lunedì 30 dicembre 2013

l’Unità 30.12.13
Barca: la spinta Pd sull’esecutivo deve essere visibile
«Renzi fa bene a chiedere un cambio di passo al governo. È il mandato che gli hanno consegnato i tre milioni di elettori delle primarie»
«La contrapposizione tra carisma e partito radicato è un tranello di chi vuole far fuori il segretario»
«Bella la scelta in poche ore di una segreteria di trentenni. Lasciamo lavorare questi ragazzi»
di Maria Zegarelli


La Stampa 30.12.13
Mario Tronti e gli auguri “borghesi” di buon anno
di Carlo Bertini


Che il filosofo Mario Tronti, classe 1931, senatore Pd dell’era bersaniana, sia il padre dell’operaismo degli anni ’60, è cosa nota. Che Tronti sia pure lo zio di Renato Zero invece sono in pochi a saperlo. Ma al di là di questa curiosa parentela, per sapere di che pasta è anche fatto l’amalgama del Pd, val la pena conoscere la singolare formula d’auguri che questo storico ex comunista ha inviato agli amici del Centro Studi per la riforma dello Stato che presiede, alcuni dei quali sono pure suoi colleghi parlamentari. Un messaggio di cui val la pena citare alcuni passi, perché restituisce la foto di famiglia del partito Democratico in tutte le sue sfaccettature, compresa quelle di una sinistra di lungo corso e magari un po’ d’antan, che forma un bel contrasto se mischiata alla generazione 2.0 salita al potere.
«Cari amici, care amiche, compagne e compagni, come avrete notato anche negli anni precedenti, vi dico solo buon Natale, non anche buone feste, tanto meno felice anno nuovo. Considero queste due ultime espressioni, auguri borghesi. Il Natale, invece, il mistero del Dio incarnato, che rovesciò il mondo degli uomini, dal sotto al sopra e una volta per sempre, ci appartiene. Non è necessario credere, per appartenere all’Avvento», scrive ancora Tronti. Che formula «un invito al silenzio», citando un testo del frate cappuccino svizzero, docente all’Università di Friburgo, Giovanni Pozzi. Con la premessa che «ci aspettano nuovi fronti di battaglia, dura, tutta contro vento. Prima di riprendere la critica del presente, l’arma del silenzio contro la dittatura della chiacchiera, dà sicurezza e forza».
Ed ecco qualche estratto dal Pozzi: «...Ci sono tre categorie di silenzio, collegate alla parola: di chi la formula, di chi l’ascolta, di chi la conserva. Bisogna trovare entro la solitudine gli spazi dove coltivare questi silenzi, scoprire come possano vivere con un interlocutore che parli tacendo»....«Del silenzio, il libro, deposito della memoria, antidoto al caos dell’oblio, dove la parola giace, ma insonne, pronta a farsi incontro con passo silenzioso a chi la sollecita. Amico discretissimo, il libro non è petulante, risponde solo se richiesto, non urge oltre quando gli si chiede una sosta. Colmo di parole, tace...».

l’Unità 30.12.13
Misiani: «Ma quali casse vuote, il Pd spende come gli altri partiti europei»
Il Corriere della Sera scatena la polemica intorno ai conti del Pd


Corriere 30.12.13
il Bilancio del Pd e i finanziamenti
Conti trasparenti (se si vuole governare)
di Maria Teresa Meli


La non proprio edificante vicenda delle spese del Pd ha rivelato una realtà poco rassicurante: un partito che un anno fa si era candidato a guidare un Paese in gravi difficoltà economiche, non sapeva gestire nemmeno i conti di casa propria.
Ma questo riguarda il passato. Ora c’è il presente. C’è un altro esponente del Pd al governo, che è stato costretto a varare un decreto perché le Camere non si decidevano ad approvare il ddl che abolisce i rimborsi elettorali. Anche in casa pd c’era — e c’è ancora — chi è ostile all’idea di cancellare quei finanziamenti. Il che non stupisce affatto visto che nel Partito democratico in questi anni si è speso senza remore, come dando per scontato che quegli indennizzi sarebbero durati in eterno.
Certo, il decreto varato dal governo è timido, troppo graduale e a rischio di ulteriori annacquamenti futuri. Ma è pur sempre un passo avanti. Adesso tocca alla nuova dirigenza del Partito democratico andare avanti su quella strada. Matteo Renzi si è presentato sul proscenio politico, anzi, vi ha fatto irruzione, con molte promesse. A cominciare da quella dell’abbattimento dei costi della politica. Lodevole intenzione. A patto che alle parole seguano i fatti. Ma il segretario del Pd aveva lasciato intravedere anche la possibilità di assumersi un altro impegno. Ossia quello di rinunciare ai rimborsi elettorali prima del termine previsto dal decreto. Poi, però, non se ne è saputo più niente.
È vero, il leader del Partito democratico aveva legato quella promessa a una sfida con Grillo. Era ovvio, però, che il gran capo del Movimento 5 Stelle avrebbe risposto di «no» alle profferte renziane di collaborazione sulle riforme. È chiaro che nessuno intende chiedere al segretario del Pd di chiudere la sede di via del Nazareno, né tanto meno di licenziare i dipendenti, gente che lavora duro e che in altre epoche, per quello che riguarda almeno la parte ex Ds, lo ha fatto anche senza stipendio. Ed è senza dubbio da apprezzare l’idea di affidare a una «due diligence» il compito di analizzare le reali condizioni del partito, come lo è la decisione di mettere tutte le spese in Rete per consentire ai cittadini di verificare il modo in cui il Pd utilizza i soldi del contribuente. Però un po’ più di coraggio non guasterebbe. Renzi ama le accelerazioni improvvise: perché allora non dare prova di questa sua propensione rinunciando ai rimborsi prima del termine fissato dal decreto?

Corriere 30.12.13
La lite sul bilancio del Pd
Conti in rosso, casse vuote, assunzioni:
il Partito democratico si divide, tra chi difende la gestione passata e chi chiede una svolta
di Alessandro Trocino


Spaccatura sui conti del partito Nel Pd si apre il caso bilancio Il nodo delle consulenze e delle assunzioni. Renziani all’attacco Il bersaniano Stumpo: tutto limpido, soldi spesi per fare politica ROMA — Conti in rosso, casse vuote, dipendenti assunti come quadri e subito eletti in Parlamento, spese alle stelle per consulenze, investimenti pubblicitari e affissioni. Non dev’essere stato piacevole per Francesco Bonifazi, neo tesoriere renziano, spulciare il bilancio del Partito democratico. Anche per questo, come ha raccontato ieri il Corriere della Sera , avrebbe intenzione di affidare a un gruppo di professionisti una due diligence per verificare contratti e rapporti bancari . Ma nel frattempo il partito si divide, tra chi difende la gestione passata e chi chiede una svolta.
Michele Anzaldi è un deputato e dipendente del Pd (era spin doctor di Francesco Rutelli), di scuola renziana: «Bisogna stare attenti a non fare di tutta un’erba un fascio, anche perché al Nazareno molti lavorano e sodo. Ma se è vero quello che emerge dall’articolo, è gravissimo. Ma come, si va verso tempi difficili con il taglio al finanziamento, stai per dichiarare fallimento e chi se ne va fa trovare a chi arriva le casse vuote? Assume persone come dirigenti e le fa diventare deputati un mese dopo? Ma se è così, è un’azione di guerra, hanno messo le mine sulla pelle dei dipendenti che lavorano davvero e fanno sacrifici. Abbiamo fatto un lavoro immenso per unificare Ds e Margherita e poi arriva questa mazzata».
Pippo Civati, terzo sfidante tra Matteo Renzi e Gianni Cuperlo, chiede chiarezza: «Sono temi delicati e bisogna avere tutti gli elementi prima di giudicare. Per questo mi piacerebbe, senza drammi, che ci fosse una direzione nazionale per parlarne. E per proporre, per esempio, un bilancio consolidato di tutto il gruppo, che comprenda federazioni e unioni regionali». Una cosa però si può dire sin da ora: «Il primo provvedimento utile sarebbe ridurre le spese. E collegare i soldi raccolti a progetti specifici. Noi lo abbiamo fatto in campagna elettorale». Ma Civati avanza un altro argomento: «Mi piacerebbe che si parlasse anche delle Fondazioni. Vorrei capire se tutti i soggetti collegati al partito, che hanno creato Fondazioni, sono disponibili a uniformarsi alle stesse regole rigorose che ora si chiedono per i partiti».
Il tesoriere veltroniano, Mauro Agostini, che ha abbandonato la politica ed è dirigente d’azienda, non vorrebbe parlare ma una cosa la dice: «Quando abbiamo creato il Pd abbiamo fatto un lavoro splendido e abbiamo lasciato in eredità un gioiellino. Dopo? Non è mai bello criticare chi è venuto dopo di te».
Sono in molti a non avere voglia di parlare, e non per timidezza. A difesa della gestione precedente si schiera Stefano Di Traglia, già portavoce dell’ex segretario pd: «In questi anni abbiamo solo tagliato risorse. E Bersani aveva dato ordine al tesoriere Misiani che nessuno del suo staff fosse assunto. La campagna elettorale del 2013 è stata tagliata di oltre il 30 per cento rispetto al 2008. Con risultati migliori, peraltro».
Nico Stumpo, responsabile dell’organizzazione nell’era bersaniana, non ha dubbi: «Una cosa di cui sono convinto è la limpidezza dei conti». Non solo: «I nostri bilanci sono certificati da società esterne e pubblicati online. Tutte le nostre spese sono visibili». Ma non è solo la procedura a stargli a cuore: «Sono stati anni intensi, abbiamo fatto investimenti sulle infrastrutture, dalle iscrizioni on line, al circoli in rete. Investimenti che ora si trova chi è arrivato». Quanto ai dipendenti: «Non mi risulta che siano state fatte nuove assunzioni, sicuramente non a tempo indeterminato. E ricordiamoci che il Pd è nato dalla fusione di Ds e Margherita. Due soggetti politici che avevano un personale con il quale fare i conti. Difficile essere snelli con una struttura simile ereditata. In un momento di crisi, avremmo dato un buon contributo al Paese aumentando di 200 unità i disoccupati?».
Stumpo non è d’accordo nell’abolizione del finanziamento ai partiti: «Se c’era una cosa sbagliata è che venivano dati fondi in eccesso. Ma i conti di adesso del Pd dimostrano che abbiamo speso per la nostra attività politica i soldi che ci sono arrivati dal finanziamento pubblico. Se ci sono avanzi, è un problema: in quei casi sì che succedono cose strane. Invece al Pd non è successo: qui nessuno ha comprato diamanti o appartamenti per uso personale».

Corriere 30.12.13
Beppe Fioroni
«Azionariato popolare. E basta con i dipendenti che fanno politica»
di Al. T.


ROMA — «È inutile recriminare sul passato, pensiamo piuttosto a come costruire il futuro. Mi farebbe sorridere una disputa sui bilanci passati con prediche fatte da pulpiti di gente che quei bilanci hanno contribuito a realizzare». Beppe Fioroni, deputato democratico con una lunga esperienza politica alle spalle, non ha nostalgia del passato ma non si fa neanche contagiare da nuovismi.
Fioroni, quello che emerge dai conti è un bilancio pesante per un partito pesante.
«Dobbiamo prendere atto che si è conclusa una stagione. Alla luce dello stop al finanziamento pubblico dei partiti, bisogna superare il modello di partito che vive solo di politica. Avrei terrore di una formazione politica che spende quello che non si può permettere. Ma allo stesso tempo non ci possiamo neanche permettere un partito troppo evanescente».
Duecento dipendenti e spese alle stelle. Come se ne esce?
«La prima cosa, che ho proposto più volte nel corso degli anni, è pensare a un futuro in cui non ci siano più dipendenti che fanno politica. Un impegno politico è autorevole e libero se oltre alle idee hai anche un lavoro. Questo deve valere per tutti, compresi i nuovi gruppi dirigenti. Bisogna concepire la politica come servizio e non vivere di politica. Renzi parla di rottamazione. Bene, mi auguro che a ogni livello non si abbia paura della rottamazione: quando si finisce il servizio al Pd, si torna alla propria professione. Sarebbe un bel modo per dare l’esempio ai cittadini e sarebbe la vera rivoluzione».
Senza finanziamento, partiti come il Pd, se non cambiano, faranno fatica a vivere.
«Io sono a favore dell’abolizione del finanziamento pubblico, ma vorrei che il nuovo tesoriere avesse il coraggio alle prossime primarie, di ogni ordine e grado, di aprire una straordinaria campagna di azionariato popolare diffuso. Troverei inaccettabile, oltre che pericolosissimo, accettare le donazioni di centinaia di migliaia di euro da parte di uno sparuto numero di cittadini. Che così, surrettiziamente, diventerebbero proprietari di una formazione politica. Un partito liquido, inesistente, diverrebbe facile preda di scalatori. E non mi piace neanche il partito fatto solo dall’uomo della provvidenza che pensa a tutto, dall’immagine alle decisioni: senza partecipazione e confronto si rischia il degrado della democrazia. Il partito, se non ha una presenza operativa radicata, diverrebbe un fan club».
Ma proprio nessuna autocritica per gli sprechi e le spese fatte? Erano tutte giustificate? Si potevano evitare?
«Sicuramente la gestione dei fondi del partito è stata commisurata ai bilanci di previsione fondati sul finanziamento pubblico, che oggi non c’è più. Per me che sono sempre stato all’opposizione, e che lo sono anche oggi, sarebbe facile criticare. Ma proprio per questo non voglio esprimere giudizi. Certo, troverei singolare che arrivassero parole di rimprovero dalla nuova maggioranza, che in parte lo era già nel passato. Mi piacerebbe e sarebbe più produttivo che pensasse al futuro, senza avere paura e senza fare i gattopardi: perché dire di voler cambiare tutto e non cambiare nulla potrebbe far comodo anche a molti che oggi si presentano come nuovi. Dall’analisi di quei conti, da come li abbiamo letti, si dovrebbero trarre indicazioni utili non per smantellare un partito, per togliergli il radicamento territoriale e la struttura, ma per eliminare ciò che non ci possiamo più permettere. È una nuova sfida che dobbiamo affrontare con coraggio».

Corriere 30.12.13
La difesa dell’ex tesoriere Misiani: spendiamo come Spd e laburisti
risponde Maria Teresa Meli


Caro direttore,
sono costretto a scriverle in merito ad una serie di informazioni distorte o non veritiere contenute nell’articolo di Maria Teresa Meli dal titolo «Spot, consulenze, assunzioni extra: tutte le falle nel bilancio del Pd» pubblicato ieri dalCorriere della sera .
Il primo punto destituito di ogni fondamento è la frase un po’ sadica («tanto avrebbe trovato le casse vuote») che mi viene attribuita. Sono parole che non ho mai pronunciato, anche perché non trovano alcun riscontro nei fatti. La situazione patrimoniale al 31 ottobre 2013 (certificata da Pricewaterhouse Coopers) consegnata al nuovo tesoriere del Pd evidenzia infatti una disponibilità liquida di 12.450.535 euro. Disponibilità che chiunque, contrariamente a quanto scritto nell’articolo, faticherebbe a definire «cassa vuota».
Il secondo punto riguarda la situazione del personale. Ds e Margherita a fine 2007 avevano un organico di 330 unità. Dal 2008 in avanti una parte di questo personale è stato inserito nel Pd, in osservanza — comprese le assunzioni del 2012-2013 — degli accordi presi con i due partiti fondatori e delle condizioni economiche e contrattuali vigenti con i precedenti datori di lavoro.
Al 31 ottobre 2013 il Pd aveva 207 dipendenti e collaboratori (123 in meno di quelli di Ds e Margherita), di cui 60 in aspettativa non retribuita o distacco. Il personale effettivamente a carico del Pd nazionale era pari dunque a 157 unità, un numero che si è ulteriormente ridotto a dicembre 2013 per la fine di alcuni rapporti di lavoro a termine. Le collocazioni in aspettativa e distacco effettuate nel 2013 con la mia gestione porteranno nel 2014 ad una riduzione di circa il 25% del costo del lavoro.
Il terzo punto riguarda una serie di voci di bilancio definite «impressionanti» dall’autrice dell’articolo. Sono numeri che vanno letti nel contesto del bilancio del più grande partito di questo Paese. Nel 2012 il Pd ha sostenuto costi per 45 milioni di euro (in riduzione del 25% rispetto all’anno precedente). Facendo un raffronto europeo, la Spd tedesca ha un bilancio di 142 milioni, il Partito socialista francese spende 64 milioni, il Labour party britannico 37 milioni di euro. Le cifre «impressionanti» sono quindi in linea con quanto spendono gli altri grandi partiti europei. Quanto alle cifre «da capogiro» che il Pd avrebbe sostenuto per la propaganda, vorrei evidenziare che le spese sostenute dal Pd nazionale per le elezioni politiche 2013 (poco meno di 6 milioni di euro) sono state inferiori del 33% rispetto a quanto è stato speso per le politiche 2008 (8,9 milioni) e del 57% a quelle delle europee 2009 (13,9 milioni). Ci sarebbe ancora molto da dire, ma non voglio rubarle altro spazio. In passato sono stato costretto a ricorrere alle vie legali per tutelare la mia persona e il mio partito (da ultimo con Beppe Grillo, che è stato condannato in primo grado per avermi diffamato). Continuerò a fare tutto ciò che è necessario per difendere il mio lavoro e il Pd.
Antonio Misiani
deputato del Pd ed ex tesoriere
***
Gentile onorevole Misiani, la frase che lei definisce «un po’ sadica» è stata già da me riportata il 15 dicembre scorso, ma allora, guarda caso, non vi fu nessuna smentita. Passiamo al secondo punto, io nel mio articolo scrivo che nel bilancio del 2012 il Pd registra 7 milioni di perdite. Cosa che lei non smentisce. Perché è questa (anzi, per amor di precisione, qualcosa di più) la differenza tra le entrate e le uscite per quell’anno, il che, ovviamente, peserà anche su quello seguente. Quanto al dato del 2013, io non ho scritto che le casse sono vuote. Come avrei potuto farlo, visto che giusto a luglio il Partito democratico, come del resto le altre forze politiche, ha ricevuto la prima tranche dei rimborsi elettorali? Comunque, siamo a fine dicembre e, a quanto mi risulta, la cifra da lei citata e riferita al 31 ottobre è notevolmente diminuita.
C’è quindi il capitolo del «personale» del Pd. Non mi pare che lei contesti il numero di 150 da me dato. In compenso parla dei numerosi distacchi che ci sono stati nel frattempo. Sarebbe forse il caso di spiegare ai lettori che cosa siano questi distacchi. In molti casi i dipendenti dei partiti vengono spostati nelle sedi dei gruppi parlamentari e nei ministeri, per lavorare lì. Quindi percepiscono uno stipendio dalla Camera, o dal Senato, o dai dicasteri presso cui sono impiegati. Non per essere brutali, ma solo per essere franchi, stringi stringi, ciò significa che in qualche modo sono sempre i contribuenti italiani a finanziare indirettamente i partiti con le loro tasse.
Proseguiamo: noto che lei non contesta nemmeno una cifra di quelle riportate nell’articolo di ieri sui rimborsi degli alberghi, la propaganda, etc. Ci tiene solo a precisare che anche il Partito socialista francese, il Labour Party e la Spd hanno anche loro ingenti spese. Prendiamo gli ultimi due esempi. Come lei saprà senz’altro meglio di me in Germania i partiti si sostengono grazie alla somma dei finanziamenti statali e delle donazioni private che sono quasi equivalenti. Nella rigida Gran Bretagna, poi, il finanziamento è ridotto veramente all’osso e viene quasi esclusivamente dato all’opposizione, per permetterle di fare politica. Non entrerò nel merito delle beghe interne e del discutibile gusto delle vendette postume di partito che riguardano la parte finale della sua lettera perché non sono affar mio.
Maria Teresa Meli

l’Unità 30.12.13
Disuguaglianza, finalmente presa sul serio
di Maurizio Franzini


l’Unità 30.12.13
La sinistra e la qualità della vita
di Stefano Bartolini



Repubblica 30.12.13
Eguaglianza e merito
di Nadia Urbinati


Si parla spesso del merito come della soluzione ai problemi della nostra società bloccata da un sistema farraginoso e burocratico e da un perverso abito clientelare che premia chi ha amici potenti, non chi ha capacità. Per questo, merito e lavoro appaiono come una coppia inscindibile: il primo come condizione per il secondo.
Da un’interessante analisi del voto delle primarie del Pd dell’8 dicembre scorso condotta dall’Osservatorio sulla Comunicazione Politica dell’Università di Torino, risulta che questa sia la tesi vincente e il segno dell’identità ideologica della nuova sinistra centrista. Tra i dati aggregati e interpretati da Luciano Fasano e dai suoi collaboratori emerge che nel suo complesso il Pd è un partito di centro-sinistra autentico nel quale la componente legata alla sinistra tradizionale è scarsamente rilevante nel suo elettorato e ancora di meno tra gli eletti. A comprovare questa valutazione è la collocazione del merito accanto al lavoro e distante dall’eguaglianza nelle proposte dei delegati del gruppo che ha raccolto più consensi.
Non da oggi, il merito gioca un ruolo di primo piano nella riconfigurazione della cultura ideologica della sinistra.
In una società, come la nostra, dove parenti e amici contano sempre molto, più delle vocazioni e delle doti personali, il richiamo al merito è sacrosanto. Ma è un fatto di legalità piuttosto che di giustizia sociale. Anche perché organizzare la società sull’“abilità dimostrata” è alquanto complesso visto che il merito è non solo difficile da misurare e attribuire, ma anche fortemente condizionato dal capitale sociale e dall’ambiente culturale. Per non essere ingiusta considerazione, il merito richiede molta attenzione alla distribuzione eguale delle condizioni di partenza. Per questa ragione un liberal social-democratico come John Rawls non credeva che dal merito po-tesse partire una politica di giustizia sociale. Perché è difficile spiegare con precisione che cosa sia vero merito, prima di tutto in quanto è impossibile stabilire con certezza il dosaggio tra capacità personali e condizioni sociali. Qualche volta sembra che il merito sia una qualità che la persona riconosciuta meritevole possieda naturaliter come per innata disposizione (talenti) e che con fatica e duro lavoro riesce poi a fare emergere (responsabilità). Ma nessuno sembra soffermarsi abbastanza sulla dimensione sociale del merito, sul suo dipendere profondamente dal riconoscimento sociale e dalla sintonia che si stabilisce tra chi opera e chi ne riceve i frutti o é influenzato dall’operato.
Il giudizio sul merito di una persona è relativo a un settore di lavoro, a determinati requisiti che definiscono una prestazione, all’utilità sociale delle funzioni in un determinato tempo storico e luogo, ovvero al riconoscimento sociale e pubblico. Nel merito entrano in gioco ben più delle qualità della persona. Per questo nelle questioni di giustizia si dovrebbe diffidare di usarlo come criterio per distribuire risorse. Non perché non sia giusto che ad essere assunto in un ospedale debba essere un bravo medico, ma perché non si deve scambiare l’effetto con la causa: è l’eguaglianza di condizione, di trattamento e di opportunità il principio che deve governare la giustizia; il merito è semmai la conseguenza di un ordine sociale giusto. Per non essere privilegio truffaldino, il merito deve sprigionare da una società nella quale a tutti dovrebbe essere concessa un’eguale possibilità di formarsi capacità e accedere ai beni primari (diritti civili e diritti sociali essenziali) per poter partecipare alla gara della vita.
Il Presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson raccontò questa storia per far comprendere ai suoi concittadini la necessità di politiche pubbliche, in primo luogo scolastiche: immaginiamo una gara di velocità tra due persone che partono sulla stessa linea ma una di esse con dei pesi alle caviglie cosicché dopo pochi metri si troverà in irrimediabile svantaggio, nonostante si impegni con tutte le sue forze. Si può ignorare questa differenza di capacità nel giudicare del merito del vincitore? Evidentemente no. In questo caso il vincitore non avrebbe proprio alcun merito. Semmai godrebbe di un privilegio. Perché ci sia una gara onesta ed effettivamente gareggiata occorre rimuovere gli ostacoli dell’altro competitore, e lo si può fare in tre modi: o si libera la persona impedita a gara cominciata e si fa finta che ci sia giusta competizione (affermazione del privilegio), oppure si dà a chi è oggettivamente impedito un vantaggio a gara cominciata (programmi di aiuto a chi ha bisogno) oppure lo si prepara prima che la gara cominci (politiche di cittadinanza sociale).
Non si intende dire con questo che non ci può essere merito meritato; ma che non ci può essere se alcuni partono avvantaggiati o se non si correggono le diseguaglianze di opportunità prima di valutare il merito. Ecco perché senza l’accoppiamento con l’eguaglianza il merito non è un valore di giustizia. A meno che non si controllino tutte le relazioni sociali che presiedono alle nostre scelte individuali (cosa indesiderabile oltre che impossibile da ottenere in una società che vuole restare libera) non si può onestamente parlare del merito come della soluzione ai problemi di ingiustizia sociale (mentre la sua violazione nei concorsi pubblici può comportare illegalità). Si deve invece partire dall’eguaglianza di opportunità e delle condizioni di formazione delle capacità, per esempio da scuole pubbliche di buona qualità distribuite su tutto il territorio nazionale affinchè la gara possa essere davvero aperta a tutti e non si sfoltisca a valle il numero deipotenziali concorrenti.

il Fatto 30.12.13
Togliatti, De Gasperi Berlinguer, i solitari che fecero l’Italia
di Furio Colombo


Nel mondo delle notizie dotato della memoria implacabile della rete di tanto in tanto, mentre attraversi le news cercando il senso, ti sbarra la strada un anniversario. Per fortuna il 2014 porta (insieme ai soliti ignoti eventi che accadranno) tre ricorrenze che hanno per l'Italia, un senso enorme, da qualunque parte del ring della storia vi troviate. Sono De Gasperi, Togliatti, Berlinguer. E non dite uno di centro e due (come al solito, direbbe la Santanchè ) di sinistra. Sono tre personalità immensamente diverse, nel loro tempo, nella riflessione di oggi, e tra loro, in tempo reale.
DE GASPERI È IL SOLO (e resta il solo, anche adesso con tante trasferte di leader nel mondo) il solo politico italiano che abbia mai dato una impronta internazionale alla vita pubblica italiana. Direte che era nato austro-ungarico. Sarà, ma De Gasperi ha anticipato da solo l’Europa, il senso dei rapporti che avrebbero creato l’alleanza atlantica, ha intravisto (sempre in solitudine) la strategia che aggira e sorpassa senza violenza i nazionalismi (la questione Alto Adige, tuttora modello nel mondo), e fiutato il vento di un mondo che si sarebbe esteso da Shengen alla globalizzazione. Senza politici come De Gasperi, molte di queste cose si sono avverate e negate nello stesso tempo, e la politica (certo in Italia) è rimasta definitivamente più misera. Togliatti è una misteriosa carta da gioco a due facce. Questa carta vale molto sul versante della morte (ha permesso l’uccisione in Russia di molti suoi compagni comunisti pieni di fede e senza colpa ). E vale molto sul versante della vita, perchè la sua intuizione sullo stato del Paese (troppo fascista per sradicare davvero la malapianta, e troppo appesantito dalla “zona grigia” per fare davvero spazio agli antifascisti), ha deciso che la guerra era finita e con la guerra finivano anche i conti i sospeso. In questo modo ha sepolto senza dovute esequie molto dolore ma ha evitato di crearne altro, nonostante gli sforzi fatti, molto dopo di lui, da persone troppo povere di senso dello Storia o di senso dello Stato, o troppo ansiose di vantaggio. Parlo di coloro, che hanno tentato di ridefinire la Resistenza una “guerra civile” in modo da poter processare i resistenti invece dei fascisti. Berlinguer rappresenta un misticismo laico che forse ha la stessa radice, umana, solitaria e antica, del misticismo dossettiano di radice cattolica. Ha presentato l’Italia a se stessa e gli ha chiesto di cambiare radicalmente percorso. Nessuno lo ha fatto, e non esistono Berlingueriani, nè in tempo reale (nel Pci o fuori) nè adesso. Il 2014 celebra tre grandi solitari a cui adesso, che sono morti e lontani, l’Italia tributerà molto onore.

Corriere 30.12.13
Ferrando: espropriare le banche, creare lavoro
di Marco Cremonesi


MILANO — Marco Ferrando resta fedele alla linea: «È impossibile qualsiasi accordo con chi si identifica con le classi dominanti». Il 3 gennaio partirà il terzo congresso del Partito comunista dei lavoratori di cui è portavoce e animatore, nato dalla rottura, nel 2006, dentro Rifondazione comunista per la scelta di Fausto Bertinotti di sostenere il governo Prodi. E la distanza con tutte le altre realtà della sinistra resta radicale: «Tanto più oggi — osserva —, dato che Rifondazione comunista mi pare abbia esaurito il suo ciclo». Di Sinistra ecologia e libertà non sembra avere grande opinione: «Vendola vuol fare la sinistra del centrosinistra... ». E certissimamente non c’è alcuno spazio di dialogo con un Pd che «con Renzi cancella in un partito liberale qualsiasi traccia simbolica del suo passato». Insomma, quello di Ferrando e del suo partito resta un programma rigorosamente «anticapitalista e antisistema che non ha a che vedere con nessuna delle ipotesi che vedo fare a sinistra». Il simbolo recente della «deriva», secondo Ferrando, di gran parte della sinistra è il «gioco di sponda» tra Matteo Renzi e il leader della Fiom Maurizio Landini: «Un segno della malattia di una sinistra che interpreta il proprio ruolo in una logica del tutto burocratica di ricollocazione di ruolo e status: la competizione è quella per fare il primo attore nella collaborazione con la classe dirigente». Il punto, ora, è superare anche la linea della Fiom di «contrastare la Fiat in ordine sparso. Perché in ordine sparso, perdi». Ci vuole, al contrario, «una piattaforma unica di rivendicazioni comuni: blocco dei licenziamenti, riduzione dell’orario di lavoro per meglio ripartirlo tra i lavoratori, un grande piano di nuovi lavori da finanziare con una montagna di nuove risorse». Quali? «Quelle derivanti dall’abolizione del debito pubblico nei confronti delle banche. Una nazionalizzazione delle banche vera, con esproprio degli azionisti e la loro messa sotto il controllo del popolo». Le polemiche pro o contro l’euro interessano poco a Ferrando. Nel senso che «l’alternativa non è tra euro e lira ma tra capitale e lavoro. Non è tra Roma e Bruxelles ma su chi comanda a Roma e a Bruxelles».

Repubblica 30.12.13
Una società senza Stato
Gli italiani: abbassate le tasse Crolla la fiducia nei partiti e l’Europa non piace più
Il sondaggio: fiducia a Colle e giudici. Letta a Renzi: no a liti fra primedonne
Sì all’elezione diretta del capo dello Stato
di Ilvo Diamanti


L’ITALIA: un Paese senza patrie, né grandi né piccole, senza riferimenti comuni e condivisi. Abitato da una società orfana delle istituzioni, ma in movimento continuo e diffuso.
ALLA ricerca di comunità, di appigli a cui attaccarsi. Per ora, con scarsi esiti. È il ritratto in chiaroscuro tratteggiato dalla XVI indagine di Demos (perRepubblica), dedicata al “rapportofra gli Italiani e lo Stato”.
1.Il primo aspetto che emerge, come si è detto, riguarda il distacco profondo dalle istituzioni politiche e di governo. Non è un fatto nuovo, ma colpisce, comunque, per le proporzioni che ha assunto. Lo Stato, le Regioni, i Comuni: le sedi del governo centrale e locale, rispetto a un anno fa, hanno perduto ulteriormente credito. Come il Presi- della Repubblica (quasi 6 punti in meno), che paga il ruolo da protagonista assunto, negli ultimi mesi. E se il Parlamento e gli stessi partiti hanno perduto pochi consensi è solo perché non hanno più molto da perdere, vista la residua dote di fiducia di cui ancora dispongono. Molto al di sotto del 10%.
2.Non deve sorprendere, allora, che si parli in modo aperto di crisi della democrazia rappresentativa. Visto che gli attori e le sedi principali della rappresentanza democratica – i partiti e il Parlamento – appaiono delegittimati. D’altra parte, quasi metà degli italiani pensa che la democrazia sia possibile “anche senza i partiti”. E forse, implici-tamente, che gli stessi partiti siano un problema per la democrazia. Mentre oltre il 30% ritiene che si possa (convenga?) rinunciare alla democrazia.
3. Bisogna, peraltro, resistere alla tentazione di considerare questo ritratto la copia di altre raffigurazioni, proposte in precedenza. A differenza del passato, non solo recente, oggi non si salva nessuno. E nessuno ci salva. Non c’è più un Presidente a cui affidarsi. Gli stessi magistrati, comunque vicini al 40% dei consensi, sono lontani dai livelli raggiunti negli anni di Tangentopoli quando sfioravano il 70% (Ispo, 1994). E se, alla fine degli anni Novanta, per “difendersi dallo Stato”ci si affidava all’Europa, oggi il problema pare, al contrario, difendersi dall’Europa. Visto che la fiducia nella UE è “caduta” di oltre 11 punti nell’ultimo anno, ma di circa 20 rispetto a 10 anni fa.
4. Così, oltre alle associazioni degli imprenditori, che, però, si posizionano in basso, nella graduatoria, le uniche istituzioni che facciano osservare un sensibile aumento della fiducia presso gli italiani sono le Forze dell’ordine (di quasi 4 punti) e, ancor più, la Chiesa (di 10). Nel primo caso, per la crescente domanda di sicurezza, in tempi tanto incerti. Nell’altro, per la capacità di Papa Francesco di “comudentenicare” valori condivisi in modo pop(olare). E di testimoniare come la Chiesa sia in grado di cambiare. Superando tensioni interne non esplicite, ma rese evidenti dalle dimissioni di Papa Benedetto XVI.
5.Il distacco dallo Stato appare così forte che l’alternativa tra ridurre le tasse e i servizi ha cambiato di segno, rispetto a pochi anni fa. Meno di dieci anni fa, nel 2005, la maggioranza degli italiani (54%) riteneva più importante potenziare i servizi. Oggi il rapporto si è rovesciato, visto che il 70% considera prioritario “ridurre le tasse”. Ciò significa che i costi del sistema pubblico sono divenuti insopportabili, agli occhidei cittadini. In-giustificabili, comunque, di fronte alla qualità dei servizi offerti.
6.Ciò è tanto più significativo – e inquietante - in tempi di crisi profonda, come questi. Il bilancio del 2013 tratteggiato dagli italiani (intervistati da Demos) appare, infatti, drammatico, più che serio. Sotto tutti i profili. Per primi: l’economia e il fisco. Poi: la politica, il reddito delle famiglie. La sicurezza. La credibilità internazionale del Paese. E se le attese per l’anno che verrà sembrano (un po’) migliori, probabilmente, è perché sperare non costa niente. E, comunque, peggio di così…D’altronde, è difficile fare previsioni, se quasi 6 persone su 10 pensano che la crisi durerà almeno altri due anni. Se circa il 53% del campione (quasi 6 punti più di un anno fa) ritiene inutile fare progetti futuri. Perché il futuro è troppo incerto. Esiste solo il presente.
7. Così non debbono suscitare sorpresa gli indici di partecipazione, assai diversi dal clima d’opinione. La sfiducia nei confronti dello Stato e delle istituzioni, la frustrazione “pubblica” e la rabbia antifiscale, l’assenza di futuro, infatti, non hanno inibito la partecipazione sociale. Al contrario. Circa 5 italiani su 10 dichiarano, infatti, di aver frequentato, nel corso del 2013, manifestazioni politiche, di tipo tradizionale e nuovo (attraverso la Rete o il consumo responsabile). Oltre 6 affermano, ancora, di essere stati coinvolti in attività di partecipazione sociale. I più giovani (15-24 anni), in particolare, mostrano un coinvolgimento molto ampio (36%) nelle manifestazioni di protesta e nelle mobilitazioni “in Rete”.
8.Da ciò il paradosso: una società effervescente e in movimento in un Paese senza riferimenti, sfiduciato di fronte a istituzioni senza fiducia. A poteri locali e territoriali sempre più delegittimati.
Ma, in effetti, il contrasto è solo apparente. Perché la mobilitazione della società costituisce, in parte, una reazione “alla” sfiducia. Riflette, dunque, la ricerca di risposte attraverso l’impegno personale e collettivo. Senza rassegnarsi alla delusione. Insieme. Perché partecipare produce legami sociali e di comunità. D’altra parte, la mobilitazione dei cittadini sottende anche una reazione “di” sfiducia: contro gli attori e le istituzioni della democrazia rappresentativa. Un fenomeno canalizzato, alle elezioni politiche, dal M5S.
Ma una partecipazione tanto estesa, in tempi di sfiducia verso lo Stato, echeggia un malessere diffuso, da cui emerge, fra l’altro, la protesta amplificata dai Forconi.
9.Dietro a tanto “movimento” della società si intuisce il vuoto lasciato dagli attori e dalle istituzioni rappresentative. Non a caso quasi 3 italiani su 4 si dicono d’accordo con l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Quasi un antidoto al distacco dai partiti e dai governi, a livello centrale e sul territorio.
10. Il clima “antipolitico” che pervade l’Italia in questo passaggio d’anno(e, forse, d’epoca), dunque, evoca il vuoto della politica e, al tempo stesso, una domanda di politica molto estesa. E altrettanto delusa. Non può durare ancora a lungo, tutto ciò, senza conseguenze. Ma per reagire in modo efficace a questa emergenza democratica occorre guardare nella direzione giusta. Perché i nemici della democrazia rappresentativa non sono solo coloro che la osteggiano apertamente. Ma, anzitutto, coloro che la tradiscono. Perché la rappresentano in modo irresponsabile. Senza efficienza e senza passione. Senza dignità

l’Unità 30.12.13
Insultata dagli animalisti, il medico: «Viva grazie ai test»
di Franca Stella


l’Unità 30.12.13
La lettera dell’Istituto Negri
Non ci sono modelli alternativi alla ricerca su animali


La Stampa 30.12.13
L’Agenzia del farmaco
«Tragedie come il Talidomide evitate dai test sugli animali»


«Dopo la Talidomide molte altre tragedie sono state evitate grazie ai rigorosi test di sicurezza che, quando strettamente controllate, coinvolgono alcune specie animali». Si rifà direttamente alla più grande tragedia prodotta da un farmaco, l’Aifa, l’agenzia italia del farmaco, per sostenere la campagna di Caterina Simonsen, la studentessa di Veterinaria diventata bersaglio degli animalisti. Venduto come sedativo e farmaco antinausea, soprattutto per le donne incinta, negli anni ’50 e ’60, il Talidomide è stato ritirato nel 1961 perché le donne davano alla luce bambini con problemi di amelia (assenza degli arti) o focomelia (riduzione delle ossa degli arti). Prima della messa in commercio, il Talidomide era stato testato sugli animali, ma in modo sbrigativo. Solo nel 1962, testando il farmaco su animali in gravidanza, si è scoperta la correlazione. Da allora i farmaci devono essere testati anche su animali in gravidanza. L’Aifa ha accolto la sua proposta di discutere con le case farmaceutiche la possibilità di apporre la dicitura: «Questo medicinale è stato testato sugli animali secondo le norme vigenti».

Corriere 30.12.13
Scienza e cavie una querelle iniziata nell’800


Nel 1864 Firenze stava per diventare la provvisoria capitale politica e intellettuale dell’Italia da poco unificata. Nel fiorentino Istituto di studi superiori venivano reclutati, per svecchiare la medicina e farle rimontare il distacco che la separava da quella dei più progrediti Paesi d’Oltralpe, alcuni luminari della scienza medica mitteleuropea, quali, fra gli altri, il fisiologo francofortese Moritz Schiff e il suo assistente Aleksandr Herzen, figlio dell’omonimo scrittore e uomo politico russo. Schiff mise subito a rumore l’intellettualità e l’opinione pubblica affermando che per far progredire la medicina era indispensabile fondarla, come le altre scienze, sul metodo sperimentale e che tale metodo, in una scienza avente per oggetto la vita umana, non poteva prescindere dalla sperimentazione sopra gli animali. Apriti cielo! Il suo saggio dal titolo «Sopra il metodo seguito negli esperimenti sugli animali» (1864) venne definito da Niccolò Tommaseo come un florilegio di «imbrogliate bestemmie germaniche» e fu vituperato dalle dame del bel mondo e dagli animalisti dell’epoca. Lo sperimentatore, dopo essere stato trascinato in tribunale, alla fine della vicenda se ne partì indignato per l’affronto subito. Il suo assistente Herzen avrebbe avuto modo, dieci anni dopo, di riabilitarne l’impresa con il saggio «Gli animali martiri e i loro protettori» (1874), negando il martirio degli animali trattati e ribadendo la necessità di una medicina sperimentalmente fondata.
Quarant’anni dopo, nel 1904, allo scienziato russo Ivan Pavlov venne assegnato il premio Nobel per la sua «Teoria dei riflessi condizionati», tra cui quelli osservati nel cane che, incannulato con un sondino nel pancreas, secerneva secreto dapprima dietro stimolo carneo, poi dietro tale stimolo associato al suono di un campanello e infine solo al suono del campanello medesimo. Il metodo pavloviano prescindeva dalle tecniche neuroanatomiche (per le quali il nostro Camillo Golgi avrebbe preso il Nobel due anni dopo), considerate valide a spiegare soltanto l’attività nervosa «elementare», e si fondava sulla osservazione del comportamento animale nella sua complessità, esplicativa dell’attività nervosa «superiore». Il metodo, basato sulla sperimentazione animale, consentirà alla fisiologia di associarsi alla psicologia e permetterà alla psicofisiologia neonata di ricercare e trovare un suo spazio peculiare destinato a essere colmato da importanti sviluppi. Il che non sarebbe avvenuto rinunciando a sperimentare, con le dovute cautela e delicatezza, sull’«amico dell’uomo».

Corriere 30.12.13
Vivisezione vietata e anestesia
Le regole delle sperimentazioni
di E. Teb.


Le cavie usate nei circa 600 laboratori italiani sono poco meno di un milione, per l’80% piccoli roditori, topi e ratti. Servono per la ricerca di base, fatta soprattutto nelle università, e poi per quella farmacologica, in cui i test sugli animali sono obbligatori. «È una questione di sicurezza: tutti i farmaci usati in Italia, prima che sull’uomo sono stati testati sugli animali», spiega Paolo de Girolamo, professore di Veterinaria a Napoli e presidente dell’Associazione italiana per le scienze degli animali da laboratorio (Aisal). Non solo le medicine che tengono in vita Caterina Simonsen, dunque, ma tutte quelle che si trovano in farmacia.
Nel dibattito sollevato dal suo caso, si è sentito spesso parlare di modelli matematici o in vitro, «alternativi» all’uso di cavie. Non è proprio così: «Questi metodi fanno già parte dei protocolli usati normalmente, ma non sono alternativi: di solito sono “precedenti”. Servono a ridurre l’uso della sperimentazione animale, che oltretutto è molto costosa», dice Marta Piscitelli, vicepresidente Aisal e responsabile del benessere animale nelle sperimentazioni all’Ente per le nuove tecnologie, l’energia e l’ambiente di Roma (una figura prevista dalla legge dal 1992). «Nella ricerca sui farmaci si parte con i modelli al computer delle nuove molecole, che simulano la loro azione, poi si passa alle colture di cellule e solo dopo ai test sugli animali: roditori e, per obbligo di legge, non roditori, che servono per i test di controllo — dice Piscitelli —. Se i farmaci non sono dannosi per loro, si testano sugli uomini». È un protocollo stabilito a livello internazionale: «Tutti vorrebbero un metodo alternativo, perché non è piacevole lavorare su animali. Ma per adesso non c’è», dice. Paradossalmente, secondo la veterinaria romana, «le case farmaceutiche avrebbero interesse a non usare gli animali: è un procedimento costoso e ritarda la produzione del farmaco di 2-3 anni». Ma è anche una garanzia per l’uomo: «Molti farmaci non superano la sperimentazione animale».
Le esigenze etiche sempre più diffuse hanno già cambiato in parte la ricerca: «Oggi si sta cercando di sostituire i roditori con un piccolo pesce di 2,5 centimetri, lo zebra fish, che ha un sistema nervoso meno sviluppato e si ritiene soffra meno», dice Piscitelli.
Non è sempre possibile: la chirurgia sperimentale, per esempio quella sui trapianti di organo, continua a usare i maiali. Oppure, soprattutto per la cardiochirurgia, piccoli ruminanti, pecore o capre. Tra gli animali da laboratorio ci sono poi gli anfibi (di solito rane) e in pochissimi casi le scimmie, su cui si testano le ricerche di neurofisiologia. «Sono meno di 100 i cani usati in tutta Italia — aggiunge Piscitelli — di solito come animali di controllo per i farmaci».
Le cavie sono essenziali anche nella ricerca di base delle università. «Ma lì già si applicano procedure molto rigorose che ricalcano la legislazione Ue», spiega Gilberto Corbellini, storico della medicina al Dipartimento di Biotecnologie de La Sapienza, a Roma. «Ogni ricerca deve essere approvata dal comitato etico del dipartimento, ne faccio parte anch’io. Verifichiamo se gli animali sono davvero necessari, che ne siano impiegati il meno possibile, non soffrano e non siano stati usati in altri esperimenti. Se il protocollo prevede il loro sacrificio, non deve essere cruento». Quella che normalmente si chiama «vivisezione» è vietata: l’asportazione di tessuti avviene sempre sotto anestesia. «I limiti imposti dal nostro comitato etico sono equivalenti a quelli che l’ospedale chiede per gli esperimenti sugli uomini. L’unica differenza è che i topi si possono sacrificare», dice Corbellini. Proprio questo, però, è uno dei punti contestati dagli animalisti: «Noi siamo contrari all’uccisione di qualsiasi essere vivente, la nostra è un’obiezione etica di fondo», spiega Claudio Pomo di «Essere animali».
Le cose sono destinate ulteriormente a cambiare con la legge approvata ad agosto. Impone sempre l’anestesia, vieta gli xenotrapianti, i test su animali in studi su alcol e droghe e di allevare cani, gatti e primati destinati agli esperimenti. Doveva essere una traduzione della direttive Ue, per uniformare la legislazione italiana a quella degli altri Paesi. «Ma è molto più restrittiva di quella madre», dicono dall’Aisal. Secondo la comunità scientifica rischia di bloccare la ricerca. Di certo ci costerà una procedura d’infrazione (e una multa) per aver violato, con i troppi limiti, le norme Ue.

La Stampa 30.12.13
Questo Paese preferisce i miti alla scienza
di Eugenia Tognotti


A ben vedere, c’è un legame, e assai stretto, tra il caso Stamina e la scomposta reazione di gruppi di animalisti e affini contro una giovane donna malata, Caterina, che per aver difeso la sperimentazione animale è stata fatta oggetto di una sequela rivoltante di insulti. Le componenti sono diverse. Si può cominciare con la sfiducia, se non la vera e propria avversione, nei confronti della scienza e degli scienziati.
Sfiducia da cui deriva la crisi dei rapporti tra scienza e società, cosicché lo sviluppo scientifico e le applicazioni tecnologiche sono percepiti come apportatori di rischi sia per l’ambiente naturale che per la salute umana. Per continuare con l’ignoranza scientifica e il vuoto di un’educazione di base da cui derivano il diffondersi e il persistere di ideologie, credenze e falsi miti, cosa che ostacola l’accesso alla conoscenza, favorendo l’assunzione di decisioni politiche dannose per il progresso (Di Bella, Ogm, e, appunto, Stamina).
Insomma, dopo il «caso Vannoni», tocca alla rovente polemica di questi giorni sull’uso degli animali da esperimento raccontare la crisi di sfiducia nella scienza. Sulla sperimentazione animale, una questione cruciale, da cui dipende la capacità di progredire nella spiegazione dei meccanismi che provocano le malattie, e, quindi, tanta parte della sofferenza umana, si vorrebbe discutere con serenità e distesamente, senza scontrarsi con un’avversione pregiudiziale agli argomenti contrari. Cominciando, ad esempio, col ricordare che gli esperimenti sugli animali hanno svolto un ruolo fondamentale in una parte grande delle scoperte mediche dell’ultimo secolo, i vaccini, gli antibiotici, gli anestetici usati in tutte le forme di chirurgia. Aggiungendo, ancora, che gran parte dei progressi nel campo delle infezioni, dell’eziologia, della patogenesi e terapia del cancro, dell’immunologia e dell’immunopatologia, della chirurgia, in modo particolare della cardiochirurgia, si devono a sperimentazioni su animali. E proseguendo col raccontare una storia che ha quasi cento anni e che rappresenta uno degli esempi più spettacolari del contributo della ricerca sugli animali per il progresso medico. Si tratta della scoperta dell’ormone insulina che ha fatto sì che molti milioni di persone affetti da diabete abbiano avuto salva la vita come del resto molti cani diabetici. Gli autori di quella straordinaria scoperta – Frederick Banting e John J. Mcleod (poi insigniti del premio Nobel) – non avrebbero mai potuto condurre i loro esperimenti in un piccolo laboratorio dell’Ontario se non avessero potuto accedere agli animali di ricerca, i cani, sottoposti alla legatura chirurgica del dotto pancreatico, che portarono ad isolare la sostanza misteriosa che avrebbe controllato il diabete –. Altri tempi, certo. Ai nostri giorni, accusano coloro che si oppongono all’uso di animali da esperimento, è possibile il ricorso a metodi alternativi (es. uso di colture in vitro ecc.), cosa che farebbe pensare che, disponendone, crudeli ricercatori, colpevolmente indifferenti alla sofferenza degli animali, non ne facciano uso, come invece avviene regolarmente negli istituti di ricerca. Il fatto è che, al momento, è impossibile riprodurre malattie generiche ricostruendo un organo in vitro o riprodurre la crescita e la disseminazione metastatica dei tumori. I ricercatori sanno fin troppo bene che la corrispondenza tra animali da esperimento e uomo non è sempre perfetta. Tuttavia, quando si ritiene plausibile l’efficacia di un nuovo farmaco per una data malattia, si procede a esperimenti pre-clinici, su animali da esperimento, per testarne la tossicità ed eventualmente l’efficacia. Solo in seguito si procede alle sperimentazioni cliniche. E’ proprio l’uso degli animali che, fornendo le prime informazioni, consente di procedere alle prove sull’uomo in accettabile sicurezza. Dovrebbero forse, quegli scienziati e quei ricercatori, testare i nuovi farmaci direttamente sugli esseri umani, uomini, donne e bambini?

Corriere 30.12.13
Contesa tra Stato e Angelucci per il pasticcio San Raffaele
Possibile risparmio di 8 milioni, loro si oppongono
di Sergio Rizzo


ROMA — Passi per l’auto di servizio. Ma perché una Jaguar? Che poi non era nemmeno blu come ogni vettura di rappresentanza che si rispetti, ma verde... Eppure era proprio una Jaguar quella su cui viaggiava il direttore della ditta dei servizi ospedalieri: con tanto di autista, ovvio. Lo prevedeva il contratto, sicuro. Ma il conto lo pagavano i contribuenti. La potente berlina inglese era uno dei tanti regalini che il ministero della Salute e la Regione Lazio avevano ereditato nel pacchetto dell’ospedale San Raffaele di Roma. Certo uno degli affari più discutibili, almeno dal punto di vista economico, che abbia mai fatto la sanità pubblica. E di cui il nodo più spinoso sta venendo al pettine in queste ore. Il braccio di fra la Regione Lazio e il gruppo che fa capo al deputato di Forza Italia Antonio Angelucci toccherà il culmine a mezzanotte del 31 dicembre, quando scadrà il contratto per la gestione di tutti i servizi del centro ospedaliero pubblico. E alle società degli Angelucci, i re delle cliniche convenzionate con il servizio sanitario, subentreranno le ditte che nei mesi scorsi hanno vinto la gara voluta dalla nuova amministrazione regionale.
Ma partiamo dall’inizio di questa storia. Alla fine degli anni Novanta il patron del San Raffaele di Milano Don Luigi Verzé potrebbe vendere allo Stato, che è alla ricerca di una nuova sede per il polo oncologico romano, il suo ospedale gemello di Roma. Il quale invece finisce nel 1999 per 270 miliardi di lire al gruppo Tosinvest della famiglia Angelucci. Passa una manciata di mesi e nel 2000 il polo oncologico del San Raffaele di Roma viene acquisito dalla sanità pubblica per 319 miliardi e 847 milioni: 50 miliardi in più rispetto a quelli pagati dai re delle cliniche appena prima. Il ministro della Sanità in carica è Umberto Veronesi, che nel governo di Giuliano Amato ha preso il posto di Rosy Bindi. È lui, come ha raccontato Alberto Nerazzini durante una puntata di Report di Milena Gabanelli, che sottoscrive con il presidente della Regione Lazio fresco di elezione Francesco Storace un accordo con il venditore che contiene una clausola micidiale: «L’ospedale pubblico subentrerà in tutti i contratti in essere». Uno, in particolare. Quello che il San Raffaele degli Angelucci ha stipulato nel mese di giugno del 2000 con un paio di società degli stessi Angelucci, delle quali una (la Natuna srl) costituita un mese prima. Con il contratto il gruppo Tosinvest affida a se stesso la gestione di tutti i servizi ospedalieri, dall’energia all’assistenza infermieristica:proprio in quei giorni le trattative con lo Stato per la cessione del San Raffaele sono in dirittura d’arrivo.
Incredibilmente, tanto il ministero della Sanità quanto la Regione Lazio accettano quelle condizioni, che impongono un gestore scelto senza gara con 266 persone assunte senza concorso. E altre cosucce. Tipo il ricorso senza limiti ai subappalti, una penale del 50 per cento del valore annuale del contratto per ogni anno di mancata esecuzione per risoluzione imputabile al committente, una durata dell’appalto di nove anni più nove, nonché la sorveglianza affidata alle stesse ditte appaltatrici, oltre alla direzione. Jaguar per il direttore compresa. Del resto, il prezzo delle prestazioni lo giustifica in pieno. Ventitré milioni 18.509 euro e 9 centesimi, secondo i calcoli della direzione degli Istituti Fisioterapici Ospitalieri (IFO). Il bello è che si è andati avanti per ben tredici anni. Con il risultato che il gruppo Angelucci ha incassato più soldi per la gestione dei servizi ospedalieri che per la vendita allo servizio sanitario pubblico dell’ospedale stesso. Per giunta, con una ulteriore clausola accessoria: quella che garantisce a una fondazione riferibile alla famiglia l’uso per 99 anni di una palazzina del complesso ospedaliero al simbolico costo di un euro l’anno.
Non che in tutti questi anni non si sia cercato di fare qualcosa. Qualche anno dopo l’acquisto del San Raffaele, per esempio, gli IFO decisero una riduzione delle prestazioni e fissarono la durata del contratto al 31 dicembre 2004. Ma con un paio di arbitrati le cose vennero rimesse subito a posto. Gli arbitri ripristinarono le condizioni iniziali, addirittura migliorandole. E aggiungendo pure una beffa: stabilendo per il contratto la scadenza del 31 dicembre 2013 anziché quella del 31 dicembre 2004. Nove anni in più.
Si è arrivati così al dunque. La nuova amministrazione regionale ha bandito una gara per l’affidamento degli stessi servizi, che è stata aggiudicata qualche mese fa a un prezzo di 14 milioni 659.320 euro e 85 centesimi l’anno. Risparmio previsto: 8 milioni 359.188 euro e 24 centesimi.
Ma non è finita qui. Dopo aver offerto uno sconto considerevole pur di conservare la gestione dei servizi ospedalieri, e in seguito al rifiuto della Regione, gli Angelucci hanno promosso l’ennesimo arbitrato. Nel quale chiedono il prolungamento, e alle medesime condizioni, del contratto che spira la notte di Capodanno per ben quattro anni e mezzo, fino al 30 giugno 2018. Se vincessero anche questo, il mancato risparmio per la sanità pubblica sarebbe di 37,6 milioni. Più annessi e connessi, ovviamente.

Corriere 30.12.13
I canoni «popolari» pagati dalle spiagge del lusso
di Marco Gasperetti


FIRENZE — I sindaci hanno dato un’occhiata al «documento fiorentino» e si sono messi le mani nei capelli. Altro che adeguamento o conguaglio, quello era un vero salasso per le casse municipali. Quasi undici milioni di euro che i Comuni più blasonati della Versilia, (Viareggio, Forte dei Marmi, Pietrasanta e Camaiore), devono sborsare all’Erario. Il motivo della stangata? «Mancato adeguamento dei canoni demaniali sulle spiagge», tuona la Corte dei conti di Firenze, ovvero l’affitto che ogni anno i proprietari degli stabilimenti balneari versano allo Stato ed è da tempo materia di scontro e polemiche anche tra Italia e Unione Europea. Secondo la Procura della Corte dei conti, infatti, almeno sino al 2007 le spiagge più lussuose della Toscana, dove trascorrono le vacanze i ricconi di tutto il mondo, risultavano classificate incredibilmente a «bassa valenza turistica». Quasi un oltraggio per le casse demaniali nelle quali confluivano affitti irrisori (anche meno di 10 mila euro l’anno) per uno dei litorali più ambiti d’Europa.
Dai calcoli della Guardia di Finanza, possedere un super bagno a Forte dei Marmi davanti alle ville dei vip del quartiere snob di Roma Imperiale, o nella modesta e operaia spiaggia del Calambrone (tra Pisa e Livorno) non faceva differenza, perché gli stabilimenti balneari versiliesi erano classificati in fascia C. E tutto questo, sempre secondo i magistrati contabili, ignorando la legge Finanziaria che aveva stabilito obbligatoriamente almeno la fascia B (media valenza turistica) per la Versilia con un pagamento annuo sempre modesto (dai 15 ai 25 mila euro) per attività altamente redditizie e una propensione al lusso.
La prima libecciata della Procura della Corte dei conti ha scompigliato la scrivania del sindaco di Viareggio (più di 3 milioni di euro da pagare e richiesta di messa in mora dell’ex dirigente del settore demanio comunale), poi ha soffiato nello studio del primo cittadino di Forte dei Marmi (2 milioni e 159 mila euro) e in settimana arriverà a Pietrasanta (3 milioni e 479 mila per Marina del mondano Twiga di Briatore) e a Camaiore (2 milioni e 89 mila per Lido dell’ex Bussoladomani). Che adesso corrono ai ripari e si difendono accusando la Regione Toscana. «È Firenze che ha il compito di stabilire la classificazione e dunque ne ha esclusiva responsabilità — spiega Umberto Buratti, sindaco di Forte dei Marmi —. I 440 stabilimenti versiliesi hanno pagato ciò che a loro è stato chiesto, nel pieno rispetto della legge. E i Comuni hanno solo riscosso, rispettando le procedure».
Il sindaco di Camaiore, Alessandro Del Dotto, mette le mani avanti: «Non sborseremo una lira. Si accertino le responsabilità e si agisca di conseguenze».
Ma di chi sono realmente le colpe? La sensazione è che il settore abbia bisogno di un riordino, di canoni equi e soprattutto di una classificazione adeguata. Pagare una concessione allo Stato alla stessa cifra con la quale in alcuni bagni di lusso un cliente paga ombrellone e cabina sembra un affronto. Come ammettono anche alcuni balneari. «È arrivato il momento di fare chiarezza — denuncia Roberto Santini, il proprietario del Bagno Piero, la spiaggia preferita da Massimo Moratti —. Tutti i bagni di Forte dei Marmi dovrebbero essere inseriti nella fascia più alta: la A. E invece oggi siamo solo in tre, io, l’Annetta e il Bagno Roma. E questo solo perché abbiamo investito, costruendo strutture che danno lavoro ai giovani. Chi invece ha risparmiato paga la metà del canone, eppure spiaggia e mare sono gli stessi».

l’Unità 30.12.13
Donna kamikaze contro la stazione di Volgograd
La jihad disperata e orgogliosa delle «vedove nere»
Hanno visto morire sotto i loro occhi mariti e fratelli
Storie agghiaccianti dall’inferno ceceno
di Umberto De Giovannangeli


Corriere 30.12.13
Quel battaglione di venti vedove nere pronte al martirio
di Guido Olimpio


Per infliggere i loro colpi, gli estremisti del Caucaso hanno creato una piccola armata. Giovani militanti, determinati e senza remore nel mietere vite di innocenti. Spesso, al loro fianco, le vedove nere. Una delle prime ricostruzioni ha indicato in Oksana Aslenova la responsabile dell’attacco a Volgograd. Altre fonti hanno poi parlato della presenza di un giovane, con uno zaino sulle spalle, e di un’altra donna tutti dilaniati dalla bomba. Se fosse confermato il ruolo di Oksana sarebbe la ripetizione di un modus operandi. Lei, che ha visto morire i suoi mariti negli scontri con i soldati, ha deciso di trasformarsi in una bomba che cammina. Ha indossato la carica esplosiva e si è fatta saltare ieri nella stazione. Lo stesso percorso di una sua amica Naida Asiyalova, responsabile di un attentato su un bus sempre nella stessa città, e di Madina Aliyeva, 25 anni, legata a due compagni «martiri» vendicati facendo strage di militari. In altri casi sono stati i mujaheddin a portare a termine la missione distruttrice o a piazzare un ordigno.
Storie di uomini e donne che si aggiungono a quelle di 46 ragazze protagoniste di attacchi suicidi nell’arco di un ventennio. Un elenco incompleto, in quanto altre sono morte senza che vi fossero testimoni o cronache a raccontarlo. Una falange strumento di lotta e simbolo di chi ritiene di non aver più speranza o futuro. Talvolta manipolate, altre volte fermamente convinte che sia giusto obbedire agli ordini di Doku Umarov, capo dell’Emirato del Caucaso, il movimento che minaccia la regione cerniera ed è deciso a sabotare i giochi olimpici a Sochi.
Gli attacchi non sono certo una sorpresa. Umarov, in estate, dopo mesi di contrasti con altri dirigenti separatisti sull’opportunità di colpire o meno i civili, ha lanciato il suo messaggio. E via Internet ha chiesto di mandare un «segnale forte» per impedire lo svolgimento delle Olimpiadi.
Alla sfida locale si è aggiunta quella internazionale. I ceceni vogliono far pagare al Cremlino l’appoggio incondizionato e decisivo in favore del regime di Damasco. I separatisti sostengono la rivolta dei fratelli siriani e non solo con le parole. Sono centinaia i volontari caucasici presenti nelle file dell’insurrezione. Una saldatura temuta da Mosca che da mesi ha mobilitato risorse importanti per proteggere i Giochi pur consapevole della difficoltà dello scontro. Così è iniziata una partita mortale. Vladimir Putin ha dato carta bianca ai servizi segreti, autorizzando l’Fsb ad una massiccia attività di controllo. Intercettazioni a tappeto, raccolta indiscriminata di dati, fermi, arresti. In Cecenia e Daghestan, oggi punto focale della tensione, hanno fatto lo stesso. Pochi giorni fa, il vice ministro degli Interni ceceno Apti Alaudinov ha esortato i suoi uomini ha usare ogni metodo: «Se avete possibilità di infilare nella tasca di un sospetto false prove, fatelo. Se volete eliminare qualcuno, uccidetelo». Repressione feroce che non porta soluzioni ma solo altro odio. Il dittatore pro-russo che regna a Grozny, Ramzan Kadyrov, è tornato a sostenere(come in passato) che Umarov fosse morto. Sortita alla quale gli avversari hanno risposto diffondendo un video, di difficile datazione, per provare il contrario.
Schermaglie ininfluenti sul corso della sfida dei militanti. Insieme ai colpi di mano, gli estremisti hanno curato l’addestramento di altri kamikaze e «vedove», forse in un centro creato lontano dalla zona operativa. Informazioni non confermate parlano di almeno venti ragazze «diplomate». In un’altra base avrebbero preparato gli uomini. È molto probabile che il massacro di Volgograd sia l’inizio della campagna. Mancando ancora più di un mese ai giochi i militanti dell’Emirato vogliono accentuare la pressione e, al tempo stesso, lanciare un messaggio ai Paesi che parteciperanno alla competizione. Mossa propagandistica e terroristica che potrebbe costare molto. A tutti.

Repubblica 30.12.13
La lettera
Ablyazov: Alma e Alua libere solo per ottenere la mia estradizione
di Mukhtar Ablyazov


QUESTA è la lettera che Mukhtar Ablyazov, detenuto nel carcere di Luynes in Francia, ha inviato a “Repubblica” attraversoi suoi legali
Caro Direttore, sono stato molto felice di vedere le foto e i video dell’arrivo di mia moglie Alma e di mia figlia Alua a Roma e del loro ricongiungimento con gli altri due miei figli. Temevo che il regime in Kazakhstan non le avrebbe mai lasciate andare. Ho un debito di gratitudine nei confronti del ministro degli Esteri Emma Bonino e di tutti i funzionari italiani che hanno chiesto il loro rientro. Riconosco anche il ruolo dei deputati e dei senatori che si sono interessati a questo caso e chehanno rappresentato la coscienza della classe dirigente politica dell’Italia. Ringrazio anche i tanti cittadini che hanno seguito la vicenda.
Venerdì scorso mia figlia, mentre era in transito all’aeroporto di Francoforte, ha incontrato una delle sue compagne di classe della scuola che ha frequentato a Casal Palocco. La madre di questa bambina ha abbracciato Alma, temeva che non le avrebbe più riviste. Ora possiamo essere ottimisti e ci auguriamo che presto mia figlia possa ritrovarsi con i suoi compagni di classe nella scuola di Roma: dopo gli eventi drammatici del 2013, spero che la sua vita torni ad essere il più normale possibile.
Riconosco che l’Italia si è assunta la responsabilità di proteggere mia moglie e mia figlia, perché sono stati commessi, contro la mia famiglia, torti deplorevoli da parte di funzionari pubblici e diplomatici stranieri sul territorio italiano. Aiutarle non è stato certo facile e ciò dimostra che è il vostro è un Paese in cui alla fine prevale il valore dei diritti umani. I rappresentanti dell’attuale regime kazako sono convinti che in Europa ci sia una realtà di doppi standard, in cui i diritti umani possano essere soppressi in cambio di vantaggi commerciali. Credono di poter comprare qualsiasi governo. Tra l’Italia e il Kazakhstan esistono molti interessi commerciali e, nonostante le minacce o i rischi di metterli in pericolo, sembra che il governo italiano sia riuscito a tenerli separati. E così hanno vinto i diritti umani e lo stato di diritto.
Alla fine il Kazakhstan ha lasciatoandare mia moglie solo temporaneamente, ponendo delle condizioni alla sua partenza. Le minacce non sono terminate ed è solo una questione di tempo prima che il regime la richiami. Sono consapevole del fatto che il regime di Nazarbayev abbia fatto questa concessione, ripristinando per un periodo la libertà di viaggiare di mia moglie, solo allo scopo di raggiungere l’obiettivo principale: garantire la mia estradizione.
Ma il fatto che oggi la mia famiglia sia al sicuro in Europa è già un passo nella direzione giusta. La storia del ritorno di mia moglie e di mia figlia dimostra che il Kazakhstan può cedere di fronte alle pressioni internazionali e che i diritti umani possono prevalere su tutto il resto.

Repubblica 30.12.13
L’anno cruciale dei Paesi Arabi
di Tahar Ben Jelloun


Il 2013 è stato un anno contrassegnato dal fallimento degli islamisti arrivati al potere. A respingerli, prima ancora che fossero restituiti alle loro moschee, e a volte associati alle carceri, è stata la maggioranza della popolazione, con le sue frequenti e decise manifestazioni. In Egitto la situazione è sconfinata nella violenza. Dopo la destituzione e l’arresto di Mohamed Morsi i suoi sostenitori si sono ribellati con ogni mezzo.
A sei mesi dalla presa del potere da parte dei militari, non si può dire che l’Egitto sia del tutto pacificato. Non dimentichiamo che quello dei Fratelli musulmani è un movimento di antica data (nato nel 1920), ben organizzato e da sempre avversato dai militari.
Oggi il Paese ha una nuova Costituzione, redatta da una commissione di 50 personalità di tutte le tendenze, tranne quella islamista. Tuttavia l’islam è tuttora religione di Stato (anche se l’8% circa della popolazione è di confessione copta; e la sharia, iscritta nella Costituzione da Sadat fin dal 1962, figura tuttora nel suo testo, che sarà sottoposto a referendum popolare il 14-15 gennaio del prossimo anno. Sempre nel 2014 saranno inoltre convocate nuove elezioni legislative e presidenziali, nella speranza di arrivare alla formazione di un governo composto da civili. Il processo iniziato con la primavera araba è dunque ben lontano dalla sua conclusione.
Gli aiuti americani (un po’ meno di 2 miliardi di dollari concessi all’epoca del trattato di pace con Israele, che riceve più del doppio di questa cifra) sono stati sospesi, mentre l’Arabia Saudita e altri Paesi del Golfo (tranne il Qatar) hanno offerto 16 miliardi ai nuovi dirigenti, che potranno così risolvere i problemi economici più urgenti.
Il re Abdallah in persona aveva confermato il proprio appoggio al nuovo potere egiziano, esortando «egiziani, arabi e musulmani ad opporsi a chiunque tenti di destabilizzare il Paese». Il suo ministro degli esteri, il principe Saud al Faisal, è stato ancora più esplicito, attribuendo ai Fratelli Musulmani la responsabilità delle violenze. I Paesi del Golfo, pure già soggetti allasharia e all’islam duro imposto dal sistema wahabita, guardano con apprensione all’avanzata dei Fratelli musulmani nel mondo, sentendosi direttamente minacciati dagli appetiti di questo movimento.
Il 2014 sarà un anno cruciale.
In Tunisia gli islamisti di Ennhada (tuttora al potere) e l’opposizione laica hanno appena designato un nuovo premier, nella persona dell’attuale ministro dell’industria Mehdi Jomaâ, chiamato a presiedere un governo apolitico ad interim e a preparare le elezioni previste per il primo trimestre 2014. Lo stato d’emergenza è stato prorogato. Anche qui, come in Egitto, il turismo è ridotto ai minimi termini; il governo islamista non è riuscito a eliminare il terrorismo degli estremisti salafiti. Il paese vive tuttora nell’instabilità, anche se si aspetta molto dalla nuova costituzione, il cui testo non è stato ancora ultimato.
Anche in Tunisia, come in Egitto, nel 2014 le promesse democratiche verranno messe alla prova dei fatti. Il 14 dicembre 2013 è stata adottata una legge sulla «giustizia transizionale», ispirata alle esperienze di Paesi quali il Marocco e il Sudafrica, che dopo decenni di repressione hanno optato per la riconciliazione e la giustizia. Si tratta di un progresso sulla via del risanamento politico del Paese.
Mentre per l’Egitto e la Tunisia il 2014 potrebbe essere l’anno della stabilizzazione e della pace, sta guadagnando terreno, a quanto pare, il piano iraniano e russo per sostenere Bashar al Assad, e soprattutto per trasformare l’opposizione dei ribelli in un campo di battaglia tra islamisti estremisti e laici democratici. Questi ultimi non ricevono aiuti né dall’Europa, né dagli Stati Uniti. È strano e paradossale che l’Iran combatta sul terreno contro formazioni islamiste sostenute dal Qatar e dall’Arabia Saudita, mentre Hezbollah, partito di Dio, armato e finanziato dall’Iran, si schiera a fianco di Assad. La mossa geniale di Putin è stata quella di spingere Assad a sottrarre ai ribelli ogni credibilità e legittimità infiltrando i loro ranghi di estremisti che minacciano la comunità cristiana in Siria. Questo scenario ha funzionato così bene da indurre alla prudenza gli avversari di Bashar, convincendoli a non sostenere una rivolta che in caso di vittoria porterebbe al potere una repubblica islamica in cui troverebbero posto anche i rappresentanti di Al Qaida. Dopo quasi due anni e mezzo di scontri armati con oltre 120.000 morti, in maggioranza civili, e milioni di rifugiati siriani in Libano e nel resto del Medio Oriente, Bashar al Assad sta vincendo la sua guerra contro il suo stesso popolo. Frattanto gli occidentali assistono inerti a questa tragedia in cui trionfa il male assoluto.
Il 2014 vedrà forse la vittoria del crimine e la sua legittimazione. E sarà una vergogna per la nazioni civili. Diranno: «la situazione era complessa», per giustificare una passività che accelera questa vittoria infamante. Quanto ai Paesi arabi, hanno responsabilità enormi. Va detto che ognuno di essi era occupato a ristabilire l’ordine nelle proprie piazze. La Lega degli Stati arabi si è dimostrata più volte incapace di qualunque intervento nella regione. I popoli lo sanno, e a volte ignorano persino l’esistenza di quest’istituzione, utile solo ai suoi membri: i quali parlano, parlano e non fanno nulla.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

il Fatto 30.12.13
Nelson Mandela le orme vuote di un grande uomo
di Michele Concina


DOPO MADIBA, DUE PRESIDENTI INCAPACI DI RACCOGLIERNE L’EREDITÀ, CHE SI COSTRUISCONO REGGE MENTRE IL SUDAFRICA FRANA. LA SPERANZA È LA VEDOVA DI BIKO

Non è scritto da nessuna parte che la storia, quando ti passa accanto, debba camminare a passo misurato e solenne, scrutare l’orizzonte con occhi severi, declamare con voce stentorea frasi immortali, indossare un doppiopetto grigio. Quella sera d’aprile del 1994, a Johannesburg, la storia era un anziano gentiluomo in camicione colorato. Agitava i gomiti nel toyi-toyi, la danza della lotta e ora della vittoria; sorrideva felice come un bambino. Aveva appena cambiato il mondo.
Nelson Mandela festeggiava la larga vittoria del suo partito, l’African National Congress, nelle prime vere elezioni della storia sudafricana; la fine del regime di segregazione razziale, grottesco e feroce. Scriveva la prima pagina di un bel libro, di quelli che ti mettono di buon umore.
UNA STORIA MAGNIFICA finita cinque anni dopo. In una sala quasi uguale, sempre a Johannesburg, ma sembrava di stare su un altro pianeta. Un pezzo di ghiaccio vestito a Savile Row, di nome Thabo Mbeki, assumeva la presidenza; Mandela si relegava volontariamente nel ruolo di santo laico. In quella serata senza danze e senza sorrisi, dall’atmosfera vagamente sovietica, s’intuiva il Sudafrica in arrivo, il Sudafrica di oggi. La poesia sublime virava in prosa scadente. La nazione arcobaleno s’immiseriva in Stato a due colori, il bianco e il nero delle due caste che si spartiscono soldi e potere.
Mandela, però, restava vivo. E per quindici anni ha funzionato da attenuante generica per una classe politica in gran parte corrotta e incapace.
Fra poche ore comincia il 2014, il ventennale della fine dell’apartheid. La cifra tonda stimola confronti fra quel tempo e questo, con esiti impietosi. Nel 1994 il 45,6 per cento della popolazione era al di sotto della soglia di povertà sudafricana, 43 dollari al mese; oggi di più, 47 per cento. I Paesi che vent’anni fa erano allo stesso livello in termini di prodotto interno lordo per abitante sono decollati, lasciando il Sudafrica parecchio indietro: così la Polonia, la Malaysia, il Cile, e addirittura un vicino, il Botswana. Il tasso di disoccupazione supera il 25 per cento. Ma soprattutto, il Sudafrica fa parte del gruppo dei dieci Paesi più diseguali al mondo, quelli in cui le ricchezze sono più concentrate in poche mani.
La storia esemplare è quella del massacro di Marikana, il 16 agosto del 2012. Una moltitudine di minatori in sciopero aveva occupato un’altura accanto alla miniera di platino, la terza più grande del pianeta, e affrontato la polizia sguainando il panga, l’equivalente africano del machete. Dall’altra parte, uomini dalla pelle altrettanto nera, ma in divisa, risposero sparando: 34 morti, il peggior massacro dalla fine dell’apartheid.
Non molti, fuori dal Sudafrica, andarono a spulciare i registri societari della Lonmin, la multinazionale proprietaria della miniera. Per verificare che presidente, amministratore delegato e direttore generale erano bianchi, e bianchi tutti i consiglieri d’amministrazione. Tranne uno, Cyril Ramaphosa. Fondatore del sindacato dei minatori, poi vicepresidente dell’Anc; impegnato, nel frattempo, in una carriera da businessman che ne ha fatto uno degli uomini più ricchi del Paese, con un patrimonio che Forbes ha stimato in 675 milioni di dollari. Il giorno prima della sparatoria, Ramaphosa aveva chiesto pubblicamente di “passare all’azione” contro gli scioperanti, colpevoli di un “comportamento codardo e criminale”. Chissà se Mandela ha mai saputo qualcosa della strage. Certo non si è reso conto, aggrappato agli ultimi spiccioli di vita, che quattro mesi fa, alla commemorazione, le sedie riservate ai rappresentanti del governo e dell’Anc sono rimaste vuote. Né che in questa vicenda, forse, è scritto il futuro del Paese che ha amato tanto.
La presa ferrea dell’Anc sul potere, nel dopo-apartheid, si basa sull’alleanza con due partner fedelissimi: il Partito comunista in via d’estinzione e il Cosatu, la federazione sindacale. Elezione dopo elezione, il partito che può sbandierare lo slogan “fondato da Nelson Mandela” ha incamerato finora due terzi dei voti, o più. Il presidente sudafricano non viene scelto ai seggi, ma nei congressi dell’Anc, attraverso negoziati sottobanco fra le lobby affaristiche e sindacali, in un’atmosfera avvelenata dai ricatti e dagli sviluppi altalenanti delle indagini giudiziarie sui notabili del partito.
In questo modo, nel 2008, Mbeki fu spodestato dal presidente oggi in carica, Jacob Zuma, un populista chiassoso e inefficiente. Un anno fa l’ultimo congresso Anc lo ha riconfermato: sarà candidato alle elezioni del 2014, e probabilmente le vincerà. Ma forse non così facilmente come è successo finora.
Ai funerali di Mandela nello stadio di Soweto, davanti alle telecamere di tutto il mondo, Zuma è stato rumorosamente contestato. Poche ore dopo, un sondaggio appena sfornato confermava: il 51 per cento dei sudafricani pensa che dovrebbe dimettersi. Effetto dell’ennesimo scandalo: i 27 milioni di dollari spesi dallo Stato per trasformare la sua casa natale a Nkandla in una reggia da magnate del cinema: decine di padiglioni, pista d’atterraggio per elicotteri, piscina, campi da tennis e da calcio, bunker sotterranei. Il tutto giustificato dalle classiche “esigenze di sicurezza”; inclusi i nuovi recinti per il bestiame. Suona familiare?
LA CASTA SUDAFRICANA ha superato indenne decine di scandali del genere, ma questa volta lo scenario è diverso. Intanto, morto Mandela, non si può spacciare il suo silenzio per tacito perdono. Poi, la strage di Marikana ha lasciato strascichi: l’acquiescenza pressoché sovietica del sindacato ufficiale ha dato molto spazio a un’altra organizzazione di lavoratori, non legata a doppio filo all’Anc e al governo. Di conseguenza, nella federazione sindacale Cosatu si discute apertamente l’opportunità di fondare un vero e proprio partito laburista, per contendere all’Anc il voto nero.
Sul quale già adesso, comunque, il monopolio dell’African National Congress è meno garantito. All’opposizione non ci sono più solo i centristi della Democratic Alliance, che pochi neri votano perché passa per un partito troppo bianco. Julius Malema, ex leader della lega giovanile dell’Anc, espulso per insubordinazione (con sottofondo di malversazioni d’ordinanza), ha formato un suo partito estremista, battezzato Economic Freedom Fighters; ripropone le ricette che hanno devastato lo Zimbabwe di Robert Mugabe.
La novità, tuttavia, è un partito di centro-sinistra chiamato Agang, che in lingua Sotho significa “costruire”. Lo ha fondato pochi mesi fa una persona che per l’Anc sarà difficile far passare per strumento di una cospirazione bianca: Mamphela Ramphele. É la vedova di Steve Biko, il più famoso martire dell’apartheid, e ha lottato al suo fianco. É un medico, è stata vice-rettore dell’università di Capetown e dirigente di vertice della Banca mondiale. Propone, fra l’altro, forme più dirette di democrazia, e lotta senza quartiere alla corruzione. Non è Mandela, ma gli somiglia assai più di Zuma.

il Fatto 30.12.13
Sognatori e anti-imperialisti: i leader di un’altra Africa


Idealisti, combattenti, sognatori di un’Africa unita e libera dal dominio coloniale, anti-imperialisti, radicali o moderati e perfino poeti. Molte le grandi figure politiche che hanno accompagnato in altri Paesi del continente africano, le lotte di Nelson Mandela in Sud Africa. Come Madiba, molti di loro rappresentano ormai un simbolo e sono stati arruolati dalla storia come icone. Anche se non sempre gli ideali per cui hanno lottato sono riusciti a compiersi pienamente.
UNA FIGURA GRANDE al tempo stesso controversa è quella di Jomo Kenyatta, padre fondatore del moderno Kenya, nato all’epoca del dominio coloniale, quando il suo Paese si chiamava ancora British East Africa. Intellettuale e giornalista a Londra, prima e dopo la seconda guerra mondiale, dove entra anche in contatto con diversi movimenti di lotta al colonialismo, Kenyatta fa ritorno a Nairobi nel 1947 per diventare leader del movimento indipendentista Kenian African Union, che verrà messo fuori legge pochi anni dopo all’epoca della rivolta dei Mau Mau. Considerato dai britannici un sovversivo vicino alla rivolta, Kenyatta viene arrestato e sconterà quasi sette anni di prigione fatti di isolamento e lavori forzati. Ma come è accaduto per Nelson Mandela – figura a cui però il moderato e atratti autocratico leader keniota non può essere veramente accostato l’esperienza del carcere lo rafforza politicamente. Dopo quasi un decennio di lotte dei kenyoti, la Gran Bretagna cede il passo. Il leader combattente diventa primo ministro nel 1963 (quando temporaneamente la regina Elisabetta mantiene il titolo di Queen of Kenya) e poi primo presidente del Kenya repubblicano dal 12 dicembre 1964 alla sua morte, avvenuta quattordici anni dopo. Oggi il Kenya è probabilmente una nazione moderna e relativamente ricca anche grazie a lui. Tra luci ed ombre, però, di un liberatore che non mancava di tratti autoritari, che non ha risolto i molti conflitti etnici che agitano il Paese ed ha però lasciato dopo di sé una dinastia: suo figlio Uhuru è infatti il quarto e attuale presidente del Kenya. Il panafricanismo che Kenyatta aveva inoculato da giovane vede in Kwame Nkrumah, leader dell’indipendentismo ghanese, il principale ideologo. Nkrumah però non voleva la “rivoluzione” anti-coloniale in un solo Paese, dato che, come ripeteva spesso, “l’indipendenza del Ghana non avrebbe senso se non insieme alla liberazione di tutta l’Africa”. Prima tra le colonie subsahariane a rendersi indipendente dall’impero britannico nel 1957, l’ex Costa d’Oro francese sperimenta sotto Nkrumah la ricetta del socialismo africano, condita con il classico ingrediente del dirigismo statale in economia. Il leader ghanese chiama per primo a raccolta ad Accra nel 1958 le nazioni del continente in piena fase di decolonizzazione perseguendo così il suo programma di un’Africa in lotta contro il colonialismo – per lui, evidentemente, l’ultima fase del capitalismo. La sua avventura politica svanisce però presto: un colpo di stato nel 1966 lo costringe all’esilio, fino alla morte avvenuta sei anni dopo nella cupa Romania di Ceaucescu. Nonostante le accuse di autoritarismo e scarso rispetto degli standard democratici, è la britannica BBC nel 1999 a rivelare i risultati di un sondaggio tra gli ascoltatori del servizio radio dedicato all’Africa. Nkrumah è votato “uomo del millennio”, simbolo di libertà in quanto leader del primo Paese africano ad emanciparsi dal colonialismo bianco.
Grande combattente pacifista è stato Julius Kambarage Nyerere che può essere considerato il fondatore della Tanzania moderna e indipendente. Insegnante prima di diventare politico – tanto da essere ricordato con il nome di Mwalimu, ovvero maestro nella lingua locale –, dal 1952 studia storia ed economia all’università di Edimburgo. Proprio in Scozia entra in contatto con il pensiero socialista dei Fabiani. La sua versione umanitaria e dialogante di socialismo sarà applicata all’emancipazione africana, che per Neyerere significherà sì panafricanismo ma in versione di non allineamento internazionale piuttosto lontana da quella sperimentata in Ghana da Nkrumah, ricca invece di assonanze con il sudafricano African National Congress. Presidente dal ’64 all’’85, Nyerere muore di leucemia in un ospedale di Londra nel ’99. Fervente cattolico considerato da tutti una figura politica caratterizzata dalla grande onestà personale, il presidente della Tanzania potrebbe diventare anche santo un giorno, dato che dal 2005 è aperta la causa di beatificazione.
EROICA E TRAGICA la figura dell’eroe congolese Patrice Lumumba, a cui è toccata la beffa di essere presidente per meno di un anno. Quando il Belgio concede un’indipendenza di facciata al Congo nel giugno 1960, l’allora 35enne leader anti-coloniale gioca fino in fondo la sua partita cominciando dall’esercito, che Lumumba vuole composto di africani. Pochi mesi dopo, grazie alle trame del Belgio che aveva fatto il possibile per indebolire il leader rivoluzionario, sarà un giovane militare di nome Mobutu a estromettere l’eroe dell’indipendenza. Un colpo di stato, quello del dittatore, che lo manterrà al potere fino al ’97. Mentre Lumumba finirà giustiziato, e il suo corpo sciolto nell’acido, all’alba del 1961.
Altro simbolo del panafricanismo è Thomas Sankara, primo presidente del piccolo Burkina Faso negli anni ’80. Un po’ come Nyerere e Lumumba e forse perfino più di loro, Sankara è stato un rivoluzionario amato e carismatico, che si è guadagnato il rispetto del popolo per la sua personale onestà e umiltà, e per il suo impegno ideale costante per il progresso materiali dei popoli africani. Diversamente dai precedenti, però, Sankara era prima un guerrigliero che un politico, tanto da meritarsi il soprannome di “Che Guevara africano”. Con il Che condivide sicuramente un tempo molto breve passato al governo. Nel 1987, dopo circa 3 anni al potere, Sankara viene deposto e assassinato dal suo braccio destro, Blaise Compaoré. Allora il colpo di stato andò a buon fine grazie al sostegno di francesi e americani. E Compaoré governa ancora oggi il piccolo e travagliato Burkina.
PRIMO LEADER DEL Senegal post-coloniale, Léopold Sédar Senghor è una figura di politico decisamente singolare. Presidente in carica dal 1960 al 1980, già deputato all’Assemblea nazionale francese dal 1946, Senghor ha letteralmente scritto in poesia il proprio programma politico, fatto di socialismo, umanismo e emancipazione dei popoli africani attraverso la presa di coscienza della loro negritudine Con questo nome, infatti, Senghor aveva battezato il movimento letterario che lui, con altri, aveva contribuito a creare. “Négritude”, scrive in francese il leader poeta, “è la coscienza di esser nero...è innanzitutto una negazione: il rifiuto di assimilarsi e di perdersi nell’altro”. Ovvero il cuore di quell’identità irriducibile all’imperialismo occidentale per cui tanti in tutta l’Africa hanno lottato.

La Stampa 30.12.13
Francia, ecco la tassa sui Paperoni Ma la pagheranno le aziende
Imposta al 75% sugli stipendi oltre il milione. Insorgono la squadre di calcio
di E. St.


LEGGE RIVISTA DOPO LA BOCCIATURA DEL 2012, C’È IL SÌ DEL CONSIGLIO COSTITUZIONALE

PARIGI La tassa al 75% sugli stipendi oltre il milione di euro in Francia si farà, ma a pagarla saranno le aziende. Il Consiglio costituzionale ha dato il via libera alla versione emendata del provvedimento, in cui la maxi aliquota non pesa più sul beneficiario del salario, ma sull’impresa.
La decisione fa tirare un sospiro di sollievo al presidente François Hollande, che un anno fa si era visto bocciare per «mancato rispetto del principio di equità» una prima versione della misura, secondo cui la supertassa l’avrebbero pagata i singoli. La guerra a retribuzioni e bonus stellari era stata una delle promesse elettorali del candidato socialista, e il governo si era da subito affrettato a inserire una misura ad hoc nella finanziaria. Secondo quel primo provvedimento, per i due anni successivi, chiunque percepisse un salario superiore al milione avrebbe dovuto pagare un’imposta sul reddito al 75%. La misura aveva carattere «transitorio», legato all’uscita dalla crisi.Sulla questione era subito scoppiata una violenta polemica. «Il governo vuole
stigmatizzare i ricchi dichiarava l’opposizione e far gravare sulle loro spalle la sua incapacità di risanare i conti». Per sfuggire a quella che ritenevano un’ingiustizia, alcuni vip avevano annunciato l’intenzione di lasciare la Francia. Il primo era stato l’attore Gerard Depardieu, trasferitosi prima in Belgio e poi in Russia. Ma anche il patron del colosso del lusso Lvmh, Bernard Arnault, aveva tentato di strappare la cittadinanza belga, ottenendo però un rifiuto dalla commissione per le naturalizzazioni.
Poi il Consiglio costituzionale aveva bocciato il provvedimento perché «iniquo». E così si è arrivati alla nuova versione del testo, in cui l’onere della maxi imposta grava sulle aziende. Un cambiamento che ha scatenato una nuova rivolta: quella delle squadre di calcio, Paris SaintGermain in testa, infuriate all’idea di dover pagare una tassa tanto gravsa sugli ingaggi delle loro star.

La Stampa 30.12.13
Svolta storica negli Stati Uniti
Da gennaio anche i gay nei boy scout


L’associazione dei boy scout americani aprirà dal primo gennaio le iscrizioni a ragazzi e ragazze dichiaratamente omosessuali. Negli ultimi mesi alcune chiese e associazioni avevano deciso proprio per prevenire questa scelta di cessare il sostegno ai boy Scout. Tuttavia sia la Chiesa cattolica sia quella dei mormoni hanno mantenuto i legami e come il portavoce degli Scout alla fine non «ci sono state grandi defezioni».

La Stampa 30.12.13
“In Afghanistan torneranno i taleban”
L’intelligence Usa pessimista sul futuro del Paese: guerra inutile, nel 2017 le città in mano ai fondamentalisti
di Paolo Mastrolilli


L’Afghanistan rischia di essere perduto entro il 2017, rigettato sotto il controllo dei taleban e dei signori della guerra. L’allarme è contenuto nell’ultima National Intelligence Estimate, ossia l’analisi prodotta dalle 16 agenzie di intelligence americane, che periodicamente rivedono in maniera congiunta la situazione nelle zone più calde del pianeta. Un pericolo che diventa certezza se Washington non riuscirà a definire l’accordo con Kabul per conservare una presenza militare ed economica nel Paese, dopo il ritiro programmato nel 2014.
La Nie che contiene queste previsioni «nere» non è pubblica, ma il «Washington Post» ha parlato con diverse persone che l’hanno letta. Secondo queste fonti «la situazione si deteriorerà rapidamente, in assenza di una continua presenza e di un continuo supporto finanziario». L’amministrazione Obama ha deciso di completare il ritiro dall’Afghanistan durante l’anno prossimo, ma a differenza di quanto è accaduto con l’Iraq, che proprio nelle ultime settimane è tornato a chiedere aiuto a Washington, vorrebbe conservare una presenza militare ridotta nel Paese.
Queste forze avrebbero due obiettivi: primo, condurre operazioni in proprio, dove le ritenessero necessarie per contrastare il ritorno dei terroristi; secondo, sostenere il governo e continuare l’addestramento delle forze di sicurezza locali. Si tratta di un compito vitale, a cui è legato il proseguimento dei finanziamenti per lo sviluppo dell’Afghanistan, e anche l’Italia dovrebbe dare il suo contributo.
Secondo le agenzie di intelligence americane, però, senza un accordo con Kabul la situazione peggiorerà molto in fretta. La Nie non dice quali sono i territori più a rischio, ma prevede che tutti i risultati ottenuti dalla coalizione internazionale svaniranno entro il 2017. Nel giro di tre anni, in sostanza, l’Afghanistan tornerebbe sotto l’influenza dei taleban e dei signori della guerra, con il governo centrale sempre più incapace di controllare la situazione. Le stime più pessimistiche prevedono la caduta di diverse città, e forse della stessa capitale. A quel punto il Paese tornerebbe a essere una base terroristica.
Le indiscrezioni sulla National Intelligence Estimate probabilmente hanno lo scopo di alzare la pressione sul presidente Karzai, affinché firmi l’accordo con Washington entro le elezioni dell’anno prossimo, rinunciando a quelle che gli americani definiscono «pretese irrealistiche». Nello stesso tempo, però, il documento sembra anche una critica della «surge» che Obama aveva affidato al generale Petraeus nel 2009, perché non ha dato risultati duraturi.
Non tutti condividono il succo dell’analisi dell’intelligence. Fonti dell’amministrazione hanno detto al «Post» che le Nie sono solo uno degli strumenti a disposizione per l’analisi. Militari e diplomatici hanno visioni diverse, e pensano che i servizi sottovalutino le forze di sicurezza locali. Pochi, però, negano i rischi legati al mancato accordo per conservare una presenza militare sul terreno.

l’Unità 30.12.13
Italia, un popolo di navigatori ma non su Internet
di Carlo Buttaroni


l’Unità 30.12.13
L’innovazione? La finanzia lo Stato
È stata la formula vincente degli States come svela il libro di Mazzucato
di Pietro Greco


Corriere 30.12.13
Marco Cavallo torna a correre
Quarant’anni fa il viaggio che portò alla chiusura dei manicomi
Ora l’animale di cartapesta blu grida contro gli ospedali giudiziari
Una conversazione con Peppe Dell’Acqua
di Claudio Magris


Come Ronzinante, il destriero di don Chisciotte, Marco Cavallo è uscito dalla sua casa e si è avventurato per le strade del mondo col suo ostinato messaggio di liberazione e di cavalleria, che non si lascia intimidire dalle tante difficoltà incontrate per strada. Marco Cavallo è il grande cavallo azzurro di cartapesta che nel 1973 uscì, rompendo il muro, dall’ospedale psichiatrico di San Giovanni a Trieste, per simboleggiare la libertà che si apriva per molte persone, che cinque anni dopo avrebbero ritrovato, con la legge 180 che aboliva i tradizionali manicomi, diritti e dignità. Diritti e dignità ridati a persone che vivevano spesso in condizioni subumane — certo diverse da ospedale a ospedale, a seconda di chi li dirigeva, ma spesso intollerabili. Non solo pazienti affetti da disturbi psichici (mai negati, come spesso falsamente si dice, dalla nuova psichiatria riassunta nel nome di Basaglia) ma anche disadattati, infelici, asociali, alcolizzati. Marco Cavallo è stato e rimane il simbolo gioioso di questa possibilità d’incontro, di libertà; perfino di comune allegria. Oggi il territorio del vecchio ospedale psichiatrico di San Giovanni a Trieste è un luogo amabile e sereno, che ospita istituti universitari, mostre, roseti, ristoranti; anche poche abitazioni per ex ricoverati che dopo tanti anni passati in quel luogo non se la sentono di cambiare casa, ma preferiscono restare in un posto loro familiare e divenuto lieve e accogliente.
Tra il 12 e il 25 novembre scorso la cavalcata ha portato Marco Cavallo nei sei Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) di Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa, Napoli, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere, e poi Torino, Genova, Livorno, Palermo, Roma, L’Aquila, Firenze, Milano. Il cavallo, incoraggiato dalla bella lettera e dalla medaglia del presidente della Repubblica, si è incontrato con i sindaci, con i presidenti del Senato e della Camera e con la gente.
A organizzare il lungo viaggio il comitato Stopopg, un cartello di decine di istituti e associazioni dalla Cgil ai familiari, ad Antigone, a Cittadinanza attiva, insieme alle Edizioni Alpha Beta con la «Collana 180. Archivio critico della salute mentale». A guidare, in ogni senso, questa cavalcata è stato Peppe Dell’Acqua, uno dei primi e fondamentali collaboratori di Basaglia, direttore sino a poco tempo fa del Dipartimento di salute mentale di Trieste e animato da una passione civile e da una competenza terapeutica accompagnata da un’affettuosa, ironica, umanissima attenzione alla vita, immune da ogni «ideologia». Perché, chiedo a Peppe Dell’Acqua incontrandolo in un caffè triestino, questo viaggio adesso?
Dell’Acqua — Il sostegno non comune di un grande sindacato e del responsabile nazionale Stefano Cecconi, conferisce un significato in più all’impresa. Quarant’anni fa l’uscita del Cavallo fu solo l’inizio. La critica alle istituzioni totali e il loro superamento continuano a essere nella prospettiva senza fine di quell’inizio. Di fronte alla persistenza degli Opg e alla fatica di avviare processi reali di chiusura, il Cavallo non ha potuto restare fermo. Vuole evitare che un’occasione storica, che nasce dall’inchiesta della commissione Marino, venga perduta. O peggio si trasformi in una paradossale riproposizione dei peggiori dispositivi — la pericolosità sociale, la misura di sicurezza e la negazione della soggettività — che un secolo e mezzo fa hanno fondato i manicomi criminali. Mi riferisco alla proposta governativa di costruire, nelle singole regioni, piccoli ospedali psichiatrici mantenendo una cultura psichiatrica clinico-biologica e una legislazione, il Codice Rocco del 1930, che riprodurrebbe gli stessi meccanismi degli istituti che vuole superare. Il vero cruccio del Cavallo sono i 160 milioni che verrebbero investiti per riadattare carceri di massima sicurezza e padiglioni dei manicomi vuoti, rinnovando, in piccole strutture regionali, l’arcaica e infondata triade concettuale: malattia mentale, pericolosità sociale, internamento. Non sarà infatti la frammentazione dagli attuali Opg a tanti mini Opg a risolvere il problema, quanto piuttosto l’impegno di Regioni, Dipartimenti di salute mentale e Tribunali nel mettere in atto risorse e progetti individuali con i quali garantire attenzione alla sicurezza sociale e, al tempo stesso, nel promuovere percorsi individuali di cura.
Magris — Lo scopo principale di questa sortita di Marco Cavallo mi sembra sia stata l’urgenza di richiamare l’attenzione sugli Opg, la cui situazione di disagio, di promiscuità, di pudore violato, di diffidenza reciproca degli internati tu descrivi con un’intensità che lascia il segno. Qual è l’alternativa? Uno dei meriti della legge 180 è stato affermare i diritti costituzionali anche per i malati di mente, contemplando in prospettiva la responsabilità e la conseguente punibilità del malato per eventuali reati commessi. Infatti la responsabilità, in ogni senso, fa parte dell’essere umano e della sua dignità. Ricordo che una volta Basaglia disse che il malato mentale non può permettersi di disturbare, schiamazzando di notte, il sonno dei vicini. L’attenzione ai suoi diritti e alle sue sofferenze non va confusa con un paternalistico buonismo; Agostino Pirella, direttore dell’Ospedale psichiatrico di Gorizia dopo Basaglia, a un malato che gli aveva detto «Lei è una merda», non porse l’altra guancia, ma rispose: «No, guardi, una merda sarà lei». In che rapporto sta la richiesta di chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari con la situazione dei malati che hanno commesso reati? Quale sarà o dovrebbe essere la loro condizione?
Dell’Acqua — «Lo Stato deve occuparsi dei cittadini per ciò che fanno o per ciò che sono?» si chiedeva Michel Foucault. La chiusura degli Opg va intesa come un banale e irrinunciabile atto di giustizia. Il presidente Napolitano, nel suo messaggio alla nazione del 31 dicembre 2012, li definì «luoghi orrendi, non degni di u n Paese appena civile». Alla fine del viaggio, devo dire che l’orrore non sta solo nella fatiscenza degli ambienti, ma soprattutto nell’insensatezza assoluta che i dispositivi psichiatrici e giuridici concorrono a riprodurre. L’internato vive una costante condizione di disinformazione, di precarietà, di sospensione. Scriveva Basaglia: «È interessante notare che il reo non viene inviato in carcere perché non può comprendere ciò che significa pena e rieducazione. Viene allora inviato in manicomio giudiziario, dove sotto forma di cura espia in realtà una pena che capisce ancora meno». Due recenti sentenze della Corte Costituzionale hanno tentato di riportare nello stato di diritto la condizione del «folle reo». Deve essere garantita la stessa cura che riceve un altro cittadino con la stessa malattia e che non ha commesso un reato, quasi intimando a giudici di sorveglianza, a giudici di merito e aziende sanitarie la presa in carico e la cura di quel cittadino evitando l’invio «per cura» nell’Opg. Se dal 1978 gli ospedali psichiatrici non sono più «cura» per i cittadini liberi che soffrono di un disturbo mentale, tanto meno possono esserlo gli Opg per chi è ritenuto malato e «incapace». Nella prospettiva del cambiamento dobbiamo adoperarci perché il «folle reo» possa essere di norma «capace» e responsabile, e portato in giudizio. E, se colpevole, condannato. L’erogazione della pena, pur potendo e dovendo considerarsi il carcere, dovrà articolarsi attraverso misure alternative che prevedano l’impegno delle comunità locali, dei centri di salute mentale, delle reti sociali, di risorse finalizzate al progetto per la persona.
Magris — Mi sembra fondamentale la richiesta di aprire i centri di salute mentale 24 ore su 24, perché le crisi psichiche, che possono avere gravi conseguenze per il malato e per altri, non hanno orario sindacale. È pensabile un’apertura dei centri di salute mentale 24 ore su 24 in tutto il territorio nazionale? Ho anche l’impressione che non tutti i centri funzionino con la medesima efficienza, ma che vi siano notevoli differenze fra l’uno e l’altro, come ho avuto casualmente modo di vedere, constatando sia notevolissimi risultati sia disfunzioni e carenze, anche esiti tragici di pazienti pur curati in un centro di salute mentale. Non c’è forse ogni tanto un certo trionfalismo, che parla poco di ciò che resta da fare e che presta poca attenzione a chi — come inevitabilmente accade e come oggi accade molto meno di una volta, molto meno che all’epoca dei manicomi chiusi — resta vittima di una crisi di violenza da parte di un malato? Non si rischia una visione manichea, che considera tutti gli psichiatri non appartenenti al movimento basagliano dei repressori, mentre — certo accanto ad alcuni autentici repressori — ce n’erano di aperti e illuminati, che facevano il possibile?
Dell’Acqua — È sempre bene precisare che sono davvero pochi gli psichiatri che si dicono appartenenti al movimento basagliano e non tutti, dentro questa definizione, agiscono secondo pratiche conseguenti. Molti giovani operatori tuttavia sono affascinati da quella cultura e con fatica nella pratica quotidiana cercano di essere conseguenti. È vero invece che le parole, le forme organizzative e le proposte di quel movimento sono molto diffuse e pesano. Una cultura che riesce, malgrado tutto, a porre prima di tutto limiti etici nell’agire psichiatrico. Nel lavoro di salute mentale, oggi, non è più possibile prescindere dal lavoro di Basaglia e le buone pratiche sono alla portata di tutti. E tuttavia oggi possiamo contare 20 servizi sanitari regionali differenti. Lo stesso diritto costituzionale alla cura e alla salute nel rispetto della dignità e della libertà della persona (art. 32 della Costituzione) può essere esercitato in alcune Regioni mentre è negato in altre. Il Cavallo è partito da Trieste avendo nell’ordine tre grandi obiettivi: chiusura degli Opg, contrasto ai mini Opg, attivazione di Centri di salute mentale (Csm) sulle 24 ore su tutto il territorio nazionale. Alla fine del viaggio è diventato chiaro che bisogna riaccendere l’attenzione sullo stato sempre più preoccupante dei servizi di salute mentale.
È chiaro come all’assenza o al malfunzionamento dei servizi consegua l’Opg. In Italia, oggi, circa 18 persone su 1 milione sono internate in Opg. In Friuli-Venezia Giulia e in altre aree dove esiste una diffusa rete di servizi diventano meno di un terzo e a Trieste da 5 anni nessun cittadino è internato. Ci sono Regioni dove più di 30 persone su 1 milione sono internate. Le risorse che oggi si impegnano sarebbero sufficienti ad attivare Csm h24 ovunque: più servizi comunitari e meno denaro perduto nell’infinito mondo delle residenze, delle comunità terapeutiche, degli istituti, dei luoghi di amputazione, come tu dici. In Lombardia come in Puglia il 70% delle risorse dedicate alla salute mentale si consuma ogni anno in acquisto di posti letto in strutture che sono alla fine cronicari.
Magris — Come si colloca la situazione dell’assistenza psichiatrica in Italia rispetto agli altri Paesi europei? Non sto chiedendo pagelle di confronti, bensì se esista, in vista di un’auspicata Unione Europea sempre più omogenea, un progetto comune, l’idea di unificare la situazione — e dunque i diritti e doveri — del malato in tutta Europa.
Dell’Acqua — L’Italia è il Paese che, per primo, ha avuto il coraggio di chiudere gli ospedali psichiatrici. Ma soprattutto di restituire diritto e dignità al «malato di mente». Da questo momento molti altri Paesi hanno dovuto interrogarsi. Nel 2001 l’Organizzazione mondiale della sanità promosse una Giornata della salute mentale con lo slogan: «Contro l’esclusione, il coraggio di prendersi cura», spiegando con chiarezza che era arrivato il momento di attivare politiche governative per la chiusura degli ospedali psichiatrici. Nel 2005 la stessa Oms, radunando a Helsinki tutti gli Stati dell’Europa geografica, approvò una Dichiarazione con lo slogan: «Non c’è salute senza salute mentale», che suggeriva ai governi di orientarsi sempre più a pratiche territoriali di prossimità e di attenzione verso il singolo, tenendo come ultima risorsa il letto in ospedale. Le parole che ricorrono in questo documento sono: cittadino, persona, individuo. Parole che certamente vengono dai passaggi non solo italiani di deistituzionalizzazione. E che Marco Cavallo ha voluto rimettere in gioco per i «fratelli più scomodi» di tutti.

Repubblica 30.12.13
Siamo tutti dualisti
La scissione tra mente e corpo che ispira l’arte
Studi recenti hanno dimostrato alcune caratteristiche innate della percezione umana e come queste influenzano la sensibilità estetica
di Paolo Legrenzi


Come va? – chiedo a un amico che soffre di mal di schiena. Beh – mi dice – la schiena è a posto, ma il mio stato d’animo… La risposta presuppone una sorta di dualismo. Ci sono due cose: lo stato dell’animo e quello del corpo. Possono influenzarsi a vicenda: quando soffro di mal di denti, il mio umore non è alle stelle. Altre volte sembrano andare ciascuna per conto proprio, come nel caso dell’amico. I filosofi hanno dibattuto a lungo la questione. Ora sono scesi in campo anche gli scienziati utilizzando la loro metodologia preferita, e cioè l’esperimento.
Due psicologi di Bristol, Hood e Gjersoe, e uno di Yale, Bloom, hanno inventato un metodo ingegnoso per capire se i bambini – prima d’aver fatto propri, da adulti, un credo religioso o filosofico – siano o non siano dualisti. Si sono serviti di un’apparecchiatura composta di due scatole identiche, appaiate. Chiamiamole la scatola 1 e la scatola 2. All’inizio i bambini vedono che le due scatole sono vuote. In seguito si mette nella scatola 1 un blocco di legno verde, la si chiude, e si preme il pulsante di avvio di una presunta procedura di duplicazione. Segue un intervallo fatto di luci intermittenti e di suoni pseudo-tecnologici e, dopo una decina di secondi, nella scatola 2 appare un blocco di legno identico a quello messo nella scatola 1. La macchina non è ovviamente capace di duplicare gli oggetti. Si tratta di un trucco ben costruito, basato – come tutti gli inganni di questo tipo – sui modi in cui funziona l’attenzione delle persone. Gli adulti non cadono nell’inganno. I bambini, invece, sì. E se si chiede loro che cosa è successo, rispondono che la macchina ha costruito un secondo blocco di legno identico al primo (in futuro, quando saranno diffuse le nuove stampatrici in 3D, ciò sarà meno stupefacente).
La stessa procedura si ripete più volte, con giocattoli e animali di pezza, in modo da rendere credibile la capacità della macchina di duplicare gli oggetti. Infine, nella scatola 1 si mette un criceto vivo e si spiega ai bambini che l’animaletto ha un cuore blu, ha ingoiato una biglia e si è rotto un dentino. Poi i bambini giocano con il criceto, gli mostrano un disegno appena fatto, dicono il loro nome, e raccontano alcune storie. A questo punto si procede con le consuete operazioni di duplicazione.Ecco apparire, nella scatola 2, un criceto identico al primo! Si interrogano i bambini circa le proprietà del corpo del nuovo criceto: «Ha anche lui una biglia in pancia? il cuore blu? il dentino rotto? », e della sua mente: «Si ricorda anche lui i giochi e le storie? Sa il tuo nome? ». Quasi tutti i bambini ritengono che la macchina abbia duplicato le proprietà del corpo del criceto. Meno della metà ritiene che abbia duplicato anche i suoi ricordi e le sue conoscenze.
Questi risultati, pubblicati da pocosulla rivista Cognition, confermano per la prima volta in modo diretto, quel che si poteva supporre sulla base della tendenza dei bambini, anche molto piccoli, ad attribuire emozioni e capacità mentali non solo alle persone, ma anche a figure geometriche, per esempio quadrati e triangoli in movimento: “il quadrato insegue il triangolo che cerca di fuggire”. E non si tratta di qualcosa che è stato appreso guardando cartoni animati o fumetti: lo fanno anche i bambini allevati in culture in cui non ci sono queste forme di rappresentazione grafica, come nelle isole Figi.
Noi siamo dualisti nati. E continuiamo, anche da grandi, a essere dualisti. Non solo nel corso della vita quotidiana, quando parliamo con gli altri, ma anche nei film di fantascienza. Forse la più famosa storia basata su duplicazioni èBlade Runner(1982) di Ridley Scott, dove si narra di un mondo popolato da robot. Il protagonista è un poliziotto, Rick, che ha il compito d’eliminare quattro replicanti ribelli, perfetti duplicati di corpi umani. E tuttavia, con il test della memoria, proprio come nel caso dei criceti, i poliziotti riescono a identificare i ribelli. Rick scopre così che Rachael è una replicante, ma questo non gli impedisce di innamorarsi perdutamente di lei.
La trama di Blade Runner si basa sul presupposto che i contenuti mentali non siano perfettamente duplicabili quando costruiamo dei robot. D’altra parte, se i replicanti fossero veramente indistinguibili dagli umani, la storia perderebbe ogni senso. Dello stesso meccanismo si è servita l’arte contemporanea nel trasformare oggetti quotidiani in opere d’arte. Marcel Duchamp prende un orinatoio di porcellana e lo firma, trasformandolo così in un’opera d’arte oggi famosa. Dopo che Duchamp ha inventato la sua replica, non se ne possono fare altre. Se chiunque copiasse il suo orinatoio, quello sarebbe un fac-simile. Gli orinatoi sono tutti uguali come oggetti fisici, ma solo quello di Duchamp incorpora l’intenzione mentale di chi ha avuto per primo l’idea di farne un’opera unica. L’intenzione può anche produrre multipli, come fece Piero Manzoni il 21 maggio 1961, sigillando le proprie feci in 50 barattoli di conserva. Ma tutti i 50 barattoli erano il prodotto di un’idea originale (l’esemplare 18 è stato venduto a Milano sei anni fa per 124 mila euro).
L’arte si avvale del nostro vivere, fin da bambini, in un mondo caratterizzato da un dualismo tra mente e corpo che non è solo la pasta di cui siamo fatti, ma che proiettiamo anche negli altri, persino negli oggetti, dando loro un’anima.

La Stampa 30.12.13
Condominio Proust: quattro fagiani alla vicina del 3° piano
Svelata la corrispondenza segreta fra l’autore della Recherche e Madame Williams: “Mi piacerebbe salire e tenervi compagnia”
di Gabriella Bosco

qui

il Fatto 30.12.13
Costruire l’orologio perfetto
Dove Capodanno può spaccare il femtosecondo
di Thomas Mackinson


Siamo tutti in guerra contro il tempo, qualcuno lo è di più. Scusi lei, sa dirmi che ore sono? “Molte, dipende”, risponde il metrologo del tempo. Dipende dal sistema di riferimento, dalla sincronizzazione e anche dall'orologio. Quello da polso, per dire, perde un secondo al giorno, quello atomico uno ogni 100 milioni di anni, cioé un decimo di femtosecondo. Ma tocca poi aggiungergli un secondo ogni tanto per tenere il passo con l'ora ufficiale che tiene conto della rotazione terrestre e sulla quale sono sincronizzati i computer di tutto il mondo. Se sei sul GPS, ad esempio, sei anticipo di 16 secondi sull'ora segnata all'Ufficio pesi e misure di Parigi con la precisione di 300 orologi atomici. Se usi il cinese “Bei-
dou” sei due secondi avanti. Facile, tra tante ore esatte, toppare il momento dello spumante a Capodanno. E in un attimo, sul tempo di quel tappo, si spalancano dibattiti scientifici e filosofici che non finiscono più e chiamano in causa, niente meno, il controllo politico del tempo nel mondo. Da come atterra un aereo alla chiusura della Borsa, fino alla guerra per i sistemi satellitari tutto passa di li, dalla rincorsa della Scienza al “tempo perfetto”.
A DARGLI LA CACCIA in Italia, su tutti, una quindicina di ricercatori dell'Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica (INRIM) che ha sede a Torino e oltre alle attività di ricerca per costruire orologi atomici sempre più precisi ha il compito istituzionale di indicare l'ora esatta italiana, al miliardesimo di secondo. Patrizia Tavella non ne indossa ma da 25 anni si muove tra orologi di tutti i tipi, piccoli come scatole da scarpe per i satelliti, grandi come frigo o o come una stanza. Premette che è sempre in ritardo ma poi si lancia in una lezione breve sul tempo darestare a bocca aperta. A che serve questa rincorsa quasi ossessiva della Scienza al tempo perfetto? "A indagare con precisione sempre maggiore le grandi e complesse questioni della Fisica fondamentale e dell'Universo, ma anche a risolvere problemi concreti qui,sulla Terra. Prenda un Boeing che deve atterrare: se non so esattamente quando tocca terra devo costruire un carrello con un'ampia tolleranza, se lo so con maggiore precisione posso realizzarne uno migliore e più sicuro”.
E la questione prende subito quota perché il metodo più diffuso per disseminare il tempo è ancora il GPS, brevetto militare Usa, che utilizza orologi atomici al Cesio e al Rubidio sincronizzati su un proprio secondo interno di riferimento. Eh si, dal lancio del primo satellite GPS (1978) il tempo esatto ha un padrone solo, anche nel delicato settore dell'aviazione civile. Nella Guerra del Golfo, per dire, i satelliti erano come impazziti, ma non per tutti. “Si capì allora che un segnale proprietario del tempo poteva essere “sporcato” artificialmente in caso di crisi. E chi non ha i codici per ripulirlo è tagliato fuori dal controllo”. Così nasce Galileo, il sistema di localizzazione satellitare europeo che vede l'Italia in prima linea grazie alla collaborazione ventennale tra l'INRIM e l'Agenzia spaziale europea e che conta oggi 4 satelliti in orbita e 30 quando sarà a regime. “Come per il GPS la localizzazione si basa su una soluzione geometrica calcolata su intervalli di tempo moltiplicati per la velocità della luce, un numero tanto grande che un errore di microsecondo diventa un errore di 300 metri”. Da qui l'esigenza di avere a bordo e a terra orologi sempre più precisi e sincronizzati. Al femtosecondo, un milionesimo di nanosecondo. Declinata in modo scientifico la guerra del tempo è dunque il tentativo di tirar fuori dall'atomo una misura sempre più accurata, imperturbata, perfetta. All'INRIM il gruppo di Filippo Levi si confronta con questa sfida usando orologi ad atomi ultrafreddi come la fontana di Cesio o l'orologio all'Ytterbio. Scienza a parte, a cosa serve un tempo perfetto? A regolare meglio i
processi in cui si svolgono milioni di operazioni in contemporanea, come nelle tlc digitali o nelle compravendite nelle Borse mondiali effettuate da sistemi automatici 24 ore al giorno. Wall Street, per dire, sta pensando di introdurre un intervallo minimo di 50 millesimi di secondo tra acquisto e vendita per correggere il tempo di latenza entro le reti telematiche.
L'ORA ESATTA spacca il femtosecondo ma non basta. Una volta estratta e manipolata, l’informazione quantistica sul tempo va portata fuori dal laboratorio metrologico perché possa essere applicata anche a distanza senza farla sporcare da interferenze, da errori e dal rumore che ne degradano la qualità. L'altra sfida scientifica al tempo perfetto è dunque questo tentativo di preservare il segnale del ticchettio atomico fino al destinatario. E infatti qualcuno te lo porta a casa come il gas, l'acqua, la luce o la rete. Davide Calonico guida un gruppo di ricerca che ha portato l'unità di tempo dei laboratori di Torino lungo una rete di 650 km di fibra ottica che arriva a Firenze. “La fibra spiega consente una riduzione del rumore 10mila volte superiore al GPS e una velocità imbattibile”. Su mille km l'accuratezza del miglior orologio atomico si trasferisce col GPS in circa 100 giorni di misura, con la fibra bastano tre ore. Questa velocità e accuratezza può avere applicazioni dirette sulle reti di comunicazione, produzione e distribuzione intelligente dell'energia elettrica che usano riferimenti di tempo necessariamente accurati. “La fibra offre un'unità di tempo cui sincronizzarsi 10mila volte migliore delle tecnologie attuali. Significa poter fare 10mila volte più operazioni al secondo. E quindi, ad esempio, supportare la complessità dell'energia elettrica distribuita in grid o quella delle comunicazioni digitali sempre più complesse in sviluppo”. Bellissimo. Ma a Bologna, per dire, che se ne fanno? “In un'area sismica può servire a mappare con precisione infinitamente maggiore movimenti e sussidenze millimetriche del terreno laddove oggi si usano tradizionali ricevitori GPS. Portato al centro radioastronomico di Medicina (BO) può servire a sincronizzarne meglio le osservazioni del cosmo, ottenere misure più precise e rispondere così alle domande aperte della Fisica fondamentale e dell'Universo”. Potrebbe bastare un femtosecondo, che sia davvero perfetto.

il Fatto 30.12.13
Perché il tempo è atomico


Chi volesse approfondire gli argomenti scientifici legati alla metrologia del tempo con un occhio alla fisica quantistica e l'altro alla storia e al presente può tuffarsi in un bel libro appena uscito che unisce al rigore della Scienza il piacere della narrazione. “Il tempo atomico”, edizioni Hoepli, è un corposo viaggio che esplora e spiega l'evoluzione millenaria del rapporto dell'uomo con il tempo, dal calendario Maya e dalla clessidra agli orologi atomici disseminati nei laboratori di ricerca di tutto il mondo. Davide Calonico, fisico e ricercatore presso l'Inrim e il giornalista scientifico Riccardo Oldani descrivono i saperi e le tecnologie sviluppate dall'uomo nel corso dei secoli in un intenso rapporto con la fisica, le ricadute e i miglioramenti costantemente generati sulla nostra vita, le frontiere aperte su cui si sta concentrando la ricerca pura. Il punto di partenza è l'istinto, innato per l'uomo, a misurare il tempo, dal ciclo circardiano che segue quelli della Terra ai calendari per segnare le stagioni e il lavoro nei campi. Fino a oggi, l'epoca in cui il tempo è scandito dall'atomo estratto nei laboratori di ricerca, utilizzato nelle aziende e in decine di satelliti artificiali in orbita costante sopra di noi per sincronizzare tutte le attività in corso sul pianeta, dal trasporto dei passeggeri alle operazioni in borsa, dalla ricerca scientifica alle trasmissioni tv e radio. La loro enorme precisione è importante per rispondere alle domande ancora aperte della Fisica fondamentale o per scrutare l'ignoto dell'universo con i radiotelescopi.