lunedì 6 gennaio 2014

l’Unità 6.1.14
Forza Pier Luigi
L’anno più lungo
di Simone Collini


La Stampa 6.1.14
Un leader solitario
L’anno terribile del leader genroso rimasto troppo solo
di Federico Geremicca

qui

Repubblica 6.1.14
L’anno più difficile di Pierluigi dalla “non vittoria” elettorale alle dimissioni da segretario
I 12 mesi vissuti intensamente dall’ex leader
di Goffredo De Marchis


IL 23 dicembre, ultimo giorno di lavoro alla Camera, Bersani non vedeva l’ora di lasciarsi alle spalle il 2013 e rifugiarsi per le vacanze a Piacenza, il luogo del cuore: la sua casa, i suoi affetti, i suoi amici.
CON la solita espressione ironica raccontava alcune vicende familiari e rideva, pensando a come affrontare una nuova sfida tutta personale. Così l’ex segretario del Pd si preparava al 2014, chiudendo l’anno delle grandi sconfitte.
E’ arrivato a un passo da Palazzo Chigi quando il 22 marzo Napolitano gli ha affidato l’incarico di formare un governo. Un mese dopo aveva perso tutto: il governo, la partita dell’elezione del presidente della Repubblica, la segreteria del Pd. Il 20 aprile si è dimesso dall’incarico che aveva conquistato nel 2009, ma che era virtualmente concluso già dopo la “non vittoria” del 25 febbraio, alle elezioni politiche. Quel giorno è cominciato il cammino di un uomo che ha provato a imporreil “governo del cambiamento” scontrandosi con i voti degli elettori e un’Italia profondamente mutata dalla crisi e dalla caduta di credibilità della politica.
Dopo l’incredibile pareggio del voto nazionale, Bersani rimane ben 24 ore chiuso nella sua casa al centro di Roma. Un silenzio eloquente. Il suo è un appartamento accessibile solo ai fedelissimi, dove, seduto sul divano, il candidato premier del centrosinistra, scorrendo i dati elettorali, attende fino all’ultimo una sorpresa che non arriva. Sono ore davvero misteriose, solo in parte narrate nel libro che ripercorre l’annus horribilis di Bersani scritto dal portavoce Stefano Di Traglia e dalla direttrice di Youdem Chiara Geloni (Giorni bugiardi). Si cerca una strada per arrivare comunque a una svolta della politica italiana, ma il tentativo è una parete verticale.
Un giorno dopo la fine dello spoglio, Bersani si presenta ai giornalisti con una faccia lunga così e dichiara la “non vittoria” che poi diventerà il mantra sarcastico dei suoi nemici, soprattutto quelli interni. E’ il rigore sbagliato a porta vuota di cui parla sempre Matteo Renzi, l’avversario che alla fine del 2013 gli prenderà il posto al vertice di Largo del Nazareno. Un’altra sconfitta perché Bersani quel ragazzo fiorentino non lo ha mai amato. Meglio, non si fida, non lo considera leale. Ne ha una prova quando il fedelissimo renziano Graziano Delrio propone un governo di larghe intese con il centrodestra nel pieno delle montagne russe percorse da Bersani per convincere Grillo, Berlusconi e la Lega a far partire un governo guidato da lui.
Ma le ore e i giorni drammatici del 2013 sono davvero tanti. Un’intera esperienza politica consumata nel giro di dodici mesi. Il 25 febbraio ha la conferma di aver sottovalutato il fenomeno Grillo e di aversbagliato la campagna elettorale. Il 18 aprile: quando Franco Marini viene impallinato sul sentiero del Colle dai parlamentari del Pd e il massimo della vendetta di Bersani per questo primo tradimento sarà una frase pronunciata dopo un discorso dell’ex presidente del Senato: «Nessuno mi convincerà che non sarebbe stato un grande capo dello Stato». Il 19 aprile, l’affondamento: viene travolto anche Prodi da 101 franchi tiratori dopo che una riunione democratica si era conclusa con l’acclamazione per il Professore. E’ chiaro: il bersaglio è anche Bersani, che annuncia le dimissioni non prima di aver condotto in porto il bis di Napolitano.
Poi arrivano le larghe intese. Bersani ci crede poco ma è legato da un vincolo di fedeltà a Enrico Letta. Loro sono una«coppia di fatto», come dice sempre l’ex segretario, e la lealtà non viene mai messa in discussione. Anche per questo Bersani si fa da parte. Non disturba il manovratore. Partecipa alle feste dell’Unità, gradisce i cori “c’è solo un segretario”, spiega e rispiega la fine della sua avventura per Palazzo Chigi, ammette gli errori («aver sostenuto fino all’ultimo Monti, aver sottovalutato la frattura sociale che ha dato fiato ai 5stelle»). Puntualizza: non mi sono sentito umiliato dalla consultazione con i grillini, come ripete Renzi. Non reagisce agli attacchi personali.
Ma c’è un’altra sfida del 2013: le primarie per la segreteria del Pd. Bersani e D’Alema non si parlano da mesi. Il secondo rimprovera al primo di non averlo candidato al Quirinale, ma soprattutto di essersi piegato alla rottamazione renziana non candidando alcuni big al Parlamento. E’ una rottura profonda. Eppure Bersani, contro Renzi, decide di sostenere il candidato dalemiano Cuperlo. Sarebbe un colpo di testa fare altrimenti e l’ex segretario non è il tipo. Pragmatismo è la sua parola d’ordine, pure troppo. Per questo si aggrappa alla parodia di Crozza che lo rende più umano ma lo inchioda alle metafore in bersanese tipo «smacchiare il giaguaro», condanna della quale non si è ancora liberato.
Bersani si espone poco per Cuperlo, sapendo di fargli un piacere. Di D’Alema ha sempre detto: «Il suo pregio? Che ci mette la faccia. Il suo difetto? Che ce la mette troppo». Lui non commette lo stesso errore. Però Cuperlo subisce una sconfitta storica che travolge anche un pezzo della sinistra e della sua storia. E Renzi stravince dopo aver straperso contro di lui un anno prima. Scompare la «ditta», altra similitudine dell’ex segretario, sostituita da nuovi linguaggi, nuovi volti. Oggi però la «ditta», dal segretario in giù, torna unita e si stringe intorno a “Pierluigi”.

l’Unità 6.1.14
Il centenario
L’economista sparito nel nulla
Federico Caffè nasceva il 6 gennaio del 1914
Scomparve misteriosamente il 15 aprile del 1987
Il suo allievo Bruno Amoroso: «Lo studio e la ricerca, ci diceva, sono importanti quanto i rapporti con le persone»
di Carlo Patrignani


Repubblica 6.1.14
Federico Caffè
La lezione interrotta dell’economista che difendeva il lavoro
Cento anni fa esatti il 6 gennaio 1914 nasceva lo studioso che diffuse Keynes in Italia e che scomparve misteriosamente nel 1984
di Daniele Archibugi e Marco Ruffolo


La misteriosa scomparsa di Federico Caffè avvenuta ventisette anni fa ha reso questo schivo economista una celebrità. Un uomo che per tutta la vita aveva tanto accuratamente evitato il clamore della scena pubblica quanto amato la riservatezza dell’insegnamento è diventato famoso per l’ultimo episodio della sua vita. Oggi avrebbe compiuto cento anni e a chi gli faceva gli auguri, con l’autoironia che gli era propria, rammentava di essere “un figlio della Befana”.
Il carisma che ha esercitato su una ampia generazione di allievi ha fatto sì che ognuno di loro abbia sentito la necessità di rievocare il comune maestro, come se questo fosse il modo migliore per esprimergli tardiva gratitudine. Perché Caffè ha lasciato un vuoto che chi lo ha conosciuto non è riuscito a riempire se non con il ricordo. La sua eredità non si esaurisce in una univoca scuola di pensiero. Tra i suoi numerosissimi allievi troviamo di tutto: i paladini dell’antagonismo sociale, come Bruno Amoroso, i difensori intransigenti dell’intervento pubblico, come Nicola Acocella, gli esploratori di nuove forme di protezione sociale, come Enrico Giovannini, i fautori di una attiva politica economica capace di controllare l’azione dei mercati, come Marcello de Cecco. Che tra i suoi allievi ci siano anche il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, e il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, indica quanto la sua scuola sia stata tutt’altro che monocorde. Caffè aveva le sue idee, e le difendeva con accanimento, ma era capace di ascoltare e di accettare opinioni diverse. Che cosa è rimasto del suo pensiero? Tre idee ci sembrano oggi ancora più importanti di uno quarto di secolo fa: il pieno impiego, l’assistenza sociale e la politica economica.
1) Caffè riteneva che il lavoro fosse non solo uno degli aspetti essenziali della emancipazione umana ma anche la più solida garanzia di tenuta sociale di un Paese. Certo, era consapevole quale fosse la differenza tra la Gran Bretagna del suo amato Keynes e la nostra penisola: da noi, gli effetti peggiori della disoccupazione, specie quella giovanile, erano e sono parzialmente assorbiti dalla famiglia. Ma Caffè aveva compreso che il ritardato inserimento nel mercato dei lavoro dei giovani, anche quando sono sostenuti dalle famiglie, provocava un distruzione di risorse umane, condannando intere generazioni ad acquisire tardivamente e spesso malamente le competenze ed esperienze della vita professionale. Riteneva, pertanto, che lì dove il mercato falliva, fosse compito specifico dell’operatore pubblico trovare lavoro per i giovani tramite piani straordinari per il lavoro.
2) Come indica il titolo del suo ultimo libro,In difesa del Welfare State, Caffè sosteneva accanitamente la protezione sociale, anche in un periodo come gli anni Ottanta in cui il debito pubblico italiano stava esplodendo. Società opulente dovevano farsi carico dei più deboli aumentando la tassazione sui più ricchi. Per tutta la sua vita, e ancor di più negli ultimi anni, Caffè sentì moltissimo il problema dell’assistenza agli anziani, troppo spesso privi di quei servizi essenziali che invece esistevano inaltre parti del mondo; prima ancora di criticare ilWelfare State,sosteneva, sarebbe stato necessario realizzarlo. Queste opinioni erano anche associate ai suoi timori personali: temeva di diventare di peso e questa fu una delle cause della sua depressione. Allo Stato rimproverava di “prelevare” male e di “spendere” peggio, e in ciò occorreva rintracciare la crisi dell’assistenza sociale. La soluzione ai problemi del bilancio pubblico non andava ricercata affidando al mercato problemi che non erano di sua competenza, quanto piuttosto riformando radicalmente il funzionamento dell’amministrazione statale.
3) Infine, per Caffè la politica economica poteva e doveva avere un ruolo chiave per la coesione sociale. “Politica economica” non era solo la materia che insegnava, ma anche la pressante richiesta al governo di agire per assorbire i conflitti sociali, aumentare la produzione, soddisfare i bisogni umani. Non digeriva i diktat degli organismi internazionali quali il Fondo monetario e la Commissione europea. La politica economica doveva controllare i mercati per evitare che le risorse finanziarie si indirizzassero verso attività speculative piuttosto che produttive. Era compito del governo trovare soluzioni concrete lì dove i mercati non riuscivano a raggiungere gli obiettivi sociali. Imprese a partecipazione statale, servizi collettivi, lavori pubblici e politica monetaria erano solamente gli strumenti a disposizione del governo per realizzarli. Era fiducioso nel fatto che un loro uso illuminato avrebbe consentito al governo di raggiungere più occupazione e più benessere.
Passano gli anni, i problemi cambiano eppure rimangono simili. Rileggere oggi i suoi scritti ci fa capire quanti appuntamenti siano stati mancati dalla politica italiana per risolvere i problemi strutturali del Paese. La disoccupazione, in particolare quella giovanile, ha toccato nuovi record storici e i pubblici poteri delegano ancora al mercato la risoluzione del problema. Il debito pubblico continua a dominare il dibattito di politica economica ma ancora oggi il governo non è capace di identificare i benefici generati dalla buona spesa e dai buoni investimenti pubblici. La politica economica del governo subisce passivamente i vincoli esterni.
No, Federico Caffè non avrebbe ragione di essere soddisfatto dell’Italia di oggi. E chissà se avrebbe ancora la voglia di indicare quotidianamente la via di un riformismo possibile.

Repubblica 6.1.14
Per diventare “europei” partiamo dal Mezzogiorno
Un appunto dattiloscritto inedito del 1978, dedicato alla questione meridionale
di Federico Caffè


La larga e ben può dirsi unanime adesione che incontra il convincimento di una concentrazione del massimo degli sforzi odierni della nostra politica economica ai fini dell’accrescimento dell’occupazione nel Mezzogiorno è un aspetto confortante, nel contrasto dialettico di opinioni che contraddistingue le società in cui esse possono liberamente esprimersi. [...] In effetti, l’individuazione che l’intensificarsi e la persistenza del processo inflazionistico avrebbero provocato conseguenze più deleterie nel Meridione fu tempestiva, ma rimase ancora circoscritta nell’ambito di specialistiche cerchie intellettuali. Sono stati non soltanto fenomeni di degrado economico, ma altresì di maturazione civile, a farci più chiaramente comprendere che, tra le varie compatibilità da tener presente per conservare il necessario aggancio con l’Europa, rientra anche quella della indispensabile attenuazione di un divario ancora troppo accentuato tra le due Italie economiche. Le potenzialità costruttive di questa più diffusa coscienza della priorità, più che della «centralità», dei problemi del Mezzogiorno consistono nella finalizzazione immediata che ne ricevono i sacrifici da richiedersi, in vario grado e proporzione, alla parte privilegiata e protetta della collettività.
Ma occorre altresì tener conto che il Mezzogiorno si è profondamente trasformato; che alcuni suoi problemi attuali (si pensi alla maggiore partecipazione femminile all’offerta di lavoro) sono il risultato di un processo di maggiore omogeneità con il resto della società civile italiana; che la stessa compagine demografica si è radicalmente modificata nella localizzazione, con un addensamento in centri urbani di vecchia e nuova formazione, che si è indubbiamente compiuto con caoticità, ma anche con un vigore di cui non vanno sottovalutati l’impulso dinamico e le incidenze sociali. Permangono, in questo ambiente le cui trasformazioni hanno un rilievo non sempre adeguatamente riconosciuto, antiche tare, quali la larga prevalenza di disoccupati sforniti del tutto di titoli di studio o con la sola licenza elementare; e l’elevatezza di persone fornite di diploma tra le nuove leve alla ricerca di lavoro: con una percentuale pressoché doppia rispetto a quella che si rileva nel nord. Ma solo un indulgere ai luoghi comuni può portare a discutere di un’irrazionale corsa al cosiddetto «lavoro intellettuale», posto che i ben evidenti e documentati costi sociali sono, invece, costituiti dalla carenza di completamento della scuola d’obbligo e dall’ampio divario tra coloro che pervengono a ultimarla e gli iscritti agli studi superiori. [...] È già accaduto in passato che la «scelta di civiltà » dell’integrazione economica europea determinasse una diversione dell’impegno per le esigenze della parte più debole del Paese, o meglio l’aspettativa che esse fossero soddisfatte in forza dell’operare spontaneo di meccanismi perequativi, garantiti da apposite clausole e specifici codicilli. Oggi, non possiamo non tener conto del divario tra le salvaguardie cartacee e l’operare concreto. La formazione di una zona monetaria europea, che pure costituisce il completamento ideale di quella scelta, potrebbe ancora una volta diventare un involontario diversivo rispetto alla drammaticità dei problemi occupazionali del Mezzogiorno, in cui la necessità di creazione di possibilità di lavoro e il loro carattere aggiuntivo hanno carattere di pressante immediatezza.
Tratto da Federico Caffè,La dignità del lavoro,a cura di Giuseppe Amari, Castelvecchi, 2014. Per gentile concessione dell'Editore
IL LIBRO: La dignità del lavoro di Federico Caffè (a cura di Giuseppe Amari, Castelvecchi pagg. 430 euro 22)

«non sarà che si vuol chiudere il Cnb perché è diventato un po’ (un po’) più laico di quanto sia mai stato in passato?»
l’Unità 6.1.14
I poveri diavoli della bioetica
Costi e pretesti: chi vuole spegnere la bioetica
di Carlo Flamigni


l’Unità 6.1.14
Camusso chiede un miliardo e mezzo per il lavoro
Dare rappresentanza ai precari, sostiene la leader della Cgil
Renzi ha sbagliato su Fassina
di Massimo Franchi

Repubblica 6.1.14
Il club dei ricchi
L’annuale classifica Bloomberg dei Paperoni mondiali racconta che la crisi non tocca i re dei miliardari
Anzi, nel 2013 hanno guadagnato più che mai
di Enrico Franceschini


LONDRA Nonostante la sua azienda sia stata superata e addirittura eclissata dalla Apple come regina della rivoluzione digitale, e nonostante lui stesso abbia regalato in beneficenza circa metà della sua ricchezza, nel 2013 Bill Gates è tornato ad essere l’uomo più ricco del mondo.
Secondo una graduatoria addirittura giornaliera, il Bloomberg Billionaires Index, che tiene quotidianamente il conto di quanti soldi hanno in tasca i Paperoni del pianeta, alla conclusione dello scorso anno il fondatore della Microsoft ha visto crescere il proprio patrimonio a quota 78 miliardi e mezzo di dollari, in particolarein virtù di una crescita del 40 per cento nel valore delle azioni dell’azienda che fornisce il software a buona parte dei computer della terra, di cui lui rimane il principale azionista.
Ha così sorpassato di circa 8 miliardi di dollari il miliardario messicano Carlos Slim e tenuto a distanza gli altri appartenenti al club dei miliardari (in moneta americana, perlomeno), trecento uomini e donne che complessivamente hanno visto aumentare di 320 miliardi di dollari le loro fortune nell’anno appena concluso e che secondo le stime degli analisti di Bloomberg diventeranno ancora più ricchi nel 2014 appena cominciato: «Il 2013 è stato un buon anno per i super ricchi», afferma John Castimatidis, uno degli esperti consultati dalla casa editrice di giornali, riviste, agenzie di stampa e televisioni di proprietà dell’ex-sindaco di New York per compilare la sua classifica, «e il 2014 promette di essere anche migliore».
Una conferma che la grande recessione globale scoppiata nel 2008, di cui l’economia mondiale continua ad avvertire le conseguenze, non ha toccato i ricchi in generale e specialmente i super ricchi, la crema della crema, quello “0,1 per cento” che secondo libri come Plutocrats della giornalista Cinthya Freeland rappresenta i veri padroni del mondo, il vero gap dell’ingiustizia planetaria, ben più del cosiddetto “1 per cento” messo accusa da Occupy Wall Street e dal movimento 99 per cento.
La graduatoria del 2013 mette in evidenza un fenomeno già noto, quello dell’ascesa dei miliardari identificati con le nuove tecnologie della rivoluzione digitale, come Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook, al 26esimo posto in classifica con una ricchezza calcolata in 24,7 miliardi di dollari. Non mancano tuttavia le fortune più tradizionali, come quella di Gerald Grosvenor, meglio conosciuto come il duca di Westminster, all’87esimo posto con un capitale di 12,7 miliardi di dollari, in gran parte frutto delle sue immense proprietà immobiliari a Londra e nel resto dell’Inghilterra.
Per quanto riguarda gli italiani, nella classifica ne spiccano mezza dozzina, tra cui Michele Ferrero, il re della Nutella, 25esimo con 25,2 miliardi di dollari, Leonardo Del Vecchio della Luxottica, 41esimo con 18,2 miliardi, Paolo Rocca, industriale dell’acciaio con base in Argentina, 95esimo con 11,6 miliardi, e Giorgio Armani, 110emo con 10 miliardi. Silvio Berlusconi è “soltanto” al 156esimo posto con un patrimonio di 8,2 miliardi di dollari. Miuccia Prada è l’unica donna italiana in classifica, al 188esimo posto con 7 miliardi di dollari.
Complessivamente, i “più ricchi tra i ricchi”, ossia i cento supermiliardari della graduatoria di Bloomberg, hanno un’età media di 67 anni (il 29enne Zuckerberg è il più giovane), 89 sono uomini e 11 sono donne, la loro ricchezza media è di 15 miliardi di dollari, il loro patrimonio collettivo supera i 2 trilioni di dollari. Geograficamente, la maggior parte (37) sono negli Stati Uniti, seguiti dalla Russia con 11 miliardari.

l’Unità 6.1.14
Renzi-Fassina, nel Pd torna la tensione
Il segretario: «Rispondo agli elettori, non alle correnti»
Colloquio con l’ex viceministro: «Matteo irride il dissenso. Ora voglio ricostruire la sinistra»
Dalla minoranza fioccano le critiche
di Vladimiro Frulletti


Corriere 6.1.14
«Matteo come Berlusconi alla fine del governo Monti»
Fassina si sfoga e accusa: «Lui fa le battute, io parlo con i documenti»
Se il segretario non impara ad ascoltare si rischia una deriva davvero pericolosa
Per il salva Roma c’è chi ha parlato di marchette di governo, ma erano errori parlamentari
di Alessandra Arachi


ROMA — Ha parlato con Enrico Letta, sabato. Ma soltanto per comunicargli una decisione già presa, in una manciata di ore. Ed inutilmente il presidente del Consiglio ha provato a trattenere nel governo il suo viceministro di uno dei dicasteri chiave dell’esecutivo, quello dell’Economia.
Stefano Fassina, ma perché queste dimissioni «irrevocabili»? Davvero è bastata quella battuta di Matteo Renzi?
«La battuta è soltanto la forma».
Che vuol dire?
«Che Renzi è un uomo brillante e parla con le battute. Io sono un grigio burocrate e parlo con i documenti. Il punto però sono i contenuti di quello che viene detto. E Renzi con quella battuta ha mandato un messaggio chiarissimo, ponendo una questione irricevibile di dignità personale e politica».
Dunque? Cosa spera di ottenere con queste dimissioni? Creano problemi all’interno del governo, prima di tutto...
«Veramente io ho dato le dimissioni per il motivo esattamente contrario. Ovvero che in questo modo si possa sciogliere l’ambiguità della posizione della segreteria del Pd rispetto al governo. Un’ambiguità che fa male al Pd, al governo, all’Italia».
Di quale ambiguità parla?
«Dell’atteggiamento del segretario del partito. Chiariamo: Matteo Renzi non solo ha il diritto, ma grazie al suo mandato così netto, ha il dovere di incidere sulla posizione del governo. Però un conto è lavorare in positivo, per imprimere una svolta. Un altro sono le caricature distruttive da campagna pre elettorale, con il Pd di Renzi che rischia di comportarsi come il Pdl di Berlusconi negli ultimi mesi del governo Monti. In questi mesi ne abbiamo viste tante».
Quali? Cosa è successo?
«In questi mesi la fatica morale e politica di stare al governo è stata molto elevata. E da una parte c’era chi si prendeva tutta la responsabilità di stare al governo e dall’altra chi invece faceva campagna elettorale sulle pelle del governo. Si è visto con la legge di Stabilità».
Cosa si è visto?
«Dalla segreteria di un partito che esprime il presidente del Consiglio mi aspetto che oltre alle legittime critiche venga messo in rilievo anche le cose positive di una legge che ha costruito impianti per lo sviluppo e l’equità. Sono tanti: c’è la piattaforma di garanzia per il credito delle piccole imprese. La salvaguardia di 23 mila esodati. Abbiamo ridotto di tre miliardi il cuneo fiscale, bloccato gli aumenti per i contributi delle partite Iva. Trovato tante risorse per le calamità naturali e il dissesto idrogeologico. E potrei andare avanti, per quante cose positive ci sono dentro».
Molte critiche sono arrivate per il decreto cosidetto salva Roma.
«Già, anche quelle all’indirizzo sbagliato: gli errori su quel decreto sono stati più che altro di natura parlamentare. E invece...».
Invece?
«È stata descritta un’attività di governo come una sequela di marchette. E non ci sto: troppo facile far passare un responsabile di governo, come ad esempio il sottoscritto, come uno che fa le marchette, e dall’altra parte quelli che fanno i duri e puri, come il segretario del Pd, e sono in sintonia con la gente. Non può funzionare così. Per questo ho posto una questione di coerenza a Matteo Renzi».
La coerenza di cui parla vorrebbe dire il rimpasto del governo?
«La coerenza vuol dire che oltre alle idee, il segretario di una partito che è uscito dalle primarie con un consenso tanto forte dovrebbe mettere a disposizione anche le sue donne e i suoi uomini per il funzionamento del governo. Altrimenti c’è il rischio di dettare un’agenda al governo sempre più ambiziosa e poi scaricare soltanto sul governo il fallimento di quegli obiettivi eventualmente mancati».
Non pensa che le sue dimissioni possano creare un bailamme all’interno del Pd?
«Io spero invece che possano essere di qualche utilità».
Utili a cosa?
«Al segretario del Partito democratico, prima di tutti, affinché impari ad avere rispetto per tutti i componenti del partito, soprattutto per chi ha idee diverse dalle sue. Ma spero che possano essere utili a tutti a ricordare che il rispetto reciproco è il pre requisito fondamentale per stare insieme».
Ha avuto messaggi di solidarietà da parte del Pd in queste ore?
«Tanti».
Da parte di chi?
«Da tante parti di tutto il partito. E poi ho avuto valanghe di sms, tweet, messaggi su Facebook. Davvero molte persone hanno approvato la mia scelta. E quello che mi ha fatto più piacere sono stati i messaggi che mi sono arrivati dagli altri partiti. In forma privata, dunque non per strumentalizzazioni di alcun genere».
Quali partiti?
«Forza Italia, Fratelli d’Italia, Scelta civica: uomini e donne che si sono firmati anche con il loro nome».
E adesso? Il 16 gennaio c’è la direzione del Pd. Matteo Renzi ha fatto già sapere che lui non smetterà di fare battute, riuscirete a chiarirvi?
«Renzi può fare tutte le battute che vuole. L’ho già detto: il problema è quello che dice, non come lo dice. Ma un segretario che ha avuto un consenso così ampio deve imparare ad ascoltare. Altrimenti si rischia una deriva davvero pericolosa».

Corriere 6.1.14
Veti e tensioni tra i democratici
E anche la minoranza si interroga sul governo
Orfini: si faccia qualcosa di serio su riforme e lavoro. O è meglio che l’esecutivo tragga le conseguenze
di Tommaso Labate


ROMA — In serata dice che «nella vita ci sono delle priorità», Gianni Cuperlo. E che «la priorità del nostro oggi è la salute di Bersani, solo quella». Dice che è l’ora «di essere uniti», il momento «di stare vicini alla famiglia di Pier Luigi e al suo partito, a cominciare da quello di Piacenza». Ma quando, com’era successo in mattinata, gli avevano chiesto un parere a freddo sul caso Fassina, ecco che la voce del presidente dell’Assemblea del Pd — che mai avrebbe potuto immaginare una domenica drammatica come quella di ieri — aveva assunto un tono più che allarmato: «Ho già detto ieri (sabato, ndr ) quello che pensavo. Per ora lasciamo perdere…».
Dietro i puntini di sospensione di Cuperlo, c’è un partito che trattiene il fiato. Diviso tra l’apprensione per le condizioni di Bersani e quell’atmosfera da guerra permanente che ha reso l’aria del Pd irrespirabile. Quantomeno nella minoranza che si oppone al sindaco di Firenze. «Io non parlo. Questa è una cosa che devono sbrigarsi Renzi e Letta», sbotta nel primo pomeriggio Ugo Sposetti, tesoriere degli ex Ds. Che però, un secondo dopo, cede a un misto tra rabbia e sconforto. «Quelle sulla scissione sono chiacchiere assurde. Ma va detto che di questo partito non rimane niente. I nostri stessi non lo amano, non lo vogliono…».
Parole dure, durissime. Pronunciate da chi probabilmente non ha condiviso neanche le dimissioni rapide del viceministro. Di certo, la mossa dell’economista bocconiano non è piaciuta a Matteo Orfini, che pure con Fassina aveva condiviso l’esperienza dei Giovani Turchi. «Matteo deve capire che è il segretario di tutto il Pd e che certe battute non può permettersele». Ma, è il sottotesto del deputato, «non ci si può mica dimettere per una battuta, per quanto fosse sgradevole». Ed è nulla rispetto a quello che Orfini dice a proposito del governo Letta, rovesciando la celeberrima massima di Giulio Andreotti. «O si fa qualcosa di serio su legge elettorale e lavoro o meglio lasciar perdere. In questo caso, secondo me, meglio tirare le cuoia che tirare a campare».
Dare ordine al caos sembra quasi impossibile. Al punto che, se la sinistra interna non sembra interamente d’accordo con Fassina, c’è chi — nell’ala moderata del Pd — lo sostiene. «Devo dire che sì, il gesto di Stefano l’ho compreso», sospira Rosy Bindi. «E al di là della condivisione», aggiunge, «l’ho anche capito umanamente». Come Peppe Fioroni, che non risparmia qualche siluro all’indirizzo di Renzi. «Non si può giustificare dicendo che ha preso tre milioni di voti alle primarie. Li avevano ottenuti anche Prodi, Veltroni e lo stesso Bersani», scandisce l’ex ministro. Che rincara la dose: «Bisogna avere rispetto sia per gli avversari che per i propri iscritti. Battute come il “Fassina chi?” sconfinano in un bullismo politico che può anche ricordare il peggior berlusconismo. Renzi deve saper distinguere l’autorevolezza dall’autoritarismo. La prima è propria del leader. La seconda, invece, appartiene alle mezze calzette».
La durezza dei toni, unita a un clima balcanizzato, sembra ricondurre le lancette dell’orologio del Pd alle fasi più calde del dibattito congressuale. Con i rottamandi che tornano a sfidare il Rottamatore, con la «vecchia guardia» che rialza la testa. «Renzi deve capire che non è questo il modo di guidare una comunità politica», dice Chiara Geloni, direttore di Youdem e pasionaria bersaniana. Prova dignitosamente a trattenere le lacrime, a dare un freno all’apprensione per l’ex segretario ricoverato a Parma. «L’abbraccio che Matteo ha mandato a Bersani fa piacere, sì». Pausa. Poi un segnale di pace. «In certi momenti questo partito sa ancora comportarsi come una famiglia». E quindi di nuovo la guerra, che ricomincia.

Corriere 6.1.14
Vizi, battute e intrighi da Prima Repubblica
Antichi vizi, battute e intrighi
di Antonio Polito


Può darsi che il problema di Renzi, che comincia a creargli qualche grattacapo nel suo stesso partito, sia solo una sindrome da iperattivismo, magari acuita dalla assuefazione al tempo breve e alla battuta pronta dei social network.
D’altra parte i titoli sono una droga per i politici, e se uno scopre il modo più semplice e meno faticoso per ottenerli, è fatale cadere in una forma di dipendenza. Può darsi dunque che anche nel caso Fassina si sia manifestata la sventatezza di un leader ancora giovane piuttosto che l’avventatezza di un politico che non si farà mai leader. Molti lo sostengono: Renzi è in fase di crescita. Aspettate che impari a calibrarsi su un tempo più lungo e a selezionare obiettivi più precisi, e la sua iperattività si trasformerà in vero cambiamento piuttosto che in semplice «ammuina». È l’ipotesi migliore, e quella che devono augurarsi tutti coloro che vogliono rimettere in sesto il nostro sgangherato sistema politico. Prevede che il 2014 sia un anno fattivo, che porti le riforme, che la maggioranza regga senza condannarsi all’immobilismo, sotto la spinta di un leader giovane ma dotato della gravitas necessaria per aspirare al governo di una delle più grandi potenze industriali del mondo. C’è poi l’ipotesi peggiore, ed è quella che francamente sembra scaturire dalla lettura dei giornali di questi giorni: e cioè che il ritorno della politica sulla plancia di comando, dopo tanti tecnici e governi di emergenza, non annunci il sol dell’avvenire della Terza Repubblica ma rischi piuttosto di riportarci agli intrighi, alle ipocrisie e alle furbizie della Prima. I più maligni degli analisti leggono infatti le vicende di queste ore come un gigantesco gioco degli specchi: Renzi finge di voler fare le riforme ma vuol solo votare subito; finge di sostenere il governo ma vuol farlo cadere anche a costo di riportare in gioco Berlusconi, regalandogli sul piatto della legge elettorale la testa di Alfano e distruggendo la speranza di un centrodestra moderno; fa dunque una provocazione al giorno per indebolire Letta. Dal canto suo Fassina finge di offendersi ma si dimette dal governo per tornare a fare la cosa che sa fare meglio, l’agitatore di sinistra, come ai tempi di Monti. Letta finge di non vedere e finge che tutto vada bene. Tutti insieme fingono di chiamare «contratto di governo» ciò che altro non è se non la cara, vecchia verifica, forse accompagnata dal caro, vecchio rimpasto, e che forse in ossequio ai tempi sarà ribattezzato «make up». L’unica novità sarebbe la coreografia, con le riunioni di partito che si fanno a casa del leader, il nome stampato a caratteri cubitali sulla parete al posto del simbolo, per una riedizione in chiave moderna del partito personale, già ribattezzato «Forza Eataly», in cui le correnti non ci sono più perché ne è permessa solo una. Se questa seconda ipotesi fosse quella giusta sarebbero guai seri per la nostra democrazia, che non è affatto ancora uscita da un rischio-Weimar, e che ha bisogno di un anno di grandi risultati per dare un senso a due anni di grandi sacrifici. Gli italiani sono infatti stufi di questi giochetti, vogliono il nuovo perché sperano che porti novità, non una nuova guerra civile permanente. Proprio chi più ha promesso novità, come Renzi, sarà giudicato da quante ne saprà produrre, non da quante ne annuncerà. C’è un livello di responsabilità oltre il quale non conta più la rapidità di battuta ma quella di decisione. Renzi l’ha abbondantemente superato. Speriamo che se ne sia accorto.

La Stampa 6.1.14
“No a guerriglie interne. Però il segretario ascolti chi non lo ha votato”
Orfini: non ho capito i motivi delle dimissioni né la posizione di Fassina sul rimpasto
In una fase in cui è evidente che il governo non ha corrisposto alle aspettative bisogna cambiare passo
Il modo sbagliato per porre la questione però è parlare di rimpasto
intervista di Francesca Schianchi

qui


il Fatto 6.1.14
Renzi non scherza, Letta in trincea
Chi sarà il prossimo?
La strategia di Renzi per demolire Letta
di Emiliano Liuzzi


Lasciato sul campo il viceministro dell'Economia, Stefano Fassina, si apre un'altra settimana decisiva nella guerra di nervi e muscoli tra Matteo Renzi ed Enrico Letta. Una settimana cruciale e che porta il nome più complesso da pronunciare: legge elettorale. Letta si sposta nell'equilibrismo, Renzi scalcia. Il primo ci vuole arrivare con un percorso che sia attento ai pesi interni alla maggioranza e alle parole del capo dello Stato, il segretario invece smania e incontrerà tutti i segretari di partito. “Questa è la mia idea, a chi sta bene la porta è aperta, parlo con tutti”. Appello rivolto chiaramente a Silvio Berlusconi e a Beppe Grillo.
UN PERCORSO che non prevede scorciatoie. E soprattutto non prevede accordi: Letta e Renzi si parleranno, ma in settimana potrebbero tornare a scontrarsi. Anche perché la strategia del segretario, per chi ancora non ce l'avesse presente, è chiara: dare modo al governo di autodemolirsi. Il primo obiettivo raggiunto è Fassina con il quale è bastato un Fassina chi? per aprire una voragine. Un pesce piccolo, ma non troppo nella galassia governativa, visto che l'esecutivo è un puzzle molto delicato e appoggiato su una superficie tutt'altro che stabile. E tutti gli uomini dei presidenti, intesi come Letta e Napolitano, hanno pregato Fassina perché non lasciasse. Lo ha fatto Letta stesso, in primis, e poi il ministro della Difesa Mario Mauro. Ma niente. “Irrevocabile”, ha risposto il vice ministro dell'economia che, con ogni probabilità non verrà sostituito. Ma è solo il primo, sicuramente alla nuova segretaria rottamatrice non piacciono né Flavio Zanonato ora all'economia né Mauro.
Renzi, nella mattinata di ieri, ha fatto tutt'altro che il pompiere. Ha risposto a Fassina perché Letta leggesse bene via Facebook: “Meno di un mese fa tre milioni di italiani hanno chiesto al Pd coraggio, decisione, scelte forti”, scrive il segretario. “Noi rispondiamo agli elettori del Pd, non alle sue correnti. Se il viceministro all’Economia - in questi tempi di crisi - si dimette per una battuta, mi dispiace per lui. Io le battute continuo a farle, non diventerò un grigio burocrate. Se si dimette per motivi politici, grande rispetto: ce li spiegherà lui nel dettaglio alla direzione già convocata per il prossimo 16 gennaio, raccontandoci cosa pensa del governo, cosa pensa di aver fatto, dove pensa di aver fallito”.
NIENTE mezze misure. Nessuna voglia di insistere su una battaglia vinta, perché alla fine le dimissioni di Fassina questo sono per Renzi: un modo per far sentire a Letta che il tempo è quasi scaduto, che lui non ci sta a fare il segretario di facciata, che si aspetta una nuova legge per andare a votare in tempi assolutamente brevi.
Chi crede che sia accontenti di un cambio di persone, magari con un ministero di rilievo per Graziano Delrio, ha già una risposta: “Il rimpasto non è una priorità per il governo né tantomeno per il Partito democratico, perché la preoccupazione del Pd sono gli italiani che non hanno un posto di lavoro, non i politici che si preoccupano di quale poltrona possa cambiare. Sono i problemi dell’Italia che interessano al mio Pd, non i problemi autoreferenziali del gruppo dirigente”.
Parole definitive, in un certo senso. Che non allargano lo scenario, ma lo costringono a una strada sola.
IL PIANETA LETTA, per il momento, ha scelto la via del silenzio. Ha parlato Mauro nell'insolita veste di portavoce di Palazzo Chigi: “Non è vero che il segretario del Pd sia disposto ad accordarsi anche con il diavolo pur di avere una nuova legge sul sistema di voto. Lui è disposto ad accordarsi anche con il diavolo pur di avere una nuova campagna elettorale. Vuole la testa di Letta”.
Altra voce, sempre nella mattinata di ieri, è stata quella di Pippo Civati che ha accusato il vecchio compagno di rottamazione di eccesso di supponenza e non ha risparmiato critiche a Fassina. Un colpo a destra e uno a manca, in attesa di vedere come andrà a finire.

FLAVIO ZANONATO
Il ministro dello sviluppo Economico non è molto gradito alla segreteria renziana. La sua poltrona, in un eventuale rimpasto di governo che nessuno chiede, ma diventa probabile, sarebbe una delle prime a saltare dicono in Transatlantico Ansa

MARIO MAURO
Il ministro della Difesa negli ultimi giorni è stato portavoce del governo. Su Renzi è netto: “Non è vero che il segretario del Pd sia disposto ad accordarsi anche con il diavolo pur di avere una nuova legge elettorale. Lui vuole la testa di Letta” Ansa

PIPPO CIVATI
In merito alla battuta di Renzi “Fassina chi?” ha accusato il vecchio compagno di rottamazione di eccesso di supponenza. Ma ha anche criticato il viceministro dimissionario: “E’ stato un pretesto, in realtà era da tempo che voleva lasciare” Ansa

il Fatto 6.1.14
Fioroni: “È solo bullismo, così si va dritti al voto”
di Wanda Marra


Renzi ha avuto un grande consenso alle primarie come Prodi, Veltroni, lo stesso Bersani. E questo deve servire per far germogliare l'autorevolezza. Che non va mai confusa con l'autoritarismo. La cifra caratterizzante dei democratici non può che essere il rispetto della dignità della persona, a cominciare dagli avversari e dagli ultimi". Beppe Fioroni, deputato Pd, ex popolare, oggi in minoranza (uno degli ultimi "rottamandi") è molto critico con quel "Fassina chi?" che ha portato il vice ministro dell'Economia alle dimissioni.
Dunque, Renzi ha sbagliato?
Conosco bene Matteo. A lui, come a me, piace la battuta anche tagliente e anche pungente. Ma spesso bisogna esercitare su noi stessi il senso del limite. Perché la battuta può ferire, a seconda di chi la fa e come, più di ogni altra cosa. Sono convinto che in futuro Matteo saprà mordersi qualche volta la lingua per evitare di dare il via a un bullismo politico di cui non sentiamo la mancanza .
E' stata sicuramente una battuta, ma Renzi non solo non ha chiesto scusa, ma l'ha rivendicata, chiarendo che lui non ha intenzione di cambiare. Con Fassina è stato critico in maniera ferocemente ironica, richiamandolo a ragioni politiche.
Il bullismo politico che dobbiamo evitare è un'arma a doppio taglio perché la forza tranchant della battuta e anche della frusta verbale diventa un boomerang e a lungo andare si trasforma in un celodurismo che se non produce fatti quotidiani si ritorce contro il partito, il suo gruppo dirigente e alimenta solo divisioni e lacerazioni. Un segretario autorevole come Renzi deve costruire il consenso e l'unità anche in un confronto vivace. Ma se travalica il limite del rispetto e per primo non dà importanza alle sue battute e alle sue affermazioni per slogan si danneggia perché autorizzerà tutti a pensare che non sono cose serie.
Però provocando queste dimissioni ha piazzato una mina sotto il governo, o no?
La mina non sono le dimissioni di Fassina, che si è dimostrato serio e coerente come sempre, ma il clima costante di stress e di esame di riparazione cui vengono sottoposti Letta e il governo dal partito cardine della maggioranza.
E se Renzi di battuta in battuta facesse fuori un ministro alla volta?
Se il Pd vuole procedere ad avvicendamenti nel governo per migliorarne performance ed efficacia è perfettamente legittimo anzi in alcuni casi auspicabile. M auguro Letta lo prenda in considerazione. L'unica cosa che non è possibile è che qualcuno porti avanti una conflittualità permanente con il governo e gli uomini del governo per portarci al voto
È la strategia di Renzi?
Non lo so. Mi auguro che nessuno pensi questo e il modo migliore per smentirlo sono i fatti. Lo spread è sotto 200 e ci sono miliardi di euro da investire in crescita, lavoro e famiglia. Sarebbe criminale tornare a un anno fa invece che per dei posti di lavoro per un posto al sole,
L'idea di Renzi di fare la legge elettorale con tutti, anche con Berlusconi è giusta?
Un accordo con lui significherebbe senza alcun alibi un ritorno indietro e una nuova chance per il Cavaliere, riportando il paese a un sistema bloccato in una contrapposizione tra berlusconiani e snti berlusconiani.
Il malore di Bersani oggi ha colpito tutti, raggelando il Pd.
Mi auguro che Pier Luigi superi bene questa situazione. È uno dei grandi leader della sinistra di cui il Pd non può fare a meno.

Repubblica 6.1.14
Matteo leader del post-partito
di Ilvo Diamanti


L’ESORDIO di Renzi alla segreteria del Pd ha fatto rumore. Sollevato polemiche. Ma per motivi lateralmente politici. Piuttosto: di stile, linguaggio, costume. Per la battutaccia riservata a Fassina. Per la pausa-panino targata Eataly. Così si è parlato di partito «padronale». Evocando l’esempio di Berlusconi.
Scandaloso, per la sinistra. Il clamore delle polemiche sottolinea quanto la battuta di Renzi sia stata inopportuna, oltre che infelice. Visto che, in un momento tanto significativo, ha spostato l’attenzione in direzione indesiderata, per il segretario. Tuttavia, molte critiche appaiono fuori luogo. Fuori centro. Mostrano la difficoltà di comprendere quanto è avvenuto e sta avvenendo, nella politica italiana. In particolare, il (pre) giudizio nei confronti di Renzi, di essere un «berluschino», un nuovo, piccolo Berlusconi. Usato, da (centro) sinistra, come un’accusa. Un insulto. Più che un’accusa, è la conferma della difficoltà, nella sinistra, di capire cosa sia successo negli ultimi vent’anni. Renzi non è un leader berlusconiano, ma, semmai, postberlusconiano. Come i tempi in cui viviamo. Il post-berlusconismo. Un’epoca che risente -ancora dei modelli e dei valori interpretati da Berlusconi. Anche se oggi sono resi inattuali dalla crisi. Tuttavia, l’esperienza di Berlusconi ha impresso sulla politica un segno indelebile. Ha imposto la comunicazione sull’organizzazione, i media sulla partecipazione. Ha portato all’estremo la personalizzazione, attraverso l’invenzione del suo «partito personale». Insomma, ha imposto la «politica come marketing». Un modello, peraltro, già affermatosi altrove, in Europa e negli Usa. Anche se Berlusconi ne ha accentuato i caratteri. Perché ha potuto sfruttare le sue risorse mediatiche e imprenditoriali. Senza vincoli — istituzionali e sociali. Vent’anni di berlusconismo, peraltro, non sono passati invano. Tutti i principali soggetti politici ne hanno seguito e imitato il modello. Si sono mediatizzati e personalizzati, seguendo le logiche della politica come marketing. Ovviamente, senza gli stessi esiti e gli stessi risultati di Berlusconi. A sinistra, in particolare, il Pd è stato frenato dalla sua storia, dalle sue tradizioni, dalle sue radici, piantate nella Prima Repubblica. E ciò gli ha permesso di evitare la finedegli altri imitatori del modello berlusconiano. Da Di Pietro a Fini a Monti. Le cui biografie politiche personali si sono concluse insieme ai partiti. Tuttavia, il Pd è stato condizionato dal suo passato. Chiuso nel recinto delle zone rosse. Incapace di esprimere una leadership condivisa, perché storicamente diviso in correnti e personalismi (come hanno mostrato Mauro Calise e Marco Damilano, nei loro saggi pubblicati da Laterza). Fino all’esito delle elezioni politiche del 2013. Quando il Pd non ha vinto, anche se Berlusconi ha perso. Quando la domanda di cambiamento si è tradotta nel successo del M5S, che ha raccolto il voto «contro»: Berlusconi, Monti. Ma anche, e soprattutto, «contro» il Pd e la Sinistra alternativa. Da lì è partito Renzi. Un leader post-berlusconiano in un Paese post-berlusconiano. Dove Berlusconi è «imprigionato» in casa. Ma conta ancora, perché siamo tutti post-berlusconiani, cresciuti o invecchiati in una società educata dai suoi media. E influenzata dai suoi valori. Che Berlusconi non ha inventato. Ma ha riprodotto e rilanciato, attingendo al senso comune. In un Paese dove la sinistra è stata sempre minoranza e l’anticomunismo un sentimento maggioritario. Renzi, per questo, a mio avviso, non intende riformare, ma andare oltre il Pd dei «sinistrati » (per echeggiare Edmondo Berselli). Oltre l’eredità dei partiti di massa. Gli interessa costruire il Post-Pd, modellato intorno al Capo, mentre la Sinistra (e ancor più il Centro) è sempre stata un’area affollata da molti capi, in reciproca contesa. Da ciò il metodo-slogan della rottamazione. Rozzo ma efficace, nel descrivere l’intenzione di liberarsi del passato, sottolineata dalla formazione di una segreteria «giovane », per marcare il salto di generazione politica.
La riunione della segreteria di sabato, in fondo, riproduce i riti e la simbologia della rottura con il (e della rottamazione del) passato. La scelta della sede, in primo luogo. Firenze. La città di cui è sindaco Renzi. Un passaggio dal significato geopolitico chiaro: da Roma a Firenze. La capitale politica, cioè, si sposta nella città del segretario del post-Pd. Per marcare la distanza da Roma, simbolo del potere politico, contro cui è montata la sfiducia di gran parte dei cittadini. Ma la scelta di Firenze sottolinea anche la distanza dal governo centrale, guidato da Letta. Dalle larghe intese, ormai ridotte all’asse fra il Pd e quel che resta degli altri (ex-Pdl e centristi in ordine sparso). Riunire la segreteria del Pd a Firenze, dettare le priorità in merito alla legge elettorale, alle questioni bioetiche e del lavoro, significa spostare l’asse geopolitico del governo. Spingere Roma alla periferia. Ancora: riunire la segreteria a Firenze, per Renzi, significa marcare una prospettiva simbolica e progettuale. A favore del Sindaco d’Italia. Lontano dai Palazzi del Potere e dei Privilegi. Più vicino alla «gente comune ». Un leader (e un partito) che si muove in bici, lavora senza staccare, dalla mattina presto fino alla sera. Senza pause, giusto il tempo per un panino (anche se griffato).
Il post-Pd interpretato da Renzi, in questa prima uscita, è, dunque, un partito post- berlusconiano, lontano dall’eredità del passato — ma anche dal presente. Perché il Pd del passato e del presente è incapace di vincere. Il Post-Pd immaginato da Renzi è un soggetto politico modellato sulla persona del leader. Renziano, appunto. Il Partito del Capo (titolo di un recente saggio di Fabio Bordignon pubblicato da Maggioli). È impensabile che possa procedere senza fratture. Con un gruppo dirigente divenuto, in gran parte, renziano per opportunità, più che per convinzione. E senza strappi con il governo di Roma. Visto che il vero governo si è trasferito a Firenze.
Da ciò «il» problema. Se sia possibile costruire un soggetto politico «su basi personali », rinunciando all’insediamento organizzativo e territoriale, oltre che alla tradizione ideologica del Pd. Ma senza disporre delle risorse mediali ed economiche, «su basi personali». Se sia possibile costruire un soggetto post-berlusconiano senza essere Berlusconi.

Repubblica 6.1.14
I nuovi sospetti di Letta e Alfano “Renzi ci vuole portare al voto”
Ma spunta l’ipotesi di un compromesso sulle unioni civili
di Tommaso Ciriaco


ANGELINO Alfano riunirà i vertici del Nuovo centrodestra già domani. Ai ministri c’è da trasmettere un allarme: «L’hanno capito anche i muri che Matteo Renzi vuole tornare a votare. Dobbiamo evitareche accada».
NELLE stesse ore Enrico Letta, che condivide le stesse angosce del vicepremier, inizierà a consultare i big della maggioranza. Vuole siglare al più presto un patto di coalizione convincente, aggirando il tornado renziano. Pur ostentando in pubblico cauto ottimismo, anche il premier teme che l’escalation in atto possa riavvicinare il voto: «Il governo andrà avanti. Ma andrà avanti, come ho già detto, a patto che sia messo in condizione di operare».
Certo, con Pierluigi Bersani in sala operatoria tutto resta doverosamente sospeso. In giornata Letta potrebbe recarsi a Parma dall’ex segretario democratico. E almeno per un giorno appaiono congelate le accuse feroci per le dimissioni di Stefano Fassina, il ping pong polemico sui diritti civili e la trattativa sul rimpasto. Una tregua reale, ma a termine, perché i tempi stretti impongono scelte nette.
Lo spettro aleggia dalla sera dell’otto dicembre. Troppo sbilanciato il risultato delle primarie democratiche per non provocare uno smottamento. I cinque ministri del Nuovo centrodestra, che più di tutti hanno investito sulla stabilità dell’esecutivo, sono in contatto costante. In apprensione per l’effetto Renzi. La più giovane, Beatrice Lorenzin, lo va ripetendo dal minuto dopo le primarie del Pd: «È chiaro che Renzi proverà fino alla fine a tornare al voto. La partita è tutta qui».
Eppure, il tempo sembra giocare a favore dell’ala governista. La finestra elettorale che consente di votare insieme alle Europee si chiuderà intorno al 25 marzo. E dopo il Porcellum manca ancora una nuova legge. Impensabile tornare dagli elettori con un proporzionale puro — il prodotto della sentenza della Consulta — che a tutti appare garanzia certa di nuove larghe intese. Nonostante gli spazi ristretti, a Palazzo Chigi continuano a valutare comunque lo scenario peggiore, il timing di una crisi improbabile ma ancora possibile.
La fine anticipata della legislatura dovrebbe consumarsi quasi in parallelo a un’approvazione della riforma elettorale a tappe forzate. Stando alla “scaletta” annunciata da Renzi, il nuovo modello otterrà il via libera in commissione alla Camera entro fine gennaio e l’ok dell’Aula entro il dieci febbraio. Occorrerebbe poi chiudere l’esame in commissione del Senato a inizio marzo e approvare infine la legge in Aula entro il dieci marzo. Tutto d’un fiato, quindi, verso nuove elezioni. Una missione complicata, così almeno la giudicano anche i renziani più “duri”: «Magari si potesse — ripetono da giorni — ma i tempi sono quasi impossibili».
Nell’attesa che si chiuda la finestra elettorale, Letta lavora per ritrovare la rotta di una navigazione diventata nelle ultime ore assai perigliosa. A Roma alla vigilia della Befana, il premier ha riunito alcuni suoi consiglieri per tracciare una prima bozza del patto di coalizione. L’obiettivo è fare la sintesi delle idee della maggioranza. Scelta civica ha già recapitato le proprie proposte a Chigi, il Nuovo centrodestra si appresta a farlo. Dovrà fonderle con i desiderata del Pd, destinati a diventare ufficiali in occasione della direzione nazionale del partito. Solo allora il lavoro potrà dirsi completo.
L’agenda 2014 sarà discussa a partire dal sette gennaio. Sono in programma bilaterali tra Letta e le singole forze politiche, rappresentate da segretari e capigruppo. Il patto al quale si lavora conterrà di certo proposte sul lavoro, la sicurezza, le risorse ai comuni,le riforme costituzionali. E se dovesse allentarsi la tensione sui diritti civili, Letta potrebbe includere anche la regolamentazione delle unioni civili. In formato light e mettendo sul piatto, in una sorta di bilancia tutta politica, nuovi fondi per la famiglia.
La partita elettorale, è noto, sarà gestita in prima persona da Renzi. Al premier tocca intanto sbrogliare definitivamente il caso Fassina. Tenterà ancora di convincerlo a restare al suo posto, sondando fino all’ultimo quanto davvero irrevocabile sia il passo indietro del viceministro. Una defezione vissuta a Palazzo Chigi come destabilizzante e che ha messo in allarme anche il Colle. Poi sarà il momento del rimpasto. Ancora ieri il segretario dem ha giurato di non essere interessato alle «poltrone». Letta ufficialmente non lo contraddice: «Il problema non è la squadra — ripete — ma le cose da fare assieme». Eppure, il presidente del Consiglio tornerà ad offrirgli l’upgrade dell’unico ministro renziano, Graziano Delrio. La mossa più efficace per “responsabilizzare” il leader dem.

Repubblica 6.1.14
“Il suo obiettivo non sono io ma Letta con il governo è sempre ambiguo”
L’ex viceministro: Matteo la smetta con quel ditino alzato
di Umberto Rosso


ROMA — Enrico Letta ha tentato a lungo di convincerlo, un’affettuosa telefonata subito dopo le dimissioni che Stefano Fassina gli ha personalmente annunciato. Ma alla fine della conversazione, niente da fare. «Enrico – gli ha spiegato il viceministro dell’Economia, ormai ex – mi dispiace ma io lascio in modo definitivo. No, non ci ripenso. Perché l’inaccettabile reazione di Renzi alla mia intervista, critica nei toni ma corretta nella sostanza, dimostra che quel che temevo è ormai una conferma , ed è sotto gli occhi di tutti: il suo rifiuto a entrare nella squadra di Palazzo Chigi, al coinvolgimento con dei nuovi ministri, dimostra un atteggiamento non costruttivo, ambiguo rispetto alle sorti dell’esecutivo. Il problema politico, e tutto politico, che avevo sollevato, è ormai esploso». Sul piano personale poi, quel “Fassina chi” oltre ad amareggiare, a «lasciare di stucco» il vice ministro, lo ha portato a ulteriori considerazioni negative sul Pd a trazione Renzi, perché «è preoccupante per il nostro partito un atteggiamento simile da parte di Matteo: col ditino alzato, a voler impartire una lezione di dignità politica. Presentarmi come uno che pensa alle poltrone e alle correnti, ma dai, mentre io sostenevo esattamente l’opposto: mi ero detto pronto a lasciare l’incarico per favorire una svolta. Una mancanza di rispetto per le opinioni diverse dalle sue che francamente non fa ben sperare per un partito di sinistra». E comunque, spiega rispondendo a Renzi, «non è certo per una battuta che me ne sono andato ma ci sono motivazioni politiche profonde, e stia certo che le spiegherò in direzione».
A confortarlo nella scelta di gettare la spugna, 300-400 messaggi conteggiati tra posta elettronica, sms, telefonate, oltre alla reazioni pubbliche di sostegno, dalla Camusso fino ad un avversario di tante battaglie come Brunetta. Sì, anche molte chiamate, «bravo Stefano, fatto bene, chapeau alla tua coerenza», dai nemici del centrodestra, che in tanti hanno voluto fare privatamente, «senza dichiarazioni pubbliche per evitare strumentalizzazioni ». Da solo insomma non si sente affatto, «e comunque quando si tratta di dignità personale si può restare anche da soli a combattere». Alla fine di due giorni di passione, ieri sera ha staccato e se n’è andato a teatro, dopo aver avuto le ultime sulle condizioni di salute di Bersani, il segretario che lo ha lanciato sulla scena governativa. Sempre più convinto, dopo le ultime sferzanti parole di Renzi e dei suoi (la Serracchiani che parla di effetti speciali delle dimissioni, Guerrini che gli rimprovera di averle date giusto in questo momento) di aver fatto la cosa giusta. Spera che serva a sollevare il velo, a far vedere che il re è nudo, a mettere all’ordine del giorno la questione del rapporto fra la squadra di governo e il Pd di Renzi, e quindi il rimpasto. Con le sue dimissioni pensa di aver fatto da detonatore ad una miscela che è meglio esploda subito. Anche perché nella reazione di Renzi contro di lui, così come pensano alcuni, il viceministro ci vede qualcos’altro. La «forte preoccupazione» è che nel mirino del segretario non ci sia tanto il viceministro Fassina quanto proprio Enrico Letta, «perché se io lancio la richiesta di una svolta, di un metodo di governo nuovo coinvolgendo i suoi uomini, e lui la snobba così, il sospetto diambiguità nel sostegno all’esecutivo diventa quasi certezza». C’entrano rancori personali, o magari Fassina ho solo sfruttato l’occasione per mollare un posto che ormai gli stava stretto, come accusano i renziani? Rapporti personali difficili magari sì, i due non si “prendono” lontani come sono per formazione e storia politica, ma Fassina agli amici sentiti in queste ore ha raccontato così il rapporto con Matteo. «L’ho criticato spesso, è vero, certe volte forse in modo ruvido, ma in modo leale, diretto e sempre sul piano politico e mai personale. Ma anche lui mi ha attaccato spesso». Insomma, se le sono date. «Ma la sera dell’8 dicembre, appena chiaro il risultato delle primarie, sono stato il primo a riconoscere ilsuccesso pieno di Matteo, e quindi il suo diritto e dovere di lavorare per una svolta, dare il suo imprimatur al governo e ai suoi equilibri. Una svolta vera però». Ecco gli equilibri, quel che Renzi gli rimprovera: il rimpasto è da Prima Repubblica, il Pd deve pensare al paese e non alle beghe dei dirigenti. Fassina non ci sta. «Matteo parla d’altro, invece di rispondere. Io in guerra per ragioni di poltrona? Ma se sono stato il primo a mettere a disposizione il mio incarico al ministero. Ma quali correnti, ma che vecchi giochetti, io sollevo una questione politica e non ne faccio un’affare da manuale Cencelli. Certo, per uno che attacca un giorno sì e l’altro pure il governo, non è facile da riconoscere».

Corriere 6.1.14
Roma, deficit a quota un miliardo
Il peccato capitale di una città in dissesto
La città? Ha più dipendenti della Fiat
Assunzioni record per Atac, Ama e Acea: 31 mila occupati
di Sergio Rizzo


È dura da credere. Ma c’è un farmacista, in Italia, che vendendo le medicine riesce perfino a rimetterci una barca di soldi. Si tratta del Comune di Roma. Le farmacie comunali hanno 362 dipendenti e il Campidoglio ha già tirato fuori 15 milioni per tappare i buchi pregressi. Ma per rimetterle in sesto ce ne vorranno altri 20. Dice tutto la verifica affidata alla Ernst & Young che si è resa necessaria per comprendere la reale situazione. Gli esperti hanno scoperto uno scostamento di 7,3 milioni nell’attivo rispetto ai dati scritti nel bilancio 2011. Quasi tre milioni solo la differenza fra le «rimanenze di magazzino» contabilizzate e quelle accertate: 9,1 milioni contro 6,2. Sono cifre rivelate da un dossier che il consigliere comunale radicale Riccardo Magi sta per pubblicare sul sito internet Opencampidoglio.it. Il primo di una serie di fascicoli scottanti dedicati allo scenario impressionante delle municipalizzate romane.
Ventisei società, più una marea di controllate: oltre cinquanta quelle di Acea (energia e acqua), Ama (rifiuti) e Atac (trasporti). Tre gruppi che da soli hanno qualcosa come 31.338 dipendenti, ovvero l’85 per cento del personale di tutte le partecipate comunali, che si aggira intorno alle 37 mila unità. Circa diecimila in più rispetto ai 26.800 dipendenti degli stabilimenti Fiat in Italia. Senza contare i 25 mila dipendenti diretti dell’amministrazione comunale.
Sostengono i tecnici che Roma Capitale ha un disavanzo strutturale di circa 1,2 miliardi l’anno. Ed è proprio sulla galassia delle società comunali che gravano le responsabilità maggiori di una situazione, in assenza di interventi, ai limiti del dissesto. L’Atac, per esempio. Con un numero di stipendi paragonabile a quello dell’Alitalia ha accumulato in dieci anni perdite per 1,6 miliardi. Negli ultimi cinque anni si sono avvicendati al suo vertice ben quattro amministratori delegati e un numero imprecisato di presidenti e consiglieri, senza riuscire a rimetterla in carreggiata. Il contratto di servizio costa al Comune una cifra che si aggira intorno ai 400 milioni l’anno, ma per il 2014 la richiesta era di oltre 500.
La verità è che queste aziende, e non è certo una particolarità di Roma, sono state spesso interpretate dalla politica, anche con pesanti complicità sindacali, alla stregua di poltronifici o gigantesche macchine clientelari, piuttosto che strumenti per fornire servizi essenziali alla città da gestire oculatamente. Salvo poi trovarsi di fronte a sorpresine al pari di quella spuntata nell’ultimo bilancio dell’Ama, che dà notizia di una raffica di arbitrati innescati dalla società titolare della discarica di Malagrotta. Alcuni dei quali già conclusi nel 2012 in primo grado con la condanna dell’azienda pubblica a pagare alla ditta che fa capo a Manlio Cerroni, tenetevi forte, la bellezza di 78,3 milioni di euro. Ma leggere l’elenco delle controversie in cui è incappata la municipalizzata dei rifiuti, indebitata con le banche per 670 milioni, somma paragonabile ai ricavi di un anno, e capace di assumere 1.518 persone fra il 2008 e il 2010, strappa anche qualche amaro sorriso: quando salta fuori che fra le innumerevoli cause in cui è protagonista l’Ama ce n’è persino una con l’Atac. Che va avanti da almeno sette anni, fra sentenze ricorsi e controricorsi, per la gioia degli avvocati. E chissà quanto durerà ancora.
Il tempo del presidente Piergiorgio Benvenuti, esponente di Fratelli d’Italia, scade invece giovedì 9 gennaio, quando l’assemblea dovrà nominare il suo successore: incrociamo le dita. Al contrario il presidente dell’Acea Giancarlo Cremonesi, nominato dal centrodestra, seduto su una dozzina di poltrone metà delle quali pubbliche nonché socio di un gruppo di imprese edili e immobiliari, è in una botte di ferro. Questo perché in piena campagna elettorale la precedente amministrazione comunale procedette elegantemente al rinnovo dei vertici, confermando in blocco tutto il consiglio.
Con clausole tali che la sostituzione prematura comporterebbe comunque il pagamento dei loro emolumenti fino all’aprile 2016. E che emolumenti. Al presidente Cremonesi, 408 mila euro l’anno. All’amministratore delegato e direttore generale Paolo Gallo, un milione 318 mila euro più un appartamento da 4.300 euro al mese ai Parioli e automobile adeguata. Agli altri sette consiglieri, una media di 120 mila euro ciascuno. Chi sono? Due rappresentanti del socio francese Gdf, una dirigente del Comune, l’ex parlamentare del Pdl ed ex assessore della giunta Alemanno Maurizio Leo, Francesco Caltagirone junior, il consorte dell’ex Guardasigilli Paola Severino nonché ex commissario Consob (l’Acea è quotata in Borsa) Paolo Di Benedetto, e il segretario generale della dalemiana fondazione Italianieuropei Andrea Peruzy.
Da una società del genere sarebbe naturale attendersi utili a palate. Invece nel 2012 i profitti netti sono stati di appena 77 milioni e anche se nei primi nove mesi del 2013 hanno superato i 100, restano striminziti. Certi fatti, del resto, parlano da soli. Negli ultimi cinque anni i debiti sono cresciuti di circa un miliardo, toccando 2 miliardi e mezzo. Ed è di qualche mese fa la scelta di fondere due società energetiche del gruppo, una delle quali (Acea energia spa) ha accumulato in 18 mesi perdite per 56 milioni.
Ma tutto va avanti come nulla fosse. Almeno se è vero che l’ufficio del personale diretto da Paolo Zangrillo, incidentalmente fratello del medico personale di Silvio Berlusconi, ha proceduto qualche giorno fa all’assunzione di un nuovo capo della comunicazione nella persona di Stefano Porro, ex capoufficio stampa del ministro dello Sviluppo dell’ultimo governo del Cavaliere, Paolo Romani, Passera e Zanonato. Accade mentre è da un mese senza incarico il vecchio responsabile Maurizio Sandri, licenziato due anni fa dopo essere stato parcheggiato a lungo su un binario morto per ragioni politiche (aveva collaborato in passato con amministrazioni di centrosinistra), e reintegrato all’inizio di dicembre dal giudice del lavoro. E accade in una struttura, quella delle relazioni esterne, dove sono in 25. Compreso il capo ufficio stampa Salvo Buzzanca, incidentalmente fratello minore dell’attore Lando Buzzanca nonché, ha ricordato Ferruccio Sansa sul Fatto Quotidiano, zio di Massimiliano Buzzanca: figlio di Lando e compagno di Serena Dell’Aira, collaboratrice di Cremonesi.

Repubblica 6.1.14
Fatture manipolate e creditori inesistenti “Così all’Atac si creavano fondi neri”
Il falso in bilancio per favorire i politici svelato dal collegio sindacale
di Daniele Autieri, Carlo Bonini


ROMA — Alimentati dalla truffa dei biglietti clonati, i fondi neri di Atac, stimati in almeno 70 milioni di euro annui, sono stati distribuiti alla Politica e al sistema delle imprese che ne sono state la tasca attraverso una manomissione macroscopica e sistematica della contabilità aziendale. Lo documentano il lavoro del collegio dei sindaci della Spa sul bilancio 2012 e almeno due cruciali testimonianze raccolte da “Repubblica”.
LA POSTA IN GIOCO
Alla fine del 2011, i tre componenti del collegio dei sindaci, Costantino Lauria, Renato Castaldo ed Emiliano Clementi, nella loro revisione della contabilità aziendale, inciampano in 16mila fatture pagate dalla azienda, molte delle quali di dubbia autenticità, e in una voce passiva del bilancio classificata “fatture da ricevere” pari a 156 milioni 662mila euro. Che la “posta” abbia per le sue dimensioni qualcosa di opaco appare di immediata evidenza e dunque il collegio sindacale avvia un’operazione che battezza “pulizia contabile” con cui decide di analizzare nel dettaglio i pagamenti fatti da Atac ai diversi fornitori prima del 2011.
I risultati dell’indagine arrivano solo nella primavera scorsa e sono devastanti. Quella voce“fatture da ricevere” copre infatti una catena di falsi macroscopici. Che una fonte qualificata interna all’azienda racconta così: «La “fattura da ricevere” si iscrive a bilancio quando un’azienda sa che dovrà pagare un bene o un servizio ottenuto da un fornitore, ad esempio il gasolio per gli automezzi, ma non ha ancora ricevuto la fattura per disporre il pagamento.
L’azienda, a quel punto, rimanda all’esercizio finanziario successivo la chiusura della partita contabile. Ebbene, era del tutto inverosimile che, alla fine del 2011, Atac avesse accumulato fatture ancora da ricevere per 156 milioni di euro. Non fosse altro per una ragione: quali fornitori al mondo omettono di esigere tempestivamente un pagamento da una società pubblica, sapendo per altro i tempi normalmente lunghi del saldo? La verità era che quella voce di bilancio non avrebbe dovuto superare i 10 milioni, vale a dire le fatture per prestazioni e forniture dell’ultimo segmento del trimestre contabile. Altro che 156 milioni. Dunque, quel numero non rispondeva a verità».
IL SISTEMA
Diciamo pure un falso in bilancio. Che — scopre il collegio sindacale — certo non è frutto di un errore materiale (tre zeri che diventano sei), ma la spia di un Sistema necessario a creare e distribuire fondi neri. Che funziona così. «La cifra delle fatture da ricevere viene gonfiata e rinviata all’esercizio finanziario successivo — spiega un’altra fonte aziendale direttamente coinvolta nell’indagine interna — perché con il nuovo anno contabile si materializzano improvvisamente tra i creditori dell’azienda coloro che creditori non lo sono.
In altre parole, analizzando quelle 16mila fatture che pesavano sull’esercizio finanziario del 2011 ed erano state trascinate in quello del 2012, scopriamo che molte erano false o chiaramente manipolate. Scopriamo, insomma, che, al momento di essere pagate, quelle fatture erano state intestate a nomi nuovi o comunque diversi da quelli degli apparenti creditori. Magari un’impresa amica. E magari un’impresa vicina alla politica, che dunque incassava senza aver assicurato alcuna prestazione o fornitura per Atac». «Purtroppo — conclude la fonte — si trattava di 16 mila fatture, ed era oggettivamente impossibile controllarle una per una». Nel 2012 — come si legge nella relazione al bilancio del collegio sindacale — la società di consulenza Price Waterhouse&Cooper è stata dunque incaricata di una due diligence contabile «assolutamente indispensabile» per individuare «fatture da ricevere non supportate da documenti certi». Detta senza eufemismi, per individuare i fondi neri di Atac, il loro ammontare, i lorodestinatari.
IL ROGO
Un lavoro due volte complicato. Perché, con singolare coincidenza di tempi, proprio mentre il collegio dei sindaci mangia la foglia, un immane rogo riduce in cenere l’intera memoria cartacea di Atac. Il 4 novembre 2011, infatti, una scintilla accende il “magazzino sicurizzato” dell’Azienda gestito dalla “Iron Mountain” (colosso americano tra i leader mondiali nello stoccaggio dei documenti) in cui sono custoditi contratti, documenti, note, fatture degli appalti di Atac spa (e delle tre aziende che le preesistevano prima della fusione, Atac, Trambus e Metro).
In un solo giorno va in fumo anche solo la possibilità di mettere il naso in appalti e forniture dalle evidenti anomalie. Uno per tutti: la manutenzione della “Freccia del Mare”, l’incubo su rotaia di chi pendola tra Ostia e Roma. L’8 aprile del 2008 la società Officine Grandi Revisioni (Ogr), costola di Met. Ro. e di Atac per la manutenzione dei veicoli, trasmette al top management delle due aziende una ricerca di mercato dedicata ai pezzi di ricambio acquistati per le Frecce del Mare. Il confronto è sui “vetri porte”.
A fronte dei due ordini approvati da Met. Ro. il 20 agosto e l’11 novembre 2008 alle ditte Angeloni srl e Vapor Europe srl, che prevedono un costo a pezzo di 98 euro per la prima e 128,52 per la seconda, le offerte pervenute dalle altre aziende contattate sono in media dieci volte più basse, e si aggirano tra i 6,48 e i 13,60 euro a pezzo. Una disparità enorme, certificata nei documenti andati al rogo.

Repubblica 6.1.14
Famiglia e diritti non sono nemici
di Chiara Saraceno


Prima il sostegno alla famiglia e poi eventualmente, si può discutere dei diritti degli omosessuali a veder riconosciuti i propri legami di coppia e le proprie famiglie. È ormai un riflesso condizionato. Ogni volta che si parla del diritto al riconoscimento sociale e giuridico delle coppie omosessuali, chi è contrario evoca una gerarchia di priorità, quando non di mutua esclusione, tra i “diritti della famiglia” e quelli delle coppie omosessuali e delle loro famiglie, senza, peraltro, chiarire dove starebbe la contrapposizione tra l’una e l’altra cosa e perché riconoscere le coppie omosessuali indebolirebbe la possibilità di fornire sostegni alle famiglie.
Questi, infatti, riguardano politiche abitative e di trasferimenti monetari e di servizi, principalmente, anche se non esclusivamente, a favore di chi ha famigliari a carico — figli minori, persone non autosufficienti e bisognose di cura. Proprio quelle politiche di cui sono stati molto avari tutti i governi italiani dal dopoguerra a oggi, nonostante siano stati per lo più retti da maggioranze in cui prevalevano i “difensori della famiglia” che si sono fin qui opposti a ogni riconoscimento delle coppie omosessuali e delle loro famiglie. Quelle politiche che negli ultimi anni sono state ulteriormente ridotte, proprio quando i bilanci delle famiglie erano in maggiore sofferenza, con i tagli drastici effettuati a carico della spesa sociale. Per non parlare delle politiche economiche, che hanno reso sempre più difficile ai giovani formare una famiglia — di qualsiasi tipo — se lo desiderano e a chi ne ha formata una di riuscire a mantenerla adeguatamente. L’evocazione della “priorità della famiglia”, sembra servire solo come paravento per nascondere quanto poco si faccia a favore delle famiglie concretamente esistenti, mostrandosi come campioni dei “valori”, purché a costo zero. O meglio, a costo dei diritti di libertà e del riconoscimento di un pluralismo etico e nel modo di definire e realizzare progetti di solidarietà, intimità, amore.
Questi difensori a oltranza dei “valori” e della “famiglia” univocamente e monoliticamente intesi, tuttavia, rischiano di essere spiazzati proprio da chi riconoscono come guida in questo campo o, più prosaicamente, vogliono compiacere per un qualche calcolo politico. Le chiese cristiane, infatti, stanno mostrando un forte dinamismo riflessivo. Il fenomeno è più evidente, e più consolidato, nelle chiese protestanti, anche italiane, che hanno ormai riconosciuto che non esiste una “famiglia naturale”, bensì forme storico-culturali di intendere famiglia e matrimonio. Perciò parlano di concetto plurale di famiglia, ove tutte le varie forme, incluse quelle basate su una coppia omosessuale, sono ugualmente dotate di valore.
La chiesa cattolica si addentra con maggiore lentezza e prudenza in questo terreno, almeno sul piano dei documenti ufficiali (anche se il dibattito teologico non è in realtà molto distante dalle posizioni protestanti richiamate sopra). Tuttavia sta manifestando crescenti aperture alla varietà delle forme famigliari, innanzitutto sul piano pastorale, soprattutto per merito di papa Francesco e della sua insistenza su una chiesa inclusiva piuttosto che giudicante ed esclusiva. Si è anche aperto un piccolo varco a chi, nella chiesa cattolica, sarebbe disponibile ad accettare una qualche forma di riconoscimento giuridico delle coppie di fatto, etero e omosessuali.
Certo, siamo molto lontani dalla accettazione che il matrimonio sia consentito anche alle coppie omosessuali. E c’è spesso una insistenza quasi ossessiva nel sottolineare che la famiglia è una sola, quella fondata sul matrimonio tra uomo e donna, salvo dover fare i conti con il fatto che molti genitori divorziano e si risposano e altri convivono, senza che per questo sia loro che i figli siano “senza famiglia”. Tuttavia, a differenza degli Alfano e dei Lupi, non solo singoli parroci, o teologi più o meno marginali, ma anche parte della gerarchia cattolica, incluso il responsabile della Pastorale per la famiglia, non escludono che sia venuto il momento di dare un qualche riconoscimento a queste coppie, se non altro per cercare di frenare la richiesta di matrimonio.
Questa, piccola, apertura, può non bastare alle persone omosessuali, che legittimamente chiedono pari opportunità anche nel fare famiglia. Ma segnala che anche nei piani alti della gerarchia della Chiesa cattolica italiana le posizioni non sono più così monolitiche come un tempo. E infatti le controversie e gli attacchi dei conservatori dell’ortodossia non sono mancati. Sarebbe tuttavia singolare che i difensori a oltranza nostrani della famiglia unica e della insanabile opposizione tra questa difesa e l’allargamento dei diritti sostenessero la propria posizione con argomentazioni che sono messe in dubbio anche nelle sedi che tradizionalmente le hanno elaborate e divulgate.

Corriere Economia 6.1.14
Sul diritto d’autore si rischia il cartellino rosso
Le norme del regolamento poco in linea con l’Ue
di Giovanna De Minico

Università Federico II Napoli

Il regolamento dell’Autorità per le Garanzie delle Comunicazioni sul diritto d’autore è stato emanato dopo un iter contrastato, dove insigni costituzionalisti sono stati ascoltati. Dalla lettura dell’atto emergono però violazioni alla Costituzione che è naturale chiederci perché l’Autorità li abbia consultati per poi presumibilmente ignorarli. È pur vero però che non si conosce l’esito della consultazione perché questi pareri sono stati protetti da un ingiustificato segreto.
Propongo una lettura del regolamento in base a un parametro composito: la Costituzione e il diritto europeo.
La Costituzione richiede al potere regolamentare di attendere ai seguenti adempimenti: 1) esibire una norma di legge come titolo attributivo della competenza; 2) perseguire i fini e attuare la disciplina sostanziale contenuta nella legge; 3) proteggere i diritti fondamentali preferendoli alle libertà economiche, in caso di inevitabile conflitto tra i medesimi; 4) eseguire i limiti posti dalla legge solo con atto motivato del giudice, in quanto la materia è coperta da riserva di giurisdizione a completamento di quella di legge di cui sopra.
Ma il decreto legislativo 44/2010 e il regolamento dell’Autorità hanno con disinvoltura violato gli imperativi suindicati. Circa il primo: il regolamento non è preceduto da una norma legittimante all’esercizio del relativo potere. Circa il secondo il decreto rovescia l’ordine costituzionale delle fonti normative e disattende la riserva di legge. Circa il terzo, l’Autorità accorda protezione prioritaria al bene economico a discapito della libertà di parola del titolare del sito, tenuto a pulirlo selettivamente, anche in difetto di accertamento approfondito. Circa il quarto: il regolamento assegna all’autorità, e non al giudice, il potere di definire la querelle. Dall’altro canto, l’autorità non è assimilabile al giudice per posizione istituzionale e compiti.
Quanto, invece, al diritto europeo, quest’ultimo esonera gli Internet service provider dal dovere di controllare in via anticipata il web, prevedendo nelle sue direttive la responsabilità degli Isp solo se inottemperanti all’ordine del giudice, che prescriva loro la pulizia selettiva o la disabilitazione.
Ebbene, il regolamento ha ordinato agli Isp di compiere proprio quanto l’Europa proibiva loro di fare. Nella Carta dei diritti si ammette la compressione della libertà di parola in quanto indispensabile, mentre l’Autorità la sacrifica ricorrendo a pene alternative, quali il rallentamento della velocità o il divieto di scaricare il materiale illecito.
Esistono rimedi per ricondurre a legittimità costituzionale ed europea quanto al momento non lo è? Due: rimessi rispettivamente all’Autorità e al Legislatore.
La prima dovrebbe prevedere pene pecuniarie, maggiorate, unico deterrente alla commissione di futuri illeciti, e, solo in caso di loro inottemperanza, ordinare misure repressive, disegnate e graduate in ragione dell’entità dell’illecito. Ne conseguirebbe la legittimità della pulizia selettiva, solo se contemplata come estrema ratio.
Il legislatore, dal canto suo, dovrebbe riappropriarsi della materia, scegliendo quale bene tutelare e come, rimettendo invece all’Autorità la sola esecuzione di quanto da lui prima deciso.

Repubblica 6.1.14
Maestri con la valigia
Supplenti, se insegnare è un’odissea
di Maria Novella De Luca


Senza stipendio, precari, sempre in attesa di un contratto. Sono i 130mila supplenti italiani la cui esistenza è appesa a un filo
Precari, professori a ore costretti a viaggiare chilometri. Senza ferie e con il rischio di lavorare senza essere retribuiti.
Dopo il caso degli stipendi tirati a sorte a Prato, ecco le storie di chi insegue una cattedra.
Tra graduatorie e sostituzioni.
Lo scandalo di centotrentamila docenti per cui l’Italia è stata richiamata dalla Ue

Dicono che la loro è una vita ad ore, anzi una vita a punti. Graduatorie, classifiche, e il sogno di una cattedra che non arriva mai. Precari, supplenti, docenti a “cottimo” laureati e specializzati: nel grande bacino dell’incertezza sono il volto oscuro della scuola italiana, un esercito di migliaia di insegnanti malpagati, sfruttati, senza futuro. Poche settimane fa l’ultima beffa: finito il fondo d’istituto al “Pacetti” di Prato lo stipendio degli insegnanti è stato tirato a sorte, i primi cinque hanno vinto, per gli altri tredici è stato un Natale amarissimo, fino a che il ministero non ha inviato i soldi. Ma la “riffa del supplente” non è una umiliazione nuova: era già accaduto in altre scuole d’Italia, semplicemente nessuno aveva denunciato. Precari con i capelli bianchi, precari da sempre, uno scandalo così grave, 130mila supplenti su settecentomila insegnanti in totale, per cui l’Italia è stata più volte richiamata dalla comunità europea. Perché ogni anno è peggio, ormai non vengono più nemmeno pagate le ferie, hanno gridato in migliaia a Bologna gli insegnanti a tempo, che ogni estate sperano di vincere la lotteria dell’incarico annuale, e se va male si aggrappano allo spezzatino delle ore di supplenza.
Lucia ogni notte parte alle quattro da Villa Literno per essere in classe a Roma alle 8,30, Simone da tecnico si è improvvisato insegnante di sostegno, Rita a Siena racconta di classi pollaio e ragazzi smarriti. Professione supplente: il paradosso che nessun ministro dell’Istruzione è riuscito a sanare, ma che seppure tortuosamente fa camminare il sistema scuola. Storie di resistenza umana, di paghe da sopravvivenza, di docenti costretti a saettare da una scuola all’altra cercando di rastrellare più ore possibile, tra ragazzi confusi che non sanno più che faccia ha il prof.
Lucia Galassi ha quarant’anni, un’incredibile riserva di ottimismo, e la sveglia che ogni notte suona alle 3,20. «È quando il treno delle 4,30 da Villa Literno si scassa e si ferma in campagna, e ci fanno stare lì, stretti e in piedi come su un carro di bestiame, e fa freddo, che penso che non ce la faccio più, che questa non è vita. Poi miracolosamente arrivo a Roma, raggiungo la scuola, entro in classe, guardo i miei allievi, e dimentico la stanchezza e faccio la maestra, che per me è ancora un mestiere bellissimo...».
Da dieci anni Lucia Galassi, insegnante precaria di scuola primaria di Cancello e Arnone, provincia di Caserta, si alza nel cuore della notte e insieme ad altre decine di colleghi e colleghe si mette in viaggio verso Roma, su treni regionali sporchi, che spesso si rompono e allora, racconta, «il tragitto diventa infinito ». Lucia è riuscita ad avere più supplenze annuali, «ma ricordo quando non avevo l’incarico, partivo nella notte lasciando mio figlio piccolo e mio marito, sperando che nel viaggio qualche preside mi chiamasse, invece arrivavo a Termini e per quel giorno non c’era nulla, o peggio, mi convocavano così tardi che era impossibile raggiungere la scuola... Così prendevo un cappuccino e tornavo a casa, dopo aver buttato la giornata... E mio figlio si era inventato un videogioco in cui bombardava Roma, perché Roma voleva dire la mamma in viaggio».
Nell’esercito dei supplenti le maestre pendolari (nelle primarie sono donne il 90 per cento dei docenti)«Arriviamo già stanche e affrontare una classe elementare è una prova ardua. Ho molte colleghe che si sono fermate, che ci hanno rimesso la salute. Io continuo, è la passione che mi sostiene, le lettere dei miei allievi, l’esperienza nelle scuole difficili di Tor Bella Monaca, il ricordo della ragazza rom che abbiamo portato fino alla terza media, e quando vado al campo a trovarla per tutti sono “la maestra” e nessuno si azzarda a toccarmi la borsa o il cellulare. Niente di eroico, è il nostro lavoro, che però da un giorno all’altro può svanire, lasciandoti a mani vuote».
Voci da un mondo dove la certezza è un miraggio, e così la costruzione di una vita, poter chiedere un mutuo, comprare una casa. Simone Bogi, 47 anni, di Siena, la butta sull’ironia e dice che la sigla della sua specializzazione è “Itc”, insegnante tecnico pratico, da lui tradotto in “insegnante a tempo perso”. «Sono precario dal 1986. Pur di lavorare sono andato ovunque, fisica, impiantistica, informatica, poi la riforma Gelmini ha tagliato i laboratori, per la mia materia sono rimaste pochissime ore, ho provato per la prima volta sulla mia pelle cosa vuol dire la disoccupazione totale. Per sopravvivere mi sono trasformato in insegnante di sostegno, oggi seguo cinque ragazzi disabili ».
Tra le tante beffe della condizione precaria non ci sono soltanto le casse vuote dei fondi d’istituto o il mancato pagamento delle ferie.L’ultima famigerata riforma della scuola targata Maria Stella Gelmini, accorpando classi e spazzando via materie, non solo ha scaraventato l’istruzione italiana nel fondo delle classifiche Ocse, ma ha tagliato un’infinità di posti di lavoro. «Mi sono appassionato al mio nuovo mestiere: in ognuno di questi ragazzi con ritardi cognitivi ci sono possibilità da sviluppare, ho visto quanto la Rete può aiutarli, ho messo a frutto la mia esperienza nell’informatica. Ma tra poco il mio contratto scadrà, tutto si fermerà di nuovo, per me e per loro...».
L’altra faccia del precariato è questa, il prezzo pagato dagli studenti, che subiscono il turnover di maestri o professori che possono cambiare anche sei o sette volte in un anno. «Mi dispiace abbandonare la mia professione — dice ancora Simone — ma ricomincio con una start up di informatica, pensate che mi darà lavoro una mia ex allieva». Rita Petti, anche lei toscana, racconta che nessuno meglio di un supplente può toccare con mano quanto sia naufragato in Italia non soltanto il sogno di don Milani, ma il progetto stesso di una scuola pubblica e democratica e di livello. «Sono docente di Storia dell’arte, una di quelle materie quasi spazzate via dall’ultima riforma. Forse perché insegniamo ai giovani a capire la bellezza, il senso delle cose, diamo fastidio, anche per la geografia è stato così. Ma io ho scelto di restare nella mia materia, e per mettere insieme uno stipendio decente faccio supplenze in tre scuole diverse. Impossibile un progetto di vita privata ma impossibile anche un progetto didattico: tanto degli studenti, soprattutto se adolescenti non importa nulla a nessuno, sono troppo giovani per votare».
Non ha paura di definire il precariato «un mostro creato per mille interessi differenti» Rita Petti, che ha 48 anni, una figlia e tante estati passate ad aspettare la “chiamata” del provveditorato. «Mi trovo ad insegnare in aule di 35 alunni, accorpate per tagliare cattedre e posti di lavoro. Nelle scuole è tornata la divisione sociale, le classi differenziali: nei tecnici i ragazzi che arrivano da nuclei disagiati, nei licei i figli di famiglie che possono sostenerli e pagare lezioni private. Purtroppo».
E se oltre ad essere precario, il supplente è anche una voce contro, la vita diventa davvero dura. Vittorio Lima ha 52 anni, insegna italiano e latino a Padova, e in una cattedra spera ancora. «Sono in cima a tutte le graduatorie, ho insegnato nelle carceri e negli ospedali, da anni mi viene rinnovato l’incarico nello stesso liceo dove ormai faccio parte stabilmente del corpo docente. Eppure, quando provo a ricordare ai miei colleghi che il nostro compito è quello di formare degli individui, non dei latinisti o dei grecisti bocciando senza criterio, allora si fanno venire in mente che sono un supplente, un precario e dunque per me sarebbe meglio tacere... ».
Piccole miserie di un mondo dove per lavorare bisogna sperare che il titolare di una cattedra si ammali, o la docente di ruolo vada in maternità. E c’è tutta la storia del Sud senza lavoro nelle parole di Maria Pirrotta, 46 anni di Palermo, anche lei prof di Lettere. «Ho viaggiato chilometri per raggiungere le scuole con le supplenze, ho visto condizioni spaventose, edifici fatiscenti, aule dove non c’era nemmeno la lavagna, parcheggi per giovani che aspettano i 16 anni per abbandonare e ingrossare le fila della dispersione scolastica. E su di noi in Sicilia si è abbattuta la scure del ministero. Se non avessero tagliato le cattedre sarei di ruolo già da tempo. Resistere è difficile: ma poi capita una scuola buona, un gruppo di ragazzi che si appassionano alla mia materia, e la voglia di insegnare ritorna. Sembra incredibile, ma è così».

il Fatto 6.1.14
Cina e India, nuovi signori dello spazio
Erano paesi poveri, ora vanno su Marte
di Andrea Valdambrini


Mangalyaan è la sonda spaziale indiana che esplorerà Marte, il “pianeta rosso”, quello che dopo la Luna è da sempre il sogno proibito delle ambizioni celesti di noi terrestri. Il nome può suonare esotico alle nostre orecchie di occidentali, anche se in hindi non significa altro che “nave spaziale di Marte”. Mangalyaan è partito da poco, in un giorno dello scorso novembre, da una base collocata sulla Baia del Bengala. Per dare l’ok alla sua messa in orbita c’è stato bisogno di aspettare le condizioni metereologiche favorevoli date dalla fine del monsone, che ciclicamente spazza il Subcontinente. La sonda, viene detto, dovrebbe raggiungere il pianeta rosso entro il prossimo settembre. Il comunicato della Indian Space Research Organization di Bangalore ha accompagnato le prime fasi della vita di Mangalyaan con l’ufficialità con cui si rende pubblico un rito. Ma a leggere tra le righe, l’orgoglio per la missione emerge tutto. Basta guardare dati e numeri forniti dalla stessa agenzia spaziale, aridi solo in apparenza. La navetta del peso di 1,3 tonnellate è stata lanciata in orbita dopo che i suoi motori hanno rombato sul suolo indiano per circa venti minuti. Oltre 300 i giorni di viaggio previsti per arrivare a lambire il suolo di Marte penetrando nella sua atmosfera ed orbitando per un certo tempo ad una distanza che varia tra le 227 miglia – nel momento di massima vicinanza – alle 50.000 miglia. Lo scopo della missione è principalmente scientifico: scattando immagini dettagliate del suolo marziano e raccogliendo dati sulle condizioni dell’atmosfera, Mangalyaan darà il suo contributo per la risoluzione del mistero della vita su Marte. Come funziona lassù l’atmosfera? Se un tempo c’è stata l’acqua, per quale motivo è poi sparita?
Tra i dati e i numeri, solo in apparenza cristallini e neutrali, ce n’è però uno che ha fatto discutere più degli altri: il costo della missione. Circa 72 milioni di dollari già spesi solo per questo primo tentativo di raggiungere il pianeta rosso, mentre il costo complessivo del programma spaziale messo in cantiere da new Delhi ammonta a oltre un miliardo di dollari. Se poco meno della metà della sterminata popolazione indiana (1,2 miliardi) vive sotto la soglia di povertà (fissata a un dollaro al giorno) e non ha accesso diretto ai servizi sanitari, il 40% dei bambini sono malnutriti, la prospettiva di crescita economica rallenta, davvero il governo può permettersi un programma spaziale così costoso? O non si tratta piuttosto di un’operazione politica d’immagine che un esperto di economia dello sviluppo ha definito come “la risposta alla frustrazione dell’élite indiana nella ricerca dello status di superpotenza”?
Da parte sua il governo ha difeso il programma spaziale in nome del progresso della nazione, rispondendo alle critiche anche con atti simbolici. Non a caso il primo ministro Manmohan Singh aveva presentato Mangalyaan in un solenne discorso tenuto al Red Fort, la sede del potere imperiale indiano delle dinastie Mogul. L’occhio dell’India che si imbarca nell’avventura celeste è rivolto verso l’altro gigante asiatico, la Cina. Come uno dei più noti commentatori scientifici del Subcontinente in occasione del lancio di Mangalyaan ha efficacemente sintetizzato: “Nel secolo scorso la corsa allo spazio significava americani contro sovietici. Nel 21esimo secolo significa India contro Cina. Ecco perché tutto questo ha a che fare con il nostro orgoglio nazionale”. Come per dire: una volta la competizione era tra i due blocchi, tra Washington e Mosca. Ma questo è il passato. Il futuro invece è tutto dalla parte delle due superpotenze asiatiche emergenti.
A dire il vero, la Cina è già emersa, l’India è invece quella che scalpita di più per la ribalta mondiale, essendo rimasta, come sottolineano in molti, un gigante economico e un nano politico. Infatti, rispetto all’India, ultima arrivata nell’avventura, la Cina sembra avanti nella corsa allo spazio, tanto da rincorrere con decisione, e ormai da anni, i programmi di Usa e Russia. Solo poche settimane fa le fonti ufficiali di Pechino hanno annunciato di aver lanciato in orbita con successo una sonda lunare. Il “coniglio di giada” – il cui nome si riferisce al mitologico animale domestico posseduto da una divinità femminile del Celeste impero - è in realtà solo un piccolo veicolo meccanico in grado di raccogliere campioni di terreno e registrare le onde ultraviolette delle stelle. Non è la prima volta che la Cina tenta la rincorsa ai programmi spaziali. Dopo un primo volo ricognitivo nel 2003, nell’ottobre del 2007 è stata lanciata dal centro spaziale di Xichang, nella provincia meridionale di Sichuan, una missione nell’orbita lunare. Già in quella occasione le era stato attribuito un nome mitologico e ben augurante, quello di Chang’e, la dea del pantheon cinese che è volato proprio sulla luna. Chan’e 3 si chiama anche la missione che trasporta sul suolo lunare il Coniglio di giada. Ed è proprio con questo ultimo lancio che Pechino farà atterrare per la prima volta una sonda sul nostro satellite. Non ci sono uomini a bordo di Jade Rabbit, ma la sfida è lanciata ed il percorso futuro sembra essere tracciato. Gli americani sono arrivati per primi nel 1969 (almeno se lasciamo per un attimo da parte le tesi del falso sbarco), i russi qualche anno dopo, nel ’76. Poi una lunga quiescenza, durante la quale nessuno sembrava davvero essere interessato a mostrare il suo potere spaziale, ovvero a combattere la guerra fredda a colpi di lanci in orbita. In futuro, sembra dire Pechino, sarà il nostro turno e arriverà il momento di piantare la bandierina rossa con le stelle gialle sulla luna. Lo sbarco di un equipaggio potrebbe avvenire entro il 2025, fanno sapere fonti del programma spaziale cinese, dopo che nel 2020 dovrebbe già essere stata impiantata una vera e propria base lunare.
Al di là del rilievo scientifico, ancora una volta, le missioni spaziali hanno un importante rilievo politico. Nel 2007 la messa in orbita di Chang’e si è svolta sotto la compiaciuta supervisione di Hu Jintao, nel 2013 il Coniglio di giada marca la presidenza di Xi Jinping e il nuovo corso della Cina di oggi. Con un occhio naturalmente rivolto anche a New Delhi, che per quanto indietro dal punto di vista tecnologico, rimane il competitor più diretto di Pechino.
La gara tra i due giganti asiatici, d’altronde, ha una dimensione storica. Ben prima di essere due superpotenze emergenti, Pechino e Delhi già combattevano tra loro, a ben vedere. E già su fronti opposti. Nel lontano 1958 la Cina lancia il suo primo missile, di fabbricazione sovietica, a cui l’India risponde nel ’63 con un Nike-Apahce made in Usa. Nel 1970, in seguito alla Rivoluzione culturale, la Cina è costretta ad interrompere temporaneamente il suo programma spaziale proprio all’indomani della messa in orbita del primo satellite. La competizione riprende e va avanti nell’ultimo decennio del scolo scorso, ma dopo il duemila è proprio Pechino ad allungare il passo. Fino all’arrivo di Mangalyaan e ad una promessa che solletica l’orgoglio nazionale: gli indiani arriveranno a toccare il suolo lunare nel 2020. Questo significa che ce la faranno cinque anni prima dei cinesi? Questi sono i proclami, ma quello che succederà realmente è tutto da vedere. E se gli indiani davvero sbarcheranno in anticipo, sarà forse solo un piccolo passo per quegli uomini, in ritarso di 60 anni sugli americani. Ma un grande passo per le ambizioni di superpotenza della Madre India.

il Fatto 6.1.14
Intervista a Enrico Saggese, presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana
“Dallo spazio aspettiamo ancora molte sorprese”
di And. Val.


Nel ’69 avevo vent’anni. La notte dello sbarco degli americani sulla luna ero sveglio, incollato alla televisione come tutti. È stato proprio in quel momento che ho deciso di dedicare i miei studi e la mia carriera allo spazio. Quello che per me resta ancora oggi la frontiera più affascinante dell’uomo”. Così racconta Enrico Saggese, allora studente di Ingegneria elettronica, oggi presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana, l’ente che si occupa delle politiche “celesti” nel nostro Paese. Con lui proviamo a capire come si muove l’Italia nel contesto globale della ricerca spaziale, e quali sono le tendenze scientifiche e tecnologiche del presente e del futuro.
Cosa fanno gli italiani nello spazio?
Intanto, veniamo da lontano. Con un po’ di orgoglio possiamo ricordare come siamo stati i terzi al mondo, dopo Usa e Unione Sovietica ad aver lanciato in orbita un satellite. Era il 1964 e la corsa allo spazio era davvero agli albori. Due anni prima era stato il generale Luigi Broglio (il militare italiano considerato il padre delle attività di astronautica ndr) a iniziare l’avventura. Broglio era un accademico interessato alla ricerca ma anche un militare, fortemente filoamericano. Il primo lancio made in Italy infatti, seppure con tecnologia ampiamente italiana, avvenne nella base di Wallops Island, sulla costa atlantica degli Usa. Sempre a Broglio si deve l’installazione della piattaforma italiana di lanci a Malindi, in Kenia, da cui fino al 1988 sono stati messi in orbita diversi satelliti di fabbricazione italiana montati su vettori Scout americani. Un altro passaggio importante per l’Italia fu il lancio del satellite Sirio nel 1977 che misurava le bande di frequenza in KU e KA, cioè banalmente quelle oggi utilizzate rispettivamente per la trasmissione di Sky e internet. Insomma, il nostro Paese si muove ormai da molti anni ad ampio raggio tra tecnologia e ricerca.
Luca Parmitano è ormai diventato il nome più rappresentativo dell’Italia nello spazio.
L’Italia ha accettato di far parte di un corpo europeo di astronauti e il nostro Parmitano è entrato a far parte, in base a questo accordo di collaborazione, della stazione spaziale internazionale, in cui è rimasto per diversi mesi in orbita. Il 2014 vedrà ancora una novità: sarà per la prima volta una donna italiana, Samantah Cristoforetti, ad andare in orbita sulla stessa stazione spaziale internazionale, dove rimarrà 6 mesi. E poi c’è Exomars, la missione della European Space Agency lanciata verso l’esplorazione del Pianeta Rosso. Anche in questo caso, come in quello di altre missioni europee, il contributo italiano è davvero decisivo.
La guerra fredda tra Stati Uniti ed ex Unione sovietica si è chiusa con la fine dei due blocchi. Oggi però Luna e Marte sono oggetto della nuova contesa tra superpotenze emergenti. Le “guerre stellari” sono finite per sempre o in futuro avremo sorprese?
Non credo si possa dire facilmente che sia finita. Certo, l’attenzione principale è ormai sul terreno delle tecnologie aerospaziali. Già adesso diversi Paesi, tra cui sicuramente gli Usa, stanno sperimentando i cosiddetti aerei sub-orbitali. Si tratta di veicoli che dopo il decollo entrano in orbita e poi ridiscendono. Questi aerei permetteranno in futuro di coprire distanze enormi in tempi al momento impensabili. Un volo tra Europa e Nuova Zelanda, ad esempio, potrebbe durare circa due ore. Evidentemente le applicazioni commerciali e il possibile impatto di questa nuova tecnologia sono importantissimi. E non è difficile capire come il dominio dell’aerospazio significhi dominio tecnologico globale. E poi, anche sulla corsa a Luna e Marte ci potrebbero essere delle sorprese. Finché americani (ed europei) erano gli unici a poter andare, l’interesse era progressivamente calato fino quasi a sparire. C’è però da scommettere che la competizione tra Cina e India risveglierà presto l’attenzione delle superpotenze occidentali.

il Fatto 6.1.14
Il “rosso” che sognava la Luna
di Stefano Citati


La storia la scrivono i vincitori ma la realizzano anche i perdenti. Quelli che finiscono nel lato oscuro della gloria, sull’altro emisfero della fama, il lato B del successo planetario. Comprimari senza i quali non ci sarebbe stata la gara, e dunque la vittoria. Come i moscerini della frutta, i primi esseri viventi mandati oltre l’atmosfera riadattando due V-2 tedesche, due razzi balistici costruiti dai nazisti per annientare Londra nel 1945 e riutilizzati dagli americani (che di tecnologia e geni del III Reich fecero incetta, usandoli per finire di costruire l’atomica negli States e creare parte della rete di spionaggio che avrebbe operato durante la Guerra fredda) nel 1946.
Ma furono i sovietici a scioccare il mondo nel 1957 con l’invio in orbita degli Sputnik, il secondo con la cagnetta Laika. Erano partiti di slancio nella corsa alla conquista dello spazio che tra il 1957 e il 1975 si è intrecciò con la Guerra fredda e il dominio tecnologico e ideologico del mondo, e il cui ultimo capitolo, !e “guerre stellari” negli anni ‘80, agevolò il crollo dell’Urss allargano il gap economico-scientifico. Ma a cavallo tra i ‘50 e i ‘60 gli ingegneri sovietici (capaci di carpire i segreti atomici e montare la Bomba oltre-Cortina di ferro) erano pienamente in grado di sostenere la gara intellettuale con quelli occidentali. Il migliore di tutti era Sergei Pavlovic Korolev, ingegnere che per primo aveva fatto partire un razzo in Unione Sovietica, nel 1933, grazie anche alla vicinanza con la scuola italiana, al tempo eccellente e influente. Talmente talentuoso e indispensabile, da essere tirato via dal gulag siberiano nel quale Stalin lo aveva fatto rinchiudere nel 1938 per tradimento e messo in un “riformatorio” per ingegneri già prima della fine della Seconda guerra mondiale. Riabilitato da Krusciov negli anni ‘50 gli venne affidata la missione lunare sovietica nel 1964, quando Mosca era testa a testa con Washington. Morì nel 1966, a 59 anni privando l’Urss della spinta necessaria per battere gli Usa.

l’Unità 6.1.14
Israele
Trentamila africani chiedono lo status di rifugiati


l’Unità 6.1.14
Record di immigrati in Germania, boom di italiani
Più 400mila ingressi nel 2013 mentre è polemica nella grosse Koalition sull’arrivo di bulgari e rumeni
di Gherardo Ugolini


Corriere 6.1.14
Un saggio di de Giovanni paragona Severino al filosofo del fascsmo. Ma a tutte le sue obiezioni è possibile rispondereÈ Gentile il profeta della civiltà tecnica Ne rende possibile il dominio planetario. Eppure la legge del divenire è eterna
Essere convinti dell’inesistenza di ogni verità assoluta equivale ad essere convinti dell’inesistenza di ogni essere immutabile ed eterno
Continuo a negare che la nascita dell’uomo e delle cose sia un venire dal nulla e che la morte sia un andare nel nulla
Gli oppositori
Sono molti, moltissimi? Non importa. Un tempo tutti negavano, sconcertati, persino
che la Terra girasse attorno al Sole
di Emanuele Severino


Giovanni Gentile fu assassinato perché era la voce più autorevole e convincente del fascismo. Eppure la sua filosofia è la negazione più radicale di ciò che il fascismo ha inteso essere. Non solo. Essa è tra le forme più potenti — non è esagerato dire la più potente — del pensiero del nostro tempo. Di tale potenza lo stesso Lenin si era accorto — forse gli assassini di Gentile non lo sapevano neppure. Tanto meno lo sa la cultura filosofica oggi dominante, che mai riconoscerebbe a un italiano un così alto rilievo. Non solo. Contrariamente agli stereotipi che vedono in Gentile un avversario della scienza, l’attualismo gentiliano è l’autentica filosofia della civiltà della tecnica: rende possibile il dominio planetario della tecno-scienza, ancora frenato dai valori della tradizione. Altrove ho mostrato il fondamento di queste affermazioni. Il recente libro di Biagio de Giovanni Disputa sul divenire. Gentile e Severino (Editoriale Scientifica, 2013) è un grande e suggestivo contributo al loro approfondimento — come d’altronde c’era da attendersi dalla statura culturale e sociale dell’autore.
Va facendosi largo nel mondo la convinzione che l’uomo non possa mai raggiungere una verità assolutamente innegabile; che, prima o poi, ogni verità siffatta resti travolta da altri modi di pensare, da altri costumi, cioè si trasformi, muoia: divenga . Travolta, anche la certezza che esistano le cose che ci stanno attorno; essa è innegabile solo fino a che esse non vanno distrutte: era innegabile solo provvisoriamente. Esser convinti dell’inesistenza di ogni verità assoluta è quindi, insieme, esser convinti dell’inesistenza di ogni Essere immutabile ed eterno. «Dio è morto», si dice.
La negazione di ogni verità assoluta e innegabile non investe dunque l’esistenza del divenire del mondo. Anzi, proprio perché si fa largo la convinzione che il divenire di ogni cosa e di ogni stato sia assolutamente innegabile (ed eterno), proprio per questo è inevitabile che ci si convinca dell’impossibilità di ogni altro innegabile e di ogni altro eterno. Gentile lo mostra nel modo più rigoroso (mentre il fascismo, come ogni assolutismo politico, intendeva essere la configurazione inamovibile dello Stato).
Ma è appunto per quell’estremo rigore che de Giovanni rileva, a ragione, l’incolmabile contrasto tra il pensiero di Gentile e il tema centrale dei miei scritti, l’affermazione cioè che la verità assolutamente innegabile esiste e che tutto ciò che esiste (nel presente, nel passato, nel futuro) è eterno , ossia non esiste alcunché che esca dal proprio esser stato nulla e che sia travolto nel nulla. Certo, la più sconcertante delle affermazioni. Che però de Giovanni considera fondata con altrettanto rigore. Infatti, mi sembra, egli è interessato al contrasto Gentile-Severino perché vede in ogni forma di contrasto una conferma della propria prospettiva di fondo, per la quale l’esistenza umana è, da ultimo, un contrasto insanabile tra il desiderio dell’uomo, finito, di esser salvato dall’Infinito e la problematicità del rapporto finito-Infinito. Quindi, a suo avviso, per quanto rigorose possano essere la posizione filosofica di Gentile e la mia, ci dev’essere in entrambe un vizio o più vizi di fondo che non possono venir estirpati. Attraverso una finissima procedura interpretativa de Giovanni lo fa capire rivolgendo domande, obiezioni sotto forma di domande. Soprattutto a me. Provo a rispondere ad una soltanto. In modo adeguato risponderò in altra sede.
Ma prima rivolgo anch’io una domanda a de Giovanni. La sua prospettiva — qui sopra richiamata in modo molto sommario — intende essere una verità assolutamente innegabile o una proposta dove non si esclude che la verità innegabile esista da qualche parte? Propendo per la prima alternativa. Mi sembra infatti che anche per de Giovanni l’unica verità indiscutibile sia la «storicità» del reale, cioè il divenire che travolge ogni altra presunta verità. La sua distanza da Gentile tende così a vanificarsi nonostante le obiezioni, che a questo punto hanno un carattere subordinato.
E infatti de Giovanni mi chiede se non ci sia «qualcosa di ineluttabile» «nella condizione mortale dell’uomo», se la morte non sia «la prova inconfutabile», l’«irrefutabile cogenza» che «l’ente uomo nasce dal nulla e va nel nulla» — e anzi, lasciando da parte il domandare, afferma che il mio discorso «si scontra con il fatto che l’uomo muore» (pp. 83-84, corsivo mio). Il contesto in cui de Giovanni avanza queste domande-affermazioni è incommensurabilmente lontano dall’ingenuità con cui a volte queste domande mi vengono rivolte. Ma in questa sede può essere opportuno richiamare — ancora una volta — che i miei scritti, ovviamente, non hanno mai negato che l’uomo muoia e come muoia e resti il suo cadavere, ma hanno sempre negato che la nascita dell’uomo e delle cose sia un venire dal nulla e che la morte sia un andare nel nulla; e lo negano perché mostrano che questo andirivieni non è un «fatto». Provo a chiarire.
Che il dolore, l’agonia, la morte dell’uomo (e il perire dei viventi e delle cose) sia un «fatto» significa che se ne fa esperienza . Certo: si fa esperienza dell’orrore della morte — che è sempre la morte altrui. Ma chi crede che la morte sia un andare nel nulla non crede (è impossibile che creda) che l’uomo vada nel nulla ma , insieme, continui ad essere un «fatto» che appartiene al contenuto dell’esperienza: gli appartenga nello stesso modo in cui gli apparteneva prima di annientarsi. Nell’esperienza rimane il ricordo di coloro che sono andati nel nulla, e il ricordo è un «fatto»; ma non rimane il fatto in cui consisteva il loro esser vivi, non si fa più esperienza del loro esser stati vivi. Chi, dunque, crede che la morte sia annientamento crede che — pur avendo avuto esperienza dell’agonia e del cadavere — ciò che è diventato niente sia diventato anche qualcosa che non appartiene più all’esperienza, che non è un fatto.
Ma allora è impossibile che l’esperienza mostri che sorte abbia avuto ciò che è uscito dall’esperienza, e quindi mostri che esso è diventato niente . Di questa sorte l’esperienza non può che tacere. Cioè l’annientamento non può essere un «fatto». (E se il cadavere viene bruciato e, come si dice, «diventa cenere»; allora anch’esso, come tutta la vita passata di chi è morto , esce dall’esperienza — anche se ne rimane il ricordo. Daccapo: che esso, diventando cenere, sia diventato niente non può essere l’esperienza ad attestarlo).
Ci si convince dunque che la morte è annientamento non sulla base dell’esperienza, ma sulla base di teorie più o meno consistenti. All’inizio i vivi si fermano atterriti di fronte alle configurazioni orrende della morte dei loro simili e restano colpiti dalla loro assenza; i morti non ritornano, vivi, come invece il sole torna a risplendere al mattino. Anche su questa base, quando si fa avanti la riflessione filosofica sul nulla, si pensa che ciò che non ritorna sia diventato niente e si crede di sperimentarne l’annientamento. Gentile sta al culmine di tale fede e, con la propria «teoria generale dello spirito», dimostra nel modo più radicale l’impossibilità di ogni realtà esterna all’esperienza, sì che l’uscire dall’esperienza è per ciò stesso l’andare nel niente. Ma, appunto, si tratta di una dimostrazione, di una «teoria», non della constatazione di un fatto.
Dunque , la sconcertante affermazione, al centro dei miei scritti, che tutto ciò che esiste è eterno, non è un «paradosso» che «si scontra» con l’esperienza, cioè «con il fatto che l’uomo muore». All’opposto, a scontrasi con l’esperienza sono coloro che — affermando la sua capacità di attestare l’annientamento degli uomini e delle cose — vedono in essa ciò che in essa non c’è e non può esserci. Sono molti, moltissimi? Non importa. Anche quando qualcuno ebbe a mostrare che è la Terra a girare attorno al sole e non viceversa, tutti gli altri lo negavano, sconcertati.
A questo punto de Giovanni deve mostrare perché (una volta escluso lo «scontro con il fatto») non accetta la fondazione che di quella sconcertante affermazione ho indicato nei miei scritti. Attendo. Ma anche tutte le altre sue domande attendono la mia risposta.

Corriere 6.1.14
Mayerling, nuove ipotesi su Rodolfo vittima di un complotto reazionario
di Dario Fertilio


Mayerling: nome che nei più evoca il romanzo d’appendice, non il delitto di Stato. E infatti il presunto suicidio di Rodolfo d’Asburgo, principe ereditario al trono d’Austria-Ungheria, ritrovato al fianco della giovanissima baronessa Maria Vetsera in una tenuta di caccia a pochi chilometri da Vienna, pare un melodramma concepito a beneficio di compositori e registi. Invece è un episodio storico centrale di fine Ottocento, uno di quelli destinati a influenzare la modernità. Quel giorno, il 30 gennaio 1889, il mondo, o almeno l’Europa, imboccò infatti una strada senza ritorno: la morte di Rodolfo tolse di mezzo un credibile riformatore dell’impero austroungarico, in grado forse di evitarne la rovina e risparmiare così molti lutti ai suoi numerosi popoli. E non siamo di fronte a uno dei tanti esempi possibili di storia fatta con i «se», giacché la fine violenta del principe fu certamente pianificata e attuata freddamente, facendo in modo da mascherarla come suicidio. Le nebbie persistenti delle ipotesi e del dubbio riguardano non tanto la visione politica del principe ereditario, i modi e l’abilità con la quale Rodolfo avrebbe cercato di modernizzare l’impero accrescendo al suo interno il peso della componente slava, quanto le circostanze materiali del delitto e l’identità, oltre agli obiettivi, di esecutori e mandanti. Una nuova interpretazione, molto ricca di suggestioni, ci viene ora suggerita da un saggio scritto a quattro mani: autori, il giornalista triestino Fabio Amodeo e il ricercatore argentino Mario José Cereghino. Nel loro Mayerling, anatomia di un omicidio, (Mgs Press) la tesi è enunciata sin dal titolo: non si trattò di una fuga d’amore ma di una vicenda in cui il sesso tra Rodolfo e Maria fu puro elemento secondario; in realtà, il principe stava fuggendo all’estero, inseguito dai suoi nemici interni e disperato per essere stato di fatto diseredato dal padre, l’imperatore Francesco Giuseppe. Mayerling sarebbe stata dunque soltanto la prima tappa del viaggio verso l’esilio, e la baronessa Vetsera niente più di una delle numerose amanti da lui frequentate nel corso di un’esistenza dagli umori altalenanti e febbrili. Chi c’era dunque sulle sue tracce? Nemmeno gli studi puntigliosi di Amodeo e Cereghino sono in grado di stabilirlo con certezza: ma tutto lascia credere che la responsabilità debba cadere sui circoli reazionari austriaci, fatti di gente altolocata e timorosa di perdere i propri privilegi con l’ascesa al trono di Rodolfo. Di qui una campagna diffamatoria tesa a presentarlo prima come dissoluto, poi come legato a circoli massonici ed ebraici, infine come emotivamente instabile. Tutti i dettagli del quadro portano insomma alla conclusione della morte violenta: un agguato in piena regola messo in atto da sicari con licenza di uccidere. La tesi sostenuta dal grande storico François Fejtö, convinto della colpevolezza della Germania del Kaiser Guglielmo II, nemico giurato di Rodolfo, è probabilmente complementare a quella di questo libro. E in ogni caso autorizza a collocare Mayerling nella categoria dei delitti di Stato avvolti nel mistero: «come l’assassinio di Kennedy, piazza Fontana, il delitto Moro».

Giovanni Reale replica a Mario Vegetti: gli elementi precedenti della polemica, qui di seguito alle date del 3 e del 4 gennaio
Corriere 6.1.14
La dittatura culturale del marxismo
di Giovanni Reale

Storico della Filosofia

Caro direttore, dopo l’intervista che ho dato ad Armando Torno (Corriere della sera del 3 gennaio) e la replica, firmata da Antonio Carioti che registrava le tesi di Mario Vegetti (4 gennaio), desidero aggiungere alcune precisazioni. I marxisti, nel secondo dopoguerra, anche se non hanno mai vinto le elezioni, si sono imposti ad alto livello, instaurando una sorta di dittatura culturale. La Democrazia cristiana, inoltre, ha commesso molti errori proprio in campo culturale, al punto che il ministro della Pubblica istruzione Riccardo Misasi ha proposto il «sei politico», una promozione garantita a tutti. Con ironia gli antichi dicevano: nel caso in cui vengano a mancare cavalli e restino solo asini, si stabilisca per legge che tutti gli asini siano detti e considerati cavalli. E così siamo giunti alla situazione della scuola di oggi.
Io sono stato avversato dall’Accademia non solo di recente per la mia interpretazione di Platone, ma da sempre, a cominciare dai lavori su Aristotele degli anni Sessanta del secolo scorso, in cui denunciavo gli errori di ermeneutica del grande filologo Werner Jaeger, oggi da tutti riconosciuti. Ma allora sono stato accusato (da marxisti e da altri) di sostenere quelle tesi in quanto cattolico, e addirittura tomista (non lo sono mai stato). Inoltre, quando stavo per pubblicare la traduzione con commento della Metafisica di Aristotele, un potentissimo accademico di allora minacciò di rovinarmi la carriera se l’avessi data alle stampe.
Alla pubblicazione della mia Storia della filosofia antica in 5 volumi (allora da «Vita e pensiero»; oggi, in 10, da Bompiani), un giornalista disse al direttore di «Vita e Pensiero» che nessun quotidiano l’avrebbe recensita, perché scritta da un cattolico e per una casa cattolica. E da alcuni colleghi è stata proibita, in quanto giudicata «non scientifica». Anche i miei allievi sono stati avversati. Maurizio Migliori si è in certo senso salvato, in quanto legato al gruppo vicino al «manifesto». Ma è stato più volte invitato a lasciarmi, in quanto cattolico. Ma Migliori credeva nel mio metodo, e giudicava le ricerche scientifiche come meta-politiche. Roberto Radice è stato addirittura bocciato al primo concorso (non ammesso neppure agli orali). E, in risposta, ha tradotto tutti gli Stoici antichi e poi le Enneadi di Plotino. E vinta la cattedra, ha creato la collana dei Lessici, con programma elettronico, dei filosofi antichi.
Le più forti opposizioni dei marxisti si sono verificate in occasione della pubblicazione dell’opera Il pensiero occidentale , che ho scritto con Dario Antiseri, per l’Editrice La Scuola. Ma inaspettatamente proprio dalla Russia è venuta la smentita dei detrattori nostrani. La traduzione russa ha avuto grande successo. Raissa Gorbaciova, professoressa di filosofia, ne ha fatto grandi elogi, e l’Università Statale di Mosca ha premiato Antiseri e me con il titolo di «Professor honoris causa». Nella giornata del premio, un professore ci ha elogiati, dicendo che, con la nostra opera, abbiamo insegnato «che cos’è la democrazia in filosofia», facendo capire che cosa dice ogni filosofo e perché lo dice, di qualsiasi tendenza sia. L’opera ha avuto varie traduzioni, l’ultima delle quali è venuta dal Kazakistan, promossa dal ministero della Pubblica istruzione, ed è in corso la trattativa per la traduzione in cinese. Il Corriere della Sera ha di recente promosso un’edizione dell’opera in 14 volumi, con un imponente apparato iconografico ideato da Mario Andreose, con cui ho collaborato con entusiasmo (da giovane amavo dipingere, e tuttora scrivo libri sull’arte con Elisabetta Sgarbi, convinto che l’arte sia una delle vie attraverso le quali l’uomo ricerca la verità).
Al marxismo si è oggi sostituito un laicismo estremista, che è una forma di Illuminismo integralista, anticattolico e antireligioso, non meno pericoloso, in quanto dimentica una sacrosanta verità, espressa in modo perfetto da Edgar Morin: i lumi della ragione non vedono le ombre all’interno della loro chiaroveggenza; essi «per non accecare, hanno bisogno d’ombra; dobbiamo riconoscere il mistero della realtà, della vita, dell’essere umano».
Ai giovani, per concludere, vogliamo inviare un messaggio di fiducia. Dalle situazioni, anche le più difficili, come abbiamo più volte verificato di persona, è sempre possibile uscire, se si crede in ciò che si fa, e se ci si impegna a fondo, cercando di evitare ogni compromesso. E ricordiamo la splendida massima di Eraclito, il più profondo filosofo presocratico, che ci ha molto aiutato: «Se uno non spera, non potrà mai trovare l’insperabile, perché esso è difficile da trovare e impervio».

l’Unità 6.1.14
Le riunioni a casa Einaudi
Tra Calvino e Vittorini, bocciature e scelte della storica editrice
di Oreste Pivetta


l’Unità 6.1.14
Un traghetto  verso l’armonia
In mezzo al mare, una famiglia...
di Silvano Agosti


Repubblica 6.1.14
Le quattro regole della scienza per realizzare i buoni propositi
Studi e ricerche empiriche insegnano come essere tenaci e costanti nel mantenere le promesse
Bisogna fare un piano d’azione, mettere in gioco incentivi reali e contare sul sostegno di gruppo
di Federico Rampini


I buoni propositi per l’anno nuovo erano un’abitudine antica. Ora diventano una scienza. Squadre di medici, psicologi e perfino economisti “comportamentali” hanno unito i loro sforzi in America: per aiutarci a mantenere le promesse. Nella miglior tradizione del “pensiero positivo” americano, c’è la convinzione radicata che ognuno di noi è un’opera aperta, e può continuamente migliorare se stesso. Perché lasciare questa sfida all’improvvisazione, al dilettantismo dell’autodidatta, se la scienza ha qualcosa da insegnarci? Così sulNew York Timesdue esperti hanno inaugurato il 2014 facendo una sintesi di tutte le ricerche empiriche in materia. Si scopre che ormai è stata accumulata una gran quantità di esperimenti, che aiutano ad essere tenaci e costanti nei buoni propositi. Kevin Volpp è un medico del Philadelphia V. A. Medical Center, Katherine Milkman è docente alla Wharton School, prestigiosa facoltà di economia. I loro consigli e insegnamenti attingono a una serie di ricerche pubblicate suiProceedings of the National Academy of Sciences.
Ce n’è per tutti noi: chi vorrebbe dimagrire, chi smettere di fumare, chi ha solennemente indicato il 2014 come l’anno in cui andrà in palestra più spesso.
Per non ritrovarsi il 31 dicembre prossimo a fare un bilancio deludente con noi stessi, Volpp e la Milkman ci danno suggerimenti pratici, distillati da esperimenti con migliaia di cavie umane. La prima regola: fare un piano d’azione concreto. Questo semplice accorgimento aiuta in due modi. Anzitutto, fissa nella nostra (labile) memoria gli impegni presi. In secondo luogo, dal momento in cui il “piano” esiste, venir meno alle buone intenzioni significa rompere una promessa esplicita. Ecco la prova empirica, per gli scettici. Diversi test hanno avuto come cavie dei pazienti a cui è stato chiesto di indicare una data e un orario preciso per andarsi a fare ilvaccino anti-influenza, oppure la colonscopia. Questi soggetti, che avevano preso l’impegno dettagliato, lo hanno rispettato con un margine di successo del 13% migliore rispetto ad altri che erano stati genericamente “sollecitati” a fare la vaccinazione o la colonscopia.
Secondo consiglio pratico: attivare una “posta in gioco”, dal valore reale. Qui fa testo una ricerca promossa dall’American Medical Association, e durata 16 settimane, su due categorie di individui. L’obiettivo generale era, per tutti, quello di perdere peso. Alla fine del test, coloro che si erano vincolati a pagare una multa in caso d’insuccesso, hanno finito per perdere in media 7 kg in più degli altri. Risultato analogo lo ha ottenuto un altro esperimento, seguito dall’American Economic Journal. In questo secondo esempio l’obiettivo era smettere di fumare. E, anche qui, il massimo successo ha premiato coloro che avevano depositato una somma didenaro per sei mesi, con l’intesa che l’avrebbero persa se al termine di quel periodo ci fossero state tracce di nicotina nei loro test delle urine. L’interesse degli economisti per queste ricerche è comprensibile. Molti di loro partono dal presupposto chel’essere umano è razionale e può essere indirizzato verso il miglioramento, se si usano i giusti incentivi. Perciò sono degli economisti “comportamentali” ad avere fondato un sito Internet,
stickK. com, dove ciascuno può depositare una somma comecauzione, che sarà recuperata o perduta a seconda del mantenimento dei buoni propositi.
La posta in gioco, per essere efficace, non deve necessariamente essere pecuniaria. Un altro esempio di sicura efficacia: per mantenere la promessa difare più esercizio, datevi appuntamento in palestra o al parco con un’amica o un amico. È più facile dare disdetta a se stessi, che disertare un appuntamento. (Prova provata: il mio yoga trae grande giovamento dall’essere collettivo, ho sviluppato amicizie con altri allievi e anche con i maestri, per cui non andare al corso mi sembra quasi un tradimento). Un altro metodo sofisticato viene descritto come “l’aggregazione” di tentazioni e buoni propositi. L’esempio che usano i due esperti americani è questo: prendete un passatempo che giudicate ozioso e poco produttivo, per esempio la lettura di romanzi-trash. (Senza offesa, citiamo il genere Cinquanta sfumature…) Ebbene, ora costringetevi a lasciare quel libro in palestra, in modo da leggerlo soltanto quando state correndo e ansimando sul tapis roulant.Affare fatto: il cedimento a un piccolo vizio innocuo diventa l’incentivo per andare più spesso alla fitness e rimanerci più a lungo. E da ultimo, cercate di organizzarvi delle tifoserie, dei gruppi di sostegno. Anche qui gli esempi concreti sono illuminanti. Alcuni pazienti di diabete sono stati messi sotto la tutela di ex-pazienti i quali hanno migliorato il proprio controllo glicemico. Essere appoggiati, spronati, consigliati da chi ci ha preceduto nella stessa battaglia, aiuta a migliorare le nostre chance. Quest’ultima del resto è la ricetta alla base di associazioni già antiche e collaudate come l’Anonima Alcolisti. E se per caso l’inizio dell’anno non vi mette subito sulla strada buona, non disperate. Gli esperti americani hanno accumulato prove sull’esistenza di tanti “inizi”. Solstizio di primavera, compleanno personale, o apertura del nuovo anno accademico, le occasioni per ripartire e riprovarci ancora, non mancheranno. Di ottimismo, a quanto pare, non è mai morto nessuno.

Il Sole 24 Ore 6.1.14
Pompei, un progetto in salita
Tempi stretti per il neo-direttore Giovanni Nistri ancora privo di staff
di Antonello Cherchi


Inizia questa settimana il conto alla rovescia per Pompei, che entro la fine del 2015 dovrà essere rimessa a nuovo grazie alla dote di 105 milioni – 74,2 messi a disposizione dall'Europa e 29,8 dall'Italia – con cui procedere a opere di restauro, di adeguamento dei servizi e di messa in sicurezza dell'area archeologica. È una corsa contro il tempo quella che Giovanni Nistri – generale dei Carabinieri con un passato di comandante del Nucleo di tutela del patrimonio culturale e fino all'altro ieri responsabile della scuola ufficiali della Benemerita – si prepara a disputare in qualità di direttore del «Grande progetto Pompei», nomina arrivata il 9 dicembre ma formalizzata in questi giorni. Alla scadenza del 31 dicembre 2015, infatti, tutti i cantieri dovranno essere chiusi e i soldi spesi, pena la restituzione alla Ue delle somme inutilizzate.
Una vera e propria scommessa, visto che di interventi urgenti sistematici sul famoso sito si parla da marzo 2011, quando, dopo il crollo della Domus dei gladiatori, il Governo varò un decreto legge (il 34/2011) con una prima serie di misure per proteggere Pompei dall'inarrestabile degrado. Un anno dopo, quegli interventi hanno ricevuto l'iniezione dei fondi europei e ha preso corpo il Grande progetto, che però al momento è riuscito a far partire cinque cantieri, per un importo di poco meno di 7 milioni di euro. Il grosso, insomma, è ancora da fare. Senza dimenticare che ci si muove in una zona dove opera anche la criminalità organizzata, a cui gli appalti milionari per ricostruire l'immagine di Pompei fanno gola.
Un'impresa non da poco, dunque, in cui Nistri sarà coadiuvato da Fabrizio Magani, che lascia la soprintendenza regionale dell'Abruzzo per assumere l'incarico di vicedirettore del Grande progetto. I due, però, attendono ancora la struttura di supporto, di non più di venti persone, che si sarebbe dovuta creare – così come vuole la legge Valore cultura (legge 112/2013) – in contemporanea con la loro nomina. Entro l'8 dicembre, infatti, sarebbe dovuto arrivare un decreto ad hoc con il quale dare corpo allo staff, chiarire nel dettaglio i compiti di Nistri e Magani e specificare i mezzi a disposizione. Il provvedimento è stato messo a punto dai Beni culturali ed è stato spedito alla Presidenza del consiglio, che lo deve emanare (si tratta, infatti, di un Dpcm). A via del Collegio Romano contano di chiudere la partita entro fine mese. Per ora, dunque, a Nistri e Magani non resta che aspettare. Un problema in più per chi sa che il count-down solo all'apparenza dispone di un tempo lungo. Con tutto quel che c'è da fare, due anni sono infatti un attimo.
Tanto più se si ha il fiato sul collo non solo della Ue, ma pure dell'Unesco, che ha preteso di vedere entro fine 2013 un piano di gestione di Pompei che assicurasse al sito – inserito nell'elenco dei patrimoni dell'umanità – un futuro dignitoso. Altrimenti – aveva minacciato l'Unesco – l'area sarebbe stata depennata dalla lista dei tesori mondiali.
Quel piano è arrivato sul filo di lana: è stato firmato dai Beni culturali e dai rappresentanti degli enti locali il 23 dicembre scorso. E anche di questo protocollo Nistri e il suo vice dovranno tener conto, soprattutto quando si tratterà di disegnare, entro ottobre prossimo, il piano strategico per rivitalizzare il territorio in cui si trovano Pompei, Ercolano e Torre Annunziata. L'obiettivo è la riqualificazione ambientale e urbanistica della zona così da poterla rilanciare turisticamente.
Anche di questo si dovrà occupare Nistri attraverso l'Unità grande Pompei, che sarà dotata di autonomia contabile e amministrativa, avrà propri mezzi e personale (massimo dieci addetti). Tutto appartiene, però, ancora al futuro, perché la struttura dell'Unità la deve disegnare quello stesso decreto che deve dare forma all'ufficio del Grande progetto Pompei. E intanto, il conto alla rovescia è partito.
C'è poi da sistemare la partita delle soprintendenze con cui Nistri e il suo vice Magani dovranno avere a che fare. La legge Valore cultura ha voluto che la soprintendenza speciale per i beni archeologici di Napoli e Pompei si dividesse in due uffici. E così il 23 dicembre sono ufficialmente nate la soprintendenza speciale di Pompei, Ercolano e Stabia e quella di Napoli (non speciale, cioè non dotata di autonomia organizzativa e contabile). Ora si tratta di trovare i dirigenti. La selezione è stata avviata e le candidature dovranno essere inviate al ministero entro domani. Va da sé che la nomina alla soprintendenza di Pompei è delicata, perché chi vi arriverà dovrà essere pronto a dialogare con i responsabili del Grande progetto.
Non sarebbe, infatti, la prima volta che tra soprintendente e commissario o city manager – come sono stati, prima che si passasse al direttore generale, appellati gli "esterni" che hanno cercato di fermare il degrado di Pompei – ci si è guardati in cagnesco.
D'altra parte la telenovela del salvataggio di Pompei ha quasi trent'anni. Il primo intervento straordinario è del 1976: vengono stanziati 3 miliardi di lire, a cui nel 1985 se ne aggiungono altri due. Nel 1997 la soprintendenza diventa autonoma e arriva il primo city manager. L'accoppiata soprintendente e manager, però, produce soprattutto guasti. Nel 2008 altro stato di emergenza: arriva un super-commissario, con una dote di 21 milioni di euro. La gestione finisce in tribunale.
Adesso è la volta del direttore generale, che deve vedersela con problemi sempre più grandi e con il tempo che inesorabile ha iniziato a scorrere.

Corriere 6.1.14
Tris di stelle per provare Einstein


Un «terzetto stellare» d’eccezione, composto da due nane bianche e da una stella di neutroni molto densa, potrà costituire un laboratorio unico per la fisica e un banco di prova per testare la teoria della relatività generale di Albert Einstein (foto ). Descritto sulla rivista Nature , il trio di stelle è stato scoperto dal gruppo coordinato da Scott Ransom dell’Osservatorio nazionale di radioastronomia degli Stati Uniti, a Charlottesville. Le tre stelle, situate a circa 4.200 anni luce dalla Terra, si trovano in uno spazio più piccolo dell’orbita terrestre intorno al Sole. La stella di neutroni è una pulsar che ruota velocemente su se stessa ed emette fasci di onde radio a intervalli regolari. Tali astri sono usati come strumenti di precisione per lo studio di molti fenomeni, comprese le sfuggenti onde gravitazionali, distorsioni nello spazio-tempo causate da eventi violenti come esplosioni di gigantesche stelle. La pulsar gira su se stessa 366 volte al secondo e ruota molto vicina a una nana bianca e a una seconda un po’ più distante. «Le perturbazioni gravitazionali inflitte a ogni membro di questo sistema da parte degli altri sono incredibilmente forti» ha detto Ransom. «La pulsar è uno strumento per misurare tali perturbazioni». Studiando il sistema con telescopi spaziali e radiotelescopi basati a Terra, è stato possibile registrare l’orario di arrivo degli impulsi radio della pulsar. Queste misure hanno permesso di calcolare la geometria del sistema e le masse delle stelle con una precisione senza precedenti. È stato scoperto che le orbite degli oggetti sono complanari, ossia quasi sullo stesso piano, e quasi circolari. Indicando così un passato evolutivo complesso.

Corriere 6.1.14
Nei palinsesti notturni il meglio della Rai
di Aldo Grasso


Chissà perché la Rai a volte sceglie di nascondere le sue eccellenze nelle pieghe notturne del palinsesto. È senz’altro un curioso paradosso, considerando anche la disponibilità di molti nuovi canali nativi digitali, quello di confinare i programmi che più «fanno servizio pubblico» nelle fasce orarie riservate agli insonni.
Per esempio, venerdì scorso, all’una e mezza del mattino, nel contenitore «La musica di Rai3» è andato in onda uno spettacolo molto interessante, «Allegro un po’ troppo», dall’Auditorium Rai Arturo Toscanini di Torino. Il protagonista, insieme all’Orchestra sinfonica nazionale della Rai diretta da Francesco Lanzillotta, era Arturo Brachetti. Artista italiano tra i più apprezzati e seguiti anche all’estero, brillante trasformista, performer e regista, Brachetti ha dato vita a un esperimento curioso, proponendo con l’orchestra Rai una sorta di varietà musicale.
Brani celebri della tradizione della musica sinfonica sono stati il pretesto per piccoli viaggi dell’immaginazione, all’insegna dell’ironia e della fascinazione per la musica. Brachetti si è trasformato in uno stralunato violinista, nella caricatura di alcuni direttori d’orchestra, persino in alcuni giganti della musica classica (Beethoven e Chopin). Il trasformista si è anche inventato una serie di Caroselli immaginari, da lui stesso interpretati, che hanno riportato in vita lo stile anni Cinquanta del mitico contenitore di pubblicità. La cosa più interessante dello spettacolo è stata proprio la contaminazione dei linguaggi espressivi: musica, recitazione, uso delle immagini. Televisione culturale vuol dire anche questo, inventarsi un modo di raccontare temi alti, come la musica classica, senza paludamenti e in modo innovativo. Non è forse anche questo un buon modo per rendere onore ai 60 anni della tv?