi etici ad aver portato all’allentamento della legge. Con il figlio unico, il numero dei cinesi si è stabilizzato a quota 1,3 miliardi circa, però la popolazione sta invecchiando: nel 2050 oltre un quarto dei cittadini della Repubblica Popolare avranno più di 65 anni e lo Stato non sarà in grado di sostenerli. E già oggi, a un ritmo di contrazione dei cittadini valutato in 3,4 milioni in meno all’anno, si cominciano a registrare carenze di forza lavoro nelle fabbriche. Moltissime coppie, a causa della preferenza per il figlio maschio, hanno fatto ricorso ad aborti selettivi e questa tragedia nella tragedia ha creato uno squilibrio di genere: 122 maschi su 100 femmine. Significa che almeno 24 milioni di uomini cinesi non potranno trovare moglie per mancanza di ragazze.
Quanti figli in più avrà la Cina? I demografi di Pechino non si aspettano un baby boom: le coppie di città, già alle prese con un costo della vita alto, spese per l’educazione del figlio unico crescenti e prezzi delle case in continuo rialzo, sono spaventate dall’idea di avere un secondo bambino. Secondo i sondaggi, su 15-20 milioni di famiglie interessate dalla riforma, meno di un quarto ne approfitteranno: la Cina potrebbe avere un milione di figli in più all’anno.
Il Parlamento ieri ha precisato che l’allentamento della legge non è retroattivo: chi «ha sbagliato» in passato dovrà pagare le multe. Tra questi reprobi c’è Zhang Yimou, il regista famoso per «Lanterne rosse» e «Sorgo rosso». Uomo dai molti amori e, secondo i gossip, sette bambini, il maestro sessantaduenne. Lui ha corretto, ammettendo solo tre figli, ma ormai la macchina della burocrazia si è messa in moto e anche l’opinione pubblica chiede che paghi, paragonando il suo caso a quello tragico del contadino che si è suicidato per la multa. E due avvocati hanno chiesto a un tribunale di punire Zhang Yimou per «danno sociale»: pensano che 120 milioni di euro sarebbero la cifra adeguata al suo status sociale. Il degno finale per un bruttissimo film di (mal)costume.

Corriere 29.12.13
La scomparsa dell’inventore del mitra e le condoglianze del Patriarca di Mosca
di Marco Ventura


Onore all’illustre progettista figlio della Madre Russia: a colui che combatté l’invasore nazista e al termine della guerra inventò il fucile mitragliatore più noto al mondo. Onore a Mikhail Timofeevich Kalashnikov, morto il 23 dicembre, a 94 anni. L’indomani della morte, vigilia di Natale, il Patriarca di Mosca ha espresso le sue condoglianze ai familiari e agli amici del patriota. Sua Santità ha celebrato il contributo del defunto in favore della «crescita patriottica, spirituale e morale delle nuove generazioni». Ha ricordato la «ricerca creativa» del padre dell’AK-47 e la sua «fedeltà alla vocazione e al dovere».
Il Patriarca Kyrill ha infine pregato per il «riposo nella dimora celeste» del testimone della vodka Kalashnikov, quella dalla bottiglia a forma di mitra che, recita l’etichetta, «si beve meglio in compagnia di belle ragazze». Nel post Guerra fredda il nazionalismo ortodosso russo si è stagliato come uno degli esempi più limpidi di asservimento della religione a un disegno geopolitico di potenza. Temprato da secoli di sostegno ecclesiastico al potere imperiale, esso è riemerso dal letargo degli anni sovietici e ha trovato abbondanza di cibo per rimettersi in forze: la globalizzazione culturale ed economica, la sfida musulmana, le violenze contro i cristiani, il caos nel Medio Oriente. Commemorando Mikhail Kalashnikov, il Patriarca mette l’arsenale teologico della terza Roma moscovita al servizio dell’arsenale diplomatico militare di Putin: il Cremlino si erge a protettore dei nazionalismi cristiani caucasici e mediorientali, imponendo in cambio acquiescenza agli orrori dei tiranni di Teheran e Damasco.
Tutt’altra la visione proposta da papa Francesco nel messaggio per la Giornata mondiale della pace del 1° gennaio. Consapevole della «condivisione di un comune destino tra le Nazioni della terra», il Pontefice annuncia la fraternità universale, «fondamento e via della pace». È questo il bivio per il cristianesimo del Terzo millennio: svendere agli interessi nazionali il Dio fatto uomo nel Natale; oppure testimoniarne la venuta per il bene di tutti.

il Fatto 29.12.13
La Miss che sfida la Yakuza
Yoshimatsu è la prima donna che accusa la mafia giapponese e le sue pressioni nel mondo dello spettacolo
di Carlo Antonio Biscotto


Si chiama Ikumi, è stata eletta nel 2012 Miss International; a vederla in conferenza stampa con il suo volto dai lineamenti dolci, la voce che sembra un sussurro, un volo di farfalle, e le lacrime che le scorrono copiose sulle guance, non sembra avere le physique du rôle per guidare una guerra contro una delle più potenti agenzie dello spettacolo del Giappone, la Burning Productions. Eppure, forse suo malgrado, è diventata l’eroina di un dramma che, a sentire i suoi numerosi ammiratori, ha avuto il merito di svelare uno dei segreti più imbarazzanti e meglio custoditi del Paese: il sospetto che dietro alle attività del mondo dello spettacolo e dell’industria del divertimento ci sia la lunga mano della Yakuza.
COME NEL PUGILATO, anche nel mondo dei concorsi di bellezza si sono moltiplicate le sigle: nel 2012 ci sono state una Miss Universo, una Miss Mondo, una Miss Earth e una Miss International. Quest’ultimo titolo, per la prima volta in 52 anni di storia dei concorsi di bellezza, è andato a una giapponese: Ikumi Yoshimatsu, incoronata reginetta a Okinawa. Il 17 dicembre di quest’anno nei lussuosi saloni dello Shinagawa Prince Hotel di Tokyo, che ospitava il concorso per la seconda volta consecutiva in Giappone, la giuria doveva decidere chi delle oltre 50 concorrenti sarebbe salita sull’ideale trono di donna più bella del mondo, succedendo a Ikumi Yoshimatsu. A far sentire i gridolini di gioia è toccato alla filippina Bea Rosa Santiago, ma a nessuno è sfuggito che nel collaudato cerimoniale mancava qualcosa, anzi qualcuno. La corona avrebbe dovuto esserle consegnata dalla reginetta uscente, che però era assente. Ikumi Yoshimatsu, nata il 21 giugno 1987, in Giappone è molto nota e non solamente per la sua bellezza. Attrice di talento, scrittrice, opinion leader, politicamente impegnata nella difesa dei diritti umani e dei diritti delle donne, Ikumi nell’ultimo anno è apparsa in numerosi programmi televisivi e non ha mai fatto mistero delle sue idee. Già all’indomani della sua vittoria aveva dichiarato alla stampa che si augurava di ”contribuire a svecchiare e democratizzare il mondo dello spettacolo”. Gli addetti ai lavori probabilmente la giudicarono una dichiarazione incauta. È ovvio che avrebbero preferito i soliti ringraziamenti a mamma e papà , i sentimenti di riconoscenza all’organizzazione e il proposito di laurearsi e fare tanti figli. Al massimo a una reginetta di bellezza è consentito il sogno del cinema. Questa volta però, secondo molti osservatori, ha fatto il passo più lungo della gamba.
DA QUANDO è diventata la prima giapponese ad aggiudicarsi il titolo di Miss International, Ikumi Yoshimatsu sostiene di essere stata messa al bando, osteggiata e ostacolata dal mondo dello spettacolo e, in seguito, minacciata per essersi rifiutata di firmare un contratto con l’agenzia che in pratica monopolizza la carriera di quasi tutti gli artisti dello spettacolo giapponesi. Inoltre avrebbe avuto l’ardire di costituire una sua agenzia in concorrenza diretta con la Burning Productions. Non siamo alle prese con i soliti pettegolezzi. Ikumi dopo aver denunciato per minacce il direttore della Burning Productions, è costretta, su consiglio della polizia, a vivere in una località segreta. “Temo per la mia vita”, ha detto Ikumi Yoshimatsu nel corso di una intervista telefonica.
LA SETTIMANA SCORSA, Ikumi ha preso la coraggiosa decisione di fare nomi e cognomi e, uscendo dal riserbo che le era stato consigliato, ha accusato il direttore della potente agenzia, Genichi Taniguchi, di aver iniziato una campagna di intimidazione contro di lei dopo che era stata incoronata Miss International nel 2012: ha detto che si è rifiutata di legarsi all’agenzia di Taniguchi dopo essere venuta a sapere che l’agenzia era sospettata di legami con la Sesta Yamaguchi-gumi, una delle tre più potenti e pericolose organizzazioni criminale della Yakuza, la mafia giapponese. “Ho risposto che per ragioni personali e morali non potevo lavorare con gente del genere”, ha spiegato Ikumi Yoshimatsu. Da una serie di documenti e registrazioni allegati alla denuncia e sottoposti ora al vaglio della polizia, emergerebbe che Genichi Taniguchi minacciò Ikumi e si servì del suo potere e dei suoi contatti nel mondo dello spettacolo per impedirle di lavorare sia come modella che come attrice. Sempre secondo quanto dichiarato da Ikumi, Taniguchi avrebbe persino fatto irruzione in uno studio televisivo dove stava partecipando a un talk show e avrebbe cercato di rapirla. “Ci sono registrazioni che provano queste affermazioni”, ha dichiarato Norio Nishikawa, avvocato di Ikumi Yoshimatsu, il quale oltre alla denuncia penale ha anche citato in sede civile Genichi Taniguchi per il risarcimento dei danni professionali subiti dalla sua cliente. Taniguchi si è limitato a smentire le accuse: “Non sono un criminale”, ha detto al Japan Times. “Non ho nulla contro Ikumi”.
PER QUANTO STRANO possa sembrare, nemmeno un servizio è stato trasmesso su questa vicenda dalle emittenti televisive del Giappone. Lecito sospettare che le televisioni non abbiano alcun interesse a scontentare la potentissima agenzia che offre loro artisti, cantanti e attori. Jake Adelstein, giornalista e esperto di criminalità organizzata giapponese, conferma questa ipotesi aggiungendo che “nel mondo dello spettacolo nessuno vuole mettersi contro Taniguchi. Sarebbe come suicidarsi”. Ma lo scandalo è venuto allo scoperto il 17 dicembre scorso quando alla cerimonia di premiazione della vincitrice di Miss International, la sedia di Ikumi Yoshimatsu era vuota in quanto le era stato impedito di partecipare all’evento. Ikumi ha detto alla stampa che i suoi sponsor erano stati minacciati e che a lei avevano “amichevolmente consigliato” di darsi malata. Matt Taylor, manager di Ikumi Yoshimatsu, ha dichiarato che il rifiuto di far parte della scuderia di Taniguchi, le è costato 2 milioni di dollari di contratti cancellati.
“È la prima donna che ha il coraggio di denunciare la mafia che controlla l’industria del divertimento, i divi dello spettacolo sanno benissimo che la Yakuza fa il bello e il cattivo tempo, ma accettano questa realtà come un dato inevitabile”, ha spiegato Adelstein. Mentre Ikumi sembra decisa: “Non me ne starò in silenzio e non scenderò a patti con quella gente”.

Corriere 29.12.13
Poeti e contabili: gli scienziati
La ricetta di Wilson: la ricerca? Lavorate 60 ore a settimana
E vi serve tanta fantasia, non 140 di quoziente d’intelligenza
di Telmo Pievani


Indagini
Le «Lettere a un giovane scienziato» di Edward O. Wilson sono edite da Raffaello Cortina nella collana «Scienza e idee» diretta da Giulio Giorello (traduzione di Isabella C. Blum, pp. 226, € 21). Vincitore di due Pulitzer, 84 anni, Wilson è docente emerito di Biologia a Harvard. A fianco: scienziati nel laboratorio del Gran Sasso
(foto Piccolillo)

Un nonno scienziato, davanti al camino, parla con due ricercatori alle prime armi. Il focolare fa luccicare le medaglie al valore scientifico appuntate sul suo petto. Ha deciso di raccontare al ragazzo e alla ragazza tutto ciò che bisogna sapere per avere successo in campo scientifico, in venti brevi lettere. La situazione è a forte rischio di noia e di retorica, ma non se la penna è quella del due volte Premio Pulitzer Edward O. Wilson, l’entomologo di Harvard che ci ha insegnato che cos’è la biodiversità e come si sono sviluppate le straordinarie società delle 16 mila specie conosciute di formiche (Lettere a un giovane scienziato , Raffaello Cortina Editore).
Per rimanere creativi nella scienza servono prima una passione incrollabile, poi una buona formazione e infine risolutezza e dedizione al lavoro (in quest’ordine). Ingredienti essenziali sono l’audacia e la tenacia, perché ancora non sappiamo tante cose, e chissà quante non sappiamo di non sapere. La matematica è importante ma non basta: è un linguaggio che apre molte porte, tuttavia contano anche la raccolta minuziosa di dati reali, la creatività, le intuizioni, e persino i sogni. Anche se non sei un genio dei numeri e non hai un quoziente di intelligenza superiore a 140, puoi essere un ottimo scienziato, conclude Wilson. La fantasia è al centro del metodo scientifico, perché aiuta a formare concetti e a farsi un’immagine inedita del problema che si sta affrontando. La biologia poi è la scienza delle cause molteplici: richiede metodo e intuito insieme, nonché un certo fiuto per i dettagli e per gli schemi di connessione fra indizi apparentemente insignificanti.
Sono l’immaginazione e il senso di opportunità a suggerire di non impegnarsi in campi già dissodati da altri, di evitare i settori già pieni di star della scienza, di premi e di risultati, e di esplorare invece territori sconosciuti, poco coltivati da altri. Sogna moltissimo quindi, il giovane scienziato, non smette mai di sognare, e sceglie i modelli giusti. Il processo creativo nella scienza è anche un «silenzioso colloquio interiore». La tecnologia, pure, è fantastica e bisogna servirsene, ma non innamorarsene a tal punto da farla diventare un fine in sé. Wilson è scettico sulle linee di ricerca condotte da centinaia o migliaia di ricercatori, come quelle attuali in fisica sperimentale o nell’analisi dei genomi. La sua immagine dello scienziato innovativo è tutto sommato ancora romantica: un esploratore alla ricerca del suo Graal, un introverso visionario che lavora da solo o in piccoli gruppi collaborativi.
Nell’elargire questi consigli — talvolta di buon senso, talvolta in nostalgica controtendenza — l’ottuagenario entomologo immune a ogni falsa modestia non resiste alla tentazione di enucleare principi universali su come fare scienza, spesso un po’ speculativi, se non semplicemente banali. Alcuni poi valgono solo nei dintorni di Harvard, tipo: evita gli impegni amministrativi di dipartimento; se l’istituzione dove ti trovi non incoraggia abbastanza la ricerca, spostati altrove. La scienza non è una modalità di conoscenza fra le altre — ripete Wilson — ma «la fonte della civiltà moderna», l’unico sapere davvero universale: come tale, l’epica impresa richiede almeno sessanta ore di lavoro settimanali (e niente riposi prolungati, «i veri scienziati non vanno in vacanza»). In questo monachesimo, lo scienziato ideale di Wilson «pensa come un poeta e solo in un secondo tempo lavora come un contabile». Ogni risposta trovata genera molte nuove domande.
Di lettera in lettera, si capisce come il mite vegliardo con sessant’anni di ricerche alle spalle sia riuscito a far scoppiare una tempesta di proteste, a metà degli anni Settanta, per aver detto che la natura umana è un insieme di istinti geneticamente definiti e che il nostro comportamento è stato interamente plasmato dalla selezione naturale. Qui però sostiene che il genio non è tanto questione di intelligenza innata, quanto di immaginazione visiva, intraprendenza ed etica del lavoro. Questo nonno scienziato ha saputo anche cambiare idea, fino a ottant’anni, rinnegando antichi convincimenti (e prendendosi così i rimbrotti degli esegeti di inesistenti ortodossie, come Richard Dawkins, che si sono sentiti traditi dal maestro). Non stare mai fermo è il suo modo di fare scienza, da quando cominciò a studiare le infinite «piccole creature che fanno funzionare il mondo». A riprova che l’età mentale non è un dato anagrafico.

Corriere 29.12.13
Eliot secondo La Capria, testamento per interposti Quartetti
Lo scrittore porta a compimento la traduzione, avviata nel ’45, del capolavoro del Nobel britannico
di Dario Fertilio


Il poeta americano, naturalizzato britannico, Thomas Stearns Eliot (1888-1965), premio Nobel: i suoi «Quattro quartetti» vennero pubblicati insieme nel 1943 dopo essere usciti separatamente; Raffaele La Capria, 91 anni

Si possono fare incontri imprevisti, nel pieno di questi giorni di festa. Ci attira un libro sugli scaffali, e le dita sfiorano un gioiello in carta pregiata: i Quattro quartetti di Thomas Stearns Eliot tradotti da Raffaele La Capria, illustrati da José Muñoz e recitati da Paolo Bessegato. Versi; disegni a inchiostro, tempera e acquerello; voce recitante nel cd allegato. Tre momenti legati fra loro, un miracolo in cui il lettore-ascoltatore sente allentarsi, almeno per un’ora, il ritmo del tempo.
Non è soltanto il capolavoro in lingua originale del grande poeta americano, poi naturalizzato inglese, ad agire su chi vi si inoltra; non sono soltanto le risonanze della versione italiana a fronte, completata da La Capria quando aveva già doppiato il capo dei suoi novant’anni, a prendere per mano; e neppure le tavole di Muñoz, l’artista di tangueros e comic stripe , segnano il punto finale di questa visione poetica. Il centro dell’esperienza estetica sta invece nella sorpresa suscitata, pagina dopo pagina, dal susseguirsi dei vari «tempi», la stessa che colse i primi lettori nell’ormai lontano 1943, quando i Quartetti furono pubblicati la prima volta. È, insomma, la musicalità a scuotere e ribaltare la percezione comune di una poesia destinata a essere letta soltanto con la mente. E la parola «quartetto» non è da intendersi solo come metafora o allusione al comporre con le note, ma quale sforzo di fondere significato e forma sonora, in modo da tradurli in una cosa sola.
Il resto del merito di questa nuova edizione è da ascrivere al traduttore, Raffaele La Capria, che porta a compimento una vocazione antica, risalente addirittura al 1945, quando nella Napoli euforica della Liberazione aveva messo mano con altri letterati anglofili alla traduzione del secondo e dell’ultimo Quartetto . Solo che, allora, l’italiano che aveva prestato a Eliot gli era parso fin troppo rispettoso della metrica originale e aulico; oggi, quasi sessant’anni dopo, i versi usciti dalla penna dell’artista ormai vecchio si sono fatti più secchi, liberi, senza eccessi di musicalità. La Capria, questo libro lo definisce addirittura testamentario: si servirebbe cioè di Eliot per «gettare lo sguardo sul proprio passato e giudicarlo con assoluto distacco». In realtà, quel che si percepisce è un’affinità fra i due — Eliot e La Capria — dovuta in parte forse all’età, e molto a una crescente affinità spirituale.
Di sentimento religioso, indubbiamente, si tratta nei Quartetti . Ma non nel senso attribuito di solito alla poesia sacra: qui il riscatto metafisico dai peccati è affidato a coppie di contrasti: vita/morte, secco/umido, pieno/vuoto e soprattutto tempo/eternità. È il famoso «correlato oggettivo» su cui i critici hanno versato fiumi d’inchiostro, intendendo con questo la tecnica di rappresentare le idee ricorrendo a oggetti esterni: una rosa, una ruota affondata nel fango, l’acqua che zampilla di una fontana, un grido allegro di bambini, il buio sotterraneo di una metropolitana. E, su tutto, il riproporsi ciclico del tempo: «Il tempo presente e il tempo passato/ Sono forse insieme presenti nel tempo futuro/ E il tempo futuro è già compreso nel tempo passato». O, per citare l’ultimo verso, «E il fuoco e la rosa saranno una cosa sola». Eliot non vuole divinizzare il tempo, però, ma sottolineare la sua limitatezza rispetto a ciò che cristianamente possiamo aspettarci nell’aldilà.
Un consiglio finale: leggere prima mentalmente la versione italiana, poi ad alta voce quella inglese, infine ascoltare l’interpretazione sonora di Paolo Bessagato. Lasciare che la musica agisca, anche là dove i significati restano un’ipotesi o un mistero.

Il libro: T.S. Eliot, «Quattro quartetti», Enrico Damiani editore, pp. 130 + cd, e 90, in 500 esemplari, Tel. 0365.20420

Corriere La Lettura 29.12.13
Sensi. Doppia tradizione
L’occhio conosce e l’orecchio ubbidisce
di Umberto Curi


La superiorità della vista, rispetto a ogni altra esperienza originata dai sensi, è un tratto caratteristico della cultura occidentale. Ne troviamo traccia già sul piano linguistico, nelle differenze riscontrabili fra il modo col quale viene designata l’attività del vedere, rispetto ai significati connessi con l’udito o il tatto, l’olfatto o il gusto. Nel mondo greco classico il privilegiare la vista risulta dalla sostanziale identità fra i termini che designano forme e contenuti del vedere e del conoscere. Idea — ciò a cui si riferisce l’atto dell’idein , del vedere — indica anche il fulcro dell’attività conoscitiva. Lo stesso dicasi per altre espressioni, a cominciare da theoria (e dunque visione ), che designa il modo in cui le idee si organizzano. Anche nelle lingue moderne ciò che è pertinente alla visione diventa ben presto requisito della conoscenza. Così è per termini italiani come «chiarezza», «perspicuità», «e-videnza», o per coppie oppositive come «brillante-oscuro», o per metafore come «panoramica» o «illuminazione», in cui vedere e conoscere tendono a coincidere. Qualcosa di simile è riscontrabile per termini inglesi come sharp , brightness o clear-headed . Per non dire del tedesco Weltanschauung , il cui significato letterale («visione del mondo») rinvia al lessico visivo. In sede filosofica, la costellazione che unisce visione , pensiero e verità assume già in Platone i contorni tipici della nostra tradizione, e trova poi conferma nella dichiarazione con cui si apre la Metafisica di Aristotele («Per natura, tutti gli uomini desiderano eidenai », e cioè «vedere-conoscere»), nella concezione cartesiana dell’«evidenza», come criterio per stabilire la verità di un asserto, per giungere fino alla Wesenschau , alla «visione delle essenze», di cui parla Husserl. Quanto detto finora vale per la matrice greco-latina della tradizione occidentale. Diverso il discorso se riferito alla componente giudaico-cristiana, in cui è privilegiato l’ascolto, sicché l’organo sensoriale più importante è l’orecchio (in particolare, l’«orecchio circonciso», di cui si parla in Esodo 6, 12 o in Geremia , 6, 10), assai più dell’occhio. La conferma si coglie nella svalutazione della vista, accennata nella profezia di Ezechiele, e poi ripresa nella condanna cristiana della concupiscentia oculorum , dalla prima epistola di Giovanni fino alle Confessioni di Agostino. Arduo, se non impossibile, sarebbe individuare i motivi dell’asimmetria fra vista e udito. Un abbozzo di (parziale) spiegazione si potrebbe desumere da un approfondimento dei termini che indicano l’ascolto. In greco e in latino, i verbi con cui si allude all’udito sono gli stessi mediante i quali ci si riferisce all’obbedienza: yp-akouein e ob-audire , cioè «obbedire», si formano rafforzando il significato di un verbo che significa «udire». «Disporsi all’ascolto» e «obbedire» tendono a coincidere. Per converso, la disobbedienza è indicata da espressioni che implicano il rifiuto di «prestare orecchio». Modello dell’ascolto-obbedienza è il Cristo, il quale, per disporsi a ricevere la parola del Padre, ekenosen , «fece il vuoto in se stesso», tanto quanto icona del rifiuto di ascoltare è invece Antigone, indisponibile a parakouein , a udire-obbedire lo spietato proclama di Creonte. Ben diverso il significato insito nel vedere. Alla «sottomissione» implicita nell’udito, si contrappone un atteggiamento attivo, che tende a costituirsi come paradigma dell’attività che qualifica peculiarmente la condizione umana.

Corriere La Lettura 29.12.13
Il dialetto rinasce perché non è mai morto
Decisive contaminazioni con l’italiano, adattamento, invenzioni. A ogni livello
Linguistica. Camilleri e De Mauro prendono atto del fenomeno
Che tocca letteratura e pubblicità, musica e tv, cinema e web
di Paolo Di Stefano


«Fra le altre tragedie che abbiamo vissuto (…) in questi ultimi anni, c’è stata anche la tragedia della perdita del dialetto, come uno dei momenti più dolorosi della perdita della realtà». Con questo grido di dolore Pier Paolo Pasolini, nel 1964, decretava come avvenuta la morte delle parlate dialettali a vantaggio di un italiano medio «tecnologico», modellato a misura della società neocapitalistica. Italo Calvino, assumendo in polemica con lui un punto di vista decisamente più «moderno», scrisse che l’italiano si giocava il suo futuro in rapporto alle lingue straniere e che gli scambi con il dialetto erano superati: la nostra lingua nazionale doveva porsi un problema di traducibilità. Cinquant’anni dopo, chi dei due aveva ragione? Pasolini o Calvino? Probabilmente né l’uno né l’altro, se è vero che entrambi davano per spacciato il dialetto (Pasolini con angoscia, Calvino forse con sollievo), mentre il dialetto anzi i dialetti, al plurale, resistono e si rinnovano. Si rinnovano mescolandosi con l’italiano. Del resto, le lingue, come i popoli, sopravvivono solo se sanno rinnovarsi, cioè mescolarsi.
Ben lungi dallo scomparire, ovvio che sul piano quantitativo il dialetto come strumento esclusivo di comunicazione pratica e quotidiana è parecchio regredito rispetto agli anni passati, anche se rimane pressoché intatto in certe fasce sociali e in contesti geografici locali (lo parla ancora in media, con amici o in famiglia, un terzo della popolazione). Ma Pasolini non aveva previsto la sua capacità di rilancio in funzione espressiva, anzi riteneva che l’affermazione del nuovo italiano avrebbe prodotto il ripiegamento della lingua letteraria verso un grigio livello medio: certo, considerando il generale abbattimento di qualsiasi ambizione stilistica in letteratura e l’adeguamento alla lingua della comunicazione, non si può dargli totalmente torto. D’altra parte però è pur vero che, non appena abbiamo diffusamente imparato l’italiano, il dialetto ha cominciato a rifluire sempre più nella lingua regionale contribuendo spesso a colorarla e a renderla più espressiva. Sono per primi i sociolinguisti (Gaetano Berruto, Alberto Sobrero, Giuseppe Antonelli) a sottolineare questo processo imprevisto per cui — non solo nel parlato familiare — i registri affettivi, informali, emotivi vengono spesso delegati alle varietà locali. Insomma, il dialetto è tutt’altro che morto, anzi è diventato una risorsa. Per di più, il suo prestigio sociale ha guadagnato punti: il dialetto non è più sinonimo di povertà socio-culturale.
Di questo e di altro parlano Andrea Camilleri e Tullio De Mauro nel bel libro-dialogo La lingua batte dove il dente duole (Laterza). E specialmente il primo capitolo ci fa capire perché il dialetto continui ad agire (più o meno sotterraneamente) in funzione vivificante. De Mauro ricorda che qualche anno fa, lavorando a un vocabolario del parlato e dovendo sbobinare un dialogo concitato tra un infermiere e alcuni portantini dell’ospedale di Napoli, gli esperti furono costretti a ricorrere ad altri colleghi per decifrare diverse parole incomprensibili. Eravamo in una grande città. A Milano e a Torino, forse, sarebbe più raro trovare dialettofoni occasionali per strada. Non a Venezia, a Verona, a Bologna, a Bari, a Palermo o a Pescara… E neanche in certe zone di Roma. È per lo più una dialettofonia alternata o frammista all’italiano nei modi del code switching , cioè del passaggio da una lingua all’altra nello stesso discorso, o del code mixing , ossia dell’inserimento di termini dialettali in un discorso in italiano e viceversa.
«Sono sempre stato convinto, sbagliando, che il dialetto era destinato — dice Camilleri — a una condizione di immutabilità, mentre era solo la lingua che mutava e si rinnovava». Certo, anche i dialetti si adattano a nuovi ecosistemi sociali e culturali. Se non cambiassero, non esisterebbe il commissario Montalbano. «Non si tratta — avverte De Mauro — solo di banale italianizzazione, di parole prese in prestito dall’italiano, anche se l’avvicinamento progressivo del dialetto alla lingua è un fenomeno per certi aspetti inevitabile. Il fatto interessante è che quelli che parlano prevalentemente il dialetto se ne vanno anche per strade loro, continuano a inventare parole nuove e a riadattare quelle vecchie. Le classi colte di città, di Roma, di Milano, pensano che i dialetti siano cosa morta, che non si parlino più. Ma è una palese sciocchezza». E torniamo così alla profezia di Pasolini.
Va da sé che dal revival del dialetto vanno sfrondate le tentazioni identitarie prefigurate per esempio dalla Lega quando propone di insegnarlo a scuola, come se fosse possibile insegnare una lingua non scritta, priva di grammatiche e con varianti lessicali e fonetiche da paese a paese, se non da contrada a contrada. «Balordaggini sostenute da sciocchi abbacinati dall’idea di salvare un feticcio», sostiene lo storico della lingua Francesco Sabatini. Va anche sfrondata, dalla sostanza più seria, l’esibizione informale-vernacolare dilagata in ambito politico con (malcelata) funzione populistica, la stessa che spinge certi leader ad accentuare la prosodia locale o a concedersi all’improperio facile: vedi il delicato scambio di «Vaiassa !» tra Alessandra Mussolini e la ministra Carfagna, che ricordava la mitica scena delle lavandaie della Gatta Cenerentola .
Ben altro discorso è quello che riguarda il rilancio del dialetto in letteratura, in musica, nel teatro, nel cabaret, nel cinema. Non è certo una novità la presenza di coloriture locali nei romanzi, ma l’intensità attuale, forse anche dovuta alla sempre più massiccia invasione di oralità nella scrittura letteraria, si era vista di rado: Camilleri a parte, dal pisano di Marco Malvaldi al lombardo di Laura Pariani, dal napoletano gergale di Marco Ciriello al romanesco di Walter Siti, ormai la geografia linguistica italiana è quasi completamente rappresentata nella narrativa. Per non dire dell’aurea tradizione poetica in dialetto, dove va ben distinto il grano dal loglio dell’ingenuità casereccia, come sapevano bene Pasolini e Zanzotto, e come ben sa Cesare Segre. Il quale individua nel trevigiano dialettale Luciano Cecchinel una delle voci maggiori della poesia italiana d’oggi tout court .
Va poi messo nel conto che negli ultimi vent’anni si sono moltiplicati i gruppi musicali giovanili che, nei generi più disparati, hanno optato per i linguaggi locali in chiave non solo di ricerca folklorica, ma di antagonismo politico: vedi le «posse» diffuse nell’intero territorio nazionale, dai napoletani Almamegretta ai piemontesi Mau Mau, dai pugliesi Sud Sound System ai veneti Pitura Freska e agli emiliani Modena City Ramblers. Altro versante molto produttivo che meriterebbe una mappatura a sé è quello teatrale, che ha visto nell’ultimo decennio la nascita di protagonisti di rilievo assoluto assurti anche alla ribalta televisiva, come Marco Paolini e Ascanio Celestini. Un versante che continua a dare frutti meravigliosi come (per fare un solo esempio tra i tanti possibili) quel piccolo capolavoro che è La madre (sottotitolo: I figlie so’ piezze ’i sfaccimma ) del giovane drammaturgo-regista-attore napoletano Mimmo Borrelli (insignito recentemente del premio Testori).
Sono ambiti in cui il dialetto ha sempre agito ampiamente in controcanto alla lingua. Ma quel che colpisce, in questa fase di riscatto, è la sua emersione in domini d’uso imprevedibili, come i fumetti sperimentali e giovanili, il web, in cui non si contano i messaggi e i blog semidialettali in funzione ludica, i video (spesso con doppiaggi parodistici) e i siti dedicati alle parlate vernacolari non solo da cultori nostalgici. E non è un caso che anche la pubblicità, consapevole del rinnovato prestigio, provi a lanciarsi nel dialetto in chiave glocal. Si vedano gli slogan «idiomatici» di Linkem e Fastweb in barese: «Agguand’ a Peppin !» (acchiappa Peppino!) e «Vin dou » (vieni qua!). Ne sarebbero contenti Pasolini e Calvino? Sì, no, vai a sape’.

Corriere La Lettura 29.12.13
Il vernacolo modella il cervello
Neuroscienze. Uno studio giapponese ha esplorato le differenze nella ricezione rispetto alla lingua madre
di Chiara Lalli


Imparare un dialetto modella le nostre aree cerebrali deputate a decodificare il linguaggio. Se lo impariamo quando siamo piccoli, gli emisferi cerebrali si comporteranno in modo simile a quando si attivano ascoltando la nostra lingua madre. È questo, in sintesi, il risultato di uno studio condotto da un gruppo di neuroscienziati del Riken Brain Science Institute di Wak, non lontano da Tokyo. La ricerca di Yutaka Sato, Reiko Mazuka e alcuni altri colleghi è stata pubblicata sulla rivista «Brain and Language» lo scorso ottobre. I ricercatori hanno usato una tecnica di osservazione non invasiva, la spettroscopia nel vicino infrarosso (Near Infrared Spectroscopy , Nirs). La rilevazione dell’attivazione cerebrale avviene grazie a un laser infrarosso, che è in grado di mettere in evidenza un aumento dell’afflusso sanguigno, conseguenza e sintomo dell’attività cerebrale. I neuroscienziati volevano osservare che cosa sarebbe successo al cervello di nativi giapponesi quando ascoltavano la propria lingua madre e cosa, invece, quando si parlava loro in uno dei tanti dialetti giapponesi.
Quando ascoltiamo una lingua, il nostro cervello va in cerca del significato delle parole e dell’enunciato. Pur appartenendo alla stessa area linguistica, due persone possono avere difficoltà a capirsi. Vale per i dialetti giapponesi, vale ovviamente per i dialetti italiani e tutti gli altri, soprattutto quando le differenze dall’idioma di riferimento sono tanto pronunciate da farne quasi un’altra lingua, differente cioè non solo negli accenti e nei suoni, ma anche e soprattutto nella grammatica e nel vocabolario. I ricercatori hanno riscontrato che, se le parole erano pronunciate nell’idioma standardizzato, si attivavano alcune aree cerebrali dei volontari. Se invece erano pronunciate in un dialetto giapponese, nel loro cervello succedeva qualcosa di diverso. La diversità dipendeva dall’ascoltatore.
Come mai gli emisferi cerebrali si comportavano in modo diverso al cospetto di un dialetto? In genere la differenza nel tono attiva entrambi gli emisferi, mentre la semantica è associata all’attività dell’emisfero sinistro. La differenza nelle reazioni dipendeva dalla familiarità degli individui con il dialetto. Chi l’aveva imparato da piccolo manifestava risposte cerebrali diverse dagli altri, cioè da chi l’aveva imparato da grande e le cui risposte somigliavano a chi apprende in età adulta una lingua diversa dalla propria. Essere esposti fin da molto giovani a modalità espressive diverse può insomma cambiare il modo in cui il nostro cervello processa il linguaggio e, più piccoli siamo, più il secondo linguaggio somiglierà alla nostra lingua madre nelle reazioni dei nostri emisferi cerebrali.

Corriere La Lettura 29.12.13
Miti classici o meraviglie? I Rinascimenti sono due (o più)
Una mostra a Firenze e una a Milano moltiplicano le prospettive su un’epoca
di Arturo Carlo Quintavalle


La simbologia di Ercole, in due diversi rinascimenti, può cambiare di significato? E la cultura del Rinascimento può essere esportata? Nella storia dell’arte agli inizi del XV secolo i Rinascimenti, lo scriveva Erwin Panofsky, sono almeno due: quello dei van Eyck e quello di Brunelleschi e Masaccio. Diverse le concezioni dello spazio e del mondo, policentrico il primo, monocentrico l’altro, Aristotele da una parte, il neoplatonismo dall’altra. Ma c’è anche un altro Rinascimento: quello della scoperta del naturale e delle sue meraviglie, le pietre e gli animali, le conchiglie e le zanne di elefante, i «mostri» e le «macchine» di una scienza che dominerà la scena nel XVI secolo e ancora dopo; ecco la Wunder- kammer dei grandi sovrani europei, vero spazio di conoscenza del diverso.
Sono questi i temi di due mostre, a Firenze e a Milano. La prima, a Firenze, densa di contributi scientifici e ricca di opere, pone a confronto Firenze e Buda, la corte di Lorenzo il Magnifico e dei suoi umanisti e quella di Mattia Corvino, il sovrano che dell’Ungheria farà un grande Stato in grado di contenere la spinta dell’impero ottomano, dei turchi. L’altra mostra, a Milano, pone il tema di un altro Rinascimento, quello che nasce dalla Schatzkammer , la stanza del tesoro dei sovrani, dove si raccoglievano le meraviglie del naturale e quelle create dall’uomo, e poi abiti, arredi, e, man mano, le scoperte della tecnologia, dagli strumenti per misurare il tempo agli astrolabi, agli automi.
La mostra di Milano ha due volti, l’antico e il contemporaneo, i pezzi conservati al Poldi Pezzoli e quelli esposti alle Gallerie d’Italia. Certo a Vienna, al Kunsthistorisches, nel 1908 Julius von Schlosser analizza il versante della Wunderkammer delle collezioni imperiali, ma quel collezionismo non è solo delle corti settentrionali: l’attenzione per i prodigi del naturale e per quelli dell’alchimia e dell’astrologia è molto più ampia, va dai Medici a Firenze ai Gonzaga a Mantova, agli Estense a Ferrara, è in parte quello che Eugenio Battisti nel 1962 chiamava l’«antirinascimento». Così un mondo del diverso è esposto al Poldi Pezzoli, e qui natura e creazione umana si accompagnano: coccodrilli che sono il drago di San Giorgio e il peccato, zanna di narvalo che è creduta dell’unicorno, e poi coppe di pietre preziose, e madrepore, e rami di corallo. Un’altra sezione della mostra scopre, nel segno di Dada e del Surrealismo, e poi dell’Arte Povera e delle ricerche più recenti, la violenza degli accostamenti fra i resti della civiltà delle immagini dell’oggi: Boîte en-valise (1938) di Marcel Duchamp a confronto con uno stipo milanese del XVII secolo o con gli Strumenti del Museo di Monteghirfo (1976) di Corrado Costa; certo, molte volte le forme si somigliano ma lo stipo milanese è lontano dalla critica violenta delle ricerche più recenti.
Alla mostra di Firenze si propone una storia diversa, quella degli umanisti italiani che, a cominciare da Marsilio Ficino, dialogano con Mattia Corvino, re di Ungheria dal 1458 al 1490, il sovrano umanista che ripensa, con arredi e strutture rinascimentali, il grande palazzo gotico di Buda. È lui che crea una grande biblioteca i cui codici oggi sono sparsi in mezzo mondo, molti bellissimi sono ora in mostra, è lui che chiama pittori e scultori e intarsiatori da Firenze e da fuori, è lui che arriva con il suo esercito in Italia e caccia i turchi sbarcati a Otranto, ed è lui che, in trent’anni, mette insieme un enorme dominio alla sua morte smembrato, come del resto le sue grandi raccolte. E saranno proprio i turchi, nel 1526, a conquistare Buda, a bruciare la città, a saccheggiare il palazzo.
Ma com’era il palazzo di Mattia Corvino? Arrivando dal nord, su una gran spianata, alta su un rosso piedistallo, ora ritrovato dagli archeologi, c’era una grande statua bronzea di Ercole e altrove, nel palazzo, erano dipinte le dodici fatiche dell’eroe. Certo, un omaggio a Firenze e magari al Pollaiolo, ma di segno politico, come propone Dàniel Pòcs. Nel palazzo mediceo di Via Larga, in una stanza, stavano tre grandi dipinti del Pollaiolo con le fatiche di Ercole; Ercole, per i Medici, era il potere contro usurpatori e traditori, simbologia ripresa dal condottiero ungherese che, sul basamento della statua a Buda, aveva fatto scrivere Divinus Hercules monstruorum domitor , domatore di mostri, i turchi, i nemici. Quando i turchi prendono Buda le statue bronzee del palazzo sono portate a Istanbul e alcune sono poste nell’Ippodromo, magari anche quell’Ercole che diventa così simbolo del passaggio del potere al sultano, dopo i Medici e Mattia Corvino. Insomma questa è la storia di due Rinascimenti, quello fiorentino e quello della corte di Buda, dove si cerca una sintesi fra mondo gotico e mondo umanistico, ed è anche la storia della durata del senso delle immagini, come quella dell’Ercole segno del potere e della forza. Ma è anche la storia delle meraviglie della Wunderkammer del principe, dove la raccolta dell’arte si confronta col problema della conoscenza del mondo.

Corriere La Lettura 29.12.13
Una rivoluzione settant’anni dopo

Anne Frank, la giovane Holden
Il 4 agosto 1944 le SS scoprono l’alloggio segreto
Il «Diario» sarà la sua libertà. E la sua vittoria
di Marco Missiroli

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La Stampa 29.12.13
Kokoschka e Alma
Non si uccidono così anche le bambole
Nel nuovo libro Camilleri indaga sulla passione ossessiva dell’artista per la vedova di Mahler e sul suo folle epilogo Un saggio che nelle pagine finali diventa romanzo
di Maurizio Assalto

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Corriere La Lettura 29.12.13
Kokoschka minuto per minuto Per il maestro austriaco la fotografia non era che un «prolungamento dell’occhio» ora duecento scatti ne documentano vita e opere (come disegni preparatori)
di Sebastiano Grasso

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La Stampa 29.12.13
A chi fa ancora paura la vera faccia di Robespierre?
Due studiosi ricostruiscono il volto del capo giacobino e si apre una querelle nella politica francese
C’è chi sospetta che si voglia liquidare la Rivoluzione
di Massimiliano Panarari

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Repubblica 29.12.13
La rivoluzione di Francesco ha abolito il peccato
di Eugenio Scalfari


SI CERCANO con insistenza le novità e le innovazioni con le quali papa Francesco sta modificando la Chiesa. Alcuni sostengono che le novità sono di pura fantasia e le innovazioni del tutto inesistenti; altri al contrario sottolineano le innovazioni organizzative che non turbano tuttavia la tradizione teologica e dottrinaria; altri ancora definiscono Francesco, Vescovo di Roma come egli ama soprattutto definirsi, un Pontefice rivoluzionario.
Personalmente mi annovero tra questi ultimi. È rivoluzionario per tanti aspetti del suo ancor breve pontificato, ma soprattutto su un punto fondamentale: di fatto ha abolito il peccato.
Un Papa che abbia modificato la Chiesa, anzi la gerarchia della Chiesa, su una questione di questa radicalità, non si era mai visto, almeno dal terzo secolo in poi della storia del cristianesimo e l’ha fatto operando contemporaneamente sulla teologia, sulla dottrina, sulla liturgia, sull’organizzazione. Soprattutto sulla teologia.
I critici di papa Francesco sottovalutano le sue capacità e inclinazioni teologiche, ma commettono un grossolano errore. Il peccato è un concetto eminentemente teologico, è la trasgressione di un divieto. Quindi è una colpa.
La legge mosaica condensata nei dieci comandamenti ordina e impone divieti. Non contempla diritti, non prevede libertà. Il Dio mosaico descrive anzitutto se stesso: «Onora il tuo Dio, non nominare il nome di Dio invano, non avrai altro Dio fuori di me».
Poi, per analogia, ordina di onorare il padre e la madre. Infine si apre il capitolo dei divieti, dei peccati e delle colpe che quelle trasgressioni comportano: «Non rubare, non commettere atti impuri, non desiderare la donna d’altri (attenzione: il divieto è imposto al maschio non alla femmina perché la femmina è più vicina alla natura animale e perciò la legge mosaica riguarda gli uomini)».
Il Dio mosaico è un giudice e al tempo stesso un esecutore della giustizia. Almeno da questo punto di vista non somiglia affatto all’ebreo Gesù di Nazareth, figlio di Maria e di Giuseppe della stirpe di David. Non contempla alcun Figlio il Dio mosaico; non esiste neppure il più vago accenno alla Trinità. Il Messia – che ancora non è arrivato per gli ebrei – non è il Figlio ma un Messaggero che verrà a preannunciare il regno dei giusti. Né esistono sacramenti né i sacerdoti che li amministrano. Quel Dio è unico, è giudice, è vendicatore ed è anche, ma assai raramente, misericordioso, ammesso che si possa definire chi premia l’uomo suo servo se e quando ha eseguito la sua legge.
È Creatore e padrone delle cose create. Nulla è mai esistito prima di lui e quindi da quando esiste comincia la creazione. Questo Dio i cristiani l’hanno ereditato trasformandolo fortemente nella sua essenza ma facendone propri alcuni aspetti importanti: il divieto e quindi il peccato e la colpa. Adamo ed Eva peccarono e furono puniti, Caino peccò e fu punito, e anche i suoi discendenti peccarono e furono puniti. L’umanità intera peccò e fu punita dal diluvio universale.
Questo è il Dio di Abramo, il Dio della cattività egizia e babilonese, di Assiria, di Babele, di Sodoma e Gomorra. Nella sostanza è il Dio ebraico o molto gli somiglia salvo che nella predicazione di alcuni profeti e poi soprattutto in quella evangelica di Gesù.
Nei secoli che seguirono, fino all’editto di Costantino che riconobbe l’ufficialità del culto cristiano, il popolo che aveva seguito Gesù offrì martiri alla verità della fede, fondò comunità, predicò amore verso Dio e soprattutto verso Cristo che trasferì quell’amore alle creature umane affinché lo scambiassero con il loro prossimo. Nacquero così l’agape, la carità e l’esortazione evangelica «ama il tuo prossimo come te stesso».
Questo è il Dio che predicò Gesù e che troviamo nei Vangeli e negli Atti degli apostoli. Un Dio estremamente misericordioso che si manifestò con l’amore e il perdono. Nella dottrina dei Concili e dei Papi restano tuttavia le categorie del Dio giudice, del Dio esecutore di giustizia, del Dio che ha edificato una Chiesa e man mano l’ha distaccata dal popolo dei fedeli. Dall’editto di Costantino sono passati 1700 anni, ci sono stati scismi, eresie, crociate, inquisizioni, potere temporale. Novità e innovazioni continue su tutti i piani, teologia, liturgia, filosofia, metafisica. Ma un Papa che abolisse il peccato ancora non si era visto. Un Papa che facesse della predicazione evangelica il solo punto fermo della sua rivoluzione ancora non era comparso nella storia del cristianesimo.
Questa è la rivoluzione di Francesco e questa va esaminata a fondo, specie dopo la pubblicazione dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, dove l’abolizione del peccato è la parte più sconvolgente di tutto quel recentissimo documento. *** Francesco abolisce il peccato servendosi di due strumenti: identificando il Dio cristiano rivelato da Cristo con l’amore, la misericordia e il perdono. E poi attribuendo alla persona umana piena libertà di coscienza. L’uomo è libero e tale fu creato, afferma Francesco. Qual è il sottinteso di questa affermazione? Se l’uomo non fosse libero sarebbe soltanto un servo di Dio e la scelta del Bene sarebbe automatica per tutti i fedeli. Solo i non credenti sarebbero liberi e la loro scelta del Bene sarebbe un merito immenso. Ma Francesco non dice questo. Per lui l’uomo è libero, la sua anima è libera anche se contiene un tocco della grazia elargita dal Signore a tutte le anime. Quella scheggia di grazia è una vocazione al Bene ma non un obbligo. L’anima può anche ignorarla, ripudiarla, calpestarla e scegliere il Male; ma qui subentrano la misericordia e il perdono che sono una costante eterna, stando alla predicazione evangelica così come la interpreta il Papa. Purché, sia pure nell’attimo che precede la morte, quell’anima accetti la misericordia. Ma se non l’accetta? Se ha scelto il Male e non revoca quella scelta, non avrà la misericordia e allora che cosa sarà di lui?
Per rivoluzionario che sia, un Papa cattolico non può andare oltre. Può abolire l’Inferno, ma ancora non l’ha fatto anche se l’esistenza teologica dell’Inferno è discussa ormai da secoli. Può affidare al Purgatorio una funzione “post mortem” di ravvedimento, ma si entrerebbe allora nel giudizio sull’entità della colpa e anche questo è un tema da tempo discusso.
Papa Francesco indulge talvolta a ricordare ai fedeli la dottrina tradizionale anche se il suo dialogo con i non credenti è costante e rappresenta una delle novità di questo pontificato che ha trovato i suoi antecedenti inpapa Giovanni e nel Vaticano II.
Francesco non mette in discussione i dogmi e ne parla il meno possibile. Qualche volta li contraddice addirittura. È accaduto almeno due volte nel dialogo che abbiamo avuto e che spero continuerà.
Una volta mi disse, di sua iniziativa e senza che io l’avessi sollecitato con una domanda: «Dio non è cattolico ». E spiegò: Dio è lo Spirito del mondo. Ci sono molte letture di Dio, quante sono le anime di chi lo pensa per accettarlo a suo modo o a suo modo per rifiutarne l’esistenza. Ma Dio è al di sopra di queste letture e per questo dico che non è cattolico ma universale.
Alla mia domanda successiva a quelle sue affermazioni sconvolgenti, papa Francesco precisò: «Noi cristiani concepiamo Dio come Cristo ce l’ha rivelato nella sua predicazione. Ma Dio è di tutti e ciascuno lo legge a suo modo. Per questo dico che non è cattolico perché è universale». Infine ci fu in quell’incontro un’altra domanda: che cosa sarebbe accaduto quando la nostra specie fosse estinta e non ci sarà più sulla Terra una mente capace di pensare Dio?
La risposta fu questa: «La divinità sarà in tutte le anime e tutto sarà in tutti». A me sembrò un arduo passaggio dalla trascendenza all’immanenza, ma qui entriamo nella filosofia e vengono in mente Spinoza e Kant: «Deus sive Natura» e «Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me». «Tutto sarà tutto in tutti». A me, l’ho già detto, è sembrata una classica immanenza ma se tutti hanno tutto dentro di sé potrebbe essere concepita anche come una gloriosa trascendenza.
Resta comunque assodato che per Francesco Dio è misericordia e amore per gli altri e che l’uomo è dotato di libera coscienza di sé, di ciò che considera Bene e di ciò che considera Male.
Ma qui si pone un’altra e fondamentale domanda: che cos’è il Bene e che cosa è il Male? Credo sia impossibile dare una definizione a questi due concetti. Una soltanto è possibile: sono necessari l’uno all’altro per poter reciprocamente esistere di fronte ad un essere vivente che ha conoscenza di sé. Gli animali non hanno il problema del Male e del Bene perché non possiedono una mente che si guarda e si giudica. Noi sì, quella mente l’abbiamo. Se ci fosse solo il Bene, come definirlo? Ma se c’è anche il Male l’esistenza di uno fa la differenza dell’altro come accade tra la luce e il buio, tra la salute e la malattia, e se volete, tra esistenza e inesistenza. Il nulla non è definibile né pensabile perché privo di alternativa. *** Evangelii Gaudium non parla soltanto di teologia. Anzi parla molto più a lungo di altre cose, concrete, organizzative, rivoluzionarie anch’esse. Parla del ruolo positivo e creativo delle donne nella Chiesa. Parla dell’importanza dei Sinodi dei quali il Papa fa parte in quanto Vescovo di Roma, “primus inter pares”. Parla dell’autonomia delle Conferenze episcopali. Parla dell’importanza delle parrocchie e degli oratori sul territorio. Parla perfino di politica, non certo nel senso del politichese, ma della politica come visione del bene comune e della libertà per chiunque di utilizzare lo spazio pubblico per diffondere e confrontarsi con le idee altrui. Parla delle diseguaglianze che vanno diminuite. «Io non ce l’ho con i ricchi, ma vorrei che i ricchi si dessero direttamente carico dei poveri, degli esclusi, dei deboli». Così papa Francesco. E parla infine della Chiesa missionaria che rappresenta il punto centrale della sua rivoluzione. La Chiesa missionaria non cerca proselitismo ma cerca ascolto, confronto, dialogo.
Concludo con una frase che dice tutto su questo Papa, gesuita al punto d’aver canonizzato pochi giorni fa Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia più nobile e più discussa tra gli Ordini della Chiesa e contemporaneamente d’aver assunto il nome di Francesco che nessun Pontefice prima di lui aveva mai usato. I gesuiti mettono al servizio della Chiesa la loro proverbiale e non sempre apprezzabile flessibilità. Francesco d’Assisi era invece integrale nella sua visione d’un Ordine mendicante e itinerante. L’Ordine francescano fu rivoluzionario ma la sua potenza fu molto limitata; la Compagnia di Gesù al contrario fu potentissima e molto flessibile.
Questo Papa riunisce in sé le potenzialità degli uni e degli altri e conclude con due righe che rappresentano la sintesi di questo storico connubio: «È necessaria una conversione del Papato perché sia più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli. Non bisogna aver paura di abbandonare consuetudini della Chiesa non strettamente legate al Vangelo. Bisogna essere audaci e creativi abbandonando una volta per tutte il comodo proverbio “Si è sempre fatto così”. Bisogna non più chiudere le porte della Chiesa per isolarci, ma aprirle per incontrare tutti e prepararci al dialogo con altri idiomi, altri ceti sociali, altre culture. Questo è il mio sogno e questo intendo fare».
Questo dialogo riguarda anche e forse soprattutto i non credenti, la predicazione di Gesù ci riguarda, l’amore per il prossimo ci riguarda, le diseguaglianze intollerabili ci riguardano. Un Papa rivoluzionario ci riguarda e il relativismo di aprirsi al dialogo con altre culture ci riguarda.Questa è la nostra vocazione al Bene che dobbiamo perseguire con costante proposito.

Repubblica 29.12.13
La parola al computer
di Stefano Bartezzaghi


Il primo trauma — e chi se lo scorda? — fu non dover andar a capo manualmente. L’amico esperto spiegava: «Per il computer, ogni paragrafo è una linea continua di caratteri; sei tu che hai bisogno di interfacciarti con uno spazio simile a una pagina di carta ». Avevo infatti bisogno, un bisogno estremo, di interfacciarmi. Solo che non sapevo cosa volesse dire. Sul computer appena acquistato, pulsava una lineetta intermittente e beffarda, come qualcuno che batta le dita sulla scrivania domandandoti: «Allora? Da dove pensi di cominciare?».
Il primo articolo inviato procurò un’imbarazzante telefonata dalla redazione: era prolisso, cresceva di una ventina di righe. Individuai il mio errore dopo una ricognizione perplessa fra gli arcani comandi della mia nuova “interfaccia”: la funzione di conteggio dei caratteri non considerava gli spazi fra una parola e l’altra. Pensavo di aver scritto sessanta righe, ne avevo mandate ottanta. Era il 1990 e incominciavo così a fare amicizia con Microsoft Word.
Il programma di scrittura più diffuso al mondo, centinaia di milioni di utenti, ha compiuto trent’anni nel 2013. Non si deve dire che è nato nell’ottobre del 1983 perché i software non nascono, i software vengono “rilasciati”. Inevitabile pensare alla fine di una detenzione, per l’effetto lisergico del lessico angloide. Rilasciato, dunque, nell’ottobre del 1983, Word già a novembre fu diffuso gratuitamente in una versione demo, tramite una rivista, con una mossa promozionale allora innovativa. A sviluppare il programma era stato un informatico americano nato in Ungheria, poco più che trentenne, Charles Simonyi. Aveva curato per la Xerox il software BravoX, ma l’azienda non aveva intenzione di commercializzarlo su vasta scala. Così Simonyi si rivolse a Bill Gates, che intuì le potenzialità del programma e del suo autore (lo arruolò subito, per dirigere lo sviluppo dei programmi applicativi di Microsoft). Erano, quelli, gli albori del personal computer, quando non tutti avevano intuito che la macchina sarebbe presto entrata non solo in ogni ufficio ma anche in ogni casa, se non in ogni stanza. A cosa doveva servire? Il mansionario sembra elaborato da Collodi: leggere, scrivere, far di conto. Ma anche giocare. Supremo utensile e balocco, compagno di lavoro e di svaghi, ragioniere, dattilografo, archivista e biscazziere. Non una mission, ma una composizione di funzioni, alcune previste, altre da inventare. Non a caso il primo nome del software di scrittura è stato “Multi-Tool Word”: milleusi, come i coltellini svizzeri in cui sono ingegnosamente ripiegati cavatappi, lame, lime, forbici e stuzzicadenti.
In quanto alla scrittura, la dattilografia si era già in parte evoluta con le macchine da scrivere elettriche ed elettroniche, che consentivano alcune minime funzioni di formattazione (corsivo, grassetto), di verifica e di correzione. Con il word processing e con le evoluzioni dei programmi di scrittura (dopo il 1983 Microsoft Word ha avuto nuove edizioni ogni due anni circa) è stato possibile spostare blocchi di testo, cercare automaticamente parole, sostituirle, cambiare il corpo dei caratteri; e poi correggere automaticamente, integrare immagini, contenuti multimediali; quindi, con l’arrivo di Internet, link a siti... Dal ristretto punto di vista della composizione linguistica del testo, però, la rivoluzione era presente sin dall’inizio. La dattilografia tradizionale, diciamo così unplugged, imponeva di comporre mentalmente la frase e poi batterla, per non perdere tempo e ritmo in laboriose sbianchettature manuali. Già con le macchine elettroniche si digitava una riga che compariva su un visore e si poteva correggere prima di farla stampare sulla carta con il comando di invio (Enter).
Il computer e il word processor resero possibile farlo non più soltanto riga per riga, ma su tutto il documento, fosse anche lungo quanto un intero libro. Risultato: non c’è stato più bisogno di pensare prima di scrivere. Poter modificare il testo all’infinito ha infatti comportato la liberazione definitiva della prima stesura. Scrivere tutto ciò che passa per la mente divenne facile, gratuito, innocuo e pressoché inevitabile. È «la felicità del primo acchito». Così almeno dice Jacopo Belbo, protagonista del Pendolo di Foucault di Umberto Eco (uscito nel 1988), che è fra le altre cose il romanzo del word processing: «Se scrivi con la penna d’oca devi grattare le sudate carte e intingere a ogni istante, i pensieri si sovrappongono e il polso non tien dietro, se batti a macchina si accavallano le lettere, non puoi procedere alla velocità delle tue sinapsi ma solo coi ritmi goffi della meccanica. Con lui, con esso (essa?) invece le dita fantasticano, la mente sfiora la tastiera, via sull’ali dorate, mediti finalmente la severa ragion critica sulla felicità del primo acchito».
Ci sarà poi tempo per correggere, infatti. Ma anche per formattare, per aggiungere, integrare, colorare, illustrare, costellare, ipertestualizzare, impaginare, dare forma di libro. Questa impressione di libertà sconfinata (o perlomeno smarginata) non avverte limiti che pure esistono. Lo «stile» prende nome dallo “stilo”, il primo strumento di scrittura di cui Microsoft Word è l’estrema evoluzione: e nessuno strumento è neutro. Primo limite: Word offre “modelli di testo” in cui riversiamo le nostre parole. Fra noi e la produzione della nostra scrittura si interpone, appunto, un’interfaccia, una pagina che proprio bianca non è, neppure materialmente (una barra di comandi la sovrasta). Il secondo limite è proprio l’assenza di limiti: l’immediatezza che rende scrivere più facile (e gradevole) che leggere, la pulizia esteriore che dà sempre l’impressione superficiale di lavoro ben fatto, la scrittura che non trova nella resistenza della materia un’occasione per ripensarsi. «Tutti gli usi della parola per tutti»: la struggente utopia di Gianni Rodari si rovescia quando dimentichiamo che la libertà di parola (e Word significa appunto parola) contempla anche la libertà di non usarla.

Repubblica 29.12.13
Ma io sono la mia calligrafia
di Alberto Asor Rosa


Ogniqualvolta si arretra di fronte alla conoscenza e all’utilizzo di cose nuove (la massima potrebbe esser considerata di valore generale, ma ovviamente parlo soprattutto di me), le spiegazioni sono sempre due: ignavia e misoneismo. Vale anche, e oggi soprattutto, per gli strumenti e le pratiche della comunicazione informatica e telematica. Ignavia: la rinuncia, derivante da debolezza fisica e morale, a compiere una scelta coraggiosa a favore del nuovo (e però, mi chiedo: vale la pena di far fatica, qualsiasi fatica, per usufruire di un bene - ho recentemente compiuto ottant’anni - che mi servirebbe per così poco tempo, e solo per sapere qualcosa di più e comunicare di più, molto di più? Quel che so mi sembra parecchio, anzi, anche troppo, e quanto al comunicare, meno comunico e meglio sto). Misoneismo: l’avversione contro ogni forma di novità e innovazione (sì, come tutti gli anziani, o meglio, irrimediabilmente vecchi, ciò che accade ora, proiettato al futuro, sempre meno mi piace, e cerco in ogni occasione di dirlo o almeno di farlo capire, e perciò sempre più spesso mi merito, e non sempre ingiustamente, la taccia di sorpassato e di “rottamato biologico”). Fin qui non mi resta che ammettere queste debolezze, in quanto tali poco scusabili, e tutto sommato facilmente emendabili, se, come ripeto, il calcolo altamente deterrente del rapporto tra fatica dell’apprendimento e benefici del suo uso nel corso del tempo fosse, in un momento d’imprevedibile élan vital, superato. Invece sul piano della scrittura, poiché di questo qui soprattutto si tratta, le mie convinzioni sono incrollabili e non esiste al mondo nulla in grado di farmele cambiare.
Io scrivo a mano da tempo immemorabile, continuo e continuerò a farlo finché mi sarà dato di continuare a farlo. E penso, più in generale, che chiunque non lo faccia rinuncia a una parte essenziale della sua capacità di esprimersi e dunque di esserci. Il salto, quindi, non è soltanto dalla scrittura a mano al computer: è, ed è sempre stato, dalla scrittura a mano alla macchina, a qualsiasi tipo di macchina. Come mai?
È semplice. Nella calligrafia si specchia il mio pensiero. Anzi: la calligrafia è il mio pensiero. È sempre stato così, e sempre lo sarà. Quando vedo sotto i miei occhi, nell’istante stesso in cui concepisco, disporsi sulla paginetta bianca, anch’essa sempre uguale da decenni, i caratteri, ossia, sillabe, parole, righe di parole (più o meno, a seconda dei casi, compatte o diradate, incerte o sicure), segmenti di frasi, periodi, e persino cancellature, ripensamenti, rinvii, e difficoltà di comprensione da parte mia alla rilettura (che però servono anch’esse a pensare più a lungo cioè meglio), riconosco in quella trama mobile ed estremamente creativa l’orma intellettuale ma anche animale del mio cervello, e da quei riflessi lascio che il mio cervello sia a sua volta influenzato.
E i tempi, dove li mettiamo i tempi? I tempi della scrittura a mano sono, naturalmente, quelli del pensiero. Ora, i tempi del pensiero sono lenti, anzi, più sono lenti, meglio è. La scrittura a mano li rispetta, anzi ne costituisce, anzi ne rappresenta il prodotto. La scrittura informatica, anche quando non lo si voglia, li forza oltre misura, anticipa in un certo senso quel che si pensa e, anticipandolo, lo determina.
Forse perché non si segue più questa ricetta, tutto oggi, compresa (al primo posto?) la cosiddetta letteratura creativa, è sempre più piatto, anonimo e de-personalizzato. La mia infanzia è stata dominata dall’ammonimento della maestra Chiarinelli (L’alba di un mondo nuovo, pagina 38): “Chi non sa leggere la sua scrittura / è un asino addirittura” (lezione, come spiegavo, da me non del tutto bene appresa). Voleva dire: nella propria scrittura (a mano, ovviamente) ognuno dev’essere in grado di riconoscere la propria persona, il “sé” sotto forma di segni, infallibilmente diverso da tutti gli altri (non c’è un solo caso al mondo, almeno negli alfabeti occidentali, di coincidenza). Proprio perché non si segue più questo metodo, e la “propria” scrittura si scrive e si legge troppo facilmente (per forza, è identica a quella di tutti gli altri!), le parti si sono rovesciate, e l’asinità dilaga.

Repubblica 29.12.13
Selfie
L’ansia di riempire il vuoto interiore
L’autoscatto condiviso da semplice passatempo adolescenziale diventa pratica dei grandi del mondo, come è accaduto ai funerali di Mandela
E l’Oxford Dictionary la consacra parola dell’anno
Dietro questo fenomeno si nasconde un rischio il sentimento di non avere una personalità vera
di Massimo Recalcati


In un film che ha fatto epoca titolato Zelig (1983), Woody Allen ha raccontato con la sua indubbia maestria tragica e ironica la patologia di un uomo che doveva assimilarsi all’ambiente e ai personaggi che frequentava per dare valore alla sua vita. Questa caricatura del soggetto- camaleonte impegnato in continui trasformismi per ridurre il suo senso di profonda estraneità trova un corrispettivo clinico preciso in una patologia che la psicoanalisi degli anni Cinquanta aveva definito con il termine di “personalità come se” (as if)(Helene Deutsch). Di cosa si trattava? Un soggetto senza mondo interiore, vuoto, staccato dall’energia vitale del suo desiderio, privo di un senso proprio dell’identità, poteva trovare una identità posticcia solo identificandosi a chi lo circondava, vivendo conformisticamente come fanno gli altri, adottando una maschera sociale rigida per colmare quel senso inestinguibile di superfluità che portava con sé. In questo caso la patologia mentale non consisteva più in una deviazione dalla norma, in una frattura con l’ordine costituito delle cose (come accadeva nella follia delirante studiata da Michel Foucault e da Franco Basaglia), ma in un eccesso di adattamento alla realtà, in una esasperata assimilazione alla normalità. In tutti questi nuovi quadri clinici in gioco sarebbe una patologia narcisistica con un fondo depressivo: il soggetto che sente di non avere alcun valore in sé (depressione) cerca di recuperarlo identificandosi a figure ideali che gli consentirebbero di edificare un Io più amabile (narcisismo). Ecco allora la ragione delle metamorfosi infinite di Zelig, che come un camaleonte cambia continuamente pelle. Di volta in volta, egli è un artista, un medico, un suonatore di jazz nero, uno psicoanalista….
Una versione aggiornata ai nuovi social network della figura di Zelig si può forse trovare nei cosiddetti “Selfie”, ovvero in coloro che tendono a fotografarsi di fianco a personaggi illustri o meno e in circostanze pubbliche di particolare valore storico o cronachistico, ma anche a riprodurre pubblicamente, grazie a Internet, i momenti più privati della loro vita per poi esibire a un loro pubblico questa specie di reliquia post-moderna. Tutto avviene “come se”: per un verso, i nuovi Zelig si autoriproducono con una solerzia incessante riducendo illusoriamente la distanza che li separa dal nome del personaggio o dall’evento ritrattocome sefacessero parte della loro vita; per un altro verso, provano a innalzare l’ordinarietà della loro stessa vitacome sefosse il senso del mondo facendo degli spettatori una sorta di suo specchio ideale. Se la propria vita ha bisogno dell’autoscatto per certificarsi di esistere è perché essa porta con sé un dubbio sulla propria esistenza. È il sintomo clinico prevalente delle personalità come se: la percezione diffusa della propria inesistenza, l’assenza del sentimento della vita.
Di nuovo troviamo al centro il binomio depressionenarcisismo che è, a mio giudizio, un binomio decisivo per intendere più in generale le mutazioni antropologiche del nostro tempo. La nostra immagine è tristemente vuota (gli ideali collettivi e soggettivi sono evaporati) e può essere riempita solo grazie al cemento narcisistico offerto da un valore aggiunto: il personaggio famoso, l’evento imperdibile, l’uso della vetrina di Facebook, la moltiplicazione anonima delle amicizie, ma anche la pura esibizione della propria persona di fronte al pubblico anonimo dei social network.
La dimensione autoreferenziale di questo foraggiamento narcisistico di un soggetto in realtà tristemente vuoto è evidente, già tutto contenuto nella parola “autoscatto”. Non si fotografa più il mondo, ma il mondo serve come sfondo per una iniezione narcisistica a un soggetto che si vive come insignificante. Non si tratta di psichiatrizzare una pratica che oggi ha assunto il carattere di una epidemia virale e che coinvolge anche figure come quella del Presidente degli Stati Uniti. Ma è indubbio che in molte di queste fotografie vediamo emergere un profondo senso di tristezza. È quella stessa sensazione che circonda la vita del povero Zelig di Woody Allen. Sotto la maschera non c’è niente: apparire prende il posto dell’essere rivelandoci che l’essere che esso ricopre è una realtà inconsistente. Esibire la propria vita non perché essa assume il valore universale di una testimonianza – è questo il punto di scaturigine di ogni opera d’arte –, ma perché senza questa esibizione essa correrebbe il rischio di non esistere, di essere solamente un’ombra senza vita. Il contrario siderale di quella “capacità di stare soli”con la quale Winnicott definiva la condizione minima della salutementale.

Repubblica 29.12.13
Un Natale nel nome di Isacco (Newton)
di Piergiorgio Odifreddi


Lo scorso mercoledì una parte del mondo occidentale ha meditato sulle parole del Vangelo secondo Giovanni (I, 6-7): «Venne un uomo mandato da Dio», e «venne come testimone per rendere testimonianza alla luce». E ha festeggiato quell’uomo, che cambiò la storia dell’Occidente, e nacque il giorno di Natale: ma non dell’anno 0, bensì del 1642. Quell’uomo aveva un nome biblico, ma non si chiamava Giovanni o Gesù: bensì, Isacco, o meglio, Isaac. In realtà, quell’uomo nacque il giorno di Natale solo in Inghilterra, dove la riforma del calendario non era ancora stata adottata: nelresto d’Europa, si era ormai già al 4 gennaio 1643. Ciò nonostante, in Inghilterra il 25 dicembre continua a esser chiamato non solo Christmas, ma anche Newtonmas. Perché è appunto di Newton che stiamo parlando: un uomo che “rese testimonianza alla luce” in un libro chiamato Ottica, nel quale spiegò al mondo che la luce bianca in realtà è un miscuglio di luci colorate, nelle quali si può decomporre facendola passare attraverso un prisma, e che si possono ricomporre facendole ripassare attraverso un prisma invertito. Solo la mela che ispirò allo stesso Newton la legge di gravitazione universale può competerecon il suo prisma nell’immaginario scientifico collettivo, come simbolo del colpo di genio in grado di cambiare la storia del pensiero e dell’uomo. È per questo che, quando Newton morì, Alexander Pope compose un epitaffio che paragonava la sua nascita non solo a quella di Cristo, ma addirittura alla creazione del mondo: «God said: Let Newton be, and all was light», ossia “Dio disse: Sia fatto Newton, e la luce fu”. Ed è per questo che il 25 dicembre molti si sono augurati, invece che un religioso Merry Christmas, un laico “Merry Newtonmas”!

«in quello che i mistici medioevali chiamavano fundus animae, è l’opacità, la resistenza alla comprensione e alla trasformazione»
Repubblica 29.12.13
Se noi siamo le vite degli altri
di Maurizio Ferraris


Fantasticare e pensare la vita secondo delle trame narrative scandite da ascese, cadute e resurrezioni. Rimpiangere quello che non siamo stati e ciò che non abbiamo fatto, dal massimo delle scelte professionali e sentimentali al minimo delle ordinazioni al ristorante. Immaginarsi altri mondi e farsi i fatti altrui. Essere riconosciuti e riconoscere. Tutto questo fa parte della nostra vita normale, e quando Nietzsche disse di essere «tutti i nomi della storia» (e che la coscienza è «la voce del gregge che è in noi») mise in luce enfaticamente questo stato di cose.
Se infatti guardiamo ai primi ricordi della nostra vita noteremo che, insieme a sensazioni (l’odore di certe medicine, famigliari, compagni di scuola) si mescolano inestricabilmente con ricordi di letture, cose viste, in certi casi persino immaginazioni o incubi. Il nostro essere noi stessi — ecco la tesi fondamentale dell’ultimo libro di Remo Bodei, Immaginare altre vite— è intessuto dalla narrazione delle vite degli altri. Non nel senso di spiare o inquisire, ma proprio nel senso, banale, che quello che noi siamo è il risultato di modelli che ci vengono dall’esterno, ed è questo il motivo per cui nella formazione degli esseri umani l’educazione — che, in quella che si chiama “formazione umanistica” consiste essenzialmente nella narrazione di vite vere o immaginarie — e l’imitazione di modelli e comportamenti rivestono un ruolo così importante.
L’uomo è un essere “intrinsecamente narrativo”, come suggerisce il titolo dell’autobiografia degli anni giovanili di García Márquez: Vivere per raccontarla.
Una parte importante della nostra vita come esseri riflessivi si impegna, in modo più o meno consapevole, a rendere accettabile la trama di un racconto, che da giovani è proiettato verso il futuro (e dunque è in buona parte intessuto di proiezioni e di immaginazioni di vite altrui), mentre da vecchi è fatta di rattoppi, cancellature, riscritture. Ecco che cosa ha spinto un uomo a dipingere degli animali sulle pareti di una caverna e, a maggior ragione, altri a guardare come in qualche modo significativi quei raddoppiamenti della realtà. Una narratività che si moltiplica con la crescita di registrazioni, immagini, racconti, in cui consiste lo sviluppo della cultura. E che adesso raggiunge il massimo evolutivo, in quel complicato intreccio di realtà e immaginazione che viene offerto dal mondo del web.
Se le cose stanno in questi termini — questo il suggerimento di Bodei — bisognerebbe correggere una immagine ingenua con cui rappresentiamo il nostro comportamento, come se fosse animato da un istinto immune e originario. È vero l’inverso: i bisogni e le aspirazioni vengono dall’esterno, appunto dai modelli che abbiamo avuto o dalle regole con cui ci siamo confrontati e che inizialmente abbiamo seguito in forma irriflessa. Rari sono i casi in cui diventiamo consapevoli di questo processo. E ancora più rari sono i casi in cui quello che siamo ci basta. Così, la nostra coscienza si presenta come unpat-chwork in cui giocano un ruolo essenziale i nostri modelli, consapevoli e inconsapevoli, per cui quello che siamo è costituito in maniera rilevante da ciò che vorremmo essere. Non si tratta di un paradosso, ma della condizione normale della coscienza. A questo punto, la buona domanda non è tanto quanto dobbiamo agli altri, alla fantasia e alla narrazione, ma come facciamo a evitare la sensazione pirandelliana di essere uno, nessuno e centomila. E qui la risposta, che Bodei trae dall’idealismo tedesco e dalle sue riletture contemporanee ma che forse può essere situata ancora più indietro, in quello che i mistici medioevali chiamavano fundus animae, è l’opacità, la resistenza alla comprensione e alla trasformazione. Abituati a immaginare altre vite e a credere di sapere benissimo come si sentiva Cesare alle Idi di marzo, scopriamo che per quello che ci riguarda non siamo affatto un libro aperto. E che la metafora che ci si attaglia di più è casomai quella di una brevissima novella di Kafka: «Siamo... come tronchi d’albero sulla neve. Questi giacciono lì solo apparentemente e con una piccola spinta dovrebbe essere possibile spostarli. Invece no, non si può, perché sono attaccati saldamente al terreno».

Repubblica 29.12.13
Amsterdam

Ultimi giorni per vedere l’esposizione che attraverso la proposta di oltre 200 opere, dipinti e lavori su carta, insieme a una serie di documenti, di lettere e di album di schizzi, fornisce uno spaccato significativo del metodo di lavoro del maestro. Anche a partire dalla sua tavolozza.

Repubblica 29.12.13
La bambina di Tintoretto di fronte alla scala della vita
di Melania Mazzucco


Il nostro viaggio è iniziato con una porta: la soglia del Parnaso di Paul Klee. Finisce con una scala. La scala dai gradini luccicanti d’oro che molti anni fa Jacomo Robusti detto Tintoretto mi ha invitato a salire – con umiltà ma senza paura, come la piccola protagonista della sua tela.
Dalla Pasqua del 1556, la tela è appesa nella chiesa della Madonna dell’Orto, a Venezia. A qualche metro dal suolo, emana una luce propria nella penombra della navata. In origine era divisa in due parti, identiche, che foderavano gli sportelli dell’organo. Nel XVI secolo la Madonna dell’Orto era la chiesa di un monastero di monaci intellettuali e musicisti. I notabili ci si sposavano e ci si facevano seppellire; gli altri ci ascoltavano i predicatori e i concerti. Ma quando le ante si schiudevano e l’organo suonava, il dipinto non si vedeva più. “Suonava” nel silenzio: aveva la stessa funzione mistica della musica.
La presentazione di Maria al tempio è stata la mia porta d’ingresso nel Museo del Mondo. L’emozione indelebile di quella visione ha alimentato la mia sete d’arte e di artisti, e una ricerca potenzialmente infinita. Da allora, frequento la bottega di Tintoretto (così soprannominato per il mestiere del padre e l’esigua statura). Aveva un “terribile cervello”, ovvero una mente geniale, un carattere ispido come i ricci della sua barba, e non accettava in bottega garzoni cui dover insegnare i rudimenti della pittura. Solo lavoranti già capaci di fargli da assistenti. Fece un’eccezione per la figlia e i figli, ma questa è un’altra storia - e l’ho raccontata altrove. I genitori si ereditano, i maestri si cercano e poi si scelgono – e così Tintoretto è diventato il mio.
Fu incaricato di dipingere La presentazione di Maria nel 1548, per 5 scudi, 1 botte di vino e 2 stare di farina: aveva 29 anni, talento prepotente e sconfinata ambizione. Con la volontà feroce degli autodidatti, aveva assimilato la maniera di Raffaello, Michelangelo, Tiziano, Giulio Romano, ma nonaveva ancora elaborato una propria lingua e liberato la sua originalità. Però nello stesso 1548 si affermò come il pittore più promettente della nuova generazione, e ignorò la commissione. Nel 1551 ridiscusse il contratto, come farebbe un calciatore nel frattempo richiesto da squadre più blasonate, e riuscì a strappare un aumento. Tintoretto, di inesauribile immaginazione ed energia, seminò fino alla morte centinaia di quadri negli edifici pubblici di Venezia:La Presentazione di Maria fu l’unico che riscosse entusiasmo unanime. Perfino i suoi detrattori, che lo biasimavano come sbrigativo mestierante, ammirarono la raffinata armonia della composizione, la plasticità delle figure, il gioco del chiaroscuro, la qualità del disegno e del colore.
Illustra un episodio dei Vangeli apocrifi e della Legenda Aurea. Anna e Gioacchino hanno consacrato a Dio la loro tardiva figlia Maria: verso i 5 anni la conducono al Tempio di Gerusalemme, dove sarà educata con altre vergini. Tinto-retto omette i genitori e fa della bambina il fulcro dell’immagine. Sintetizza la città nella folla e riduce l’architettura dell’edificio all’imponente scala di 15 gradini, vista con prospettiva dal basso – la stessa dello spettatore. Costringendolo a muovere gli occhi per seguire la bambina, mette in movimento la scala stessa, e lo coinvolge nella scena. L’oro sparso sui gradini barbaglia una luce calda e avvolgente di prodigio. La figuretta esile di Maria si staglia in controluce. Allo spettacolo assistono storpi e mendicanti (risucchiati nell’ombra ma resi in scorci virtuosistici), scribi, signori e soprattutto donne. Una processione di velate coi ceri avanza dal fondo; le altre (con le figlie tra le braccia o al seno) formano una specie di coro, sul proscenio. Una sinfonia femminile di donne di ogni età – lattanti, bimbe, adolescenti, madri, anziane – come se il quadro fosse una meditazione sul loro ruolo, e destino. Scelta singolare per il telero della chiesa di un monastero maschile. Ancora più singolare la figura alcentro dell’immagine – la bionda di spalle, col piede sollevato. Un piede scalzo in una chiesa, cinquant’anni prima di Caravaggio.
I pittori ideavano i propri quadri rielaborando quelli con lo stesso soggetto che avevano visto dal vero o su riproduzioni a stampa. Tintoretto tenne presente quelli di Tiziano e di Daniele da Volterra, allievo di Michelangelo. Ma la monumentale donna con la spalla nuda è una sua invenzione. La donna e la figlia accanto a lei – con gli abiti e l’acconciatura delle veneziane del ’500 – sono dipinte con tale tenerezza e verosimiglianza che subito si generò la leggenda che rappresentassero l’amante del pittore e la sua diletta figlia. Tintoretto aveva davvero avuto una bambina, in quegli anni: Marietta – la piccola Maria. È un’ipotesi possibile, perfino probabile. Ma ciò che conta è che Tintoretto offrì a loro il ruolo- chiave del quadro: non al sacerdote né ai santi genitori né alle vergini ebree né ai committenti né a se stesso. Mediatrici fra gli spettatori e la storia sacra, testimoni e guide sono una donna qualunque e sua figlia. In pittura e nella vita, Tintoretto era un temerario, e un uomo libero.
Maria sale, con grazia, verso il sacerdote barbuto che l’aspetta in cima alla scala. Il suo ingresso nel Tempio permette l’inizio della salvezza dell’umanità. Maria è unica, irripetibile. Infatti è sola, ritagliata contro un cielo di nuvole. Ma la donna la indica a esempio alla figlia – perché anche lei accetti il suo destino e lo compia. Così il quadro, al di là del significato teologico, che Tintoretto tradusse con esemplare fedeltà, finisce per diventare altro. Un’epifania malinconica del mestiere di genitore, e di maestro. Che può solo accompagnare con amore il figlio (la figlia) ai piedi della scala, in cima alla quale lo (la) attende il futuro. L’età adulta, il compimento di una vocazione, la felicità o il dolore. La scala è ripida, nessuno può aiutarci ad affrontarla. Tocca a noi trovare il coraggio di avviarci lassù – qualunque cosa ci attenda.

Presentazione di Maria al Tempio (1553) olio su tela 480 x 429 cm Chiesa della Madonna dell’Orto Venezia

Repubblica 29.12.13
“The tree of life”, Il senso della vita secondo Malick


TEXAS, anni Cinquanta, Jack (interpretato da adulto da Sean Penn) cresce tra un padre autoritario (Brad Pitt) e una madre comprensiva (Jessica Chastain). Al rapporto difficile con i genitori si aggiunge quello problematico e dolorosissimo con i fratelli.The tree of life - L’albero della vitadi Terrence Malick, è una profonda, complessa e artistica riflessione sul senso della vita, dalle origini alla contemporaneità. Va in onda stasera alle 21.15 su Rai Movie. Il film del regista più schivo del mondo è stato premiatocon Palma d'Oro al Festival del Cinema di Cannes 2011. Opera monumentale, a tratti difficile, di grandissimo fascino, è incentrata sull’epopea individuale di Jack, ma anche tra due concezioni del mondo: il rispettoso idealismo ereditato dall'educazione materna e il realismo concreto imparato dal padre. Ma la vita va avanti, con la sua concatenazione misteriosa di eventi, apparentemente arbitrari, nascondendo dietro a ogni angolo occasioni di stupore, meraviglia e riflessione.