giovedì 2 gennaio 2014

l’Unità 2.1.14
La strategia del fango quotidiano
di Luca Landò


il Fatto 2.1.14
“Caro Beppe, insieme faremmo grandi cose”
Il segretario del Pd Matteo Renzi propone al MovimentoCinque Stelle un patto per un obiettivo concreto: trasformare subito il Senato in una Camera degli enti locali per risparmiare un miliardo
E a Letta: “Possiamo sfondare il 3 per cento del deficit”
di Stefano Feltri


Parla il segretario del Pd: “Facciamo subito insieme la riforma di Palazzo Madama e risparmiamo un miliardo, altro che i 40 milioni di finanziamento pubblico a cui ha rinunciato il M5S. Fuori dall’euro? Mai, ma diciamo basta a certi vincoli anacronistici”

Il sindaco di Firenze, neo-segretario dei Democratici, rilancia la proposta a M5S per far diventare Palazzo Madama una camera delle Regioni, dando più responsabilità a Montecitorio
DA BOY SCOUT a segretario del Partito Democratico, l’ascesa di Matteo Renzi è stata rapida. Nel giugno 1996, contribuisce alla fondazione dei comitati Prodi del Valdarno, entra nei Popolari e nella Margherita, di cui diventa segretario provinciale, proclamando subito “guerra” allo strapotere rosso dei Ds. Nel 2001 è coordinatore della Margherita e, nel 2003, segretario provinciale. Nel giugno del 2004, a 29 anni è il più giovane presidente della Provincia, ottenendo l’endorsement di Francesco Rutelli. Nel 2009, il colpo a sorpresa. Si candida alle primarie Pd per il sindaco di Firenze, e contro tutti i pronostici, le vince. Al ballottaggio viene eletto sindaco con il 59,96% ed entra a far parte della direzione nazionale del Pd. Nell’agosto del 2010 evoca la “rottamazione” nel corso di un’intervista a Repubblica: “Non faccio distinzioni tra D'Alema, Veltroni, Bersani... Basta”. Nel novembre 2012, per la campagna delle primarie sceglie di girare l’Italia in camper e polemizzare sulle regole di voto imposte dallo statuto del Pd. Perde contro Bersani (39,1%, contro il 60,9%) ma ottiene oltre un milione di voti. La rivincita nel dicembre scorso, vince le primarie con il 67,8 per cento dei voti.

Matteo Renzi ci prova sul serio: un’alleanza con il Movimento Cinque Stelle, non per il governo, ma per singoli provvedimenti, cominciando da una drastica riforma del Senato, “si può risparmiare un miliardo di euro, se i senatori Cinque Stelle sono d’accordo lo facciamo domani”. Notte di Capodanno in piazza Stazione a Firenze, sul palco con Max Pezzali, ex 883, poi giornata in famiglia, qualche partita alla Play Station e un po’ di corsa. Il 2014 politico di Renzi comincia con una proposta a Grillo e una rottura con il governo di Enrico Letta, pensando alle elezioni europee di fine maggio: “Se all’Europa proponi riforme istituzionali e un Jobs Act che attiri investimenti stranieri, è evidente che il vincolo del deficit al 3 per cento del Pil si può sfondare”.
Segretario Renzi, nel suo messaggio di fine anno Napolitano ha detto che rimarrà “fino a quando la situazione del Paese e delle istituzioni me lo faranno ritenere necessario”. Pensa che sia il suo ultimo discorso?
Non credo. Ma deciderà lui, non altri.
Il capo dello Stato ha accennato alle polemiche sul suo ruolo e l’eccessivo potere dimostrato.
Difendo il presidente. Quello di San Silvestro è stato un messaggio che invita al coraggio delle riforme e a occuparsi di lavoro e lo condivido: la classe politica dovrebbe pensare a queste cose invece che perdersi in troppe chiacchiere.
Nel suo contro-discorso Beppe Grillo ha detto che è merito dei Cinque Stelle se Berlusconi non è più senatore, grazie al voto palese, se non è passata la riforma dell’articolo 138 della Costituzione e se sono scesi i costi della politica. É così?
Mi piacerebbe dirle che è vero, ma non è così. Il Movimento Cinque Stelle da solo non fa nulla. Il voto palese è stata decisione del Pd e determinante è risultato il voto della senatrice Linda Lanzillotta che non mi pare grillina. La riforma del 138 è saltata quando ha cambiato idea Berlusconi, dopo che è uscito dal governo, lo sanno tutti. E sui costi della politica, Grillo ha rinunciato alla propria quota di finanziamento, per circa 40 milioni di euro, ma sul voto che, bloccando le Province, porta a un risparmio come minimo dieci volte più grande, non solo i Cinque Stelle sono stati contrari ma addirittura hanno fatto ostruzionismo agli ordini del compagno Brunetta. Com’è possibile che i ragazzi del Cinque stelle escano dall’Aula quando si vota l'abolizione delle Province? Se Grillo elencando i propri meriti deve dire queste falsità, significa che dentro il Movimento c’è un problema e che ci stiamo perdendo anche lui...
Quindi i Cinque Stelle si prendono meriti non loro?
Grillo da solo non può far niente, perché mancano i numeri. Non è colpa sua, è la politica. Alcune battaglie – anche sacrosante – del M5S possono essere portate a termine solo se i cittadini pentastellati fanno accordi. Limitati, circoscritti, in streaming, dal notaio, in piazza, al bar, come vogliono: ma accordi. Da soli si fa testimonianza, ma non si cambia l’Italia. Senza accordi non solo non combina nulla, ma per giustificare i tre milioni di euro al mese che costano i suoi parlamentari, Grillo è costretto a inseguire le scelte di Brunetta o della Lanzillotta. Per i parlamentari Cinque Stelle il 2014 sarà l’anno chiave, quello in cui devono decidere se cambiare forma mentis: ci sono quelli che credono alle scie chimiche e ai microchip nel cervello, e questi fanno ridere, ma sta anche nascendo un gruppo dirigente molto interessante. Se però si limitano a protestare, il massimo che possono fare è rinunciare al finanziamento pubblico per 42 milioni. Un atto di grande efficacia mediatica, ma per l’appunto soltanto 42 milioni...
Il Pd è pronto a lavorare con il Movimento Cinque Stelle in modo aperto?
Si sono visti due modi di concepire i Cinque Stelle finora. La vecchia guarda dei nostri li ha trattati come dei parvenu della politica, quasi incapaci di intendere e di volere. Io non la penso così e condivido ciò che ha scritto Marco Travaglio: molti di loro stanno imparando il mestiere. Su alcuni temi hanno fatto cose giuste, sul Milleproroghe, sugli affitti d’oro della Camera. Ma le loro posizioni sono passate solo perché qualcuno del Pd ha deciso che bisognava andare in quella direzione, in altri casi l’iniziativa è stata nostra, come per bloccare l’emendamento sulle slot machine. Vede che degli accordi seri, trasparenti, alla luce del sole, non si può fare a meno?
Perché, per dare un segnale a Grillo, non rinuncia spontaneamente ai 45 milioni di euro di finanziamento pubblico che spettano al Pd? Senza proporre uno scambio.
Grillo dice che questi rimborsi sono illegali. Io dico che sono politicamente un errore. Non escludo che lo faremo. Ma come si fa a definire ricatto quella che è una proposta precisa per ridurre i costi della politica?
E cosa sta aspettando?
Dal punto di vista tecnico la due diligence dei conti del partito. Dal punto di vista politico che sia chiaro l'iter della proposta del governo. E posso anticiparle che non ci fermeremo qui. Vogliamo occuparci anche dei contributi ai gruppi parlamentari.
Province a parte, su cosa potete lavorare insieme, Pd e M5S?
La madre di tutte le battaglie è la trasformazione del Senato in Camera delle autonomie locali. Basterebbe un sì dei senatori Cinque Stelle e cambieremmo la storia italiana. Ma loro nicchiano, chissà perché...
Il Senato riformato avrebbe membri eletti, e quindi cambierebbe poco rispetto a oggi, o solo rappresentanti degli enti locali come membri di diritto?
Una parte del Pd e tutto Ncd dicono: non possiamo abolire il Senato, facciamo una elezione di secondo grado. Io la penso diversamente: se sei presidente di una Regione o sindaco, sei automaticamente senatore, senza indennità aggiuntive. E in Senato puoi esprimere il tuo parere solo sulle materie, quelle che riguardano gli enti locali. Finisce il bicameralismo perfetto e macchina burocratica drasticamente semplificata. Non capisco come Grillo possa dire di no: chiedere l’abolizione tout court del Senato è il modo migliore per non ottenere nulla.
Il problema è solo che manca il via libera del capo? I parlamentari M5S sono propensi a collaborare?
Nessuno gliel’aveva chiesto con questa chiarezza, finora. Vedremo. Anche io ho resistenze interne e incontrerò i nostri senatori il 14 gennaio. Ho però un punto di forza: le primarie non le ho fatte sulle mie cravatte, sul ciuffo di Civati o sullo sguardo di Cuperlo, ma sulla base di linee politiche, e io ho espresso con grande chiarezza questa posizione. Quindi la posizione delle primarie è la posizione di tutto il Pd. Però il Pd da solo, paradossalmente, non ce la fa. Noi facciamo lo stesso appello a tutte le forze politiche, ma quello che mi colpisce di Grillo è che questa palla lui ce l’ha pronta. Come fa a rinunciare?
E se Grillo rifiuta?
Dovrei pensare che non riesce a convincere i suoi senatori a firmare una legge che serve a cancellare le loro 60 poltrone.
Nel suo video-messaggio Grillo ha evocato un referendum e la possibile uscita dell’Italia dall’Euro. Ci sono margini di dialogo anche su questo?
No, in modo categorico. Uscire oggi dall'euro avrebbe ripercussioni decisamente negative sulla vita degli italiani, schizzerebbero i tassi di interesse, sarebbe più difficile lavorare per le imprese, si indebolirebbe ancora la capacità d'acquisto delle famiglie. Sono pronto a una discussione, ma nel merito sono in disaccordo. L’eccesso di tecnocrazia nella gestione dell'euro si risolve non eliminando l'euro, ma riportando la politica a fare il suo mestiere.
Il governo Letta continua a difendere il rigore e il rispetto del vincolo del 3 per cento al rapporto tra deficit e Pil. Lei ha criticato più volte quel parametro. In attesa di riformare i trattati, lei sarebbe disposto a violarlo?
Se all’Europa proponi un deciso cambio delle regole del gioco, a partire dalle riforme Costituzionali, con un risparmio sui costi della politica da un miliardo di euro che non è solo simbolico, un Jobs Act capace di creare interesse negli investitori internazionali, fai vedere che riparti da scuola, cultura e sociale, allora in Europa ti applaudono anche se sfori il 3 per cento. L’Europa ha bisogno di un’Italia viva.
Quindi possiamo sforare?
É evidente che si può sforare: si tratta di un vincolo anacronistico che risale a 20 anni fa. Non è l’Europa che ci ha cacciato in questa crisi, ma la mancanza di visione. Lo ha detto bene il Censis: l’emergenza continua è diventata la polizza assicurativa di una classe politica che solo grazie alla crisi, vera o presunta, giustifica il proprio potere. Se c’è una leadership con una visione, non vedo problemi a superare il tetto del deficit, anche se poi va fatta una battaglia per cambiare le regole. Non solo sui conti pubblici.
Pensa alla web tax, per far pagare più imposte alle grandi società che vendono servizi su Internet?
Anche. Tutti devono pagare le tasse, ma le modalità con cui questa battaglia è stata impostata da qualche nostro parlamentare sono un errore. Per come era scritta, la legge non apriva un dibattito, ma una procedura di infrazione europea. E chi lo paga poi il conto?
Hanno detto che lei ha preso questa linea sotto l’influenza di Google e delle lobby americane.
Spero che chi lo ha fatto, dopo aver parlato, abbia posato il fiasco.
A proposito di grandi aziende, lei ha denunciato spesso la privatizzazione di Telecom degli anni Novanta, ma non si è mai espresso sull’attuale passaggio di controllo dai soci italiani agli spagnoli di Telefònica.
Su Telecom e Monte dei Paschi il segretario del Pd sconta il peso di una eredità: in passato su queste vicende chi aveva responsabilità nella sinistra non si è comportato in modo politicamente inappuntabile, per usare un eufemismo. Su Monte Paschi, se fossi stato sindaco di Siena, e quindi di fatto azionista della banca, avrei detto la mia. Il mio silenzio da segretario del Pd non è di chi non ha niente da dire, ma di chi anzi ne avrebbe troppo. Ma tace, per rispetto delle istituzioni preposte a risolvere il problema.
Il governo cosa può o deve fare su Telecom e Monte Paschi?
Prescindendo dai tecnicismi, un governo ha un potere enorme di moral suasion, che non è banale, indipendentemente dagli appigli legislativi. Nella vicenda Telecom il governo dovrebbe usarlo per chiarire che lo scorporo della rete è una priorità, o che comunque bisogna avere l’assoluta garanzia di investimenti sull’infrastruttura, attraverso i meccanismi più vari. Su questo settore abbiamo perso troppo tempo. E su Mps il governo dovrebbe usare la moral suasion per evitare che i soldi prestati dai contribuenti italiani vengano messi a rischio.
Lei è più d’accordo con il senatore Pd Mucchetti che voleva cambiare la legge sull’Opa per costringere gli spagnoli a pagare qualche miliardo per Telecom o sta con Letta che quella norma l’ha affossata?
Che la legge sull’Opa vada cambiata è un dato di fatto. Che cambiarla adesso dia l’mpressione di un intervento a gamba tesa, prendendo le posizioni di un giocatore contro un altro è altrettanto vero. Non si cambiano le regole in corsa. Ma il governo su Telecom può giocare un ruolo molto più deciso, nel rispetto delle regole, del mercato, degli azionisti. Presenti e futuri .
Nel duro scontro tra il presidente di Mps Profumo e quello della Fondazione, Mansi, lei con chi sta?
E secondo lei mi schiero in un derby tra banchieri? A me interessa che il denaro dei cittadini italiani sia speso bene e il quadro delle regole, ma non entro nelle vicende gestionali. Posso chiedere di cambiare la legge sulle fondazioni bancarie, ma non sostituirmi a chi ha responsabilità gestionali.
Nel 2014 si apre una stagione di importanti nomine pubbliche in società controllate dal Tesoro, su tutte l’Eni. Se ne occuperà?
Il Pd non è interessato alla discussione sui nomi. Ma alle strategie aziendali sì. E su questo abbiamo molto da dire, vedrà.
Su cosa si fonda la sua intesa con Maurizio Landini, la Fiom sembra più renziana della Cgil...
Non è renziano neanche il Pd, figuriamoci la Fiom. Certo, su alcune cose potrebbe esserci condivisione: dalla legge sulla rappresentanza alla presenza di persone elette dai lavoratori nei consigli d’amministrazione. E poi condividiamo un concetto semplice: chi ci ha portati fino a qui, con polemiche ideologiche e scarsi risultati, non è adatto a portarci fuori da qui.
Lei non parla più di pensioni. Si possono chiedere sacrifici a chi beneficia del sistema retributivo?
Si possono chiedere contributi - non parlerei di sacrifici - a chi usufruisce di una pensione d’oro senza aver versato tutto il corrispettivo. Non perché ciò cambierà il bilancio italiano, ma perché è giusto. Si può, si deve. É un principio di equità sociale, non una punizione divina: se prendi 10mila euro al mese di pensione e sei andato in pensione a 55 anni con il retributivo, puoi darci una mano così che il tuo contributo lo mettiamo a disposizione di chi non ce la fa più? Ma solo per le pensioni d’oro, non per tutte le pensioni retributive.
Tra pochi giorni presenterà il Jobs Act. Ci sarà il contratto unico di inserimento?
Ci saranno molte cose. Il Jobs Act non è un trattato giuslavoristico, come pensa chi lo ha criticato senza aspettare di leggerlo, ma un documento con alcune cose concrete da fare subito e altre più di prospettiva. Nei prossimi giorni iniziativa sulle riforme, poi presentiamo il Jobs Act. Non c’è molto da aspettare.

l’Unità 2.1.14
Stefano Fassina
«Questa squadra di governo rappresenta un Pd archiviato»
di Andrea Carugati


l’Unità 2.1.14
Il Quirinale «social» tra quotidianità e sofferenze
di Michele Ciliberto


il Fatto 2.1.14
L’antico compagno Emanuele Macaluso
Questa in tv può essere l’ultima volta
di Car. Tec.


Seppur in vacanza, oltre confine, il compagno Emanuele Macaluso non ha mancato l’appuntamento con il discorso presidenziale di Giorgio Napolitano: “Non potevo, figuriamoci. Mi è sembrato puntuale e preciso, mi spiace avesse un po’ la voce affaticata. Lo conosco da anni, tante cose me le potevo aspettare, però mi ha sorpreso ancora”.
Perché ha citato sette lettere ricevute?
Esatto. Ha fatto bene perché ha parlato all’Italia attraverso sette cittadini: storie di vita, dure reali, di questo momento difficile che, senza una guida al Quirinale, poteva essere peggiore. E poi ha seminato un po’ di ottimismo, senza un ingrediente energetico non andiamo lontani.
Non ha risparmiato critiche ai partiti.
La formula è stata diversa. Ha confermato la sua importanza istituzionale. Cosa rappresentano quelle sette lettere secondo voi?
Cosa, Macaluso?
La distanza fra la politica e i cittadini. Dai tempi di Napoli, il presidente è sempre sensibile ai più deboli, a chi non ha un buon lavoro, a chi non ha nulla, ai giovani che sono scoraggiati. I partiti non rispettano le proprie funzioni costituzionali, sono aggregatori di elettori e personaggi più o meno noti. Spero che a sinistra, e mi riferisco al Partito democratico, avvenga qualcosa di significativo. Per la destra non ho speranze, dunque sono tranquillo.
E Napolitano è pessimista?
Non saprei. Ma ha sentito che ha richiamato il Parlamento al ruolo che la Costituzione gli ha affidato? Non possiamo più aspettare.
Quanto aspetterà, invece, il presidente?
Non è un uomo che si smentisce. Mantiene le promesse. Ha dichiarato subito di voler svolgere un mandato a termine, legato a modeste riforme costituzionali e, soprattutto, a una buona legge elettorale. O si fanno queste cose o non si continua.
“Resto fin quando serve”, è il suo mantra.
A dispetto del vostro pensiero al Fatto Quotidiano, Napolitano s’è messo a disposizione solo perché era preoccupato per la democrazia. Soltanto in Italia la crisi economica coincideva e coincide con una crisi politica.
Ha ripetuto: “Basta al tutti contro tutti”. Con chi ce l’aveva?
La sua rielezione era la conseguenza a un problema di sistema Italia, e di partiti. Lo ricorda sempre, deve. E anch’io ribatto sul medesimo tasto: se c’è un elettorato che segue un ex comico come Beppe Grillo o Silvio Berlusconi, che non vogliono costruire, vuole dire che la guarigione non è vicina.
Forza Italia è insorta: “Non ha nominato Berlusconi”.
E perché doveva? Ha fatto bene. Napolitano è la più alta carica d’Italia, ma è, per dire meglio, il presidente che ci ha salvato da un’implosione di sistema. Ora le dico una cosa che deve scrivere, per cortesia. Io rimprovero al Fatto Quotidiano, per paradosso, di aver criticato quelli che non hanno ubbidito al Cavaliere: da Cicchitto o Alfano che l’hanno lasciato, al Quirinale che non ha pensato a una Grazia.
L’ottava volta com’è andata?
Non faccio il maestrino, non giudico un uomo a cui dobbiamo essere grati. La sua valutazione sul 2013, un anno terribile, è stata perfetta.
Sarà l'ultima?
Possibile che sia così.

Corriere 2.1.14
Lo spirito di verità per combattere la crisi della politica
di Corrado Stajano


Che il nuovo anno sia un po’ più sereno di quello appena finito. È accaduto di tutto, nella politica e nella società, nel 2013. La distanza tra istituzioni e cittadini è diventata ancora più profonda, un burrone. Le promesse dei governanti, il più delle volte bugiarde, simili a quelle fatte dalle mamme ai bambini per farli star buoni, suscitano rigetto. E si ha purtroppo l’impressione che la classe dirigente non voglia rendersene del tutto conto.
La positività a ogni costo, la leggerezza, il divieto di drammatizzare sembrano le parole d’ordine d’obbligo per coprire quel che sta accadendo in Italia più che altrove. Esistono certamente anche qui da noi le energie positive della società minuta, uomini e donne che si prodigano per tirar su i figli con decoro, mettono in moto idee intelligenti, creano iniziative utili alla comunità. Ma queste non poche volontà di agire in modo onesto e nuovo sono isole prive degli indispensabili ponti, in difficoltà perché fuori dai cerchi magici di chi detiene il potere.
I partiti sono in crisi profonda. Nel Novecento hanno rappresentato, con la forma della loro organizzazione politica, la fabbrica del consenso e della legittimazione. Ora sembrano scatole vuote, quel che conta è l’immagine, il marketing, non la sostanza del fare. Le forme strutturali della politica sono cambiate, prevale il «finanzcapitalismo», espressione di Luciano Gallino, che ha sostituito la forza dell’obsoleto capitalismo industriale.
La crisi di sfiducia è generalizzata. Il Parlamento è delegittimato, un passacarte del governo che a sua volta è appeso alla maniglia dei decreti legge e dei voti di fiducia indispensabili per andare avanti.
Non sembra che questo passaggio nodale di una crisi non solo economico-finanziaria, ma politico-culturale sia preso in considerazione. La politica lo scarta come una mosca fastidiosa. Manca anche il sospetto e il timore che in questo scompiglio possa essere a rischio l’idea stessa di democrazia, il sistema politico più alto creato dall’uomo.
Il 2013 non è stato un anno rispettoso dei principi fondamentali dell’eguaglianza, della tolleranza, dell’agire in nome del bene comune così ipocritamente e cinicamente reclamizzato.
Le elezioni politiche del 23-24 febbraio dello scorso anno e quelle del presidente della Repubblica non sono stati di certo eventi memorabili. Con i 101 del Pd che vergognosamente non hanno votato Prodi dopo averlo applaudito come proprio candidato poche ore prima. Con Grillo, il riccioluto dittatore urlante dell’antipolitica, privo di una base elementare di idee, che non ha votato neppure lui Prodi dopo averlo inserito tra i suoi candidati. Con il Pd che non ha accettato Rodotà perché non «suo» — era stato proposto dal Movimento 5 Stelle — dimentico che il professore è stato presidente del Pds ed è una persona di alta moralità e cultura. Il buio. Tutti insieme, allora, al Quirinale come nel finale di un melodramma, a implorare il presidente di restare ancora in sella.
Il governo delle larghe intese, poi, un antico miraggio, non uno strumento di emergenza. Non è stato l’aggettivo «condiviso» il più accarezzato degli ultimi anni? Il governo Letta-Alfano avrebbe dovuto essere un governo a termine, come il governo Dini del 1995, e invece non nasconde l’intenzione di durare, di segnare il tempo e, privo com’è di principi elementari comuni, non legittimato quindi a mutare il sistema istituzionale, si propone di affrontare problemi centrali per la dignità di una democrazia. Non sembra che abbia avuto, dopo i mortiferi vent’anni berlusconiani, un soprassalto di fervore. Qualche macchia nera, piuttosto. Basta ricordare il caso Cancellieri e il caso del sequestro di Alma Shalabayeva e della sua bambina, ora fortunatamente risolto, un oltraggio alla sovranità nazionale. Non doveva essere la nuova legge elettorale il primo ed essenziale compito del governo per sostituire l’inverecondo Porcellum? Gli interessi dei gruppi politici e dei singoli parlamentari, impauriti per quel che sarà il loro futuro, sembrano impedirlo. E poi suscita amarezza che non si sia sentito il dovere di abrogare subito le leggi indecenti sull’emigrazione, nate dall’odio razzista: quei poveri migranti con la bocca cucita che hanno riempito di indignazione il mondo sembra purtroppo che siano stati guardati con la normalità dell’indifferenza.
La continuità con la seconda Repubblica e anche con la prima sembra assicurata. I comportamenti, tatticismi, machiavellismi spiccioli, litigi tra alleati e non, ultimatum, rimpasti obbligati, patti di coalizione, non sembrano per nulla finiti in soffitta.
Con una novità. Letta ha annunciato un mutamento epocale: la generazione dei quarantenni prende il potere. Largo ai giovani. Accade naturalmente e periodicamente nella storia del mondo, anche se non così strombazzato. Peccato che le prime mosse non siano state brillanti per i portaborse di ieri, tra il pasticcio del salva-Roma, la Tasi, la mini-Imu, gli affitti d’oro, la milleproroghe, la Finanziaria rimpolpata dagli emendamenti — è accaduto in ogni legislatura — come il vitello grasso. Ma ci pensa Renzi, il segretario del Pd, a rappresentare il nuovo che avanza. In bicicletta, senza mani, corre a presentare il libro di Vespa.
Che fare? Ritrovare con coraggio lo spirito di verità. Ricominciare con umiltà e con buon senso. Diceva il Croce che è la più alta delle virtù.

Corriere 2.1.14
«Così i partiti peseranno ancora sui contribuenti»

di M.Antonietta Calabrò

ROMA — «Il finanziamento pubblico ai partiti non — e sottolineo non — è stato abolito dal nuovo decreto legge del governo Letta: diminuirà, ma solo di poche decine di milioni di euro, e dal 2017». Cioè tra più di tre anni. «È vero invece che comunque c’è già stata una cura dimagrante: siamo scesi dai 250 milioni di quattro anni fa, ai 91 milioni decisi dal governo Monti». Roberto Perotti, ordinario all’Università Bocconi, ribadisce le sue critiche al provvedimento del governo, già messe nero su bianco sulla Voce.info, dove il suo intervento continua a scalare, a migliaia, tweet e I like. «La realtà è ben diversa — afferma Perotti — i partiti continueranno a pesare sul contribuente dai trenta ai sessanta milioni, poco meno di quanto costano ora». Perché «nonostante vengano eliminati i rimborsi delle spese elettorali (il 25 per cento l’anno fino ad arrivare a zero nel 2017), verrà consentito al contribuente di destinare a un partito il 2 per mille della propria imposta fiscale». Questo vuol dire — secondo Perotti — che non si tratta di contribuzioni di privati, ma di un meccanismo che mette il finanziamento di ogni singolo partito «a carico di tutti i contribuenti». Quindi a carico anche di chi magari vota per il partito di segno politico opposto. Il motivo è che il 2 per mille «costituisce una detrazione al 100 per cento dell’imposta dovuta» da ogni singolo cittadino. Un esempio aiuta a capire. «Se lo Stato adesso raccoglie 10 mila euro di tasse per pagare sanità e pensioni, e il contribuente destinerà un euro a un partito attraverso il 2 per mille, tutti i contribuenti nel loro complesso dovranno pagare 1 euro in più di tasse per continuare a pagare lo stesso livello di pensioni e sanità». Perotti aggiunge adesso un dettaglio che rende particolarmente «odioso» — dice — il nuovo sistema. Ed è appunto la detrazione al 100 per cento che sarà possibile per circa 45 dei sessanta milioni (che potranno essere versati ai partiti). I restanti 16 milioni saranno detraibili al 37 per cento. Ebbene, se invece un cittadino vuole destinare soldi ad esempio alla ricerca sul cancro, la detrazione è e rimane solo del 19 per cento. Quindi i partiti sottrarranno allo Stato molto di più delle organizzazioni benefiche. Perotti avanza la proposta che, in sede di conversione del decreto legge «la quota detraibile scenda al 19 per cento». In ogni caso, secondo Perotti, il «taglio» cui saranno sottoposti i partiti in base al nuovo decreto è di ben poco conto (da 91 a 60 milioni). «Visto anche che la maggior parte del finanziamento arriva da un’altra parte: dai bilanci di Camera, Senato e Consigli regionali. Sono i contributi ai gruppi parlamentari e consiliari il grosso della torta». Ma per il docente «s e si volesse incidere veramente si potrebbe tagliare un miliardo secco dai bilanci del Parlamento e dei Consigli regionali, questo sì che sarebbe un taglio incisivo contro la Casta!». Del resto, secondo l’economista, i cambiamenti che hanno visto prevalere Internet anche nella comunicazione politica «rendono particolarmente agevole, se non proprio indolore, questo risparmio». Come spiega il professore, infatti, gran parte dei contributi ai gruppi parlamentari viene giustificato, almeno formalmente, come versamenti per convegni e spese di rappresentanza. «Ma non sono più i tempi dei congressi che organizzava Craxi negli anni Ottanta e della miriade di inutili convegni: ormai molto del dibattito politico è diventato anche esso elettronico. Quindi a costo bassissimo, se non zero».

il Fatto 2.1.14
Emergenza Capitale
Roma, nuovo anno con rifiuti Marino scarica i vertici Ama
di Sal. Can.


L’affondo del sindaco Ignazio Marino contro i vertici dell’Ama, l’azienda di smaltimento rifiuti, prosegue via Twitter. Con due messaggi, ieri, il sindaco di Roma ha fatto sapere il suo giudizio sullo stato della pulizia a Roma: “Inaccettabile”. Poi ha definito l’Ama “non all’altezza” della situazione. Marino ha fatto un giro per la città per controllare lo stato della raccolta rifiuti dopo le polemiche dei giorni scorsi. Pesano ancora le immagini dei maiali che razzolavano dentro la spazzatura e quelle dei cumuli abbandonati nella periferia della città. Ho trovato “Roma pulita solo nelle zone di passaggio. È inaccettabile” ha così twittato ieri pomeriggio il sindaco per poi aggiungere: “Noi abbiamo fatto la nostra parte ma Ama non si sta dimostrando all’altezza”. I vertici della municipalizzata romana sono così avvertiti. Il mandato del presidente Piergiorgio Benvenuti scade il 9 gennaio e il suo ufficio, dove si è insediato al tempo di Alemanno, sta per essere sgombrato. Benvenuti dice di non avere nulla da rimproverarsi. “Abbiamo rafforzato, come al solito, i presìdi nelle strade - spiega al Fatto - e sono soddisfatto”. La soddisfazione si estende a tutto l’operato dell’azienda che, dice ancora Benvenuti, “raccoglieva solo il 17% dei rifiuti in forma differenziata, ad agosto 2011, e oggi ha superato il 30%. In particolare, sono contento di aver contribuito alla chiusura della discarica di Malagrotta”. Bilancio più che positivo, dunque, per chi non si sente di appartenere alla destra romana di Alemanno “ma solo ai progetti di lavoro”. Quanto ai 53 milioni di buco del 2013, di cui si è parlato nei giorni scorsi, per Benvenuti “non esistono. Abbiamo 25 milioni di maggiori costi per la spedizione dei rifiuti fuori Roma ma il bilancio 2013 non si chiuderà negativamente”. Resta però lo spettro di un aumento delle tariffe. Ed è su questo punto che i conti con Marino non tornano. Il sindaco non vuole perdere la faccia per un aumento delle tasse e se in questi giorni si sta dando molto da fare è perché vuole concentrare sui vertici dell’Ama tutte le responsabilità per avere le mani più libere nelle prossime mosse. Tra le quali, oltre al rinnovo dei vertici, c’è in ballo la probabile nomina del nuovo commissario ai rifiuti di Roma dopo la scadenza del mandato al prefetto Sottile. Marino potrebbe essere la persona indicata dal ministero dell’Ambiente, diretto dal pd Andrea Orlando. Quanto ai vertici dell’Ama, si fanno i nomi Ivan Strozzi, già dirigente in Emilia e Piemonte, di Walter Ganapini, che ha il curriculum più solido, ma anche di Elisabetta Ferrari, 44 anni, proveniente dal gruppo Api e di Fabrizio Vigni di Federambiente.

Repubblica 2.1.14
Giovedì, Andrea e gli infermieri gentili
di Dario Cresto-Dina


Che cosa s’impara da una colica renale. Lo racconta Andrea, architetto: «Al pronto soccorso del San Camillo di Roma vengo classificato codice giallo per la sofferenza. Dolori pazzeschi. Mi fanno accomodare prima su una sedia pieghevole, poi mi trasferiscono su una barella nel corridoio. Vi resterò tre giorni e tre notti. Le notti passano con le luci accese come fari, il via vai dei ricoveri, le urla dei litigi, gli interventi dei carabinieri perché nel pronto soccorso arriva di tutto. La barella viene spostata in una delle stanzette dell’astanteria, siamo dentro in otto, uomini e donne insieme. Nel corso dei tre giorni e delle tre notti non passa mai un medico. Alla fine vengo mandato nel reparto di urologia, per un semplice calcoletto vi rimango tre settimane. Due operazioni, la prima non riuscita. Il reparto è in ristrutturazione, mancano anche gli strumenti più elementari. Mi portano a fare la litotrissia, ma salta perché non c’è la cartuccia. Dovrò tornare a gennaio». Andrea dice di avere imparato che gli infermieri più gentili sono gli stranieri e i ragazzi tirocinanti.

Corriere 2.1.14
I limiti della sperimentazione animale
di Umberto Veronesi


Caro direttore, l’articolo di Gian Arturo Ferrari (Corriere della Sera del 31 dicembre) sul tema «La scienza, gli animali e i diavoli in bottiglia» è stato una piacevole sorpresa per l’ equilibro che esprime nel dibattito, non sempre pacato, di questi giorni sulla sperimentazione animale.
Sono grato all’autore per avermi citato e soprattutto per aver sottolineato il tema che mi turba di più: il paradosso del consumo di carne nel mondo. Ferrari parla giustamente di massacro e io vorrei darne una dimensione: stiamo parlando di 4 miliardi di capi di allevamento che ogni anno vengono sacrificati per soddisfare il palato di circa due miliardi di esseri umani, in gran parte sovralimentati. Non possiamo infatti dimenticare che il consumo eccessivo di carne, oltre ad essere una crudeltà inaccettabile, è una delle cause principali dell’ingiustizia alimentare che fa sì che circa un miliardo di persone non abbia cibo a sufficienza e muoia di fame, fra cui molti bambini, mentre due miliardi si ammalino e muoiano per eccesso di alimentazione.
In realtà ci sarebbe cibo a sufficienza per tutti se non dovessimo nutrire quei 4 miliardi di animali utilizzati come macchine da trasformazione di cibo. Praticamente il 50% dei cereali e il 75% della soia raccolti nel mondo sfamano animali da allevamento destinati al macello, invece che esseri umani. I poveri animali inoltre sono macchine non efficienti, anzi dannose per l’equilibrio ecologico: basta pensare che per ottenere un chilo di carne sono necessari quindicimila litri di acqua, mentre per un chilo di cereali ne sono sufficienti mille. Per questo sono convinto, come Albert Einstein, che l’ abbandono della carne non sia una scelta, ma una necessità e il mondo dovrà convertirsi al vegetarianismo per sopravvivere. Detto questo, tengo a precisare che io sono vegetariano per motivi etici e che ho deciso di non mangiare animali molto prima di appassionarmi alla scienza, alla salute e alla sostenibilità ambientale.
Ho scelto di non mangiare gli animali perché li amo e non capisco come si possa ingoiare qualcuno che si ama. Capisco quindi le ragioni degli animalisti. Tuttavia il mio amore per la scienza e la mia fiducia nella sua capacità di migliorare il benessere del mondo sono nel tempo diventati molto profondi e dunque capisco anche le ragioni degli scienziati. Penso quindi che, come già insegnava sant’Agostino quasi 2000 anni fa, dobbiamo scegliere il male minore. Accettando la sperimentazione sugli animali nei casi in cui è ancora indispensabile, accettiamo ciò che non è un bene in sé, ma è un tributo che paghiamo all’etica, in vista di un vantaggio per un maggior numero di esseri viventi.
Fondatore e direttore scientifico  dell’Istituto europeo di oncologia

Repubblica 2.1.14
Perché al paese serve una politica energetica
di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini


La questione energetica rappresenta uno dei punti critici che condiziona sia lo sviluppo economico sia la sicurezza del nostro Paese poiché oltre l’80% dei consumi viene soddisfatto attraverso le importazioni. La dipendenza dall’estero determina deflussi di capitali per circa 60 miliardi di euro all’anno penalizzando la bilancia commerciale e compromettendo le possibilità di investimento sul territorio nazionale.
Negli anni ’60 il tentativo di Enrico Mattei e Felice Ippolito di rendere l’Italia più indipendente dal punto di vista energetico e quindi più autonoma dal punto di vista politico non ebbe fortuna: Mattei, che stava cercando di sottrarsi all’influenza delle “sette sorelle”, morì in un oscuro incidente aereo, mentre Ippolito, che aveva puntato con decisione sull’energia nucleare, fu messo in carcere con delle accuse del tutto infondate.
Nel periodo attuale le fonti rinnovabili costituiscono una grande occasione per ridurre le importazioni e abbattere i prezzi dell’energia. Però, crediamo che la transizione da un sistema basato sui combustibili fossili verso un sistema alimentato in misura maggiore con le fonti rinnovabili non possa essere lasciata solo al gioco degli incentivi e all’azione delle “forze di mercato” ma debba essere guidata dal governo per evitare che si creino delle situazioni insostenibili. Se consideriamo il settore elettrico possiamo osservare che oggi in Italia i prezzi sono tra i più alti in Europa ed esiste una sovraccapacità strutturale di generazione, superiore al 30% dei consumi. Ciò è avvenuto perché negli ultimi dieci anni non c’è stata alcuna programmazione mentre venivano costruite decine di centrali a gas ad alto rendimento e, grazie ai generosi incentivi, aveva luogo una fortissima espansione dell’elettricità prodotta con le energie rinnovabili. Ma la crescita rapidissima dell’offerta si è infranta sugli scogli della recessione che ha determinato il crollo della domanda di elettricità portando fuori mercato diversi impianti a combustibili fossili. E la situazione sarebbe stata ancora più grave se fosse partito il programma nucleare propagandato dal governo di centrodestra e sponsorizzato dai grandi industriali del nostro Paese.
Il problema dell’eccesso di offerta di elettricità dunque non dovrebbe essere affrontato in modo estemporaneo mantenendo artificialmente in vita le centrali inattive con i sussidi oppure abbandonandole con i conseguenti fenomeni di inquinamento e degrado del territorio. Mario Pirani in un articolo su questo giornale ha suggerito di considerare la trasformazione e il riutilizzo degli impianti attraverso un adeguato programma di investimenti. Queste centrali, infatti, rischiano di rimanere definitivamente ferme sprecando la dotazione di infrastrutture — reti elettriche, impianti di trattamento delle acque, porti e strade — ad esse collegate. Si tratta di un problema molto delicato in quanto i costi di dismissione e di riconversione dei vecchi impianti sono consistenti e oltretutto si viene a determinare un problema di occupazione che deve essere ricollocata in altri settori.
Per questi motivi la futura espansione dell’elettricità da fonti rinnovabili dovrebbe essere inserita nell’ambito di una programmazione energetica che preveda l’evoluzione della domanda e del-l’offerta di elettricità e che metta a punto un piano di dismissione e di riconversione delle centrali termoelettriche fuori mercato, a partire da quelle più vecchie, inefficienti e inquinanti. Ovviamente il settore privato potrebbe avere un ruolo centrale sia nella stesura del piano che nel cofinanziamento degli investimenti.
Inoltre, dovremmo realizzare nuove soluzioni tecnologiche per avere un’offerta non inquinante, inesauribile, a basso costo e con contenuti tempi di ritorno degli investimenti. Pertanto, l’Italia dovrebbe elaborare in tempi brevi una politica industriale per promuovere il settore di produzione delle tecnologie rinnovabili. L’obiettivo è quello di sostenere lo sviluppo di una filiera che va dalla ricerca all’industria proprio per far sì che i generosi incentivi per le energie rinnovabili abbiano ricadute positive sulla produzione e sull’occupazione nazionale.

Corriere 2.1.14
Migranti Ue, cadono le limitazioni
Romeni e bulgari liberi di muoversi
Allarme in Gran Bretagna. Ma in realtà mancano 60 mila lavoratori
di Luigi Offeddu


BRUXELLES — Giornali come il Daily Express , fondato nel 1900 e con un guerriero crociato di gusto padano a guardia della testata, se ne dicono certi, certissimi: «Dalla mezzanotte non valgono più le restrizioni sui visti, e solo in questa prima settimana arriveranno in Gran Bretagna settemila romeni e bulgari, mille al giorno. Il primo volo strapieno da Bucarest è atterrato a Londra alle 7.40 di stamane. I primi autobus da Bucarest partono domani e arriveranno qui sabato, un biglietto lo si trova a 50 sterline (circa 60 euro, ndr)». Conclusione, nel titolo che occupa la prima pagina: «Eccoci, Gran Bretagna dei benefit, arriviamo! Timori per l’inizio dell’alluvione degli immigrati».
Timori condivisi da altre voci euroscettiche, anche in Germania, anche in Spagna. Ma la decisione tanto a lungo osteggiata, da David Cameron e da altri, ora è realtà definitiva: dal primo gennaio non sono più ammesse restrizioni particolari alle frontiere per i cittadini romeni e bulgari che intendano vivere e lavorare in altri Paesi della Ue. «Oppure — voce in controcanto degli euroscettici — restarvici, per goderne la migliore assistenza socio-sanitaria e rubare i posti di lavoro a chi già lotta con la crisi economica» Già oggi, circa 4 milioni di romeni e bulgari lavorano in tutta la Ue. Quei Paesi che ancora applicavano controlli più stretti su passaporti, carte di identità e visti — Austria, Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo, Malta, Olanda, Spagna e Regno Unito — non potranno più farlo. E qui nasce la «sindrome della diga», cioè dell’ondata incontrollabile, che avvertono alcuni (meno però di un paio di anni fa) a Londra, L’Aia, Berlino. Telecamere e inviati mostrano cittadine dell’Est che già si spopolano dei propri abitanti Rom, in partenza per l’Ovest. Ma varie statistiche, citate per esempio dal Times , decapitano subito l’argomento: taxisti, infermieri, badanti, cameriere, sono migliaia e decine di migliaia i posti di lavoro rifiutati dai cittadini britannici, tedeschi o spagnoli, che aspettano una richiesta di assunzione dall’Est. Solo nel Regno Unito, stando ai siti Web romeni che pubblicano gli elenchi delle inserzioni, sono in offerta immediata 63 mila posti.
C’è chi prevede un’alta marea populista alle elezioni europee di maggio, come conseguenza di queste misure. E però non c’erano alternative, perfino Cameron oggi lo ammette: i Trattati europei hanno un perno giuridico che si chiama libera circolazione delle persone e delle merci, via via rafforzata — dal 1985/95 — dall’accordo di Schengen, che garantisce i diritti di 400 milioni di persone, di 26 Paesi diversi. Romania e Bulgaria, tenute finora in lista di attesa perché dovevano dimostrare di essere pronte a garantire controlli, diritti e sicurezza, sono state «promosse» da tutti gli altri governi.
Ci saranno naturalmente altre tempeste, Cameron ha già in cantiere diverse misure per ostacolare l’«invasione»: lo straniero che vorrà i sussidi inglesi dovrà attendere da 3 a 6 mesi, chi verrà sorpreso a mendicare verrà espulso e non potrà tornare prima di un anno. Il premier inglese ne ha discusso anche con il presidente della Commissione Europea, José Manuel Barroso, presumibilmente non entusiasta. Mentre il commissario europeo all’occupazione, Làszlò Andor, che già ammonì contro il rischio che la Gran Bretagna diventi un «Paese sgradevole», oggi ricorda: «La Commissione riconosce che in una particolare regione o città possono esservi problemi locali causati da un grande, improvviso afflusso di persone provenienti da altri Paesi Ue. Per esempio, può esservi una pressione sull’educazione, gli alloggi, i servizi sociali. Ma la soluzione è affrontare questi problemi specifici, non alzare barriere contro quei lavoratori».

l’Unità 2.1.14
India, schiaffo all’Italia da 560 milioni di euro
Contratto cancellato e arbitrato internazionale per risolvere la vicenda della fornitura di 12 elicotteri Agusta Westland
Non solo il caso Marò
di Umberto De Giovannangeli

 
l’Unità 2.1.14
Svolta Fiat in America: 3,6 miliardi per Chrysler
Il Lingotto rileva il 41% in mano al fondo Veba dei sindacati americani
Non ci sarà aumento di capitale. Il gruppo italiano dispone ora del 100%
di Marco Ventimiglia


La Stampa 2.1.14
Papa “marxista”
A rischio i dollari dei filantropi Usa
Ricchi cattolici allarmati dalla linea di Francesco
Problemi per il restauro della cattedrale di St Patrick
di Paolo Mastrolilli

qui

l’Unità 2.1.14
Gli errori dell’Occidente
di Pino Arlacchi


Repubblica 2.1.14
Il paradosso dell’Unione un sogno per i popoli dell’Est una delusione per i fondatori
Xenofobia e crisi economica spingono gli scettici
di Andrea Bonanni


BRUXELLES — Fuochi d’artificio a Riga per festeggiare l’entrata nell’euro. Clima da stato d’assedio agli aeroporti di Londra e Francoforte per il timore di una annunciata «invasione» di lavoratori bulgari e rumeni dopo la caduta delle restrizioni al trattato di Schengen. L’Europa che si affaccia al nuovo anno appare sempre più schizofrenica.
Sulle sue nuove frontiere esterne, l’Unione continua ad essere un faro verso cui si concentrano ambizioni e speranze. Dal Medio Oriente e dal Nord Africa cresce il flusso di migranti che rischiano la vita, e spesso la perdono, per raggiungere la terra promessa. In Ucraina la folla sfiora la guerra civile e sfida i carri armati per non perdere il legame con l’Ue e non essere risucchiata sotto il giogo di Mosca. Perfino Putin è costretto a fare concessioni, come la liberazione di Khodorkovsky e delle Pussy Riot, cedendo alle pressioni delle capitali europee.
Ma intanto nella Vecchia Europa cresce il disamore verso i simboli di quello che è stato il più grande progetto del dopoguerra. E cala, fino a scomparire, il senso di solidarietà che ha reso possibile la costruzione di quella che itrattati definiscono «una comunità di destini». La Gran Bretagna si avvia, nella rassegnazione collettiva, ad abbandonare un’Unione da cui si è di fatto già esclusa. E dovunque la classe politica si prepara allo tsunami delle destre populiste che potrebbero conquistare un terzo dei seggi alle prossime elezioni europee.
Così questo Capodanno 2014 ci regala due storie europee apparentemente inconciliabili. Quindici anni dopo la nascita dell’euro, nella notte del 31 dicembre la Lettonia è stata il diciottesimo stato ad adottare la moneta unica. La storia di questo piccolo Paese di due milioni di abitanti potrebbe essere un esempio per tutti. I lettoni avrebbero dovuto essere tra i primi est europei ad adottare l’euro. Ma nel 2008-2009 Riga fu letteralmente travolta dalla crisi finanziaria registrando in un solo anno una recessione del 25 per cento, che fa impallidire al confronto la catastrofe greca. A differenza dei greci e di altri «vecchi» europei, però, i lettoni non hanno cercato di evitare le dure medicine prescritte da Bruxelles. Le hanno applicate con stoicismo e determinazione. Ed oggi la Lettonia registra una crescita economica del 4 per cento annuo, un deficit dell’1,4 per cento, un debito irrisorio pari al 40 per cento del Pil e una disoccupazione al di sotto della media Ue. Il risultato del «miracolo lettone» è la sospirata adesione all’euro festeggiata ieri. Anche se, ha avvertito il premier Valdis Dombrovskis, l’ingresso nella moneta unica «non e’ una scusa per non perseguire un bilancio rigoroso e una politica macroeconomica responsabile». Parole che nell’eurozona ben pochi politici si azzardano a pronunciare con orgoglio.
Mentre la Lettonia raggiunge l’Estonia nella moneta unica (la Lituania, protagonista di un risanamento analogo arriverà l’anno prossimo), nella «vecchia» Europa il Capodanno ha portato una nuova folata di sospetti, paure e intolleranza. Dal primo gennaio infatti è finita l’eccezione al trattato di Schengen invocata da Gran Bretagna, Germania, Francia, Austria, Belgio, Lussemburgo, Malta e Olanda per limitare il diritto di stabilimento dei cittadini rumeni e bulgari. La novità è stata accolta, soprattutto nel Regno Unito, come l’annuncio di una imminente invasione barbarica: un arrembaggio indiscriminato ai posti di lavoro che già mancano e alle garanzie delle stato sociale che già barcollano. L’Italia aveva aperto le porte a bulgari e rumeni nel 2012 e l’invasione non c’è stata. La Commissione ha ricordato che nella Ue già lavorano tre milioni di immigrati dalla Bulgaria e dalla Romania e che difficilmente questa cifra è destinata ad aumentare in modo significativo. Senza contare il fatto che oggi, nonostante gli alti livelli di disoccupazione, ci sono in Europa almeno due milioni di posti di lavoro vacanti che pesano, questi sì, sulla tenuta dello stato sociale. Tutto inutile. I tabloid inglesi hanno mandato i loro inviati agli aeroporti di Londra per intervistare l’orda di invasori. Che naturalmente non si è fatta vedere. Intanto, però, la campagna terroristica ha fornito nuovo combustibile ai movimenti nazionalisti e xenofobi che, dalla Gran Bretagna alla Francia, dal Belgio all’Olanda, si preannunciano come i trionfatori delle prossime elezioni europee.
Qual è allora il volto di questa Europa del 2014? Quello ottimista e determinato della piazza di Riga in festa, o quello oscurantista e spaventato dell’aeroporto di Heathrow che aspetta i barbari che non verranno? Quello della solidarietà e della responsabilità, o quello della diffidenza e dell’opportunismo? I due volti di un’Unione schizofrenica si inseguono e si combattono ormai da sei anni, dall’inizio della crisi che ha messo in discussione tutti, ma proprio tutti i valori fondanti dell’Unione. L’unica previsione che si può fare è che la schizofrenia continuerà anche nell’anno appena cominciato. La lunga guerra interiore dell’Europa con se stessa non è ancora arrivata allabattaglia finale.

l’Unità 2.1.14
De Blasio giura
L’America liberal fa il tifo per lui
di Virginia Lori


il Fatto 2.1.14
New York
Bloomberg il munifico paga (650 milioni) e se ne va dopo 12 anni
New York
di A. V.


Fare il sindaco di New York per 12 anni, se ti chiami Michael Bloomberg e sei miliardario, ma soprattutto noto per le tue attività filantropiche, costa 650 milioni di dollari: usciti direttamente dalle sue tasche. Una cifra che suona esorbitante ma che il New York Times dettaglia con precisione contribuendo a dare al sindaco uscente, non solo piena sufficienza, ma anche il titolo di primo cittadino più generoso nei confronti della città amministrata. Bisogna ricordare che Bloomberg, sin dal primo giorno, ha rinunciato allo stipendio di sindaco (quasi 3 milioni di dollari), accettando, costretto dalla legge, a un pagamento annuale, simbolico, di un dollaro. Il suo posto è costato alle tasche dei contribuenti il totale di 12 dollari: i migliori soldi spesi nella storia della città, visto che in cambio ha ricevuto un investimento milionario.
   TANTE LE VOCI che hanno inciso sul conto finale, a cominciare dai due mega acquari che Bloomberg ha voluto far installare all’interno del palazzo comunale. Oltre alle spese di allestimento, ovviamente, l’ex sindaco ha fatto fronte anche a quelle per la pulizia settimanale: circa 63mila dollari durante i tre mandati. Circa 900mila dollari sono, invece, quelli spesi per pagare quotidianamente colazione e pranzo ai componenti del suo staff (tradizione importata da Bloomberg television dove i dipendenti hanno accesso gratuito a due bar forniti di tutti i tipi di cibi e bevande) e 6 milioni quelli per l’utilizzo del suo areo privato, usato per gli spostamenti di lavoro: collaboratori inclusi, ovviamente. E se tre campagne elettorali gli sono costate altri 268milioni, altrettanti ne ha donati, negli anni, a gruppi impegnati nell’arte, in iniziative civiche, di salute e culturali. Per non parlare delle “donazioni” fatte a favore di altri candidati in corsa per cariche pubbliche, che si fossero personalmente impegnati a sostenere la legalizzazione del matrimonio gay.
 
l’Unità 2.1.14
Un miliardario cinese per il New York Times
di Vi. Lo.


il Fatto 2.1.14
America 2014 primo giorno dell’Obamacare
Per milioni di cittadini è entrata in vigore l’assicurazione che taglia i costi sanitari
di Angela Vitaliano


New York Dunque, se a mezzanotte e un minuto, ho bisogno di andare al pronto soccorso, sono coperta dall’assicurazione? ”. Da brava meridionale, faccio qualsiasi tipo di scongiuro mentre rivolgo questa domanda all’impiegata dell’assicurazione alla quale ho scelto di affidarmi, ora che, grazie all’Affordable Care Act – meglio noto come Obamacare – potrò, finalmente, permettermi una copertura sanitaria. È il 31 dicembre e le linee di tutte le assicurazioni che hanno scelto di offrire i loro prodotti sul “mercato” dell’Aca, sono intasate tanto che si rischia di passare il Capodanno in attesa.
LA MIA DURA un’ora e cinquanta minuti; poi l’impiegata mi conferma che il contributo del governo a mio favore è stato già versato e che io posso pagare la mia quota al telefono, con carta di credito o attendere il bollettino postale. “Carta di credito, adesso”, rispondo senza nemmeno darle tempo di finire. Se è vero che i pagamenti sono possibili fino al 10 gennaio, io, che di questo mondo fatto di “co-pay” e “deducibili” ancora non ho capito molto, non voglio correre il rischio di cominciare l’anno con qualche difficoltà. L’impiegata, gentilissima e paziente, mi dice di non preoccuparmi e che tutti le fanno la stessa domanda: sì perché, per la prima volta, milioni di americani o residenti in America per motivi di studio o lavoro, potranno permettersi un’assicurazione e hanno quasi difficoltà a crederci.
La partenza dell’Obamacare poi è stata tutta in salita: disastro dopo disastro. Il fallimento del sito web, lungamente fuori uso, aveva avuto due conseguenze connesse fra loro: consentire agli oppositori della riforma (e non solo) di attaccarla senza sosta, diffondendo anche scenari apocalittici e spingere solo 150mila persone a sottoscrivere nuovi piani assicurativi attraverso la nuova legge. Tanto che lo stesso presidente Obama, in più di un’occasione, era intervenuto per prendersi tutte le colpe (evidentemente non esclusivamente sue) e chiedere scusa. Poi le cose sono cambiate: il sito ha cominciato a funzionare e le storie “positive” hanno cominciato a farsi largo fra le innumerevoli lamentele, tanto che nel solo mese di dicembre, a sottoscrivere un piano sanitario tramite l’Aca, sono state oltre 2 milioni di persone.
A FUNZIONARE meglio, gli Stati che hanno attivato siti locali per rispondere alle richieste, come lo Stato di New York. Anche qui, tuttavia, le cose non sono state semplici: io, a esempio, che avevo completato la mia iscrizione il 15 ottobre, mi sono accorta, per puro caso, che il sito aveva perso tutte le mie informazioni e dovevo ricominciare da capo. Alla fine, dopo tre giorni, e molte ore al telefono, tutto si è risolto grazie all’invio, via sms, di una copia del mio visto: ma stress e frustrazione garantiti, senza dubbio. Coloro che non hanno sottoscritto un piano assicurativo finora, potranno farlo entro la fine di marzo senza incorrere nel pagamento di nessuna multa e, il miglior funzionamento del sito e la maggior popolarità della legge, spingono l’amministrazione a sperare che i “numeri” possano crescere in maniera significativa, cancellando del tutto il fallimento degli esordi.
Ad aver sottoscritto piani assicurativi tramite l’Obamacare, fra l’altro, non è solo chi prima non poteva permettersi i costosissimi premi annuali e che ora riceverà un contributo dal governo, ma anche chi, in base al reddito, continuerà a pagare per intero la sua quota ma – tramite il “mercato dell’Aca” – potrà risparmiare cifre considerevoli, a partire dai 2.500 dollari l’anno grazie a offerte a più basso costo.

il Fatto 2.1.14
Fumata bianca: in Colorado spinello libero
Denver diventa come Amsterdam
di Alessio Schiesari


Cinquantanove dollari e 74 centesimi. È l’importo del primo scontrino per la vendita di marijuana a scopo ricreativo nella storia degli Usa. A batterlo è stata Toni Fox, proprietaria del negozio 3d Cannabis di Denver. Ieri ha aperto le serrande alle 8 perché voleva essere la prima negoziante a usufruire della legge che legalizza la marijuana in Colorado, come richiesto dal 65% degli elettori in un referendum del novembre 2012. Ci si aspettava una fila da concerto, invece ad affollare il suo negozio c’erano soprattutto giornalisti. “Sono un’attivista per la legalizzazione da vent’anni, ma non sono una hippie”, racconta. Da anni il suo Cannabis 3d vende marijuana su prescrizione medica, attività permessa in altri 20 Stati. A dicembre la Marijuana enforcement division, la sezione dell’agenzia dei tributi che si occupa dell’applicazione della nuova legge, le ha comunicato che il suo negozio è tra i 37 autorizzati a vendere cannabis a tutti, non solo ai malati. “La differenza è il prezzo: la marijuana per scopi ricreativi costa di più, circa 14 dollari al grammo, perché le tasse sono più alte”, spiega Toni. Secondo l’ufficio tributi del Colorado, nel 2014 le accise sulla cannabis dovrebbero portare all’erario 67 milioni. “La licenza costa 5 mila dollari. Ogni pianta è contrassegnata da una frequenza radio che la rende rintracciabile in ogni momento e tutta la produzione è controllata dalla polizia con telecamere. Produco 1200 piante, ma arriverò a 35 mila”.
SIA LE AUTORITÀ che gli attivisti per la legalizzazione insistono sul fatto che ora il mercato sarà controllato. Secondo Mason Tvert, del Programma sulle politiche della Marijuana, “oggi in tutti gli Usa si acquisterà marijuana. La differenza è che in Colorado si compra in negozio, non in strada”. Regolare, controllare, tassare: queste le parole con cui i comitati pro legalizzazione stanno convincendo gli americani a lasciarsi alle spalle il proibizionismo. In primavera la vendita di marijuana per scopi ricreativi sarà permessa anche nello Stato di Washington e, quest’anno, si terranno referendum sulla legalizzazione anche in California, Oregon, Alaska e Arizona. Nel 2013 venti Stati hanno mitigato le leggi sulle droghe leggere e, secondo Gallup, a ottobre il 58% degli americani era favorevole alla legalizzazione, dato record.
I detrattori sostengono che Denver diverrà la nuova Amsterdam. Hotel, tour operator e discoteche si stanno preparando a un’ondata di turisti. Poche le limitazioni: è sufficiente aver 21 anni e non si può fumare in spazi pubblici. I negozi come quello di Toni non sono coffee shop, perché non è permesso consumare all’interno. In compenso, si può fumare in molti hotel e locali notturni. Per rendere il prodotto più appetibile, molti negozianti hanno cambiato i nomi di alcune varietà: niente più “urina di gatto romulano”, né “scopafulmine alaskiano”. Perché spiega Toni: “Ora che siamo un business come gli altri, abbiamo bisogno di nomi che piacciano alla gente, non che li spaventi”.

il Fatto 2.1.14
Snowden nipotino di Orwell e le profezie di “1984”
Il Datagate supera lo Stato spione immaginato nel libro-manifesto
di Alessandro Oppes


Se non avessimo la certezza – e in realtà l’abbiamo – che è tutto tremendamente vero, angosciosamente autentico, potremmo anche pensare che si sia trattato di una clamorosa operazione commerciale per rilanciare un vecchio successo editoriale, un po’ impolverato negli scaffali delle librerie dal peso degli anni. Il pensiero non poteva che correre a George Orwell e al suo 1984 quando, nel giugno scorso, Edward Snowden cominciò a far scricchiolare certezze e a sollevare interrogativi a ogni latitudine del pianeta con le rivelazioni dal suo provvisorio rifugio in un hotel di Hong Kong. Ci pensarono in tanti, al punto che le vendite di quel libro pubblicato nel ‘49, un anno prima della morte dello scrittore britannico, aumentarono del 7000 per cento su Amazon in poche ore.
SCONTATO, sebbene le notizie sul gigantesco sistema di controllo di telefonate e comunicazioni digitali instaurato dagli Usa, diffuse dall’ex tecnico della Cia prima in un’intervista al South China Morning Post, poi attraverso The Guardian con la collaborazione del reporter Glenn Greenwald, sono servite a consolidare nell’opinione pubblica internazionale una convinzione ben precisa: che la realtà, ormai, abbatte i confini della fantascienza. Il futuribile è contemporaneo. Anzi, può arrivare a essere persino più sofisticato, avvolgente e inquietante. Ha un bel dire quel giudice federale statunitense che, ritenendo “probabilmente incostituzionali” i metodi di spionaggio adottati dalla National Security Agency, li descrive come “quasi orwelliani”. A rispondergli, indirettamente, è lo stesso Snowden dal suo attuale, provvisorio esilio russo: in un breve messaggio tv di Natale – i cosiddetti “auguri alternativi” a quelli della regina Elisabetta II, una tradizione dell’emittente Channel 4, che li affida al personaggio dell'anno – la “talpa” assicura che il Grande Fratello immaginato da Orwell “è nulla rispetto alla realtà. Un bambino che nasce oggi crescerà senza alcun senso della privacy, non saprà mai cosa vuol dire avere un momento privato, per se stesso, non registrato. Un pensiero non analizzato”.
La domanda retorica “stiamo vivendo nel 1984?”, che già 6 mesi fa, nei giorni dell’esplosione del Datagate, si poneva il New Yorker, trovava immediata risposta sulla rivista Usa: “Le attuali possibilità tecnologiche di sorveglianza, raccolta e archiviazione dati oltrepassano ciò che Orwell immaginò”. Lo stesso Snowden lo spiega in due parole: che sono, in fondo, “i microfoni, le videocamere, le tv che ti guardano” raccontate in quelle pagine, confrontati col fatto che ormai “tutti abbiamo sensori nelle nostre tasche che seguono le nostre tracce ovunque andiamo”?
Certo, è impossibile non esser tentati da un parallelismo tra Winston Smith, protagonista nel mondo pre-digitale di 1984, membro subalterno del partito unico nella potenza totalitaria di Oceania, che infine decide di ribellarsi alle regole asfissianti del Grande Fratello, e l’ex tecnico dell’Nsa Edward Snowden. Entrambi lavorano per i servizi di sicurezza dello Stato, entrambi agiscono da soli e sono anti-eroi.
Più difficile invece trovare similitudini tra gli Stati Uniti dei giorni nostri e la cosiddetta Oceania (che in realtà indicava un’unità territoriale formata da Gran Bretagna, Irlanda, Americhe, Australia, Nuova Zelanda e Africa meridionale) immaginata da Orwell a fine anni ’40. Non risulta, soprattutto, che dietro la cura con cui miliardi di conversazioni e comunicazioni digitali vengono raccolte e catalogate ci sia niente di simile all’ossessione repressiva che emanava dai teleschermi del Big Brother. Oggi ce la presentano come “guerra al terrorismo”. Un giorno forse sapremo se è vero; nel frattempo rischiamo di aver perso per sempre il diritto alla privacy.

Repubblica 2.1.14
Lo stakhanovista cinese
La voglia di fuga delle tute blu d’Oriente
di Giampaolo Visetti


Nessun operaio lavora quanto quelli di Pechino. Ogni anno in 600 mila muoiono di stress. Ecco perché adesso fuggono dalla fabbrica più dura del mondo
L’operaio cinese lavora sempre, guadagna poco e muore giovane.
Come Shi Zaokun, che a 15 anni si era messo in testa di superare Aleksej Stakhanov: è morto dopo un mese. Grazie a milioni come lui
il Dragone ha sorpassato tutti, ma a un prezzo troppo alto.
E ora molti preferiscono scappare

PECHINO. Shi Zaokun non sapeva dove si trova l’Ucraina. Non conosceva nemmeno le statistiche, a cui non par vero di emergere un istante dalla noia esibendo un record. L’ultimo: l’operaio cinese ha superato l’ex minatore dell’Urss, diventando l’individuo più laborioso della storia. Shi Zaokun aveva quindici anni e aveva lasciato il villaggio per cercare del lavoro a Shanghai. Ha mentito sull’età, si è procurato un permesso da ventenne ed è arrivato alla catena di montaggio della “Pegatron”. Pochi yuan all’ora, ma la possibilità di non staccare per dodici ore al giorno, senza una pausa. Quello che serve per mantenere i genitori anziani in campagna. “Pegatron” è uno dei marchi fantasma che popolano la Cina. Pochi lo conoscono, ma quasi tutti acquistano ciò che produce. Proprietà a Taiwan, è uno dei grandi terzisti dei colossi dell’elettronica: Apple, Sony, Samsung e tutti gli altri. “Pegatron” è cresciuto quando il pioniere dei laboratori-occulti del mondo, l’altra taiwanese “Foxconn”, con sede a Shenzhen, è diventata imbarazzante: una tragica catena di suicidi tra gli operai, che sono oltre un milione, risse tra dipendenti disperati, reclusi per mesi dentro i cancelli della fabbrica. Shi Zaokun invece era orgoglioso e per due ragioni: a soli 15 anni era arrivato a Shanghai, impresa mai riuscita al padre, ed era stato ingaggiato da quelli che fanno i-Phone, tablet, computer. La fabbrica dei sogni: sulle ragazze, in paese, avrebbe fatto colpo. È stato qui che per la prima volta, da un vecchio caporeparto, ha sentito pronunciare il nome Aleksej Stakhanov. Gli fu detto, in poche parole, che quel minatore del Don, quando l’Unione Sovietica faceva la stessa paura della Cina di oggi, riuscì a estrarre carbone 14 volte più velocemente dei compagni. Un eroe della patria, c’è anche il monumento. Shi Zaokun, ha raccontato un amico, disse che lui avrebbe superato Stakhanov, lavorando quattordici ore al giorno senza fermarsi e saltando il giorno libero. Per la Cina e per la gloria dell’elettronica, che stanno cambiando l’umanità. È durato un mese.
Una sera i genitori hanno ricevuto una telefonata da Shanghai: «Vostro figlio ha il raffreddore, venite ». Shi Zaokun, il piccolo Stakhanov di Pudong, era già morto.
Per l’azienda è stata la polmonite, che ha falciato anche altri tre degli altri 100 mila colleghi. Alla famiglia è stato offerto un risarcimento di 13 mila euro: il prezzo di un figlio cinese di 15 anni che poteva rendere 600 euro al mese. La madre ha rifiutato, pretende l’autopsia, ma non ha i 1.500 euro per pagarla. Si stanno tassando i colleghi, terrorizzati dall’idea che dopo la “fabbrica dei suicidi” la Cina possa esibire anche lo “stabilimento dei cadaveri”. Apple ha inviato gli ispettori: non fa bene, sotto Natale, sapere che hai in mano un giochino che uccide minorenni.
La storia di Shi Zaokun, icona del sacrificio del turbo-capitalismo socialista cinese che raccoglie il testimone degli schiavi inghiottiti dallo sfacelo dell’industria comunista sovietica, è però riuscita a diventare un simbolo: quello del luogo di lavoro più potente, drammatico, prodigioso e perennemente mutante della contemporaneità. In trent’anni non si lancia una nazione, con 1,3 miliardi di persone alla fame, al secondo posto dell’economia globale. Impossibile: a meno che non si sia in grado di «spianare le montagne e far scorrere i fiumi in salita». Devi cioè, nella testa, essere la Cina. La ricetta sembra semplice e per la prima volta l’ha scritta uno studio internazionale condotto dal più grande sito web di offerte lavoro, in collaborazione con il più importante istituto di ricerca sui mercati globali, con sede in Germania. «La Cina sorpassa tutti in tutto — questo il verdetto — perché nessun altro lavoratore del mondo lavora quanto quello cinese, con la stessa capacità di sopportare i sacrifici». Il primato va coniugato anche al passato: nella storia moderna non c’è uno Stakhanov che avrebbe retto il passo di uno Shi Zaoukun. L’Urss ne ha avuto uno: in Cina sono centinaia di milioni e ogni anno, secondo China Labor Watch, 600 mila operai e impiegati muoiono per esaurimento da eccesso di fatica. L’altra faccia della medaglia del Pil, capace direstare a due cifre per un decennio prima di essere ora schiacciato dalla crisi di Usa e Ue.
La coppa del mondo della laboriosità, assegnata da ottomila intervistati rappresentativi in otto potenze di quattro continenti, resta associata infatti ad un trofeo che si tende a nascondere nell’armadio: i cinesi sono gli stakhanovisti del presente, ma anche i più colpiti da esaurimenti fisici e mentali e nelle fabbriche del Guangdong l’attesa di vita è inferiore a quella nel deserto della Somalia: prima dei quarant’anni sei da mandare al pascolo. L’operaio cinese lavora sempre, guadagna poco e muore giovane: la formula perfetta sia per una multinazionale delocalizzata che per uno Stato alla preistoria del welfare. E i dati della ricerca lo confermano. Ufficialmente uno Shi Zaokun qualsiasi lavora nove ore e mezzo al giorno, a cui ne aggiunge una mezza per raggiungere il luogo di lavoro. Gli straordinari però sono necessari, per risparmiare gli yuan per tornare dove si è nati una volta all’anno: si arriva così a 14 ore al giorno, sette giorni su sette. Pechino, travolta da accuse e vergogna, corre ora ai ripari. Il consiglio di Stato ha fissato 40 ore lavorative alla settimana e 5 giorni di ferie all’anno. Obbedire non conviene a nessuno e non risulta che qualcuno sia stato fermato perché non voleva saperne di riposare.
Per amor di competizione: alle spalle dei cinesi, i più fedeli al dio lavoro sono gli statunitensi, tallonati dai tedeschi, che non arrivano alle 33 ore e mezzo settimanali. Maglia nera della pigrizia alla Francia, Italia non pervenuta. Coincidenze: Giappone e Corea del Sud non hanno com-pilato i questionari, ma il record del lavoro rispecchia fedelmente il primato economico delle super- potenze economiche di Asia, America ed Europa. L’Agenzia Onu che monitora l’organizzazione internazionale del lavoro, assicura che l’incrocio tra fasi-boom e cicli-crisi risulta decisivo. Uno studio della Banca mondiale, puntato sui colletti bianchi, estende però anche agli uffici la tendenza della fabbrica. La scrivania più occupata del mondo si trova oggi in un grattacielo di Shanghai, seguita dai desk di Hong Kong e Singapore. In Asia anche i manager lavorano tra le 12 e le 13 ore al giorno, domenica compresa, contro le nemmeno 8 dei colleghi europei e americani. Non ricevono la “ciotola di riso” dei loro operai, ma è chiaro che l’Oriente, archiviato rapidamente il socialismo rivoluzionario, punta ora a scardinare un altro mito del post-capitalismo occidentale: non è la cosiddetta nuova qualità a impennare la crescita, ma la vecchia e sporca quantità. Più un popolo lavora e più, Emirati a parte, lo Stato cresce. Per chi non è ricco di famiglia, considerato che oggi è l’Asia ad anticipare le tendenze, non è una buona notizia. E in Cina l’hanno già capito. Per la prima volta anche le tute blu del Dragone vogliono emigrare. Sogno di massa: andare lontano, guadagnare di più, capire cosa significa “qualità della vita” e permettersi di respirare senza sottrarre i giorni rubati da un cancro ai polmoni.
Nell’epicentro del lavoro, un altro terremoto. Per l’Accademia delle scienze di Pechino oltre 100 milioni di lavoratori specializzati cinesi sono pronti a espatriare. Gallup rivela che in un anno sono emigrati 60 milioni di cinesi, mentre 30 milioni attendono il visto. In ottobre ce l’hanno fatta in 600 mila, ma il 13% della forza lavoro cinese sogna l’estero. L’Occidente “al tramonto” non è sulla lista: le terre promesse dei lavoratori più instancabili della storia sono Australia, Nuova Zelanda, Canada, Indonesia, Malesia, Africa e le tigri in crescita del Sudest asiatico, Vietnam, Cambogia, Thailandia e Myanmar. È la nuova geografia del mondo con il segno più, la mappa del mondo che lavora, sfrutta e produce per tutti e anche qui, precedendo i padroni delle aziende, gli operai cinesi arrivano per primi. Il tornitore dello Shanxi espatriato a Sydney strappa 2.400 euro al mese, il quadruplo che in patria. Chi lo assume risparmia oltre un terzo ed ha il migliore del mondo. L’ultimo rapporto di Deutsche Bank definisce «la gestione internazionale dei migranti industriali qualificati» come la «questione chiave del futuro». Non delocalizzano le imprese, migrano in massa i loro migliori operai, trasformando la mobilità in un invincibile punto di forza proletario. «Centinaia di milioni di lavoratori specializzati — dice l’economista dell’università Fudan di Shanghai, Mey Haibin — trovano normale seguire il business personale. Le imprese, più che avvicinarsi ai mercati, dovranno inseguire questa inedita migrazione politica. A vincere, saranno i Paesi complessivamente più attrattivi».
La fuga delle super tute blu, in Cina, può valere fino a quattro punti di Pil e le autorità sono in perché a innescarla non è il calo dell’offerta di manodopera, ma il suo rifiuto. Per la prima volta trema il modello della “fabbrica del mondo”, eufemismo con cui abbiamo concordato di indicare il “campo di lavoro” che ci ha permesso di impoverirci nel lusso. Non reggono più i piccoli Stakhanov di Shanghai; non il 70% delle operaie cinesi che confessano di essere molestate e violentate nei reparti; non le “Barbie operaie” incatenate sotto gli alberi di Natale delle capitali europee per denunciare una volta all’anno lo schiavismo asiatico; e neppure i sopravvissuti ai suicidi nella Foxconn, gratificati con una piscina per combattere la disperazione. La Cina, dopo aver plasmato il profilo delle ultime due generazioni di lavoratori mondiali, genera oggi il proletario globale del futuro. Giovane, specializzato, ambizioso, determinato a invecchiare, consumista e con la valigia sempre fatta. Un ibrido tra il sovietico Aleksej Stakhanov, il cinese Shi Zhaokun e un banchiere americano in carriera di JpMorgan, trapiantato a Kuala Lumpur. È con questo nuovo operaio-Avatar dell’Asia, istantaneo clonato di epoche, di classi e di culture del lavoro, che sta per misurarsi il Capannone dell’Europa. Ma se la “Fabbrica” resta quella, ha avvertito il premier cinese Li Keqiang, «delocalizzazioni e innovazioni tecnologiche ricorderanno il padre pastore che, per accelerare, offriva un passaggio sul bue al figlio astronauta diretto sulla luna».

La Stampa 2.1.14
Stevenson, il gemello cattivo dentro di noi
Da Jekyll al Master di Ballantrae, lo scrittore scozzese inaugura l’età del doppio che impregnerà di sé il ’900
di Ernesto Ferrero

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Corriere 2.1.14
Gaetano Benedetti
La follia ci aiuta a capire l’uomo
di Laura Andreoli


Il 2 dicembre, esattamente un mese fa, a Basilea, è mancato Gaetano Benedetti. Un maestro, un pioniere in quei territori della malattia psichica che, come la psicosi, più interrogano l’uomo nella sua dimensione esistenziale. Aveva 93 anni, ma la sua morte appare comunque qualcosa di irreale a chi ha sperimentato il suo pensiero, la sua presenza così viva nelle supervisioni, da diventare una voce costante nel proprio mondo interno, in particolare nei momenti terapeutici più difficili. La sua stessa storia, di uomo e di ricercatore, testimonia l’esigenza di rivolgersi alla follia come un elemento essenziale per capire l’uomo.
Assistente alla clinica universitaria di Malattie Nervose e Mentali di Catania (dove è nato nel 1920), in un tempo in cui la psichiatria in Italia quasi non esisteva ed era per lo più relegata alla semplice custodia manicomiale, volge il suo appassionato interesse verso quei malati psichiatrici che egli vede nel cortile dell’Ospedale di Catania «accoccolati per terra, fra stracci e camicie di forza».
Questa fortissima esigenza di ricerca che appariva estranea alla psichiatria italiana, allora caratterizzata da un contesto positivistico in cui dominavano le teorie di Lombroso, trova invece una terra felix nella clinica Burghölzli di Zurigo; a 27 anni, il giovane Benedetti lascia l’Italia per poter aprirsi all’esperienza della psichiatria di lingua tedesca di quel periodo: dalla visione clinica di Eugen Bleuler, a cui si deve proprio l’introduzione della categoria della schizofrenia, fino alla corrente fenomenologica che in psichiatria pone attenzione alla esperienza vissuta e alla comprensione intuitiva.
Nonostante il pensiero di Benedetti molto debba a questo retroterra fenomenologico, gli è indispensabile qualche cosa che egli avverte come più fecondo per poter veramente «entrare» nella sofferenza del paziente «sentendone tutto il peso».
È la relazione terapeutica al centro della cura: in tal senso «sterili» gli appaiono come strumenti le sole diagnosi psichiatriche, ma anche il troppo impersonale «essere con» della fenomenologia; è nella psicoanalisi freudiana che trova, nella comunicazione tra inconsci del terapeuta e del paziente, il motore della cura.
Qui si colloca il suo contributo, che rompe il tabù freudiano di una impossibilità di cura psicoanalitica della psicosi e pone un capovolgimento della terapia della psicosi. Per arrivare in questo territorio, la psicoanalisi ha bisogno di ampliare il proprio statuto, il punto nodale della cura è che proprio nella costruzione di un inconscio «duale» stia il vero potenziale di cura. Benedetti «scopre» e precorre l’importanza terapeutica di attivare codici non verbali, come particolare linguaggio dell’inconscio, quando le radici del pensiero sembrano inattingibili. Ciò che più sostiene la sua «fiducia» terapeutica è il rivolgersi all’inconscio non solo come archivio di tutte le sofferenze, ma come forza generativa dell’unica possibilità di sentirsi «esistere», contro «l’identità di non-esistenza», che è — per lui — la fondamentale cifra del vivere psicotico. Nelle sue parole «il sintomo psicotico… è sia la fonte della massima sofferenza del paziente come il suo unico fronte di sviluppo potenziale». Il pensiero e l’esperienza clinica sulla psicosi di Benedetti sono arrivati in Italia alla fine degli anni Settanta e hanno trovato un terreno particolarmente recettivo, quasi un «laboratorio» di trasformazione radicale della cura psichica. Ma sarebbe una lezione necessaria anche oggi, in un momento storico in cui le istituzioni di cura del malato psichico non vivono un momento felice, tra una psichiatria che rischia di rinchiudersi nelle griglie strette di protocolli diagnostici e farmacologici e una psicoanalisi che deve potersi aprire alle nuove potenzialità di cura di un inconscio «a circuito aperto».

Corriere 2.1.14
Shanghai 1939, porte chiuse agli ebrei
Il silenzio degli ambasciatori d’Europa
Nelle lettere riservate tra diplomatici i segnali dell’imminente catastrofe
di Luigi Offeddu


BRUXELLES — Lettera riservata spedita ai colleghi del corpo diplomatico, il 16 agosto 1939, dal console generale italiano a Shanghai, Giuseppe Brigidi: «La proibizione, da parte del Consiglio municipale della città, di ogni ulteriore ingresso nell’insediamento internazionale ai profughi dall’Europa (gli ebrei, ndr ) è una misura assolutamente necessaria per l’ordine pubblico. Come i passi per prevenire ogni ulteriore immigrazione... Questo Real Consolato non mancherà di informare il governo italiano sull’opportunità di prevenire ulteriori imbarchi dai porti italiani... Ho l’onore di essere, “Sir”, il vostro obbediente servitore G. Brigidi, console generale facente funzioni del Regno d’Italia».
Tutti d’accordo, risposero i colleghi del nostro diplomatico: i rappresentanti di Francia, Gran Bretagna (già alla vigilia della guerra con la Germania nazista), e via dicendo. A Shanghai, vivevano allora circa 23 mila ebrei, soprattutto tedeschi, austriaci, polacchi: era l’unico luogo al mondo, alla vigilia dell’Olocausto, in cui potessero rifugiarsi senza dover combattere troppo per ottenere un passaporto o un visto d’entrata. Là c’erano sovraffollamento, povertà, a volte anche problemi «di ordine pubblico», come dicevano i diplomatici occidentali. Ma Shanghai era lo scudo dall’imminente Olocausto. Quell’estate, d’accordo con gli alleati tedeschi, gli occupanti giapponesi imposero il blocco. E gli altri Paesi si adeguarono in pochi giorni, dopo la lettera-circolare dei consoli. Presentata una debole protesta al Consiglio municipale, una dopo l’altra, le varie concessioni internazionali sbarrarono proprio quei cancelli che un giorno avevano spalancato. Così il nido Shanghai divenne un ghetto chiuso. Per volere di chi allora vinceva, certo. Ma con il consenso a mezza voce di coloro che il nido l’avevano costruito e protetto.
L’oasi di Shanghai, così scriveva ancora nel gennaio 1940 il Consolato generale tedesco nei suoi verbali, era nata «grazie allo spunto liberale inglese e alla generosità francese». Quanto all’Italia, erano sue le navi — dal «Conte Verde» al «Conte Biancamano», da Genova e Trieste — che avevano consentito gran parte dell’esodo.
La storia dunque conosceva, almeno ufficialmente, i nomi dei «buoni»: francesi, inglesi, italiani, e cinesi, per esempio quei diplomatici cinesi che fino all’ultimo continuarono a rilasciare visti. Ma negli archivi del Ministero degli Esteri tedesco, a Berlino, ci sono ancora oggi dei documenti che raccontano altro. Spesso portano la dicitura «segreto» o «non per la stampa», e spiegano come «buoni» e «cattivi» possano assomigliarsi. Per esempio, il 18 maggio 1933, a 4 mesi dall’ascesa al potere di Hitler e quando già molto si conosceva nel mondo delle sue violenze, ecco una lettera riservatissima di A. Cecil Taylor, dall’ambasciata britannica, al collega ambasciatore tedesco Oskar Trautmann: «La lega cinese dei diritti umani mi ha inviato questo articolo sugli ultimi eventi in Germania. Mi hanno chiesto di ripubblicarlo. Te lo mando, magari per i tuoi archivi: questa roba ha il tono di certe fonti anti-tedesche...».
Pochi anni dopo, quanto già si intuiva dell’Olocausto all’orizzonte? E’ una domanda mille volte ripetuta. Ma il 2 novembre 1940, ecco una risposta inequivocabile da Martin Fischer, console generale tedesco a Shanghai, in una lettera al suo Ministero: «Anche nel caso di un perseguimento coerente della nostra meta, l’eliminazione (testuale: «ausmerzen», ndr ) progressiva dell’ebraismo dal popolo tedesco, non bisogna farsi frenare da considerazioni umanitarie». E il Ministero, ancora più netto: è chiara «la necessità di una soluzione radicale della questione ebraica. L’ultimo obiettivo della questione ebraica è l’allontanamento di tutti gli ebrei viventi (sic) dall’Impero».
In quegli stessi mesi, il 18 marzo 1939, così un altro console italiano, Luigi Neyrone, fotografava Shanghai: «Tutte le navi dall’Italia sono prenotate fino a giugno... Negli uffici della Comunità internazionale si accalcano ogni giorno 200 persone, fra cui donne che allattano e mendicano. Vi sono stati già 3 suicidi. Gabriel Lax, commissario capo di polizia a Vienna, qui dorme su una branda...». E’ una «shond khay», una vita da schifo, dicono le lettere in yiddish spedite ai familiari in Europa (e spesso già inghiottiti dai Lager). Eppure, è vita che continua: 250 musicisti ebrei suonano nei caffè e negli alberghi, si stampano 17 giornali, ci sono 162 sarti e un detective, al Club degli Artisti si rappresenta «Il marito che ride», e la «coscienziosa cartomante Jda Wolff» offre i suoi servizi alla casa 111 di Ward Road Lane o anche «su richiesta a domicilio». Ma concerti e chiromanti non allontanano la paura. Fin dagli inizi. Il 14 marzo 1934, un certo Mei Paqi scrive al Consolato generale tedesco di Shanghai. In realtà si chiama Mario Paci, italiano, è il grande orchestrale che ha portato la musica classica europea in Cina, e dirige l’Orchestra municipale di Shanghai: «Ho assunto per il prossimo concerto sinfonico — scrive al console — un musicista tedesco molto eminente, Klaus Pringsheim. Il padre suonava Wagner, un fratello è stato allievo di Mahler. Le chiedo di aiutarmi ad assicurargli una buona accoglienza...». Ma quello e altri concerti non ebbero «buona accoglienza», perché Pringsheim era ebreo. Nota successiva dello stesso Consolato: «Vari ebrei suonano in quell’orchestra. Alla fine non c’è stata ovazione perché il console la riteneva eccessiva. E niente corona d’alloro al direttore: solo una di colore neutro, e con la scritta “I tedeschi di Shanghai”».
La paura viaggia anche con il ridicolo. Il 24 novembre 1936, a Tientsin, il Club internazionale delle Donne organizza un tè di beneficenza. Su ogni tavolo, la bandiera di un Paese; la signora Kleye, tedesca, porta una bandiera con la svastica delle Ss. Protestano il medico Ernst P. Mannheim e la moglie Ruth («ebrea che denigra le altre tedesche del Reich», spiega un rapporto del Consolato, che già aveva proposto per lei e il marito il ritiro del passaporto). Ma il vessillo viene ugualmente esposto. Dieci minuti dopo, durante un brindisi, sparisce. Chi è stato? Il rapporto consolare n. 44A1/37 del 4/1/37 addita Ruth Mannheim, e accoglie le accuse di frau Kleye. Che aggiunge: «Frau Mannheim ha un giovane cane setter che tiene al guinzaglio: è venuto verso di me annusando e lei gli ha detto, “guai a te se annusi ancora un tedesco”: non ho potuto non notare quest’offesa. Questi sono emigranti che si comportano in modo provocatorio». Invece il marito riceve posta. Una lettera anonima: «Tu Mannheim, se ti esprimi ancora una volta in modo così sprezzante sulla mia patria allora ti ammazzo così crepi miseramente, tu parassita ebreo puzzolente». L’Olocausto era dietro l’angolo.

Corriere 2.1.14
Le armi di Mussolini a Franco in preparazione della rivolta
di Antonio Carioti


Pedro Sainz Rodríguez, insigne filologo e cattedratico spagnolo, il 1° luglio del 1936 si trovava a Roma. Ma non per un simposio accademico: bolliva in pentola ben altro. Lo storico Angel Vinas ha ritrovato fra le carte di Sainz Rodríguez, depositate nell’archivio della Fondazione Universitaria Spagnola, quattro contratti da lui siglati, conclusi con l’industria aeronautica Siai (quella dei velivoli da combattimento Savoia Marchetti), per la fornitura di materiale bellico alle forze che stavano preparando il colpo di Stato militare contro la Repubblica spagnola, che scattò tra il 17 e il 18 luglio 1936, innescando la guerra civile durata fino al 1939.
Il saggio di Vinas, pubblicato sulla rivista «Nuova Storia Contemporanea», diretta da Francesco Perfetti, modifica dunque il quadro finora noto circa l’intervento dell’Italia fascista a favore del futuro dittatore Francisco Franco. Gli aiuti di Mussolini non vennero forniti, come si riteneva, dopo che l’insurrezione era riuscita solo in parte a causa della forte resistenza opposta dalle sinistre spagnole, ma erano già pronti prima che i nazionalisti entrassero in azione. Secondo Vinas, «la sommossa si predicò sulla base di una sostanziale connivenza con la potenza fascista più vicina alle destre radicali dell’epoca».
Del resto le armi acquistate da Sainz Rodríguez (un convinto monarchico che poi fu ministro di Franco e, in tarda età, ebbe un ruolo importante nell’ascesa al trono di re Juan Carlos) corrispondono a quelle inviate effettivamente dall’Italia all’inizio della guerra civile: in particolare i 12 bombardieri Sm81 previsti dal primo contratto partirono già il 30 luglio per la Spagna. L’importo totale del materiale venduto (aerei, motori, bombe, munizioni) era di 39,3 milioni di lire, equivalenti, secondo i calcoli di Vinas, a 330 milioni di euro odierni.
Da notare che diverso fu il caso del Terzo Reich. Berlino era all’oscuro della cospirazione spagnola e solo un concorso di circostanze favorevoli consentì agli insorti di attivare rapidamente un contatto con Adolf Hitler, che si mostrò subito disponibile. Invece Mussolini aveva instaurato rapporti e promesso armi alla destra spagnola già nel 1934 (questo era noto), quando il Paese iberico era stato scosso da gravi disordini, ma poi le aveva consegnate «solamente in minima parte».
Vinas collega la fornitura pattuita da Sainz Rodríguez ai discorsi filofascisti che il leader principale della destra spagnola, José Calvo Sotelo, andava facendo nell’estate del 1936, prima di essere assassinato da miliziani di sinistra alla vigilia dell’insurrezione, il 13 luglio. Inoltre lo storico si domanda se i nazionalisti avrebbero proseguito «i preparativi per una più che possibile guerra civile se non avessero potuto contare sulla sicurezza importante della protezione del materiale fascista».
Dare una risposta è difficile. Di certo i nuovi documenti accrescono l’importanza del contributo dato dall’Italia all’instaurazione del regime franchista, la cui immagine edulcorata viene man mano smentita dalle ricerche storiografiche. Eloquente, da questo punto di vista, il libro In nome di Dio e della patria , (Castelvecchi, pp. 186, e 17,50), in cui il corrispondente della Rai da Madrid, Piero Badaloni, racconta che sotto Franco moltissimi bambini spagnoli (forse addirittura 300 mila) vennero sottratti neonati ai loro genitori, ritenuti politicamente inaffidabili, per essere allevati secondo i dettami della dittatura.

Corriere 2.1.14
Eliot, l’ora dei Quattro quartetti


È il momento di Eliot e dei suoi Quattro quartetti , non solo per l’edizione preziosa uscita in questi giorni, grazie all’editore Enrico Damiani, e tradotta con afflato d’artista da Raffaele La Capria. L’attualità critica, tematica, e persino musicale, della poesia di Eliot è attestata anche dalla presenza in libreria di una versione curata e tradotta da una giovane ricercatrice, Audrey Taschini, molto attenta a rileggere il poema attraverso il tessuto delle convinzioni filosofiche e teologiche dell’autore. Il volume delle edizioni Ets (pp. 220, e 18) testimonia da un lato lo scrupolo letterale e la fedeltà all’andamento del testo da parte della curatrice, ma soprattutto l’attenzione all’«iconismo», cioè alla magistrale capacità eliotiana di trasformare i concetti in immagini cariche di suggestioni (il famoso «correlato oggettivo» tanto analizzato dai critici). Il lavoro della Taschini sottolinea in particolare l’ambizione più profonda di Eliot: affermare quell’ordine simbolico del mondo che la nascita della scienza moderna, nel Seicento inglese, aveva incrinato per sempre.

Repubblica 2.1.14
1914: qualcosa di più di un anniversario
di Guido Ceronetti


ECCOLO 2014; cento anni dopo l’inizio di quella terribile guerra, che la memoria storica ha registrato come la Grande Guerra, non volendo essere accusati di arroganza, non possiamo che chinare il capo, onorare quei milioni di giovani vite stroncate, e interrogare senza posa cimiteri silenziosi, una sterminata letteratura, testimonianze, lettere, testamenti di martiri, oggetti perduti nelle case, responsi, profezie, conseguenze, luoghi. E su tutto c’è l’ombra dell’Inspiegabile. Non sono uno specialista ma so che pensare l’Inspiegabile è tornare indietro con le mani vuote. Eppure è quell’ombra, che nasconde le chiavi dell’enigma.
Al termine dell’anno che viene ci saranno state una quantità di rievocazioni, celebrazioni, nuove scoperte e interpretazioni: perché quel rogo brucia ancora. E non inutilmente, perché la retorica nazionalista del primo dopoguerra oggi ha il collo spezzato, passerà l’anno del centenario, se non sarà servito a dissipare certezze che non reggono e luoghi comuni che confondono le idee.
Ma, a una generazione ignorantissima di storia, abbrutita di presente, privata di ancoraggi morali, che cosa racconteremo perché educhi e s’imprima? Se la memoria di una immensa vergogna e di uno spaventoso regresso di civiltà possa educare positivamente chi ne ignora tutto, perfino l’epoca e il nome. Qualche luogo comune posso incaricarmi di toglierlo, fin da ora, io. Ed è luogo comune stupirsi che tra una così fantastica rete di prospere relazioni commerciali, monarchie imparentate, classi rivoluzionarie ultrapacifiste, un simile Evento abbia potuto verificarsi. Sussiste tuttora la fede cieca che, stabilendo fruttuose intese commerciali e industriali con reciproca convenienza, si assicuri tra due o più paesi un futuro di pace. E allora c’erano, le buone relazioni, e le ferrovie collegavano migliaia di stazioni, e i passaporti stavano diventando superflui, e le Expo Universali sventolavano di vessilli che annunciavano fraternità imperiture...
Però. Il Destino aveva alzato, nell’ombra, un bell’Asso di Picche. E quell’essere umano evolutissimo, raffinato bene, che si rifletteva nel libroCuore, già spesso col bagno dentro casa, acqua corrente, sapone Pears, covava una ineffabile sete di barbarie e di imbarbarimento. I letterati scalpitavano perché il nichilismo senza più Dio si purgasse in un lavacro di sangue smisurato, riempito d’ideale romantico, che avrebbe incoronato, detronizzato il Sacro precedente, la Vita. Prima di essere scavata freneticamente con le pale, la Trincea era là.
Difficile poter credere che l’uomo sia libero di scegliere tra bene e male. Prima del 1914, Freud aveva impartito lezioni sul sadomasochismo e il fantastico cetaceo meccanico, il Titanic, era colato a picco in tre ore nella notte atlantica. Mettiamo insieme un gran mazzo di segni e di presagi e comprenderemo che la guerra era inevitabile.
Il sogno era finito, la parola alla mitragliatrice.
Che cosa sia la volontà popolare è da lasciare a chi crede di saperla interpretare. Il susseguirsi delle dichiarazioni di guerra furono altrettante esplosioni di giubilo nelle capitali europee. Stefano Zweig racconta l’indifferenza di Vienna per l’assassinio degli Arciduchi a Sarajevo il 28 giugno, perché Francesco Ferdinando, poveretto, era un erede al trono dei più maleamati, mentre il grande beneamato era stato Rodolfo, quello della leggenda di Mayerling, suicida nel 1888. Ma quando, un mese dopo, ci fu l’ultimatum della Serbia, la risposta popolare fu entusiastica, e frenesia di indossare l’uniforme pervase le case benestanti, i ragazzi respinti dai distretti ritentavano disperati.
Degli arruolati volontari tra i diciotto e i venti, bravi in latino e matematica, ma digiuni di mitragliatrici Maxim (brevetto americano), in tutta Europa ne sopravvissero pochi. Del gruppo di otto diciottenni tedeschi, di cui narra la storia Eric Maria Remarque, condotti dal professore predicante del distretto, nessuno. Si pensava che fosse una vergogna restare vivi e non disprezzare la vita (suicidio di Carlo Michelstaedter nel ’10, di Georg Trakl, lettera alla madre di Giosuè Borsi prima dell’accatto dell’Isonzo). Piaceva immolarsi: una sacralità nuova in Europa. L’unico figlio di Rudyard Kipling, respinto per forte miopia e gracilità di costituzione, mise in croce il padre perché lo raccomandasse in alto, volendo ad ogni costo partire. Rudyard lo accontenta; King George lo prende, la reclutina Jack Kipling è subito spedita, vista di talpa, nell’inferno di Loos, Fiandre, insieme ad altri neoarruolati del 1915... E dopo due o tre giorni è dato disperso, probabilmente reso irriconoscibile da un proiettile, per il perpetuo strazio del padre. Furono innumerevoli i non ufficialmente morti e per anni le famiglie li aspettarono. Have you news of my boy Jack?, è il gemito in versi di Kipling un anno dopo. Oh, dear, what comfort can I find? Toccò a lui, pensando al suo mai ritornato, dettare la scritta per le croci e le lapidi dei caduti non identificabili: Known Unto God.
L’enorme numero dei dispersi in tutte le nazioni impegnate e la repentinità delle morti, spesso dello stesso villaggio, o quartiere o istituto, diedero vita a un fenomeno unico: il diffusissimo ricorso alle medium e ai tavolini spiritici. «Dove sei? Perché non scrivi? Quando torni? Che cosa ti trattiene?». A volte, nelle giovani donne, l’ansia mascherava il desiderio che il disperso non tornasse affatto, avendo incontrato ben lontano dai fronti, un imboscato da amare. (La storia emblematica di un amore di guerra senza guerra è Il diavolo in corpo di Raymondo Radiguet). Era forte, nelle classi colte, l’influenza delle società teosofiche e antroposofiche: il corpo eterico, sfuggito al cannoneggiamento che dissolveva la carne, era sciolto da ogni servitù mi-litare: di qui l’incredulità nella realtà della morte e la speranza tenace che quei caduti nel furore degli anni, corpi disincarnati, avrebbero risalito, finita la guerra, o il giorno, la notte dopo, il fiume senza ritorno.
La guerra italiana gronda memorie e narrazioni in Italia, e di conseguenze funeste, ma gli storici europei non l’avrebbero notata se non ci fosse stato Caporetto. Davvero fu una grazia! Seicentomila morti, e un anno meno di guerra – un’inezia! Liddell Hart nella sua celebre History of the First World War dedica 6 pagine, sei, a Caporetto; e il Piave, mah, chissà dove si sarà ficcato... Fortunati almeno in letteratura di vissuto storico e retrospettivo: Gadda, Comisso, Piovene, Silvestri, Omodeo... Mio padre, quando gli feci leggere Isonzo 1917 di Silvestri si era sentito vendicato. Era stato uno di quei poveri sfiniti fanti che avevano passato a guado, col fucile sulla testa, il Piave in piena. Mezzo secolo dopo la smobilitazione, gli fu elargita la pensione: sessantamila lire che andava a ritirare alle Poste tornandosene raggiante. Anche da questo capisci che non si vive, né mai vivremo, di solo pane.

Repubblica 2.1.14
Femminismo 4.0 Ora le donne lottano insieme agli uomini
In Gran Bretagna un saggio rilancia il dibattito sullo stato delle battaglie per i diritti femminili
Per l’autrice, Kira Cochrane, siamo in una nuova era: che mette in soffitta la guerra fra i sessi
di Elena Stancanelli


Inclusivo, cioè aperto anche agli uomini, e collaborativo. Sono queste le due novità del femminismo di ultima generazione, scrive Kira Cochrane sul quotidiano britannico Guardian.
Che si interroga sulla sessualizzazione dei messaggi mediatici, la pornografia estetica, l’incremento della violenza sulla donne. La cosiddetta “cultura dello stupro”, spiegata con precisione in un bel saggio uscito un paio di anni fa,Bambole viventi, di Natasha Walter.
Questo femminismo, che la scrittrice chiama di quarta generazione (scrive wave, ondata, riprendendo una definizione di Rebecca Walker e Maggie Humm), sceglie quindi di abbandonare il principio del separatismo, teorizzato intorno agli anni Ottanta come pratica necessaria alla riflessione libera delle donne. Le nuove battaglie si combattono da entrambi i lati, con l’appoggio ideologico e tattico degli uomini. Così come il fronte dei diritti, spiega Cochrane in un istant book intitolato All the rebel women, deve essere allargato fino a comprendere qualsiasi minoranza intersecabile con il femminile e in attesa di vedersi riconosciuta: lesbiche, transessuali, nere.
Un esempio di questa tendenza è il movimento One billion rising, promosso da Eve Ensler (l’autrice dei celeberrimi “Monologhi della vagina”) che si propone di unire donne di ogni parte del pianeta, decise a ottenere giustizia su vari fronti. Il 14 febbraio prossimo, cosìcome l’anno scorso nella stessa data, è previsto un flash mob mondiale, con danze e canti.
La prima ondata di femminismo, lo sappiamo, nasce dalle lotte delle suffragette gli inizi del secolo scorso. Ha una data di inizio: il 4 giugno 1913. Giorno in cui Emily Wilding Davison fu uccisa dalla polizia mentre manifestava per il diritto di voto. Dopo le due guerre arriva la seconda ondata. A partire dalla pubblicazione de Il secondo sessodi Simone de Beauvoir. Controllo delle nascite, aborto, riconoscimenti civili e giuridici sono le questioni, ma anche l’analisi e l’identificazione dei modelli femminili in corso, possibili e impossibili: sposa, madre, prostituta, lesbica, narcisista, innamorata.
Nel 1963 esce La mistica della femminilità di Betty Friedan. E mentre si discute di ruoli e opportunità in America viene messa in commercio la pillola anticoncezionale. Sesso, maternità, matrimonio: tutto cambia. E intanto si discute sulla legge che consenta l’interruzione di gravidanza. In Italia viene approvata il 22 maggio 1978. Da adesso in poi, sulla strada dei diritti delle donne, il corpo acquisisce un ruolo strategico, come strumento di emancipazione e come spazio violato, aggredito, contrattato. Nel 1970 Germaine Greer pubblica L’eunuco femmina e raduna intorno a sé il cosiddetto femminismo radicale: Kate Miller, Anne Koedt, Shulamith Firestone. Quest’ultima, meno nota in Italia, era nata in Canada nel 1945. E’ l’autrice de La dialettica dei sessi,il saggio nel quale si sostiene che nemica della donna è la natura, che ci ha creato schiave, e nostre alleate sono invece scienza e tecnologia: solo la cultura ci renderà libere. Shulamith Firestone è morta nell’agosto 2012. Laricorda in un bellissimo articolo sul New Yorker Susan Faludi. Che a sua volta pubblica nel 1991 un libro che segna un passaggio, Contrattacco. La guerra non dichiarata contro le donne.
Da qui in poi entriamo nella terza ondata. Sono gli anni delle Riots girls, delle Spice Girls, delle punk band femminili. Sono anni nei quali, come scrive Faludi, si raccolgono i frutti di quello che è stato un vero e proprio attacco alle conquiste delle donne, messo in atto surrettiziamente nel precedente decennio. Racconta che l’idea per questo libro le venne leggendo un articolo di Newsweek nel quale si diceva che una donna laureata di trent’anni aveva «migliori possibilità di restare vittima di un attacco terroristico che non di sposarsi». Un’affermazione tendenziosa, e anche falsa, scrive Faludi, pensata per insinuare il sospetto che la liberazione femminile porti con sé una perdita di femminilità. E’ arrivato, scrive Faludi, il momento di contrattaccare. Forse è proprio questo lo snodo cruciale, quello in cui si inasprisce il conflitto, si sfuocano le identità maschili e femminili secondo le definizioni tradizionali. Entra il crisi il maschio, si dice, e da questa crisi nasce una recrudescenza di irrazionalità, che comprende rabbia e violenza.
A questa crisi risponde quello che Kira Cochrane identifica come quarta ondata del femminismo. Che, ovviamente, cresce intorno alla rete. Con alcuni siti strategici, come Fworld, Jezebel o Charge.org, il sito delle attiviste sudafricane. Ma anche in opposizione, mettendo in evidenza le forzature, i pericoli. Le immagini rubate che finiscono esposte sul web, i ragazzini travolti dalla maldicenza sui social. Le donne ballano, cantano, scrivono, combattono. Alcune usano la comicità, come Nadia Kamil, altre le rubriche sui giornali, come Caitlin Moran. Le femministe islandesi, per arginare l’invasione dei club di strip-tease, hanno aperto alcuni locali dove gli uomini pagano per guardare donne che cantano, ballano e raccontano storie.
E gli uomini che fanno? Qualche giorno fa Christian Raimo ha scritto in un articolo interessante sul quotidiano Europache mancano i modelli maschili utili, c’è un spostamento dello scontro dal pubblico al privato, ma soprattutto è saltata la capacità si simbolizzare la rabbia e il conflitto. Il fallimento, scrive Raimo, è quindi sia sul piano pratico che su quello linguistico.
Se davvero, come scrive Kira Cochrane, questa quarta ondata di femminismo è e sarà inclusiva, avremo finalmente la possibilità di ottenere un affresco completo, una visione d’insieme che ridefinisca termini e questioni. Specie su battaglie complicate come per esempio quella contro il femminicidio. Nella speranza che si inauguri una reciprocità, e che i maschi imparino a loro volta a essere inclusivi su temi ritenuti fino a oggi inspiegabilmente solo maschili.

L’AUTRICE Kira Cochrane, scrittrice e columnist del Guardian: “All the rebel women” è la sua ultima opera, analisi dellediverse fasi del femminismo

Repubblica 2.1.14
Voglia di apparato
Falce, Twitter & martell. La sinistra torna a ridere
Parole d’ordine sovietiche, Civati che spala la neve in Siberia, le primarie perdute di “Cuperloo”, Renzi e il“partito coop”
In rete fa furore la satira di due (giovanissimi) iscritti al Pd
di Concetto Vecchio


«Con questi elettori non vinceremo mai». Giorgio Napolitano nella foto appare già precocemente stempiato, un’increspatura di sorpresa attraversa il suo sguardo all’atto del clic, tiene per mano la cornetta grigia di un apparecchio telefonico anni Settanta e sullo sfondo il simbolo della falce e del martello. E questa immagine in bianco e nero è l’icona dell’Apparato, il format di due ragazzi poco più che ventenni che da un anno imperversa su Facebook e su Twitter, tra lazzi, nero sarcasmo, parole d’ordine sovietiche, affilata ironia, battute pedagogiche sul povero Partito democratico. «Cuperloo» è stato il fulminante epitaffio, la sera che Gianni Cuperlo affondò alle primarie. «Un partito cool? Al massimo coop», la frustata assestata a Matteo Renzi quando fece la battuta su come immaginava il partito futuro. Perché «con Renzi la sinistra cambiaverso. Va a destra». Grande foto di steppa bianca: «Cos’è successo alla Siberia? Non c’è più la neve. L’ha spalata tutta Civati». Infatti la località di Novosibirsk è il topos dove quelli dell’Apparato vorrebbero mandare i dissidenti, gli infedeli alla linea. «Se ci fosse Zdanov Fabio Fazio sarebbe stato sostituito da molto tempo». «La Consulta riporta le lancette al 1992. Non basta. Noi le riporteremo al 1917». «Basta fatti, vogliamo discorsi». Cose così. Satira. Ora tutto questo lunario di motteggi è diventato giustamente un libro: L’Apparato. Il libretto grigio, Editori Internazionali Riuniti, che in venti giorni è già alla seconda edizione.
Si finisce sempre per avere nostalgia delle cose che non si sono vissute. Dice Giacomo Bottos, uno dei due padri dell’Apparato: «Per noi il ruolo dei partiti rimane importante, quindi affidarsi alla rievocazione storica è un modo per fare risaltare la miseria del presente». Tweet: «Il partito o è pesante o non è». Ha 27 anni, erre arrotata da bolognese, si sta addottorando in storia alla Normale di Pisa, quando morì il Pci lui andava all’asilo, «ma poi crescendo ho letto i Quaderni del carcere di Gramsci, le biografie di Amendola, Rossanda, Ingrao, il Macaluso su Togliatti, la biografia del Migliore di Aldo Agosti, tutto quello che ho trovato sulla storia del marxismo».
Ma il vero modello a cui s’ispirano è Il Divo di Paolo Sorrentino, raccontare il passato per metafore dilatate, intingendo la grigia realtà —il presente è sempre un po’ delusivo — nello specchio deformante del grottesco. E non è un caso che neIl libretto grigio c’è a epigrafe una frase di Giulio Andreotti tratta dal celebre film: «L’ironia è la migliore cura per non morire, le cure per non morire sono sempre atroci». L’altro compagno dell’Apparato si chiama Antonio Turco. Ha 25 anni, è milanese, si è appena laureato in storia a Milano, vorrebbe fare l’insegnante, vive ancora con i suoi, la battuta sulla coop è sua: «Ero in treno, a un certo punto dal finestrino vidi un grande manifesto del supermercato, scoppiai a ridere. Con Giacomo siamo diversi, lui è un hegeliano di ferro, io uno storico, ma ci siamo trovati e sempre parliamo di politica, e poi finisce che uno dei due dice: “Ma questa è da Apparato!”. E la postiamo». In un anno la pagina su Facebook ha collezionato 24mila amici, quella su Twitter 8mila. Il 70 per cento sono under 35. Un follower ha inviato la foto del giovane democristiano Tabacci che nell’Italia della Prima Repubblica comizia con De Mita su un palco spartano sormontato dalla profetica scritta Forza Italia. N’è sorto un dibattito fecondo con “I Marxisti per Tabacci”, «più appassionante di quello dei tre candidati alle primarie », giura Bottos.
I genitori di Turco negli anni Settanta erano iscritti al Pci, quelli di Bottos no. Giacomo ha preso la tessera del Pd da sei mesi, Antonio da sei anni; hanno votato entrambi per Cuperlo. Renzi, si capisce, è il bersaglio principale («uno dei bersagli », precisa Bottos), eppure questa estate parlando con i Giovani democratici di Milano il segretario tesse l’elogio dell’Apparato, disse che era in cima alle sue preferenze, «mi diverte moltissimo», ma qualcosa dev’essersi rotto perché durante l’ultima diretta Twitter li ha liquidati come idioti. «La verità — dice Turco — è che c’è sempre unApparato, ed è sempre colpa dell’Apparato, solo che stavolta l’Apparato è renziano». Civati, con maldestra furberia, ha fatto invece un blog per premiarli come sito dell’anno: l’hanno spedito a spalare la neve nei boschi gelati della tundra. Tweet: «Una volta si chiamava trasformismo, ora si chiamano riposizionamenti». L’aforisma politico, il tagliare con l’accetta le cose, è sempre stato in Italia una tradizione degli irregolari di destra, da Longanesi a Montanelli, gente che per una battuta si sarebbe fatta tagliare una mano, e ora i ragazzacci dell’Apparato provano invece a sperimentarla nel campo serioso della sinistra. A metterle in fila, le sentenze del libretto grigio, viene fuori un’ambiguità di fondo, un doppio registro: perché da un lato l’Apparato viene irriso, dall’altro è omaggiato, perché senza organizzazione non c’è selezione, e senza selezione non c’è circolazione d’idee. «Dopo la fine del Pci — fa notare Turco — l’intera storia è stata rimossa, senza un’autentica elaborazione, a differenza di quel che fece la Spd dopo Bad Godesberg, che rinnegò il marxismo senza vergognarsene. Qua l’unica cosa che è rimasta è la santificazione di Berlinguer: tutti lo citano, ma in pochi l’hanno veramente studiato ». «È soprattutto un modo per prendersi gioco della semplificazione mediatica», osserva Bottos. «Siamo bombardati di frasi fatte: la macchina del fango; mettere le mani nelle tasche degli italiani; i poteri forti»; e naturalmente c’è sempre “una manovra di palazzo”, e se la base si ribella, ecco che, puntuale, arriva “la telefonata da Roma”. Napolitano con la cornetta in mano, ad ammonire, ad ammonirci: l’uomo del Novecento sulla faglia deidue mondi.

SU RTV-LAEFFE
In RNews (alle 13.50, canale 50 del Dt) un servizio sul ritorno del mito dell’apparato

Repubblica 2.1.14
Paolo Mieli e il terzismo come categoria storica
“I conti con la storia”, il nuovo saggio del presidente di Rcs libri
di Miguel Gotor


L’espressione «uso pubblico della storia» fu utilizzata per la prima volta nel 1986 da Jürgen Habermas nel corso di un dibattito sul tema delle responsabilità tedesche nella Shoah. Egli se ne servì per distinguere il lavoro scientifico dello storico dal dibattito pubblico sui mezzi di comunicazione di massa, privilegiando la dimensione etico-civile del primo a discapito del secondo. Nel corso degli ultimi trent’anni, a seguito della rivoluzione tecnologica che ha caratterizzato in modo particolare il settore dei mass media, questa distinzione in negativo è andata sfumando e si è affermata un’accezione positiva del concetto che includerebbe tutto ciò che di storico è veicolato al di fuori dei luoghi deputati alla ricerca scientifica: dai giornali alle televisioni, ai monumenti, alle cerimonie pubbliche.
Tra i principali artefici dell’uso pubblico della storia in Italia è certamente l’attuale presidente di Rcs libri Paolo Mieli, ex direttore deLa Stampa e delCorriere della Sera,che svolge da anni un ruolo di filtro e di mediazione fra il grande pubblico e la ricerca storica. All’inizio egli ha adempiuto a questa funzione rispondendo alle lettere delCorriereal posto che fu di Indro Montanelli, poi vestendo i panni del recensore di libri di storia. Il suo ultimo volume I conti con la storia. Per capire il nostro temporaccoglie per l’appunto un’ampia selezione di articoli e rappresenta una sorta di biblioteca ideale e di guida alla lettura utile non solo al grande pubblico, ma anche agli studiosi della materia che spazia dall’antica Grecia al fascismo, da Spartaco a Gramsci, dall’Inquisizione al Risorgimento, da Bismarck alla guerra civile spagnola. È interessante soffermarsi sui criteri generali adottati da Mieli nella scelta dei libri da recensire e dunque da divulgare presso un pubblicodi non specialisti perché ciò aiuta a riflettere sui meccanismi di funzionamento dell’uso pubblico della storia in Italia, una delle principali coordinate su cui oggi opera lo storico della contemporaneità, all’incrocio tra il mondo della politica e quello della comunicazione. La prima costante è la centralità del tema della memoria e della sua contraddittorietà. Mieli è consapevole che storia e memoria sono due binari paralleli destinati a correre insieme senza però incontrarsi mai. Resiste quindi alla retorica imperante della memoria condivisa e si schiera a favore dell’utilità di un benefico oblio valorizzando la “messa a distanza” critica del passato, mettendone in luce la complessità.
La seconda costante è la centralità della vittima come testimone di un trauma, ilnuovo eroe del racconto storico di oggi. Mieli, sulla scorta di alcune suggestive riflessioni del filosofo Mario Perniola, nota come le odierne civiltà della colpa tendano a trasformare la politica in etica dilatando enormemente le categorie di responsabilità. L’ipertrofia della morale, però, produce il trionfo del cinismo e della spudoratezza: se ognuno di noi è moralmente corresponsabile di tutti i mali del mondo, allora non lo è più nessuno e si produce una generale autoassoluzione in cui il politico si limita a cambiare il nome alle cose piuttosto che proporsi di cambiarle veramente.
La terza costante è la centralità del revisionismo come battaglia ideologica, in particolare contro il paradigma interpretativo di derivazione gramsciano-azionista della storia d’Italia. In effetti, la stragrande maggioranza dei libri recensiti da Mieli che riguardano i principali nodi della storia nazionale, dalla Riforma protestante all’Inquisizione romana, dal Risorgimento alla Resistenza, dal fascismo all’antifascismo, è funzionale a cogliere quest’obiettivo che tende a valorizzare le zone grigie dell’agire umano, il momento della contraddizione a discapito di quello della decisione. L’ultimo ventennio di uso pubblico della storia sui giornali è stato dominato da questo canto “terzista” che si è ormai trasformato a sua volta in un canone da rivedere perché ha esaurito la sua funzione di puntellare sul piano ideologico e di moderare su quello politico l’egemonia culturale del berlusconismo. Proprio questa è la principale ricchezza del libro di Mieli: da un lato, serve come non mai a «capire il nostro tempo», ma dall’altro ci dice che un’intera stagione è ormaigiunta al tramonto.
IL LIBRO I conti con la storia. Per capire il nostro tempo di Paolo Mieli (Rizzoli pagg. 300 euro 19,50)