domenica 5 gennaio 2014

l’Unità 5.1.14
L’Unità, il futuro comincia a novant’anni
di Luca Landò


l’Unità 5.1.14
Renzi accelera. Fassina si dimette. Letta chiama i leader
articoli di Andriolo, Frulletti, Fusani, Marcucci


Il leader pd ha «un’idea padronale del partito»
La Stampa 5.1.14
Per Matteo Renzi è finita la luna di miele nel Pd
La sinistra interna dopo la sconfitta riapre le ostilità
Il partito democratico ha vissuto ieri la sua prima giornata di scontro interno della gestione Renzi
di Fabio Martini

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Corriere 5.1.14
Risse democratiche
Pd: il Congresso infinito e il Patto che non c’è
di Pierluigi Battista

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Corriere 5.1.14
Il leader: è uno scherzo? E tra i democratici l’opposizione rialza la testa
di Alessandro Trocino


ROMA — Ufficialmente «dispiace», come da comunicato del portavoce Lorenzo Guerini. Ufficiosamente, Matteo Renzi non è affranto dalla notizia. Al limite stupito. Quasi non ci credeva, quando gli è stato comunicato: «Scherzate?». Insomma, le dimissioni di Stefano Fassina non hanno gettato nello sconforto il segretario del partito e i suoi. Vengono considerate più che altro un pretesto, un modo per Fassina di mollare una barca nella quale non credeva più e anche un rigurgito tardivo di battaglia congressuale. Il dispiacere più grande, semmai, è che il gesto abbia tolto visibilità a una segreteria preparata con cura. Allestita in «casa», a Firenze, durata oltre sei ore e seguita da un’affollatissima conferenza stampa tenuta dal segretario in persona, invece della prevista Debora Serracchiani. Ai cronisti Renzi ha spiegato che la priorità è la legge elettorale, su cui «si sono fatti più passi avanti in tre giorni che in tre anni». E ha avvertito Angelino Alfano: «Non usi le divisioni sulle unioni civili per non fare la legge elettorale».
Di Fassina e di rimpasto, durante la segreteria, non si è parlato. Che il segretario sia allergico alla parola è noto. E non solo alla parola, visto che questa antica pratica politica da una parte rischia di metterlo in cattiva luce nei confronti dell’opinione pubblica, dall’altra, l’immissione di uomini nuovi nella squadra di governo è una compromissione con l’esecutivo non del tutto gradita, visto che l’arma delle elezioni, ufficialmente sempre negata, resta come extrema ratio. Per questo le continue allusioni dei giorni scorsi di Fassina, sulla necessità di un impegno diretto dei renziani nell’esecutivo, non sono state gradite. Qualcuno pensa che Renzi, con il suo «chi?», abbia voluto dare un aiutino a Fassina per dimettersi. Ma sono in molti anche a pensare che sia stata solo una battuta, nello stile del segretario, e che il viceministro ne abbia prontamente approfittato.
Matteo Orfini, «giovane turco», disapprova la scelta: «Le dimissioni indeboliscono il governo, Fassina doveva impegnarsi di più». Orfini non apprezza neanche «la guasconata» di Renzi, ma resta l’interrogativo sul perché: «Si fa fatica a capire la ratio delle dimissioni. Sembra una roba di dialettica interna, decisamente fuori dal tempo».
È quello che pensano molti renziani. I più sono irridenti o tranchant, come Ernesto Carbone: «Una pantomima ridicola». E Andrea Marcucci: «Si lascia un incarico quando si dissente da una linea politica, non per futili motivi. Ma non saranno le decisioni strumentali di Fassina a mutare il clima di grande collaborazione che c’è nel partito». Il sospetto di alcuni è che l’obiettivo di Fassina sia duplice: da una parte segnare la sua distanza da Renzi, riconquistando una sua visibilità personale nell’area Cuperlo (che infatti solidarizza) e magari porlo come possibile capo dell’opposizione interna; dall’altra, chiamarsi fuori da un governo di cui non condivideva molto sin dall’inizio e tornare con le mani libere.
I maligni pensano che in fondo a Renzi non dispiaccia questa mini picconata al governo. Perché la competizione tra Renzi e Letta, sia pure a medio-lungo termine, resta sempre sullo sfondo. In realtà, sostengono i fedelissimi del «giglio magico», «a Matteo non fa né caldo né freddo. È del tutto indifferente». E non sarà un ipotetico rimpasto a mettere in difficoltà i renziani: «Non ci caschiamo. E comunque, la questione semmai riguardava i ministri, non certo i viceministri».
A segnalare l’olimpico distacco di Renzi dall’affaire Fassina c’è anche il tweet serale del segretario. Che in piena bufera non cita neanche l’ex viceministro: «Molto contento dei lavori della segreteria. Adesso legge elettorale, quindi tagli alla politica, poi jobs act per creare lavoro». Sul lavoro, in realtà, si è ancora lontani da una «quadra». Quel che è certo, spiega Marianna Madia, «è che non si partirà dai contratti, ma sarà una riforma complessiva». Alla direzione del 16, Renzi ne offrirà un assaggio, in forma di bozza. Il giorno prima si dovrebbe tenere un’altra segreteria, questa volta a Roma. Ma le successive si svolgeranno in altre parti d’Italia, dove è previsto il voto: tra le altre, Bari.
In conferenza, Renzi precisa che il suo modello di «partnership alla tedesca» non prevede le adozioni. Spiega di non considerare le Europee «uno spartiacque»: «L’entusiasmo per queste elezioni non lo vedo». E lancia l’ennesimo appello ai 5 Stelle: «Guai a sottovalutare il loro dibattito interno». Alla segreteria partecipa anche il tesoriere Francesco Bonifazi. Che squaderna i conti «preoccupanti» del Pd. E a margine spiega: «Ci sono alcune voci di spesa che non condivido affatto. Comunque, per tagliare non partiremo certo dal personale o dagli affitti».

Corriere 5.1.14
Lo scontro renziani-cuperliani all’ultima spiaggia (del radical chic)


ROMA — Per un renziano della prima ora come lui, è quasi un affronto essere stato, di fatto, rottamato, almeno per il momento. Capita all’ex sindaco di Capalbio, Luigi Bellumori, che due mesi fa è stato sfiduciato in consiglio comunale dal suo stesso vice, Settimio Bianciarelli, democratico anche lui, fuoriuscito in un gruppo autonomo. Tant’è che, in mancanza di un primo cittadino, dal 28 dicembre a guidare l’amministrazione del comune simbolo della sinistra radical chic sin dai tempi di Achille Occhetto, è arrivato un commissario straordinario, la viceprefetto Erminia Giuseppina Ocello. Dalle foto di piatti colmi di prelibatezze, feste per la Befana e del gatto rosso sullo scooter postate sul profilo Facebook, non sembra che Bellumori sia poi tanto contrariato. Anche perché, pare, alle prossime elezioni di primavera si ricandiderà ancora. Ma è singolare che, a portare l’amministrazione comunale all’Ultima Spiaggia (in questo caso non è il nome del noto stabilimento balneare) non siano stati gli avversari politici quanto i bisticci all’interno del Pd, renziani contro cuperliani. Finché la cittadina della Maremma è finita commissariata. Nel frattempo, anche il vice Bianciarelli è stato folgorato da Renzi, però il segretario del circolo pd, Marco Donati, gli ha negato la tessera in memoria dello «sfregio».

Repubblica 5.1.14
Letta perde la pazienza “Con Matteo è battaglia”
di Tommaso Ciriaco


LA NOTIZIA arriva con un sms. Il testo, brutalmente sintetico, è di Stefano Fassina: «Enrico, mi dimetto ». Era nell’aria, ma Letta resta comunque scosso. Senza perdere un minuto, contatta il viceministro. Tenta di trattenerlo.
DISCUTE anche con un preoccupato Giorgio Napolitano della novità piombata su palazzo Chigi. Senza esito, però: «Sono dispiaciuto per le dimissioni — tira le somme il premier a sera — ho provato a dissuaderlo. Senza riuscirci». Proverà ancora a convincerlo, nelle prossime ore. Non perché speri davvero nella possibilità di far cambiare idea a Fassina, piuttosto per muovere una pedina nel risiko intrapreso con Matteo Renzi. Il governo, intanto, precipita nel caos.
La sfida, ormai, è aperta. Un braccio di ferro «politico» che va oltre la casella dell’esecutivo occupata dall’esponente dem. Certo, in passato i due hanno duellato sui dossier economici. Ma Letta si confronta spesso con il suo viceministro e gli ha chiesto di seguire in Parlamento l’ultima legge di stabilità. «Hanno un rapporto franco e corretto», giurano gli staff. Dovesse convincerlo a restare, il premier segnerebbe un punto nel confronto con Renzi. In pista per la successione, però, c’è già il renziano Yoram Gutgeld. È una battaglia che si nutre di affondi e reazioni quotidiane. Prima le unioni civili e la Bossi-Fini, poi il rilancio sulla legge elettorale. Infine quel «Fassina chi?» capace di far tremare Palazzo Chigi. Il segretario del Pd, d’altra parte, non sembra intenzionato a cambiare rotta. L’aveva promesso: «Non arretro neanche di un centimetro». E infatti non è disponibile ad alzare il piede dal pedale neanche stavolta: «La mia era solo una battuta — minimizza a sera — Lui non vuole più stare al governo e ha colto il pretestoper lasciare». Una battuta, forse. Capace però di terremotare i già fragili equilibri che reggono l’esecutivo. Non è un caso che in soccorso di Fassina siano subito intervenuti i big della minoranza dem guidati da Gianni Cuperlo - ma anche esponenti dell’ala governista della maggioranza che nonmilitano del Pd. Il timore è che l’incidente possa provocare una slavina.
Consapevole dei rischi, Letta studia da giorni le contromosse. L’obiettivo è imbrigliare il nuovo leader democratico con il rimpasto. Vuole incontrarlo, pensa a una faccia a faccia subito dopo laBefana. Per scoprire le carte, giura: «Una volta che si ragiona del patto di governo, si ragiona su tutto. Io sono pronto».
Conosce i rischi di mettere mano alla squadra. Potrebbe rimandare l’avvicendamento dei viceministri dimissionari (agli Esteri ha lasciato anche Bruno Archi),oppure semplicemente lasciar cadere la cosa. Ma al Presidente del Consiglio interessa di più l’opportunità di frenare il pressing renziano. Per questo, alzerà l’asticella e tornerà alla carica per proporre la «promozione» di Graziano Delrio, unico ministro vicino al sindaco. Interni, Difesao Giustizia: questo è il ventaglio sottoposto a Renzi.
Il segretario, per adesso, prende tempo. Reclama innanzitutto un’intesa sulla legge elettorale, ha buon gioco a chiedere una scossa «sui problemi, non sulle poltrone». I suoi, poi, sembrano scatenati. Sentite Ernesto Carbone: «È la seconda volta che Fassina annuncia dimissioni in otto mesi. È una pantomima ridicola, l’obiettivo politico di chi non si rassegna al voto di milioni di elettori del Pd. Per noi, comunque, è buona la seconda... «. Altro discorso, però, vale per la pancia dei gruppi parlamentari democratici, sempre più in ebollizione. Per non parlare del trattamento riservato ad Angelino Alfano. Non passa giorno che un renziano non rinfacci al Nuovo centrodestra la folta pattuglia di cinque ministri. Sproporzionata, dopo la scissione del Pdl. Il vicepremier, dal canto suo, dosa ogni sillaba per evitare incedenti. Tiene la posizione sulla Bossi-Fini, resta in trincea sui diritti civili. Ed è convinto di trovare nel premier una sponda sicura. Proprio Letta, non a caso, è sicuro che alcuni temi attengano «al dibattito parlamentare ». Pronto, insomma, a sostenere che un esecutivo di larghe intese non possa partorire un patto di governo troppo sbilanciato su una forza politica.
Renzi cerca intanto di condurre in porto la trattativa sulla riforma del sistema del voto. Su questo, almeno, con Letta concorda. Per il premier «non c’è tempo da perdere» e per il segretario quasi tutto si gioca su questo terreno. Ha già pronto il calendario informale delle consultazioni. E aspetta di portare a casa i primi frutti del dialogo con le altre forze politiche, Forza Italia compresa.Si attendono scintille.

il Fatto 5.1.14
Renzi dimette Fassina, primo siluro al governo
di Wanda Marra


“Fassina? Chi? ”. A chi gli chiede cosa pensi del rimpasto in conferenza stampa, facendo riferimento alla richiesta del vice dell’Economia di nuovi ministri più adatti a rappresentare il nuovo Pd, Matteo Renzi risponde così. Una battuta che dura mezzo secondo e un’ora e mezza dopo non c’è più un viceministro, ma un ex. Fassina presenta le sue “dimissioni irrevocabili”: “Le parole di Renzi su di me confermano le mie valutazioni politiche”. La prima segreteria democratica del 2014 convocata a Firenze in trasferta, a palazzo Ruspoli, nella sede che ha ospitato il comitato primarie, produce un effetto bomba. Le eventuali reazioni a catena sul governo, come sul partito, andranno valutate nei prossimi giorni. Ma di certo la potenza delle parole del neosegretario è tangibile. La versione ufficiale renziana, affidata al portavoce della segreteria Lorenzo Guerini, è gelida: “Non c’è davvero motivo di fare polemiche, ma di lavorare. Dispiace che il viceministro esprima in questo modo il suo disagio”. Forse non era nelle intenzioni di Renzi spingere Fassina verso l’uscita, ma a questo punto, come dire, “si accomodi”. Tanto è vero che in mezzo al caos provocato dalle dimissioni il sindaco twitta soddisfazione per la riunione democrat e non fa cenno all’ex membro dell’esecutivo.
I DUE D’ALTRONDE non si sono mai potuti vedere. E i problemi del governo non dispiacciono ai renziani. Palazzo Chigi, intanto, minimizza sulle ricadute, anche se il premier si dice preoccupato per l’unità del partito e in questa prospettiva per il sostegno all’esecutivo. Per quanto il Pd non renziano sembri totalmente azzerato, Fassina ha aperto una falla. L’ennesima gatta da pelare per Letta.
La riunione della segreteria inizia alle 11, finisce alle 4 e mezzo. Un quarto d’ora per il pranzo con panini presi da Eataly (“Pranzo autofinanziato, 17 euro a testa e Lotti ci ha messo una ricarica di 2 euro”, spiega il segretario). Nessuno spiffero, nessuno pronto a lasciar trapelare notizie. Subito prima della fine esce la responsabile Lavoro, Marianna Madia, e chiarisce che si è parlato molto del Job act, ma a un progetto strutturato non si è arrivati. É lo stesso Renzi a fare una sintesi finale della riunione. Sulla legge elettorale “si può chiudere in 7 giorni”. E “si sono fatti più passi avanti in tre giorni che in tre anni”. Non si fa stringere nell’angolo il sindaco, non risponde a chi gli chiede quale sia il suo sistema preferito (ne ha indicati tre), costringe gli altri a scoprirsi. La trattativa con B. lo imbarazza? “Non c’è nessuna trattativa, Fi dovrà esprimere la sua posizione”. Come tutti gli altri partiti: Renzi chiarisce che la prossima settimana ci saranno una serie di incontri bilaterali in cui ognuno dovrà dire la sua. Ma a dettare legge è il suo Pd. Non le manda a dire. “Penso che ogni appello a Grillo sia ormai sostanzialmente inutile, mentre non lo è ai suoi parlamentari”. E soprattutto ad Alfano: “Non usi le unioni civili come arma di distrazione di massa per non fare la legge elettorale”. E se poi queste sono l’unica cosa che al Ncd non va giù “c’è andata di lusso”. Renzi ha messo sul tappeto due temi di sinistra (unioni civili e abolizione della Bossi–Fini): un modo per alzare la posta e per rendere sempre più difficile la coabitazione di governo, ma anche un elemento eventuale di dialogo (o di scambio).
NE HA PURE per Letta, il sindaco: l’abbassamento dello spread? “È merito di Draghi”. Sul lavoro, non c’è verso di cavargli una parola di bocca: rimanda tutto alla direzione del 16, dove presenterà una proposta alla quale ognuno potrà dare il suo contributo. L’operazione è evidentemente laboriosa come dicono le mezze risposte dei membri della segreteria: tra annunciare una rivoluzione e farla, il passo non è breve. E soprattutto bisognerà vedere se ci sarà il contratto unico, con assunzione senza articolo 18 per i primi tre anni. Altra prossima gatta da pelare: i conti del Pd. Renzi annuncia trasparenza e rimanda al tesoriere Bonifazi, il quale si lascia scappare solo qualche sospiro. È noto che il Pd naviga in cattive acque. Non a caso il neosegretario non ha rinunciato alla rata dei rimborsi elettorali: può darsi non se lo possa permettere, a rischio la cassa integrazione per i dipendenti. I tagli però sono certi. Come il fatto che le segreterie-rito del Nazareno sono finite: “Andremo in altre città, a partire dai capoluoghi di provincia in cui si vota”, annuncia il segretario. A metà della conferenza stampa, si sente un tonfo: è il simbolo del Pd che cade. “Ecco, adesso lo rimettiamo dov’era”. Nella stanza accanto, quella dove effettivamente si è riunita la segreteria, sul muro campeggia lo slogan della campagna elettorale “Matteo Renzi. Cambia verso”. Mentre il segretario se ne va in bicicletta, Fassina scrive la sua lettera di dimissioni.

il Fatto 5.1.14
Il viceministro abbandonato, nel Pd nessuno si dispera
Dopo le dimissioni i colleghi fanno finta di nulla
di Salvatore Cannavò


Il primo risultato della segreteria Renzi sono le dimissioni del viceministro dell’Economia, Stefano Fassina. Anche lui membro autorevole del Pd sia pure in versione bersaniana. “Fassina chi? ” ha detto il segretario democratico, ieri, rispondendo alla domanda di un giornalista durante la conferenza stampa seguita alla lunga segreteria del partito. La solita “guasconata” renziana che però non è andata giù al viceministro. E così ha chiamato il presidente del Consiglio e gli ha comunicato le proprie “dimissioni irrevocabili”. “Le parole del segretario Renzi su di me – ha poi spiegato Fassina in una nota – confermano la valutazione politica che ho proposto in questi giorni: la delegazione del Pd al governo va resa coerente con il risultato congressuale. Non c’è nulla di personale. È questione politica. È un dovere lasciare per chi, come me, ha sostenuto un’altra posizione”. Letta ha cercato di dissuaderlo ma senza riuscirci.
FASSINA aveva rilasciato più di un’intervista per ribadire il proprio concetto: ora che il partito è saldamente nelle mani di Renzi bisogna cambiare squadra. Un modo per far uscire maggiormente allo scoperto il segretario che si trova a dirigere il principale partito di governo, ma si comporta come se stesse all’opposizione.
Renzi però non si è scomposto. Alle dimissioni di Fassina ha lasciato rispondere il portavoce della segreteria, Lorenzo Guerini. Risposta molto gelida: “Oggi (ier, ndr) si è tenuta una segreteria sulle priorità per il Paese: legge elettorale, job act. Non c’è davvero motivo di fare polemiche, ma di lavorare, e molto”. Quanto a Fassina, aggiunge Guerini, “dispiace che esprima in questo modo il suo disagio”. Il segretario Pd, poi, è intervenuto in serata con un breve tweet: “Molto contento dei lavori della segreteria – ha scritto – Adesso legge elettorale, quindi tagli alla politica poi job act per creare lavoro”. Nulla su Fassina. I due, del resto, non hanno mai nascosto una reciproca antipatia, politica e personale, e ieri è giunta la resa dei conti. Le reazioni del Pd, a partire dalla minoranza cuperliana, sono tutte all’insegna della cautela. Come se si temesse un effetto domino che avrebbe come obiettivo la tenuta dello stesso governo. C’è chi liquida la questione a uno screzio personale. Cuperlo preferisce sperare che “si sia trattato di un incidente” e bacchetta Renzi per quella battuta che “non è stata una traduzione felice” dello spirito che dovrebbe albergare nella “comunità” Pd. Ma nulla di più.
ANCHE IL MINISTRO Saccomanni ha preferito non commentare e negli altri dicasteri tenuti da “democratici” non renziani non circola alcuna intenzione di dimissioni. Flavio Zanonato, Maria Grazia Carrozza, Andrea Orlando, Massimo Bray o la stessa Cécile Kyenge sono, infatti, espressione della segreteria Bersani ma nessuno, al momento, pensa di lasciare il governo. Il ministro dello Sviluppo, questa mattina, è sulle pagine del Sole 24 Ore per parlare di Fiat e di Marchionne. Dall’entourage del ministro Carrozza si ricorda che la titolare non ha mai reso pubblico il suo voto al congresso sull’esempio di Enrico Letta.
Quanto all’area della minoranza che fa riferimento a Cuperlo, Matteo Orfini, uno dei “giovani turchi”, sentito dal Fatto prende decisamente le distanze da Fassina: “La permalosità non è una categoria politica” dice, ricordando che quella del viceministro è una scelta individuale che non coinvolge l’area di minoranza. Stesso convincimento da parte di Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro alla Camera, il quale però, invita Renzi “a stare più attento alle battute”. I problemi si spostano tutti sul governo. Le dimissioni di Fassina riaprono il tormentone del rimpasto. “C’è un altro viceministro da sostituire” ricordano a Palazzo Chigi. Si tratta di Gaetano Micciché e quindi la questione sarà posta all’ordine del giorno. Un qualche rimpasto ci dovrà essere. A Palazzo Chigi si cerca comunque di minimizzare quanto accaduto, relegandolo a un “affare di partito” e non di governo. Ma Letta è preoccupato. Apparentemente per il “ sistema Italia” che si regge sul “perno” costituito dal Pd. Ma il problema di fondo sono le vere intenzioni di Renzi. Come dice il deputato pd D’Attorre, “queste dimissioni sono un colpo da non sottovalutare”. Forse quello di ieri è stato un incidente non voluto dal segretario. Ma che Renzi non voglia mettere in crisi il governo, al momento non lo crede nessuno.

Repubblica 5.1.14
Civati, sfidante di Renzi alle primarie: io che volevo votare subito non mi auguro una fine traumatica della legislatura
“Dal sindaco un eccesso di supponenza ma Stefano ha colto al volo l’occasione”
Se ogni volta che uno propone qualcosa che non aggrada viene trattato così, chi si azzarda più a criticare
intervista di Umberto Rosso


ROMA — «I due non si sono mai amati, e del resto lo spazio di Stefano Fassina nel governo con la segreteria Renzi si era fatto sempre più stretto. Ma quest’episodio è la spia di qualcosa di ben più profondo di uno scontro fra due diverse personalità del Pd».
Onorevole Civati, ha sbagliato Renzi a snobbare platealmente il viceministro?
«Al suo posto non l’avrei fatto. Se ogni volta che uno propone qualcosa che non aggrada, il segretario tira fuori tanta supponenza, chi si azzarda più a sollevare la minima critica? Anzi, anticipo Renzi, e me lo dico già da solo: Civati chi?».
Ma lo strappo di Fassina è arrivato troppo a botta calda?
«Forse non aspettava altro per mollare, e ha colto al volo l’occasione. Già una volta Fassina aveva minacciato ledimissioni, poi rientrate. Dentro il governo la sua posizione si stava facendo sempre più difficile, la sua linea in rotta di collisione con quella del nuovo segretario».
Insomma, l’incidente è stata l’ultima goccia.
«Più che altro, guardando dietro lo scontro fra due persone, quel che è successo dimostra quanto sia fragile e instabile il rapporto fra l’intero governo Letta e il Pd a trazione Renzi».
Chi tocca il rimpasto muore?
«Letta vorrebbe “renzizzare” il governo, sta valutando se mettere dentro due o tre uomini di Matteo, per garantirsi il cammino. Però sa anche che danza delle poltrone che innesca può diventare una danza macabra per l’esecutivo. Rischia di non controllarla più».
E il segretario?
«Resiste, per Renzi rimpasto è come una parolaccia. Con i suoi ministri, e con un patto di governo sottoscritto, è chiaro che l’esecutivo diventa il governo del segretario, e addio alle mani libere».
Per esempio?
«Vedo che Renzi evoca di continuo riforme da approvare con maggioranze diverse rispetto a quella della coalizione di governo. Sulla legge elettorale, ma anche sui diritti civili, e pure sul job act. Ma allora, facciamole su tutte quante le proposte, no? Facciamo una maggioranza per cambiare la Fini-Giovanardi e poi un’altra con Sel sugli F-35, e via così».
Conclusione?
«A furia di rispostacce ad Alfano, e di minacciare di approvare lo stesso il suo pacchetto con maggioranze trasversali, sai che succede? Che quelli del Nuovo centrodestrasalutano e se ne vanno, Alfano si stufa e torna nella vecchia band, a rifare i Rolling Stones col Cavaliere...».
Messa così, la strategia di Renzi è un abbraccio mortale per Letta.
«La tensione è fortissima, il governo in realtà è sempre più fragile. Una volta lo dicevo solo io, ora vedo che in tanti non gli danno lunga vita. Io dico: ben venga un patto di governo se serve a dare risposte al paese. Ma non mi aspetto grandi cose da Letta, stretto com’è fra Renzi, ma anche Alfano e Scelta Civica».
Che suggerisce?
«Durante la battaglia delle primarie, dicevo: meglio andare a votare. Lo dico anche adesso, solo che i margini si son fatti sempre più stretti. E una fine traumatica della legislatura io proprio non me la auguro».

Il Sole 24 Ore 5.1.14
Il nuovo partito-persona di Renzi
di Stefano Folli

Sulla scia degli studi di Mauro Calise e Ilvo Diamanti, Fabio Bordignon offre un interessante contributo alla questione della leadership politica nell'Italia di oggi. Anzi, come giustamente si precisa anche nel titolo del saggio (Il partito del capo. Da Berlusconi a Renzi), il tema è proprio la personalizzazione estrema del messaggio politico, che a ben vedere è cosa diversa dalla leadership. In ogni caso si tratta di un lavoro di grande attualità, nel momento in cui il tramonto della stagione berlusconiana si accompagna all'emergere del volto nuovo, Renzi appunto. Il neo segretario del Pd è una sorta di "Berlusconi di sinistra", non nel significato polemico usato contro di lui dagli avversari interni, ma come proiezione di un'esigenza reale di adeguamento. Il Berlusconi del '94, e ancor più quello del 2001, aveva imposto un modello, un nuovo modo di comunicare con gli elettori. A tale modello iper personalizzato il centrosinistra ha finito per adeguarsi, prima con Veltroni e ora in forme più compiute con il sindaco di Firenze. Ovvio che il percorso è stato e resta accidentato. Le resistenze al "renzismo" sono state significative all'interno del Pd ed è tutto da dimostrare, in questo inizio d'anno, che il nuovo leader riesca a fare buon uso del notevole potere che le primarie hanno messo nelle sue mani, al di là e al di sopra dei vecchi apparati. A maggior ragione il libro di Bordignon, uno dei più seri ricercatori della nuova generazione, è utile come guida per inoltrarsi nei sentieri inesplorati di questa Terza Repubblica molto embrionale, peraltro esposta al rischio di sprofondare nella palude dell'inerzia. Logico allora aver costruito il saggio sul filo dei due personaggi simbolo della personalizzazione, Berlusconi e Renzi: l'iniziatore del fenomeno e il suo continuatore a sinistra. Anche perché il sentimento dell'uomo della strada che ripone oggi le speranze di rinnovamento nel capo del centrosinistra è analogo a quello su cui Berlusconi, vent'anni fa, costruì il proprio consenso. Speriamo solo che l'esito sia diverso. Giusto anche che Bordignon abbia dedicato spazio al fenomeno Grillo: le cui caratteristiche sono del tutto differenti, ma che non si può non analizzare a fondo in uno scritto dedicato alla personalizzazione della politica. O dell'anti politica.

Fabio Bordignon, Il partito del capo. Da Berlusconi a Renzi, Maggioli Editore, Milano, pagg. 280, € 25,00

La Stampa 5.1.14
Il Cavaliere prende tempo ma Verdini già tratta con il leader democratico
di Amedeo La Mattina

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Repubblica 5.1.14
Il Ncd teme l’asse Matteo-Berlusconi “Se ci tagliano fuori la pagheranno”
Lo sfogo dei ministri nel mirino del leader democratico
di Carmelo Lopapa


ROMA — Adesso Alfano e i suoi alzano le barricate. Il rischio di essere travolti è altissimo, le dimissioni del viceministro Fassina in parte dirottano le fibrillazioni a sinistra, ma l’attacco di Renzi è ormai frontale, così almeno viene percepito dal Nuovo centrodestra. La sensazione che hanno i cinque ministri e i vertici del nuovo partito è che il segretario Pd tenda ad alzare sempre più la tensione. L’allerta è massima e il vorticoso giro di telefonate serali tra i big Ncd ne è la conferma. «Dobbiamo evitare in tutti i modi di essere tagliati fuori dalla partita della riforma elettorale, in quel caso sì dovranno fare i conti cono noi. Il resto è tattica» è il commento preoccupato coi suoi di Angelino Alfano. Il responsabile del Viminale più di ogni altra cosa teme l’abbraccio «mortale» tra il sindaco di Firenze e il suo ex leader Berlusconi sulla modifica della legge voto.
Del resto in giornata giá Cicchitto e Formigoni mettono in guardia i democratici, avverten-do che con due maggioranze, sul governo e sulle riforme, si va dritti verso la crisi. I paletti li metterà in serata lo stesso vicepremier: «Che non ci vengano a parlare di frontiere libere e aperte per tutti gli immigrati o di matrimoni gay». Nessuna retromarcia, insomma, dopo le parole di Renzi sui punti che da loro vengoni considerati «non trattabili », non disponibili. Barricate,appunto. Nei colloqui riservati con gli altri ministri di centrodestra Alfano invita tutti alla calma. «Enrico farà scudo. Non ci facciamo prendere in contropiede, le dimissioni di Fassina dimostrano che è tutta una partita interna al Pd, teniamo la posizione e i nervi saldi». Convinti che, come spiega un ministro targato Ncd, «Renzi può tirare la corda ma sa che non può romperla, la crisi porterebbe alle dimissioni di Napolitano, al voto col Mattarellum non corretto e la responsabilità della catastrofe ricadrebbe su di lui».
Il clima resta teso. Sebbene da Milano il ministro Maurizio Lupi tenti di smorzare i toni, escludendo il rischio crisi. Intanto, sulla legge elettorale, dice, ci sarebbero le condizioni per fare in fretta, grazie alla «convergenza» su uno dei tre modelli proposti da Renzi (il sindaco d’Italia). Ma il doppio turno di coalizione è più un auspicio loro. Berlusconi ha già sposato il sistema «spagnolo », bocciando proprio il meccanismo simile a quello delle amministrative. La partita dunque è più complessa. E poi ad essere in gioco è la tenuta stessa dell’esecutivo. «Il nuovo centrodestra aveva chiesto all’inizio dell’anno che si facesse un contratto di 14 mesi — ricorda Lupi — Non è in discussione la caduta del governo ma dobbiamo indicare delle priorità equando si realizzeranno». Renzi? «Ha tutta la legittimità di porre al tavolo le sue priorità e noi faremo lo stesso. Lui ritiene che le unioni civili e la Bossi-Fini siano la priorità e ha tutto il diritto di porle al tavolo e noi proporremo le nostre, che sono famiglie, imprese e lavoro. Ne discuteremo insieme e faremo una sintesi perché non è un governo monocolore né del Pd né del Nuovo Centrodestra. Letta farà sintesi, i diktat non servono a nessuno».
Le posizioni restano assai distanti proprio sui temi posti a Palazzo Chigi dal leader dei democratici. E lo scoglio più arduo da evitare sembra sia proprio quello delle unioni civili. E non sono solo gli ultrà cattolici alla Giovanardi o Sacconi o Roccella o Formigoni a essere sul piede di guerra. E a chiedere quanto meno una moratoria di dodici mesi, per rinviare il fardello alla prossima legislatura. «Guai a equiparare le unioni civili alle famiglie — spiega al Tg3 il presidente del Ncd Renato Schifani — Diremo no, perché automaticamente il rischio sarebbe di passare alle adozioni di figli. E sui fondi alle famiglie, Renzi prima di parlare dovrebbe informarsi. Nuovo centrodestra ha sempre posto questo tema al centro della propria azione politica. Grazie al nostro impegno sono state varate all’interno della legge di Stabilità importanti misure come quella del rifinanziamento del bonus bebè o l’istituzione di un Fondo per le giovani coppie che vogliono acquistare la prima casa».

il Fatto 5.1.14
Grillo è più euroconfuso che euroscettico
Pubblica un (vecchio) programma per le Europee e azzera mesi di dibattito nel M5S per un referendum incostituzionale
di Marco Palombi


Tre convegni alla Camera con economisti - in genere di buon curriculum - sull’euro, mesi di discussioni tra i militanti, i gruppi parlamentari in gran parte orientati a una scelta netta contro la moneta unica, una posizione di vantaggio in un mercato elettorale (quello, all’ingrosso, euroscettico) in cui il Movimento 5 Stelle si era posizionato per primo e con più credibilità visto che, per non fare che un esempio, non ha firmato il Fiscal Compact come fece l’oggi antieuropeista Silvio Berlusconi. Tutto questo, però, è finito venerdì, quando Beppe Grillo ha pubblicato i suoi sette punti programmatici (ne aveva già parlato anche all’ultimo V Day) per le prossime Europee.
ROBA VECCHIA, se è lecito, nel senso che sono in parte suggestioni che arrivano dalla fase embrionale del Movimento 5 Stelle e, per così dire, euroconfuse più che euroscettiche. Si prenda, ad esempio, il referendum sull’euro, che dovrebbe seguire un anno di dibattito: bizzarro che una forza politica proponga da anni una consultazione sulla moneta unica e ancora non abbia trovato modo di far sapere ai cittadini qual è la sua posizione. Per di più i referendum su trattati internazionali - come quello che istituì l’euro - sono incostituzionali a norma dell’articolo 75 della Carta. E, infine, se Grillo e il cofondatore del Movimento Gianroberto Casaleggio avessero seguito i convegni organizzati dai loro “portavoce” a Roma, avrebbero saputo che per tutti gli esperti il solo fatto di annunciare un referendum del genere avrebbe come conseguenza una immediata fuga dei capitali dall’Italia con relativa dissoluzione del sistema bancario. Altri punti - come l’abolizione del Fiscal Compact e del pareggio di bilancio o l’adozione degli eurobond - sono al momento pie intenzioni, visto che manca il contesto politico in cui portarle avanti (tradotto: la Germania non vuole), ma servono a lanciare un segnale a quella bella fetta di elettorato del M5S che guarda con favore all’euroexit o che comunque è assai scontenta del funzionamento dell’Unione.
La cosa più rilevante, però, è quel che questa uscita segnala sulla natura ancora spuria del Movimento, diviso tra iperdemocrazia online e una incomprimibile natura verticistica. Il risultato è una enorme confusione. Su natura e problemi dell’euro - cioè la partita fondamentale del futuro prossimo - lo stesso Beppe Grillo, o meglio il suo blog, ha avuto un atteggiamento oscillante: a volte l’abbandono della moneta unica è stato dipinto come una catastrofe, altre come inevitabile e necessario per l’Italia.
GLI ELETTI e i militanti del M5S, però, specialmente quelli che si occupano di macroeconomia, non sono così ballerini e propendono largamente per l’addio all’euro: il sito “Economia 5 Stelle”, per dire, si apre proprio con un manifestino “No euro”. Quel sito, si potrebbe obiettare, non è ufficiale. E, infatti, l’unica voce ufficiale è quella che arriva dal blog di Beppe Grillo e a “portavoce” e cittadini sparsi non resta che auscultare gli umori della casa-base o aspettare direttive. Di più, sono caldamente invitati a non occuparsi di questioni che non li riguardano: lo stesso Casaleggio lo ha chiarito agli eletti in Parlamento durante due visite a Roma, l’ultima in occasione dei saluti per Natale proprio dopo i convegni dedicati alla della moneta unica. Decide la rete, cioè lui.
La scelta di organizzare la campagna per le europee attorno ai sette punti ha, infine, sedato anche alcuni rumors interni al Movimento: “Pare che pure Casaleggio si sia convinto che dobbiamo uscire dall’euro”, si diceva a Roma. Ora è chiaro che non è così eppure resiste un ultimo paradosso: pur non avendo ancora preso una posizione netta sul tema, Grillo è considerato da tutti il campione italiano degli antieuro. L’ultimo numero di The Economist, ad esempio, inserisce il M5S tra gli “Europe’s Tea Parties”, i partiti che distruggeranno Strasburgo dopo le prossime europee. L’euroconfusione regna anche a Londra.

Repubblica 5.1.14
Deputati e senatori prendono le distanze dal blog: “La Consulta dice che il sistema di voto si può modificare”
M5S contro Grillo: “Parlamento legittimo”
di Matteo Pucciarelli


MILANO — Da una parte le sollecitazioni di Matteo Renzi, sempre più pressanti, che danno l’impressione di una volontà di cambiare la legge elettorale che prima non c’era; dall’altra ilnietdi Beppe Grillo sul blog: «Non si tratta con un Parlamento illegittimo». Tra l’incudine e il martello, i gruppi parlamentari del M5S tornano a navigare a vista. Non senza qualche voce critica che esce alla scoperto, con l’aggiunta di numerosi mal di pancia (privati). Le parole più dure le utilizza il senatore triestino Lorenzo Battista, che alla “provocazione” del leader (la chiama così) risponde con un’altra provocazione ancora: «E allora anche il nostro vicepresidente della Camera, o il nostro questore, o il nostro presidente diCommissione Vigilanza Rai, sono illegittimi, essendo lì grazie ai voti di un Parlamento incostituzionale. Si dimettessero no?». Se non fosse che la logica è spesso un’opinione. «Insomma, parlare di Camere illegittime è pericoloso — aggiunge — e, volendo persistere, per ragioni di coerenza dovremmo andare a casa tutti noi. Non solo: ogni legge, ogni mozione, ogni interpellanza sono da annullare, seguendo questo principio». Un altro senatore e membro della commissione Affari Costituzionali, Francesco Campanella, è meno diretto ma sottolinea due concetti che, di fatto, contraddicono le parole del blog. Primo: «Nel comunicato che ha annunciato la propria decisione la Corte Costituzionale ha affermato che il Parlamento di questa legislatura ha piena legittimità a cambiare la legge elettorale». Secondo: «La riadozione del Mattarellum sarebbe comunque un atto di produzione legislativa, impossibile se il parlamento attuale non fosse legittimato a legiferare». Il deputato Tommaso Currò sembra quasi sconsolato: «È un teatrino, un gioco delle parti, dove anche Grillo partecipa. Diciamolo chiaramente: certi proclami come quest’ultimo hanno un sapore elettoralistico e basta».
Intanto che, come promesso, agli iscritti al blog venga data la possibilità di votare le diverse proposte di legge elettorale avanzate dal M5S e che verranno illustrate da Aldo Giannuli (saggista e ricercatore di Storia alla Statale, da sempre vicino all’area della sinistra radicale), sia alla Camera che al Senato c’è già la bozza di riforma depositata dal Movimento lo scorso ottobre. Un proporzionale con un mini-premio e con un sistema di preferenze ispirato al modello svizzero, «che garantisce agli elettori la massima libertà nella scelta degli eletti e minimizza i risvolti negativi dei tradizionali sistemi di preferenza come clientelismo e corruzione. Se a Renzi interessa il modello spagnolo vero, che garantisca una governabilità del Paese e non un dominio, vada a leggersela », è l’invito di Danilo Toninelli, il massimo esperto in materia in casa grillina. Insomma, su quella si può trattare, anche se il Parlamento è “incostituzionale”? «Beh, se davvero quella proposta fosse largamente condivisa — ammette Mario Giarrusso — per noi sarebbe impossibile dire di no».

il Fatto 5.1.14
“Non siamo terroristi” Lettera dal Cie al Colle


QUESTI sono alcuni passaggi della lettera inviata al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dai migranti del Cie di Ponte Galeria, a Roma. Lo stesso centro dove alcuni di loro hanno protestato cucendosi le labbra, negli ultimi giorni del 2013.
“Egregio presidente siamo i cosiddetti ‘ospiti’ del centro di Ponte Galeria a Roma e ciascuno di questi ospiti ha un gran bagaglio di guerre civili, tristezza, fame e violenza di ogni tipo. (...) Abbiamo venduto le ultime ricchezze rimaste per partire, ma all’arrivo abbiamo trovato solo nuovi centri di deportazione camuffati con il nome di Cie, centri di deportazione come quelli conosciuti bene dagli italiani dopo l’8 settembre 1943 (...). La colpa più grande ce l’ha data il destino facendoci nascere sulla parte sbagliata del Mediterraneo. C’è una legge che obbliga le persone a restare sempre fuorilegge come la Bossi Fini, fuorilegge che vivono in Italia da venti o trent’anni (...) Si sono imbarcati senza la benché minima certezza di raggiungere la terraferma e tutti erano terrorizzati dalla traversata, hanno visto la morte in faccia per la guerra e la fame. (...) Il mare ogni tanto rende i corpi putridi e mangiucchiati dai pesci, ma ciascun corpo ha una storia piena di lacrime. Tutti i cronisti del mondo non potranno mai ricostruire le loro vite spezzate, nel cuore della loro giovane età. Poi, il danno si aggiunge alla beffa signor Presidente. Tutti coloro che si sono salvati si ritrovano rinchiusi per parecchi mesi e in certi casi arrivano a 18 mesi, che reato hanno commesso? Questi sono i disgraziati del 21esimo secolo (...) La mia supplica egregio presidente è di chiudere questi nuovi lager del Ventunesimo secolo camuffati da Cie. Se nel caso non si possono chiudere i centri, signor Presidente, la supplico in ginocchio di ridurre questi 18 mesi, che sono tempi disumani, a due mesi. (...) Non siamo boss o terroristi, siamo ospiti, ma gli ospiti non si trattano così”.

l’Unità 5.1.14
Il Papa apre sulle coppie gay: «La Chiesa non escluda»
di Roberto Monteforte


Repubblica 5.1.14
Il Dio che affanna e che consola
di Eugenio Scalfari

qui
 

Repubblica 5.1.14
“Referendum on line sulla scuola gli italiani ci dicano cosa non va”
Il ministro Carrozza: per cambiare serve il contributo di tutti
intervista di Corrado Zunino


PISA. NELLA pasticceria Salza, Borgo Stretto di Pisa, praticamente casa sua, il ministro Maria Chiara Carrozza spiega davanti a un tè caldo il 2014 della scuola e dell’università italiane. Fuori piove. Come da tweet di fine anno, inizia dalla Costituente della scuola.
MINISTRO, che cosa sarà?
«La Costituente della scuola sarà la più grande domanda, e mi auguro la più grande risposta, sulla scuola italiana contemporanea. Non parliamo di un convegno né di stati generali, non sarà neppure una consultazione tra addetti ai lavori. Vogliamo aprire un dibattito in tutto il paese su questo bene primario che è la scuola. Cosa ne pensano, e come la vorrebbero, presidi, insegnanti, studenti, genitori, partiti, fondazioni, associazioni. Domande semplici su dieci temi. Non si è mai fatto prima».
Si rischia di scrivere il più grande libro dei sogni mai scritto.
«Vorrei capire, confesso che su alcuni temi non so come gli italiani la pensino. La valutazione, per esempio. I genitori vogliono che le scuole frequentate dai loro figli siano valutate secondo standard internazionali?
E con le scuole, gli insegnanti? O ritengono la valutazione una violazione della privacy, un metodo poco significativo? E l’autonomia scolastica è un bene, un’opportunità, un disastro? Da ministro ho le mie idee, ma se non capisco quelle del paese non posso elaborare l’ultima riforma della riforma della riforma. Vorrei fare insieme agli italiani la grande e giusta riforma della scuola italiana».
Che tempi si è data per capire?
Davanti a sé al massimo ha un anno e mezzo.
«Ci siamo messi al lavoro subito dopo Natale, in queste ore stiamo scegliendo i dieci temi cardine. Invieremo il questionario e chiunque, fino a maggio, potrà intervenire: risposte sul sito del ministero che resteranno anonime. A giugno renderemo pubblici i risultati, a settembre diremo quali indicazioni il ministero ha recepito».
Ha detto che le idee, lei, se le è formate. Sull’autonomia scolastica, per esempio?
«Oggi la scuola italiana è fortemente centralizzata, ma il funzionamento dei singoli istituti dipende dai singoli presidi. Se sono capaci, le loro scuole funzionano. È così, ma non saprei dire perché: le consultazioni mi aiuteranno».
Scusi il cambio di passo, ma ha letto che abbiamo gli adolescenti più pigri d’Europa? Ultimi in Europa per pratica sportiva.
«Ho intenzione di dirottare fondi europei sull’attività fisica. So quanto serve, da studente sono stata una buona praticante: sci, tennis, basket ».
Perché le scuole italiane non sono quasi mai aperte il pomeriggio e mai in estate?
«Sono molto favorevole all’apertura prolungata, ma il punto è il solito: trovare i soldi per garantirla. Si può pensare ad aperture senza costi con affidamenti, per sport e cultura, a soggetti esterni».
In Italia, e forse solo in Italia, si tengono aperte per 15 anni graduatorie per le classifiche degli insegnanti che devono entrare in cattedra. L’ex ministro Profumò annunciò un lavoro di pulizia di queste graduatorie: c’è chi si è sistemato altrove, chi non vuole più fare l’insegnante.
«Profumo aveva ragione, ma il lavoro non si è fatto. Dobbiamo riprenderlo in mano».
Gli istituti tecnici superiori, gli Its riservati a chi ha un diploma tecnico e vuole aggiungere due anni di alta specializzazione, sono stati un successo: il 59 per dei diplomati ha trovato subito un lavoro.
«Vogliamo estenderli. Le autorizzazioni spettano alle Regioni ma penso che l’anno prossimo nasceranno una quindicina di nuovi Its, soprattutto in Toscana e Lombardia. Gli istituti tecnici e professionali, superiori e no, riguardano il 40 per cento dei nostri studenti e durante il semestre europeo a guida italiana l’istruzione professionale sarà al centro del dibattito continentale».
Non c’è troppo poca storia dell’arte negli orari scolastici?
«Sì e noi faremo un investimento sulla storia dell’arte, anche qui attingendo a fondi europei. I due semestri Ue, Grecia e poi Italia, rilanceranno la cultura umanistica».
Alla fine che cosa manca alla scuola italiana?
«La diffusione del digitale e un investimento su laboratori, biblioteche, palestre».
L’università continua a perdere finanziamenti: 6,2 miliardi contro i 6,5 del 2012.
«Sono i tagli del governo Monti. Nel 2014 riporteremo a casa 191 milioni e cambieremo il modo di distribuire le risorse. Finanziamento generale, premi e assunzioni vanno fatti insieme, all’inizio dell’anno accademico».
Il segretario del Pd, Renzi, sostiene che metà delle università italiane devono essere cancellate, servono solo ai baroni.
«Io credo che non si debba cancellarne neppure una: oggi laureiamo pochi giovani. Agli atenei che hanno usato male i soldi, fanno poca ricerca e non richiamano i professori migliori il ministero deve solo togliere autonomia».
Finanzierà ancora le università tematiche non statali?
«Certo. Scienze gastronomiche di Pollenzo è stato un successo e vedrei con favore università tematiche destinate allo studio energetico e alla biomedicina».
Lo sa che a due anni dall’introduzione dei prestiti d’onore 19 milioni non sono stati ancora toccati? Solo 500 studenti hanno chiesto il prestito.
«Il prestito d’onore non mi piace, in America ha creato un mare di guai. Preferirei introdurre l’education bond, un prestito privato non vincolante: lo studente lo restituirà solo se sarà in condizioni di farlo, senza rischiare nulla».
È sicura che il prossimo test di ammissione a Medicina sarà nazionale?
«Combatto per quello, anche se le pressioni nei miei confronti sono fortissime».

il Fatto 5.1.14
Il Paese incivile: sui diritti è tutto fermo da dieci anni
Con gli anni duemila sembrava aprirsi una nuova stagione
ma su divorzio, fecondazione, unioni e eutanasia non si muove una foglia
di Paola Zanca


L’unica volta che ci si era avvicinato, era riuscito perfino a portare a casa un risultato storico: con un decreto, addio per sempre alla distinzione tra figli nati dentro e fuori dal matrimonio. Ma per il governo Letta, sul tema dei diritti civili, doveva ancora arrivare la grana Renzi e i suoi “trattiamo con chi ci sta”. O meglio, dopo le toppe al bilancio, a Palazzo Chigi doveva ancora capitare la sventura di trovarsi di fronte ai buchi di civiltà. Non che fosse un imprevisto: dalle unioni civili al divorzio, dalla fecondazione assistita al testamento biologico, dall’omofobia allo ius soli, quando si è trattato di assicurare la possibilità di piena realizzazione delle libertà individuali, lo Stato italiano si è dimostrato sempre più ingombrante del solito. Ecco come siamo messi, nel Paese in cui non sembra mai il momento buono per cambiare registro.
Pacs, Dico, Cus e niente più
L'accidentato percorso dei contratti tra persone che vivono stabilmente insieme si avvicina a festeggiare il suo ottavo compleanno. E oggi, alcuni parlamentari sono ancora lì a tentare di rimediare al tentativo fallito dal governo Prodi di regolamentare il settore delle unioni di fatto. In Parlamento ci sono una serie di proposte depositate, da quella dei Pd Andrea Marcucci e Luigi Man-coni, a quella di Alessia Petra-glia (Sel) fino alle proposte del Nuovo centrodestra (Giovanardi) e di Forza Italia (Alberti Casellati). Non si tratta di un riconoscimento sociale e simbolico: il patto tra conviventi serve soprattutto in momenti difficili come la malattia o la morte. Sulle varie proposte (se ne contano 8) si sta valutando l'esame congiunto in commissione al Senato. Il presidente Nitto Palma ha chiesto al Pd di “conoscere l'orientamento definitivo del gruppo”. Ha risposto Giuseppe Lumia: “Da un lato va considerata l'opportunità di disciplinare la condizione delle coppie di fatto – si legge nel resoconto – dall'altro occorre valutare se vi siano le condizioni per l'estensione in favore delle coppie composte da persone dello stesso sesso”. Spiega che bisogna confrontarsi con l'esecutivo. Chiarisce Lucio Barani di Gal: sui matrimoni omosessuali esiste “una maggioranza numerica in Commissione che non corrisponde a quella che sostiene attualmente l'azione di governo”. Il centrodestra conferma. “La Commissione prende atto”. E rimanda a fine gennaio.
Se ti lascio non ti cancello
La legge è ferma al 1970. E anche qui sono dieci anni che si cerca di portare l'intervallo obbligatorio tra separazione e divorzio da 3 anni a 1. Ma niente da fare. Ora, a Montecitorio, ci riprovano il 5 Stelle Alfonso Bonafede e la Pd Alessandra Moretti. Se ne discuterà in commissione Giustizia, sperando sia la volta buona.
La fuga delle provette
Anche la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita, quest'anno ne compie dieci. In mezzo c'è un referendum (senza quorum) e una serie di sentenze della Corte Costituzionale. Adesso è la deputata Pd Michela Marzano a tentare di mettere fine al calvario di migliaia di coppie in cerca di un figlio. L'obiettivo – già sollecitato dalla Consulta – è quello di stabilire che “la regola di fondo” è “la autonomia e la responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali”. Sono loro, e non qualche centinaio di parlamentari, a dover stabilire il numero di impianti necessari, la tempistica, le diagnosi da fare se il problema non è l'infertilità ma una malattia genetica. Visto che in Italia non si può, solo nel 2011 sono 4 mila le coppie fuggite all'estero. Rosetta e Walter hanno scelto di restare qui a combattere contro una legge ingiusta. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a risarcirli per danni morali.
Il testamento di Marino
Ci vorrà – ahinoi – un altro caso Englaro o un altro Welby per rimettersi a parlare di fine vita e di testamento biologico. Il documento del comitato nazionale di bioetica porta di nuovo la data di dieci anni fa, il 2003. Già allora di parlava di Dat, la dichiarazione anticipata di trattamento. Ma al Senato la proposta che porta la firma di Ignazio Marino (nel frattempo diventato sindaco di Roma) è ancora lì che si dimena tra i pareri delle commissioni.
La cicogna non parla straniero
Tutto fermo anche in materia di cittadinanza ai figli degli stranieri nati in Italia. Gli autorevolissimi appelli – da Napolitano in giù – sono rimasti nei cassetti. Ci sono una quindicina di proposte depositate in commissione, compresa quella del Cinque Stelle Giorgio Sorial: prevede uno ius soli temperato, dove la cittadinanza si acquista se si è nati da almeno un genitore straniero residente legalmente in Italia da non meno di tre anni. Per Grillo però una legge del genere non può non passare da un referendum popolare: “Una decisione che può cambiare nel tempo la geografia del Paese – ha detto a maggio – non può essere lasciata a un gruppetto di parlamentari e di politici in campagna elettorale permanente”.

il Fatto 5.1.14
Così fan gli altri
Europa e Usa, dove il progresso c’è
di Luca De Carolis


Dalla Francia dei Pacs alla Spagna dove i matrimoni gay sono legali da otto anni. È l’Europa dei diritti, quelli che in Italia sono ancora un miraggio. Lontanissimo, anche guardando le norme “conquistate” negli Stati Uniti.
FRANCIA
È il paese dei Pacs, patti civili di solidarietà, istituiti con una legge del 1999. Il patto è un contratto che regola la convivenza tra due persone, anche dello stesso sesso. Prevede molte tutele: dai giorni di congedo dal lavoro in caso di malattia o morte del convivente, alla pensione di reversibilità e al diritto di lasciare eredità al partner. I conviventi devono impegnarsi a una vita in comune e garantirsi reciproco aiuto materiale. Il patto non dà diritto all’adozione, possibile invece per i single. La legge francese regola anche la convivenza, ma con diritti molto più limitati rispetto ai Pacs. Nell’aprile scorso, l’Assemblea nazionale ha dato il via libera ai matrimoni gay, tra le proteste di associazioni cattoliche ed estrema destra. Alcuni sindaci hanno fatto ricorso alla Consulta, che l’ha respinto: nessun primo cittadino può rifiutarsi di celebrare matrimoni omosessuali. Divorzio: se la separazione è consensuale, per ottenerlo bastano dai 3 ai 9 mesi. Immigrazione: il sistema francese prevede due tipi principali di permesso di soggiorno. Il primo, temporaneo, dura un anno; il secondo, decennale e rinnovabile, può essere richiesto da chi abbia la residenza da almeno 5 anni e abbia sottoscritto il contratto di accoglienza e integrazione, che prevede corsi di lingua e di formazione civica. Chi chiede il ricongiungimento familiare deve avere risorse pari almeno al salario minimo garantito e deve dimostrare il legame di parentela con il test sul dna.
GERMANIA
In Germania le unioni civili sono previste solo per persone dello stesso sesso, tramite la “convivenza registrata”, istituita nel 2001. Prevede grande parte dei diritti previsti dal matrimonio, tra cui la possibilità di scegliere lo stesso cognome del coniuge, il diritto alla pensione di reversibilità e alla successione ereditaria, il permesso di immigrazione per il partner straniero. Non è concessa l’adozione congiunta, ma si possono adottare i figli del convivente. Dopo un anno di separazione, scatta automaticamente il divorzio. In luglio la Germania ha semplificato le norme per l’immigrazione di lavoratori qualificati, di cui ha gran bisogno, velocizzando le procedure per i visti. Ma non si è mai dotata di un meccanismo per regolarizzare la posizione di gran parte degli immigrati. Ottenere la cittadinanza rimane difficile.
SPAGNA
È uno dei paesi più cattolici del mondo, eppure nel 2005 ha legalizzato i matrimoni gay, con una modifica al codice civile. In Spagna si possono celebrare anche matrimoni omosessuali tra stranieri, a patto che almeno uno dei due futuri coniugi abbia ottenuto la residenza nel paese. Undici regioni su 17 riconoscono le coppie di fatto. La prima è stata la Catalogna, nel 1998, con una legge che prevede la responsabilità solidale per le spese domestiche e per alcuni debiti. Per il divorzio consensuale bastano dai 2 ai 4 mesi. È allo studio una legge per consentire di sbrigare tutto davanti a un notaio. Immigrazione: sono previsti permessi di permanenza temporanea fino a 90 giorni. Può richiedere di rimanere a tempo indeterminato chi soggiorni nel paese da almeno 5 anni. Non è indispensabile ottenere il permesso di soggiorno prima di cominciare a svolgere un’attività lavorativa.
STATI UNITI
L’istituto del matrimonio è regolato in via autonoma da ciascuno Stato. Nel complesso, sono 18 gli stati americani che consentono i matrimoni tra persone dello stesso sesso. Il primo, nel 2004, è stato il Massachusetts. In molti altri stati i matrimoni omosessuali sono espressamente vietati. Alcuni di questi prevedono le unioni civili. Le adozioni da parte di coppie omosessuali sono consentite in dieci Stati. Nello scorso giugno, la Corte Suprema ha stabilito che i matrimoni omosessuali (contratti dove sono permessi) hanno valore legale in tutti gli Usa. Nel paese con il più alto tasso di divorzi del mondo, ci si può separare in tempi brevi. Ma anche in questo caso le norme variano da Stato a Stato. Immigrazione: negli Stati Uniti vige il principio dello ius soli. Chiunque nasca sul suolo americano acquisisce la cittadinanza, automatica anche per chi è nato all’estero ma da almeno un genitore cittadino statunitense. Il miraggio di molti stranieri è la green card, permesso di lavoro che di fatto dà anche la residenza.

La Stampa 5.1.14
Il record dell’abbandono scolastico
Il 17,6% degli alunni lascia i banchi in anticipo, cinque punti più della media Ue
di Flavia Amabile

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il Fatto 5.1.14
Shalabayeva, la vera storia
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, ricordi Alma Shalabayeva? Abbiamo tutti salutato con sincera ammirazione il lavoro del ministro Bonino, poche parole e un fatto essenziale: l’ostaggio illegalmente prelevato dall’Italia e la sua bambina adesso sono libere e in salvo. Ma qual è la vera storia?
Anna

FORSE PER CASO, forse di proposito, la lettera di oggi usa l’espressione “la vera storia” di Shalabayeva, che è esattamente il titolo di un articolo di Augusto Perboni, (“Il Tempo”, 30 dicembre) completato con questa seconda riga: “Non esistono intrighi internazionali”. Spesso si dice che i titoli non sono responsabilità dei giornalisti che firmano, e di solito è vero. Non è importante se lo sia in questo caso perché l’articolo corrisponde esattamente al titolo. È un articolo dettagliato e con una rigorosa concatenazione di eventi senza alcun salto logico. Ci sono però due punti da discutere e che creano una curiosa perdita di orientamento, come la storia fosse scritta da Dan Brown, invece che da un giornalista investigativo. Il lavoro del giornalista non è in discussione. Ma perché la sua missione prevedeva che l'autore dovesse ignorare del tutto il lavoro del ministro Bonino, che si è messa all’opera con il pesante handicap di essere stata tenuta, fino al momento della espulsione-rapimento, all’oscuro di tutto? Ecco il primo punto importante. Nella “vera storia” manca del tutto la storia della Bonino. Qui c’è un debito di riconoscimento del merito di un successo diplomatico. Le vittime di un simile evento non tornano da sole. Eppure di tutto questo non sappiamo nulla. Ed ecco il secondo punto: tutta la vera storia è narrata sul versante dei rapitori mandanti e dei sequestratori comandati. Deve esserci stato un suggerimento ferreo a seguire binari neutri, nell’articolo che sto discutendo. Ma noi, qui, non sappiamo chi ha dato gli ordini. E avendo di fronte una storia densa, coerente, ben narrata, e ricca di dettagli, non conosciamo le fonti. Chi ha detto cosa, chi ha deciso, chi ha eseguito, in quale connessione, stipulata dove e perché, fra diplomatici (o autorità) del Kazakistan e istituzioni italiane prima del rapimento , e chi si è assunto la responsabilità di offrire al giornalista notizie importanti che però restano anonime per mancanza di fonti e di mandanti (nel senso politico, prima che giudiziario)? Qualcuno ha fatto accordi e ha dato ordini e quel qualcuno doveva essere un politico, non poteva essere un funzionario. Ciò che è accaduto sfugge vistosamente persino alla responsabilità dei vertici delle nostre polizie. Ci vuole un percorso, ci vogliono delle ragioni, ci vuole una decisione politica che deve essere per forza collegiale, internazionale e firmata. Da chi? Il testo sembra scagionare del tutto la polizia italiana ma in realtà la lascia sola con un grande e inspiegato scandalo diplomatico, politico e, forse, d’affari, che a tutti si può addebitare tranne che a un prefetto o a un questore. Nessuno ha provato a intervistare il ministro degli Interni Alfano? Nel clima sereno di un’intervista forse avrebbe potuto essere più espressivo che alla Camera. Ma senza quella verifica, nonostante il buon lavoro del collega, la “vera storia” manca .

l’Unità 5.1.14
Se al Qaeda torna a Falluja
di Umberto De Giovannangeli


l’Unità 5.1.14
Tunisia
Costituzione, il Parlamento dice no alla sharia


l’Unità 5.1.14
Odio in Libano, bruciata antica biblioteca cristiana
di U.D.G.


l’Unità 5.1.14
Datagate, nuovo via libera alla Nsa: «Tutto legale»
di Virginia Lori


Repubblica 5.1.14
Israele rigetta le proposte Usa
per la Valle del Giordano

«La sicurezza della zona resterà saldamente nelle mani israeliane e non permetteremo il dispiegamento di una forza internazionale di pace né accetteremo la presenza della polizia palestinese o di sistemi tecnologici che non sono confacenti alla situazione qui in Medio Oriente»
qui

il Fatto 5.1.14
Tra stupri e violenze, in India l’unica speranza è il coraggio delle donne
di Silvia Truzzi


IN INDIA il 2014 è iniziato con la morte di una ragazzina di 12 anni stuprata una prima volta da sei uomini a Madhyagram, vicino a Calcutta, il 26 ottobre. La violenza si è ripetuta il giorno successivo, dopo che la ragazza aveva denunciato i fatti alla polizia. L’Hindustan Times ha scritto che la sua famiglia aveva ricevuto minacce perché la denuncia venisse ritirata, tanto da essere costretta a cambiare casa. Ma non è stato sufficiente: il 23 dicembre due uomini l’hanno trovata e le hanno dato fuoco. È morta il primo dell’anno, era incinta: le persone accusate di averla violentata e uccisa sono in carcere. Due giorni fa è stato reso pubblico un altro caso: a Kanpur una donna è stata violentata due volte in 12 giorni da un branco. Secondo i media, la polizia le avrebbe offerto 5 mila rupie per non denunciare le aggressioni. Ieri è toccato a una turista polacca, violentata da un tassista che le aveva offerto un passaggio a Nuova Delhi. Ma sono solo gli ultimi episodi: omicidi, stupri, aggressioni con l’acido contro le donne in India sono oltre l’emergenza. Le cronache raccontano che non sono risparmiate nemmeno le bambine: il 31 dicembre 2012 una bimba di sette anni fu violentata da un uomo a Bangalore. A metà gennaio, un’altra piccola di sette anni fu stuprata nel bagno della sua scuola nello Stato di Goa. Ad aprile fu trovato in una discarica a New Delhi il cadavere di una bimba di cinque anni violentata e strangolata.
Il 16 dicembre 2012, sempre a New Delhi, una ragazza di 23 anni venne stuprata, picchiata e seviziata su un autobus da un branco: morì pochi giorni dopo. Il caso ebbe un’eco mondiale per l’ondata di proteste che attraversò tutto il Paese. Per quella morte a metà settembre sono stati condannati alla pena capitale quattro uomini. A seguito della sentenza, in una nota, Amnesty International aveva giustamente commentato: “La pena capitale non basterà a stroncare l’e n d e m i co problema della violenza contro le donne in India”. I due recentissimi episodi nel Paese di Gandhi lo dimostrano. La Corte suprema indiana ha diffuso un rapporto: nei primi dieci mesi del 2013, a New Delhi si sono registrati 1330 stupri, il doppio rispetto ai 706 casi dell’intero anno precedente. Forse il numero dipende dal fatto che maggiori sono le denunce: comunque è un dato di cui tenere conto. Ovviamente lo stupro non è un reato che si consuma solo in India, anche se molti attivisti e commentatori di quel paese denunciano che questa violenza è frutto di una bassa e primitiva considerazione della donna.
n ORA IL GOVERNO sta correndo ai ripari: in aprile è entrata in vigore una legge che punisce le molteplici forme di violenza sulle donne e pochi giorni fa è stato varato un programma per rendere più sicuri i mezzi pubblici, su cui verranno installati telecamere e sistemi d’allarme per chiedere aiuto. Ed è un bene: la ricetta non può essere dire alle donne “non prendete l’autobus”, “non camminate per strada da sole”, “non uscite la sera”. Le precauzioni non cambiano i costumi sociali, la paura non è una tutela. Ma qualcosa può cambiare: basta guardare le manifestazioni, le imponenti mobilitazioni delle associazioni, la sempre maggiore attenzione della stampa. In quest’orrore che suscita indicibili sentimenti verso gli aggressori, il coraggio delle donne che a migliaia scendono nelle piazze e rompono il silenzio è il più grande segnale di speranza.

il Fatto 5.1.14
Fenomeno De Blasio
Bill, l’italiano di New York che viene dalla strada
di Furio Colombo


Chiamarsi Warren Wilhelm non gli piaceva. Voleva essere Bill de Blasio, il nome della mamma italiana (Sant’Agata de’ Goti) e dei nonni che si erano trasferiti dalla piccola città italiana a New York per prendersi cura di lui. Fin dalle scuole elementari, e prima di averne la possibilità legale, Wilhelm ha voluto essere De Blasio, e così figura in tutte le sue pagelle e diplomi scolastici.
Il sindaco ne fa (quando ne parla per un minuto, una questione affettiva: sono stati la madre e i nonni a prendersi cura di lui, quando suo padre, di origine tedesca, se ne è andato. Ma proprio adesso, sindaco di una città che, allo stesso tempo, rappresenta tutta l’America e rappresenta un riassunto del mondo, ti rendi conto di qualcosa che forse per il piccolo nuovo americano è stata una rivelazione istintiva del luogo in cui si era trovato a crescere, fra lasagne, hamburger, molta sfida e molto affetto: aveva capito che a New York devi essere fuori per essere dentro, per contare alla pari.
Aveva capito che, se non sei minoranza, non sei nessuno. E che l’identificazione come minoranza ti rende più forte, più uguale e ti mette in grado non di difenderti, ma di trattare alla pari. Mi ha ricordato una storia dei miei anni newyorchesi (quando ero direttore dell’Istituto Italiano di cultura di New York).
È LA STORIA di Arthur Avenue, nel Bronx più avventuroso. Quella strada era una tremenda linea di confine: di là una gang di ragazzi neri con borchie, bracciali e mazze, intenti a lanciare quasi ogni notte la sfida delle incursioni nel quartiere italiano. Di qua una gang di ragazzi italiani con borchie, bracciali e mazze, decisi a organizzare ogni volta raid di vendetta, senza che si potesse mai stabilire chi aveva cominciato e quando. Nessuno, tanto meno la polizia, avrebbe immaginato la soluzione: il teatro. Una pizzeria ha messo a disposizione lo scantinato, Robert De Niro ha risposto subito all’appello e ha mandato riflettori e attrezzature di scena (ed è venuto alla “prima”), Vanessa Redgrave, che parla un italiano quasi perfetto (e che era di casa all’Istituto di cultura) ha fatto la madrina dei primi spettacoli. Gli attori erano ragazzi delle due gang, bianchi e neri, spesso con i ruoli a rovescio, gli italiani perseguitati e i neri poliziotti invadenti, pericolosi e cattivi.
Un’idea in più (di uno dei ragazzi italiani, che aveva avuto un nonno operaio emigrato per antifascismo) era stata di spostare gli eventi delle due gang in un’Italia ai tempi del fascismo, mettendo nella cantina-teatro un grande ritratto di Mussolini come ispiratore dell’odio tra bande.
QUI ENTRANO in scena due personaggi che stanno segnando quest’epoca: Bill de Blasio e Katrina vanden Heuvel. De Blasio è esattamente il tipo di leader delle minoranze che stavano nascendo: rappresentante di esclusi deciso a essere incluso in nome di diritti di una rivoluzione già proclamata dalla Costituzione americana. Ovvero, il modello di Martin Luther King: inflessibilità e nonviolenza. De Blasio – nei quartieri pericolosi della città – ha fatto tutto ciò che si fa nelle strade e con le gang, sempre tenendosi fuori (e tenendo fuori i suoi compagni di strada), dalla violenza. Per esempio, presidiando le scuole difendendo i bambini dal “mobbing”. Ma anche impegnandosi a riuscire, nelle buone scuole pubbliche e nelle grandi università dove non paghi se hai merito (New York University e Columbia University, dove lui ha preso laurea e master).
E poi ha lavorato, subito e sempre, nell’unica carriera che gli interessava: mettere la legge dalla parte di chi, se è lasciato allo sbando, ricorrerà alla violenza. E ha fatto “l'avvocato della città”, una sorta di carica elettiva minore in cui ci si batte per i diritti degli altri. Ha creduto (e dimostrato personalmente di credere, col suo matrimonio) nel mischiare le minoranze “perché sono l'America, e sono la strada”. Intanto, nel versante buono della città, Katrina vanden Heuvel, ragazza ricca e figlia di William, ministro di Kennedy e ambasciatore di Carter, ha impegnato i suoi soldi a comprare, salvare rilanciare e dirigere la rivista The Nation, il solo settimanale nazionale di una sinistra americana sopravvissuta che, con Kathrine, è diventata più radicale, più di sinistra e con una diffusione di oltre 250 mila copie (in crescita) alla settimana.
THE NATION ha guidato la campagna di De Blasio, mobilitando per il nuovo sindaco egualitario la borghesia di Manhattan che aveva votato per Kennedy e Obama. Il punto forte della editrice-direttrice del The Nation e del nuovo sindaco di New York, scelto dal 76 per cento della gente più agiata della terra (e dai ragazzi neri e bianchi del Bronx) è che “il programma è già tutto nella Costituzione”: non esiste democrazia senza uguaglianza e non esiste uguaglianza senza il riconoscimento pieno dei diritti umani e civili, che comprendono il bambino che nasce, la coppia (qualunque coppia) che si unisce, la donna e l’uomo che lavorano e, per questa ragione, diventano “valore aggiunto” del Paese, ricchezza da tutelare. Non che questo sia il credo americano. Ma è il manifesto del nuovo sindaco che comincia da oggi, nonostante la tempesta di neve (che lui spala con gli altri). E di quell’unico giornale di sinistra salvato e rilanciato dalla ragazza ricca che dice come De Blasio: “Ho imparato da Roosevelt”. Forse non è un caso che proprio in questi giorni la città più ricca del mondo abbia inaugurato un parco dedicato al presidente del New Deal e alla sua tenace lotta contro conservatori potenti e ostinati, per strappare i suoi cittadini al terrore della miseria. Forse non è un caso che, di quel parco-memoria sia ideatore e presidente William vanden Heuvel, padre di Kathrine e grande elettore di De Blasio.

Repubblica 5.1.14
Ucraina, la sfida della cronista picchiata “Non ho paura, lotterò per la libertà”
Tetyana Chornovil accusa: “Yanukovich mandante dell’aggressione”
intervista di Pietro Del Re


MOSCA — «L’hanno ridotta proprio male ma lei continuerà a lottare per il suo Paese, perché è una donna molto determinata e che nulla spaventa, neanche la morte», racconta il vice presidente vicario del Parlamento europeo ed esponente Pd, Gianni Pittella, parlando di Tetyana Chornovil, la giornalista ucraina selvaggiamente picchiata la notte di Natale. Pittella l’ha incontrata ieri sera all’ospedale di Kiev, dove è ancora ricoverata. Gli chiediamo se può fornirci una diagnosi più precisa, lui che prima di dedicarsi interamente alla politica si laureò in medicina. Dice: «La giornalista ha ancora il viso tumefatto, un occhio pesto, il naso rotto. Senza contare il trauma cranico per cui è ancora ospedale».
E ha paura, adesso Tetyana? Paura che per le sue inchieste scomode qualcuno le abbia messo una taglia sulla testa?: «No, e mi ha detto di essere perfettamente consapevole dei rischi che corre. Non teme di morire, e lo ha dimostrato in anni di lotta. Vuole continuare a smascherare gli abusi e i furti del potere, e vuole farlo da giornalista ma anche da semplice cittadina per aiutare l’Ucraina a uscire dal regime che l’opprime ».
Tre uomini l’hanno quasi ammazzata di botte, e nei giorni scorsi la polizia ha arrestato cinque persone. Ma lei si è fatta un’idea di chi possa essere il mandante del suo pestaggio? «Tetyana Chornovil è convinta che sia lo stesso presidente Viktor Yanukovic, che la detesta perché fu lei a svelare in un suo articolo come si era intascato, in modo tutt’altro che limpido, circa 2 miliardi di dollari ». La giornalista 34enne diventò famosa nel 2012 dopo essersi intrufolata nella lussuosissima villa di Yanukovich. «Secondo Tetyana, l’Unione europea dovrebbe varare delle sanzioni economiche. Non contro l’Ucraina, ma ad personam, nei confronti del presidente ucraino. Basterebbe impedire a lui e ai suoi familiari di prelevare denaro dai conti europei o anche di girare liberamente nei Paesi dell’Unione. Solo così si potrebbe ottenere qualcosa. Altrimenti, dice sempre la giornalista, nulla cambierà, perché Yanukovic è alla testa di una sistema mafioso intorno al quale girano enormi quantità di denaro».
Nei giorni della protesta proeuropea nel cuore di Kiev, nella Meydan occupata, Tetyana è subito diventata l’eroina della piazza. Ma le ha fatto piacere diventare un simbolo della rivolta? «No, perché mi ha confidato che non riesce a rallegrarsi per la situazione politica che scuote in queste settimane l’Ucraina, e che lei avrebbe preferito vivere nella normalità di un sistema democratico. Ma continuerà la sua battaglia, nonostante le difficoltà. Mi ha anche detto di aver dovuto aspettare mesi prima di poter pubblicare il suo articolo contro Yanukovich. E mi ha spiegato che in Ucraina la censura è spietata, anche sul web. Giudica perciò di fondamentale importanza che noi, uomini di un mondo più libero, ci occupiamo della mancanza di libertà in Paesi come il suo».
A Kiev, Pittella ha avuto modo di occuparsi di un’altra donna perseguitata dal regime, Yulia Timoshenko. Dopo aver incontrato la figlia Eugenia, il vice presidente del Parlamento europeo ha dichiarato: «Quello che stanno subendo l’ex premier ucraina, e come lei l’ex-deputato e suo avvocato, Sergij Vlasenko, ma anche la stampa libera e tanti altri cittadini comuni, è inaccettabile per i più elementari diritti umani e democratici. Faccio mia la richiesta avanzata da Eugenia Tymoshenko di chiedere al governo italiano, e al premier Letta, di sostenere la lotta per la democrazia in Ucraina nel programma della prossima presidenza italiana dell’Ue».

Il Sole 24 Ore 5.1.14
L'Unione nel mirino
Dilaga la protesta contro la moneta unica
I populisti all'attacco dell'Europa (e dell'euro)
In testa nei sondaggi in Gran Bretagna, Olanda e Francia
di Attilio Geroni


Che cos'hanno in comune la difesa delle polpette di carne di maiale servite nelle mense degli asili danesi e l'idea di una minoranza tedesca di smantellare la moneta unica perché inefficiente e dannosa? Sono entrambi cavalli di battaglia di forze politiche - il Partito popolare e Alternativa per la Germania (AfD) - che hanno fatto della retorica anti-europea il loro marchio di fabbrica, sia pure con accenti, presupposti e finalità diverse. Sulle macerie di una crisi economica senza precedenti, e sul ritorno prepotente della questione identitaria, il contagio populista nell'Unione è dilagante - in Francia, Gran Bretagna, Olanda, Italia, Austria, nei Paesi Nordici - e tale da far temere un'affermazione senza precedenti alle europee del 22-27 maggio.
In Danimarca, alle elezioni comunali di Hvidovre, una cittadina dell'agglomerato urbano di Copenhagen, la salvaguardia della polpetta di maiale contro l'idea di abolirla dal menù degli asili per venire incontro ai dettami alimentari delle comunità islamiche, è stata l'argomento forte della campagna di Mikkel Dencker, candidato sindaco del Partito popolare. Il suo partito, con il 20% delle preferenze a livello nazionale, è uno dei più importanti del Paese grazie a una piattaforma di difesa a oltranza del welfare, contro i tagli proposti dal governo a guida socialdemocratica, e di riaffermazione dell'identità nazionale e e locale.
In Germania, dove la società è apprensiva e ha una soglia di destabilizzazione bassissima, si preferisce sottolineare che la AfD «per un soffio» non è entrata al Bundestag, con tutto il corollario di patemi che ne derivano in vista delle europee e un programma di governo senza ambizioni riformiste, ma molto protettivo: maggiori spese sociali, dagli assegni famigliari alle pensioni; salario minimo come controriforma del mercato del lavoro e sconfessione delle liberalizzazioni introdotte nel 2004: poco o nulla sull'integrazione europea.
E questi sono Paesi ricchi, toccati in minima parte dalla crisi e nel caso danese al di fuori della moneta unica, quindi dalle rigidità e dagli obblighi di consolidamento fiscale galoppante e austerità che secondo molti sono all'origine di un malcontento senza precedenti. Nel 2007 il 57% dell'opinione pubblica europea aveva una visione positiva nei confronti dell'Unione. Oggi si è ridotta al 30%, un minimo storico.
La situazione è ancora più preoccupante che in passato. I partiti nazional-populisti, riconducibili a forze di destra ma non solo, si stanno organizzando in vista dell'appuntamento elettorale di fine maggio, in alcuni casi stringendo alleanze impensabili solo fino a poco tempo fa. Come quella tra Marine Le Pen, leader di un Fronte nazionale apparentemente più sdoganabile rispetto all'Fn ereditato dal padre Jean-Marie, e l'inquietante Geert Wilders, l'olandese a capo del Partito della libertà.
La strana coppia ha trovato un terreno comune sulla restituzione della sovranità agli Stati-Nazione contro lo strapotere della burocrazia senza volto di Bruxelles e sulla difesa del welfare. Così facendo hanno acquisito una dimensione sociale che per decenni è stata propria della sinistra. La loro penetrazione elettorale è fortissima tra le classi operaie, le più colpite dalla globalizzazione in termini occupazionali e anche quelle maggiormente in crisi d'identità e rappresentatività.
Se riusciranno ad allargare la loro alleanza e a creare un gruppo parlamentare consistente gli analisti politici non escludono che le forze euroscettiche, di destra e di sinistra, possano arrivare a rappresentare almeno un quarto dei seggi a Strabusrgo. Il loro potere d'interdizione e disturbo a quel punto diventerebbe formidabile rendendo ancora più difficile di quanto già non sia un'ulteriore spinta verso l'integrazione, che a questi ritmi, divenuti blandi a causa della crisi dell'Eurozona, è ritenuta comunque eccessiva dagli stessi populisti.
È un circolo vizioso perfetto che si chiude, nella migliore delle ipotesi. con la minor disponibilità dei partiti europeisti ancora al Governo ad imbarcarsi in grandi progetti di completamento dell'Unione monetaria (l'Unione bancaria, per quanto importantissima, non è tale da riaccendere la passione per l'Europa). Oppure, nello scenario peggiore, a fare proprie alcune politiche demagogiche. Le dinamiche negative sono già in atto, come dimostra l'effetto che l'ascesa in Gran Bretagna del partito euroscettico di Nigel Farage, l'Ukip, sta avendo sulle strategie del governo. Il premier conservatore David Cameron ha dovuto dare in pasto all'opinione pubblica la prospettiva di un referendum sulla permanenza di Londra nell'Unione e lanciare una campagna poco edificante sulla riduzione dei benefici sociali ai lavoratori in arrivo da Bulgaria e Romania. Nel Parlamento italiano, tra Lega, Forza Italia e grillini, i movimenti euroscettici, benché all'opposizione, rappresentano un terzo dei seggi reclamando un ritorno alla lira. In Gran Bretagna, Olanda e Francia, Ukip, Partito della libertà e Fronte nazionale sono in questo momento, secondo i sondaggi in vista delle europee, i primi partiti. Con questi numeri, l'idea stessa d'Europa è in pericolo.

La Stampa 5.1.14
Dai fantasmi del ’44 riemerge il “Treno degli italiani”
Il 4 gennaio di 70 anni fa partiva da Roma un convoglio diretto a Mauthausen:
a bordo trecento deportati politici, rastrellati dai loro connazionali
di Umberto Gentiloni

qui

il Fatto 5.1.14
Scritti senza fine
Il gigante nudo che ha insegnato agli Usa a pensare
Aneddoti, amori ed errori di Philip Roth nell’ultima biografia dello scrittore preso a modello anche da Obama
di Carlo Antonio Biscotto


È in libreria in Gran Bretagna la nuova, documentatissima biografia di Philip Roth a cura di Claudia Roth Pierpont: Roth Unbound: a Writer and his Books. Il grande scrittore americano, a qualche mese dall’annunciato ritiro (“scrivere non mi interessa più”) e a non molti giorni dall’ennesimo smacco subito a opera della commissione per l’assegnazione del Nobel per la Letteratura, viene messo a nudo da Claudia Roth Pierpont che ne rivela aspetti noti e meno noti abbozzando un ritratto estremamente umano e a tratti divertente dell’autore di Pastorale americana e di innumerevoli altri capolavori. Philip Roth non è affatto l’intellettuale distaccato, burbero, dall’aria perennemente corrucciata che siamo abituati a vedere nelle foto e nelle abbastanza rare interviste. Spesso delizia gli amici imitando Marlon Brando nel ruolo di Marco Antonio quando nel film Giulio Cesare di Mankiewicz arringa la folla: “Amici, romani, concittadini, io vengo a seppellire Cesare non a lodarlo”. Ed è capace, rivela Claudia Roth Pierpont, di andare avanti sino alla fine anche quando cammina per la strada. Ma il suo interesse per il cinema non finisce qui: “Rivedo Il Padrino almeno una volta l’anno e ogni volta mi sembra diverso e profondo”, racconta Philip Roth alla sua biografa.
Rileggendo i suoi libri non ne salva nessuno: “Mi fanno urlare di rabbia”
Una delle parti più interessanti della biografia è quella che l’autrice dedica al rapporto critico tra Roth e i suoi libri. Si può dire che non ne salva nemmeno uno. Nessuno, a distanza di tempo, gli appare immune da pecche. “Certo è più facile vedere gli errori nei libri scritti molto tempo fa che in quelli più recenti. I miei primi libri le rare volte che li rileggo mi fanno urlare di rabbia e raccapriccio. L’ultimo capitolo de Il lamento di Portnoy, ad esempio, è pieno di errori”. Di Goodbye, Columbus e cinque racconti quasi non vuole parlare. “Di quel libro salvo solo il personaggio di Brenda Patimkin. È giovane, determinata, allegra, audace. Proprio come era la ragazza che me la ispirò”, spiega con un sorriso malinconico.
Di tanto in tanto nel corso delle sue conversazioni con la biografa, Philip recita a memoria alcuni passi del GrandeGatsby, ma non nasconde le sue riserve sul libro: Troppo melodico per i miei gusti. Hemingway era uno scrittore molto più potente”. Un capitolo a parte va alla cerimonia di consegna dalle mani del presidente Obama della
National Humanities Medal nel marzo del 2011, un riconoscimento probabilmente più gradito del Nobel per uno scrittore che non ha mai nascosto le sue simpatie per il Partito democratico e per tutte le cause progressiste. In uno degli incontri, Philip Roth mostra a Claudia Roth un video della cerimonia. Nel video i premiati (tra i quali, oltre a Roth, Joyce Carol Oates e Sonny Rollins) sono in attesa nella Sala Verde della Casa Bianca e Obama, venendo meno al protocollo, fa irruzione nella stanza (“non vedevo l’ora di vederli”, spiegherà dopo il presidente). Il primo che vede è proprio Roth; il presidente sorride ed esclama “Philip Roth!! ”. E Roth replica sulla stessa identica lunghezza d’onda esclamando sorpreso e divertito: “il presidente Obama!! ”.
“Quanto ci ha insegnato Portnoy e i suoi lamenti” disse il presidente
Nel discorso ufficiale, il presidente Obama dice: “Quanti giovani hanno imparato a pensare leggendo le prodezze di Portnoy e i suoi lamenti? ”, e la sala scoppia in una fragorosa risata. Al momento della consegna dei premi, Philip Roth scruta la platea come a fissare quel momento nella sua memoria. Il presidente Obama gli bisbiglia qualche parola confidenziale all’orecchio e Roth sorride piegando il capo per consentire al presidente di mettergli il nastro con la medaglia intorno al collo.
La biografia ricorda e ripercorre i recenti problemi di salute, l’intervento chirurgico alla schiena nella primavera del 2012 e, successivamente, la sua apparentemente improvvisa decisione di mettere definitivamente la penna nel cassetto. Quei mesi di sofferenze e inattività sono stati l’occasione per ripensare alla propria vita, specialmente alla vita sentimentale. E quando Claudia Roth gli chiede se è vero, come sostiene Nathan Zuckerman, che deve molto a Maggie, la prima moglie, senza la quale forse non sarebbe diventato uno scrittore, Roth non si fa pregare: “Tutte invenzioni di Nathan Zuckerman. Non le debbo un cazzo! ”. Poi aggiunge: “È entrata nella mia vita, l’ha cambiata per sempre e se ne è portata via una parte”.
Queste dichiarazioni irose su Maggie risalgono al periodo dell’operazione quando soffriva di forti dolori. Qualche tempo dopo riconosce che Zuckerman aveva ragione, almeno in parte. E proprio in quel periodo incontra Ann Mudge, che era la sua ragazza negli anni 60. Non la vedeva da oltre 40 anni. “Il nostro incontro, dopo 40, poteva descriverlo la penna di un solo scrittore: Proust. Non certo la mia”. Ann ha 6 mesi più di Philip ed è felicemente sposata da moltissimo tempo. “È una anziana signora, piuttosto piccola e con i capelli bianchi. Se l’avessi incontrata per strada non l’avrei riconosciuta. Ma quando si è seduta e ha cominciato a parlare, i ricordi sono riemersi dal profondo. Se c’è una cosa che con gli anni non cambia è l’espressione del viso”.
Quel periodo giovanile della sua vita lo ricorda con un misto di tristezza e rimpianto: “grazie a Dio non scrivo più! Maggie mi ha tolto 12 anni di vita. Avevo 23 anni e ci lasciammo quando ne avevo 35. Se non avessi sposato Maggie, avrei sposato un’altra ragazza, probabilmente Ann. Avremmo fatto un figlio e avremmo finito per divorziare. Come tanti, in fondo. Di sicuro la mia vita sarebbe stata diversa”.
Si mise a scrivere un libro a quattro mani con una bambina di 8 anni
A un certo punto della sua vita, Roth tenta persino di scrivere un libro a quattro mani con la figlia di 8 anni di una sua ex ragazza. “Non mi piace fare il nonno, ma quella bambina era straordinariamente dotata. Un giorno scrivevo una frase io, il giorno dopo lei e così via”.
In quel periodo Philip quando si alza al mattino corre a controllare la posta per vedere cosa le ha scritto. La faccenda va avanti per un bel pezzo ed è una esperienza stupenda: “forse il rapporto meraviglioso che ho avuto con quella bambina lo debbo anche al femminismo che ha segnato gli anni della mia formazione”, commenta.
Nella biografia, Philip Roth si dilunga sulle gioie dell’ozio, di quella sensazione di non avere doveri che lo avvolge come una coperta di Linus da quando ha deciso di non scrivere più. “Telefono e scrivo agli amici, faccio un po’ di esercizio fisico, leggo libri di politica e biografie. Non è vero che non leggo romanzi. Rileggo gli autori che sono stati importanti per me come uomo e come scrittore: Conrad, Turgenev, Faulkner, Hemingway. Non mi stanco mai di rileggere Delitto e Castigo. Ricordate quando Dunya, la sorella di Raskolnikov, va a trovare Svidrigailov nel suo appartamento? È un momento memorabile della letteratura. Lui è un uomo sinistro dal fascino diabolico. La stringe in un angolo della stanza e proprio mentre sta per violentarla, Dunya tira fuori una pistola dalla borsetta e a questo punto dice una delle frasi memorabili della storia della letteratura: ‘Questo cambia tutto! ’”, e Roth ride di gusto ripetendo la frase.
A un certo punto del libro, Philip Roth ricorda la ragazzina irlandese per la quale aveva preso una cotta a 12 anni. “Una domenica andai a trovare un mio cuginetto che si chiamava Philip come me. Era estate e ci divertimmo talmente tanto che i miei genitori mi permisero di rimanere qualche giorno a casa di mio cugino. Quella ragazzina irlandese mi fece girare la testa. Avevo una cotta tremenda e non facevo che cantarle ‘è il tuo cuore irlandese che voglio’”. Sorride e canta il refrain con smaliziata voce da crooner .
Ma le vecchie abitudini sono dure a morire. La sua stanza è piena di pagine scritte. Non sono pagine di narrativa, ma appunti, considerazioni, riflessioni, lettere. Una sua lettera indirizzata a Wikipedia per correggere alcune affermazioni errate su La macchia umana, ripresa dal sito web di The New Yorker ha sollevato reazioni furibonde. Di quelle reazioni non si cura. In fondo ora che non si considera più uno scrittore può scrivere quello che vuole per il semplice gusto di farlo.

Corriere 5.1.14
Maurizio Ferraris
Prima gli oggetti, poi le parole
di Pierluigi Panza


Riflettendo su sei parole, Invito, Resistenza, Oggetti, Realismi, Finzione e Possibilità, il filosofo Maurizio Ferraris cerca di mostrare come il mondo degli oggetti preceda e resista a ogni interpretazione. Realismo positivo (Rosenberg & Sellier, pp.110, e 10) raccoglie una serie di conferenze e costituisce un’anticipazione di un più ampio studio sulla «positività del reale». La tesi è che valgono le cose e non il pensiero sulle cose. Superare il trascendentalismo kantiano, però, non significa «sposare un realismo ingenuo che identifica l’esperienza con la realtà» e neppure un «realismo metafisico», bensì decostruire i nostri schemi preconcetti perché non possiedono valore costitutivo rispetto al mondo. La materia dura del mondo, è il carattere degli oggetti, che mostrano intenzionalità e resistenza. Gli oggetti sono indipendenti, imprevedibili, sanno fingere, si dispongono come campo di possibilità, e sono di due tipi: quelli naturali e quelli sociali, nei quali il realismo è temperato dal loro essere artefatti per la cui genesi abbisognano dei soggetti. Tra i lemmi declinati, Finzione è forse quello in cui Ferraris torna su temi trattati con sempre maggiore criticità. Anzitutto ribadisce la distanza della teoria dall’idea postmoderna e di Rorty della Filosofia come forma letteraria di persuasione. L’altro è quello della Derealizzazione, teorizzata da Vattimo sin da La società trasparente e alla quale Ferraris oppone tutto l’impianto del Realismo positivo.

Corriere 5.1.14
Campana, Canti Orfici da cent’anni
di Sebastiano Vassalli


Tra le ricorrenze del 2014 ce n’è una che è più bella delle altre, perché non riguarda l’anagrafe di un defunto ma i cento anni di un libro oggi più vivo che in passato: i Canti Orfici di Dino Campana. Stampato a Marradi nel luglio del 1914 dal tipografo Bruno Bavagli a spese (si fa per dire) dell’autore, che in realtà non ci mise un centesimo: ci fu una sottoscrizione organizzata dall’amico Luigi («Gigino») Bandini e sostenuta dal padre di «Gigino», il cavalier Augusto Bandini presidente della Società Operaia di Marradi. Molti sottoscrissero, pochi pagarono realmente: si sarebbero dovute stampare cinquecento copie, ma il tipografo che temeva di non essere pagato ne stampò di meno. Quante? Chissà. La rivista della Fondazione Mario Novaro, «La Riviera Ligure» di Genova, ha annunciato per questo centenario un numero speciale; la Compagnia Giardino Chiuso di San Gimignano riproporrà in vari luoghi lo spettacolo di Attilio Lolini, «Mi chiamo Dino… sono elettrico», tratto da un mio testo; ci saranno altre iniziative, alcune anche improvvisate e velleitarie, ma non importa. Quanti sono i libri di poesia del Novecento di cui si ricorda il centenario? Se li contiamo su una mano, avanzano due dita. Cento anni! La Grande Guerra era già incominciata, l’Italia era divisa tra interventisti e astensionisti e Dino si firmava «l’ultimo dei Germani». Un grande libro.

Corriere La Lettura 5.1.14
La storia che non passa
Usare la memoria a fini politici è una tentazione pericolosa che insidia anche le democrazie
di Marcello Floris


Il comportamento del premier giapponese Shinzo Abe, che il 26 dicembre si è recato al tempio di Yasukuni (dedicato alle anime dei caduti al servizio dell’imperatore, compresi centinaia di criminali di guerra), ha avuto un chiaro significato politico, come ha commentato subito dopo il corrispondente della Bbc a Tokyo: «Qualunque cosa dica Shinzo Abe, ogni visita al tempio Yasukuni da parte di un primo ministro giapponese è profondamente politica e tale da recare offesa».
Abe era ben consapevole di suscitare le proteste e il risentimento della Cina e della Corea del Sud, che ritengono quel santuario la glorificazione dei crimini di guerra giapponesi: e questo proprio nel mezzo di una crisi tra le due grandi potenze asiatiche relativa alle isole Senkaku (o Diaoyu per i cinesi). Il premier giapponese intende compiere una revisione profonda della Costituzione (la «Costituzione della pace» voluta, o imposta, dagli americani e considerata una umiliazione da parte di molti giapponesi) allo scopo di poter riarmare convenzionalmente il Giappone. Abe si era già recato in visita al tempio Yasukuni nell’aprile 2006, ma in forma privata; l’anno dopo, nel breve periodo in cui fu premier, si era trattenuto dall’andarci, visitando al suo posto il cimitero nazionale Chidorigafuchi, dove sono sepolti 350 mila soldati, non identificati, morti nel Secondo conflitto mondiale.
Il comportamento del primo ministro giapponese — sfruttare la storia per i propri interessi politici — non è certo nuovo: ogni leader prima o poi ha utilizzato, o cercato di utilizzare, la storia a vantaggio della propria immagine, del proprio programma, del proprio successo e consenso. L’atteggiamento di Abe ricorda in parte, con tutte le differenze evidenti, la scelta che l’allora presidente della Repubblica serba della Jugoslavia — Slobodan Miloševic — fece il 28 giugno 1989, parlando in Kosovo per ricordare i 600 anni della battaglia di Kosovo Polje. Il suo discorso, abilmente retorico e capace di infiammare non solo i più accesi nazionalisti, indicava nella mancanza di unità e nel tradimento le cause della sconfitta subita allora per mano dell’impero ottomano. E da lì sarebbe partita quell’offensiva nazionalista — prima culturale, poi sempre più politica e infine militare — che nei primi anni Novanta avrebbe portato nuovamente la guerra nel cuore dell’Europa.
Ricorrere alla storia per rafforzare i sentimenti nazionalisti e accentuare una polemica che tenda a radicalizzare i punti di vista differenti è una tentazione che spesso diventa una scelta, compiuta non solo dai nazionalismi aggressivi e militaristi, ma anche da quelli che si considerano progressisti o addirittura democratici. Però alcuni gesti fortemente simbolici sono stati capaci non solo di eccitare gli animi, ma di favorire la convivenza e la riconciliazione. Fu quella l’intenzione, ad esempio, del cancelliere tedesco Willy Brandt quando, in visita a Varsavia nel dicembre 1970, in maniera inaspettata si inginocchiò di fronte al monumento ai caduti della rivolta del ghetto avvenuta nel 1943, un gesto pubblico dal significato di profondo pentimento a nome dell’intera Germania.
In genere, tuttavia, il richiamo alla storia è fatto per cercare di suscitare emozioni identitarie, di fortificare l’appartenenza di gruppo e quindi l’estraneità o l’avversione a gruppi «altri» (Stati, nazioni, etnie, popoli). La crescente attenzione che la Catalogna ha dedicato, a partire dal 1980, alla data dell’11 Settembre (ricorrenza della caduta di Barcellona nel 1714, durante la guerra di successione spagnola) e le celebrazioni che si preparano il prossimo anno per il trecentesimo anniversario, sono parte non indifferente della politica indipendentista che il presidente catalano Artur Mas sta svolgendo negli ultimi anni per rafforzare il proprio potere. In Irlanda i nazionalisti radicali che si oppongono alla svolta di pace compiuta nel 1998 continuano a guardare alle domeniche di sangue (21 novembre 1920, 30 gennaio 1972), che hanno scandito la rivolta contro i britannici, come date da celebrare e ricordare. In Polonia il richiamo al massacro di Katyn (tra aprile e maggio 1940 oltre 20 mila ufficiali, sottufficiali e soldati polacchi prigionieri vennero uccisi dai sovietici in una foresta della provincia di Smolensk) ha costituito un momento importante della identità nazional-patriottica con una forte connotazione antirussa e antisovietica; ma i documenti relativi all’eccidio (e la loro pubblicazione) sono stati per vent’anni (dal 1990 al 2010) occasione di polemiche (e promesse e rimostranze) tra i due governi di Mosca e Varsavia, e tacciati addirittura da alcuni deputati della Duma come un falso costruito negli anni Ottanta da parte di Gorbaciov.
A volte le polemiche e strumentalizzazioni storiche avvengono quando è in atto un tentativo di offrire una visione della storia più ampia e corretta di quella che la maggior parte dell’opinione pubblica conosce. È il caso di due mostre che sono state presentate negli anni Novanta negli Stati Uniti e in Germania, la cui eco riaffiora spesso ancora adesso. Nel 1995 doveva aprire presso lo Smithsonian Institute una mostra sull’Enola Gay (l’aereo B-29 che aveva sganciato la bomba atomica su Hiroshima), ma nell’aprile 1994 24 membri del Congresso si espressero pubblicamente contro l’idea di ritrarre il Giappone «più come una vittima innocente che come uno spietato aggressore» nella Seconda guerra mondiale. Ne seguì un aspro dibattito tra associazioni di ex veterani e storici, che terminò con le dimissioni del direttore dell’Air & Space Museum su richiesta di 80 deputati e la soppressione della mostra (che riaprì in seguito presentando solo i resti restaurati dell’aereo e un riassunto del suo ruolo nell’aver costretto il Giappone alla resa).
In Germania, sempre nel 1995, aprì la mostra su «I crimini della Wehrmacht dal 1941 al 1944», che suscitò polemiche per avere coinvolto per la prima volta ufficialmente l’esercito nei delitti commessi dal nazismo. Le accuse di falsificazione rivolte alla mostra portarono alla sua sospensione e alla costituzione di una commissione di storici che stabilì infondate le accuse, anche se rimarcò la presenza di errori fattuali e inesattezze riguardo a diversi documenti. Una nuova versione della mostra venne approntata nel 2001, diventando poi permanente nel museo tedesco di storia, a Berlino.
Nel Capodanno 2013 il ministro argentino della Giustizia e dei diritti umani organizzò un asado (grigliata di carne) per duemila persone nei locali dell’ex Esma (il centro militare che era stato teatro di torture e uccisioni degli oppositori e che il presidente Kirchner aveva reso Museo della memoria dei crimini della dittatura nel 2004), con lo scopo di «ridefinire questo spazio usato come luogo di tortura e sterminio», ma venne accusato da molte associazioni umanitarie di mancanza di rispetto e offesa alla memoria delle vittime.
Il richiamo strumentale ai simboli positivi e negativi incardinati nella storia (ricorrenze, monumenti, celebrazioni, eroi e criminali) è per la politica una tentazione troppo forte per illudersi che essa possa farne a meno. Qualunque sia lo scopo che ci si prefigge, ciò che si tende a far prevalere è comunque l’aspetto emotivo e identitario, a scapito di una riflessione storica seria e pacata. Quando ciò si travasa anche nei libri di testo per le scuole — come è successo e in gran parte succede ancora in Giappone, dove prevalgono la lettura vittimista e il silenzio sui crimini commessi; o in Turchia, con riferimento al genocidio degli armeni, negato e ridotto ad autodifesa dal loro presunto tradimento o a conseguenza inevitabile delle violenze della guerra — l’uso politico della storia si avvicina e a volte supera il confine di una vera e propria manipolazione, prassi comune nei regimi autoritari e totalitari, ma tentazione spesso assai forte anche per le democrazie.

Corriere La Lettura 5.1.14
Galeazzo Ciano
Il capro espiatorio dei repubblichini
di Antonio Carioti


A Verona settant’anni fa, il 10 gennaio 1944, il genero di Mussolini, Galeazzo Ciano (nella foto) , e altri quattro gerarchi furono condannati a morte da un tribunale della Repubblica sociale italiana per aver votato il 25 luglio 1943, nel Gran consiglio del fascismo, l’ordine del giorno che aveva innescato la fine del regime e l’avvento del governo Badoglio. L’indomani vennero fucilati. Una vicenda che smentisce le rappresentazioni bonarie del fascismo, ma nel contempo ricorda che esso cadde per una crisi interna, senza che gli antifascisti contribuissero in alcun modo. Forse per questo non ci sono particolari iniziative per l’anniversario, tranne il convegno «L’ora della vendetta», organizzato a Verona il 10 gennaio dal locale Istituto per la storia della Resistenza. Qui il processo del 1944 sarà sviscerato sotto diversi aspetti: «Dal punto di vista giuridico — osserva Raffaele Iuso, uno dei relatori — fu solo una tragica farsa. Si pensi che il singolare reato di tradimento dell’idea, cioè del fascismo, per cui gli imputati vennero condannati, non era previsto dall’atto d’accusa con cui furono rinviati a giudizio. E i membri della corte furono scelti con criteri politici, tra i fascisti che avevano avuto problemi dopo il 25 luglio: si trattò di vendetta». Sul piano politico, nota un’altra relatrice, Dianella Gagliani, Ciano e gli altri furono le vittime sacrificali gettate in pasto ai duri della Rsi: «Molte voci fasciste reclamavano una sorta di grande purga per colpire i carrieristi e i profittatori che, durante il ventennio, avevano aderito al regime per interesse privato. Mussolini non voleva attuare un’epurazione simile, ma evitò di opporsi apertamente: ripeteva però che la vera urgenza era condurre la guerra con il massimo impegno. Il processo di Verona servì a placare gli oltranzisti, anche se non bastò a tutti. Il principale capro espiatorio fu Ciano, che non era stato squadrista e aveva condotto una vita gaudente. Molto più degli altri imputati, era il prototipo del traditore». Per questo Mussolini non cercò di salvarlo, nonostante le insistenze della figlia Edda, moglie di Ciano. «Molto istruttiva — riferisce un terzo relatore, Mimmo Franzinelli — è la trascrizione inedita del colloquio che il Duce ebbe con l’amante Claretta Petacci il 28 ottobre 1943, al loro primo incontro dopo la caduta del regime. Mussolini oscilla tra voglia di rivalsa e desiderio di fare un’eccezione per Ciano, ma s’intuisce che non muoverà un dito per il genero, perché perderebbe credibilità dinanzi ai fascisti intransigenti e ai tedeschi». E così fu: «Tutti odiavano Ciano nella Rsi — ricorda Dianella Gagliani — e lo volevano morto. Mussolini, per non uscirne indebolito, scelse di abbandonare cinicamente il genero al suo destino».

Corriere La Lettura 5.1.14
Soltanto la scienza può battere la scienza
Il caso Stamina, l’astrologia, le facili suggestioni che catturano gli individui
Manuale per vincere la propensione naturale ai pregiudizi cognitivi
di Stefano Gattei


MASSIMO PIGLIUCCI MAARTEN BOUDRY (a cura di) Philosophy of Pseudoscience. Reconsidering the Demarcation Problem UNIVERSITY OF CHICAGO PRESS Pagine 469, $ 35

«Il gioco della scienza — scrive Karl Popper in un celebre passo di Logica della scoperta scientifica (1935) — è, in linea di principio, senza fine. Chi, un bel giorno, decide che le asserzioni scientifiche non hanno più bisogno di alcun controllo, si ritira dal gioco». Come nel gioco degli scacchi: non si può decidere di punto in bianco che la torre si muove in diagonale, o a elle come il cavallo — altrimenti non si gioca più a scacchi, ma a qualcos’altro. Allo stesso modo, non si può fare scienza senza rispettare regole precise, stabilite convenzionalmente dalla comunità scientifica e perfezionate nel tempo attraverso un continuo lavoro di paziente affinamento. Se poi si tratta di farmaci o possibili terapie, seguire le regole previste diventa essenziale: per la riduzione dei rischi connessi a nuove terapie e la tutela dei malati, innanzi tutto; ma anche per garantire la massima efficacia e trasparenza, evitare sprechi di denaro e, cosa ancora più importante, prevenire gli abusi di millantatori e guaritori improvvisati, salvaguardando sia i malati (presenti e futuri) sia le casse dello Stato.
Il «caso Stamina», di cui si parla ininterrottamente da mesi, costituisce in proposito un caso particolarmente significativo. L’invito al governo italiano, da parte di esperti riconosciuti e istituzioni internazionali, è stato univoco: non utilizzare, o consentire, metodi di cura che non siano stati controllati e «validati» dalle autorità regolatrici, previa verifica di efficacia e sicurezza. Un invito al rispetto della regolamentazione vigente, dunque, e al riconoscimento della sua importanza.
L’ha detto con chiarezza Shinya Yamanaka, il medico giapponese vincitore nel 2012 del Premio Nobel per le sue ricerche sulle cellule staminali pluripotenti, a capo della Società internazionale per la ricerca sulle cellule staminali; lo ha scritto a più riprese la prestigiosa rivista «Nature»; lo ha ribadito l’Agenzia italiana del farmaco, e con lei scienziati e ricercatori italiani come Umberto Veronesi, Elena Cattaneo, Gilberto Corbellini e Paolo Bianco. Dietro a Stamina non c’è alcun «metodo», né terapia; non si usano neppure cellule staminali, né si producono neuroni. Concreti, sciaguratamente, sono solo i rischi ai quali vengono irresponsabilmente esposti i pazienti. Non è purtroppo una storia nuova. Ciò che più colpisce, però, non è la poca memoria, ma la facilità con cui, nel nostro Paese, si deroghi alle regole — e che a farlo siano spesso proprio coloro che quelle regole dovrebbero difendere e far rispettare.
Capita così che anziché lasciare l’ultima parola in tema di efficacia, inutilità o pericolosità di un trattamento ai ricercatori (medici e biologi), ci si lasci guidare dalla piazza, o trascinare da una «folla» di manzoniana memoria, fomentata magari da giornalisti improvvisati, comici e imbonitori catodici: come se il risultato di un esperimento scientifico e la valutazione del suo significato (si tratti di decidere della bontà di una terapia o del fatto se sia la Terra a girare intorno al Sole o viceversa) possa essere deciso a maggioranza, per alzata di mano. Ancora peggio, capita che anziché perseguire ciarlatani e truffatori, alcuni giudici arrivino a prescrivere d’ufficio un trattamento inutile, se non addirittura pericoloso, autorizzandolo come «cura compassionevole».
Ma il tema è più ampio, e va ben oltre il caso in questione, per quanto grave. Coinvolge infatti un vecchio problema della filosofia della scienza: la demarcazione tra scienza e pseudoscienza, cioè il problema di come distinguere tra discorso propriamente scientifico e tutto ciò che si presenta come scienza ma che, in realtà, non ne ha le caratteristiche. Come mostrano i saggi raccolti da Massimo Pigliucci e Maarten Boudry in Philosophy of Pseudoscience. Reconsidering the Demarcation Problem (The University of Chicago Press, 2013), il dibattito pubblico è spesso inquinato da due fenomeni, ugualmente perniciosi e fra loro strettamente legati: il rifiuto, da un lato, dei risultati ottenuti dalla scienza, quali la validità della teoria dell’evoluzione, o il ruolo dell’uomo nel cambiamento climatico; e l’accettazione acritica, dall’altro, di nozioni pseudoscientifiche, quali l’omeopatia, i fenomeni paranormali, l’astrologia, e quant’altro.
Non è solo una questione di alfabetizzazione scientifica: come osserva Pigliucci (autore anche di Nonsense on stilts. How to tell science from bunk , 2010), gli sforzi tesi a una migliore comprensione delle conquiste della scienza da parte di strati sempre più ampi della popolazione, pur importanti, devono essere integrati da un’attenzione altrettanto forte verso le fallacie in cui incorre frequentemente il linguaggio comune, i pregiudizi cognitivi e il ruolo svolto dall’ideologia. La prevenzione, per così dire, deve quindi operare su piani diversi: filosofico (pensiero critico e corretta argomentazione), psicologico (riconoscimento e discussione del preconcetto) e sociologico (intensità e dinamica della resistenza concettuale). Una maggiore consapevolezza di che caratteristiche abbia un ragionamento corretto, e di come sia possibile distinguere tra un argomento convincente e uno valido, consentirebbe di non cadere facilmente vittima di vuoti slogan e frasi a effetto (quali per esempio il «curarmi non è un reato» che si leggeva sulle magliette dei partecipanti a una recente manifestazione pro Stamina).
Non solo: come hanno mostrato recenti ricerche in campo psicologico, le persone hanno una propensione naturale verso un certo numero di pregiudizi cognitivi, alcuni dei quali spiegano come mai alcune delle fallacie logiche in cui spesso si incorre siano così comuni e persistenti (è il caso, per esempio, della fallacia del post hoc ergo propter hoc : dalla semplice successione temporale di due eventi non segue, necessariamente, che i due eventi siano fra loro correlati, o che il primo sia causa del secondo). Da ultimo, l’elemento forse più difficile da contrastare: il ruolo di forti preconcetti ideologici attraverso cui filtriamo praticamente ogni cosa, comprese quelle che dovrebbero essere nozioni scientifiche semplici e dirette. Il rifiuto della scienza e l’ampia diffusione di concezioni pseudoscientifiche affondano dunque le proprie radici in motivazioni variegate, che occorre affrontare nella complessità delle loro articolazioni. Politici e magistrati devono garantire la libertà e l’autonomia della ricerca, la competizione equa tra le idee e il rispetto delle sue regole, non occuparsi di stabilire la validità di una terapia o la verità di un’ipotesi astronomica. Devono, in altre parole, perseguire gli abusi — e impedire che le regole introdotte con il solo scopo di prevenire questi stessi abusi siano aggirate. A ben guardare, accanto ai suoi meriti scientifici l’eredità più grande di Galileo è stata quella di aver guadagnato alla scienza, attraverso la propria vicenda personale, il diritto all’errore: la scienza può certamente sbagliare, e anzi trae la propria linfa dalla capacità di imparare dai propri errori. Ma a giudicare questi errori devono essere soltanto gli scienziati, senza ingerenza alcuna. Nel pieno rispetto delle regole stabilite dalla stessa comunità scientifica.

Corriere La Lettura 5.1.14
Medici e pazienti: 8 minuti insieme sono troppo pochi
di Giuseppe Remuzzi


Otto minuti soltanto: è il tempo che i giovani medici dedicano a ciascun ammalato, ogni giorno, almeno negli Stati Uniti. Come lo sappiamo? Leonard Feldman che lavora al John Hopkins — uno degli ospedali americani più rinomati — ha seguito l’attività di 29 medici appena laureati nel loro primo anno di lavoro e ha confrontato i dati di adesso con quelli di dieci anni fa (quando negli Stati Uniti avevano deciso che i giovani medici non potessero essere impegnati in turni di guardia per più di 16 ore di fila). Viene fuori che i giovani medici passano la maggior parte del tempo a compilare cartelle cliniche elettroniche, ordinare esami di laboratorio e radiologici e in una serie di altre attività che li tengono di fatto lontani dagli ammalati. E quanto stanno nella stanza di chi è ricoverato? «Poco, pochissimo — commenta Feldman — appena il 10% del tempo», anche se nemmeno lui sa di preciso quanto debba essere il tempo giusto da passare con gli ammalati.
Certo è che a confronto con il tempo che i residents passavano con gli ammalati nel 1993 — che arrivava al 22% — o anche solo nel 2003 — che era intorno al 15% — quello di oggi è davvero poco. Per gli ammalati, certamente, che vedono il medico per pochissimi minuti al giorno, e passano il resto della giornata a pensare a quando lo vedranno ancora. Ma anche per i medici che se stanno vicino agli ammalati per così poco tempo alla fine non avranno mai l’esperienza che serve per saper ascoltare i pazienti e discutere dei loro problemi; cose queste che aiutano moltissimo ad arrivare alla diagnosi giusta e a trovare la cura.
Passare un po’ di tempo con gli ammalati è anche l’unico modo per imparare a parlare con loro. È un’arte, quella di parlare con gli ammalati, ma da noi è arte di pochi. E non basta, ci sono diversi studi che dimostrano che più tempo si passa con gli ammalati, più li si ascolta, più si parla con loro meno si sbaglia.
Così negli Stati Uniti, e da noi? Stessa cosa. I giovani medici oggi sono certamente molto più preparati di quanto non fosse chi si è laureato dieci o vent’anni fa. Qualcuno di loro ha addirittura tutta la medicina nell’iPhone, e là dentro ci sono più informazioni di quante ce ne possano stare nel cervello di mille bravi medici. Non c’è più bisogno di passare ore in biblioteca per documentarsi, e uno potrebbe pensare che adesso c’è più tempo per gli ammalati. Non è così. Anche nei nostri ospedali i giovani medici passano con ciascun ammalato al massimo otto minuti al giorno (talvolta addirittura meno); il resto del tempo lo passano davanti al computer.
Altro paradosso. Mentre un tempo tutto quello che ruotava intorno al malato — dalla cartella clinica alle prescrizioni di esami e di farmaci — si faceva sulla carta, oggi i medici devono fare i conti con l’informatica senza però che ci sia, con poche eccezioni, un’organizzazione che consenta di farlo in modo efficace e in tempi ragionevoli. Un po’ perché i sistemi che si adoperano sono inadeguati e non dialogano fra loro, un po’ perché quasi nessuno ha fatto lo sforzo di progettare l’informatizzazione degli ospedali in rapporto alle esigenze degli ammalati piuttosto che alle esigenze di chi ci lavora (quelli dell’accettazione, i laboratoristi, i radiologi, i farmacisti e tanti altri). Vuol dire che dobbiamo tornare alla carta? Niente affatto. I sistemi informatici stanno cambiando la medicina e aiutano a migliorare i risultati delle cure e a sbagliare di meno; a patto però che siano stati sviluppati e pensati almeno in parte con chi li deve usare. Dove ci sono sistemi poco flessibili e pensati per altre applicazioni i tempi si allungano, si arriva a sera e i nostri ragazzi si accorgono che per gli ammalati non c’è più tempo. E allora tante volte ci si affida a un foglio, lo chiamano «consenso informato». L’ammalato lo deve leggere — in fretta e furia — e poi firmare prima di certe procedure: è per saperne di più e per decidere se farsi fare quell’esame o quell’intervento chirurgico. Lo si deve far firmare per legge; a me quel foglio non è mai piaciuto. Preferirei che fra l’ammalato e il suo dottore ci fosse un patto non scritto, fatto di decisioni prese insieme, giorno per giorno, e di responsabilità da condividere. Per questo però serve tempo e anche un po’ di pazienza. Il tempo di provare almeno un po’ a mettersi dall’altra parte, cercare di capire cosa ha in testa, di cosa ha bisogno e cosa si aspetta la persona che hai di fronte. Che in quel momento vorrebbe chiederti tante cose, ma non c’è tempo… e c’è l’emozione (un po’ come per il sarto dei Promessi sposi che, troppo emozionato a vedersi davanti il cardinale Borromeo in persona, alla fine riesce a dire solo «si figuri»). Anche per i nostri ammalati è così. Certe volte si emozionano, si agitano, si impappinano. Al momento buono, dopo aver passato magari una mattina intera a pensarci non riescono a dirci nulla. «Sarà per un’altra volta», se ci sarà tempo.

«Le istituzioni accademiche che ospitano gli Istituti Confucio invitate  a chiudere i rapporti con loro»
Corriere La Lettura 5.1.14
I morsi del protezionismo accademico
di Marco Del Corona


Nella sua assemblea di dicembre, l’associazione canadese degli insegnanti universitari (Caut) ha invitato formalmente le istituzioni accademiche che ospitano gli Istituti Confucio a chiudere i rapporti con loro. I centri che Pechino ha disseminato nel mondo per diffondere la cultura cinese «hanno voce in capitolo in molti aspetti della vita universitaria» e «quest’interferenza è una fondamentale violazione dell’attività accademica». Inoltre, ha aggiunto il presidente dell’associazione James Turk, «costituiscono l’emanazione di un governo autoritario e sono vincolati alla sua politica».
In ottobre, invece, l’All Souls College di Oxford aveva invitato un eminente storico algerino, Sid-Ahmed Kerzabi. Tuttavia le autorità consolari britanniche non gli hanno concesso il visto necessario per il viaggio perché Kerzabi, ex direttore di un parco nazionale e di un museo di Algeri, 81 anni, non era stato in grado di dimostrare di non avere intenzione di stabilirsi in Gran Bretagna. I due accademici inglesi che avevano organizzato la conferenza di Kerzabi hanno spiegato che il mancato viaggio avrebbe danneggiato le loro ricerche e quando il «Guardian» ha denunciato l’episodio ha sintetizzato: è come negare il visto al capo del British Museum.
Si tratta di due episodi non paragonabili. Che però segnalano l’esistenza di un fenomeno figlio dei tempi per nulla rassicurante: il protezionismo accademico. Un’attitudine dal sapore paradossale in tempi globalizzati in cui per esempio — dati dell’Institute of International Education — le iscrizioni di studenti cinesi negli Usa nel 2012-13 sono aumentate del 21,4% sull’anno prima, arrivando a 235.597. Eppure anche il sapere, e dunque le università, sono ormai terreno di competizione tra potenze e aspiranti tali: uno scenario all’interno del quale i movimenti dei docenti rappresentano variabili che si può cercare di gestire, manovrare, bloccare. Si aggiungano, inoltre, sia la concorrenza fra istituzioni accademiche che hanno visto allargarsi su scala mondiale i loro bacini di utenza sia gli interessi economici (per non parlare dei freni alla libertà accademica nei Paesi autoritari).
Non è un passaggio facile. Certi sgarbi e intoppi sono dissimulati: la burocrazia offre alibi a ogni cattiva intenzione. E lo stesso esempio canadese può prestarsi a una lettura doppia: l’obiezione dei docenti è legittima e sensata (gli Istituti Confucio dipendono dal governo, è un dato di fatto) ma qualche argomento a propria difesa potrebbero spenderlo pure i cinesi. Tuttavia, che dopo i protezionismi commerciali e culturali si debba imparare a prendere atto del protezionismo accademico pare mestamente inevitabile.

Corriere La Lettura 5.1.14
Libertà sessuale e libertà religiosa. Un matrimonio necessario (e fecondo)
La sentenza anti-omosessualità in India e le nozze gay in Uruguay esemplificano gli estremi di un dibattito ormai giunto a una scala globale
di Marco Ventura


Il 20 luglio 2003, il pastore svedese Åke Green spiegò ai suoi cinquanta parrocchiani l’insegnamento della Bibbia sull’omosessualità. «Le anormalità sessuali sono per l’intera società un gravissimo cancro», disse dal pulpito; ma il riscatto è possibile, aggiunse: gli omosessuali possono essere liberati dal «diabolico potere» dell’istinto. In un crescendo di citazioni bibliche, Green srotolò un catalogo di orrori: dai guasti di cui è origine l’appetito sessuale, Aids in testa, al rischio di una legalizzazione delle unioni omosessuali che avrebbe condotto «a disastri senza precedenti». Green inviò alla stampa il suo sermone. La pubblicazione infiammò il pubblico. Il pastore pentecostale fu denunciato per incitamento all’odio contro gli omosessuali. Condannato in primo grado a un mese di prigione, Green venne prosciolto nel 2005 dalla Corte suprema. I giudici svedesi non rinvennero nel sermone i tratti di un vero e proprio invito all’odio; non s’imponeva di conseguenza una sanzione che avrebbe violato la libertà di predicazione di Åke Green e la sua libertà religiosa.
Il caso del pastore pentecostale fornisce una bussola per orientarsi nel bombardamento di notizie. Solo negli ultimi giorni, l’Uruguay veniva premiato dall’«Economist» come Paese dell’anno anche in virtù della legalizzazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, mentre la Corte suprema indiana confermava la costituzionalità del divieto penale di atti «contro l’ordine naturale» e il Parlamento dell’Uganda approvava una legge che, se firmata dal presidente, punirà l’omosessualità con pesanti pene detentive. Le tensioni non si limitano ai cosiddetti Lgbt rights , ovvero ai diritti di lesbiche, gay, bisessuali e transgender. Anche sul matrimonio eterosessuale, la questione è aperta. L’India è agitata dal dibattito sui diritti delle musulmane ripudiate e delle indù divorziate. Papa Francesco alimenta aspettative e timori circa le regole canoniche da applicarsi in caso di convivenza extramatrimoniale, di divorzio civile e di nullità del vincolo coniugale pronunciata dai tribunali ecclesiastici. Ai funerali di Mandela, il presidente Zuma e le sue mogli testimoniavano il riscatto della poligamia consuetudinaria. Si celebrava così il Sudafrica che ha dimenticato il divieto di matrimoni interrazziali e in cui i giudici costituzionali hanno reso legale il matrimonio omosessuale nel 2005. Intanto, la Corte suprema del Regno Unito riconosceva anche a Scientology il diritto di celebrare matrimoni validi civilmente.
Il flusso d’informazioni ci sommerge. La profondità dei cambiamenti, la loro eterogeneità, ci disorienta. Simpatizziamo di volta in volta con una causa e un personaggio, vediamo le strategie dei portatori d’interessi, ma fatichiamo a comporre un quadro d’insieme. È possibile andare oltre il frammento, la notizia del giorno, il tema controverso di turno, la specificità locale? Sì, è possibile. Ed è necessario. Giacché un fascio di fili collega i fatti e le decisioni, e dobbiamo vedere quei fili, se vogliamo capire i fatti e prendere con cura le decisioni. Åke Green ci aiuta. Come nel caso svedese, la tensione su sessualità, famiglia e matrimonio dipende dal conflitto tra libertà religiosa da un lato e libertà sessuale dall’altro.
Nessuna delle due libertà è univoca, nessuna è indipendente dall’altra. Si servono della libertà sessuale il pedofilo per abusare del minore e il marito per violentare la moglie. Si serve della libertà religiosa l’autorità confessionale per condonare il pedofilo e il marito violento. Al contempo, è la libertà religiosa che consente ai cristiani del Kerala di predicare la dignità della donna; è per la libertà sessuale che scendono in piazza le donne di Mumbai e di Kochi. Qui l’umanità è sfidata: sulla libertà religiosa e sessuale. Su ciò che può essere diverso da noi e da voi, nell’arcobaleno di dèi e culture, e su ciò che dobbiamo condividere, e rispettare, su ciò per cui non esiste un «noi e voi». Nella decisione «antigay», la Corte suprema indiana ha dovuto fare i conti con l’origine britannica della norma in discussione. I giudici di Delhi hanno ricordato la legge anti-sodomia di Enrico VIII, del 1533, grazie alla quale finiva in mano al boia chi commetteva «atti sessuali innaturali contro la volontà di Dio e dell’uomo». Pochi mesi dopo, lo stesso sovrano si ribellò alla sovranità del Papa sul matrimonio, negò il diritto di un capo religioso straniero di decidere sulla sua libertà di sposarsi e consumò così lo scisma da cui nacque la Chiesa d’Inghilterra.
Nella legge anti-sodomia il re si ergeva a tutore della morale; nella legge di supremazia, il sovrano diveniva il sommo protettore della religione. Le due leggi erano inscindibili. Di questo equilibrio di potere e libertà, di religione e sessualità, si tratta ancora oggi, a ogni latitudine, in ogni fede e cultura. L’articolo controverso del codice penale indiano, salvato per ora dai giudici, sbatte in galera chi si macchi di «rapporto carnale contro l’ordine naturale». Gli attivisti per i diritti gay hanno denunciato la norma, che risale al 1860, per il suo contenuto coloniale d’epoca vittoriana, sinonimo d’una morale «ebraico-cristiana» estranea alla cultura indiana.
Viceversa le associazioni islamiche, cristiane e indù per la difesa dell’ordine naturale hanno tratto ispirazione dalla strenua opposizione dei giudici cattolici Scalia e Thomas alla storica decisione con cui la Corte suprema degli Stati Uniti, nel 2003, ha sancito l’incostituzionalità della legge antisodomia del Texas. Per Scalia e Thomas, come per i militanti indiani contrari ai diritti Lgbt, lo Stato deve proteggere la morale sessuale maggioritaria. I giudici indiani, stretti tra i due fuochi, hanno difeso la specificità indiana della norma antigay. Non prendiamo lezioni «alla cieca» dall’Occidente, ha scritto il giudice Singhvi, estensore della sentenza. L’India ha bisogno della pena di morte, ha precisato; l’India non obbliga le donne coniugate ad avere rapporti sessuali, ma non riconosce loro il diritto di abortire; l’India accetta la pratica dei matrimoni combinati. Il Parlamento, dunque, ha facoltà di abolire la norma antigay del 1860; ma essa non è incostituzionale.
Libertà religiosa e libertà sessuale sono decisive. È decisivo il modo in cui esse coesistono e si combinano. Lo scorso 24 giugno l’Unione Europea ha varato le sue linee guida di politica estera per la tutela al contempo della libertà di religione e convinzione e dei diritti alla differenza sessuale. Davanti a trasformazioni e conflitti di grande portata, una politica di promozione della libertà religiosa e della libertà sessuale, in armonia con i diritti della persona, non può salvare il mondo. Può tuttavia mettere il dito nella piaga e indicare la strada. Un’associazione indiana intervenuta nel processo ha ricordato ai giudici di Delhi l’antico detto sanscrito «tu sei polvere e polvere ritornerai». Abbiamo bisogno di libertà perché le religioni esprimano la loro saggezza sulla sessualità. E per combattere chi trasforma quella saggezza in pretesto per opprimere l’altro.

Corriere La Lettura 5.1.14
La rivista «Oasis»
L’ateismo dell’Europa è avariato
di Luigi Accattoli


L’ateismo ha vinto o ha perso? «Oasis», semestrale multilingue voluto dal cardinale Angelo Scola, dedica il 18° fascicolo al destino delle religioni strattonate «tra secolarismo e ideologia». In tanti illustrano i guai che da quel conflitto derivano sia all’ateismo sia alle religioni, ma i testi provocanti sono l’editoriale di Scola e un saggetto di Rémi Brague intitolato «L’ateismo al capolinea». «Questo ateismo ha fallito» afferma con invidiabile sicurezza lo studioso francese di filosofia medievale e araba che nel 2012 ebbe il Premio Ratzinger per la teologia. Questo ateismo: cioè quello agnostico dell’Europa post-moderna, che pareva aver trionfato nella scienza e in politica, mostrando di poter spiegare il mondo e organizzare la società senza ricorrere all’ipotesi Dio. Ma per Brague quest’uomo che comprende se stesso come «essere supremo» si rivela «incapace di trovare le risposte» di cui ha bisogno, fino a quella più radicale sul «perché è bene che egli sia». Domanda filosofica ma anche pratica, insiste lo studioso, essendo oggi l’umanità in grado di distruggere se stessa con il nucleare, l’inquinamento, la contraccezione. L’obiezione di Brague all’ateismo è simile a quella che Papa Benedetto dal suo silenzio ha appena mandato a Piergiorgio Odifreddi in risposta al volume Caro Papa ti scrivo (Mondadori, 2011): «L’amore, nel Suo libro, non compare e anche sul male non c’è alcuna informazione». Tornano le grandi dispute e conviene aggiornarsi.

Repubblica 5.1.14
La conquista dello Spazio
Chi vincerà il risiko del Terzo Millennio
di Elena Dusi


Le bandiere di Usa e Urss non sono più sole sulla Luna. Anche il rosso cinese si staglia ora contro la polvere delsinus iridum, o mare dell’arcobaleno, con le sue stelle dorate stampigliate sul rover battezzato yutu, o Coniglio di Giada. Né l’enorme balzo di Pechino è destinato a restare isolato, accompagnato com’è (e come sarà) dai controbalzi indiani, americani, giapponesi, coreani, russi, europei, iraniani. Il nuovo risiko dello Spazio, insomma, non è più un braccio di ferro fra due superpotenze. Riflette piuttosto un mondo sfaccettato in cui soprattutto Cina, India, Giappone e Corea del Sud si sfidano a colpi di sonde per la supremazia in un’Asia mai sazia di affermazioni. E in cui gli Usa sono a caccia della vita su Marte, ma hanno bisogno di un passaggio (pagato a caro prezzo) dalle navicelle russe Soyuz per raggiungere la loro stazione spaziale. Quanto all’Europa, gioca a fare il terzo incomodo e confida che alla fine sarà lei, con ExoMars, a trovare le tracce di vita sul pianeta rosso. Perfino l’Iran si industria per portare un uomo in orbita: il 14 novembre Teheran ha completato un test spedendo in orbita una scimmia, poi tornata sana e salva.
Resi meno espliciti (ma non del tutto assenti) gli obiettivi militari, la nuova corsa dello Spazio assomiglia più a una passerella multicolore in cui ciascun paese porta la sua livrea e il suo prestigio. A mezza bocca però emerge fra le ambizioni dei paesi che rivolgono gli occhi all’insù l’idea di trovare su Luna o asteroidi le risorse minerarie che sulla Terra scarseggiano. La sonda Rosetta dell’Agenzia spaziale europea proverà ad “abbracciare” la cometa 67P nel novembre 2014, avvicinandosi lentamente e poi calando sulla sua superficie una sonda grande come un barile. La Nasa sta studiando una speciale tuta spaziale per permettere agli astronauti di lavorare (presumibilmente alla ricerca di materie prime) sui pianetini che continuamente si incrociano nel sistema solare. Il deficit di tecnologia è ancora enorme, ma la nuova corsa allo Spazio è una gara per riuscire forse un giorno a identificare, scavare e riportare sul nostro pianeta minerali preziosi che farebbero fare un balzo ineguagliabile — e molto terreno — al paese vincitore.
In attesa di tempi più redditizi, al momento dalle missioni spaziali si cerca di ricavare prestigio. «Una nuova gloria che la Cina ha dato all’umanità»: così l’agenzia giornalistica stataleXinhuaha celebrato l’allunaggio della sonda Chang’e-3, il 15 dicembre 2013. Senza attendere nemmeno una giornata, Pechino ha subito annunciato missioni più ambiziose. Nel 2017 una sonda cinese vorrebbe posarsi sulla Luna, raccogliere campioni di suolo e riportarli sulla Terra. Intorno al 2020 un taikonauta potrebbe tornare a saltare in mezzo alla magnifica desolazione. Nel frattempo il gigante asiatico punta a replicare quella stazione spaziale internazionale americana che — pur rivelatasi poco utile e molto dispendiosa — rappresenta pur sempre un capolavoro di ingegneria.
La Luna? Troppo vicina, scuotono le spalle alcuni. La vera sfida del risiko dello Spazio sarebbe Marte. Mentre il Coniglio di Giada viaggiava verso il satellite, la sonda indiana Mangalayaan usciva dall’orbita terrestre per lanciarsi nei 400 milioni di chilometri e 300 giorni di viaggio necessari a raggiungere il pianeta rosso (arrivo previsto per settembre 2014). Lì la missione studierà dall’orbita l’atmosfera e il suolo di Marte. E la sfida non si riduce al fatto che dagli anni ’60 a oggi quasi due missioni su tre, fra quelle dirette al più adatto alla vita fra i pianeti del sistema solare, sono fallite. L’India ha allestito anche una delle meno dispendiose missioni spaziali della storia. Peccato che l’utilitaria Mangalayaan (73 milioni di dollari) sarà sorpassata lungo l’autostrada Terra-Marte dalla super-sonda americana Maven, decollata da Cape Canaveral il 18 novembre e costata 671 milioni di dollari. L’obiettivo vicino delle missioni su Marte è capire perché il pianeta rosso, un tempo ricco d’acqua e temperato si sia ridotto a un deserto privo di atmosfera. Ma alle potenze in corsa nello spazio non manca un obiettivo più ambizioso (la Nasa parla del 2030 od oltre): portare un uomo a calpestare la polvere della vera nuova frontiera del sistema solare. In questa competizione, al momento gli Usa non sembrano avere veri rivali. Mosca con Marte ha sempre avuto poca fortuna. Una missione cinese nel novembre 2011 (in cui la sonda era trasportata da un razzo russo) non è riuscita nemmeno a staccarsi dall’orbita terrestre. Una simile umiliazione era capitata dieci anni fa al Giappone. A rimarcare un’altra differenza con la Guerra fredda, la nuova corsa allo Spazio oggi procede in un clima di diplomazia almeno formale. Fanno eccezione Stati Uniti e Cina. Nel 2011 il Congresso Usa ha approvato una legge che vieta ogni contatto con gli scienziati di Pechino. Eppure il gigante asiatico resta l’unico oltre a Usa e Urss ad aver effettuato un atterraggio morbido sulla Luna e ad aver portato l’uomo nello spazio e si candida a diventare la vera terza potenza nell’esplorazione del sistema solare. A luglio di quest’anno, in vista dell’arrivo dei cinesi sul satellite, il Congresso Usa si è affrettato ad approvare una seconda legge, questa volta per proteggere i siti dove allunarono gli Apollo. Per questi appezzamenti di polvere varranno d’ora in poi le stesse regole dei parchi nazionali americani. Mancano solo i ranger con il cappello.

Repubblica 5.1.14
Balestrini: “La lingua abolisce la sintassi”
intervista di Antonello Guerrera


Il fondatore del Gruppo 63: “Per cambiare la letteratura rinunciammo alle regole. Ma Twitter non è avanguardia”
Nel 1969 Vladimir Nabokov, in un’intervista al New York Times (poi raccolta in Intransigenze, Adelphi), disse: «Molte volte penso che dovrebbe esistere uno speciale segno tipografico per indicare un sorriso». Gli sms e i social network ci avrebbero travolto solo trent’anni dopo. Ma lo scrittore di Lolita aveva già immaginato l’emoticon. Nabokov fantasticava su una cosa del genere: “:–)”. Segni di interpunzione che dunque si animano, rompono le catene, vogliono la scena. Come i due punti che «spalancano la bocca: guai allo scrittore che non la riempie di cibo nutriente», scriveva Karl Kraus. O il punto esclamativo quale «indice minacciosamente alzato» di Theodor Adorno. Segni che oggi assumono sempre più valore semantico nella comunicazione che sfreccia in chat, su Facebook e Twitter. Del resto, persino Walter Siti, ultimo premio Strega, ha di recente ammesso di preferire, talvolta, il trattino al punto – perché meno tranchant. Allo stesso tempo, c’è chi ha rinunciato da anni alla punteggiatura, come lo scrittore Nanni Balestrini. «Ma io lo faccio per uno scopo ben preciso», dice lo storico esponente del Gruppo 63.
Quale, Balestrini?
«Io immagino sempre i miei testi narrati da una voce, che parla. E la mia preoccupazione è che il testo dia al lettore l’idea dell’oralità, non della scrittura. Per questo ho abolito la punteggiatura. La lingua parlata se ne frega della sintassi. Il lettore deve avere l’impressione di un vero parlato. Ricorda i “tre puntini” di Céline?».
Sì, i “binari emotivi” della sua scrittura.
«Esatto. Per me, anche se ci ho rinunciato, è lo stesso concetto. Poi, certo, è diverso quando scrivo saggi o articoli. Non me la sono mica dimenticata la punteggiatura. Ma in quel caso la uso per comunicare. La letteratura è qualcosa di diverso».
Sta dicendo che la letteratura non deve saper comunicare?
«C’è una grande differenza tra la scrittura per comunicare e quella per creare. Si tratta di due mondi diversi. La letteratura non deve essere messa in relazione con altro. Deve essere lasciata libera di esprimersi, anche senza punteggiatura».
Ma non crede che, in un’epoca come la nostra, travolta da flussi di notizie e informazioni, qualche punto in più possa dare ordine?
«Certo, con la punteggiatura si comunica meglio. E poi io non la rinnego in toto, nemmeno per i miei romanzi».
Cioè?
«Dovessi scrivere un romanzo in terza persona, in futuro, potrei ricominciare a utilizzarla. Perché no?».
Moravia – nella circostanza malato – scrisse Gli indifferenti senza punteggiatura, aggiunta solo in un secondo momento.
«Esatto. E lo stesso capitò con il Notturno di D’Annunzio, abbozzato su lunghe strisce di carta quando era momentaneamente cieco. Perché, sa, si fa molta fatica a scrivere senza virgole e punti. Paradossalmente, è molto più difficile».
E ammetterà che è più arduo anche per molti lettori alle prese con “flussi” come i suoi, o quelli di Joyce e Saramago.
«Ma io lo faccio perché voglio mettere il mio lettore in difficoltà. Non che mi ascoltino tutti. Mi bastano i miei di lettori».
Lei, da fondatore del Gruppo 63, non crede che le nuove accezioni della “punteggiatura da social network” possano rappresentare una sorta di neoavanguardia?
«No. La punteggiatura è materiale statico. Puro stile. Ci vuole altro per lasciare il segno. Le vere avanguardie hanno ben altra genesi e impatto. Negli ultimi anni con i romanzi si è invece andati indietro. Tutti gli esperimenti oramai sono stati ripresi. Non vedo niente di nuovo in giro. La punteggiatura e la narrativa stanno diventando sempre più piatte, piane, convenzionali. Ma la colpa non è solo della nostra epoca. Anche gli editori oggi rischiano molto di meno. Sono molto più conservatori che in passato».
Questo fenomeno del punto “freddo e aggressivo” è curioso, però.
«È degno dei nostri tempi. Ma non credo che investa la scrittura in generale».
Perché?
«Perché è un fenomeno legato allo specifico mezzo di comunicazione. Anche quando c’erano i telegrammi, si utilizzavano altre formule, un altro stile. Gli “stop”, gli spazi, ricorda? Ma tutto questo ha avuto poco a che fare con la lingua vera e propria».
Però, rispetto ai telegrammi, chat e social media oggi vengono utilizzati in misura decisamente più ampia.
«Sì, ma mi sembra esagerato dire che influenzino la scrittura in generale. C’è un’eccessiva infatuazione per questi nuovi media. Ma fa parte dell’esibizionismo e del narcisismo insiti in tali piattaforme».
Addirittura?
«Ma sì. Da quello che vedo io, Internet riunisce gruppetti, cerchie di persone, comunità. Ma, nel suo spezzettamento, è molto difficile che una novità linguistica attecchisca in un intero Paese. Come invece è successo con la televisione durante il boom economico, che ha cambiato e uniformato enormemente la lingua italiana. Il cambiamento non passa per Twitter e le chat».

«Fra gli altri viene ignorato il millesettecentesimo anniversario dell’evento costitutivo dell’identità culturale dell’Occidente: l’editto di Costantino»
Repubblica 5.1.14
Gli anniversari ricordati e quelli dimenticati
di Piergiorgio Odifreddi


Nell’anno che si è appena concluso abbiamo più volte rievocati gli anniversari di momenti significativi del passato, per non dimenticarli e cogliere l’occasione di parlare degli eventi ad essi collegati. Ad esempio, vent’anni fa nasceva il Web, e Andrew Wiles dimostrava l’ultimo teorema di Fermat. Cinquant’anni fa Paul Cohen dimostrava l’indipendenza dell’ipotesi del continuo. Sessant’anni fa Jim Watson e Francis Crick scoprivano la struttura a doppia elica del Dna, e Rita Levi Montalcini il fattore di crescita nervosa.
Ottant’anni fa il premio Nobel per la fisica veniva assegnato a Erwin Schrödinger e Paul Dirac, per l’equazione chiave della meccanica quantistica. Cent’anni fa Niels Bohr scopriva il modello solare dell’atomo, e nasceva il genio solitario Paul Erdös. Duecento anni fa moriva Joseph-Louis Lagrange, e trecento anni fa nasceva Denis Diderot.
La nostra lista è stata un po’ idiosincratica, e ovviamente poteva essere diversa e continuare a lungo. Ma prima di dichiararla conclusa, e rivolgerci nell’anno nuovo ad altri anniversari, non possiamo dimenticare quello più venerabile e fondamentale, passato stranamente sotto silenzio nel 2013.
Si tratta del millesettecentesimo dell’evento costitutivo dell’identità culturale dell’Occidente: l’editto di Costantino, che nel febbraio 313 aprì le porte dell’impero romano al cristianesimo. Se esse fossero rimaste chiuse, l’Europa di ieri non avrebbe avuto i secoli bui, le crociate, l’inquisizione, l’indice dei libri proibiti, e i processi a Giordano Bruno e Galileo. E l’Italia di oggi non avrebbe avuto un Concordato, e i referendum sul divorzio, sull’aborto e sulla procreazione assistita. C’è da stupirsi, che non si sia festeggiato questo anniversario?

Repubblica 5.1.14
Rileggere T. S. Eliot insieme a Raffaele La Capria
di Nadia Fusini


Raffaele La Capria rende in italiano l’originale inglese di uno dei grandi testi del Novecento: i
Quattro Quartetti di T. S. Eliot. Lo fa confidando nella capacità istintiva di cogliere la densità della lingua eliottiana: «Con la nostra devota impreparazione, con la nostra ammirata intuizione », confessa, «lo scoprimmo anche senza capirlo, lo capimmo anche fraintendendolo». La Capria si intona così alla teoria di Harold Bloom, secondo cui l’atto della lettura è sempre anche una “mislettura”, una incomprensione creativa. E soprattutto dimostrando con questa bellissima traduzione che la lingua bisogna non “possederla”, ma piuttosto “sentirla”, se si vuole “scrivere”. E tradurre è scrivere, umilmente intonarsi alla parola dell’altro (poeta), in una devozione a quell’Altro, che è sempre e comunque la Lingua.
IQuattro Quartetti, scritti tra il 1935 e il 1942, senz’altro il vertice del Modernismo europeo e americano, arrivano nella Napoli occupata nel 1944. Nella Napoli di Sciuscià, nella Napoli sguaiata di Zazà, un gruppo di giovani legge il nuovo poema eliottiano e due di loro (La Capria e Tommaso Giglio) si applicano a tradurre Little Gidding, l’ultimo dei quartetti, dove dei quattro elementi si celebra il fuoco, delle quattro stagioni quella paradossale di una primavera nel cuore dell’inverno, e nell’immagine della Pentecoste il dono di una lingua, che è vincolo al divino. Perché questo è il logos per il poeta convertito alla Chiesa apostolica romana: non “ragione”, ma “religione”, nel senso autentico di un legame che stringe l’uomo alla Parola divina.
È il paradosso che d’intuito La Capria, giovane «di sinistra», coglie: Eliot è «di destra», ma lo affascina; è insieme avanguardia ereazione e non a caso dal nuovo mondo americano torna in Europa; è l’espressione di una aristocrazia plebea, che non crede nella democrazia, e non a caso si fa monarchico. Non si può davvero pensare che conti allo stesso modo l’opinione di ciascuno, ragiona Eliot: l’uomo naturale è “cattivo”, e va “corretto”; all’anima dell’uomo in democrazia accade qualcosa di tremendo, vince una pigrizia spirituale, una stolida apatia della mente, da cui fioriscono populismi e totalitarismi. È quel che accade negli anni in cui il poeta scrive (e ora si ripete?).
Dai versi dei quartetti, tradotti oggi integralmente da La Capria in una preziosa collana intitolata “Gli Unici” per Enrico Damiani Editore, si levano suggestioni che ci convincono che è tempo di rileggere Eliot. La Capria riascolta questo poema tardo, in cui si incarna l’angelo della storia di Benjamin, travolto dai venti tempestosi... L’angelo vorrebbe trattenersi, destare i morti, riconnettere i frammenti, ma la bufera si impiglia tra le sue ali e non può chiuderle. E va avanti, con la testa però rivolta all’indietro.

IL LIBRO Quattro quartetti di Thomas Stearns Eliot (Enrico Damiani editore trad. di Raffaele La Capria pagg. 130, euro 90, con cd)

Repubblica 5.1.14
La religiosità di Orfeo nascosta nella natura
di Francesca Bolino


«I o che voglio crescere, guardo fuori e in me ecco cresce l’albero» scriveva Rilke. Ognuno di noi ha dentro di sé (e lo custodisce) un sentimento religioso nei confronti della terra. Come lo esprimiamo? Parliamo della natura, ne scriviamo avvalendoci dell’arte, della poesia, del pensiero. Incontriamo la terra nella “necessità creativa di interpretarla”. In un certo senso, scrive Duccio Demetrio, «le facoltà di cui disponiamo – parola e coscienza – ci consentono di sdebitarci nei confronti di una natura che ne è priva». Non più sacrifici, preghiere contro la siccità o invocazioni magiche. Ma le nostre parole. Scambio di diversi alfabeti. Evviva Orfeo, che tacitò gli animali affinché udissero il racconto della natura da voce umana. La religiosità della terra va scoperta dentro se stessi, ovvero nella sua matrice originaria. Che cos’è la terra se non evoluzione e regresso, declino e rinascita. La terra è metamorfosi. Finché la terra sarà vivente non potrà darsi il vuoto. Sappiamo solo questo: sono ancora io, in questo momento. È una religiosità umilmente umana che prescrive di non essere fedeli a nessun altro se non ase stessi. Una grande “possibile” fede civile.

LA RELIGIOSITÀ DELLA TERRA di Duccio Demetrio, Raffaello Cortina, pagg. 258, euro 15

Repubblica 5.1.14
Mostri e creature della mitologia il catalogo archeologico è questo
di Giuseppe M. Della Fina


Grifi, chimere, gorgoni, sirene, satiri, sileni, arpie, sfingi, centauri, tritoni sono i protagonisti dell’esposizione Mostri. Creature fantastiche della paura e del mito allestita a Roma nella sede di Palazzo Massimo del Museo Nazionale Romano (sino al 1° giugno 2014). La mostra – curata da Rita Paris ed Elisabetta Setari – intende attraverso più di cento testimonianze archeologiche, provenienti da musei di tutto il mondo, offrire un’antologia delle figure fantastiche elaborate nel mondo antico ed arrivate per la loro vitalità ad influenzare l’arte moderna e contemporanea nelle sue diverse espressioni. Tali creature vengono mostrate nelle loro molteplici rappresentazioni sulle suppellettili realizzate in argilla o in metallo, sulle decorazioni architettoniche dei templi del mondo greco e romano, in sculture di notevole impegno, sugli affreschi e i mosaici. Per ciascuna di esse le curatrici hanno cercato di seguire poi l’evoluzione nel corso del tempo e il loro mutamento di significato e funzione che può arrivare alla trasformazione in semplici elementi decorativi.

Repubblica 5.1.14
Lo studio, l’amore, la vecchiaia, i ricordi di un grande musicista
Salvatore Accardo
“Ho sentito il talento quando ho visto un violino ma essere un predestinato non basta”
intervista di Antonio Gnoli


Salvatore Accardo (Torino, 1941), musicista e direttore d’orchestra, è considerato uno dei più grandi violinisti della sua generazione

Non bisognerebbe mai cominciare un libro con la frase «mi considero un predestinato». Mi spaventano quelle vite che — anche nel bene, nel trionfo della volontà, nel successo annunciato e ottenuto — non scampano all’ottimismo. E quando leggo queste poche parole in testa all’autobiografia di Salvatore Accardo ho come l’impressione che egli si assolva preventivamente da ogni dubbio, da ogni incertezza, da ogni fallacia. Ma — riconosciuta la sua mirabile bravura di musicista — viene di dare un senso particolare a quelle parole che altrimenti suonerebbero un po’ troppo fastose e assertive. Si definisce «napoletano intransigente ». E già questo è un ossimoro. La sua vita si è arricchita di una moglie giovane e bella e di due gemelle che adora. Vivono in una casa luminosa e accogliente. In questa Milano dannatamente precaria, ecco una famiglia felice.
«Era Tolstoj che diceva che tutte le famiglie felici si somigliano. Ma nella felicità conta la fortuna, ma anche la determinazione. Quando ho scritto di considerarmi un predestinato non l’ho fatto per arroganza, ma per sottolineare che all’origine di una grande carriera ci deve essere un talento vero. Che se non curi è come buttarlo nella spazzatura ».
A me colpiva una certa assenza di dubbi. Nel “predestinato” è come se la via sia tracciata da sempre. Non sono ammesse deviazioni, ripensamenti,giri larghi, marce indietro.
«Non ho mai dubitato delle mie scelte. La musica è stata la mia stella polare. Solo a 14 anni, per un attimo, ho avuto il dubbio che la mia vita potesse prendere tutt’altra direzione».
Verso dove?
«Mi riconoscevano un certo talento calcistico. Ero un bravo portiere. Fui notato dal Napoli che mi volle nelle giovanili. Mi sentivo lusingato e desideroso di fare quell’esperienza. Mio padre si oppose con tutte le forze. Lui aveva sognato per me una carriera di musicista. Alla fine vinsero le sue argomentazioni».
Cosa faceva suo padre?
«Era un artigiano: creava, o meglio produceva, cammei. A Torre del Greco, dove vivevamo, aveva un piccolo laboratorio. Guardavo quest’uomo, che suonava il violino per diletto, chino al suo banco dedicarsi con amore a questi piccoli oggetti ovali e penso oggi alla purezza delle sue intenzioni, dei suoi sogni».
Proiettò su di lei la sua ambizione.
«È probabile. Ma nulla, senza quel talento che scoprii immediatamente di possedere, sarebbe stato possibile. Senza quello ci sarebbero stati solo dubbi, tormenti, frustrazioni. Racconto spesso di aver preso in mano il primo violino a tre anni. Non ho un ricordo chiaro. Ma da subito, mi raccontano, ci fu la simbiosi con lo strumento».
Era il bambino prodigio.
«Detesto l’espressione. Mi fa pensare a quei mostri infantili che dilagano nelle trasmissioni televisive. Un bambino prodigio, se non è ben guidato, rischia di avere dei seri problemi di testa. Non mi sono mai sentito un prodigio. Ho fatto una vita normale. Di giochi, di amicizie, e, naturalmente, di studio. Per diventare un bravo violinista occorrono ore di applicazione giornaliera. Devi apprendere la tecnica. Ma per diventare eccelso, a un certo punto, la devi dimenticare. Me lo insegnò quel grandissimo musicista russo che fu David Ojstrach».
Ha suonato con lui?
«No, mai. Però venne ad assistere a una mia esecuzione a Mosca. Era umanamente squisito. Come benvenuto mi fece trovare nella stanza di albergo una scatola di caviale e una bottiglia di vodka. E la sera dopo venne ad ascoltare ilConcerto di Shostakovich. Non ho mai incontrato uno come Ojstrach. Diceva che nel suono ognuno rivela il suo carattere nascosto».
Ed era vero?
«Penso di sì. Tra la musica e la vita ci sono legami profondi. Intese che non si vedono immediatamente e che nascono dalla personalità di chi suona. Ancora oggi provo per quel viaggio in Unione Sovietica una dolorosa nostalgia».
Perché dolorosa?
«Era il 1970 e quel mondo, che sembrava immobile da millenni, mostrava faglie insospettabili. Mi stupivo nel riconoscere che sotto l’immenso ghiaccio della burocrazia ci fosse ancora vita, intelligenza, amore. Eppure era così. In quei giorni moscoviti, tra l’altro, morì mio padre. Per me era stato tutto. Aveva 66 anni. Leggevo la felicità nel suo sguardo quando vinsi il primo concorso a 15 anni a Genova. E poi due anni dopo, nel 1958, la più prestigiosa delle mete: il Paganini. Mi abbracciò timidamente quasi preoccupato di spezzare un equilibrio raro. In quel momento compresi che il violino era il prolungamento del mio corpo».
Cosa le accade quando termina un concerto?
«Provo un sentimento contrastante: di liberazione e appagamento; ma anche di insoddisfazione. A poco a poco quello stato di eccezione torna alla normalità, a una felicità quieta. In quel momento penso alla fortuna di avere suonato insieme agli altri».
Non è più importante l’aspetto individuale?
«Lo è solo se impari ad ascoltare gli altri. La tua libertà finisce dove comincia quella altrui. Un po’ come nella vita».
Intende dire che la musica non ammette la prevaricazione?
«Può travolgere per mille motivi. Ma non per un atto di forza. Non ci si impone sugli altri. Sono gli altri che devono riconoscerti per quello che vali».
Chi sono i grandi musicisti con cui ha suonato?
«Sono stati diversi e da loro ho sempre appreso qualcosa di fondamentale ».
Chi per esempio?
«Sicuramente Arturo Benedetti Michelangeli. Era un musicista totale ».
Nel senso?
«Conosceva alla perfezione il repertorio degli altri strumenti. Un pomeriggio provammo una sonata di Schumann e mi fece capire che il finale andava suonato nel modo opposto in cui io l’avevo affrontato. Conosceva tutto».
Eppure, in pubblico ha suonato con un repertorio limitato. Perché?
«Credo dipendesse dal suo perfezionismo esasperato. Ma privatamente poteva stupire con esecuzioni che mai avrebbe suonato in pubblico. Non aveva vie di mezzo».
Com’era al di fuori dei concerti?
«Certe volte faceva pensare ai bambini che si divertono con poche cose. Era essenziale anche in questo. Ma la sua più grande passione, al di fuori della musica, erano le macchine da corsa. Guidava una Ferrari. Un giorno da Moncalieri, dove teneva dei corsi, mi accompagnò a Torino con la sua macchina. Sfrecciava per le stradine. Ero terrorizzato. E lui non una parola. Immobile. Serio. Pareva Buster Keaton. Ci fermammo davanti alla stazione. Girò la testa da uccello e aprì bocca: non mi dica che l’ho spaventata?»
Era ironico?
«Aveva un suo modo, forse involontario di provocarti. Che personaggio. Tutto il contrario di Andrés Segovia che seguii nei suoi corsi all’Accademia Chigiana a Siena».
Segovia era il virtuoso della chitarra.
«Di più: era la chitarra. Suonava tutto quello che poteva suonare. Senza darsi dei limiti, con la naturalezza istintiva di un animale. In quel periodo all’Accademia c’erano Claudio Abbado, Zubin Mehta, Daniel Barenboim. Frequentavano i corsi di direzione con Carlo Zecchi. Io seguivo Pablo Casals che teneva lezione di violoncello. Quando suonava vedevo quest’uomo piccolo trasformarsi improvvisamente in una figura gigantesca».
Ha citato dei direttori d’orchestra che sarebbero diventati negli anni dei protagonisti internazionali. Come è stato il rapporto con loro?
«Aggiungerei Riccardo Muti che però non ha mai frequentato l’Accademia Chigiana. Che rapporto, mi chiede. Con alcuni di amicizia stretta. Con Abbado si facevano spesso le vacanze in barca. C’erano anche Luigi Nono e Maurizio Pollini».
Un quartetto fantastico.
«Abbastanza insolito, dopotutto. Eravamo degli appassionati di scopone. Spesso io e Pollini sfidavamo Abbado e Nono. A volte si aggiungeva Luciano Berio. Che non amava perdere. Aveva la competizione nel sangue. Qualunque cosa facesse doveva primeggiare, anche a costo di risultare sgradevole. Ma lei mi chiedeva dei direttori d’orchestra».
Sì, con chi si è trovato meglio?
«Indiscutibilmente con Carlo Maria Giulini. Mi viene in mente il Concerto di Beethoven: inizia l’orchestra, va avanti per qualche minuto, e poi entra il violino. Ebbene, alle prove ebbi la sensazione nettissima che a dirigere fosse lo stesso genio del compositore. Ancora oggi avverto i brividi provocati da quell’esperienza».
In fondo è la fedeltà alla partitura.
«Per Giulini era questo il compito più alto per un direttore. Per lui Beethoven, o qualsiasi altro grande compositore, veniva prima di ogni altra esigenza. Il contrario di Karajan che metteva se stesso avanti a tutto».
Interpretava la parte del divo.
«Alla perfezione. Giulini per tutta la vita ignorò le sirene mediatiche. Karajan ne fece la sua fortuna».
In fondo, si può dire che tutto prese avvio con Toscanini.
«In un certo senso è così, perché proiettò la figura del direttore oltre il palcoscenico. Ogni leggenda ha un sovrappiù, un eccesso di immagine. Però quando dirigeva era scarno, sapeva tirare fuori l’essenziale da una partitura senza aggiungere nessun artificio».
Lo ha conosciuto?
«Non feci in tempo. Morì nel 1957. Ero ancora giovane».
Cos’è l’età per un musicista?
«Come in tutti i mestieri può essere un problema o una risorsa. A volte l’invecchiamento piomba come un rapace. E può ferire in modo irreparabile. Quando Toscanini diresse il suo ultimo concerto alla Carnegie Hall di New York, dedicato a Wagner, a un certo punto smise di battere il tempo. Per una decina di secondi nella sala ci fu il silenzio assoluto. Fu quel vuoto di memoria a segnare idealmente la fine di un’immensa carriera pubblica».
Quanto conta il privato nel bilanciare diciamo certe defaillance pubbliche?
«Se i legami sono saldi e autentici, la famiglia è fondamentale per superare le difficoltà. Lei mi parlava all’inizio della felicità familiare. Per molti è una virtù piccolo borghese per me una straordinaria conquista».
Lei è un padre, mi scusi la franchezza, anziano con due gemelle piccole. Cosa le suscita questa distanza generazionale?
«A volte pensieri duri, perfino di amarezza se penso al forte scarto nell’età. Ma ora, le confesso, prevale la gioia. Non credevo fosse così bello. Certe volte mi stupisco nel pensare che per così tanto tempo ero vissuto senza queste presenze. Arrivavo da un matrimonio, durato a lungo, nel quale alla fine ho sentito il peso della sofferenza».
Allude alla sua prima moglie.
«Sì, quel legame ha occupato quasi trent’anni della mia vita. Negli ultimi tempi avvertivo un senso di inadeguatezza e cresceva l’infelicità. Ci siamo separati. Per un po’ ho vissuto disordinatamente. Poi ho incontrato Laura».
La sua allieva.
«Detta così sembrerebbe la classica fascinazione del maestro con la giovane».
Invece come la racconterebbe questa storia?
«Nel modo più naturale possibile. Durante l’insegnamento non c’è mai stato nulla. Nessun equivoco, nessun imbarazzo, nessuna richiesta sconveniente. Eppure...»
Eppure?
«Ogni volta che incrociavo lo sguardo sentivo crescere in me una strana leggerezza. Ero attratto dalla sua bellezza e dalla solarità, ma niente mi autorizzava a tradurre questo sentimento in un gesto concreto. Per i sei anni di insegnamento è stato così. Solo in seguito ci siamo rivelati ed è nata questa storia bellissima».
Sento che in lei non c’è nessun imbarazzo nel raccontarla.
«Dovrebbe?»
No, pensavo al lato temerario della vecchiaia.
«È vero, c’è un senso di sfida. In questi anni le cose sono cambiate. Si sono anche complicate. Non è facile occuparsi di due bambine piccole. Però è stupefacente vedere come tutto si armonizza».
E la musica?
«Anch’essa ne guadagna. Non è vero che si è bravi solo se si è infelici».
Vecchia idea romantica?
«Un’idea scontata. L’emozione non sai mai quando e dove nasce. Per un artista è fondamentale trasmetterla al pubblico».
Sul violino ci sono molte leggende.
«Si riferisce al suo lato demoniaco? In fondo fu Goethe a dire che durante un concerto di Paganini aveva sentito puzza di zolfo».
Ha giovato alla popolarità.«E al fraintendimento. Anche se, alla fine, la musica resta una forma di possessione».
Non le sembra che lo sia sempre meno?
«Forse è vero. È difficile oggi scrivere della grande musica. Gli ultimi sono stati Bartók, Berg, Schönberg, Stravinskij. Dopo sono venuti compositori stupendi come Penderecki, Nono, Berio. Ma non erano più dei geni assoluti. Anche l’emozione non è più la stessa.»
Cosa è cambiato?
«Si guardi intorno. Non c’è più la profondità che scaturiva dall’origine. Neppure con il collirio negli occhi riusciremmo a vederne la bellezza. Sto brontolando?»
Non mi pare.
«Bene. Chiuderei qui se è d’accordo. Ho un appuntamento con un medico».
Per Thomas Mann la musica era una variante della malattia.
«Per me la malattia è solo un contrattempo».

Il Sole 24 Ore Domenica 5.1.14
L’ombra digitale di Dante
La digitalizzazione è solo uno strumento parziale, che non può sostituire la vera lettura. La lingua della Commedia illustra i concetti in modi diversi, eludendo talvolta le parole
di Roberto Casati


Di recente mi è capitato di scrivere un saggio su Dante. Il tema mi è caro e ci giro intorno da un lungo decennio; la metafisica delle ombre nella Divina Commedia. Si tratta di un problema semplice e complesso a un tempo. In diversi passi Dante lascia per così dire delle tracce della sua natura corporea in un mondo di anime immateriali.
Queste ultime non proiettano ombre, e quando vedono l'ombra di Dante scoprono che un intruso sta visitando il loro regno: «...quando dietro di me, drizzando 'l dito / una gridò: Ve' che non par che luca / lo raggio da sinistra a quel di sotto / e come vivo par che si conduca. / Li occhi rivolsi al suon di questo motto / e vidile guardar par maraviglia / pur me, pur me, e 'l lume ch'era rotto» (Purgatorio V, 4-9). Un passo bellissimo che Signorelli ha magnificamente illustrato in un piccolo tondo nel Duomo di Orvieto. Il problema è che se le anime non proiettano ombre, se quindi sono perfettamente trasparenti alla luce, sono anche completamente invisibili. La Divina Commedia è una rappresentazione immaginifica che se da un lato si incardina su un Assioma di Visibilità, dall'altro cela nel suo cuore metafisico l'impossibilità della visione; le cose di cui narra devono essere visibili, ma non possono esserlo.
Ma non è di Dante che vorrei parlare, o meglio, non direttamente. Avrete notato che la parola «ombra» non compare nel passo che ho citato. Si dice di un «'lume ch'era rotto». Leggendo queste parole capiamo di che cosa parla Dante, ci figuriamo la scena: il corpo di Dante non viene attraversato dalla luce, che si interrompe e – ne concludiamo – crea un'ombra. Ora, mettetevi dal punto di vista di uno studioso che vorrebbe sapere se vi siano altri luoghi in cui la Commedia parla di ombre nel senso appena visto, ovvero quali prove della corporeità. Siamo nell'epoca di Google Books e più in generale delle Digital Humanities, e viene naturale andare a sbirciare una versione online della Divina Commedia e lanciare una ricerca su «ombra». Provateci. Se non vi piacciono gli stralci («snippets») di Google, scaricate la Divina Commedia del Gutenberg Project (così ne approfittate per leggere una recensione che vi spiega perché non comprare Kindle Fire se si vogliono leggere ebook liberi) e andate a cercare «ombra», al singolare e al plurale. Capiterete su decine di occorrenze inutili della parola in un contesto in cui la parola significa «anima»; tanto per fare un esempio, la prima volta che questo avviene, nel primo Canto dell'Inferno, viene fotografato l'incontro di Dante e Virgilio, nientemeno: «"Miserere di me", gridai a lui / "qual che tu sii, od ombra od omo certo!"». Quindi la vostra ricerca genera decine di falsi positivi per via di un'omonimia (ombra come fenomeno ottico od ombra come anima). Ma purtroppo non finisce qui. Come mostra il passo che ho citato sopra, si riesce a parlare di ombre, nel senso non traslato di fenomeni ottici, senza usare la parola «ombra», e quindi la ricerca genera anche dei falsi negativi, impedendovi di vedere quei passi in cui, senza nominarle, le ombre sono le protagoniste della narrazione. Ecco qualche esempio per chi non fosse convinto: «sí che 'suoi raggi tu romper non fai» (Purgatorio VI 55-57); «io vi confesso / che questo è corpo uman che voi vedete / per che 'l lume del sole in terra è fesso. / Non vi maravigliate» (Purgatorio III 94-97); «Dinne com'è che fai di te parete / al sol pur come tu non fossi ancora / di morte intrato dentro de la rete. (Purgatorio XXVI 22-24). Non li cito tutti, ve ne sono ancora almeno un paio, così potete divertirvi a sperimentare l'ebbrezza della ricerca, magari sviluppando qualche piccola euristica personale (magari si parla di lume? Di sole?), che, come vedrete, ha gli stessi problemi evocati or ora.
Tutto questo per trarre una morale molto semplice: per trovare i passi in questione non ci sono scorciatoie digitali. Per quel che mi riguarda, mi sono riletto tutta la Commedia da cima a fondo, lentamente, non facendo altro per una buona settimana, per la quarta volta dai tempi del liceo; esorto tutti a provare da adulti l'ebbrezza del viaggio dantesco in integrale. Sono peraltro affezionato a un'edizione stranissima, la Cento Pagine/Mille Lire della Newton Compton, che presenta il testo nella versione critica di Pedrocchi senza note su sei colonne di una doppia pagina coricata, aiutando chi come me ha una memoria visiva, un espediente sicuramente impossibile da comprimere su un tablet.
Noto anche che questa lettura – attenzione – riguarda una fase preliminare della ricerca, una semplice raccolta di dati. I ricercatori sono certo aiutati dalla digitalizzazione, ma se è già vero che a partire da un certo punto non basta, per studiare, "cercare" e "copia incollare", risulta pure che senza una lettura approfondita, personale, non si possono nemmeno trovare le cose che si cercano.

Il Sole 24 Ore Domenica 5.1.14
Lucrezio / 9° volume
In volo tra le stelle
di Armando Massarenti


«Ora volgi la mente al mio ragionare verace: una cosa mirabilmente nuova sta per giungere alle tue orecchie e un nuovo aspetto della natura vuole a te rivelarsi. Ma non c'è cosa tanto facile che da principio non sia più difficile a credersi, e similmente nulla è tanto grande e meraviglioso che a poco a poco tutti non cessino di stupirsene. Pensa al colore luminoso e terso del cielo, e ai corpi che in sé racchiude, alle stelle che vagano in ogni sua parte, alla luna e al sole splendido di intensissima luce; se tutti questi oggetti apparissero ora per la prima volta ai mortali, se d'improvviso si offrissero inattesi al nostro sguardo, quale cosa si potrebbe immaginare più meravigliosa di questa?». Che brivido ci regala Tito Lucrezio Caro, il più misterioso e – stando alla tradizione – infelice tra i poeti latini, reso folle da un filtro d'amore, incastonando nel cuore del suo poema filosofico De rerum natura, splendido viaggio iniziatico tra gli insegnamenti del maestro Epicuro, questo invito allo stupore che è al contempo utile esercizio di saggezza e straordinaria rivoluzione dello sguardo. «Che emozione!», «Che tuffo!», per dirla con Clarissa, l'eroina di Virginia Woolf, rimasta incantata anche lei di fronte alla meraviglia – per noi quotidiana perciò, ingiustamente, trascurata – dell'universo, nella famosa mattina «fresca come se fosse scaturita per dei bambini su una spiaggia» che sembra sorgere luminosissima, come una vera e propria apparizione, dalle prime pagine di Mrs. Dalloway. Grande lezione della filosofia epicurea, e delle scuole antiche in genere, è imparare a vivere il proprio presente come se il mondo lo si vedesse per l'ultima volta, come se ogni singolo istante fosse l'ultimo. Ma una lezione ancora più grande è vivere ogni istante come se fosse... il primo. Cioè con gli occhi ingenui dei bambini sulla spiaggia, sbalorditi per ogni piccola o grande manifestazione del mondo, liberandoci quindi della visione convenzionale e abitudinaria che abbiamo delle cose. Questo è il più profondo, e trascurato, monito racchiuso nei versi di Lucrezio, fedele interprete del maestro Epicuro: «io seguo te, gloria della greca gente... Non appena la tua ragione comincia a proclamare la natura dell'universo... le barriere del mondo dileguano, per lo spazio immenso... Dinanzi a queste cose, subito, non so che divino piacere e un brivido mi afferra, perché dal tuo genio natura è così disvelata in ogni parte e tanto manifesta a noi s'apre». È il «sentimento cosmico», lo «sguardo dall'alto» di cui parla Pierre Hadot, lo stupore di fronte al fatto stesso che l'universo, che la vita umana, esistano. In tutta la loro intricata, a volte splendida a volte risibile, complessità. Non era ignoto a Lucrezio, né a Wittgenstein, né a Goethe, né a Baudelaire, che immaginava nella poesia Elevazione di librarsi al di sopra della varietà del mondo, «al di là dei confini delle sfere stellate», per carpire chissà quale significato profondo, dell'esistenza o di sé. Ora, provatelo anche voi.

Il Sole 24 Ore Domenica 5.1.14
La dignità non è il rango
Da Cicerone ai diritti umani e alla bioetica: un concetto analizzato da Michael Rosen, che pone al centro la figura di Kant
di Remo Bodei


Sebbene il concetto della dignità abbia una lunga storia, il pathos che lo circonda è abbastanza recente. Si rafforza dopo la fine della seconda guerra mondiale, come se si volessero esorcizzare per il futuro gli orrori dei campi di sterminio nazisti, mettendo gli uomini al riparo della sua egida. Essa viene intesa non solo quale espansione della sfera del sacro dalla divinità all'umanità (mediante il richiamo alla tradizione ebraico-cristiana, secondo cui l'uomo è stato creato da Dio a sua «immagine e somiglianza»), ma anche quale corazza protettiva, etica e giuridica, tesa a garantire l'intangibilità, l'autonomia e la libertà di individui e popoli, sottraendole così alla brutalità della violenza, dell'oppressione e dell'umiliazione. Dal punto di vista giuridico il legame tra dignità e diritti è stato solennemente proclamato dal Preambolo della Carta delle Nazioni Unite del 1945, dalla Dichiarazione generale dei diritti umani delle Nazioni Unite del 1948 e dalla costituzione della Repubblica Federale Tedesca.
Il riferimento alla dignità si è poi ulteriormente intensificato a causa del moltiplicarsi degli episodi di disumanità venuti tardivamente alla luce o nuovamente perpetrati (ma, in positivo, anche in funzione del l'esigenza di rafforzare il bisogno di maggiore eguaglianza e di consolidare la ricezione dei diritti umani). Le memorie dei condannati nei gulag sovietici e la visione delle piramidi di teschi innalzate dalla politica di Pol Pot o dalle feroci guerre interetniche del Rwanda (dove gli Hutu trattavano i Tutsi come "scarafaggi") si sono così sommate alla ripresa e alla difesa di pratiche che si credevano scomparse, almeno in alcune parti del globo. È questo il caso della tortura, nuovamente giustificata come strumento per combattere il terrorismo e per estorcere informazioni in vista della salvezza di molte vite.
Malgrado il crescente interesse che ho appena illustrato per l'importanza e il valore della dignità, la filosofia – secondo Michael Rosen – se ne è interessata davvero poco (tra le tante ricordo però sia l'opera, non citata, di George Kateb, Human Dignity, Harvard University Press, 2011, sia quella, ormai classica, di Miguel de Unamuno, La dignidad humana). Assieme a molti studiosi di altre discipline, quando se ne sono occupati i filosofi hanno per lo più ritenuto il suo uso un inutile fattore di confusione e hanno proposto di sostituirla con la nozione di «rispetto per le persone e per la loro autonomia».
Da cosa nasce, dunque, il discredito dell'idea di dignità, si chiede Rosen nel rintracciarne la prima espressione in Schopenhauer, di cui riassume la tesi dicendo che essa rappresenta «un mero imbroglio, un ampolloso artificio, che lusinga la nostra autostima, ma dietro al quale non c'è alcuna sostanza»? Da tale interrogativo parte un'analisi ben documentata e argomentata dello sviluppo di questo concetto da Cicerone ai giorni nostri, i cui ci si sofferma, in particolare, sul cammino che la Chiesa cattolica ha compiuto negli ultimi decenni. Dopo che il cristianesimo aveva, infatti, a lungo inteso la dignità come rango sociale – del resto in sintonia con il significato che il termine aveva nel latino tardo, ad esempio nella Notitia dignitatum del IV-V secolo, che contiene l'elenco dei funzionari imperiali civili e militari – o la aveva messa in rapporto, con Leone XIII, alla gerarchia, per cui il «marito è il principe della famiglia e il capo della moglie», ma «in modo tale che la soggezione che ella rende a lui non sia disgiunta dal decoro né dalla dignità», Giovanni Paolo II la cita ripetutamente per difendere l'inviolabilità della vita umana dal concepimento alla morte, negando quindi l'aborto e l'eutanasia.
La filosofia di Kant costituisce la stella polare che guida il libro di Rosen. Egli, sostiene, ha avuto il merito di estendere il concetto di dignità a tutti gli uomini, assegnando loro un valore intrinseco, incommensurabile e assoluto, anche sulla base del principio che si devono trattare gli uomini sempre come fini e mai esclusivamente come mezzi. Ma chi decide qual è il fine e qual è il mezzo? Rosen ricorda a questo proposito la lunga battaglia legale di Manuel Wackenheim, un nano che si prestava ad essere lanciato tra gli avventori di una discoteca, un gioco che appariva alle autorità francesi contrario alla sua dignità, ma una attività che egli rivendicava come un suo diritto, che non venne peraltro riconosciuto. E poi l'idea di dignità vale anche per i «feti e ai cadaveri»?
La teoria di Kant si differenzia da altre, ad esempio, da quella di Tommaso d'Aquino per cui la dignità riguarda tutti gli esseri viventi (comprese le piante), in quanto creature di Dio, da quella di Hobbes che non equipara dignità e prezzo o da quella di Schiller per cui è spontanea «tranquillità nella sofferenza». I limiti individuati da Rosen nel modello kantiano sono relativi, in primo luogo, a una certa santificazione della «legge morale in noi», cui va il rispetto (e, quindi, non agli uomini in quanto tali, bensì solo in quanto veicolano la legge morale e sono capaci di metterla in pratica); in secondo luogo, al disconoscimento del ruolo della sofferenza, subita o inflitta; in terzo luogo, all'indeterminatezza dei criteri attraverso cui si passa dai principi generali alla concreta azione morale.
La conclusione tratta da Rosen è che «è possibile dover rispettare la dignità umana senza sottoscriverne né l'umanesimo (ogni cosa che è buona lo è solo perché benefica un essere umano) né il platonismo (vi sono delle cose eterne dotate di valore intrinseco verso le quali dobbiamo agire con rispetto e devozione)».
In Kant egli non può, tuttavia, fare a meno di ammirare la condotta che si rivela anche in questo aneddoto: «Nove giorni prima della sua morte Kant, pur essendo molto anziano ed estremamente debole, rifiutava di sedersi prima che il suo ospite (il suo medico) si fosse seduto a sua volta. Quando venne infine convinto a farlo, disse: "Das Gefühl für Humanität hat mich noch nicht verlassen" ("Il sentimento dell'umanità non mi ha ancora abbandonato")».

Michael Rosen, Dignità. Storia e significato, Codice Edizioni, Torino, pagg.162, € 11,90

Il Sole 24 Ore Domenica 5.1.14
Gershom Scholem
La doppia faccia del tempo
di Giulio Busi


Uno sguardo all'indietro e l'altro rivolto in avanti, il vecchio Giano sorveglia e attende. Aspetta paziente, forse un poco annoiato. Un anno che scorre, l'ennesimo, non è l'eternità. Ne dovrà arrivare un altro, e poi uno ancora, e ancora. E lui, il dio delle porte, degli inizi e delle fini a far la guardia. Ma a cosa? Al passato che avvizzisce e si sgretola, o ai giorni che vengono e non sono, vuoti, non vissuti?
Giano bifronte sarebbe una bella insegna sotto cui smerciare le poesie di Gershom Scholem. Nessuno è perfetto, e anche un severo professore di storia può pure concedersi qualche debolezza, come scriver sonetti o dipingere nature morte. Scholem però, oltre che accademico blasonato, era un perfezionista, e i componimenti, pubblicati col titolo attraente e sibillino di Il sogno e la violenza, non sono affatto opera da dilettante.
Il tedesco dell'originale è terso come una luna d'inverno e il pensiero è complesso, ponderoso. Nelle rime ordite da questo berlinese trapiantato a Gerusalemme ci si perde facilmente, ed è uno smarrimento non sgradevole, anzi. Giano, si diceva, andrebbe bene in capo al libro. Perché nulla affascina maggiormente Scholem della faccia doppia del tempo. Da che parte va, all'indietro o in avanti? Vi ricordate senz'altro dell'angelo dipinto da Paul Klee e commentato da Walter Benjamin nell'Angelus novus. Lui, lo sappiamo, il volatile divino con i riccioli di pergamena, scivolava à rebours nella Storia, per dirci che al futuro si danno al massimo le spalle, altro che prevederlo e capirlo. E se questo è vero per i messaggeri celesti, figurarci per noi, spettatori di spettatori del divenire. Ecco che la poesia di Scholem ingarbuglia ancor di più la faccenda. È un componimento indirizzato proprio a Benjamin, e datato 15 luglio 1921. L'angioletto, dispettoso, esordisce in prima persona: «Sono appeso nobilmente alla parete / e non guardo nessuno ... la mia ala è volta al salto / mi sono girato all'indietro / rimanessi anche tutto il tempo / avrei poca felicità». Ha fretta di scapparci, anima in pena impaziente di terminare la propria missione, ed è anche così spudorato da dircelo, il suo compito: «Sono cosa non simbolica / significo ciò che sono / tu giri invano il magico anello / io non ho nessun senso – ich habe keinen Sinn». Prima che il lettore si spazientisca gli diremo che Scholem, maestro della storiografia del misticismo, ha imparato fin troppo bene la lezione. Quella di scrivere per enigmi e poi, per provocarci, spergiurare che i simboli non sono tali, e comunque, anche se lo fossero, non li capiremmo.
Non è però gioco gratuito di specchi. Gli equilibrismi verbali del professore-poeta hanno un fine. Vogliono portarci in luoghi celesti, angelici e comunque stralunati, e farci capire che lì, fuori dall'ordinario, il passato si scioglie, diventa come polvere nell'acqua dei nostri giorni. È il mistero del messianesimo, quello che angustiava Benjamin, marxista immaginario, e che tenne occupato Scholem per tutta la vita. Come ridare nerbo alla tradizione ebraica, svuotata di vitalità e anacronistica? Come inventarlo, questo benedetto futuro, magari in Terra d'Israele, o altrove, basta che sia diverso dalla rassegnazione durata duemila anni e passa? «Mai potrebbe Dio esserti più vicino / che là dove persino la disperazione si frammenta / nella luce di Sion chiusa in se stessa». Scholem è qui mistico senza religione, e fedele di una fede senza trascendente. La Storia ebraica e i suoi testi innumerevoli sono per lui luogo di autorivelazione escatologica. In uno dei passi più belli della raccolta, nel testo dedicato «a Ingeborg Bachmann, dopo la sua visita al ghetto di Roma», le pietre antiche del quartiere ebraico si trasformano in una sorta di moderno roveto ardente: «Vedesti nel ghetto ciò che non ognuno vede ... / che nulla che accade è del tutto compiuto ... / così ci diceva lo spirito dell'utopia, / in cui consolazione e pena oscuramente son uno». Come in Benjamin il presente messianico fa rivivere e attualizza un "certo" passato così in Scholem la speranza nella redenzione è intrisa di déjà vu, quasi che, incomprensibilmente, tutta la potenza necessaria alla cura e al riscatto dell'essere fosse nascosta in qualche piega del reale – sapere dove, questa è la vera domanda. E forse – la vena delle poesie è spesso crepuscolare – in tanto attendere s'è persa l'occasione irripetibile. «Non possiamo mai tornare a casa ... / l'ora della redenzione è passata / il tramonto dell'ultima sera, lieve».
Scholem non si accontenta di una lettura solo estetica, impressionistica. Il suo tormento è quello, novecentesco, di "capire come", magari per via di versi e non solo con il metodo impersonale del saggio. Quale chiave apre lo scrigno del passato? Se l'angelo accucciato nel divenire "non è simbolico", di quale pasta è mai fatto? Di luce, certo, e di un bel po' di buio, anche questo è sicuro.

Gershom Scholem, Il sogno e la violenza. Poesie, a cura di Irene Kajon, Giuntina, Firenze, pagg. 147, € 14,00

Il Sole 24 Ore Domenica 5.1.14
La rabbia è un paradosso
L'aggressività non ha a che fare solo con la caccia a risorse carenti. È una miscela di comportamenti e modalità sociali che può portare al successo: ma una volta raggiunto, gestirlo è un'altra cosa
di Luca Pani


Certo siamo una strana specie: capaci di enormi gesti di altruismo e, con la stessa apparente facilità, di una crudeltà spaventosa. Le nostre mani sono quelle che hanno dipinto la Cappella Sistina e sganciato le bombe atomiche. Ci siamo evoluti per migliaia di anni in sistemi socio-familiari basati su reti di collaborazioni e conflitti in cui la selezione ha esercitato una pressione bilanciata e continua tra cooperazione, contrattazione e aggressione. Il radicale cambiamento subito dall'ambiente negli ultimi secoli in tutto il mondo ha modificato, ma non cancellato, queste dinamiche.
Sarebbe persino banale ricondurre il valore evolutivo dell'aggressività al maggiore ottenimento di risorse e accessi riproduttivi. È vero certamente, ma non basta. Si dice che i maschi (comunque responsabili di circa l'80% dell'aggressività mondiale) lo farebbero grazie alla forza bruta e le femmine grazie al loro fascino ma, di là delle implicazioni profondamente scorrette sul piano neurobiologico e politico di ridurre comportamenti tanto complessi e antichi a funzioni così semplici e diverse tra i due generi, questo non ne spiegherebbe la genesi primaria, che è molto più interessante. Un'idea più originale ipotizza invece che il genere Homo sia partito da modelli di cooperazione più o meno tacita con i propri simili e abbia successivamente evoluto programmi etologici di calibrazione dell'aggressività derivandoli da quelli auto-diretti. In altri termini, i circuiti cerebrali che disciplinano la rabbia si sarebbero selezionati per risolvere i conflitti interni a favore della persona arrabbiata e per dirigere la furia verso un bersaglio esterno (cose o peggio animali e persone) perché questo, oltre che produrre il vantaggio di ottenere quello che si voleva, riduceva l'ansia e – in alcuni casi – conferiva addirittura piacere. In effetti, i rarissimi individui affetti dal vero disturbo di perdita di controllo degli impulsi, che si lasciano andare alla cosiddetta rabbia pantoclastica e che sono in grado di radere letteralmente al suolo una casa in meno di un'ora, raccontano che dopo aver finito sono invasi da una pace assoluta che può arrivare a produrre in loro anche un piacere mai provato.
Senza arrivare a simili estremi è opportuno ricordare che gli stessi principi di reciprocità ed equilibrio tra impulsi e controlli esistono nella normale gestione della nostra aggressività quotidiana. La rabbia in natura viene evocata da situazioni dove esiste una competizione per risorse significative. Ricordiamoci che non sempre quanto il cervello desidera in un preciso momento ha qualcosa a che vedere col fatto che gli serva davvero. Ci può essere molta aggressività per riuscire a bere dopo un giorno trascorso senza acqua, ma la stessa esigenza può essere espressa con molta violenza da un adolescente che ha deciso che è vitale alla sua «sopravvivenza sociale» avere l'ultimo modello di telefonino. Tutte le volte in cui un organismo non ottiene ciò che vuole diventa rabbioso e potenzialmente pericoloso. Solo la corteccia frontale, che si sviluppa appieno dopo circa i ventidue anni e non sempre in tutti nello stesso modo, sarebbe in grado di inibire i comportamenti aggressivi, ma sino alla fine dell'adolescenza questo è molto difficile o quasi impossibile.
Forse non a caso le aggressioni sono in aumento in tutte le scuole del mondo. I ragazzi sono sempre più esposti ad abusi psicologici, assalti verbali e violenza fisica e alcuni studi di psicologia clinica avanzata hanno dimostrato come i bulli di qualunque età abbiano una personalità fondata su un'esagerata autostima che si alimenta da conferme ambientali, come – ad esempio – quelle apprese da erronei modelli di riferimento. Questa sorta di narcisismo patologico si nutre quindi dell'ammirazione e del rispetto (anche se falsi) da parte degli altri che solitamente vengono ottenuti perché il narcisista/violento si trova in una posizione di dominio sociale e/o economico.
L'aggressività, da verbale a fisica, si scatena nel momento in cui queste persone commettono un errore, il che capita spesso perché non sono davvero capaci di fare quasi niente di rilevante, e devono giustificarsi scaricando immediatamente le colpe o le responsabilità su qualcun altro. Se, per qualunque motivo, questo non è possibile, sfasciano tutto, da un tavolino ad un paese.
L'impulsività sarebbe dunque il fallimento di circuiti inibitori cerebrali superiori che, in modo differente, vengono reclutati in difetto rispetto alla normalità e che sono stati a lungo studiati nella sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), nella mania, nell'abuso di sostanze, nelle pre-demenze e in tutti i comportamenti violenti da quelli che portano a lanciare o prendere a calci le cose e talvolta le persone, sino ai veri e propri disturbi mentali quali quello antisociale di personalità e quello esplosivo intermittente.
Oltretutto quando l'aggressività ancorché verbale ha già preso forma di urla e minacce significa che i livelli di guardia sono stati superati. La nostra prima reazione rabbiosa infatti è l'immobilità totale, cioè il non far niente, non parlare neppure sino a quando la minaccia non passa. Solo se il pericolo continua ad essere percepito come reale e non sembra rimuovibile con strategie alternative come la fuga, i livelli di aggressività aumentano e si materializzano in comportamenti reattivi. Questa forma di aggressività "materiale", relativamente molto frequente all'inizio della nostra evoluzione, perché orientata alla difesa delle risorse e della propria prole ora viene progressivamente sostituita da una forma di aggressività "simbolica" o pro-attiva molto più pericolosa. Si tratta di una nuova modalità di aggressività anaffettiva che è stata selezionata per ottenere dei vantaggi in modo strumentale ma senza un reale substrato che giustifichi la sopravvivenza del più adatto e soprattutto della sua prole. Tutt'altro. La quantità di menzogne, di mistificazioni della realtà, di manipolazione dei fatti e naturalmente gli insulti manifestano tutto il loro valore in questo ennesimo paradosso evolutivo che ha trasformato una fondamentale capacità adattativa in un falso vantaggio competitivo.
Quando infatti un animale (uomo compreso) definisce e difende un territorio di caccia, simbolico o meno, per la sua famiglia e il gruppo di appartenenza lo fa aggredendo e talvolta uccidendo i rivali grazie a una "sana" aggressività emozionale che è proporzionale alle sue capacità fisiche e mentali; le stesse che gli consentiranno di assicurare risorse a tutti coloro che dipendono da lui/lei. È andata avanti così per migliaia di anni. Quando, invece, tra esseri umani (gli altri animali non possono farlo) si vince una "sfida" a parole o sulla carta non è assolutamente scontato che si abbiano anche le capacità per mettere in atto le cose che si sono, talvolta rabbiosamente e falsamente, promesse ed è un brusco risveglio per chi ci abbia creduto. L'ultima forma di aggressività umana, di tutte la più feroce, è nella distanza infinita che separa il promettere dal mantenere.

Il Sole 24 Ore Domenica 5.1.14
I forconi della genetica
L'ultima stupidaggine firmata da Robert Plomin: una teoria secondo la quale nel Dna c'è la predisposizione allo studio. Ma è solo razzismo
di Guido Barbujani


Sono tornati i forconi, anche fra gli scienziati. Dal King's College di Londra Robert Plomin ci fa sapere che secondo lui l'intelligenza è ereditaria: c'è chi è nato per studiare e chi è nato per zappare (N. Shakeshaft e altri, Strong genetic influence on a UK nationwide test of educational achievement at the end of compulsory education at age 16, uscito il 12 dicembre su PLoS ONE). Non è una novità: con Richard Lynn, Phil Rushton e Arthur Jensen, Plomin è un paladino del cosiddetto realismo razziale scientifico, cioè in parole povere del razzismo. Sulla notizia, non esattamente uno scoop, si avventano i giornali, con titoli da museo degli orrori dell'informazione («la Repubblica» 12 dicembre 2013: Primi della classe si nasce, i voti già scritti nel Dna).
È una stupidaggine. Nel Dna sta scritta un sacco di roba, ma non quella roba lì. Agli spericolati titolisti sfugge un dettaglio importante: nell'articolo in questione, nonostante il titolo, di Dna non si parla proprio. Come Lynn e Rushton (e come Cyril Burt, autore di una delle più famose frodi scientifiche dello scorso secolo, su cui ritorneremo) Plomin è uno psicologo: misura quozienti d'intelligenza o, in questo caso, prestazioni scolastiche. Dopo di che, con questi numeri si deve pure far qualcosa. E allora Plomin rispolvera la genetica degli anni Trenta e tutto l'armamentario di statistiche con cui ci si arrangiava quando del Dna si sapeva poco o nulla e i geni bisognava immaginarseli. Confronta gemelli uniovulari e biovulari, e quando trova che i primi si assomigliano più dei secondi, annuncia di aver scoperto un effetto genetico. Bravo, complimenti; però oggi i geni si possono (e si devono) indicare uno per uno, sulla mappa del genoma. Quali sono i geni che ci rendono più intelligenti o più stupidi? Non lo sa nessuno, tanto meno Plomin, che infatti non ce lo dice.
Insomma, è un articolo di psicologi che parlano a vanvera di genetica applicando metodi che nessun genetista applica più. Perché lo fanno? Evidentemente sono molto affezionati alla tesi che intelligenti si nasce. Fatti loro; per dimostrarlo scientificamente ci vogliono però delle prove, e chi, non portandole, ribadisce questa tesi andrebbe trattato come uno che non crede alle indicazioni del navigatore satellitare perché il suo astrolabio gli dà una coordinata diversa. Gli esiti di questo approccio fai-da-te sono al tempo stesso esilaranti e inquietanti. Rushton, recentemente scomparso, sosteneva che gli africani hanno poca intelligenza e pene lungo, gli asiatici molta intelligenza e pene corto, e gli europei stanno in mezzo, ben dotati grazie a Dio in entrambi i fondamentali. Invece Lynn pensa (e, quel che è peggio, mette per iscritto) che gli studenti italiani siano peggiori al sud che al nord perché al sud sono immigrati molti africani geneticamente inferiori, ma gli sfugge che gli studenti norvegesi sono ancora peggio; si vede che, all'insaputa di tutti, tanti norvegesi sono in realtà immigrati africani geneticamente inferiori (ne abbiamo parlato su «Domenica» del 14 marzo 2010). Dal canto suo, nel suo libro G for genes Plomin ha proposto di istituire test genetici precoci per scegliere a quale scuola mandare i bambini, anche se non si sa niente (ripeto: niente) di quali geni influenzino le predisposizioni alla matematica, all'arte, alla scrittura.
È insomma una ribellione contro la scienza moderna, una protesta che non sente ragioni e non propone niente. E non nasce dal nulla, ma si inserisce in una tradizione che conviene ricordare. Negli anni Cinquanta Cyril Burt, inglese anche lui, pubblicò una serie di studi su coppie di gemelli cresciuti in famiglie diverse, in cui si dimostrava che le capacità intellettive sono innate. «I figli di schiatta superiore sono anch'essi superiori» riassumeva Burt nella sua autobiografia del 1952. Questi risultati ebbero una grande diffusione; ancora oggi li si ritrova citati, in testi giuridici o biologici, e Burt fu il primo psicologo a essere insignito del titolo di Sir. Dopo la sua morte si è scoperto che si era inventato tutto. Tutto: i gemelli, i test, e addirittura i collaboratori, Margaret Howard e J. Conway, che avevano firmato con lui gli articoli.
Plomin si è distinto fra i più cocciuti difensori della buona fede di Burt, e coi suoi studi ne rivendica l'eredità. Nei suoi deliri fascistoidi, è arcaica anche e soprattutto l'idea che abbia senso o sia utile tracciare una linea fra ciò che è naturale (cioè genetico, cioè, secondo Plomin e i suoi, immutabile) e ciò che è acquisito. Sono gli ultimi, penosi strascichi della lontana e non rimpianta stagione del determinismo biologico, quando si pensava che nei nostri geni stesse scritta una sentenza a cui non si può sfuggire.
Non è così. Siamo nell'era postgenomica, e da un pezzo sappiamo che nel nostro Dna sentenze del genere, ammesso che ce ne siano, sono pochissime. I nostri geni non determinano ciò che siamo, ma i limiti di quello che possiamo essere. Nessun adulto può essere alto 50 o 300 centimetri, perché il nostro Dna non ce lo permette. Però quanto siamo alti, cioè dove ci collochiamo nella vasta distribuzione delle stature possibili, dipende da complesse, e molto poco comprese, interazioni fra le nostre potenzialità biologiche (genitori alti tendono ad avere figli alti) e le condizioni concrete in cui cresciamo: alimentazione, vitamine, attività fisiche. Partendo da qui si può cercare di capire perché siamo come siamo, e in futuro sperare di correggere alcuni difetti genetici. Niente a che vedere con i conti di Plomin, che si potrebbero semplicemente ignorare, se la mania dei titoli ad effetto non ci costringesse, ogni tanto, a parlarne.

Il Sole 24 Ore Domenica 5.1.14
Medicina del Rinascimento
Per curarsi bisogna capire
Un saggio a più voci (curato da Maria Conforti, Andrea Carlino e Antonio Clericuzio) discute le pratiche mediche del Rinascimento quando la specializzazione inizia ad essere concreta
di Carlo Carena


Il Rinascimento di molte lettere e arti lo fu anche dell'arte medica. Essa si libera a poco a poco delle spurie e fantastiche incrostazioni recenti, attingendo ancora all'immenso e pur farraginoso deposito dell'antichità con spirito nuovo. E così si merita encomia di Erasmo, di Cardano, di Melantone, anche se, scrive uno di loro, «non ne ha bisogno affatto, raccomandandosi abbondantemente da sé agli uomini mortali per la sua utilità, anzi necessità».
Le tappe di questo processo sono analizzate nelle ricerche del volume a più voci Interpretare e curare allestito da Maria Conforti, Andrea Carlino e Antonio Clericuzio per l'editore Carocci.
Ancora qualche confusione ovviamente rimane negli stessi umanisti, ma la miscela di medicina, filosofia e astrologia, tre materie professate tutte assieme dai docenti, è più una ricchezza che un'aberrazione, sviluppa le tre discipline con maggiore spirito critico e argomentazione logica, chiede e mostra competenze bibliografiche, storiche, antiquarie e di filosofia naturale, oltreché mediche. E invero la problematica medica, ampliandosi e approfondendosi, risultava non così semplice e isolata da non introdurne altre. Se allungo la vita di un uomo, come cerco di fare e ottengo, non mando all'aria la volontà e la prescienza divina? e tutti i miei sforzi non si scontrano con la determinazione astrale ora e al momento della nascita del paziente? Nel primo Seicento Gabriel Naudé conclude le sue dotte e critiche Questioni iatrofilogiche con una Sul fato e sulla fine prestabilita della vita, in cui ripercorre tutte le credenze nelle età antiche e moderne, concludendo sulla scia già di Pico della Mirandola che esse sono soltanto frutto e campo dell'antica idolatria, delle credenze popolari, delle menzogne dei poeti e degli errori dei filosofi. Ma per il medico e astronomo Pietro d'Abano a inizio Trecento l'astrologia fa prevedere quei mutamenti nella qualità dell'aria che sono fondamentali per stabilire i regimi dietetici e le terapie dei pazienti, oltreché per pronosticare l'evoluzione della malattia e i suoi giorni critici – normalmente il ventesimo e ventunesimo – determinati dai "moti lunari".
Le congiunzioni astrali sono un fattore decisivo per la salute assieme alla dieta. Ippocrate e Galeno, tendenzialmente antivegetariani, predicavano l'importanza della dietetica per la conservatio sanitatis in ogni stadio della vita, già per l'uomo sano ancora prima che per l'ammalato, unitamente ad altri fattori quali lo stile di vita, le abitudini corporali e mentali e l'ambiente. Fra quelli esterni al corpo Galeno ne precisava sei: aria, alimenti, esercizio e riposo, sonno e veglia, sazietà ed evacuazione, e le passioni dell'anima. La malattia è rispetto a questo stato armonioso, una res non naturalis.
Questa tematica costituì il vero e proprio genere letterario già medievale dei Regimina sanitatis, manuali pratici di prescrizioni scientifiche e divulgative insieme, in latino o in volgare, rivolti al popolino o indirizzati a principi e prelati, addirittura a papi, con liste di cibi e di piante benefiche secondo le stagioni e i mesi dell'anno, come nel Libreto de tutte le cosse che se magnano redatto in pieno Quattrocento per Borso d'Este dall'esimio professore padovano Michele Savonarola. A volte anche specifici, come qualche Regimen iter agentium et peregrinantium, per i viaggiatori e i pellegrini; o destinati più propriamente ai vecchi o ai bambini, le due età più a rischio per la salute. Ma il tentativo più nobile in questo campo rimane quello del Platina, che nel De honesta voluptate et valetudine (edizione nelle NUE Einaudi curata da Emilio Faccioli nell'85) cerca di risolvere l'ardua e fondamentale conciliazione di salute e piacere, connubio agognato in ogni tempo di vita elevata, sana e gradevole.
Quanto agli "operatori sanitari" nel volume in parola essi spaziano dal ciarlatano al farmacista, dal chirurgo al barbiere, anzi semplicemente il barbiere-chirurgo, che tagliava i capelli corti e le unghie, curava e tingeva le barbe o praticava salassi ed estrazioni dentarie, e frattanto attraverso i "segni" corporei, pelle, respiro, odore e stato della capigliatura emanava sentenze e interveniva richiamandosi alla tradizione ippocratica. Quanto alle farmacie, oltre ad essere un antro sacro di alambicchi e di barattoli, erano un luogo di convegni e conversazioni dotte e spaccio, oltreché di medicamenti, di confetture e di mieli, di cosmetici, di saponi e tessuti e, a partire dal Seicento, anche di tabacco e caffè.
Tutta una civiltà passa e si evolve attraverso queste pratiche e queste figure. A completare l'affresco non mancano i ciarlatani, un vero "gruppo professionale", a cui nel volume è dedicato uno studio di David Gentilcore: ossia «persone che compariscano in piazza e vendono alcune cose con trattenimenti e buffoniane», come si legge in una licenza all'esercizio della professione a Roma; ovvero «zarlatani che mettano banchi per le piazze per vendere ogli, unguenti, pomate, controveleni, acque muschiate, zibetto, istorie et altre cose stampate, et che mettano cartelli per medicare». Veri attori, dottori Dulcamara, che fanno parte del folklore e della letteratura e della musica, ma anche dello sforzo complesso per aggiornare un'arte così antica e difficile, se deve tener conto di tutto l'uomo.
Interpretare e curare, Medicina e salute nel Rinascimento, a cura di M. Conforti, A. Carlino e A. Clericuzio, Carocci, Roma, pagg. 436, € 34,00

Il Sole 24 Ore Nova 5.1.14
L'invincibile guerra ai batteri
Dopo 85 anni gli antibiotici sono sempre meno efficaci. Ma come sarebbe il nostro futuro senza questi farmaci?
di Francesca Cerati


Dopo 85 anni gli antibiotici sono sempre meno efficaci. Ma come sarebbe il nostro futuro se perdessimo questi farmaci? In un'era post-antibiotici, la pratica medica andrebbe riveduta e corretta. Senza la loro azione protettiva, chemioterapia e immunosoppressori diventerebbero cure pericolose, così come la dialisi o gli interventi chirurgici: qui l'infezione sarebbe una catastrofe. Uno studio britannico ha calcolato che una procedura comune come la protesi all'anca metterebbe in pericolo di vita un paziente su 6, e poi parti cesarei, biopsie, persino un tatuaggio o una liposuzione potrebbero esserci fatali.
A metterci in guardia sui limiti degli antibiotici fu proprio lo scopritore della penicillina, il biologo Alexander Fleming, che ritirando il Nobel disse: «non è difficile creare microbi resistenti in laboratorio, è sufficiente esporli a concentrazioni di antibiotico insufficienti a ucciderli... L'uomo può facilmente sottodosare il farmaco facilitando il fenomeno della resistenza». La previsione di Fleming era corretta. Più gli antibiotici sono diventati accessibili e il loro uso è aumentato, più i batteri hanno sviluppato sempre più rapidamente le difese: in totale oggi sono 18 i batteri che rappresentano una seria minaccia.
Per le istituzioni sanitarie europee e Usa questa è a tutti gli effetti una una crisi. «Se non stiamo attenti ci sarà presto un'era post-antibiotica», ha detto Thomas Frieden, direttore dei Cdc statunitensi. E per alcuni pazienti e alcuni batteri questa "era" è già arrivata: solo in Europa sono 25mila i morti a causa di infezioni ospedaliere resistenti. L'Oms stima che il costo totale del trattamento di tutte le infezioni resistenti agli antibiotici in ospedale è di circa 10 miliardi di dollari all'anno. L'immobilismo di fronte a uno scenario di tale portata è disarmante, dal momento che sono ben note tanto le cause quanto gli effetti. Ma poiché si tratta di un fenomeno in lenta evoluzione, le contromisure continuano a essere rimandate. È lo stesso atteggiamento che la società e le istituzioni hanno nei confronti del cambiamento climatico. È assodato, se ne discute da anni, ma di fatto resta un problema insoluto, da far risolvere alle prossime generazioni. E anche nel caso della resistenza agli antibiotici, siamo tutti responsabili: lo sono le aziende farmaceutiche che negli anni non hanno investito per scoprirne di nuovi, lo sono i medici che ne prescrivono troppi e spesso quando non sono necessari, lo sono i pazienti che ne abusano o non ne rispettano la posologia, lo sono gli agricoltori: negli Usa l'80% degli antibiotici venduti vengono usati in agricoltura, per ingrassare animali e proteggerli dalle malattie. E lo stesso vale per la frutta. «L'impatto sulla società è notevole – ha detto Steve Solomon, direttore dell'ufficio del Cdc per la resistenza agli antibiotici – Si sviluppa nei pazienti e si diffonde nella comunità. Le minacce per la salute aumentano e diventano sempre più complesse».
Ma se l'evoluzione batterica è inesorabile, il pericolo potrebbe dunque non avere mai fine? Forse, a meno che non si inneschino cambiamenti. Danimarca, Norvegia e Olanda hanno attuato un regolamento governativo sull'uso medico e agricolo di questi farmaci, ma gli Usa non sono disposti a tali controlli e hanno emanato un orientamento volontario e non obbligatorio. E l'Unione europea per voce della commissaria alla ricerca Máire Geoghegan-Quinn, ha annunciato il lancio di 15 nuovi progetti di ricerca sulla resistenza antimicrobica che beneficeranno di un contributo pari a 91 milioni di euro.
Servono quindi nuove idee, non solo nuovi antibiotici. Per esempio il controllo automatico delle prescrizioni attraverso le cartelle cliniche informatizzate, lo sviluppo di test diagnostici rapidi e un diverso approccio clinico alle infezioni.
«Siamo in una fase in cui abbiamo bisogno di molti e nuovi agenti terapeutici. Non c'è dubbio su questo – chiarisce Pascale Cossart, direttrice dell'Unità per le interazioni batteri cellule all'Istituto Pasteur di Parigi –. E questi farmaci devono essere sviluppati sulla base di tutte le conoscenze acquisite negli ultimi anni, focalizzando meglio i particolari del processo infettivo e poi chiedersi se, anziché ricorrere agli antibiotici, non si possa seguire una strategia totalmente diversa, cercando, ad esempio, di impedire la penetrazione del batterio nelle cellule. O se il batterio produce tossine, lavorare per contrastarne la proliferazione e di conseguenza prevenire l'infezione». Cossart conclude che serve investire anche sugli strumenti diagnostici, kit rapidi e facili da usare. «La diagnosi precisa è la chiave per prevenire le conseguenze catastrofiche di una qualsiasi malattia infettiva». È della stessa idea Klemens Wassermann dell'Austrian Institute of Technology, giovane ricercatore di talento che ha vinto il Falling Walls Conference di Berlino. «A causa della rapida diffusione di batteri resistenti, la procedura standard non è più praticabile – spiega –. Noi abbiamo trovato un modo che in una manciata di secondi e in maniera completamente automatizzata svela il patogeno coinvolto. Applicando un campo elettrico specifico in un dispositivo microfluidico intelligente, separiamo, rompendole, le cellule ematiche umane dai batteri, che invece restano integri. Li concentriamo nel campione e con tecniche di biologia molecolare abbiamo subito la diagnosi». Ricerca e l'innovazione sono dunque la chiave per invertire la tendenza e contrastare la resistenza antimicrobica. Chi sarà il prossimo Fleming?