venerdì 3 gennaio 2014

l’Unità 3.1.14
Il comunicato del Cdr
già apparso on line ieri


l’Unità 3.1.14
Attacco a l’Unità 3.1.14
Il filo rosso che lega Grillo e Travaglio
Marco e Beppe: patto quotidiano
di Michele Di Salvo


il Fatto 3.1.13
La Gunther Reform Holding. Lettere “edopositive”
L’Unità, la nuova azionista e lo scudo fiscale di Mian (per tacer del cane)
risponde Marco Travaglio


Gentile Marco Travaglio, nel ringraziarla per l’attenzione mostrata nei nostri confronti vorremmo puntualizzare alcuni particolari riguardo la sua acuta disamina sulla situazione creatasi nell’azionariato del giornale l’Unità.
La Gunther Reform Holding è nella proprietà del giornale l’Unità da dieci anni, e come lei ben sa grazie anche al cane Gunther e ai suoi soldi scudati, i giornalisti de l’Unità hanno continuato a percepire i loro stipendi. Sbaglio, o lei ne sa qualcosa in prima persona? Non lavorava anche lei da quelle parti? Il cane Gunther ci tiene ad informarla che non ha abbaiato tre volte per festeggiare la presunta entrata della Ioannucci.
La Gunther Reform Holding è per le grandi intese, per il coinvolgimento di tutti. Ben vengano nuovi interessati e nuovi capitali, anche scudati, per aiutare l’impresa giornalistica ad uscire dalla crisi. D’altra parte, l’editore non può pretendere alcunché dai giornalisti per non intaccare la loro libertà di scelta e di pensiero. E si ricordi infatti che quando il dottor Maurizio Mian si candidò alle elezioni nelle file del Partito Radicale, non chiese e non pretese mai che il giornale del quale era comproprietario, appoggiasse la sua campagna elettorale.
Purtroppo, come avrebbe detto il grande Carmelo Bene, in questo caso lei ha fatto quello che il nostro amato ed educatissimo cane Gunther non farebbe mai: ha “pisciato fuori dal vaso”. Ha sbagliato la mira e il bersaglio.
La Gunther Reform Holding infatti oggi non è Maurizio Mian, laureato, plurititolato dottore di Pisa, filantropo, pensatore e studioso dei comportamenti umani e degli stili di vita, e soprattutto non è una società di un immobiliarista palazzinaro, ma è un gruppo ben preciso di cinque persone che da tempo stanno testando sotto la guida di valenti scienziati di tutto il mondo, un rivoluzionario esperimento scientifico sulla ricerca della felicità individuale, fisica e psichica. Esperimento che, proprio per la sua valenza rivoluzionaria, fuori dagli schemi del comune senso di intendere i rapporti sociali, famigliari e umani, viene condotto in rete, attraverso simulazioni e “avatar”, ossia ciò che richiede oggi la ricerca più avanzata. Lei fu definito da Vittorio Sgarbi il fascino virile della sinistra.
Ebbene, da uomo intelligente e affascinante qual è, ma sarebbe un disastro per la sinistra se lei diventasse il “suo bello”, la invitiamo a visitare quelli belli per davvero, i nostri volontari, e vivere per qualche tempo le nostre straordinarie esperienze. Noi adoperiamo uno strumento tecnologico, “l’edodisc”, per stabilire il livello di felicità latente in ogni persona; lei dovrebbe sottoporsi al test e se “edopositivo” entrare a far parte del gruppo della sperimentazione GR5 e condividere per un po’ con noi la nostra sede di Miami ed essere finalmente felice e appagato. In ogni caso “Charlotte” e “Kristine”, le due affascinanti rappresentanti di Gunther Reform Holding incaricate di seguire l’Unità e i nuovi progetti editoriali (a giorni acquisiremo anche una importante testata periodica), sono sempre a sua disposizione per un chiarimento. Siamo certi che conoscendo la sua inclinazione per la bellezza e per l’intelligenza, saprà apprezzare la nostra proposta.
I GR5, Charlotte, Kristine, Gene, Barbie, Gunther

***
Dopo una prima lettura, appena ho finito di scompisciarmi, ho scrupolosamente verificato l’autenticità della missiva, parendomi impossibile che fosse davvero opera di uno degli editori dell’Unità. Poi mi è giunta l’agghiacciante conferma: è tutto vero. Il che incrementa vieppiù la mia solidarietà verso i colleghi dell’Unità. Al filantropo laureato plurititolato dottore pensatore studioso ecc., non saprei che rispondere, se non che gli auguro i migliori successi nel suo studio dei comportamenti umani e degli stili di vita. Così come alle cinque persone che stanno testando, con grave sprezzo del pericolo, l’esperimento scientifico sulla felicità individuale, fisica e psichica, anche attraverso avatar. Mi riprometto quanto prima di sottopormi alla visita guidata nei laboratori di Miami e alla prova dell’Edodisc, che immagino appassionante, anche per via della presenza di Charlotte e Kristine. Una sola precisazione: ho collaborato quotidianamente con l’Unità – come ben sanno il cane Gunther e il suo padrone – fra il 2002 e il 2009 dietro compensi piuttosto modesti, che però pensavo provenissero dalle casse di una società, la Nie, che si giovava delle buone tirature del quotidiano nelle ge stioni Colombo, Padellaro e anche De Gregorio. Tant’è che l’azionista di maggioranza Renato Soru, arrivato nel 2008, annunciò che avrebbe rinunciato – come personalmente avevo più volte chiesto dalle colonne della stessa Unità – ai finanziamenti pubblici. Invece Mian sostiene che faceva tutto lui con i 200 milioni rimpatriati da lui e dal cane Gunther 12 anni fa con lo scudo fiscale dal Liechtenstein e dalle Bahamas. Se l’avesse detto prima, avrei chiesto un aumento di stipendio o magari, in alternativa, me ne sarei andato prima.

il Fatto 3.1.13
Chi è chi
I soci (animali compresi) del giornale di Gramsci


LO SCAMBIO che leggete qui accanto è originato da un articolo di Marco Travaglio, uscito nell’ultimo numero del 2013, sull’azionariato dell’Unità dopo che il Fatto Quotidiano aveva scoperto che Maria Claudia Ioannucci, ex senatrice di Forza Italia, nonché amica di Valter Lavitola, aveva acquistato il 13,98% della Nie, società editrice del quotidiano del Pd. In quel pezzo, il nostro vicedirettore ricordava un’altra imbarazzante presenza nel capitale del giornale, quella della Gunther Reform Holding, società creata da Maurizio Mian per gestire l’eredità della madre, 200 milioni lasciati al loro cane Gunther e scudati dieci anni fa per essere investiti, fra l’altro, nel 37% del quotidiano fondato da Gramsci.

Corriere 3.1.14
All’Unità polemiche (e querele) per l’azionista azzurra
di Alessandra Arachi


ROMA — Il caso è esploso per un articolo sul Fatto Quotidiano, il 29 dicembre scorso. E all’Unità i giornalisti sono saliti sulle barricate. Non intendono scendere. Non per adesso. Prima vogliono capire perché Maria Claudia Ioannucci sia finita fra i soci del loro giornale, il quotidiano fondato da Antonio Gramsci.
Lo ha scritto il Fatto Quotidiano, il sindacato dei giornalisti non era stato informato di nulla. Non che Maria Claudia Ioannucci avesse raccolto il 13,98 per cento delle quote dell’Unità con la sua società Partecipazioni Editoriali Integrate, srl. È stata vicepresidente dei senatori di Forza Italia dal 2001 al 2006, l’avvocato Ioannucci. Di più: è stata anche il legale del faccendiere Valter Lavitola.
«Non possiamo permettere che l’assetto societario del nostro giornale storico venga sporcato da una figura estranea alle nostre ideologie», dicono i membri del comitato di redazione del giornale che hanno in mano un pacchetto di cinque giorni di sciopero per delega dalla redazione. Sciopero che ieri è stato congelato in attesa di un incontro fissato per il 7 gennaio con l’editore, Matteo Fago. Ma gli animi dentro la redazione restano bollenti.
Maria Claudia Ioannucci ieri ha smentito qualsiasi rapporto con Valter Lavitola che non sia di puro e semplice lavoro. «È stato un mio cliente e l’assioma che vede legato un avvocato con la persona che difende non è corretto», ha scritto l’avvocato Iaonnucci in una nota senza però rispondere alle accuse del Fatto Quotidiano sui documenti che la vedono in rapporti di affari e anche di raccomandazioni (a Berlusconi) con Lavitola. Il giornale ha messo l’accento sugli affari panamensi e citato, tra le altre, una data di un appuntamento, il 21 agosto 2011, quando Ricardo Martinelli, il presidente di Panama «corrotto» da Lavitola per l’appalto di Finmeccanica, va a Villa Certosa a trovare Silvio Berlusconi, accompagnato proprio da Maria Claudia Ioannucci. C’è poi la lettera che Lavitola scrisse a Silvio Berlusconi durante la sua latitanza e c’è un passo dove il faccendiere ricorda al Cavaliere: «Lei mi ha promesso di collocare la Ioannucci nel cda dell’Eni....».
Nella sua nota di ieri Maria Claudia Ioannucci ha scritto soltanto: «Sono entrata nel capitale dell’Unità perché ogni giornale in difficoltà o che rischia di morire significa una ferita per la democrazia. L’iniziativa è nata dalla volontà di salvare un pezzo di democrazia, persino per il Fatto Quotidiano lo avrei fatto». E annuncia di avere già querelato il giornale diretto da Antonio Padellaro. Come anche promette di farlo il cdr del quotidiano fondato da Antonio Gramsci.
Sarebbe stato l’amministratore delegato dell’Unità , Fabrizio Meli, a cedere direttamente le quote all’avvocato Ioannucci, a fine ottobre dello scorso anno. «Non è ammissibile che un’operazione di questo tipo avvenga senza comunicare nulla alla redazione», contestano i tre membri del comitato di redazione del quotidiano fondato da Antonio Gramsci. Poi aggiungono: «Nell’incontro del 7 gennaio abbiamo intenzione di chiedere all’editore la rimozione dell’amministratore delegato e l’estromissione dall’assetto societario di una donna che dal 2001 al 2006 era vicepresidente dei senatori di Forza Italia, anni in cui Silvio Berlusconi si votava le leggi ad personam. Questo non è ammissibile, il nostro giornale ha un’identità fondata su valori molto precisi. In febbraio verranno celebrati i novant’anni della nascita del giornale: come si potrà conciliare una simile presenza?».

Repubblica 3.1.14
Protesta contro l’ex senatrice di Fi Ioannucci. Sciopero sospeso, ma la redazione è in rivolta. Polemica con “il Fatto”
“No all’azionista berlusconiana” l’Unità in pressing sul suo editore


ROMA — I giornalisti de l’Unità sospendono lo sciopero indetto in segno di protesta contro la cessione di una quota della proprietà a una società che fa capo all’ex senatrice di Forza Italia, Maria Claudia Ioannucci. Lo ha comunicato ieri il cdr del giornale fondato da Antonio Gramsci. L’ingresso della senatrice forzista nella compagine azionaria del quotidiano del Pd era stato svelato dail Fatto che definiva la Ioannucci «amica di Lavitola», il faccendiere amico (o ex) di Berlusconi coinvolto in diverse indagini giudiziarie.
Lo sciopero, che avrebbe dovuto essere fatto ieri, è stato annullato dopo che i giornalisti del’Unità hanno ricevuto dall’editore, Matteo Fago, la disponibilità ad incontrare il cdr per discutere le due questioniche la redazione ha sollevato. La prima, la sostituzione dell’amministratore delegato, Fabrizio Meli, responsabile di questa operazione, e la seconda, la ri-acquisizione della quota azionaria detenuta dalla ex senatrice di Forza Italia. Le due questioni rimangono per la redazione de l’Unità «ineludibili». «In gioco — ribadisce il cdr — c’è un bene non negoziabile: le idee, i principi, i valori che appartengono all’Unità».
Tutelare questo patrimonio è, sostengono ancora i giornalisti, «per noi il modo migliore per celebrare, tra poche settimane, il novantesimo del vostro e nostro giornale».
Sulla vicenda è intervenuta ieri la diretta interessata. «Sono entrata nel capitale de l’Unità — ha dichiarato Claudia Maria Ioannucci, avvocato e professore di diritto amministrativo a L’Aquila — perché ogni giornale in difficoltà o che rischia di morire significa una ferita per la democrazia. L’iniziativa è nata dalla volontà di salvare un pezzo di democrazia, persino perIl Fatto Quotidiano lo avrei fatto». «Penso — ha aggiunto — che il Cdr del’Unità si sia fatto fuorviare dall’articolo del Fatto». «Credo fortemente — ha aggiunto — che ogni giornale abbia una sua linea politica. Proprio per questo vanno salvati tutti i giornali perché ci devono essere tante voci». A proposito di Lavitola, Ioannucci spiega che «è stato un mio cliente, e che l’assioma che vede legato un avvocato con la persona che difende non è corretto». «Non siamo stati fuorviati da nessuno — è la replica del cdr del’Unità— quereleremo il Fatto che sta utilizzando questa storia in modo speculativo e sta denigrando la nostra testata con questa storia».

l’Unità 3.1.14
Camusso: «La Fiat compra, l’Italia paga»
Intervista alla leader della Cgil: bene l’operazione con Chrysler ma non si dimentichi il prezzo pagato dai lavoratori italiani
di Rinaldo Gianola


il Fatto 3.1.14
Chi ha comprato chi
di Furio Colombo


Un colpo da maestro che lascia stupite le Borse e ammirati i manager. Gli azionisti della Fiat di Torino (Italia) hanno l’intero pacchetto azionario della Chrysler di Detroit (Stati Uniti d’America), dopo avere acquistato dal Fondo pensioni dei sindacati americani ciò che mancava e averlo pagato, per due terzi, con i soldi della Chrysler e per il resto con liquido Fiat, senza avventure bancarie e senza aumenti di capitale. Da questo momento, la terza industria automobilistica americana è italiana. O è avvenuto il contrario? O è accaduto che la Fiat sia diventata la parte minore ed estera di una grande azienda americana? Naturalmente il discorso non riguarda la proprietà, saldamente controllata dagli azionisti italiani (in passato un simbolo importante come una bandiera). E non riguarda neppure il trasloco. Mirafiori resta a Mirafiori e il Lingotto resta al Lingotto, con qualche dubbio (ma tipico del brutto momento) per le sedi minori. Certo, un flash di telefonino potrebbe dirci, in qualunque momento, che il quartier generale, per ragioni di agilità logistica, non è più a Torino. Il fatto è che, mentre l’immensa operazione (Torino o Detroit) restava in bilico, si potevano lasciare in sospeso gli investimenti, gli insediamenti, i milioni di ore di cassa integrazione, la non produzione e le non vendite italiane, mentre Detroit filava (e fila) a gonfie vele. Ma vi sarete accorti che, nel corso di una crisi tutta economica e tutta industriale, di Fiat, del suo peso, del suo futuro italiano, non si è mai discusso. Globalizzazione? Delocalizzazione? Mi sembra che tutto l’evento, benché avvenga adesso, sia legato a qualcosa che non era mai avvenuto in Italia e neppure in Europa.
Una grande azienda americana, salvata da un bravo manager libero da nostalgie e legami, ma anche da qualunque senso di appartenenza, ha comprato la Fiat che diventa, da adesso, la rappresentanza italiana del compratore. S’intende, fino a che i costi (le cose sono messe in modo che in Italia non si guadagna) lo consentiranno. Poi accadrà ciò che è accaduto per la Costituzione. L’economia formale mostra che la Fiat è la nuova padrona. Ma l’economia materiale farà capire presto che Fiat (la Fiat di Torino, di Agnelli e, come piaceva dire in questo Paese, la grande industria degli italiani) adesso è una filiale di una grande azienda americana, soggetta agli alti e bassi di un altro mercato in cui non contiamo. In altre parole: ottimo affare per alcuni azionisti, e per alcuni manager. L’Italia invece (qualcuno lo dica a Letta e a Napolitano) non ha più la Fiat.

il Fatto 3.1.14
La Fiat ormai è americana, a spese dei lavoratori Usa
La Chrisler di fatto ingloberà l’azienda di Marchionne
Operazione resa possibile anche dai pesanti peggioramenti per le tute blu di Detroit
di Salvatore Cannavò


Il vecchio Gianni Agnelli è rimasto celebre per questa affermazione: “Quello che va bene per la Fiat va bene per l’Italia”. Difficile capire se la frase sia ancora valida. Certamente, a giudicare da quanto avvenuto ieri in Borsa, quello che va bene per la Fiat va bene per i suoi azionisti. Dopo l’accordo di capodanno tra l’azienda e il sindacato americano Uaw sull’acquisizione del 100% della Chrysler, il titolo del Lingotto è letteralmente schizzato segnando un più 16%. Logico, che il patron dell’azienda, John Elkann, abbia voluto celebrare la giornata inviando, insieme a Sergio Marchionne, una lettera personale ai 300 mila dipendenti del gruppo Fiat-Chrysler democraticamente definiti “colleghi”. “L’emozione con cui vi scriviamo - scrivono Elkann e Marchionne - è quella di chi negli ultimi quattro anni e mezzo ha lavorato per coltivare un grande sogno e oggi lo vede realizzato”. L’unione delle due società rappresenta “un momento epocale nella storia di Fiat e di Chrysler”, che avvia “un nuovo capitolo di storia comune da scrivere”. La soddisfazione trasuda da ogni riga accompagnata dalla lettura dei giornali di mezzo mondo i quali hanno dato la notizia con il massimo rilievo.
IL SUCCESSO dell’operazione viene sottolineato anche dai commenti casalinghi dove la politica, tranne qualche eccezione, è tutta schiacciata su Marchionne. Sul fronte sindacale, il segretario della Cisl Bonanni rivendica parte del merito anche alla sua organizzazione, mentre Susanna Ca-musso, segretario della Cgil, plaude all’operazione “di grande rilevanza” ma allo stesso tempo ritiene indispensabile che “Fiat dica cosa intende fare nel nostro Paese”. E qui torniamo all’affermazione iniziale. Quel che è bene per la Fiat è davvero buono anche per l’Italia? Il Lingotto tiene per il momento le carte coperte sulle prossime mosse e, in particolare, sul progetto di fusione tra Fiat e Chrysler che avrà, come corollario simbolico ma non privo di importanza, anche la collocazione della sede legale: a Torino o a Detroit? Le mosse compiute finora rendono inevitabile la strada della fusione e il Financial Times sostiene che la quotazione avverrà a New York entro quest’anno. A far da riferimento è il modello seguito per Fiat Industrial. Nel 2011 la Fiat ha scorporato il settore automobilistico da quello industriale incorporato poi nell’olandese Cnh. Questa, l’unica a essere quotata, ha la sede legale in Gran Bretagna e solo il 7,9% del fatturato prodotto in Italia. Lo stesso destino si annuncia per l’auto.
Come ha notato il Wall Street Journal, però, i problemi sono tutti aperti: “Il trucco usato con Chrysler” scrive il quotidiano finanziario, “non è una panacea”. Il sindacato è stato liquidato attingendo alle risorse aziendali e la Fiat resta la casa automobilistica europea con il debito più elevato. Che è anche piuttosto junk, cioè spazzatura. Come afferma la banca Citigroup, “continuiamo ad avere preoccupazioni sulla sostenibilità del debito”.
Il nuovo gruppo, il settimo su scala mondiale, dovrà inoltre disegnare la sua strategia in un mercato che cresce soprattutto in Asia e in America. Se la tedesca Volkswagen è riuscita ad affrontare le difficoltà differenziando la produzione soprattutto verso la Cina, la Fiat lo ha fatto grazie agli Usa. Ma, a differenza dei tedeschi, il successo americano è dipeso da due fattori troppo spesso dimenticati. Il primo riguarda la politica industriale di Obama che è il vero protagonista del salvataggio dell’automotive. È vero che i 10 miliardi di dollari messi sul piatto dal governo Usa e da quello canadese sono stati via via restituiti dall’azienda di Sergio Marchionne, ma senza quella dotazione iniziale l’impresa non avrebbe potuto essere pensata.
IL SECONDO fattore chiave è il sindacato Uaw il cui contributo è stato decisivo nel salvataggio di Chrysler. Il sindacato, infatti, ha accettato condizioni proibitive pur di non perdere la fabbrica: riduzione del 30% del costo del lavoro con una paga oraria passata dai 75 dollari del 2006 ai 52 del 2011. Oltre a questo, l’accordo con la Fiat, propedeutico al prestito del Tesoro americano, prevedeva l’aumento dell’orario di lavoro, la riduzione delle pause, il dimezzamento del salario per i nuovi assunti, l’assenza di scioperi fino al 2015, l’introduzione del nuovo modello lavorativo World Class Manifacturing e, in particolare, la fuoriuscita dall’azienda di circa 28 mila lavoratori. Un salasso che è stato ripagato con la restituzione di circa 9 miliardi di dollari rispetto ai 10 di cui l’Uaw era creditore all'inizio della crisi. Un contributo senza il quale la “magia” di Marchionne non esisterebbe.

il Fatto 3.1.14
L’ex sindacalista Giorgio Airaudo (Sel)
“Nessun vantaggio per i nostri operai”
intervista di Sal. Can.


“Come devono sentirsi i lavoratori di Mirafiori oggi? Più soli”. Giorgio Airaudo, ex dirigente Fiom, oggi parlamentare di Sel, non ha dubbi nel raffigurarsi l’impatto dell’operazione Chrysler sugli operai della Fiat, al 30% in cassa integrazione. E non crede al vecchio adagio di Gianni Agnelli, secondo cui “quello che va bene alla Fiat va bene all’Italia”: “Come ha detto lo stesso Marchionne, quella Fiat e quell’Italia non esistono più”.
Che giudizio dà di questa operazione?
Marchionne ha portato a compimento un’ipotesi che ha a lungo cercato e che sposta il baricentro dall’Italia agli Usa. Non abbiamo conquistato l'America, ma solo contribuito a salvare un’azienda americana su richiesta, non dimentichiamolo, del governo americano. Perché restasse in America.
Quali saranno le conseguenze per l’Italia?
A questo punto siamo una provincia. Produrremo tutto ciò che ci faranno produrre. Come è successo a Mirafiori o alla ex Bertone. A Torino doveva arrivare il Grand Cherokee e non è mai arrivato e anche la Lancia Thema è rimasta in Canada. Il sindacato Usa, lo Uaw, non ha fatto solo un accordo finanziario ma industriale, ottenendo la garanzia di modelli e impianti sul suolo americano.
Lei ha vissuto tanti anni ai cancelli di Mirafiori. Come crede che venga vissuta questa notizia?
Con la solitudine. La cosa che colpisce di più è che tutti applaudono. Ma di cosa dovremmo essere contenti? I prodotti in Italia sono condizionati dalle scelte di Detroit. In realtà, gli operai italiani sono in attesa da due anni che arrivi un modello. Si era parlato di Suv e di Alfa, ma l’unica certezza è che produzioni di serie come la Punto non sono più in Italia. Anzi, si è arrivati al punto che la Fiat vende più auto in Italia di quante ne produca, importandole dall’estero.
Eppure di Marchionne si esalta l’abilità: ha salvato la Chrysler, già fallita, oppure ha riaperto la ex Bertone a Grugliasco.
Si dica però che la Chrysler è stata salvata da Obama. Senza i denari pubblici e l'idea di una industria nazionale, per la Fiat non ci sarebbe stata nemmeno la possibilità di presentarsi. Quanto alla Bertone, è stata presa a prezzi di saldo dopo un fallimento, perché garantiva alla Fiat le competenze e la professionalità operaia per collocarsi nella fascia alta di mercato. Si è comprata una boutique pagandola come un banco al mercato. A Grugliasco, però, si è trapiantata la Maserati che a Modena non produce quasi più.
Quali sono le previsioni per l’Italia?
Ciò che vuole Marchionne non è necessariamente un bene per l’Italia. La Fiat ormai è un’azienda straniera in casa propria. E il 2014 sarà un anno durissimo. Per i lavoratori resterà l’incertezza, anche i nodi industriali sono irrisolti. Si pensi all’Alfa: sarà prodotta in Italia o negli Usa? E quanti posti di lavoro ci saranno?
Non pensa che essere il settimo gruppo mondiale possa rappresentare un vantaggio?
In realtà, è la Chrysler che compra la Fiat. Il modello finanziario è quello dell’Iveco, ormai scomparsa e incorporata dalla Cnh che è l’unica a essere quotata sul mercato. L’unico vantaggio, ora, è che la Fiat non ha più alibi e deve dire come investirà nel futuro.
Cosa dovrebbe fare il governo Letta?
Un governo degno di questo nome dovrebbe semplicemente chiedere: qual è il piano per l’Italia? O pensiamo che esista ancora Fabbrica Italia e speriamo nel buon cuore?

il Fatto 3.1.14
Il senatore Massimo Mucchetti (Pd)
“Casse vuote, gruppo ora più debole”
intervista di Sal. Can.


“Non capisco tutta questa contentezza che si legge sui giornali. Il gruppo Fiat-Chrysler ora è più debole sul piano finanziario”. Va in controtendenza, rispetto a Massimo Mucchetti, presidente Pd della commissione Industria del Senato ma, innanzitutto, il giornalista economico che ha sempre letto accuratamente i bilanci aziendali.
Senatore, non crede quindi al vecchio adagio secondo cui “quel che va bene alla Fiat va bene all’Italia”?
Non andava bene ieri quando la Fiat era un’azienda-paese, va ancor meno bene oggi che, legittimamente, guarda solo al mercato.
Perché l’acquisizione indebolisce il gruppo Fiat-Chrysler?
Dal punto di vista industriale non ci sono particolari novità: Chrysler è già da tempo parte di Fiat. Dal punto di vista operativo si rischiano licenziamenti nel settore impiegatizio dirigenziale per fare sinergie. Ma il punto da cogliere è che, per pagare il fondo Veba, si utilizzano 1,9 miliardi di dollari subito e 700 milioni scaglionati in quattro anni prelevandoli dalle risorse aziendali. E quindi si tolgono ai possibili investimenti industriali.
Eppure viene sottolineata la dotazione di liquidità di Chrysler finalmente a disposizione della Fiat.
Se c’è liquidità da una parte, circa 17 miliardi a livello di gruppo, è anche vero che dall’altra ci sono i debiti, 28 miliardi. La prima rende poco, i secondi costano tanto. Questo tipo di liquidità è un segno di debolezza perché è soprattutto una garanzia per i creditori.
Cosa la preoccupa maggiormente?
Esattamente il fatto che Marchionne, almeno per ora, neghi di voler fare un aumento di capitale. Quando le società sono già indebitate, in settori a bassi margini, le acquisizioni ad ulteriore debito sono pericolose se l’economia si ferma.
Gli Agnelli dovrebbero tirare fuori un po’ di soldi?
Gli Agnelli, con l’Exor, hanno il 30% della Fiat. Un aumento di capitale coinvolgerebbe tutti i soci e darebbe all’operazione la solidità che oggi manca. L’Exor le risorse le avrebbe visto che con la vendita di Sgs ha portato a casa 2 miliardi.
Dal punto di vista delle strategie, pensa che ci sarà una fusione sul modello Cnh-Fiat Industrial?
Lo avevo già scritto a suo tempo sul Corriere e non mi stupirebbe che questa fosse la strada anche per Fiat-Chrysler. Per gli azionisti sarebbe un vantaggio, per il settore dell’automotive italiano la cosa sarebbe tutta da verificare.
Ma è possibile che sia la Chrysler a mangiarsi la Fiat?
Nel 2009 la Chrysler era fallita e la Fiat veniva da tre anni discreti. Nel 2013 la Chrysler si è risollevata, anche se ha un patrimonio netto negativo per 7,5 miliardi di dollari, mentre la Fiat Auto va male. Chrysler ha avuto il traino della politica economica di Obama e dei finanziamenti della Casa Bianca che sta tuttora perdendo un paio di miliardi sulla liquidazione della vecchia Chrysler.
Si sente in grado di fare previsioni per gli stabilimenti italiani?
Esprimo una preoccupazione: che la Fiat ridimensioni la sua capacità produttiva alle mere esigenze del mercato locale tenendo i lavoratori italiani in eccesso a bagnomaria, a spese dello Stato, fino a quando non matureranno l’età per la pensione.
Da presidente della commissione Industria del Senato, non pensa che il Parlamento dovrebbe sentire Marchionne?
Lo penso sì. Il presidente del Senato lo ha invitato fin dallo scorso agosto a venire in Commissione per un dialogo con i senatori. Ma la Fiat ha sempre chiesto tempo. Mi pare che ne sia passato abbastanza.

l’Unità 3.1.14
Diaz, l’arresto scatta dopo 13 anni
Ai domiciliari undici agenti condannati per la sanguinosa irruzione durante il G8 di Genova
Tra loro Spartaco Mortola, Giovanni Luperi e Francesco Gratteri, ex numero tre della polizia
Stessa sorte anche per Caldarozzi, ex capo dello Sco. Lo «svuota carceri» li salva dalla cella
di Massimo Solani


l’Unità 3.1.14
Lampedusa, cinque barconi recuperati
A bordo 400 migranti
di Silvia Gigli


l’Unità 3.1.14
Immigrazione Dalle tragedie alla speranza
di Luigi Manconi Valentina Brinis


Corriere 3.1.14
Ecco le proposte di Renzi. E Berlusconi apre
Il segretario: scegliamo tra sistema spagnolo, quello del sindaco e Mattarellum rivisto L’invito a Grillo a riformare insieme il Senato. Ma i 5 Stelle dicono no: propaganda
di Alessandro Trocino


ROMA — Matteo Renzi rompe gli indugi e sfida i partiti, proponendo tre modelli di legge elettorale possibili e invitando i leader di maggioranza e opposizione a un confronto già dalla prossima settimana. Con i consueti affondi contro «le stanche liturgie della politica», il segretario del Pd detta l’agenda, provocando reazioni contrastanti e alzando nuovamente la tensione con il governo. Perché tra i modelli proposti c’è quello spagnolo, molto gradito a Silvio Berlusconi (che infatti è tra i primi ad applaudire) e poco ad Angelino Alfano, partner del Pd nell’esecutivo delle larghe intese. E perché tra i temi dell’imminente patto di coalizione inserisce anche il capitolo Diritti civili. Mentre con un’intervista al «Fatto Quotidiano» rilancia la sfida a Beppe Grillo per cambiare «insieme» il Senato in Camera delle autonomie «risparmiando un miliardo» e contempla la possibilità di sforare il vincolo europeo del 3% nel rapporto tra deficit e Pil.
Il calendario
Renzi ha fretta: «Qualcuno mi dice: “Scusa Matteo, ti abbiamo votato l’8 dicembre e non hai ancora abolito il Senato e nemmeno cambiato la legge elettorale”. Hanno ragione loro». E quindi, «tiriamo giù le carte» senza attendere oltre: «Mi hanno detto: Matteo, “aspetta il ponte”. Non scherziamo! Sono vent’anni che la classe politica sta facendo il ponte. Partiamo dai». Il suo calendario prevede, dalla settimana prossima, «incontri bilaterali» con i singoli partiti. Poi, il 14 gennaio, quando la commissione Affari costituzionali entrerà nel vivo, un incontro con i senatori del gruppo Pd per «parlarci in faccia, senza troppi giri di parole». Mentre il 16 è convocata la Direzione sui temi del lavoro. Ma già domani si riunisce la segreteria. Non a Roma, come da tradizione, ma a Firenze, in «casa». Un segnale contro «la riunionite» della politica romana, che forse non sarà gradito a tutti i membri della segreteria (sono fiorentini solo Lorenzo Lotti e Maria Elena Boschi). Unica concessione: si comincia alle 11 e non alle 7, come al primo incontro.
Le proposte
Tre «soluzioni molto diverse», ma che «rispettano il mandato delle primarie». L’obiettivo è «togliere gli alibi agli altri». Perché «il Pd è decisivo, ma da solo non basta: la riforma “selfie” non esiste. Quando si fanno le riforme, si chiamano tutti gli altri partiti. Poi se uno non ci vuol stare, lo dice. Ma senza troppi di giri di parole. Davanti all’opinione pubblica».
Renzi ha messo nero su bianco i modelli in una lettera inviata a tutti i partiti. «Non imponiamo le nostre idee, ma siamo pronti a chiudere su uno di questi». Il primo è quello spagnolo: divisione in 118 piccole circoscrizioni, con premio di maggioranza del 15 per cento. Ogni circoscrizione elegge da 4 a 5 deputati. La soglia di sbarramento è al 5 per cento. Il secondo è la legge Mattarella rivisitata: «475 collegi uninominali e assegnazione del 25 per cento dei restanti attraverso l’attribuzione di un premio di maggioranza del 15 per cento, oltre al diritto di tribuna per il 10% del totale dei collegi». L’ultimo è il doppio turno di coalizione dei sindaci: «Chi vince prende il 60 per cento dei seggi e i restanti sono divisi proporzionalmente tra i perdenti. Possibile sia un sistema con liste corte bloccate, con preferenze o con collegi. Soglia di sbarramento al 5 per cento».
Oltre alla legge elettorale «maggioritaria», Renzi chiede di accelerare sulla trasformazione del Senato «in Camera delle autonomie locali con la cancellazione di ogni indennità per i senatori, non più eletti, ma tali per i loro ruoli in Comuni e Regioni». E chiede la riforma del Titolo V della Costituzione.
Ma c’è un post scriptum. Prendendo a spunto il caso delle 24 famiglie di italiani bloccate in Congo in attesa che si risolva l’iter per le adozioni internazionali, Renzi parla anche del contratto di coalizione, «che si dovrebbe siglare a gennaio». Nel patto inserisce il capitolo Diritti civili: «Che comprende non solo le modifiche alla Bossi-Fini, le unioni civili, la legge sulla cooperazione internazionale, i provvedimenti per le famiglie, ma anche una disciplina più moderna delle adozioni». E suggerisce di chiamare questi non più Diritti civili, ma Doveri civili.
Le reazioni
Tra i primi a dirsi d’accordo (oltre a Sel) c’è Silvio Berlusconi. Che plaude al «metodo» ma anche alla sostanza. Perché uno dei modelli, lo spagnolo, è amato da Forza Italia. Con una postilla: la riforma dovrebbe essere immediatamente seguita dalle elezioni, con una election day a maggio. Tema, quello della durata dell’esecutivo, al centro di uno scambio di tweet tra il direttore del Corriere e lo stesso Renzi. Scrive Ferruccio de Bortoli: «Tra le proposte di Renzi sulla legge elettorale sorprende quella spagnola che mette in crisi l’alleanza con Ncd. Letta ogni giorno a rischio». Replica il segretario pd: «E perché mai direttore? Noi siamo disponibili a una delle tre. Facciamo interesse degli italiani, non del Pd o degli alleati».
Di tutt’altro avviso, rispetto a Forza Italia, è il Nuovo Centrodestra. Già in passato Angelino Alfano aveva detto di preferire il sistema dei Sindaci d’Italia e lo ribadisce: «Siamo coerenti. Se si vuole si può. Noi la legge elettorale la vogliamo cambiare e subito». Gaetano Quagliariello, però, insiste anche sul metodo e chiede che si arrivi prima a un’intesa nella maggioranza. Il Movimento 5 Stelle reagisce negativamente con Roberto Fico e Luigi Di Maio: «Voteremo per il ritorno al Mattarellum. Renzi fa propaganda, vuole vestirsi addosso un vestito cucito su misura, perché ha paura di perdere». Poi arriva l’ordine di tacere, via messaggino dal capogruppo dei 5 Stelle.

Corriere 3.1.14
Le accelerazioni del leader pd che ora rischia i veti incrociati
Così il sindaco prova a smarcarsi da Letta e Alfano
Lo scenario di un accordo di maggioranza allargato a FI
di Francesco Verderami


Si è condannato al movimentismo, perché convinto che sia l’unico modo per non finire logorato da quei due «vecchi democristiani» seduti a palazzo Chigi. Perciò ieri Renzi ha aperto formalmente il confronto con gli altri partiti sulla legge elettorale.
Ma il rischio che corre il leader del Pd è di rimanere vittima delle sue stesse manovre, finendo incastrato nel gioco dei veti incrociati. Se l’abbia messo nel conto o più semplicemente si senta costretto a farlo non è chiaro, di sicuro è consapevole del pericolo, e con lui i suoi più fidati consiglieri. L’accelerazione impressa sulla riforma del Porcellum è un modo per tenere fede alla promessa sottoscritta alle primarie: il punto è che da questo momento il segretario democratico diventa il regista dell’operazione e non potrà scaricare su altri un eventuale fallimento.
Perciò Letta e Alfano lo attendono al varco, certi che alla fine l’intesa sul nuovo sistema di voto dovrà partire — come sostiene il leader del Nuovo centrodestra — «dall’alveo della maggioranza», per essere poi «allargata a Forza Italia». L’abbrivio sembra questo, e questi almeno sono i calcoli dei vertici di governo, disposti ad assecondare il timing dettato Renzi. È una convergenza di cui c’è traccia nei colloqui di ieri tra i rappresentanti dell’esecutivo e il capo democrat, è una tesi caldeggiata dal ministro Franceschini con il premier e il vicepremier, e che solo all’apparenza è paradossale: «Se la legge elettorale non venisse approvata rapidamente, allora sì che il fallimento farebbe saltare la legislatura, non viceversa».
D’altronde, se per un verso lo schema di Renzi delle tre proposte — che sono altrettante offerte distinte ad Alfano, Berlusconi e Grillo — spettacolarizza la sfida, dall’altro lascia intuire come la «rosa» presentata ai suoi interlocutori sia destinata a perdere ben presto due petali. Il primo è già caduto, e non tanto perché il «comico» ha già risposto con il solito «vaffa», ma perché in realtà il sindaco di Firenze più che a un’intesa con i Cinquestelle mira a quella cassaforte di consensi. È un progetto ambizioso, che nella strategia renziana garantirebbe la vittoria del Pd alle Politiche. Le avances a Berlusconi hanno invece un diverso obiettivo. Siccome il segretario democratico non si fida di Letta e Alfano, e teme un loro gioco di sponda, intende presentarsi al tavolo della trattativa minacciando l’asse con il Cavaliere, così da togliere al leader di Ncd la facoltà di porre veti. Di qui l’apertura di Renzi al modello spagnolo, caro a un pezzo di Forza Italia, e a cui il Cavaliere ha subito risposto mostrandosi disponibile all’intesa. L’ex premier è desideroso di partecipare alla sfida, «sono pronto a incontrare Renzi e ad accordarmi con lui», ha infatti detto, «ma a patto di ottenere le elezioni anticipate», accorpando a maggio Politiche ed Europee.
Ecco le avvisaglie dei rischi che corre il leader democrat, semmai iniziasse il gioco del cerino sulla legge elettorale: il movimentismo di cui è protagonista oggi, gli si potrebbe ritorcere contro domani. Perché un conto sono i desiderata di Renzi, che se potesse andrebbe alle urne anche domani, un conto sono gli spazi di manovra. E il voto anticipato non è nelle sue disponibilità. Non a caso lo stato maggiore del Pd ieri ha subito frenato dinnanzi alle richieste del leader forzista, che a sua volta si tiene le mani libere, e lascia i suoi dirigenti dividersi sul sistema di voto. Se Brunetta è favorevole al Mattarellum e Verdini propende per lo spagnolo, c’è chi — come il capogruppo al Senato Romani — sottolinea come «noi siamo fermi sulla difesa del bipolarismo, sapendo però che in Italia non c’è il bipartitismo». Traduzione: va privilegiata la logica di coalizione, e dunque un sistema che non uccida gli alleati ma li riunisca.
È un ponte verso Alfano che Berlusconi non ha mai fatto saltare, anzi. E c’è un motivo se il vicepremier intende tenerlo solido, se ribadendo la linea di un’intesa preventiva nella maggioranza, parla esplicitamente di un successivo «allargamento a Forza Italia». Dal ginepraio di mosse e contromosse, emerge il fatto che nella «rosa» delle proposte già una raccoglie il consenso dell’area di governo: il modello del «sindaco d’Italia», che è stato offerto da Renzi nel pacchetto, che non è inviso agli azzurri — visto come la Gelmini ieri ha evidenziato la «nostra disponibilità a discutere su qualsiasi sistema» — e che è stato preso al volo dal leader del Nuovo centrodestra: «Noi siamo pronti, e siamo pronti a fare in fretta».
A fronte della mano tesa da Alfano, come potrebbe il leader del Pd ritrarre la propria? Anche perché, se davvero vorrà portare a casa «entro gennaio» il primo voto della Camera sulla riforma, non ha molto tempo a disposizione. Il presidente della commissione Affari costituzionali di Montecitorio, Sisto, ha spiegato ai dirigenti del Pd che è possibile stare nei tempi, «a patto però che ci sia un accordo su un testo». Appunto.

Corriere 3.1.14
Grillo e i fedelissimi spiazzati: operazione mediatica contro di noi
Il caso dell’sms che invita a non commentare Renzi. Dissidenti divisi
di Emanuele Buzzi


MILANO — Una mossa che ha in parte sparigliato le carte e messo in evidenza le diverse anime che muovono i parlamentari Cinque Stelle: la proposta lanciata da Matteo Renzi ai pentastellati — in un’intervista al Fatto Quotidiano — per trasformare il «Senato in Camera delle autonomie locali» ha creato una bagarre che ha coinvolto deputati, senatori e intellettuali di riferimento del Movimento. L’unico a tacere è stato invece proprio Beppe Grillo. Il leader, secondo fonti vicine ai Cinque Stelle, avrebbe preferito non replicare al segretario pd per non alimentare un «battibecco sterile», che viene visto solo come «uno spot» per Renzi. Un atteggiamento diverso, quindi, per prendere le distanze da «una sorta di stalking mediatico».
Il silenzio di Grillo, però, si è trasformato in un boomerang alla Camera, dove il capogruppo pentastellato Federico D’Incà ha richiamato i suoi all’ordine con un sms perentorio — «Non cedere alle provocazioni di Renzi su media, le risposte verranno date dai capogruppo M5S nelle sedi opportune» —, scatenando le reazioni di alcuni esponenti del Movimento e dei parlamentari democratici. «Oggi scopriamo che i loro parlamentari prendono ordini via sms, come tante Ambra audio guidate da Boncompagni/Casaleggio», ironizza il senatore Francesco Scalia. In realtà, molti deputati e senatori, specie tra i fedelissimi di Grillo, si erano già espressi a caldo. I gruppi parlamentari pentastellati avevano parlato di «leader telecomandato». Per Roberto Fico, Renzi è «lo “scintillio di luci” per illudere, ancora una volta, sull’inizio di una “nuova´ stagione”» del Pd. Luigi Di Maio sposta il target dalla riforma del Senato alla legge elettorale: «Il Movimento 5 Stelle voterà per il ritorno al Mattarellum». E attacca: «Se Renzi ha paura di perdere le prossime elezioni con il Mattarellum, lo ammetta». Ma il pensiero dei Cinque Stelle lo riassume anche Vito Crimi, che contesta il merito del messaggio. «Le riforme costituzionali si fanno così? Con due leader al tavolino? Noi siamo per un dibattito pubblico che coinvolga i cittadini. Sono provocazioni, noi siamo venuti in parlamento per cambiare il modo di fare politica, non per questi accordi». L’ex capogruppo critica anche la scelta del segretario pd: «Renzi è convinto che il problema dell’Italia sia il bicameralismo perfetto? È questa la ricetta per far ripartire il Paese? Dovremmo chiederlo agli artigiani in difficoltà, ai disoccupati».
Sull’apertura a Renzi i dissidenti vanno in ordine sparso. Secondo Francesco Campanella, «una proposta fatta così, su di un giornale, non è l’avvio di un dialogo. È una sfida, una guasconata». Francesco Molinari, invece, specifica che «noi del M5S non abbiamo mai avuto alcuna pregiudiziale verso nessuno». «Se vuole ci dimostri , nei fatti, e il prossimo impegno al Senato, dove dovremmo votare con l’ennesimo dl la definitiva privatizzazione della Banca d’Italia, è il banco di prova — prosegue Molinari —. Noi ci siamo e siamo perché la Banca d’Italia sia pubblica; vediamo se la prova di coerenza riesce a Renzi». Anche Lorenzo Battista chiede al leader pd «un gesto di coraggio», Il senatore friulano precisa: «Se ci sono proposte che vanno incontro a quello che vogliamo noi, non ci sono preclusioni». Aperto al dialogo, invece, Luis Alberto Orellana: «È la seconda volta che ci sollecita: io andrei a sentire cosa ha da dire». «Su alcuni punti è ragionevole coinvolgere le maggiori opposizioni», sostiene. E analizza: «Io avrei messo in primo piano l’emergenza sociale, partendo magari dalla nostra proposta del reddito di cittadinanza». Nella giornata caotica dei Cinque Stelle c’è spazio anche per uno scontro via Twitter tra Paolo Becchi (l’ideologo in mattinata aveva invitato Renzi a «mettersi il cuore in pace. Non ci sarà alcuna riforma del bicameralismo perfetto con l’aiuto del M5S) e il deputato friulano Aris Prodani, che gli ha replicato: «Caro Becchi, ma sta parlando in nome di qualcuno o è un suo pensiero?».

Repubblica 3.1.14
Soldi ai partiti, la cura sbagliata
di Piero Ignazi


I PARTITI hanno talmente perso fiducia e credibilità che stanno trascinando a fondo anche l’idea stessa di democrazia. Come ha rilevato Ilvo Diamanti, ormai il numero di coloro che ritengono inconcepibile una democrazia senza partiti è sceso al livello di chi ne vuole fare a meno. Certo, i partiti hanno fatto di tutto per meritare questa pessima considerazione. In Italia più che altrove, anche se la malattia è diffusa ovunque.
Sedi chiuse, iscritti in calo e, soprattutto, disistima generalizzata accomunano tutte le democrazie mature, dalla Scandinavia ai paesi mediterranei.
Il voto di febbraio ha espresso il disgusto dell’opinione pubblica italiana per una classe politica arruffona e forchettona.
Per rimediare, già due anni fa, in luglio, venne varata una nuova norma sul finanziamento pubblico (legge 96/2012) con la quale si riduceva drasticamente la cifra erogata dallo Stato, si richiedeva un 30% di cofinanziamento, e si reintroducevano le detrazioni fiscali. Lo tsunami di Beppe Grillo ha reso evidente che non bastava. In effetti quella legge era timida e contraddittoria. Ecco quindi una nuova norma, già approvata dalla Camera in ottobre, e varata pochi giorni fa con un decreto legge governativo.
L’impostazione di questa norma deriva dal successo del Movimento 5 Stelle alle ultime elezioni. Solo che, agendo in tal senso, si sono commessi due errori strategici. Il primo è quello di aver dato ragione a un contendente nell’arena politica. Se approvi una norma che viene richiesta a gran voce da un’altra forza politica, ti metti al suo traino. E non potrai mai raggiungerla, come la mitica tartaruga di Achille, perché chi riesce a introdurre, e poi a imporre, un tema rilevante nel dibattito politico, poi ne diventa il proprietario. La moralizzazione della vita politica e l’abbattimento del finanziamento pubblico costituiscono il codice identificativo dei 5Stelle. Poi potranno sbagliare tutto, ma per l’elettorato sono loro i portabandiera di questi temi. Rincorrerli sul loro terreno non fa che aiutarli. Esattamente come fece maldestramente il governo di centrosinistra nel 2000 quando modificò il titolo V della Costituzione per compiacere le domande di devolution della Lega. Fu un regalo bello e buono al Carroccio. Anche adesso il governo Letta e gran parte del Pp seguono l’onda montante della demagogia antipartitica e si accodano alla protesta grillina contro il finanziamento pubblico. E questo è il secondo errore strategico. Un governo e un partito che vogliano difendere la funzione del partito politico devono proporre una visione alternativa, non un azzeramento completo, facile e dannoso. Altrimenti non ci si può stupire se poi quasi la metà degli italiani pensa di poter fare a meno dei partiti. Purtroppo il decreto va nella direzione sbagliata per cinque ragioni specifiche e per una di portata più generale. Nello specifico: a) abolisce in toto l’erogazione di fondi pubblici verso i partiti allontanandosi da tutti gli altri paesi europei (Svizzera esclusa) che invece prevedono forme di finanziamento pubblico, lasciando tutto nelle mani dei donors; b) reintroduce la norma, già sperimentata nella legge del 1997, della destinazione di una quota del reddito ai partiti (allora era il 4 per mille ora il 2 per mille), norma che fallì clamorosamente e di cui non vennero mai fornite cifre ufficiali sull’entità delle donazioni; c) si introducono le detrazioni fiscali, tra l’altro più generose rispetto alle Onlus, che sono una forma surrettizia di finanziamento pubblico; d) il controllo sui bilanci si limita alla loro regolarità e conformità e le sanzioni sono solo amministrative; e) non si pone un limite al tetto delle spese.
Inoltre, sul piano generale, affidare il sostegno finanziario completamente ai cittadini, benché sembri il non plus ultra di una democrazia partecipante, rinforza la natura privatistica dei partiti e allontana la prospettiva di una loro regolazione. La richiesta ai partiti di depositare uno statuto, contenuta nel decreto legge, non ha alcun valore se non ci sono linee guida cogenti da rispettare. Mentre in 18 dei 28 paesi membri della Ue sono state introdotte leggi che definiscono il quadro entro cui operino i partiti e, a compensazione di questa intrusione, viene garantito un contributo finanziario, da noi si esclude questa opzione. Sperare che i partiti vivano di risorse proprie, trasparenti e rintracciabili, in una fase di montante anti-partitismo senza fornire loro né un quadro normativo vincolante per le loro attività, né adeguati controlli e limiti, rischia di sospingerli ancora una volta verso pratiche opache. È curioso che su un tema così delicato si segua la demagogia e non si guardi al di là delle Alpi. Ancora una volta ci fermiamo a Chiasso.

Repubblica 3.1.14
Sacconi, capogruppo al Senato: niente leggi su temi etici, la spaccatura in Parlamento sarebbe assicurata
Diritti agli omosessuali e ius soli il Nuovo centrodestra è già in trincea
di Alberto Custodero


ROMA — Aria di tempesta, all’orizzonte, tra Pd e “alfaniani”, per la difficoltà di trovare un accordo sulle materie più controverse ai primi punti sia dell’agenda del governo Letta. Sia di quella del neo segretario del Pd Matteo Renzi. I temi più delicati sono, in particolare, la legge Bossi-Fini, le unioni civili e il lavoro. Maurizio Sacconi, sugli argomenti sui quali si profila lo scontro più duro (come le unioni civili), ètranchant.«La nostra prima proposta — dice l’ex ministro del Lavoro — è la moratoria legislativa, ovvero non fare leggi, su tutti i temi etici, essendo divisivi nella società prima ancora che nel Parlamento». A dimostrazione di quanto sia lacerante nella società questo dibattito, Franco Grillini, presidente di Gaynet Italia, ha ricordato che «ogni volta che in sede parlamentare si è parlato di diritti delle coppie omosessuali, i clericofascisti hanno fatto di tutto per bloccare qualsiasi tipo di legge». «Deputati e senatori del Ncd sono contrari al matrimonio gay», replica il senatore Carlo Giovanardi.
«Siamo disponibili — ha aggiunto Sacconi — a discutere dei diritti e della capacità giuridica della persona di relazionarsi con altre persone. Ma di coppia ne riconosciamo solo una, quella unita nel matrimonio secondo la Costituzione: è questo un principio irrinunciabile».
Criticità si profilano anche sul job act.«Siamo per il massimo comun denominatore», chiosa Sacconi. Più diretto il deputato Sergio Pizzolante, capogruppo Ncd in commissione Lavoro. «La divisione — puntualizza — è fra chi vuole creare lavoro liberando l’impresa. E chi vuole proteggere i garantiti e tutta l’archeologia sindacale di Fiom e Cgil». «Sul lavoro — rincara la dose Pizzolante — Renzi si gioca tutta la sua credibilità: è la fatidica prova del nove, art-18, flessibilità, riforma degli ammortizzatori sociali, salario». «Sino ad oggi — incalza polemicamente Pizzolante — Renzifa il furbo, pronuncia parole nuove per questa sinistra e strizza l’occhio a Landini. Ma non reggerà. Vedremo su questo tema se il renzismo è una cosa nuova o una brutta copia del “ma anche” di Veltroni». La deputata Barbara Saltamartini è «contraria all’abolizione della Bossi-Fini». «Disponibile a eventuali verifiche — dice — se si possono migliorare passaggi. Di certo non sono d’accordo con la Kyenge sullo ius soli.L’Italia non può diventare una “sala parto” dove chi arriva diventa cittadino italiano». Sulla stessa linea — polemica con il Pd — anche Fabrizio Cicchitto. «Per evitare catastrofi, non può esserci uno ius soli automatico, ma un riferimento alla permanenza in Italia dei genitori e alla durata della scolarità dei giovani». «Nessun collegamento tra cittadinanza e burocrazia anagrafica — spiega ancora Sacconi — noi siamo per un percorso “volitivo”: per la cittadinanza non come atto burocratico, ma come conquista».

il Fatto 3.1.14
150 miliardi bruciati ogni anno in media, 272 nel 2013
Evasioni, storie di ladri dall’idraulico ai politici
Niente custodia cautelare, niente intercettazioni, una pena di 5 mesi e sei giorni con la condizionale
Rubare un navigatore da un’auto invece “vale” minimo un anno
Tutti gli sconti concessi al più grande furto in atto alle tasche dei cittadini
di Bruno Tinti


L’autore è stato magistrato dal 1967 al 2008, Tra il 1992 e il 2000 è stato presidente di tre commissioni ministeriali per l’elaborazione di una nuova legge penale tributaria per sostituire la 516/82; il Parlamento italiano approverà la nuova legge con modifiche tali da snaturarne completamente l’impianto, sì da renderla del tutto inefficiente

A un certo punto ho capito che l’evasione fiscale era un crimine grave: 150 miliardi di euro in media all’anno non li rubano nemmeno tutte le rapine, i furti e le truffe messi insieme; quanto alle corruzioni, senza evasione fiscale non si potrebbero fare perché non ci sarebbero i tesoretti riservati. Però quasi nessuno dei pm miei colleghi aveva una gran voglia di occuparsene. Così ne radunai due o tre che erano interessati e cominciammo a studiare; e poi a lavorare. Eravamo a metà degli anni 80. Nel mondo dei ciechi... sapete come si dice. Finì che, a furia di scrivere articoli e libri sul fatto che la legge penale-tributaria era tutta sbagliata, mi nominarono presidente di una commissione tecnica incaricata di scriverne una nuova. Io non ero più tanto giovane nemmeno allora; ma stupido e ingenuo sì. Così ci credetti e cominciai a lavorare. Ci impiegammo sei o sette anni (i governi cadevano e risorgevano come funghi e ogni volta si doveva ricominciare da capo) ma, alla fine, venne alla luce una legge coi fiocchi. Era anche ovvio: in commissione eravamo magistrati, funzionari delle imposte, Gdf, avvocati, tutti del mestiere; se non lo sapevamo noi quello che si doveva fare per contrastare l’evasione... Come metodo di lavoro adottammo le storie di vita vissuta; ce ne erano a migliaia ma, stringi stringi, appartenevano tutte a tre categorie: il “nero”, le fatture false e l’abuso del diritto (o elusione fiscale). Poi gli avvocati insistettero per considerarne un’altra: la bugia pura e semplice. E da lì cominciarono i guai.
Tremila euro senza fattura per i lavori al bagno del pensionato
Io raccontai la storia dell’idraulico. Allora, c’è un idraulico che viene incaricato di rifare un bagno nella casa di un pensionato. Presenta un preventivo, lo discute con il suo cliente e alla fine si accordano: 3.000 euro. A lavoro fatto arriva il momento di pagare. “Con fattura o senza? ”, dice l’idraulico. “Che differenza fa – dice il pensionato – abbiamo stabilito 3.000 euro”. “Sì, ma con fattura c’è l’Iva, 600 euro. Capisci, debbo annotare la fattura in contabilità e a questo punto l’Iva va versata”. “Ma così io debbo pagare 3.600 euro! ”. “Eh, che ci posso fare. Certo, se mi dai contanti, io non ti faccio la fattura, non devo versare l’Iva, 3.000 euro avevamo detto e 3.000 sono”. Non gli dice che non pagherà nemmeno l’Irpef, hai visto mai che il pensionato gli chieda uno sconto. “Niente fattura – dice il pensionato – Passa domani per i primi mille euro in contanti”. Rapido calcolo sull’ammontare globale dell’evasione: 600 euro di Iva e 900 di Irpef (ipotizzando un’aliquota del 30%). L’idraulico ha fregato allo Stato 1.500 euro. Come lui, milioni di artigiani, commercianti, professionisti, piccoli e medi imprenditori, ogni giorno evadono con lo stesso elementare sistema; alla fine dell’anno questo popolo dell’Iva sottrae allo Stato (secondo Corte dei Conti, Eurispes, Agenzia delle Entrate) dai 100 ai 120 miliardi di euro. In effetti è un fenomeno preoccupante. Ok – dissero gli avvocati – ma consideriamo il nero dei lavoratori dipendenti che fanno anche loro gli idraulici, o gli imbianchini o i giardinieri. A questi non gli facciamo niente? Bè sì, ma prima di tutto è un fenomeno assai meno grave: vuoi mettere un avvocato o un dentista con un operaio in cassa integrazione che arrotonda? E poi l’evasione delle partite Iva è più difficile da accertare, loro hanno una contabilità che fa fede fino a prova contraria se tenuta regolarmente; e l’omissione delle fatture non è facile da scoprire, ci vanno indagini bancarie oppure controlli incrociati sugli acquisti, nel caso dei commercianti. Va bene – dissero gli avvocati – prevediamo due reati di evasione: la dichiarazione infedele, punita fino 3 anni, per quelli che si limitano a presentare una dichiarazione falsa (il nero degli operai in cassa integrazione, pensa tu se bisognava costruire un reato per gente così!) ; e la frode fiscale, punita fino a 6 anni, per quelli che supportano la dichiarazione falsa con artifici: contabilità e documenti falsi, cose del genere. Litigammo per un paio di mesi; poi dal ministero arrivò il diktat: due reati di dichiarazione, l’infedele e la fraudolenta.
Era già pronto il trabocchetto per indebolire la legge
Dovevo capirlo che stavano preparando un trabocchetto; ma – come ho detto – ero molto stupido. E poi una dichiarazione fraudolenta punita fino a 6 anni permetteva la custodia cautelare e le intercettazioni telefoniche: mi sembrò comunque un buon risultato. I poveracci – pensai – si beccheranno sei mesi con la sospensione condizionale della pena. Il nostro progetto finì in Parlamento. E lì gli evasori fiscali giocavano in casa. Il nero delle partite Iva rimase frode fiscale, come no. Però, perché si potesse parlare di frode, occorrevano “artifici”; e, disse il Parlamento sovrano, non è poi detto che la violazione degli obblighi di fatturazione e registrazione sia da considerare sempre mezzo fraudolento: bisogna considerare le sue particolari modalità, la sistematicità, le circostanze di contorno che eventualmente le conferiscano una particolare “insidiosità”. Insomma, non basta creare una contabilità falsa omettendo fatture, ricevute, parcelle e dunque omettendo l’annotazione di quanto percepito: occorre qualcosa in più. Cosa, non si sa. Che resta da fare al professionista che, dopo il quinto cliente, comincia a farsi pagare in contanti e non emette fattura? Mah. Da allora gli idraulici evadono in pace. E anche il resto del popolo dell’Iva. Se li beccano, solo “dichiarazione infedele” è. Niente custodia cautelare, niente intercettazioni, pena piccolina (la tariffa è 5 mesi e 10 giorni con la condizionale). Pensate che un ladruncolo che si frega un navigatore da una macchina si prende come minimo un anno. Naturalmente ci restammo tutti un po’ male (ma non gli avvocati). Quello che mi dette da pensare per molti mesi fu che questo bel regalo agli evasori non lo avevano fatto Berlusconi&Co. Il decreto legislativo 74/2000 venne emanato da un governo presieduto da Massimo D’Alema, con ministro delle Finanze Vincenzo Visco e ministro della Giustizia Oliviero Diliberto. Da allora cominciai a essere meno stupido.
  
il Fatto 3.1.14
La legge del 2010
E i veri grandi predoni rimangono “scudati”
Attività finanziarie, immobiliari e altri investimenti “coperti” ammontano almeno a 104,5 miliardi di euro
di Antonio Massari


Tra il 2012 e il 2013 – secondo la Confcommercio – sono stati sottratti al Fisco 272 miliardi l’anno. Il sommerso vale il 17,4 per cento del nostro Prodotto interno lordo del biennio preso in considerazioni. “Penso che in Italia esista un’evasione di sopravvivenza”, ha ammesso quattro mesi fa Attilio Befera, direttore dell’Agenzia delle entrate. Non v’è dubbio. Il punto è però un altro: è l’evasione in grande stile che, in Italia, sopravvive benissimo. E da decenni. Basti analizzare – come vedremo – in che modo è stato congegnato lo “scudo fiscale”.
È CERTO che la Guardia di finanza, per esempio, dispiega le sue forze per arginare il fenomeno: 2.523 interventi nel 2012 – dati di una relazione parlamentare – con conseguente recupero di 7,2 miliardi. E ancora: 8.617 evasori fiscali individuati, sempre nel 2012, con un incremento del 15 per cento rispetto al 2011. Nel 2012 le fiamme gialle hanno eseguito 101.484 verifiche e oltre 650 mila controlli strumentali individuando oltre 56 miliardi di basi imponibili non dichiarate e 4,8 miliardi di Iva dovuta e non versata. Ma c’è il rovescio della medaglia: non basta scoprire l’evasione, è necessario recuperarla, e gli accertamenti dell’Agenzia delle entrate dimostrano che il complesso di imposte evase ma non riscosse – e chissà se mai riscuotibili – ammonta a ben 545 miliardi.
UNO STUDIO Istat del 2010 – relativo al 2008 – quantificava il sommerso economico tra i 255 e i 275 miliardi di euro, cioè tra il 16,3 e il 17,5 del Pil: una lieve flessione, rispetto al 2000, quando s’attestava tra i 217 e i 228 miliardi, variando tra il 18,2 e il 19,1 del Pil. Ma torniamo al 2012: “Il recupero dell’evasione – sostiene una relazione presentata dal premier Enrico Letta e dal ministro delle Finanze Maurizio Saccomanni – ha comportato riscossioni per 12,5 miliardi, consolidando il dato del 2011, con un aumento dell’80 per cento negli ultimi 5 anni: nel 2008 ammontavano a 6,9 miliardi”. E ancora: “L’attività di controllo svolta nel 2012 dall’Agenzia delle entrate ha conseguito una maggiore imposta di 28,6 miliardi con 741.331 accertamenti”. C’è poi lo strumento del nuovo redditometro, per individuare eventuali evasori analizzando il reddito e le loro spese, che ormai racchiude cento voci di spesa racchiuse nelle macro-categorie di “Consumi generi alimentari, abbigliamento e calzature”, “abitazione”, “combustibili ed energia”, “mobili, elettrodomestici e servizi per la casa”, “sanità”, “trasporti”, “comunicazione”, “istruzione”, “tempo libero, cultura e giochi”, “altri beni e servizi” e “investimenti”. Un controllo capillare per cittadini nella media che stride, però, con la “riservatezza” destinata ai grandi evasori con lo scudo fiscale del 2010. E vediamolo con gli occhi di uno studio stilato – senza alcuna retorica e molto duramente – da Fabio Di Vizio, sostituto procuratore del tribunale di Pistoia.
ANCHE in questo caso partiamo da alcuni dati: dal 15 settembre 2009 al 30 aprile 2010 sono state presentate 206.608 “dichiarazioni riservate delle attività emerse”: parliamo dello “scudo fiscale” che ha portato a “scudare” attività finanziarie, immobiliari e altri investimenti per 104,5 miliardi di euro. E Di Vizio commenta: “Il dato ministeriale parrebbe evocare un rientro fisico in Italia di attività (già) estere per oltre 100 miliardi. Parrebbe, perché in realtà la maggior parte delle risorse ‘rimpatriate’, sono rimaste esattamente là dove si trovavano. Ammesso che là si trovassero e si trovino, circostanza non scontata e non verificabile”. Insomma: lo Stato non s’è dato gli strumenti per verificare. Ben 179 mila persone – con una media di 400 mila euro ciascuno – hanno ‘scudato’ senza “l’obbligo di documentare la provenienza, l’esistenza e la preesistenza delle attività”. La metà – il 50,3 per cento – ha adottato il “rimpatrio giuridico”, che consente di mantenere all’estero le attività finanziarie scudate, “affidate a fiduciarie presso Stati extracomunitari non collaborativi e addirittura non equivalenti in termini di anti-riciclaggio”. E quindi “senza nessuna possibilità concreta di controllo circa l’esistenza, l’entità, il periodo di accumulazione e l’origine dei fondi”.
E ANCORA: “Nei Paesi dove il dato è stato suscettibile di controllo giudiziale, alla data del 31 dicembre 2008, molte delle somme ‘scudate’ non erano detenute all’estero. Vi hanno trovato rifugio solo dopo l’inizio dello ‘scudo’. Ed è facile immaginare cosa può essere avvenuto nei Paesi dove non opera alcuno scambio d’informazioni fiscali e non v’è stata occasione di indagine penale”. È facile immaginare – cioè – che quei soldi, all’estero, non vi siano mai stati. E Di Vizio conclude: “Sono state confuse, se non precluse, verifiche fiscali e penali proprio nei confronti di coloro che hanno commesso in passato violazioni fiscali, plausibilmente i più esperti e propensi a ripeterle. Un’immunità soggettiva nauseante”.

l’Unità 3.1.14
Stuprata e bruciata viva. Esplode la protesta in India
Violentata una prima volta, poi di nuovo dopo aver sporto denuncia. Alla fine le hanno dato fuoco
di Marina Mastroluca


l’Unità 3.1.14
«Niente per cui vivere»
I ragazzi perduti di Londra
Secondo un sondaggio il 9% dei giovani britannici sente di non avere scopo, uno su tre ha idee suicide: il dramma di una generazione emarginata
di Gabriel Bertinetto


il Fatto 3.1.14
S’allarga la moneta
La finta eurofesta della Lettonia
di Alberto Bagnai


Enrico Letta ha accolto trionfalmente su Twitter l’ingresso della Lettonia nell’Eurozona. Chi si contenta gode, verrebbe da dire. Non per fare il guastafeste, né per mancare di rispetto alla Lettonia (2 milioni di abitanti, un Pil pari allo 0.2% del totale dell’Unione Europea), ma va ricordato che Polonia e Repubblica Ceca (che insieme hanno 50 milioni di abitanti, ed esprimono più del 4% del Pil dell’Unione) pare non abbiano la benché minima intenzione di accedere a loro volta.
Lo prova il fatto che non hanno nemmeno aderito all’Erm II (Exchange Rate Mechanism II), cioè all’impegno di mantenere il cambio delle proprie valute nazionali entro bande di oscillazioni ristrette con l’euro (condizione necessaria per poter entrare nella moneta unica). Non solo: a seguito dello choc provocato dalla crisi finanziaria mondiale, Polonia e Repubblica Ceca hanno reagito come economia vuole, cioè svalutando il proprio cambio. La Polonia lo ha fatto subito dopo il crollo della Lehman Brothers, svalutando di circa il 25% in termini effettivi fra settembre 2008 e agosto 2009; la Repubblica Ceca lo ha fatto a novembre scorso, svalutando di circa il 6% (ma non mi pare che qui se ne sia parlato). Inutile dire che non c’è stata nessuna fiammata di inflazione in Polonia, dove l’inflazione è anzi scesa dal 4,4% (nel 2008) al 3,5% (nel 2009). Viceversa, dal 2009 al 2012 in Polonia la crescita media è stata del 3%. Constatata la propria deludente crescita del -1,4% sullo stesso periodo, alla fine la Repubblica Ceca si è convinta a svalutare anche lei, rinviando di fatto di almeno altri due anni ogni possibile velleità di adesione alla trappola dell’euro. E la Lettonia? Bè, dal 2009 al 2012 non è che le sia andata molto bene. La sua crescita media fra 2009 e 2012 è stata del -2% e il motivo è chiaro: la Lettonia era nell’Erm II fin dal 2005. Con il lat ancorato all’euro, alla Lettonia non rimaneva che una strada, quella della svalutazione interna, la svalutazione dei salari. Fra il 2008 e il 2010 i salari medi sono diminuiti di circa il 7%, per poi stabilizzarsi. Per far accettare un simile taglio delle retribuzioni, la disoccupazione, va da sé, è dovuta aumentare dal 7% al 18%. Non solo: la popolazione è diminuita di circa il 10%. Disoccupazione a due cifre ed esodo: i due effetti collaterali della svalutazione interna, che anche noi, in Italia, stiamo sperimentando. A differenza dell’Italia, però, la Lettonia, all’inizio della crisi, si trovava in una posizione fiscale molto più vantaggiosa. Il suo rapporto debito pubblico/Pil nel 2007 era pari ad appena il 7%. Ora è del 38%: sempre molto sotto la soglia di attenzione (60%), ma si conferma il principio che la svalutazione interna non fa bene ai conti pubblici, perché comunque distrugge posti di lavoro, e quindi reddito, rendendo più oneroso il carico del debito pubblico e privato.
ALTRO DETTAGLIO non trascurabile: anche la Lettonia, come praticamente tutti i paesi periferici dell’Eurozona, ha sperimentato una forte crescita del proprio debito estero netto a partire dal proprio ingresso nell’Erm II. In altre parole, a partire da quando il rischio di cambio è stato attenuato dall’entrata in un meccanismo di cambi fissi, i creditori esteri hanno cominciato a prestare con larghezza. La posizione netta sull’estero della Lettonia è peggiorata di 30 punti di Pil in quattro anni (arrivando a -86% del Pil nel 2009) e la successiva svalutazione “interna” non ha migliorato molto le cose (mentre l’entrata nell’euro implica che comunque i rilevanti debiti contratti con l’estero andranno ora rimborsati per lo più in una valuta relativamente forte).
Concludendo: l’entusiasmo del nostro premier non stupisce, anche se, cifre alla mano, risulta totalmente immotivato, sia per la scarsa rilevanza quantitativa del paese, sia per la situazione tutt’altro che rosea dei suoi fondamentali.
Non stupisce nemmeno lo scarso entusiasmo dei lettoni, che però è ben motivato. Secondo l’ultimo sondaggio dell’Eurobarometro, solo il 39% dei lettoni (o meglio, di quel che ne rimane) sono oggi favorevoli all’euro. Lo credo bene! In qualche modo l’hanno sperimentato prima di entrarci, essendo ingabbiati nell’Erm II quando la crisi statunitense colpiva le economie europee, e le conseguenze le stanno ancora patendo (la disoccupazione è prevista a due cifre almeno fino al 2015).
Bisognerebbe allora parlare del rapporto fra euro e democrazia: ma forse è meglio non amareggiarci troppo, in quel poco che ci rimane delle feste natalizie.

il Fatto 31.14
La Chiesa cattolica insieme ai culti fondamentalisti contro l’Obamacare
Barack Obama, l’apostata
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, per la prima volta un presidente americano si trova contro la potente chiesa cattolica del suo Paese, più tutte le sette fondamentaliste. Se la caverà?
Marcello

PROBABILMENTE non sarà la politica internazionale, pur in uno dei suoi momenti peggiori (cinque gravi conflitti in Africa, l’Afghanistan che non se ne va, il Medio Oriente che resta esplosivo e alcuni Paesi dell’ex impero sovietico che non promettono nulla di buono) a rendere difficile, fino all’estremo, la vita e le decisioni di Barack Obama. Sarà la Chiesa cattolica, che ha unito le sue forze alle chiese e ai culti fondamentalisti (compresi i culti che in passato hanno organizzato l’uccisione seriale di medici ginecologi che praticavano aborti) contro una parte dell’Obama Care, ovvero la legge che prevede assistenza sanitaria garantita a tutti gli americani. Il fatto è che la Costituzione americana impone l’uguaglianza, e l’uguaglianza vuole che la legge sia uguale per tutti. Dunque una legge americana sulla salute non potrebbe escludere assistenza medica per i contraccettivi e per la libera decisione delle donne sulla procreazione. I vescovi, in una lettera di fine anno (e di finti auguri) al presidente, gli hanno detto che una simile libertà ed eguaglianza della legge non si può accettare. Esempio: un imprenditore cattolico, per rispetto alla sua fede, non potrà mai offrire assistenza sanitaria completa ai suoi dipendenti, e se obbligato dalla legge, non gli resterà che l’opzione di bloccare l’intero pacchetto dell’assistenza sanitaria in omaggio ai vescovi (fatto vistosamente assurdo per non cattolici, non fondamentalisti e non membri di sette religiose oltranziste). Si svela così una ragione, forse la più importante, che ha indotto altri presidenti americani (vedi il caso di Clinton) a non insistere sul progetto di riforma sanitaria. Alla fine del tunnel, quando credi di aver superato le mille trappole politiche e finanziarie del potente mondo delle assicurazioni, ti trovi di fronte l’ultimatum della Chiesa cattolica, che certo può esercitare un peso politico notevole. E comincia a farlo con un clamoroso ultimatum. Ecco dunque che il presidente più laico degli Stati Uniti (è entrato in una chiesa solo 18 volte dalla sua elezione, contro le 320 di George W. Bush, quando non era impegnato a dichiarare guerre) si trova faccia a faccia con l’alternativa di piegare una legge alla religione, come in certi Paesi del mondo islamico, oppure dividere duramente il suo Paese e – soprattutto – esporsi al rischio di perdere voti al Congresso. Il punto che stupisce i non credenti non è l’affermazione legittima del proprio credo da parte di una chiesa. Ma la pretesa di imporre quel credo, attraverso l’amputazione o abolizione di una legge che però non obbliga nessuno a usare contraccettivi o ad abortire. Al contrario sancisce diritti uguali per tutti, inclusa la libertà di rinuncia all’uso dei quei diritti. Su questo vuoto pauroso di ragione resta aperto e inconcluso il discorso con il più aperto e il più nuovo dei papi. Può/deve un governo imporre a tutti ciò che vuole un gruppo religioso, invece di lasciare liberi tutti (con gli strumenti adeguati) di seguire i consigli del proprio medico senza l’incubo delle assicurazioni private?

Repubblica 3.1.14
L’appello
Salvate il soldato Snowden
di Vittorio Zucconi


PERDONARLO o crocefiggerlo? Giuda o redentore? Edward Snowden, l’uomo che è costato all’onore degli Usa molto più di una battaglia perduta, comincia il 2014 come aveva finito il 2013: nel segno della contraddizione insanabile che ha scavato nella coscienza americana e che continuerà a tormentarla.
La sua intervista al Washington Post, con toni insieme trionfali e messianici — «Ho vinto, la mia missione è finita» — gli merita una definizione di «insopportabile e arrogante ipocrita» dallo stesso quotidiano di Washington che lo accusa di non rendersi conto di fare lezioni di trasparenza stando sotto l’ala protettiva di uno dei governi più torbidi del mondo. Ma piace molto alNew York Times, che gli riconosce di avere «reso un grande servizio alla nazione» e chiede «clemenza» a Obama. Per gli inglesi del Guardian, il giornale che per primo diffuse le rivelazioni rubate allo spionaggio Usa, è addirittura un «eroe civico che merita il perdono presidenziale».
Le due linee di chi lo accusa di essere semplicemente un traditore e lo vorrebbe «appendere a una forca fino alla morte», come l’ex direttore della Nsa, e di chi invece guarda all’enormità degli abusi che ha rivelato convergono verso un punto che non è all’infinito, ma nel presente prossimo, e verso una persona fisica: il presidente Barack Obama.
Nella grande discrezionalità del sistema giudiziario americano, che non contempla la obbligatorietà dell’azione penale come quello italiano, il capo dello Stato e del governo detiene il potere assoluto non soltanto della grazia a posteriori, ma del perdono preventivo, come Gerald Ford utilizzò per chiudere ogni inchiesta, anche futura, contro Richard Nixon. Magistratura ordinaria, tribunali militari, commissioni parlamentari speciali con poteri giudiziari, tutti devono arrendersi se il Presidente copre con il mantello del proprio legittimo, e costituzionale, potere di immunizzazione il possibile imputato.
Ma legittimo non significa praticabile, né tanto meno politicamente accettabile. E l’incertezza dell’opinione pubblica, la contradditorietà dei tribunali che finora hanno affrontato quella legge che sembra giustificare la sorveglianza elettronica pervasiva e invasiva, il dissenso fra i leader di opinione sul giovane ex contractor dello spionaggio, mettono Obama in una situazione impossibile.
IlNew York Times, in un editoriale solenne e impegnativo per la linea del quotidiano, pende dalla parte del giudizio positivo sulle azioni di Snowden: «Può darsi che abbia commesso reati, ma merita molto più di una vita in esilio, in fuga e nel terrore, perché ha reso un enorme servizio agli Stati Uniti». E il Guardian riflette gli umori degli inglesi, e degli europei, che al 60% considerano il whistle blower, il cittadino che ha fischiato i tremendi falli dell’intelligence Usa, si chiede come sia possibile che un uomo che «fa il proprio dovere civico e costituzionale sia trattato come un criminale».
Negli Usa, come Obama sa ovviamene bene, il giudizio è molto più frammentato. Una maggioranza di coloro che si definiscono «Democratici», quindi suoi elettori, approvano quanto Snowden ha fatto e aborrono quelle tecniche di sorveglianza che un giudice ha già definito «quasi orwelliane». Ma una simmetrica maggioranza di repubblicani è per la crocifissione giudiziaria e accetta il patto faustiano che era scritto nella legge sulla sorveglianza varata da Bush dopo il 9/11: la sicurezza e la prevenzione dalle minacce terroristiche valgono bene l’intercettazione a tappeto di telefonate e di frequentazioni della Rete.
In questa lacerazione, che ha comunque strappato il velo che copriva la metastasi dell’intelligence elettronica e che lo stesso Obama ha condannato, scava e fruga con delizia quel Vladimir Putin, uno che di intrusioni nella vita degli altri, da ex ufficiale del Kgb, s’intende. Snowden è completamente in suo potere e il Cremlino stringe e apre il rubinetto delle rivelazioni e delle interviste che lui concede, sapendo che ogni parola, e ogni file,rilasciati saranno altro sale nella ferita purulenta dello scandalo.
Snowden è la risposta che Mosca sfodera quando sente che la pressione sulla propria microscopica credibilità civile aumenta e vuole, almeno per qualche giorno, spingere fuori dalle pagine dei media americani e occidentali la persecuzione del giornalismo critico in Russia, la vergogna delle leggi anti omosessuali e l’incubo del terrorismo che grava sulle olimpiadi invernali.
Ma se le tattiche di Putin sono riconoscibili, e la disponibilità di Snowden — di fatto suo prigioniero — ad assecondarlo è inevitabile, il problema rimane fermamente sulla scrivania dello Studio Ovale. La tendenza di Obama all’evasività e alla procrastinazione è messa sotto il tiro dei media che non gli permetteranno, come non gli permetteranno i tribunali, di ignorare questo elefante nel soggiorno della credibilità democratica americana.
Ci sarebbe una soluzione, ma politicamente, nell’anno delle elezioni parlamentari Usa, sarebbe esplosivamente controversa: concedere a Snowden l’immunità giudiziaria in cambio della sua piena collaborazione alla bonifica della palude spionistica, come infinite volte fu fatto con autentici farabutti, mafiosi, bancarottieri e con altriwhistle blower, con chi denunciava malefatte di privati o di governi. È quella soluzione del male minore — l’infedeltà di Snowden — accettato per colpire un male maggiore — l’infedeltà alla costituzione di un braccio del governo — che restituirebbe agli Stati Uniti l’onore violato non da un giovanotto inquieto, ma dal governo stesso che ha giurato di difendere i diritti civili scolpiti nella Costituzione.

Repubblica 3.1.14
Parla lo scrittore Joe R. Lansdale: “È stato violato il diritto alla privacy garantito dalla Costituzione”
“I veri criminali sono quelli che ci spiano quel ragazzo è un difensore delle libertà”
Stavamo scivolando inconsapevoli in un universo orwelliano. Lui ci ha svegliati, e perciò merita l’indulgenza
di Alix Van Buren


«SIAMO forse piombati in una situazione orwelliana nell’America, patria delle libertà? Può scommetterlo. Ci ritroviamo nel bel mezzo di una trama stile
1984,con la notevole differenza che non è più una finzione». Se si ascolta Joe R. Lansdale, pluripremiato autore americano di romanzi e fantascienza anche “pulp”, la vera oscenità, o criminalità, se di questo si tratta, va attribuita piuttosto «agli abusi commessi dalle agenzie di sorveglianza».
Non a Edward Snowden, insomma?
«Quel ragazzo ha reso un servizio alla nazione, e chi lo difende è nel giusto. Infatti, se c’è un emendamento che sta a cuore agli americani, quello è il quarto, e comprende il diritto alla privacy. Proprio un giudice federale, di recente, ha decretato che l’Agenzia di sicurezza nazionale probabilmente ha violato uno dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione».
L’Intelligence ribatte che il programma è necessario per difendere l’America e il mondo dal terrorismo. L’argomento non la convince?
«Ascolti, io non sono a conoscenza di alcuna azione terroristica che sia stata scongiurata da quel programma. So invece che tutto quel che facciamo viene spiato: ogni nostra parola, ogni nostra azione. Quando scrivi una e-mail, o chiacchieri al telefono con un amico, e magari ti esprimi senza troppo riflettere sulle parole, hai ogni volta la sensazione che ci sia qualcuno dietro le spalle a osservare. Sa cosa diceva Philip Dick, un altro grande autore di fantascienza?».
Cosa diceva Dick?
«Che siamo bombardati da pseudo-realtà confezionate da gente sofisticata e dotata di meccanisimi elettronici altrettanto sofisticati. Lui non diffidava dei motivi, ma del loro straordinario potere. Ecco, Snowden ha suonato la sveglia: appartiene a quella tradizione americana di “whistleblowers” impegnati a difendere le libertà. Penso ai “whisteblowers” che hanno rivelato gli inganni dell’industria del tabacco, del petrolio, della produzione farmaceutica. Qualcuno ha pagato con la vita: Karen Silkwood morì dopo avere denunciato i rischi legati agli impianti nucleari».
Perciò anche lei chiede clemenza per Snowden?
«Certo, che sì. Io non so se lui abbia commesso altri delitti a me ignoti. Però, noi stavamo scivolando inconsapevoli dentro un universo orwelliano. Lui ci ha avvisati che la finzione letteraria è diventata realtà: ha reso a tutti noi un grande servizio».

Corriere 3.1.14
Kerry inciampa sugli arabi d’Israele
Il governo di Netanyahu vuole «cederne» 300 mila alla Palestina
Ma loro non ci stanno: «Vogliamo restare qui, anche se di serie B»
di L. Cr.


GERUSALEMME — Dire difficile sembra ancora poco. Parlare di «missione impossibile» forse è troppo. Ma certamente il segretario di Stato americano John Kerry è tornato ieri a Gerusalemme accompagnato da un’atmosfera di profondo scetticismo sulla possibilità di rilanciare concretamente i negoziati tra israeliani e palestinesi. È la sua decima missione nella regione in meno di un anno. E lui stesso ha ricordato che negli ultimi cinque mesi le due parti si sono incontrate ben «venti volte». Kerry ha visto in serata il premier Benjamin Netanyahu. Oggi lo rivedrà prima di incontrare a Ramallah il presidente palestinese Mahmoud Abbas. E la sua spola potrebbe durare anche oltre domenica. «Vorremmo concludere un accordo quadro complessivo su cui lavorare nei prossimi mesi. Ora sappiamo tutti quali sono i problemi sul tavolo e i loro parametri. Nelle prossime settimane i due leader dovranno prendere decisioni dure» ha dichiarato l’americano. Vicino a lui il premier israeliano non ha perso l’occasione per accusare Abbas e i leader palestinesi di «non essere interessati alla pace».
I temi sono quelli di sempre, dominano il dibattito dal tempo degli accordi di Oslo nel 1993: la definizione dei confini tra Israele e futuro Stato palestinese (come modificare quelli del 1967?); sicurezza; sovranità su Gerusalemme; profughi (quanti palestinesi potranno tornare alle loro case e come compensare gli altri?); aggiustamenti giuridici; la formula del riconoscimento reciproco; controllo delle acque; modalità di collegamento tra Cisgiordania e Gaza. Sullo sfondo restano completamente irrisolte la questione delle colonie ebraiche in Cisgiordania assieme a quella della guerra civile interna tra l’autorità palestinese erede dell’Olp in Cisgiordania e i fondamentalisti islamici di Hamas, che dominano a Gaza e sono legati a filo doppio ai Fratelli Musulmani egiziani.
Il governo Netanyahu ha inoltre aggiunto due nuove richieste, perorate in particolare dal ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, ma che sono già state rifiutate con durezza dai palestinesi.
La prima riguarda il riconoscimento di Israele quale «Stato ebraico». La seconda propone invece uno scambio territoriale. Israele mira infatti a conservare il pieno controllo sui nuovi quartieri costruiti a Gerusalemme est e sui gruppi di colonie ebraiche più importanti in Cisgiordania. In cambio è pronto a cedere larghi settori del cosiddetto «triangolo», la regione più densamente popolata da arabi attorno alla cittadina di Um el-Fahm, situata all’interno dei confini precedenti le conquiste della guerra del 1967. La stampa locale sottolinea che in questo caso oltre 300.000 arabi israeliani potrebbero passare con le loro proprietà sotto la sovranità del futuro Stato palestinese.
Tra i critici più duri sono però proprio molti tra i circa un milione e seicentomila arabi cittadini a tutti gli effetti di Israele.
«È una proposta deludente, oltraggiosa. Ci trattano come pedine degli scacchi. Non siamo cittadini, ma merce di scambio nelle mani del governo. Il nostro status non è affatto paragonabile a quello dei coloni ebrei illegali in Cisgiordania» hanno tuonato in parlamento i deputati arabi. Una delle verità non dette ad alta voce è che molti arabi israeliani, sebbene protestino di essere «trattati come cittadini di serie b», sono terrorizzati dalla prospettiva di venire integrati nel caos dei governi palestinesi di Cisgiordania e Gaza. Qui da fine estate il tasso della violenza è in crescita e la prospettiva di una «terza intifada» più sanguinosa delle due precedenti viene paventata da più parti.

Corriere 3.1.14
Ari Shavit
«L’ebraicità del nostro Stato è una richiesta legittima»
intervista di Lorenzo Cremonesi


Autore
Ari Shavit è uno scrittore e commentatore del quotidiano israeliano Ha’aretz. Il suo nuovo libro, appena pubblicato in inglese, «La mia Terra Promessa», ha raccolto un vasto plauso da parte della critica internazionale

GERUSALEMME — «Ottima la richiesta che i palestinesi riconoscano Israele Stato ebraico. Ma pessima quella di scambiare terre con il futuro Stato palestinese per diminuire il numero dei cittadini arabi in Israele». È interessante e non convenzionale il punto di vista di Ari Shavit sulle proposte del governo Netanyahu per la ripresa dei negoziati con l’autorità palestinese. Scrittore, commentatore per il quotidiano Ha’aretz , il suo nuovo libro appena pubblicato in inglese, «La mia Terra Promessa», ha raccolto un vasto plauso da parte della critica internazionale.
Lei è noto per le sue posizioni liberali. Cosa pensa delle critiche espresse anche in Occidente sulla questione dello «Stato ebraico»?
«So di essere non convenzionale. Ma io sono un fermo sostenitore di questa richiesta avanzata dal nostro governo. Anzi, penso sia stato un errore non averla presentata ad Yasser Arafat già ai tempi dei negoziati di Oslo nel 1993».
Ma non diminuisce la legittimità dei cittadini non ebrei di Israele?
«Ovvio che io creda in un Israele democratico, pluralista, con diritti eguali per tutti i suoi cittadini, ebrei e non ebrei, cristiani, musulmani o altro. La questione non si pone neppure. Però si deve capire che per generazioni noi e i palestinesi abbiamo metodicamente negato la legittimità delle aspirazioni e dell’identità reciproche. Infine nel Duemila a Camp David l’allora premier laburista Ehud Barak ha riconosciuto lo Stato palestinese. Più tardi lo ha fatto anche la destra israeliana nella voce di Benjamin Netanyahu in occasione del celebre discorso di Bar Ilan. Tempo che i palestinesi faccino lo stesso nei nostri confronti. Tra l’altro questo passo li aiuterà a compierne un altro per loro molto più complicato. È ovvio infatti che negli accordi finali i palestinesi dovranno definitivamente accettare di cancellare il diritto al ritorno alle case natali per i figli dei profughi del 1948. Il riconoscimento dello Stato ebraico faciliterà dunque per loro il compromesso ideologico della fine del diritto del ritorno».
Come ottenerlo?
«La nascita di due Stati sulla base dei confini del 1967 sarà un enorme incentivo. John Kerry mi sembra molto determinato a lavorare in questo senso. Ma soprattutto mi aspetto un grande aiuto dall’Europa. Sono contento di parlare con un giornale europeo per ricordare che il vostro continente sta all’origine della tragedia ebraica dell’ultimo secolo. Antisemitismo, persecuzione, razzismo e Olocausto sono figli dell’Europa. L’Europa ha un dovere morale nei confronti degli ebrei e dall’Europa, mi attendo un grande aiuto per la pace tra arabi e israeliani».
E come vede il principio dello scambio di popolazione e territori tra Israele e Palestina?
«Non mi piace affatto, è profondamente illiberale. Uno Stato democratico non decide sulla nazionalità dei propri cittadini. Non abbiamo il diritto di tagliare via arbitrariamente decine di migliaia di palestinesi con le loro terre. Un altro conto è che loro decidano liberamente di andarsene. Ma non è questo il caso oggi».
Il Medio Oriente tutto attorno è in fibrillazione. Le «primavere arabe» hanno scatenato violenza e fanatismo. Non è spaventato dalla prospettiva di un ritiro israeliano?
«Certo che lo sono. E il mondo ha il dovere di ascoltare i timori delle destre israeliane contrarie a compromessi territoriali. I motivi non sono solo ideologici. Potremmo trovarci i terroristi alle porte di Tel Aviv. Da qui la necessità di procedere con i piedi di piombo. Occorre prendere e dare tempo, si rischia altrimenti di rimanere ingolfati nel caos».

Corriere 3.1.13
Prima lite nella Grande coalizione, Il nodo sono gli immigrati dall’Est
La Csu: «Limitare i benefit». Replica la Spd: «Proposte stupide»
di Luigi Offeddu


BRUXELLES — Milioni — forse — di immigrati in arrivo da Romania e Bulgaria: l’urto politico e sociale, tuonano gli euroscettici, sarà pesante, per alcuni governi dell’Unione Europea. E in un certo senso, un po’ hanno indovinato: al secondo giorno di apertura delle frontiere, si è già incrinata in Germania la cosiddetta GroKo, la nuova Grande coalizione creata dal centrodestra di Angela Merkel (Cdu-Csu) con il centrosinistra del partito socialdemocratico (Spd).
Perché i cristiano-democratici della Cdu merkeliana, insieme ai loro gemelli cristiano-sociali della Csu bavarese, avrebbero già pronto un documento che sembra azzerare buona parte dei diritti affermati dalla Ue in base al principio della libera circolazione delle persone, e del lavoro umano: si muove cioè sulla linea del britannico David Cameron, o quasi. E l’Spd, quel documento, non pare davvero disposta a votarlo, anche perché non previsto dall’accordo primario da cui è nata la coalizione. Lo ha fatto ben capire il ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier, appunto della Spd, che in un’intervista al giornale Suddeutsche Zeitung ha ricordato fra l’altro come «la libera circolazione dei lavoratori sia parte essenziale dell’integrazione europea», e come il suo Paese abbia tratto «immensi benefici da questo, e certamente molto più che altri Paesi».
Sull’altro fronte, a indossare la maschera del «duro» nel centrodestra è soprattutto la Csu bavarese (la Baviera è la regione più ricca del Paese), e sono due gli sbarramenti che ha proposto: per i primi tre mesi di soggiorno, l’immigrato straniero non potrebbe avere i benefici dell’assistenza sociale tedesca, resterebbe cioè in una sorta di limbo che gli vieterebbe l’accesso gratuito a un ospedale, o al sistema pensionistico: una prova a tempo che però — dicono i critici — non sarebbe stata imposta nel passato ad altri immigrati, per esempio asiatici o africani. Per chi dovesse poi far carte false, cioè presentare un documento contraffatto per superare la prova, sarebbe prevista l’espulsione immediata.
La Ue assiste, con un’irritazione ormai non più tanto nascosta nei confronti della cancelliera Merkel. Tornano molti ricordi.
La Germania è lo stesso Stato che ha accolto e integrato 600 mila immigrati turchi, e che d’altra parte ha potuto contare sul sostegno della Ue ai tempi della sua riunificazione. Stato e individui, leggi nazionali e trattati europei, e anche un concetto di equità sociale che difficilmente può essere considerato da un solo lato, qui si confrontano con un costo potenziale per tutti: se i pro-immigrati invocano per esempio la libertà di giocare una scommessa esistenziale in uno Stato diverso da quello in cui si è nati ma che è pur membro della stessa comunità, i contrari definiscono un’ingiustizia benefici come il «Kindergeld» (letteralmente «soldi per i bambini»), cioè i 184 euro che lo Stato tedesco concede per ogni figlio alle famiglie degli immigrati, a spese della comunità.
Tutta la questione è poi resa ancor più complessa dall’incertezza delle previsioni: le fonti ufficiali citano l’arrivo di 200 mila romeni e bulgari entro il 2014, altre parlano di mezzo milione di ingressi, forse di più.
Si vedrà forse in Parlamento, al Bundestag, se l’incrinatura verrà sanata da un compromesso o si trasformerà in una vera frattura politica: eventualità assai remota visto che la Germania ha festeggiato proprio ieri il suo record assoluto di occupati (41,8 milioni) dal dopoguerra, e le «larghe intese» raccolgono i frutti della buona annata. Almeno a Berlino.

l’Unità 3.1.14
Il «comunismo» non è morto
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta


Corriere 3.1.14
«Il mio Platone bocciato all’università»
Reale: il ministero negli anni 80 negò un finanziamento, i marxisti mi boicottarono
Il filosofo cattolico denuncia la censura del potere accademico nei confronti dei suoi studi e di quelli della sua scuola
di Armando Torno


Un’ampia e innovativa ricostruzione della filosofia di Platone è contenuta in due volumi, pubblicati dalla Morcelliana con il titolo Il disordine ordinato . L’autore, Maurizio Migliori, è uno dei più noti allievi di Giovanni Reale. Il 10 gennaio a Migliori verrà consegnato il premio filosofico «Viaggio a Siracusa», giunto alla XIV edizione (la giuria è presieduta da Remo Bodei e Umberto Curi). Per l’occasione abbiamo rivolto alcune domande a Reale, che portò in Italia le ricerche della Scuola di Tubinga, avviando una nuova fase degli studi platonici.
La Scuola di Tubinga è chiusa; la sua, a Milano, continua a produrre opere. Che cosa succede, professore?
«I grandi studiosi di Platone, a Tubinga, sono rimasti senza allievi né successori diretti alla cattedra, con evidenti conseguenze. Questo accade in Germania, nelle università, più che in Italia: sono enti chiusi con scarse relazioni reciproche. Un professore ordinario di una università per spostarsi in un’altra, di un altro Land, deve rifare il concorso! Io a Milano ho avuto eccellenti allievi, veri scienziati, per i quali la ricerca è parte della loro vita. E col passare degli anni lavorano sempre di più e sempre meglio».
È vero che lei, Migliori e un altro suo allievo, Roberto Radice, foste bocciati da quello che oggi è il Miur (il ministero dell’Istruzione, università e ricerca) per gli studi su Platone?
«Dal ministero venne bocciata, all’inizio degli anni 80, una nostra richiesta di finanziamento. La commissione giudicò la mia conoscenza di Platone insufficiente (5 punti su 10), e quella dei miei allievi molto insufficiente (4 su 10): voleva frenare le nostre ricerche, che, invece, al momento sono le più ricche. Radice ha tradotto le più ampie opere di Platone (Repubblica, Leggi, Lettere) e ha addirittura pubblicato in versione informatica il lessico di Platone. Migliori corona i suoi lavori platonici con questa imponente opera indue volumi, Il disordine ordinato, che oggi non ha l’eguale».
Perché l’accademia italiana fece ostruzione contro il suo gruppo nato alla Cattolica di Milano?
«Le ragioni sono due. Una di carattere ideologico. In passato le università erano nelle mani dei marxisti, che avversavano i cattolici (chi nelle proprie opere non metteva idee di Freud o di Marx era considerato fuori tempo). L’altra è di carattere ermeneutico. Thomas Kuhn ha dimostrato come i nuovi paradigmi, alla loro nascita, siano avversati in vari modi dai seguaci del paradigma tradizionale. Quando ho pubblicato l’edizione integrale del mio libro Per una nuova interpretazione di Platone , due colleghi che avevano grande potere mi hanno esortato a mandare al macero il volume, dicendomi che lo avrebbero proibito nelle università, in quanto inquinava con le “dottrine non scritte” i dialoghi. L’opera è invece giunta alla ventiduesima edizione (Bompiani 2010, ndr ), ed è tradotta in varie lingue».
Rispetto alle sue ricerche, questa opera di Migliori cambia qualcosa?
«Dimostra bene la tesi da me sostenuta, ossia che il paradigma ermeneutico della scuola di Tubinga-Milano apre una nuova era degli studi platonici. Migliori mette alla prova fino in fondo la portata di questo nuovo paradigma, con una serie di variazioni sul tema, da cui emerge la grandezza teoretica (non sempre riconosciuta in modo appropriato), del pensiero platonico, con cui mi sento in piena sintonia. I libri di Migliori mi sollecitano a completare il lavoro che sto facendo sui dialoghi giovanili di Platone, in cui cerco di presentare proprio la “dialettica socratica” in modo nuovo (la pubblicazione di Tutti i dialoghi socratici di Platone è prevista per il 2015 da Bompiani, ndr )».
Quante sono oggi le interpretazioni di Platone?
«Si dividono in due gruppi: quelle ispirate al vecchio paradigma, che considera i dialoghi autonomi e nega l’importanza delle dottrine non scritte, e quelle ispirate al nuovo paradigma. Ma tenendo fermo il principio dell’autonomia dei dialoghi, si può dimostrare tutto e il contrario di tutto. È innegabile la verità espressa da Hans-Georg Gadamer: “Il problema generale dell’interpretazione platonica, quale si presenta a noi oggi, si fonda sull’oscuro rapporto esistente fra l’opera dialogica e le dottrine di Platone che conosciamo soltanto mediante una tradizione indiretta”».
I testi critici di Platone mutano. Oxford ha già pubblicato alcuni dialoghi, Les Belles Lettres di Parigi annunciano nuove edizioni. Lei che ne pensa?
«Dopo la bella edizione di Burnet di inizio Novecento, noto che ci sono scarse novità nelle nuove edizioni, e che non toccano la sostanza del pensiero platonico, solo la scorza. Penso, inoltre, che il lavoro di molti studiosi sui vari dialoghi comprometta quell’unità dell’insieme raggiunta invece da Burnet».
E il premio a Migliori?
«È molto importante e onora Migliori non solo per le cose che ha fatto, ma anche come vero studioso, che ha per tutta la vita mostrato di seguire quel daimon da lui scelto, di cui parla Platone, e che lo psicologo James Hillman ha denominato “Codice dell’anima”, e ha così definito: “Ciascuna vita è formata dalla propria immagine (…) che è l’essenza di quella vita e che la chiama a un destino. In quanto forza del fato, l’immagine ci fa da nostro genio personale, da compagno e da guida memore della nostra vocazione”».

Corriere 3.1.14
Una scommessa sulla libertà
I problemi delle democrazie sono spesso assai meno nuovi di quanto non si creda
di Angelo Panebianco


I rapporti fra liberalismo e democrazia sono al centro della vicenda occidentale. Tanti se ne sono occupati e se ne occupano. Il punto di vista scelto dipende, per lo più, dalla specializzazione di ciascun singolo studioso. Gli storici del pensiero esaminano quei rapporti alla luce degli scritti dei pensatori che, nei secoli, hanno forgiato le dottrine liberale e democratica. I filosofi politici, specie di scuola analitica, vivisezionano quei concetti alla ricerca di connessioni, coerenze e incoerenze. Gli scienziati politici partono da «definizioni operative» di libertà e di democrazia per illuminare somiglianze e differenze fra i diversi casi. Gli storici ricostruiscono i percorsi, le concrete convergenze e divergenze, accettando, per lo più, le definizioni che di democrazia e libertà danno gli attori storici coinvolti.
Sono rari i lavori di sintesi in cui i diversi punti di vista vengano messi in relazione. È uno di quei rari lavori l’ultima fatica di Giuseppe Galasso (Liberalismo e democrazia , Salerno editrice, pp. 96, e 8,90). Uno scritto breve, ma non un pamphlet, concettualmente denso, frutto di dottrina e di sapienza.
Galasso, storico dell’Europa e, insieme, profondo conoscitore della filosofia crociana — nonché, più in generale, del pensiero politico europeo — fa un uso accorto delle categorie filosofico-politiche di cui sono intessute le dottrine liberale e democratica, mettendole in relazione con la concretezza dei processi storici. La storia, nella sua variabilità, complessità e ambiguità, riaggiusta continuamente i vestiti concettuali elaborati dai dottrinari, li adatta alle situazioni che si susseguono. Galasso tiene fermo lo sguardo su quelle categorie, ma anche sulle loro sempre imperfette incarnazioni, ispirandosi a Tocqueville, il pensatore liberale che, meglio di chiunque altro, seppe scrivere di democrazia e di libertà facendo tesoro delle lezioni della storia.
Liberalismo e democrazia hanno un elemento in comune: la loro azione congiunta ha dato vita a quei «regimi di libertà», fondati sul principio di rappresentanza, in cui viviamo. Ma sono anche differenti: legato a una filosofia individualista il primo, ancorata a un ideale comunitario la seconda. Non possono vivere separati: la libertà appassisce senza democrazia, la democrazia diventa tirannia senza il correttivo liberale. Il pluralismo ne è un ingrediente comune e cruciale. In ogni aggregato umano — come scriveva Carlo Cattaneo, citato con approvazione da Galasso — ci sono sempre tendenze in conflitto, mentre nuove tendenze continuamente emergono sfidando quelle già consolidate. Ma solo i regimi di libertà sanno disciplinare la perenne lotta fra opposte tendenze a vantaggio del bene comune.
Galasso, dopo avere sinteticamente ricostruito, nella prima parte del suo scritto, la storia del rapporto fra liberalismo e democrazia, dedica la seconda parte, con pagine efficaci, ai principali problemi che affliggono le democrazie contemporanee, mostrando anche quanto certi temi «nuovi» (dalla crisi della rappresentanza e dei partiti alla cosiddetta democrazia del web, alla emergenza dei nuovi diritti) non siano sempre così nuovi come li si immagina.
In una pagina in cui l’ispirazione crociana è particolarmente forte, Galasso scrive: «Movimento e pluralità sono (...) le forze vivificatrici della società umana, tanto più umana quanto più è dinamica e pluralistica (...). La logica storica ipotizzata da un regime di libertà non è (...) legata a questa o a quella veduta circa i problemi particolari e generali che in esso si pongono (...). L’unico punto obbligato è che esse conservino vivo e comune, nella loro varietà, il senso storico della libertà, la sua fondazione essenzialmente storicistica, che si propone nella storia e che ne sente la problematicità di prospettive e di possibilità».
La società europea vive oggi un momento cupo. Galasso, guardando ai tempi lunghi in cui si è dipanata — fra contraddizioni, conflitti e battute d’arresto — la storia dei rapporti fra liberalismo e democrazia, pensa, con ottimismo, ma anche con realismo, che sul quel connubio abbiamo ancora il diritto e il dovere di scommettere.

Corriere 3.1.14
Adelphi pubblica le lettere della giovane ebrea olandese dal lager di Westbork
La rinascita di Etty Hillesum. Prima l’incontro con Dio, poi la condivisione del dolore
di Giorgio Montefoschi


La maggior parte delle Lettere che Etty Hillesum scrisse dal lager di Westerbork, pubblicate oggi da Adelphi in edizione integrale (traduzione di Chiara Passanti, Tina Montone, Ada Vigliani, pp. 269, e 22), sono del 1943 e praticamente cominciano quando smette di scrivere il suo lungo Diario , pubblicato anch’esso da Adelphi. In entrambi i casi — il Diario e le Lettere — quello che colpisce chi si avvicina a questi due testi sconvolgenti, rivelatori di una delle grandi anime del Novecento, è l’estrema velocità dei due mutamenti spirituali che segnano la breve vita di Etty Hillesum. Una velocità che, insieme all’incalzare drammatico della storia, mostra l’intervento della mano divina.
Nel Diario , scritto dal 1941 al 1943, la Hillesum — nata un secolo fa nel gennaio 1914, figlia di un professore di scuola ebreo e di una ebrea russa malata di nervi e dotata di un pessimo carattere, sorella di due fratelli a loro volta fragili e instabili — è la tipica ragazza borghese irrisolta, preda delle sue inquietudini sentimentali, animata da un desiderio tanto nobile quanto confuso di elevarsi. Avendo cattivi rapporti con i genitori, vive in casa di un uomo molto più vecchio di lei, Hendrik Wegerif (Etty lo chiama Pa Han), un ex contabile di cui è l’amante. Va in bicicletta lungo i canali dell’incredibile Amsterdam ancora «quieta», benché sull’orlo della catastrofe del 1940; divora i libri (da Dostoevskij a Jung, da Rilke alla Bibbia); ma è confusa, e dentro se stessa sente come di avere una sorgente impedita, una sorgente che non riesce a zampillare. In una pagina del Diario può scrivere: «A volte vorrei essere nella cella di un convento, con la saggezza dei secoli sublimata sugli scaffali lungo i muri, e con la vista che spazia sui campi di grano». E poche righe più in là: «Le mie idee pendono dal mio corpo come vestiti troppo larghi nei quali devo crescere… Idee vaghe di ogni tipo reclamano ogni tanto una espressione concreta». Nella buona sostanza, sa e capisce che l’unico e vero compito della sua vita è quello di portare ordine e armonia nel caos che regna nel suo cuore.
Intanto, ha conosciuto un uomo che si rivelerà fondamentale per la sua evoluzione spirituale. Costui è uno psicochirologo ebreo tedesco allievo di Jung, Julius Spier — anch’egli più anziano di lei di oltre venti anni —, che ha lasciato la famiglia per riparare in Olanda. Spier, che ad Amsterdam ha raggiunto una certa fama, studia la mano e sottopone i suoi pazienti a una bizzarra terapia: vale a dire, la lotta. Il medico e il paziente si avvinghiano, combattono, si rotolano per terra, in modo che le forze oscure della psiche nascoste nel nostro corpo possano sciogliersi, liberarsi e armonizzarsi con quelle del corpo.
Etty è presto attratta da quest’uomo che, oltre alla lotta fisica, le propone letture e argomenti di meditazione profondi, così come Spier è attratto da lei. E non ha molta importanza il fatto che fra i due si stabilisca una relazione sentimentale. Spier è una vera e pietra imprescindibile nel percorso di Etty.
Dio pone molte pietre lungo il nostro cammino. A volte, queste pietre sono inciampi, ostacoli che possiamo superare (e il Salmo ci dice che, se glielo chiediamo, Dio ordina ai suoi angeli di sostenerci in modo che possiamo evitarli). A volte sono messe lì, proprio dentro noi stessi, per far sì che le riconosciamo come parte di noi stessi, come una nostra pietra che blocca una nostra sorgente, e in uno sforzo sovrumano le solleviamo, lasciando zampillare la sorgente. È quanto accade, miracolosamente, a Etty Hillesum: che un giorno cade in ginocchio e si colma dell’amore di Dio.
Ora, però, la situazione per gli ebrei olandesi e di tutta Europa sta precipitando. Etty, benché malatissima, si fa internare nel campo di smistamento di Westerbork, dal quale uscirà per andare a morire ad Auschwitz. Questo è il secondo definitivo gradino della sua elevazione: corrispondente al suo sacrificio. Etty sa che l’amore per Dio e per il prossimo rimane lettera vuota, se non si fa carne. Le Lettere dal campo di Westerbork non sono soltanto la testimonianza dell’orrore e dell’abisso che l’uomo non avrebbe mai potuto immaginare di raggiungere. Sono la più pura testimonianza dell’agape cristiana. La condivisione del dolore.

Corriere 3.1.14
Scelte, psicologia, religiosità della pensatrice morta ad Auschwitz
Tre controversie su un’anima inquieta
di Antonio Carioti


Pare che il detto per cui «nessuno è profeta in patria» valga anche per Etty Hillesum, l’ebrea olandese, vittima della Shoah, i cui scritti sono oggetto d’interesse in tutto il mondo. «Ho visitato i luoghi dove visse — riferisce la studiosa Marta Perrini — e ho constatato che in Olanda non è ricordata né al Museo nazionale di storia ebraica, né nel campo di Westerbork, dove restò prima di finire ad Auschwitz. Mi è stato detto che ciò dipende dal fatto che Etty aveva lavorato per il Consiglio ebraico, l’istituzione creata dagli occupanti nazisti per indurre gli ebrei a collaborare con loro, anche nella stesura delle liste di persone da deportare. Ma bisogna ricordare che lei stessa, che poteva restare ad Amsterdam, volle invece recarsi e rimanere nel campo di smistamento di Westerbork per svolgere un’opera di assistenza. Da lì venne poi deportata ad Auschwitz, dove morì nel novembre del 1943».
«Non credo proprio — osserva il rabbino Giuseppe Laras — che si possa imputare alla Hillesum una qualche forma di collaborazionismo. Direi piuttosto che è sbagliato presentarla come un’eroina consapevole o una pietra miliare del pensiero. Si tratta di una ragazza intelligente e sensibile, che ha lasciato una testimonianza di grande valore, ma bisogna tener conto che aveva grossi problemi psicologici, aggravati dalla relazione con Julius Spier, un analista che aveva 27 anni più di lei. Parole e comportamenti di Etty vanno considerati nell’ottica di una personalità disturbata».
Di certo è una figura complessa: «A lei bisogna accostarsi — nota Marta Perrini — con grande delicatezza. Ebbe due relazioni in contemporanea con uomini più anziani e abortì, ma nel Diario loda la bellezza della vita ed è animata da una forte religiosità».
Si discute anche della sua visione teologica, ricorda Isabella Adinolfi, autrice del libro Etty Hillesum. La fortezza inespugnabile (Il Melangolo): «Il gesuita belga Paul Lebeau, nel testo Etty Hillesum. Un itinerario spirituale (Edizioni Paoline, 2000), l’ha accostata a sant’Ignazio di Loyola e anche altri autori la presentano come vicina al cattolicesimo. Questa lettura è criticata da studiosi come Gerrit Van Oord e Ria van den Brandt, che temono un tentativo di appropriazione. Per parte mia penso che la scelta più corretta sia ricondurre Etty Hillesum a una corrente mistica trasversale rispetto a tutte le tradizioni religiose».

Repubblica 3.1.14
Biglietto per Israele
“Perché noi lasciamo ebrei l’Europa”
di Giampaolo Cadalanu


La crisi economica e il crescente antisemitismo spingono gli ebrei a lasciare l’Europa
Un nuovo esodo che riguarda in primo luogo la Francia
La minaccia dell’antisemitismo e la crisi economica: il Vecchio continente per molti è una delusione.
Nel 2013 le cifre dei nuovi cittadini di Israele indicano una tendenza chiara:
ora chi parte lo fa perché in Francia, in Belgio, in Olanda non si sente più a casa

GERUSALEMME. ALL’AEROPORTO Ben Gurion di Tel Aviv si affacciano tutti con un filo di timidezza e il sorriso sulle labbra. L’emozione della terra promessa è viva. Per chi lascia la Francia e le sue nuove inattese ostilità vale lo slogan “Israel c’est ma maison”, Israele è la mia casa. L’Europacomincia a far paura.
Mamma e papà stringono al petto i figli piccoli, i bambini più grandi sorridono incerti ai fotografi, l’orsacchiotto sotto braccio, mentre scendono dal Boeing bianco con la striscia azzurra. All’aeroporto Ben Gurion si affacciano tutti con un filo di timidezza e il sorriso sulle labbra. L’emozione della terra promessa è viva, soverchiante, totale. Israele, finalmente. Per chi lascia la Francia e le sue nuove inattese ostilità vale lo slogan “Israel c’est ma maison”, Israele è la mia casa. E per tutti, lasciate le scalette dell’aereo El Al come fossero le passerelle della nave Exodus che portava i migranti ebrei nel 1947, è il momento di seppellire le delusioni del Vecchio Continente e lasciarsi abbracciare nella nuova famiglia. L’anno prossimo a Gerusalemme, si auguravano tradizionalmente gli ebrei di tutto il mondo. Ma l’anno prossimo è lontano, forse non c’è più tempo per aspettare, se l’Europa comincia a far paura.
La parola è ritornata, forte come non si sentiva da anni: Aliyah, l’ascesa, la decisione di abbracciare fino in fondo l’ideale sionista e trasferirsi in Israele. Non è ancora un esodo, ma la tendenza è chiara. Nel 2013 gli Olim, cioè gli ebrei che hanno fatto l’Aliyah, sono aumentati ancora: più sette per cento rispetto all’anno precedente, segnala l’Agenzia ebraica per Israele.
E dei 19.200 nuovi cittadini, oltre un terzo è partito dall’Europa occidentale: soprattutto dalla Francia (con un aumento del 63 per cento rispetto al 2012), ma anche dall’Olanda (più 57 per cento) e dal Belgio (46 per cento). I motivi sono espliciti: alle ragioni dell’economia si aggiunge il disagio per le ombre dell’antisemitismo in crescita. «Le cifre assolute non sono impressionanti, ma la tendenza è significativa», dice Sergio Della Pergola, massima autorità in tema di demografia del popolo ebraico. Assieme ad altri esperti, Della Pergola ha lavorato a un grande sondaggio dell’Agenzia europea per i Diritti fondamentali, con lo scopo di mettere a fuoco esperienze e percezioni della popolazione ebraica negli otto Stati dell’Unione che ne ospitano la stragrande maggioranza. I risultati, resi pubblici nelle scorse settimane, non sono confortanti: due terzi degli intervistati considerano l’antisemitismo un problema reale, tre quarti lo considerano in aumento negli ultimi cinque anni, uno su due ha paura di aggressioni verbali, uno su tre teme persino la violenza fisica. E 29 su cento hanno considerato la possibilità di lasciare il paese dove vivono, proprio per la paura che l’ostilità diventi aperta.
«È insopportabile dover assistere alle funzioni religiose sotto la protezione della polizia», ha detto un’ebrea tedesca ai rilevatori. Ma l’incubo dei pogrom non sembra davvero attuale: «In questo momento ci sono tre motivi per preferire Israele al-l’Europa», dice Della Pergola: «Il primo è la situazione economica nel vecchio continente, con la crisi che colpisce gli strati medio-bassi della società. Poi c’è il fattore economico israeliano: qui la disoccupazione è bassa, mentre gli indicatori della crescita sono positivi, e c’è una buona capacità di assorbimento della forza lavoro. E infine c’è una percezione di antisemitismo in crescita, difficile da cogliere in modo preciso, ma presente». Insomma, i fattori economici sono due, simmetrici: e la conferma di quanto siano importanti è anche nell’età dei nuovi immigrati, visto che sei su dieci hanno menodi 35 anni. Per Natan Sharansky, presidente dell’Agenzia ebraica, «questa è un’era in cui l’Aliyah è una scelta, non l’unica salvezza». Ma resta il terzo motivo, psicologico, forse più impalpabile ma non meno decisivo.
«In Francia le pressioni stanno diventando insostenibili, soprattutto per chi si riconosce pubblicamente nell’identità ebraica», aggiunge Erik Cohen, docente di Antropologia e Sociologia all’università Bar-Ilan, anch’egli curatore del rapporto per l’Agenzia europea: «Al contrario che in Ungheria, dove l’antisemitismo ha matrici politiche, in Francia è un tema sociale e culturale. Ma lasciare il paese dove si vive non è facile, anzi. Andarsene richiede sacrifici. Io sono di origini marocchine, ricordo quando sono stato accolto in Francia, 56 anni fa. È stato meraviglioso. Ci hanno aiutato in tutto, ho avuto un sostegno da quando ho cominciato a studiare fino al dottorato. Ma la Francia di oggi non è più quella dei miei ricordi».
L’Italia invece propone agli ebrei un’immagine meno inquietante. «I nuovi arrivi so-no poche centinaia», conferma Beniamino Lazar, avvocato e presidente del Comites, che raccoglie gli italiani di Israele: «C’è un aumento, ma legato soprattutto ai motivi economici. Non ho mai sentito invece di persone che hanno lasciato l’Italia per paura, come invece è successo per Francia, Belgio. Credo che in questi paesi si possa vedere un legame fra l’antisemitismo e la presenza diffusa di arabi oltranzisti». Un anziano italiano, intervistato in modo anonimo per il sondaggio dell’agenzia europea, ha commentato: «Penso che in Italia l’antisemitismo stia diminuendo, anche se lentamente». Se in Francia ci sono stati persino attacchi omicidi, nel nostro paese l’ostilità antiebraica sembra marginale: «Le istituzioni hanno sempre un atteggiamento corretto. Tutt’al più ci sono cadute di stile, come quella di Berlusconi, secondo cui Mussolini aveva fatto bene fino alle leggi razziali. Una dichiarazione resa proprio mentre a Milano si ricordava la Shoah davanti al binario 21, da cui partivano i convogli per Auschwitz», dice Della Pergola.
Neanche l’atterraggio in una realtà completamente nuova è facile. Israele è un paese abituato ad accogliere immigrati da tutto il mondo, offre corsi di lingue e assistenza, ma l’inserimento non è facile. «Anche se l’inizio è duro, gli europei in genere non hanno troppe difficoltà.Ben più complicato è ad esempio per gli anziani ebrei provenienti dall’Etiopia. Ma in fondo, questo è un paese dove vivono persone da 120 nazioni diverse», conclude Lazar.
Una parte del disagio, però, resterà, anche fuggendo dall’Europa e approdando alla terra d’Israele: il rapporto dell’agenzia europea prova al di là di ogni dubbio che lo spazio prediletto per razzismo e pregiudizi è nel mondo virtuale, dove le espressioni antisemite continuano ad aumentare. «Da quando vado su Facebook, ho più commenti antisemiti di quanti ne avevo sentito in tutta la vita. E questo dà unprofondo disagio, anche se è slegato dalla vita quotidiana», ha detto un’ebrea di mezza età ai rilevatori europei. «Internet è il terreno più contaminato, ma in fondo è solo un clic, qualcosa che si può scegliere di evitare», taglia corto Della Pergola: «Però questo vale fino a un certo punto. Quando sul web compaiono liste di ebrei, come è successo, allora la preoccupazione è giustificata».

Repubblica 3.1.14
Uguali, ma sempre sospetti. Siamo capri espiatori ideali
di Marek Halter


Nella perenne ricerca di un capro espiatorio, le società occidentali hanno provato a prendersela con i neri, con gli arabi, perfino con i rom. Ma alla fine sono rispuntati fuori gli ebrei. Eppure, nel corso della nostra storia recente, gli ebrei sono stati protetti dall’odio comune grazie al tabù della Shoah. Dopo Auschwitz, per vent’anni sono stati quasi dimenticati. Ma nel 1967, la Guerra dei sei giorni ha permesso agli antisemiti di spaccare in due la questione ebraica: da un lato gli ebrei, dall’altro Israele, diventata “potenza occupante”.
Sul piano ideologico, si poteva dire: «Non sono antisemita, ma sono contro i sionisti». E pensare che, prima che quella guerra scoppiasse, quando il presidente egiziano Nasser ammassò truppe nella Penisola del Sinai lungo il confine israeliano e l’esercito iracheno schierò le unità corazzate in Giordania, tutti temettero il peggio per Israele. Dopo i massacri della Seconda guerra mondiale, un altro genocidio di ebrei sarebbe stato intollerabile. Ma la guerra la vinse Israele. Pochi anni fa, quando è scoppiata la crisi economica mondiale, si è cominciato a cercare un capro espiatorio. E non si è subito pensato agli ebrei, ma piuttosto allo straniero, al clandestino, all’immigrato che ruba il lavoro, che fa crescere la disoccupazione, che rompe il mercato delle prestazioni professionali e altre stupidaggini del genere.
La stessa società occidentale ha poi individuato un’altra categoria contro cui lanciare i propri anatemi: con gli attentati, si è infatti scoperta l’esistenza degli islamisti, che per molti è sinonimo di musulmani. Due giorni fa, riferendosi agli attentatori di Volgograd, il presidente russo Putin ha più volte mischiato nel suo discorso le parole “jihadisti” e “arabi”. Curiosamente, in Francia stavolta il razzismo anti-musulmano non ha attecchito. Tant’è che alcuni esponenti del partito più xenofobo, il Front National, stanno perfino cercando di reclutare tra le loro truppe personaggi e politici di origine nordafricana. Si è allora cercato un altro capro espiatorio ideale, trovandolo nei rom, accusati di rubare nella metropolitana, di esercitare accattonaggio, di non volersi integrare. Ma anche loro, alla fine sono passati di moda. Il ministro dell’Interno, Manuel Valls, ne ha respinti un centinaio, ha smantellato qualche loro campo. Poi, di loro non si è più parlato.
Intanto, però, la crisi non è scomparsa, la disoccupazione aumenta, le piccole imprese falliscono. E di chi è la colpa? Ebbene, la colpa è finalmente ricaduta sugli ebrei, che diventano gli accusati eccellenti, capri espiatori per definizione, perché è la loro stessa presenza che può far nascere dubbi nelle menti di molti, e perché possono facilmente passare per rivoluzionari senza ovviamente essere tutti né come Carlo Marx né tanto meno come Rosa Luxemburg. Una volta chiesi al primo premier della storia di Israele, Ben Gurion, chi era il suo ebreo preferito, e lui mi rispose Gesù, «odiato dai romani perché li richiamava all’ordine ».
A Parigi, il comico Dieudonné ha un teatro che riempie con le sue battute antisemite. Ci sono duemila persone che ridono assieme lui delle camere a gas, e ci sono sportivi ultrapagati che lo omaggiano negli stadi facendo il saluto nazista. Il ministro Valls ha cercato di vietare la sua nuova tournée, con il risultato che il pensiero di Dieudonné è tracimato dal suo teatrino e ha invaso la Francia. Il grande dibattito di questi giorni verte sul diritto di censurare o meno gli spettacoli di un feroce antisemita. D’accordo, siamo in democrazia, e ognuno ha il diritto di esprimersi. Ma non credo che tutte le idee siano accettabili. Altrimenti dovremmo tollerare anche Hitler. È importante distinguere tra razzisti e antisemiti: i primi non amano il diverso, gli altri detestano coloro che gli somigliano come due gocce d’acqua, che parlano la stessa lingua, mangiano le stesse cose e amano gli stessi film. L’antisemitismo è l’odio del proprio simile, di essere uguale a te, che però ha qualcosa di sospetto, forse perché invece di pregare in chiesa lo fa in sinagoga.
Non dico che siamo alla vigilia della Notte dei cristalli, ma il momento è grave. Coloro che partono per Israele sentono che è arrivato il momento di farlo. Agli inizi del XX secolo, per sfuggire ai pogrom in Russia centinaia di migliaia di ebrei emigrarono negli Stati Uniti. Oggi, per molti ebrei, Israele è l’America di una volta.

il Fatto 3.1.14
Si può essere antisionisti senza essere anche antisemiti?
di Roberta Zunini


Si può essere antisionisti senza essere antisemiti? Che significato ha oggi il termine “sionismo”? Ha ancora senso mettere in discussione l’esistenza di Israele? A queste domande, scomparse da troppo tempo dal dibattito sulla questione israelo-palestinese e, più in generale, da quello sul Medio Oriente, hanno risposto sul nuovo numero di MicroMega Gianni Vattimo, Furio Colombo, Moni Ovadia, Judith Butler e Avishai Margalit. La lettura delle loro considerazioni dà la possibilità, confrontando i diversi e, nel caso di Vattimo e Colombo, opposti punti di vista, di riconsiderare, cambiare o consolidare “verità” che si pensavano incontrovertibili. Con questa iniziativa, MicroMega mostra anche il cambiamento di opinione di uno dei più importanti filosofi italiani, quel Vattimo che intitola il suo mini-saggio “Come si diventa antisionista”. La sua tesi parte dall’assunto che “nonostante quel che ripete spesso il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, si può essere antisionisti senza essere antisemiti”. Cioè si può essere contrari all’esistenza di Israele in quanto Stato, e in quanto popolato da ebrei, ma non per questo essere razzisti nei confronti degli ebrei in generale: “Non solo perché il mondo è pieno di ebrei seriamente legati alla propria tradizione che però non la identificano con lo Stato di Israele, dal quale non mancano di prendere continuamente le distanze. Ma perché, come proprio questi ebrei non sionisti ci insegnano, la ricchezza della cultura ebraica e la sua determinante presenza nello spirito dell’Occidente e del mondo moderno in generale non solo non si affermano con la creazione dello Stato di Israele, ma ne sono seriamente minacciate. Ha sempre più senso oggi ripetere ciò che qualche intellettuale ebreo ha avuto il coraggio di dire: che tra i danni prodotti dalla politica hitleriana e dall’Olocausto, c’è anche la stessa creazione, nel 1948, di Israele come Stato ebraico”. Il filosofo sostiene inoltre che ci era stato a lungo raccontato che, anche a causa della presenza nell’Egitto di Nasser di ex ufficiali nazisti come istruttori decisi a esportare la Shoah anche in Medio Oriente, “si doveva essere sionisti per essere antifascisti”. La prima affermazione , che Vattimo fa propria, e quest’ultima, vengono confutate nell’articolo firmato da Colombo, intitolato il “pregiudizio antisionista”. Secondo lo scrittore e intellettuale, dopo il ‘45 gli ebrei erano ancora avversati e la nascita di Israele – voluta dall’Onu – doveva andare di pari passo alla creazione di una vicina nazione palestinese, osteggiata invece dai paesi arabi limitrofi”. Verità storiche che sarebbero state rifiutate da una sinistra incapace di affrontare la questione ebraica. Dopo aver concesso che raramente gli antisionisti – in egual misura di destra e di sinistra – negano l’Olocausto, sottolinea i loro ritocchi della storia: “Si sostiene che il clima del dopoguerra (in favore del sionismo e dunque dello Stato di Israele ai danni della Palestina) sia stato subito facilitato dalla celebrazione accoppiata e unificata della Resistenza e della Shoah... se si tiene presente che sono gli anni in cui Primo Levi non riusciva a trovare un editore per Se questo è un uomo, in cui molti sopravvissuti non parlavano...”. Colombo analizza quindi quelli che considera anche altri camouflage che hanno cambiato il volto della verità storica. Il drammaturgo e attore ebreo Moni Ovadia ripercorre – soffermandosi anche su dettagli storici sconosciuti ai più – ne Le ceneri del sionismo, la metamorfosi avvenuta in un cinquantennio di esistenza dello Stato israeliano. L’estinzione della vocazione socialista, laica, che si fondava sulla logica di condivisione del kibbutz e sul partito laburista è uno dei cambiamenti esiziali: “Il sionismo oggi è solo un simulacro... la destra estrema che oggi governa in Israele, si nutre di valori ultra-nazionalisti, liberisti, declinati con il fanatismo religioso e il razzismo”. Avishai Margalit, a sua volta, confuta questa impostazione, mentre Judith Butler prende un’altra strada sostenendo che il sionismo è incompatibile con l’etica ebraica.

Corriere 3.1.14
Metti un filosofo nel CdA
Il pensiero che fa bene al business
di Dino Messina


Metti il filosofo nel consiglio di amministrazione. La proposta, di coniugare i due opposti — il mondo di chi si occupa delle domande ultime e quello di chi deve rispondere nel modo più urgente e immediato ai bisogni materiali e quotidiani — viene da Alain de Botton, scrittore di origine svizzera e divulgatore di filosofia, che sul Financial Times di ieri ha spiegato perché anche il più disincantato businessman debba conoscere i fondamentali insegnati da Aristotele.
Prendiamo per esempio il mondo dello sci. Un normale uomo d’affari si chiede come migliorare e rendere più competitive le offerte in questo campo. Il filosofo si interroga su altre questioni: a quali bisogni profondi della natura umana risponda questa pratica sportiva.
O ancora, consideriamo tutti gli studi di marketing per rendere piacevole la permanenza in un albergo. Il buon albergatore si concentrerà sui dettagli, anche importanti, come un sapone profumato, un bar fornito, un sistema di servizi all’avanguardia, a cominciare dalle connessioni a internet.
Il filosofo magari trascurerà alcuni particolari ma si porrà domande del tipo: che cosa può rovinare una serata in un hotel di lusso? Come non sentirsi a disagio in un mondo estraneo?
Così, suggerisce de Botton, che oltre a essere autore del bestseller «Come Marcel Proust può cambiarvi la vita» e di una serie di pubblicazioni di successo, segue la gestione di un ingente patrimonio finanziario ereditato dal padre, ci vuole filosofia per far fruttare davvero la propria ricchezza.
Richiamandoci ai pensatori dell’antica Grecia, gli edonisti si occuperebbero di avere il maggiore risultato subito, gli eudemonisti, coloro cioè che saggiamente tendono non al piacere immediato ma al raggiungimento della felicità attraverso il perseguimento del bene, si porrebbero il problema della filantropia, del benessere dei figli e delle generazioni future...
Un po’ di filosofia, nel senso di avere una visione ampia delle cose, è quel che è mancato per esempio ai profeti della finanza aggressiva ma anche agli sciuponi del welfare facile. Ben venga allora il buon senso filosofico di de Botton.

Repubblica 3.1.14
Il peccato nella Chiesa di Francesco
di Vito Mancuso


Nell’editoriale di domenica scorsa Eugenio Scalfari ha sostenuto che papa Francesco è un Pontefice «rivoluzionario» e che la sua rivoluzione consiste nella «abolizione del peccato». A mio avviso si tratta di una tesi che contiene un’intuizione importante ma che ultimamente non può sussistere. Non lo può anzitutto perché è troppo presto per stabilire se Francesco sia davvero rivoluzionario o anche solo schiettamente riformista visto che la sua azione si deve ancora sostanziare in concreti atti di governo (in primis nomine dei vescovi e reale libertà di insegnamento teologico) e in concrete decisioni disciplinari (in primis effettiva promozione della donna e concessione dei sacramenti ai divorziati risposati). Ma la tesi di Scalfari a mio avviso non regge soprattutto perché l’ipotetica rivoluzione bergogliana non potrà mai consistere nella abolizione del peccato. «Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli che ho molto peccato»: così comincia, dopo il saluto del celebrante, la Messa cattolica, ricordando a ogni fedele di percepirsi anzitutto come peccatore, anzi, come uno che ha «molto» peccato «in pensieri, parole, opere e omissioni». Lutero a sua volta insegnava pecca fortiter sed crede fortius (pecca forte, ma più forte credi), legando l’atto di fede all’esperienza del peccato. E secondo il Vangelo le prime parole di Gesù furono: «Il regno di Dio è vicino, convertitevi» (Marco 1,15). Per il cristianesimo quanto più ci si avvicina alla luminosa sorgente del bene, tanto più aumenta la percezione dell’indegnità per il male prodotto dall’ego, una situazione molto simile al chiaroscuro di Caravaggio e di Rembrandt.
L’abolizione del peccato venne tentata un secolo e mezzo fa in piena modernità da un filosofo molto amato da Scalfari ma nemico mortale del cristianesimo, Nietzsche, il quale promosse una filosofia che intendeva condurre gli uomini in un territorio «al di là del bene e del male» (il saggio omonimo è del 1886). Si tratta però solo di un sogno, non privo peraltro di immensi pericoli, perché questa terra promessa al di là del bene e del male purtroppo non esiste. Per noi uomini, qui e ora, tutto è “al di qua” del bene e del male. C’è una politica buona e una politica che non lo è. C’è un’economia buona, e una che non lo è. C’è una cronaca buona, e una che non lo è. A partire dalle più elementari esperienze vitali quali l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo e il cibo che mangiamo, fino alle più elevate produzioni della mente, tutto ciò che procede e ritorna alla vita dell’uomo è sempre invalicabilmente “al di qua” del bene e del male. La libertà umana esiste, ed esistendo opera, e quindi può agire bene oppure male in ogni dimensione. Volenti o nolenti, siamo così rimandati all’esperienza del peccato, e ovviamente anche del merito. E infatti non c’è tradizione spirituale che non conosca il concetto di peccato, sorto nella coscienza per il bisogno di segnalare le azioni che producono una diminuzione del grado di ordine o di armonia. Da qui le catalogazioni ora secondo l’oggetto come nel caso dei peccati (per esempio i cosiddetti “quattro peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio”), ora invece secondo la disposizione soggettiva come nel caso dei vizi (per esempio i cosiddetti “sette vizi capitali”).
Si aprirebbe a questo punto la questione accennata anche da Scalfari sul perché tanto spesso l’uomo sia attratto dal male, un interrogativo che incombe sul pensiero fin dalla notte dei tempi. La dottrina cattolica risponde mediante al dogma del peccato originale, il quale ha il merito di segnalare il problema ma il demerito ben maggiore di presentare una soluzione teoreticamente insufficiente e moralmente indegna, al cui riguardo ha scritto Kant: «Qualunque possa essere l’origine del male morale nell’uomo, non c’è dubbio che il modo più inopportuno è quello di rappresentarci il male come giunto fino a noi per eredità dei primi progenitori».
Dicevo all’inizio che l’articolo di Scalfari contiene un’intuizione importante e a mio avviso essa consiste nell’auspicabile superamento del cosiddetto amartiocentrismo, cioè di quella visione che fa del peccato il perno della vita spirituale (amartíain greco significa peccato). Se il peccato infatti non potrà (purtroppo) mai essere abolito, il suo primato sì, lo può, anzi lo deve essere, se il cristianesimo vuole tornare a essere fedele al Vangelo e alla sua gioia — la quale va detto, diversamente da quanto sostenuto da Scalfari, non si contrappone all’ebraismo ma senza l’ebraismo non avrebbe potuto sorgere.
Ma la cosa a mio avviso più preziosa dell’editoriale di Scalfari è quanto scrive alla fine, cioè che la predicazione di Gesù «riguarda anche e forse soprattutto i non credenti». Rimane infatti da chiedersi come la coscienza laica percepisca oggi il peccato, e come i non credenti possano anche loro arrivare a dire «confesso a voi fratelli che ho molto peccato» (tralasciando ovviamente la prima parte del
Confiteor che si rivolge «a Dio onnipotente»). Penso infatti che lo scoprirsi inadempienti di fronte all’imperativo etico sia inevitabile in chiunque conosca se stesso e penso altresì che la percezione delle proprie colpe abbia precise implicazioni sociali. Penso inoltre che la dimensione giuridica, la quale ritrascrive il peccato mediante il concetto di reato, non sia sufficiente a esprimere tutta la densità umana del fenomeno. Come la legalità è solo una pallida immagine della giustizia, così lo è il concetto di reato rispetto alla tensione che manifesta la coscienza del peccato. Forse chi ha espresso al meglio questa dialettica è stato Dostoevskij in Delitto e castigo, il romanzo che nel 1866 inaugurava il ciclo narrativo che l’ha reso immortale.