mercoledì 31 dicembre 2014

«Come una specie di terapia di gruppo...», dice uno dei sopravvissuti provando a strappargli un sorriso. Il comandante annuisce.
Corriere 31.12.14
La tragedia della Norman
Il comandante: «Io in terapia con i naufraghi»
Giacomazzi sulla San Giorgio è rimasto accanto ai suoi passeggeri
di Fabrizio Caccia

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Il Fatto 31.12.14
Italia, Grecia e Albania

L’armatore scatena una battaglia navale
La contesa tra i rimorchiatori e le manovre dei proprietari
“C’è un mezzo mandato da loro per recuperare il relitto
di Antonio Massari


Quattro navi albanesi, cinque italiane, due greche. Tutte intorno al relitto della Norman Atlantic in una minuscola battaglia navale nel porto di Valona. L’epilogo non poteva essere più atroce e grottesco, con due gruppi di rimorchiatori a contendersi questo cimitero galleggiante che custodisce, oltre i cadaveri dei dispersi, le risposte al quesito più importante: di chi sia la responsabilità della tragedia. La Procura di Bari ha sequestrato la Norman: nessuno deve poter inquinare le prove. E così la stampa albanese nel tardo pomeriggio titola: “Lotta per il traghetto della tragedia, vincono gli italiani. La nave a Brindisi”. Ma sarebbe un errore interpretare la “lotta” come una questione tra Stati. E a rivelarlo è il ministro della difesa albanese, Mimi Kodheli, che nel rimorchio della Norman s'è intromesso un rimorchiatore che “non ha alcun legame ufficiale con la flotta albanese”. Si riferisce all'Iliria che, spiega la tv albanese Top Channel, è “stata contattata dai proprietari del traghetto per recuperare il mezzo abbandonato”. Una mossa poco gradita dalla procura che ha ufficialmente affidato ai rimorchiatori della compagnia Barretta il compito di custodire e trainare il traghetto nel porto di Brindisi. L'incipit di questa battaglia, come rivelato ieri dal Fatto, avviene poche ore dopo il termine delle operazioni di salvataggio quando, quasi per scherzo, i tre rimorchiatori italiani vengono avvicinati dall'omologo albanese, l'Adriatik, che li stuzzica via radio dicendo: “Provo a rimorchiarlo io”. Pensando a una semplice provocazione, i marinai italiani rispondono di provarci pure, non immaginando che l'Adriatik l'avrebbe davvero agganciato per portarlo nel porto di Valona.
INIZIA il surreale inseguimento in mare, che si chiude tragicamente nella mattinata di ieri, quando un secondo rimorchiatore, l'Iliria, che inizia, a sua volta, a rimorchiare il primo, in una sorta di fila indiana. La cima però si spezza uccidendo due marinai albanesi. La Norman resta però agganciata all'Adriatik, che non ha alcuna intenzione di mollare la “preda”, finché personale militare della nave San Giorgio non sale a bordo del traghetto per affidare il rimorchio alla compagnia italiana. Il governo albanese è d'accordo, la procura l'ha convinto a desistere, ma poi tiene a precisare che con l'Iliria non ha nulla a che spartire, è intervenuto dopo essere stato contattato dai proprietari. Nel frattempo, in questa guerra navale, s'aggiunge un ulteriore protagonista: il mega rimorchiatore genovese Varrazze, giunto da Malta, al quale la San Giorgio – con a bordo circa 214 persone - intima di allontanarsi di almeno un miglio dalla Norman. In realtà, non è possibile stabilire con certezza da chi, l'Iliria, sia stato contattato: la Visemar da giorni afferma di aver affidato alla società olandese Smit Salvage, sin dal momento dell'incidente, “le operazioni di salvataggio”. Ieri ha precisato di non avere “altro interesse che l'accertamento della verità”, che “si atterrà a ogni indicazione dell'autorità giudiziaria, anche in merito al porto di destino della nave, richiedendo alla società Smit Salvage di attenersi a tali indicazioni”.
C'È UN ULTERIORE dettaglio, però, che il Fatto è in grado di rivelare, e riguarda proprio il rapporto tra la Smit Savage e la compagnia dei rimorchiatori Barretta. A raccontarlo è proprio Giuseppe Barretta: “Confermo che la Smit ha avuto un ruolo operativo sin dal 28 e infatti, qui in ufficio, abbiamo una sfilza di fax con cui ci chiede propone di lavorare in sub appalto per loro”. Ma i Barretta non accettano: “Non abbiamo bisogno dei loro soldi, gli abbiamo risposto, perché siamo andati lì per salvare delle vite e svolgere il nostro lavoro con professionalità e in autonomia, come sempre”. A questo punto, secondo Barretta, la Smit alza il tiro: “Annunciano che, se non accettiamo, saranno costretti a inviare un loro rimorchiatore”. Senza alcuna allusione, ma soltanto rimettendo in fila i fatti, c'è da rilevare una coincidenza: le fonti albanesi riferiscono che il rimorchiatore Ilia giunge, dopo l'Adriatik, in seguito a un generico “contatto” con la proprietà della nave. Nel frattempo, però, è intervenuta la procura di Bari a mettere un punto definitivo: il traghetto è ufficialmente affidato ai rimorchiatori italiani, che nel tardo pomeriggio lo agganciano, e possono finalmente rimorchiarlo verso Brindisi. “Vincono gli italiani”, titolano i tg albanesi. Ora il punto chiave è capire davvero con chi – e soprattutto perché – s'è lottato: se con gli armatori, con la Smit, con gli assicuratori, o con i rimorchiatori albanesi. E la Procura di Bari intende capirlo al più presto.

Repubblica 31.12.14
Il Paese senza regole e le vite di serie B
di Gad Lerner


DISINFORMAZIONE in tempo irreale. La velocità dei tweet istituzionali ha scandito la tragedia della Norman Atlantic.
SEMPRE in contrasto gli uni con gli altri, che provenissero dalla Marina Militare o dalla Guardia Costiera, se non addirittura da Palazzo Chigi, lungi dal ragguagliare i cittadini i tweet hanno finito solo per minare la credibilità delle fonti ufficiali, cioè dello Stato italiano. Notizie sbagliate, cifre non verificate, l’improvvida rassicurazione «niente morti italiani» smentita purtroppo il giorno dopo, la doppia lista passeggeri...
Così l’immagine di efficienza e coordinamento che si voleva trasmettere con quei messaggi telegrafici in tempo reale, si è tradotta nel suo contrario: ovvero la riconferma del luogo comune di un Paese sregolato e raffazzonato anche quando si tratterebbe di rispettare normative di sicurezza e applicare procedure d’emergenza. Per non parlare del conflitto con le autorità greche e albanesi, fonte di ulteriore confusione che speriamo non abbia rallentato le operazioni di soccorso.
Il traghetto in arrivo a Ancona con incerto numero di passeggeri registrati, le cer- tificazioni antincendio non conformi, la dubbia regolarità del carico nella stiva, e infine la presenza di emigranti irregolari nascosti sotto i camion, inevitabilmente ha riportato in auge la parola “clandestino”. Una parola che avevamo adoperato con maggior cautela da quando papa Francesco ci aveva ricordato, a Lampedusa, che i clandestini, ben prima che minacce, sono persone come noi. Fermarli equivale a voler svuotare il mare con un cucchiaino, e poi, in fondo, anche a bordo dell’ultimo traghetto in fiamme i passeggeri fantasma figurano come un dettaglio trascurabile.
Semmai, al termine di un anno 2014 che ha visto migliaia di uomini, donne e bambini affogare tra le sponde del nostro piccolo bacino Mediterraneo, la stessa nozione marittima di clandestinità va estesa ben oltre il destino dei fuggiaschi.
Clandestina, o per lo meno torbida, ci appare l’intera gestione dei traffici fra le sponde del mar Mediterraneo. In buona misura sottratta alla supervisione delle autorità preposte. Regolata severamente in teoria, ma quasi sempre piratesca nella libertà solo formalmente negata a chi spadroneggia sul Mediterraneo e vi si arricchisce impunito.
Nella stessa striscia di mare in cui è scoppiato l’incendio della Norman Atlantic, ieri è stata segnalata una nave ostaggio di scafisti armati con centinaia di profughi siriani a bordo. Misteri marinai che si sommano l’uno all’altro, non solo fra la Grecia e l’Italia ma lungo tutte le migliaia di chilometri di coste che nei secoli hanno fatto la fortuna della nostra penisola. Misteri infittiti dalle burrasche non solo atmosferiche e dalla nebbia che ha provocato anche la collisione e la morte di sei marinai al largo di Marina di Ravenna. Per non parlare del traffico d’armi per cui è stato appena arrestato in Montenegro un ex parlamentare italiano (quanto è piccolo l’Adriatico, all’occorrenza!).
Se denunciamo la confusione e l’informazione distorta registratasi nel caso della Norman Atlantic, non è solo perché gli italiani la percepiscono come ennesima metafora della disinvoltura con cui le pubbliche autorità trattano questioni di eccezionale gravità. Il mare che oggi ci si presenta oscuro e minaccioso, ma nel quale l’Italia ha da sempre investito la sua vocazione mediterranea all’arricchimento culturale e commerciale, sembra divenuto ricettacolo equivoco, nascondiglio di segreti indicibili.
Mi riferisco alla sorda controversia che a quanto pare contrappone la nostra Marina Militare, protagonista di costose ma sacrosante, nobili operazioni di salvataggio dei profughi nel canale di Sicilia, senza badare ai chilometri di distanza dalle nostre acque territoriali, al Viminale che pretenderebbe di interromperle. Frontex contro Mare Nostrum? Ne sappiamo poco o nulla. Forse è la miopia dell’Unione europea, o forse è la carenza di fondi, o forse ancora è il meschino calcolo elettoralistico di una politica assoggettata ai Salvini di turno. Fatto sta che come abbiamo saputo poco e male della Norman Atlantic, così sappiamo poco e male delle scelte operate dal nostro governo in materia di monitoraggio e soccorso dei profughi. È la stessa opacità. Se preferite, clandestinità. Addobbata di tweet e di malainformazione suggestiva. False rassicurazioni che si traducono in spruzzi d’ignoto, e così, alimentano le nostre paure di naufragare: un’intera penisola alla deriva.
il Fatto 31.12.14
Uno spettro si aggira per l’Europa, ma è Syriza
Il programma politico di Tsipras prevede la rinegoziazione del debito pubblicoAvviati già i contatti con la Germania e la City che temono l’effetto-contagio
di Salvatore Cannavò


La sfida di Syriza, la coalizione di sinistra greca data in testa nei sondaggi in vista del voto politico del 25 gennaio, si può riassumere in tre problemi: il debito, gli armatori navali e le cliniche sociali. Sembra un gioco di società ma la complessità della situazione – la Grecia ha il rapporto debito/Pil al 177%, la disoccupazione sfiora il 30% e la spesa pubblica è scesa del 25% in pochi anni – produce anche questi intrecci.
ALEXIS TSIPRAS è il leader di un partito finito sotto i riflettori. La sua proposta di rinegoziare il debito con i creditori internazionali – sull’esempio di quanto fatto con la Germania nel 1952 – diventerà, in caso di vittoria alle elezioni, un dossier delicato sul tavolo della Bce e della Troika che oggi controlla il paese. Il debito ammonta infatti a circa 330 miliardi e più del 70% è nelle mani della Ue (60%) e del Fmi (12%). Come concedere una rinegoziazione senza veder replicare la richiesta da parte di altri governi? Di questo, gli emissari di Syriza hanno discusso con l’alta finanza londinese ma anche con il governo tedesco. Ma il punto non potrà essere aggirato: è al primo punto del programma politico di Syriza ed è stato ribadito più volte dal suo leader nei vari viaggi in Europa.
Il programma che “si aggira per l’Europa” come lo spettro marxiano prevede poi una dura lotta fiscale con l’innalzamento delle aliquote per i redditi più alti, la gratuità delle prestazioni sociali – circa 3 milioni di greci non hanno più accesso alla sanità – il ripristino del salario minimo. Da questo punto di vista, per usare un altro paradosso, il problema principale sarà con gli “armatori navali”, la potente espressione del capitalismo ellenico. La marina mercantile greca è la quinta al mondo, gli armatori sono detentori di enormi privilegi fiscali che Tsipras ha già detto di voler abolire. Esemplificano con chiarezza il livello di scontro politico che un eventuale governo della sinistra dovrà saper gestire.
Eppure, nonostante queste premesse, Syriza si sta preparando a rassicurare i suoi interlocutori. Se al suo interno esiste una “corrente di sinistra” (35% all’ultimo congresso) che propugna soluzioni molto radicali, rappresentata da Panagiotis Lafazanis, uno dei due portavoce parlamentari, il volto europeo è invece rappresentato dal vicepresidente del Parlamento europeo, Dimitris Papadimoulis realista e pragmatico che lavora per riformare i trattati Ue, rivedere il funzionamento della Bce in particolare nel finanziamento degli investimenti statali nell’economia. Alexis Tsipras dovrà gestire queste due tensioni: la pressione dell’establishment europeo e la domanda di cambiamento e di “sollievo” sociale che proviene dal profondo della Grecia. Una domanda a cui Syriza ha risposto finora rispolverando,
come alla fine dell’800, soluzioni di “mutuo soccorso”. Come le cliniche di volontariato sociale o le mense autogestite in grado di dare un primo supporto a tutti quelli scacciati dall’assistenza sociale e sanitaria.
QUESTO LATO dell’attività politica aiuta a spiegare il successo di una formazione che con il suo balzo elettorale è riuscita a svuotare il partito storico del socialismo greco, il Pasok, che in quattro anni è passato dal 43% al 6% – e incorporandone, qua e là, anche alcuni esponenti – attirando su di sé enormi aspettative che dovranno però fare i conti con il risultato elettorale. Con il 28% dei sondaggi Syriza non avrà la maggioranza parlamentare e quindi dovrà pensare a una alleanza. Difficile possa avvenire con i comunisti del Kke (5% circa) che hanno un atteggiamento ultra settario. Più probabile un allargamento alla Sinistra democratica, piccola formazione collocata tra Syriza e il Pasok. Quello che però Tsipras dovrà assolutamente evitare è di rappresentare una “parentesi di sinistra” momentanea. In caso di suo fallimento, la Grecia cadrebbe in mani ignote e, visto il suo passato, molto più preoccupanti.

il Fatto 31.12.14
L’intervista Curzio Maltese, eurodeputato
“Alexis fa paura solo perché la Ue è debole”
di Sandra Amurri


La Grecia va alle urne. La crescita esponenziale di Alexis Tsipras leader di Syriza, partito che solo quattro anni si attestava al 4,9 per cento e oggi viene dato come favorito con quasi il 6 per cento di distacco sul partito di centrodestra Nea Demokratia di Antonis Samaras fa tremare l'Europa.
Curzio Maltese, europarlamentare eletto nella lista L'Altra Europa con Tsipras, da cosa nasce un tale timore?
Dalla debolezza dell'Europa e non dalla forza di un Paese come la Grecia il cui impatto non è certamente colossale. Il timore è che se vince Tsipras e alla Grecia non verrà concessa la rinegoziazione del debito, come lui chiederà, la sola soluzione sarà l'uscita dall'euro e questo creerebbe un precedente pericoloso per altri Paesi, fra cui l'Italia, strozzati dal debito pubblico. Si dimostrerebbe che per l'euro c'è una porta di entrata, ma anche una d'uscita. Il suo programma è socialista simile a quello della sinistra pre-Renzi sulle posizioni di Fassina e Cuperlo, per intenderci. Certo, molto distanti da un partito come il Pd attuale che rende possibili i licenziamenti di massa, cosa fino a ieri impensabile. Il debito pubblico greco è cresciuto nonostante le politiche di austerità imposte dall'Europa e questo suona da evidente monito per tutti gli altri Paesi e soprattutto per quelli in serie difficoltà seppure non siano paragonabili alla Grecia in quanto l'Europa non è stata in grado di proporre politiche alternative. La sola strategia un po’ piu intelligente seppure limitata, è quella di Draghi che spinge affinché l'Europa ripensi il debito pubblico, intervenga nell'acquisto dei titoli di Stato ma ha difficoltà anche lui a farla passare.
Quali le soluzioni prospettate da Syriza?
La situazione in Grecia è spaventosa. La mortalità infantile è aumentata, non accadeva da 60 anni. Le pensioni oscillano dai 200 ai 300 euro al mese. Moltissime persone dormono sotto i ponti. Syriza offre le colazioni ai bambini come succedeva negli Anni 50 e allestisce i mercatini calmierati. Ho conosciuto più approfonditamente Tsipras. È un ingegnere, ha una formazione scientifica, è un uomo pragmatico non è un ideologo. E non è indisponibile a mediazioni per raggiungere l'obbiettivo. È ovvio che tra le rivendicazioni vi siano l'innalzamento delle pensioni e il garantire i servizi primari di sussistenza.
Senza toccare, ha assicurato, i risparmi dei privati. Sarà possibile?
A parte che molti soldi sono già usciti dalla Grecia, il suo programma ha come punto forte la lotta all'evasione fiscale. La Grecia con l'Italia registra il piu alto tasso di evasione e finora i governi che si sono succeduti hanno fatto grandi annunci senza nulla di concreto, in compenso hanno varato condoni e optato per scelte che hanno incoraggiato l'evasione. Tsipras se verrà eletto incontrerà da subito i premier dell'aerea Mediterranea da Hollande a Renzi passando per la Spagna dove cresce il consenso intorno a Podemos con l'intento di trovare soluzioni comuni. In fondo anche la Grecia partecipò nel secondo dopo guerra a far sì che sulla Germania sconfitta non pesassero i debiti di guerra per evitare gli errori dopo il primo conflitto mondiale. Voglio dire che la Grecia, culla della civiltà, meriterebbe altrettanta sensibilità. Nessun leader europeo 20 anni fa pensava che la moneta unica potesse essere il solo collante. Lo hanno scritto anche il Financial Times e il Sole 24 Ore. Occorre costruire una Europa solidale anche per evitare che prendano il sopravvento movimenti, questi sì pericolosi per la tenuta democratica, come Alba Dorata in Grecia, Le Pen in Francia e la nostra Lega, solo per citarne alcuni.

Corriere 31.12.14
La Grecia può fare male all’Europa
Rischi sottovalutati del voto in Grecia
Se il governo che uscirà dalle elezioni metterà in atto le misure annunciate, compresa la ristrutturazione del debito, potrebbero andare in crisi le reti di salvataggio europee, ma i mercati finanziari sembrano non allarmarsi
di Lorenzo Bini Smaghi

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Repubblica 31.12.14Piketty: “Tsipras non è il male meglio di populisti e xenofobi. Il vero pericolo per l’Europa è l’ipocrisia di Juncker e Merkel”
L’economista francese: “Con un governo di sinistra dalla Grecia può partire una rivoluzione democratica: aiuterà a rivedere l’austerity che soffoca l’Unione con meno risorse per pagare i debiti pubblici e più sviluppo”
intervista di Eugenio Occorsio


Juncker fa il duro ma il Lussemburgo ha depredato l’Ue Anche la Germania si è ricostruita grazie a un condono
Perché l’Italia deve spendere il 6% del Pil in interessi e solo l’1% nella scuola? Serve una regia unica sulle politiche di crescita

ROMA «Non capisco perché le cosiddette cancellerie europee siano così terrorizzate dalla probabile vittoria di Syriza in Grecia. O meglio, lo capisco, però è ora di smontare le loro ipocrisie. Thomas Piketty, docente all’Ecole d’économie parigina, “l’economista più autorevole del 2014” come lo ha definito il Financial Times, è sceso in campo con tutta la sua grinta con un editoriale pubblicato ieri da Liberation . «Serve in Europa una rivoluzione democratica», ha scritto e ce lo ripete chiaro e forte al telefono dall’aeroporto di Parigi mentre sta per imbarcarsi per New York, la città che ha lanciato il suo “Capitale nel XXI secolo” come libro dell’anno grazie all’endorsement del premio Nobel Paul Krugman.
Professore, però Tsipras si è fatto strada sventolando la bandiera dell’uscita dall’euro… «Sì, ma ora ha molto ammorbidito le sue posizioni. Si è rivelato, all’opposto, un leader fortemente europeista, una posizione che si assesterà ulteriormente se com’è probabile dovrà formare un governo di coalizione, visto che secondo i sondaggi non avrà più del 28% e quindi 138 seggi, 12 in meno della maggioranza. I più probabili alleati come sapete sono il neocostituito partito di centrosinistra Potami e l’altra forza di sinistra democratica Dimar, che gli garantirebbero un altro 8-10%. Certo, Syriza farà valere le sue posizioni in Europa, ma non sarà un male, anzi».
Qualcosa accadrà, insomma.
Ma è sicuro che non sarà qualcosa di dirompente?
«Senta, guardiamo la situazione con realismo. La tensione in Europa è arrivata a un punto tale che in un modo o nell’altro scoppierà, entro il 2015. E tre sono le alternative: una nuova crisi finanziaria sconvolgente, l’affermazione delle forze di destra che realizzano la coalizione di cui stanno mettendo le basi incentrata sul Fronte Nazionale in Francia e comprendente la vostra Lega e forse i 5 Stelle, oppure uno choc politico proveniente da sinistra: Syriza, gli spagnoli di Podemos, il Partito democratico italiano, quel che resta dei socialisti francesi. Finalmente alleati e operativi. Lei quale soluzione sceglie? Io la terza».
La famosa “rivoluzione democratica”, insomma. Quali dovrebbero essere i primi atti?
«Due punti. Primo, la revisione totale dell’attuale politica basata sull’austerity che sta soffocando qualsiasi possibilità di recupero in Europa, a partire dal Sud dell’eurozona. E questa revisione deve per primissima cosa prevedere una rinegoziazione dei debiti pubblici, un allungamento delle scadenze, eventualmente dei condoni veri e propri di alcune parti. È possibile, glielo assicuro. Vi siete chiesti perché l’America marcia alla grande, così come l’Europa fuori dall’euro come la Gran Bretagna? Ma perché l’Italia deve destinare il 6% del proprio Pil al pagamento degli interessi e solo l’1% al miglioramento delle sue scuole e università? Una politica incentrata solamente sulla riduzione del debito è distruttiva per l’eurozona. Secondo punto: un accentramento presso le istituzioni europee di politiche di base per lo sviluppo comune a partire da quella fiscale, e magari riorientare quest’ultima tassando di più le maggiori rendite personali e industriali. Su queste materie fondamentali si deve votare a maggioranza e non più all’unanimità, e poi vigilare perché tutti si adeguino. Più centralità serve anche su altri fronti a somiglianza di quanto si sta cominciando a fare per le banche. Solo così si potrà omogeneizzare l’economia e sbloccare la frammentazione di 18 politiche monetarie con 18 tassi d’interesse, 19 da inizio gennaio con la Lituania, esposta al flagello della speculazione. Non rendersene conto è miope e, quel che è peggio, profondamente ipocrita».
Le “ipocrisie europee” di cui parlava all’inizio: a cosa si riferisce più precisamente?
«Andiamo con ordine. Il più ipocrita è Jean-Claude Juncker, l’uomo al quale incoscientemente si è data in mano la commissione europea dopo che per vent’anni ha condotto il Lussemburgo a una sistematica depredazione dei profitti industriali del resto d’Europa. Ora pretende di fare il duro e di prendere un giro tutti con un piano da 300 miliardi che però è finanziato solo per 21, e all’interno di questi 21 la maggior parte sono fondi europei già in via di erogazione. Parla di “effetto leva” senza neanche rendersi conto di cosa sta parlando. Al secondo posto c’è la Germania, che fa finta di aver dimenticato il maxi-condono dopo la seconda guerra mondiale dei suoi debiti, scesi di colpo dal 200 al 30% del Pil, che le ha permesso di finanziare la ricostruzione e la prepotente crescita degli anni successivi. Dove sarebbe andata se fosse stata obbligata a ridurre faticosamente il debito a colpi dell’uno o due per cento all’anno come sta costringendo a fare il sud Europa? La terza piazza nell’imbarazzante classifica delle ipocrisie spetta alla Francia, che ora si ribella alla rigidità tedesca ma è stata in prima fila nell’affiancare la Germania quando è stata impostata la politica dell’austerity, e altrettanto decisa sembrava quando con il Fiscal Compact del 2012 si sono condannate le economie più deboli a ripagare i debiti fino all’ultimo euro malgrado la devastante crisi del 2010-2011. Ecco, se saranno smascherate e isolate queste ipocrisie si potrà ripartire per lo sviluppo europeo nell’anno che sta per iniziare. E Syriza farà meno paura».

La Stampa 31.12.14
L’eccessivo ottimismo del premier Renzi
di Marcello Sorgi


Attesa come l’evento politico istituzionale di fine anno, luogo d’eccellenza per bilanci, consuntivi e programmi per il futuro, la conferenza stampa di lunedì del presidente del Consiglio è trascorsa come se nulla fosse, e soprattutto come se su nessuno dei problemi aperti in prospettiva per il Paese il premier, insolitamente a disagio per le domande dei giornalisti, avesse una risposta chiara o un’opinione da dare.
Si dirà che in presenza del naufragio della Norman Atlantic, con le immagini di sofferenza che da giorni entrano nelle nostre case, i media hanno prudentemente limitato le dosi di politica da somministrare a lettori ed ascoltatori. I danni e le vittime sono stati limitati, grazie all’impegno e all’abnegazione delle tante persone impegnate nei soccorsi, ma è rimasta la sensazione di qualcosa che colpevolmente si ripete, e invece poteva essere evitato.
C’è però un’altra ragione per cui, dopo trecento giorni di governo che - è innegabile - hanno prodotto risultati, le parole del premier sono state accolte con freddezza, se non proprio con l’indifferenza e la sfiducia nella politica, nei partiti e nelle istituzioni, che i sondaggi ormai attribuiscono alla stragrande maggioranza dei cittadini. La ragione è che Renzi, per quanto lo faccia con più accortezza, moderando l’entusiasmo dei primi tempi e limitando anche l’uso del suo tipico apparato di scenografie, slides, filmati (ma non il fac-simile della nuova scheda elettorale, a cui non ha saputo rinunciare), continua a dipingere la situazione italiana più rosea, o meno grigia, di quel che è. E se qualcuno prova a dirglielo, non lo sopporta, e subito reagisce con la metafora dei «gufi» e dei «rosiconi».
Può darsi che anche nei momenti tragici serva un po’ di ottimismo. Anzi è sicuro. Ma il problema è che non c’è più alcun bisogno di indorare la pillola e dipingere l’orizzonte più sereno di quanto non sia. Tanto - sono ancora i dati dei sondaggi a dirlo - la gente ha perfettamente chiaro che il 2015 sarà come o peggio del 2014, e la possibilità che il 2016 segni la sospirata inversione di tendenza, dipenderà da noi, ma non solo da noi.
Saremo ancora, come e più di quanto siamo stati nell’ultimo decennio, dipendenti da un’Unione europea e da un sistema monetario che ci penalizza, ma ci consente anche di non precipitare. Combatteremo, con più o meno risultati, ma sempre con le migliori intenzioni, contro una corruzione dilagante, che negli ultimi tempi ha superato qualsiasi limite sopportabile, e troverà l’anno venturo, nell’apertura dell’Expo, una vetrina del meglio, speriamo, ma auguriamoci non del peggio, di quel che l’Italia può rappresentare nel mondo. Le riforme annunciate ed attese (una al mese, ricordiamoci la promessa) avanzeranno tra molte resistenze, forse dovranno scontare altre battute d’arresto, prima di raggiungere, o no, o non tutte, il traguardo.
Parola più, parola meno, questo è ciò che ci si aspettava che Renzi dicesse. Se lo avesse fatto, a nessuno sarebbe sembrato un discorso rinunciatario, ma realistico e legato purtroppo alla verità dei fatti. Sulla base di questo il premier avrebbe potuto cercare le risposte ad altre domande che tutti si stanno facendo in questi giorni. Chi sarà il successore di Napolitano? Se è così difficile trovarne uno all’altezza, perché non dire a che punto è la trattativa? Prevarranno i giochi e le vendette interne dei partiti, come sembra, o alla fine sarà il senso di responsabilità ad averla vinta? Allo stesso modo sarebbe stato più semplice ammettere che l’implementazione della riforma del lavoro - che introduce, non va dimenticato, un più ampio diritto di licenziamento - sta rivelandosi più complicata del previsto. Continuare a dire che tutto sarà a posto dai primi di gennaio è sbagliato, forse sarebbe meglio dichiarare che ci vorrà più tempo.
Dopo dieci mesi al governo, in altre parole, Renzi dovrebbe aver capito che la stagione dell’uomo solo al comando è finita. Sarebbe ragionevole riconoscerlo: in fondo, anche questo i sondaggi lo dicono chiaramente, il premier piace ancora alla gente perché è giovane, perché si è preso in carico un Paese che è arduo, se non impossibile, governare, e perché riconosce in lui un politico consumato, cioè uno che sa capire quando è meglio per tutti scendere a patti e siglare un compromesso.

il Fatto 31.12.14
Renzi, governo sordo al Parlamento non risponde mai
Interrogazioni cadute nel nulla, mozioni e risoluzioni chiuse nei cassetti dei ministeri
Degli atti di indirizzo discussi alle Camere vede la luce solo il 4,5 per cento
di Paola Zanca


Anchilosato da tre ore abbondanti passate sui banchi del governo nell’aula di palazzo Madama, Matteo Renzi aveva pensato bene di alzarsi proprio nel momento in cui i senatori di maggioranza e opposizione aspettavano una risposta alle loro osservazioni. Lui - caso raro nell’intera storia repubblicana - decideva di non replicare. Di più, si alzava e se ne andava, costringendo la presidente di turno, Linda Lanzillotta, a difenderlo dal coro di sdegno: “Forse aveva bisogno di muoversi”.
Era il 22 di ottobre e quel giorno il suo governo compiva otto mesi giusti giusti. Li festeggiò così: celebrando plasticamente il suo totale disinteresse per quei 630, arrivati lì prima di lui e ora chiamati a rincorrere gli umori del suo governo. Eppure, che il rapporto tra i poteri dello Stato si sia interrotto, non lo dicono solo i 30 voti di fiducia in 10 mesi. Il ministro Maria Elena Boschi ha da poco pubblicato una tabella riepilogativa degli atti di indirizzo della legislatura: secondo il Dipartimento per i Rapporti con il Parlamento sono stati conclusi il 53 per cento delle mozioni e risoluzioni presentate alla Camera e il 58 per cento di quelle depositate in Senato. Per “conclusi”, specifica la tabella, si intendono tutti gli atti “discussi, trasformati o ritirati”. Che poi il governo li tenga in considerazione, è tutto da vedere. È il “Servizio per il controllo parlamentare” di Montecitorio a fornire cifre che fotografano il totale disinteresse del governo verso le indicazioni dei parlamentari. Le illustrano in una interrogazione (vedremo se destinata anch’essa a rimanere senza risposta) alcuni deputati M5S, prima firmataria Giulia Di Vita.
COMINCIAMO dall’inizio. Il “Servizio per il controllo parlamentare” ha, tra gli altri, il compito di verificare e controllare “il seguito delle deliberazioni e delle iniziative parlamentari non legislative”. A questo scopo, segnala ai ministeri competenti tutti quegli atti che sono stati approvati in Assemblea o in commissione e che sono stati accolti dal governo anche solo come “raccomandazione”. Sarà poi cura del ministero informare il “servizio per il controllo parlamentare” che fine hanno fatto quegli atti che gli erano stati segnalati. Dunque, le cose sono due: o i ministeri si scordano sistematicamente di comunicare il loro lavoro, oppure quegli atti finiscono in un cassetto che nessuno apre più. Ecco i numeri: su 2.450 ordini del giorno segnalati, ne sono stati attuati 92. Su 115 risoluzioni, hanno avuto un seguito soltanto 15. E delle 186 mozioni sottoposte ai ministeri, solo 18 sono state messe in campo. Le somme sono presto fatte: su un totale di 2751 atti di indirizzo, il governo ne ha attuati 125. Tradotto: il 4,5 per cento. Scrivono i deputati M5S: “Questo malfunzionamento contribuisce seriamente a depauperare e frustrare il lavoro di parlamentari che tentano di far emergere specifiche problematiche di rilievo nazionale attraverso appositi quesiti che però, purtroppo non di rado, restano inevasi, con conseguente alto senso di frustrazione e inutilità”.
Nella classifica (elaborata dall’associazione Openpolis) la Presidenza del Consiglio è quella che meno risponde alle interrogazioni, seguita dal ministero della Giustizia e da quello dell’Economia. I governi precedenti non avevano brillato in capacità di ascolto delle prerogative parlamentari: Berlusconi aveva risposto al 39 per cento delle interrogazioni, Monti al 29. Ma quest’ultima legislatura (per metà di Enrico Letta e per l’altra di Matteo Renzi) non arriva nemmeno al 15.
Ogni mercoledì alla Camera si svolge il question time. A quello del 3 dicembre si è presentato Renzi in persona. In un’ora ha risposto a dieci interrogazioni. Quando è toccato al M5S Daniele Pesco, il premier si è rivolto alla Boldrini: “Signora Presidente, lei perdonerà la mia scarsa abitudine alle domande e alla presenza parlamentare perché in questo momento, ad esempio, non ho capito qual è la domanda”.

il Fatto 31.12.14
Libera evasione: il Fisco sempre più ostacolato
Con il decreto varatoi la vigilia di Natale rischierà il carcere solo chi evade oltre 150mila euro contro i 50mila attuali
Le fatture false saranno reato solo se superiori a mille euro
Il Sole 24 Ore: “Senza modifiche salterà un processo su tre”
di Carlo Di Foggia


La vigilia di Natale è stata generosa con gli evasori: il regalo è arrivato direttamente dal governo. Man mano che la bozza del decreto legislativo sui reati tributari viene analizzata, infatti, si capiscono meglio anche gli effetti dell’allentamento deciso dall’esecutivo di Matteo Renzi con il testo licenziato lo scorso 24 dicembre: migliaia di processi e fascicoli cancellati, con l’abuso del diritto che di fatto esce dall’ambito penale grazie alle soglie di punibilità triplicate. Andiamo con ordine. Il segnale d’allarme l’ha lanciato il Sole 24 Ore: con queste norme, “salterà un processo su tre”. Stando al testo - inviato alle commissioni parlamentari - la soglia sotto il quale non scatta il reato di omesso versamento di Iva e trattenute passa da 50 mila a 150 mila euro. Resta solo la sanzione amministrativa, con la fedina penale che resta pulita. Stando al quotidiano di Confindustria, l’effetto sarà quello di condannare all’estinzione oltre un terzo dei processi.
UN NUMERO sottostimato visto che si riferisce ai procedimenti in corso per effetto del “favor rei”, per cui le disposizioni penali più favorevoli valgono anche per il passato. A questi vanno aggiunte le “notizie di reato” arrivate alle Procure (peraltro solo le 38 prese in esame). Tradotto in numeri: 8500 fascicoli su poco più di 25 mila, verranno archiviati. Per dare l’idea, solo in Umbria rischiano lo stop 400 processi. Le norme valgono anche per i versamenti degli acconti Iva effettuati nei giorni scorsi.
A far discutere è anche la decisione annunciata mesi fa – e confermata nel testo – di fissare un tetto di 1.000 euro al di sotto del quale emettere fatture false non è reato. Come dire che quello che oggi è un illecito penale punito con la reclusione da 18 mesi a 6 anni diventa un semplice illecito amministrativo. E il colpevole se la cava con una multa. Lo stesso vale anche per chi si serve di quelle fatture o di altri “documenti per operazioni inesistenti” per truccare la dichiarazione dei redditi con l’obiettivo di evadere le imposte sui redditi o l’Iva. Le soglie salgono anche per chi sfugge del tutto al Fisco: l’imposta evasa dovrà essere superiore a 50 mila euro. In pratica una via di mezzo tra i 30 mila fissati nel 2011 da governo Berlusconi nel novembre 2011 e i 77 mila precedenti. Il tetto resta invece a 30 mila euro per la dichiarazione fraudolenta attraverso “altri artifici”, cioè documenti falsi o altri “giochetti” con l’obiettivo di “ostacolare l’accertamento” e “indurre in errore il fisco”. Ma anche qui interviene l’allentamento: a rischiare il carcere sarà solo chi riesce a sottrarre al fisco più di 1,5 milioni di euro. Oggi ne basta uno per rischiare la galera. Ufficialmente l’allargamento delle maglie è motivato con la crisi economica. Iva e trattenute, ad esempio, sono tra le imposte più evase dalle piccole e medie imprese in crisi di liquidità, la cosiddetta “evasione di necessità”. Si tratta pur sempre di persone che hanno dichiarato i redditi al fisco, senza però versare l’imposta, e le soglie erano già salite grazie a una sentenza della Consulta dell’8 aprile.
ALCUNE NORME, però, diluiscono ancora di più la possibilità di perseguire chi evade Iva e imposte: si verrà puniti, per dire, solo se le somme evase “sono superiori al 3 per cento del totale o dell’imponibile”. Anche sui tempi, il fisco è depotenziato: grazie a una norma dell’ex ministro Vincenzo Visco, finora in caso di reati l’Erario poteva contare su un raddoppio dei termini di decadenza. Il decreto, invece, stabilisce che questo scatti solo se è stata presentata denuncia in Procura. E chi paga il debito col fisco, potrà dimezzare o estinguere il reato. “Abbiamo fatto un decreto sull’abuso del diritto e nessuno ne parla”, ha spiegato il premier durante la conferenza di fine anno. Di sicuro lo avranno fatto gli evasori.

il Fatto 31.12.14
Mandanti politici
Il “penale” è morto L’hanno ucciso pezzo dopo pezzo
di Bruno Tinti


Ne Il Ciclone, il protagonista Levante, professione commercialista, diceva alla sua ex fidanzata Carlina, erborista che faceva "nero" a go go, che doveva smetterla perché “c'è il penale Carlina, come te lo devo dire, c'è il penale”. Il film era del 1996 e oggi Pieraccioni quella battuta non avrebbe potuto dirla. Perché “il penale” per i reati tributari non c'è più, è morto assassinato.
Le prime coltellate gliele hanno date 15 anni fa, con gli arresti domiciliari garantiti fino a 3 anni (pena mai data al 99,9 % degli evasori) e con la prescrizione berlusconiana, 7 anni e mezzo per un reato che, statisticamente, si scopre a distanza minima di 3/4 anni da quando è commesso; si capisce che indagini, Tribunale, Appello e Cassazione richiedono un po' più di 3 anni e mezzo per arrivare alla fine. Però qualche pm che arrestava e intercettava c'era: niente condanna definitiva ma un paio di mesi di galera, se eri sfortunato, ti toccavano. E poi chissà cosa altro scopriva. Perché il “nero” serve per fare la corruzione, lo sanno anche i sassi. Così l'assassino (gli assassini, i nostri politici complici degli evasori che portano voti) sono passati al vilipendio di cadavere: moderni maramaldi hanno “ucciso un uomo morto” (Francesco Ferrucci a Maramaldo, appunto) ; o perlomeno si apprestano a farlo.
LE SOGLIE di punibilità sono triplicate, sotto i 150.000 euro di imposta evasa (300.000 di nero) non c'è il penale: Carlina può dormire tranquilla. Ora: Il gettito fiscale proveniente dalle persone fisiche è di circa 150 miliardi di euro all'anno. Circa 140 miliardi li pagano lavoratori dipendenti e pensionati ( sono circa 38.000.000) che, come è noto, vorrebbero evadere ma non possono. I restanti 10 miliardi li paga il popolo dell'Iva (9.000.000 circa), che vive di “nero”. Siccome professionisti, artigiani, commercianti, imprenditori che possono fare più di 300.000 euro di “nero” ogni anno ce ne sono pochini, è ovvio che Renzi& C hanno di fatto abolito i reati fiscali.
Siccome, poi, c'è l'art. 2 del codice penale, secondo cui nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce più reato, la maggior parte dei processi pendenti si chiuderà con un'assoluzione, proprio come è capitato a B per il falso in bilancio. Insomma un mega condono. Ma cosa gli dice la testa a questa gente?

il Fatto 31.12.14
Raffaele Cantone
“Posso occuparmi solo di appalti”
colloquio di Gianni Barbacetto


Su Ercole Incalza, il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione non ha poteri. “No, non è un mio problema”, spiega Raffaele Cantone al Fatto quotidiano. Incalza è il capo struttura per le grandi opere del ministero delle Infrastrutture. Ieri un’intervista all’imprenditore della “cricca” Diego Anemone riproponeva su queste pagine la questione della casa da 1,14 milioni di euro comprata dal genero di Incalza a Roma, pagando soltanto 390 mila euro. Il Fatto si chiedeva: possiamo dimenticare questo scandalo? E (sotto il titolo: “Cantone: Incalza è il tuo problema”) chiedeva al presidente dell’Anticorruzione: può quel dirigente restare al suo posto? “Io non solo non ho elementi specifici su questa vicenda, risponde Cantone, “ma non ho alcuna competenza in materia. Noi dell’Autorità ci occupiamo di atti, di appalti, di contratti. Non possiamo occuparci di nomine . Tanto meno della permanenza in servizio di un dirigente arrivato al ministero nel febbraio 2013, avendo noi iniziato a lavorare il 24 giugno 2014”. A meno che... “A meno che non arrivi una condanna almeno in primo grado. Allora potremmo pensare di affrontare il problema”.
CANTONE NON VUOLE commentare le scelte giornalistiche che lo hanno indicato come “Uomo dell’anno”, anche se ammette di essere soddisfatto del lavoro svolto in questi sei mesi e dell’impegno che lui e i suoi collaboratori ci hanno messo. Il lavoro non è mancato, tra Expo, Mose e Mafia Capitale. “L’impegno forse maggiore è stato quello per Expo”, racconta, “è stato un lavoro continuo perché abbiamo controllato tutti gli appalti. Ma ce ne sono stati anche altri, molto impegnativi anche se meno visibili. Abbiamo avviato i controlli sulla trasparenza, sull’anticorruzione... Davvero tanto materiale, in questo periodo”. Con il gennaio 2015 sarà a pieno regime l’integrazione tra la Avcp (l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici) e l’Anac (l’Autorità nazionale anticorruzione). “Sì, le due strutture lavorano già insieme dal mio arrivo, ma a gennaio sarà operativo il piano di riordino, che prevede una razionalizzazione e una riduzione di spesa, sotto un’unica Autorità anticorruzione che fa anche vigilanza sui contratti pubblici, in un’attività integrata”. Una task force di 320 persone che avrà il suo bel da fare, anche nel 2015. Ha a disposizione strumenti adeguati, anche legislativi? “Sì. Abbiamo le forze per realizzare i controlli e anche la possibilità di comminare sanzioni amministrative. Possiamo ordinare il commissariamento degli appalti, strumento che stiamo utilizzando e abbiamo utilizzato sia per Expo, sia per il Mose, sia in riferimento alle indagini su Roma. E pure per un appalto che ha fatto meno notizia, ma non è meno importante: quello su Sogin, che si occupa dello smaltimento dei rifiuti radioattivi delle centrali nucleari italiane in via di smantellamento”. È la nuova possibilità, molto rapida ed efficace, di commissariare non un’intera azienda, ma il singolo appalto ritenuto truccato. “Poi abbiamo attuato molti commissariamenti in relazione alle interdittive antimafia”: con l’esclusione dai lavori (anche di Expo) di aziende ritenute inquinate dai gruppi criminali. Una di queste, la Ausengineering, è stata di fatto riammessa ai lavori dal Tar, il Tribunale amministrativo della Lombardia. “È fisiologico”, risponde Cantone, “che qualche provvedimento possa essere messo in discussione dai giudici”. E Incalza? “No, non è tra le nostre competenze”, sorride Cantone.

La Stampa 31.12.14
Opportunità e rischi per l’anno che arriva
di Luca Ricolfi


Che cosa ci riserverà il 2015?
La risposta più seria, temo, è che nessuno può saperlo. Quest’anno più che mai. Il 2014, infatti, si chiude con un cocktail inedito di opportunità e di rischi. Grandi opportunità, ma anche grandi rischi. E quando gli uni e gli altri sono entrambi grandi, il futuro diventa più incerto che mai.
Le opportunità sono almeno quattro: la ripresa dell’economia americana (con conseguente effetto-volano sul resto del mondo); l’indebolimento dell’euro, che rende più competitivi i nostri prodotti; la diminuzione del prezzo del petrolio, che abbassa i costi di produzione (e neutralizza l’unico vero inconveniente dell’euro debole); e infine, se davvero Draghi lo metterà in atto, il cosiddetto quantitative easing della Banca Centrale Europea, che dovrebbe dare un po’ di ossigeno all’economia. Se questi, e solo questi, fossero i dati di fondo di cui tenere conto non potremmo far altro che prevedere un 2015 a tinte rosa, con ripresa dell’economia e una prima, sia pur timida, inversione di tendenza del tasso di disoccupazione.
Ma sfortunatamente gli elementi di cui tenere conto non sono solo questi. A fronte delle quattro opportunità appena richiamate, non si possono ignorare i rischi che corre l’Italia, in parte per cause esterne, in parte per responsabilità tutte sue. Fra i rischi esterni, il più importante è la crisi greca, che già alla fine di gennaio, quando si celebreranno le elezioni, minaccia di far riprecipitare l’Europa nell’incubo finanziario del 2011-2012.
Ma quelli che più dovrebbero preoccuparci sono i rischi di origine interna, se non altro perché sono gli unici per i quali non possiamo dare la colpa ad altri. Fra questi ne vorrei segnalare almeno tre.
Primo rischio (subito). Il Jobs Act, e in particolare le norme sulla decontribuzione dei neo-assunti nel 2015, tardano ancora ad essere messe «nero su bianco», ovvero tradotte in leggi, regolamenti attuativi, circolari interpretative nonché tutto quanto occorre perché chi vuole assumere sappia esattamente a che cosa va incontro. La conseguenza di questo ritardo non potrà che essere una paralisi, probabilmente già in atto, delle nuove assunzioni, perché chiunque intenda reclutare nuovo personale giustamente cercherà di farlo con il contratto più conveniente. Detto altrimenti: più Renzi riesce a convincere gli imprenditori che il contratto a tutele crescenti è vantaggioso, più li induce a ritardare le assunzioni, il che potrebbe comportare un ulteriore calo di occupazione, particolarmente grave in una situazione in cui la percentuale di famiglie che «non riescono ad arrivare alla fine del mese» (circa il 30%) è vicina al suo massimo storico, toccato dopo un anno di governo Monti.
Secondo rischio (fra qualche mese). Se si ripresentasse una situazione di turbolenza sui mercati finanziari, l’Italia sarebbe particolarmente esposta alla speculazione. Può sembrare strano, visto il buon andamento dello spread con la Germania negli ultimi mesi, ma troppo spesso si dimentica che il nostro spread, pur migliorando rispetto alla Germania, è peggiorato nei confronti di Irlanda, Spagna e Portogallo, ossia di tutti gli altri Pigs eccetto la Grecia. E’ per questo che, in passato, ho definito un azzardo la politica del governo, che ha aumentato il deficit pubblico prima di aver messo in atto le riforme che contano (mercato del lavoro e spending review).
Terzo rischio (fra un anno). C’è poi un rischio più nascosto, ma che gli osservatori più attenti hanno già segnalato: una nuova recessione nel 2016-2017, provocata da una raffica di aumenti delle tasse, a partire dall’Iva e dalle accise. Questo rischio è scritto ben chiaro nella Legge di stabilità, là dove si avverte che se i conti non tornassero, si provvederà con mostruosi aumenti di tasse nel 2016 e nel 2017. Il guaio è che i conti potrebbero effettivamente non tornare: in barba ai 20 miliardi di spending review annunciati, la spesa pubblica effettivamente tagliata è poca cosa, ed è ulteriormente diminuita nell’ultimo passaggio parlamentare della Legge di stabilità.
Dobbiamo essere pessimisti?
No, non dobbiamo. Possiamo anche fare gli ottimisti, e sperare che le cose si mettano per il verso giusto. Del resto, la fortuna premia gli audaci. E tuttavia, per sperare che le cose si mettano davvero per il verso giusto, di fortuna ne occorrerà parecchia: dollaro debole, petrolio a basso prezzo, ripresa americana, aiutino di Draghi, rientro della crisi greca, conti pubblici sotto controllo nonostante le molte falle e «criticità» segnalate dai tecnici.
C’è una cosa, però, che anche nello scenario migliore non dipenderà dagli altri, ma solo da noi: far sì che la ripresa, se e quando ci sarà, generi nuova occupazione, dando una speranza ai giovani e alle donne. Su questo, purtroppo, sono pessimista, molto pessimista. E la ragione per cui lo sono è precisamente la disciplina del contratto a tutele crescenti. Per quel che se ne sa fin qui, il contratto a tutele crescenti prevede fondi modestissimi per alleggerire i contributi sociali (circa il 4% di ciò che le imprese spendono per i contributi a carico del datore di lavoro), li riserva esclusivamente agli assunti nel 2015, ed elimina altri tipi di agevolazioni che, invece, erano permanenti e riguardavano alcune centinaia di migliaia di assunzioni ogni anno.
Naturalmente c’è una logica, in tutto ciò. Per creare nuovi posti di lavoro, ossia per occuparsi davvero degli esclusi, c’erano solo due strade realistiche. La prima era di investire ingenti risorse sulla decontribuzione (diciamo 10-12 miliardi), la seconda era di investire meno risorse (diciamo 4-5 miliardi), ma concentrandole solo sulle imprese che creano nuovi posti di lavoro, che sono meno di 1 su 10. Entrambe le strade, però, avevano una grave controindicazione politica: la scarsa capacità di aumentare i consensi al governo. Per percorrere la prima strada (decontribuzione massiccia), si sarebbe dovuto rinunciare a erogare il bonus da 80 euro, che ha permesso al Pd di vincere le Europee. Per percorrere la seconda (decontribuzione selettiva), si sarebbe stati costretti a tagliare fuori la maggior parte delle imprese, anche in questo caso con ricadute negative sul consenso. Comunque, nessuno scandalo e nessuno stupore: come (parafrasando Clinton), dice il premio Nobel Joseph Stiglitz: «It’s the politics, stupid».

il Fatto 31.12.14
A cosa serve un giornale
di Antonio Padellaro


Quando, per esempio, il presidente del Consiglio Matteo Renzi, alla vigilia di un altro anno difficile per gli italiani, dice: “La parola del 2015 sarà ritmo”, scrivere che così ridicolizza se stesso e il governo che presiede non è un’ingiuria o un complotto dei soliti gufi. Un giornale serve a questo, anche se l’egopremier gradisce solo soffietti e battimani. A quelli che ci dicono: “Altro che critica quella del Fatto contro Renzi, è stato un bombardamento incessante, pregiudiziale, irriguardoso fin dal suo ingresso a Palazzo Chigi”, diremo che sarà certamente vero se si tiene conto della delusione provata nell’inevitabile confronto tra il primo e il secondo Matteo. Nell’aver visto, cioè, un giovane uomo all’apparenza simpatico, brillante, pieno di energia positiva e animato dalla volontà di rottamare i vecchi e soffocanti poteri, trasformarsi in un baleno nel solito leader arrogante, ambiguo, pieno di sé, parolaio a livelli insopportabili e che cammina a braccetto con quel vecchiume che avrebbe dovuto spazzare via (parliamo di Berlusconi, ma anche dei tanti cacicchi pd che ha accolto sul suo carro pur di annettersi il partito).
Però abbiamo anche saputo dirlo “bravo Renzi”: non troppe volte, ma sempre volentieri. Abbiamo apprezzato il senso delle nuove norme anticorruzione, al punto di chiedere di vederle presto attuate per decreto, e non con un disegno di legge che, come tante riforme all’italiana, finirebbe dimenticato nel cassetto. Abbiamo riconosciuto il coraggio di nominare al vertice del carrozzone Inps un economista autorevole e non renziano come Tito Boeri. Abbiamo detto bene quando Renzi ha concordato con il M5S l’elezione di un giudice costituzionale e di un membro del Csm, superando così l’impasse parlamentare. E abbiamo riconosciuto la sua buona fede quando, dopo i nostri articoli, il premier ha rinunciato a un privilegio pensionistico. Abbiamo denunciato il sapore elettorale degli 80 euro convinti, a ragione, che non avrebbero giovato alla ripresa dei consumi. Ma quei soldi hanno comunque aiutato milioni di famiglie e ne abbiamo dato atto. L’amputazione dell’articolo 18 ci è parsa un’inutile e violenta ingiustizia, ma se per incanto le imprese tornassero ad assumere in misura consistente, saremmo pronti a riconoscere di aver sbagliato.
Infine, il Quirinale. Di fronte alla scelta di un nome prestigioso che si ponesse come effettivo garante della Costituzione, condiviso non solo da B. (e qui già siamo alla contraddizione in termini) come potremmo non essere d’accordo? Un giornale serve a questo, a spiegare, a distinguere, a scegliere. In piena trasparenza e onestà. Qualche volta sbagliando e in altri casi con la presunzione di avere visto giusto prima degli altri. Come nel caso dell’immobilismo politico imposto ai Cinque Stelle da Grillo&Casaleggio che senza una pronta sterzata rischia di assicurare all’unica opposizione credibile un grande avvenire dietro le spalle. Ricordate? Mentre le ovazioni si sprecavano, subito denunciammo in solitudine il pasticcio della rielezione di Giorgio Napolitano. Che, infatti, un anno e mezzo dopo si appresta a scendere dal Colle lasciando un quadro politico ancora più frammentato e ingovernabile. Ma un giornale può servire anche da allarme sociale. È accaduto nei giorni scorsi quando scrivemmo delle migliaia di esseri umani, a Roma, senza un riparo, abbandonati al gelo. Il Comune qualcosa fece, ma non abbastanza per salvare Gregorio, un polacco di quarant’anni che ieri non si è risvegliato. Non abbiamo gridato abbastanza. Nell’anno che viene lo faremo ancora di più. Un sereno 2015 a tutti.

La Stampa 31.12.14
Campania, primarie-caos
Sale la carta Migliore
di Jacopo Iacoboni


Un Vietnam che è sul punto di esplodere, questa è la fotografia del Pd in Campania, alla vigilia della corsa per le elezioni regionali di maggio.
Ieri lo specchio di questo Vietnam è stata la direzione regionale del partito, che ha votato a maggioranza il secondo rinvio delle primarie, indette per il 14 dicembre, poi slittate all’11 gennaio, e ieri al primo febbraio. Il problema ovviamente non è tecnico, è un partito squassato in correnti e sottocorrenti (racconta un dirigente che «per una corrente si arrivano a contare fino a sei sottocorrenti»). In questo quadro Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno, è pronto a correre, peraltro con la mannaia di una sentenza in arrivo (guarda caso, attesa il 22 gennaio: col paradosso di un Pd garantista che spera nei giudici per toglierselo di torno), sfidando Andrea Cozzolino, europarlamentare, gran signore delle tessere. Una corsa a dir poco ancien regime, che non entusiasma molti. Cozzolino va dicendo che «se ci sono ragioni tecnico organizzative un rinvio è accettabile, ma altre ipotesi mi sembrerebbero delle forzature al processo democratico». Il problema è che è evidente a tutti che non si tratta di «ragioni tecnico organizzative».
Il dilemma è strategico, prima che locale-campano: può il Pd di Renzi - l’homo novus che ha scalato il partito proprio grazie alle primarie - sancire che, «se non ci sono le condizioni», le primarie non si fanno? Chi decide le condizioni? A Napoli c’era stata un’esperienza stile-Leopolda, la Fonderia: ma la sua candidata possibile, Pina Picierno, è stata subito stoppata dai veti incrociati. E a Roma riprende quota la carta meno compromessa: Gennaro Migliore. A Francesco Nicodemo, il napoletano più vicino a Renzi, non dispiacerebbe: Migliore è estraneo a vent’anni di beghe campane, sostanzialmente è un esterno al Pd, quindi (forse) non avrebbe grossi veti addosso. Raccontano che, secondo l’Underwood renziano, Luca Lotti, su Migliore potrebbe esserci il via libera di Renzi. Anche perché, volente o nolente, sfumato Cantone, nomi salvifici non se ne vedono, e con questi chiari di luna Caldoro rischia persino di rivincere.

Corriere 31.12.14
Se la Capitale vuole far cassa (perfino) sui sampietrini
di Pier Luigi Battista


I romani che maledicono i sampietrini, chi sulle due ruote si spezza la schiena per i sobbalzi, le buche, i dislivelli, chi non può credere che sulle larghe vie di scorrimento, dove passano possenti autobus, e non le bighe dell’antica Roma, a ogni passaggio si scuotono i palazzi e questo sia passivamente accettato dall’autorità cittadina come omaggio a chissà quale tradizione, tutti questi romani dunque dovrebbero fare un monumento al neoassessore ai Lavori pubblici Maurizio Pucci che ha annunciato in un’intervista alla cronaca romana del «Corriere della Sera» di voler smantellare quelle pietre assassine e restaurare un più ragionevole asfalto. I suddetti romani, tuttavia, non possono perdonare il neoassessore per aver dato l’immagine di una città che mendica qualche spicciolo per tentare di arginare un debito immenso. Infatti Pucci, in quell’intervista, ha detto che esisterebbe un fiorente mercato di sampietrini (o un «cambio merce», come si è affrettato a precisare: «Noi non vogliamo soldi, vogliamo opere, opere che noi scegliamo») che potrebbe rimpinguare di qualche centesimo le avvilite casse romane. Perché no, dal punto di vista teorico. Se c’è qualche forsennato che si vuole comprare un pacco di sampietrini, sia pure il benvenuto. E i romani, grati per la liberazione da quei quadratini assassini sulle strade precariamente percorse, potrebbero pure partecipare a una colletta per dare una mano a chi sta affogando nel tragico sbilancio capitolino. Ma ecco, la Città eterna dovrebbe mantenere, per dire, una certa dignità, anche nella disgrazia. Festeggi la liberazione dal micidiale sampietrino, finalmente confinato dove deve stare nelle viuzze strette e nelle piazze chiuse, e senza che il sindaco Marino riesca a rifilarlo, come da sventurato annuncio, alle sfortunate periferie già gravate da mille problemi. Asfalto liscio, finalmente. E i sampietrini, nei magazzini dei musei. Gratis.

Repubblica 31.12.14
“Sampietrini in vendita” l’ultima battaglia che divide Roma
Bufera sulla proposta di sostituirli con l’asfalto a Piazza Venezia e usarli per fare cassa e pagare la manutenzione stradale. “È un’offesa alla città”
di Paolo Boccacci


ROMA Prima ha sparato alto. «Venderemo i sampietrini di piazza Venezia per fare cassa» ha dichiarato il nuovo assessore ai Lavori Pubblici della giunta Marino, Maurizio Pucci «c’è un grande mercato nazionale e internazionale, e così ci rifaremo per le spese del nuovo asfalto fonoassorbente che stenderemo dal Vittoriano al Corso». Poi ha corretto il tiro, ma di poco: «Non si tratta di vendere i sampietrini, si tratta di fare uno scambio con il rifacimento delle strade. Che verrà ripagato in parte con i sampietrini, e in parte con ulteriori interventi fuori dalle Mura Aureliane. Noi non vogliamo soldi, noi vogliamo opere, opere che noi scegliamo. Faremo una specie di gara d’appalto a rialzo». E quanto si può ricavare da un sampietrino? E Pucci: «Un metro quadrato con la posa in opera costa oltre 200 euro, fare un metro quadrato di strada con l’asfalto fonoassorbente viene meno della metà».
Ma intanto la rituale “guerra del sampietrino” è già scoppiata. A dare fuoco alle polveri è subito Sgarbi, che tuona: «È una follia, un’offesa alla città. I sampietrini rappresentano la pavimentazione caratteristica di Roma. Inoltre non mi pare che siano pietre preziose e che quindi consentano di fare profitti o di venderle. Temo che l’assessore abbia avuto un colpo di sole in pieno inverno, speriamo che Marino ne metta un altro».
Lapidario l’archistar Massimiliano Fuksas: «Mi sento male solo all’idea che i sampietrini spariscano, che vengano venduti. Ho convissuto con loro per una vita. Non so da dove venga il dottor Pucci, ma la sua idea provoca un malessere spaventoso. E Gasparri su Twitter arriva all’aggressione fisica: «Non amo i sampietrini, ma l’idea di venderli è così deficiente che meriteresti che te li tirassero in fronte», dice al sindaco di Roma.
Ribatte Ignazio Marino: «Ma noi li toglieremo in parte dal Centro per metterli nelle aree pedonali in periferia». Però non calma gli animi. E il capogruppo di “Noi con Salvini” nel primo municipio, minaccia: «Sono pronto a sdraiarmi in strada per impedire la rimozione. La impedirò fisicamente».
Parla anche Nicodemo Linguido, il titolare della Cava Basalto Laghetto, l’ultima a fornire sampietrini. «Tutte le cave di basalto hanno chiuso, ormai li importiamo dal Vietnam e dalla Cina in caso di ordinazioni. Ci sono i “cubetti”, 12 centimetri per 12 e i tradizionali “spilloni” alti anche 18 centimetri. L’importante è come si mettono sulle strade».
Contro Pucci l’associazione del selciaroli romani. «Invece di rimuovere i sampietrini» afferma Ilaria Giacobbi, nipote di uno degli storici esponenti della categoria «bisognerebbe valorizzare il lavoro del posatore, che è un nostro patrimonio».
Ma c’è anche chi si rivolge in procura. Come il consigliere regionale Sartori, che paragona i sampietrini ai «monoliti di Stonehenge e minaccia un esposto: «Dove sono finiti quelli di piazza Vittorio?». Chissà. Intanto i privati si cominciano a muovere: una catena di librerie li vende, numerati, a 40 l’euro l’uno. Come ricordi di Roma.

Repubblica 31.12.14
Colosseo, via libera degli esperti alla ricostruzione dell’arena
L’Anfiteatro Flavio recupererà lo spazio dove si tenevano i giochi gladiatori
Via dei Fori imperiali sarà resa accessibile solo a mezzi pubblici e pedoni
di Francesco Erbani


ROMA . Torna l’arena dentro il Colosseo e via dei Fori imperiali non andrà smantellata, ma resa accessibile solo ai mezzi pubblici e ai pedoni. Sono i punti salienti della relazione che chiude i lavori della commissione incaricata dal ministero dei Beni culturali e dal Comune di Roma di studiare il nuovo assetto dell’area archeologica centrale della capitale. Che, spiega il presidente della commissione Giuliano Volpe: «Non sarà un parco archeologico inteso in senso tradizionale e dunque chiuso, recintato, che esclude, ma uno spazio vitale aperto ai cittadini e ai visitatori».
L’Anfiteatro Flavio dunque recupera tutto lo spazio centrale, quello dove un tempo si svolgevano i giochi gladiatori. Spazio che servirà ad ampliare la superficie visitabile (questione non secondaria per un monumento frequentato da ventimila persone ogni giorno). E che potrebbe essere usato per «iniziative culturali compatibili con la corretta conservazione del monumento, si legge nella relaziosensi. Ma quali iniziative? La commissione non lo dice. Ma su questo è categorico Adriano La Regina, ex soprintendente di Roma e membro della commissione: «Se il Colosseo dovesse finire co- me il Circo Massimo mi sembrerebbe una soluzione assai sciatta. L’ipotesi della copertura era stata avanzata da Daniele Manacorda, professore a Roma Tre. E aveva ricevuto consensi e disne. La Regina, non contrario in linea di principio, sottolinea però le difficoltà: occorrerà misurare le condizioni climatiche della zona sotto l’arena, per evitare umidità e muffe che danneggerebbero quelle strutture una volta coperte.
Sempre per il Colosseo la commissione propone un accorpamento di tutti i servizi e di un museo dei Fori in uno spazio annesso alla stazione della Metro C e dunque sotterraneo. Sull’assetto complessivo dell’area archeologica, che si vuole unitaria, comprendente dunque i Fori imperiali e il Foro romano, il Colle Oppio, il Palatino, il Circo Massimo e il Colosseo, la commissione conserva una posizione prudente. O deludente, secondo i sostenitori del Progetto Fori, avanzato alla fine degli anni Settanta e consistente nello smantellamento della via dei Fori imperiali. La via dei Fori imperiali, costruita durante il fascismo, resterà, dice la commissione, anche se adibita solo ai mezzi pubblici, preferibilmente autobus elettrici, e ai pedoni. In dissenso Adriano La Regina, che fu uno dei patrocinatori del Progetto Fori. Un’ipotesi molto simile a quest’ultimo è stata avanzata anche dall’assessore comunale alla Trasformazione urbana di Roma, Giovanni Caudo. La commissione prende in considerazione invece l’idea di un ponte pedonale e carrabile, ma temporaneo, dal Foro di Cesare al largo Corrado Ricci.

Corriere 31.12.14
Predatori dell’arte
Dieci anni buttati per una legge che non c’è
di Gian Antonio Stella


I ladri della pala del Guercino rubata a Modena dovrebbero brindare stasera, per sfregio, al nostro Parlamento: se fossero beccati, se la caverebbero con una denuncia. Dieci anni non sono bastati infatti per mettere una toppa alla sciagurata voragine aperta dal codice dei Beni culturali del 2004: niente manette, ai predatori dell’arte.
Sono tanti, dieci anni. In quel 2004 in cui fu approvata la legge voluta da Giuliano Urbani un ignoto Mark Zuckerberg inventava Facebook, Umberto Bossi era colpito da un ictus, Marco Pantani moriva in modo strano in un residence, il Festival di Sanremo era vinto da Marco Masini e a Madrid trionfava Zapatero.
È passato un sacco di tempo, da allora. E a Palazzo Chigi abbiamo visto transitare Berlusconi e poi Prodi e di nuovo Berlusconi e poi ancora Monti e Letta e Renzi…
Eppure quella oscena «svista», chiamiamola così, di prevedere pene così ridicole (massimo tre anni, fosse pure per il furto della Primavera di Botticelli) da escludere le manette e il carcere per i tombaroli che saccheggiano i siti archeologici, i ladri che svaligiano i musei, i delinquenti che animano il traffico mondiale di opere d’arte (il quarto business planetario dopo i traffici di armi, di droga e di prodotti finanziari), non è mai stata cancellata.
Bastavano due righe: «Le pene per i reati previsti dagli articoli… vengono raddoppiate». Due righe. E il nostro Paese, il più colpito dai razziatori («Italia, saccheggio del paradiso dell’arte», titolò El Mundo ) avrebbe potuto almeno mostrare d’aver capito l’urgenza di porre fine a quella sconsiderata indulgenza sfociata in una vera e propria complicità.
Ricordate lo strepitoso monumento funerario dei Gladiatori scoperto nel 2007 a Lucus Feroniae, ridotto in dodici pezzi e sotterrato per poter essere «smaltito» un tronco alla volta all’estero? Arresti impossibili, per la difficoltà di dimostrare che erano stati i tombaroli stessi a danneggiare quel tesoro.
E lo struggente «Sarcofago delle Muse» scoperto nel 2008 a Ostia Antica? Il tombarolo era in possesso di un crick da carrozziere perché voleva separare una statuina dall’altra per venderle più facilmente: niente manette. E il trono di Caligola? Sorpresero i «predatori dell’arte perduta», per citare un libro di Fabio Isman, mentre trasferivano verso nord quella metà inferiore della statua trovata nella villa dell’imperatore a Nemi: solo una denuncia. In attesa, chissà quando, del processo. E via così, di furto in furto. Spiega il dossier «Ecomafia 2014» di Legambiente che nel 2013 sono stati accertati 872 furti di opere, più di 2 ogni giorno, 1.435 le persone denunciate, 41 arresti e 184 sequestri.
A guidare la classifica è il Lazio, seguito dalla Campania, dalla Lombardia e dalla Toscana. Solo in Sicilia, «la criminalità organizzata movimenterebbe in questo settore, secondo le stime dei carabinieri, un volume d’affari di oltre 157 milioni di euro».
Dicono i militari del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, i quali sul web catalogano man mano migliaia di pezzi rubati, che nel 2014 (i dati definitivi sono destinati a crescere) sono stati registrati almeno 600 furti per un totale superiore ai 10 mila pezzi, tra i quali, appunto, quella grande pala d’altare del Guercino, alta tre metri, portata via dalla Chiesa modenese di San Vincenzo. Massimo Rossi, che guida il Gruppo Tutela Patrimonio Archeologico della Finanza, conferma che anche secondo i loro dati, nonostante tutti gli sforzi (più 27% di beni archeologici recuperati), la situazione resta pesante.
Eppure da anni ogni appello, ogni denuncia, ogni sfogo d’indignazione contro tanta tolleranza verso i ladri non riesce a scuotere il Palazzo.
Ci ha provato da ministro dei Beni culturali Giancarlo Galan, con un decreto abortito con la caduta di Berlusconi. Poi il successore Lorenzo Ornaghi, che fu convinto da qualche anima bella a lasciar fare al Parlamento. E poi ancora Felice Casson, che verso la fine della scorsa legislatura riuscì a portare il progetto di legge in commissione Giustizia.
Era così sensata, quella scelta d’una maggiore durezza, che passò all’unanimità. Tutti d’accordo. Destra e sinistra. Pareva fatta, pareva. Macché: non è mai arrivata in Aula. E si è persa via via in qualche cassetto, da dove nessuno pare volerla tirar fuori…

il Fatto 31.12.14
Traffico di organi, caccia ai bambini
Bangladesh, 15 vittime solo nel 2014
Nessuna indagine è mai stata portata a compimento
di Roberta Zunini


Se non ci fossero le fotografie, verrebbe voglia di non crederci. Tanto è orribile e sconvolgente. Dopo cinque giorni dal suo rapimento, il corpicino senza vita di Harun-ur-Rashid, un bimbo di 6 anni del Bangladesh, è stato ritrovato in una discarica nella zona di Sirajganj, a nord della capitale, Dhaka, senza reni. Si tratta del quindicesimo bambino del villaggio di Tebaria vittima del mercato nero di organi, un’attività fiorente nel Paese, uno dei più poveri dell'Asia.
Dopo che Harun era scomparso, il padre aveva contattato le autorità che nel giro di qualche ora hanno arrestato un uomo. Questo ha detto alla polizia che Harun era stato drogato prima di essere portato sotto un ponte dove tre uomini arrivati da Dhaka lo avevano immediatamente operato e quindi soppresso come un animale in fase terminale. Peccato che Harun stava benissimo, nonostante i suoi genitori siano poveri. Ed è proprio per questo che è stato ucciso. I cosiddetti “intermediari” vanno a caccia di bambini sani nei villaggi più poveri, perché sanno che i genitori non sono in grado di pagare un avvocato che porti avanti il caso in tribunale.
ALTRI 14 BAMBINI sono stati uccisi durante l'anno e anche per questi casi non ci sono accusati. La corruzione delle forze dell'ordine e la totale mancanza di indipendenza della magistratura ne sono le cause principali. “È una situazione molto pericolosa perché i rapitori sanno che non verranno puniti: basta corrompere poliziotti, giudici e sindacati” sottolinea Kulshed Alom, membro di un istituto di ricerca sugli abusi alimentati dalla corruzione, il norvegese U4 anticorruzione. “ L'impunità ha permesso al mercato nero di organi umani di svilupparsi velocemente qui – dice Monir Uzzaman, un professore di antropologia presso la Michigan State University, che ha trascorso gli ultimi 12 anni a fare ricerche sullo sfruttamento dei poveri del Bangladesh -. Se ci fosse una sincera preoccupazione da parte del governo vedremmo qualche azione, ma non abbiamo visto niente. La legge non viene applicata”. Nell'agosto 2011 le rivelazioni circa un racket illegale di espianti e vendita di organi nel distretto Joypurhat, vicino al confine indiano, hanno costretto la polizia a indagare e la procura ha aperto le indagini ma i mediatori arrestati sono stati subito rilasciati in libertà vigilata e sono tornati nelle loro aree a fare quello che già facevano.
Per quanto riguarda la vendita volontaria di organi, punibile per legge, la cosa sconcertante è che le operazioni, che in genere vengono effettuate in India, sono organizzate dai sindacati.

Repubblica 31.12.14
L’agente che ispirò il famoso film: “Colleghi sempre pronti a sparare. E se sei nero è peggio”
La rabbia di Serpico “Polizia violenta così l’America perde la sua anima”


FRANK Serpico, il più famoso simbolo mondiale della lotta alla corruzione nelle forze di polizia, oggi è un vecchietto magro con degli occhiali da sole sportivi e se ne sta seduto in un diner di fronte fiume Hudson, nel nord dello stato di New York.
Fra gli anni ‘60 e i ‘70 Serpico era l’unico poliziotto a denunciare la corruzione sistematica della dipartimento di polizia di New York, e per tutta risposta veniva spostato di quartiere in quartiere: quando uno spacciatore gli sparò al volto in un casermone di Williamsburg, Brooklyn, i colleghi non chiamarono i soccorsi. Non pronunciarono il codice di uomo a terra, quello che invece è risuonato nelle radio della polizia lo scorso 19 dicembre quando Ishmael Brinsley ha fatto fuoco, sempre a Brooklyn, su due poliziotti per vendicare i recenti omicidi di afroamericani da parte delle forze dell’ordine. La solidarietà di corpo, quella che i poliziotti di New York hanno espresso più volte voltando le spalle al sindaco di Bill De Blasio, colpevole di aver criticato la decisione del Grand jury di non incriminare il poliziotto che ha strangolato Eric Garner, per Serpico non ha mai funzionato.
Nemmeno dopo lo scoppio dello scandalo Serpico ha mai ricevuto un’onorificenza. La gloria, Frank l’ha avuta soprattutto grazie al film di Sidney Lumet sulla storia, dove è interpretato da Al Pacino, ma in cambio ha da quarant’anni un frammento di pallottola nel cranio.
«Vedi quanto è bella la natura qui?» dice indicando gli aceri «puoi stare con la mente tranquilla, lucida, che è l’unico modo per riconoscere le menzogne». Questi luoghi Serpico li ha scoperti perché i suoi colleghi poliziotti investivano qui, in proprietà immobiliari, i soldi della corruzione. «Come facevano a riciclare? chiedo «Quale riciclare, compravano e basta, erano poliziotti, nessuno controllava».
Serpico è ancora sulla scena pubblica soprattutto come punto di riferimento nella lotta alla corruzione e alle brutalità della polizia: a intervalli regolari scrive articoli, rilascia lunghe interviste ai giornalisti e s’impegna anche in prima persona nei casi legali, come consulente. Negli anni ‘90 ad esempio ha aiutato Joe Tromboli, un poliziotto degli affari interni del suo vecchio dipartimento a mettere in moto la commissione Mullen. «Per lui ho anche scritto una lettera a Clinton, ‘ o pezz e novanta , ma mi ha risposto che non poteva farci niente. Non ho rispetto per questa gente, o pesce puzz ra capa .
Sul presente della polizia americana Frank ha pochi dubbi: è ancora corrotta, seppur non più in modo sistematico. In compenso è aumentato, e parecchio, il livello di brutalità «Sono violenti e impreparati. Sparano per un nonnulla, tanto sanno che saranno sempre assolti. Io ho informazioni di prima mano sulla polizia americana ma chiunque può vesua dere le decine di video su Internet. Il sistema peggiora e peggiora.
Racconta di Michael Bell, un ragazzo ventunenne del Wisconsin, biondo, occhi azzurri, ucciso durante un controllo di polizia con un colpo in testa mentre era ammanettato, di fronte alla madre. Il giorno dopo doveva testimoniare su un incidente che coinvolgeva il poliziotto che gli ha sparato. Dopo aver provato a contattare il governatore, il procuratore di stato, tutti i maggiori media nazionali e pure Oprah Winfrey, il padre del ragazzo ha chiesto aiuto a Serpico. Grazie ai suoi consigli e sei anni di battaglie è riuscito ad ottenere un risarcimento di 1,75 milioni di dollari. «Anche perché il ragazzo era bianco» annota Frank, poi aggiunge «Il padre, veterano, è sopravvissuto a tre guerre, il figlio non è sopravvissuto all’America. Bell ha usato quei soldi per promuovere una legge che prescrivesse indagini esterne per i casi di cittadini morti durante la custodia delle forze di polizia. «Altrimenti si assolvono da soli. Come sei? Non colpevole. Avanti un altro. Come sei? Non colpevole». Dopo lunghi anni di battaglie la sua proposta è diventata da poco legge di Stato. «È un grande risultato, anche perché ha ottenuto l’appoggio di molti sindacati di polizia. Una cosa incredibile».
Un altro episodio di brutalità che sta molto a cuore a Frank è quello di Eric Garner, l’afroamericano strangolato a morte in agosto, in pieno giorno, da un poliziotto, nonostante avesse provato a dire per ben tre volte che non riusciva a respirare. Il video, eloquente più di mille parole, è finito in mondovisione grazie a YouTube. «Se sei nero è sempre peggio in America. Prendi il film con la mia storia, il rapinatore che inseguo prima di finire in un conflitto a fuoco con dei colleghi è nero, nella realtà era bianco. Come la polizia anche Hollywood è razzista».
Il problema per Serpico è che gli Stati Uniti sono un Paese consacrato alla violenza. «La più grande industria è quella della guerra qui. Siamo un popolo spiritualmente in bancarotta». Aveva votato per Obama, ma ne è rimasto a dir poco deluso «Per non parlare — aggiunge — della lotta a coloro che rivelano informazioni riservate. Per aver raccontato la verità sono dovuti andare a nascondersi dalla democrazia. Bella democrazia. Snowden, Manning, Assange, sono degli eroi».
Sul futuro dell’umanità Serpico non è ottimista. «Al giorno d’oggi le persone credono di essere intelligenti se hanno una laurea o fanno soldi, ma la vera saggezza è quella del contadino. La vita è semplice. Non può esserci piacere se non c’è anche sofferenza ma le persone oggi non lo capiscono: la speranza è diventata una cosa personale. Ognuno di noi deve cercare la propria via per l’onestà» conclude, poi saluta e si dirige a suonare il suo flauto giapponese in riva all’Hudson, che, quassù, è ancora cristallino. L’autore, che usa lo pseudonimo di Quit, è giornalista, blogger e scrittore. Nel 2-013 ha vinto il Mia award per il miglior articolo del web. Il suo sito è www.quitthedoner.com

Repubblica 31.12.14
Il miraggio della libertà ma per Cuba resta lunga la strada della democrazia
di Mario Vargas Llosa


Un regime comunista che rinuncia al comunismo rappresenterebbe un caso unico nella storia
La caduta dell’Urss fu il risultato del fallimento dello statalismo e del collettivismo
Il castrismo ha perso completamente la forza ideologica che aveva all’inizio. Ora tutto questo si è trasformato in mera retorica, una propaganda in cui probabilmente non credono nemmeno i dirigenti della rivoluzione

Lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa. Nel 2010 è stato insignito del Nobel per la letteratura. È naturalizzato spagnolo

LA RIPRESA delle relazioni diplomatiche tra Cuba e gli Stati Uniti dopo più di mezzo secolo, e la possibilità di una rimozione dell’embargo sono stati accolti con favore in Europa e negli Usa. E proprio negli Usa i sondaggi indicano che la maggioranza della popolazione approva questi sviluppi, nonostante l’opposizione dei Repubblicani. Gli espatriati cubani sono divisi: mentre tra le vecchie generazioni prevale la contrarietà, i più giovani vedono in questa misura una pacificazione da cui potrebbe derivare una maggiore apertura del regime, forse perfino una democratizzazione. In ogni caso, tutti concordano, come ha detto il presidente Obama, che «l’embargo è stato un fallimento».
La lettura ottimista di questo accordo presuppone la rimozione dell’embargo, ipotesi ancora incerta perché una decisione del genere è legata all’approvazione del Congresso, controllato dai repubblicani. Ma se le autorità statunitensi togliessero l’embargo, sostiene la tesi, l’aumento dell’interscambio turistico e commerciale, l’investimento di capitali statunitensi sull’isola e lo sviluppo economico che ne conseguirebbe renderebbero sempre più flessibile il regime castrista, spingendolo a fare concessioni maggiori nel campo della libertà economica, e questo, presto o tardi, produrrebbe un’apertura politica e la democrazia. Un indizio di un promettente futuro sarebbe la liberazione di 53 prigionieri politici cubani avvenuta in concomitanza con l’annuncio della buona novella da parte di Raúl Castro.
Avendo assistito negli ultimi decenni a fenomeni sociali e politici di ogni genere e di enorme portata, nulla sembra più impossibile e tutto quello che abbiamo descritto sopra potrebbe accadere. Sarebbe un caso unico nella storia di un regime comunista che rinuncia al comunismo e sceglie la democrazia grazie allo sviluppo economico e al miglioramento del livello di vita dei suoi cittadini prodotto dall’applicazione di politiche di mercato. La spettacolare crescita economica della Cina non ha portato con sé la deliquescenza del totalitarismo politico: al contrario, come hanno appena sperimentato sulla loro pelle gli studenti di Hong Kong, lo ha rafforzato. Lo stesso si potrebbe dire del Vietnam, dove l’adozione di questo anomalo modello – il capitalismo comunista – oltre a stimolare una prosperità indiscutibile non ha intaccato la durezza del regime a partito unico e la persecuzione di qualsiasi forma di dissidenza. La caduta dell’Unione Sovietica e dei suoi satelliti centroeuropei non fu merito del progresso economico: fu il fallimento dello statalismo e del collettivismo che condusse quelle società alla rovina e al caos. Cuba rappresenterà l’eccezione alla regola, come spera la maggioranza dei cubani, e fra loro molti critici e oppositori del regime castrista? C’è da augurarselo, senza dubbio, ma non è il caso di credere ingenuamente che un esito del genere sia scritto nel destino e sarà inevitabile e automatico.
Le dittature non cadono mai per effetto dell’abbondanza economica, ma per la loro incapacità di soddisfare le necessità più elementari della popolazione, e perché quest’ultima, a un certo punto, si mobilita contro l’asfissia politica e la povertà, smette di credere nelle istituzioni e perde le illusioni su cui si reggeva il regime. Il mezzo secolo e spiccioli di dittatura che affligge Cuba ha visto oppositori eroici nella loro disponibilità ad affrontare il carcere, la tortura o la morte, ma la verità – o perché l’efficacia della repressione lo impediva o perché le riforme introdotte dalla rivoluzione nel campo dell’istruzione, della medicina e del lavoro avevano portato miglioramenti reali nelle condizioni di vita dei più poveri e assopito il loro desiderio di libertà – è che il regime castrista in questo mezzo secolo non ha dovuto fronteggiare un’opposizione di massa, ma solo una flessione moderata del consenso quasi generalizzato su cui pote- va contare inizialmente, e questo con l’impoverimento progressivo e la chiusura politica si è trasformato in rassegnazione e nel sogno di una fuga verso le coste della Florida. Non c'è da stupirsi se per quelli che avevano perduto la speranza, l’apertura di relazioni diplomatiche e commerciali con gli Stati Uniti con la prospettiva di milioni di turisti pronti a spendere i loro dollari sull’isola, con imprenditori e commercianti decisi a investire e creare occupazione, sia stata esaltante, l’illusione di una nuova alba.
Raúl Castro, più pragmatico di suo fratello, sembra aver capito che Cuba non può continuare a vivere delle elargizioni petrolifere del Venezuela, seriamente a rischio ora che il prezzo del greggio è colato a picco e il governo di Maduro è in preda al caos. E ha capito che l’unica possibilità di sopravvivenza del suo regime nel lungo periodo è raggiungere una certa distensione e un accordo con gli Stati Uniti. Questa distensione è stata avviata. Il proposito del Governo cubano è senza dubbio – seguendo il modello cinese o vietnamita – di aprire l’economia (o quanto meno una parte) al mercato e all’impresa privata, per consentire un innalzamento del tenore di vita, la creazione di posti di lavoro, lo sviluppo del turismo: il tutto conservando il monolitismo politico e il pugno duro verso coloro che alimentano le aspirazioni democratiche. Può funzionare? Nel breve termine sì, senza alcun dubbio, a patto che l’embargo venga tolto davvero.
Sul medio e lungo termine tutto questo non è così scontato. L’apertura economica e gli interscambi crescenti contamineranno l’isola con l’informazione e i modelli culturali e istituzionali delle società aperte, che contrastano in modo eclatante con quelli che il comunismo impone all’isola, e questo, prima o poi, incoraggerà l’opposizione interna. E a differenza della Cina o del Vietnam, che sono molto lontani, Cuba si trova nel cuore dell’Occidente e circondata da Paesi che – chi più chi meno – condividono la cultura della libertà. È inevitabile che la libertà finisca per infiltrarsi, soprattutto negli strati più illuminati della società. Cuba riuscirà a resistere a questa pressione democratica e libertaria come riescono a resistere la Cina e il Vietnam?
Io spero di no, spero che il castrismo abbia perduto completamente la forza ideologica che ha avuto al principio e che in tutti questi anni si è trasformata in mera retorica, una propaganda in cui probabilmente non credono nemmeno i dirigenti della rivoluzione. La scomparsa dei fratelli Castro e dei veterani della rivoluzione, che gestiscono ancora il potere nel Paese, e l’ascesa ai posti di comando delle nuove generazioni, meno ideologiche e più pragmatiche, potrebbe facilitare quella transizione pacifica che prefigurano coloro che celebrano con entusiasmo la fine dell’embargo.
Ci sono motivi per condividere questo entusiasmo? Sul lungo termine forse sì, ma sul breve termine no. Infatti, nell’immediato chi trae più profitto dal nuovo stato di cose è il governo cubano: gli Stati Uniti riconoscono d’aver sbagliato cercando di piegare Cuba attraverso una quarantena economica ( el bloqueo criminal ), e ora contribuiranno con i loro turisti, i loro dollari e le loro imprese a risollevare l’economia dell’isola, ridurre la povertà, creare posti di lavoro: in altre parole, aiuteranno a puntellare il regime castrista. Se Obama visiterà Cuba, sarà ricevuto con tutti gli onori, sia dagli oppositori che dal governo.
Niente di buono per la democrazia e la libertà. Ma la verità è che democrazia e libertà non erano un’opzione realistica in questo momento della storia cubana. La scelta era tra lasciare che Cuba continuasse a impoverirsi e che i cubani rimanessero immersi nell’oscurantismo, nell’isolamento informativo e nell’incertezza; oppure, grazie a questo accordo con gli Stati Uniti e sempre a patto che l’embargo venga effettivamente tolto, alleggerire il futuro immediato della popolazione, consentire ai cubani di godere di migliori opportunità economiche, aprire loro vie di comunicazione più ampie con il resto del mondo; e se si comportano bene e non si abbandonano, per esempio, agli eccessi degli studenti di Hong Kong, potranno godere perfino di una certa apertura politica. Pur se, a malincuore, sceglierei anch’io questa seconda opzione.
Epoca confusa è la nostra, in cui avvengono cose che ci fanno rimpiangere quegli anni tesi della Guerra fredda dove almeno era molto facile scegliere, perché si trattava di decidere «fra la libertà e la paura» (per citare il libro di Germán Arciniegas). Ora la scelta è molto più azzardata, perché bisogna decidere tra il meno cattivo e il meno buono, e i confini non sono affatto chiari, ma elusivi e volubili. Riassumendo: mi rallegra il fatto che l’accordo tra Obama e Raúl Castro possa rendere la vita dei cubani più respirabile e regalare loro maggiori speranze, ma mi rattrista pensare che questo potrebbe allontanare di un buon numero di anni il ritorno della libertà nell’isola.
(Ediciones EL PAÍS, SL, 2-014 © Mario Vargas Llosa, 2014 La Repubblica traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 31.12.14
L’abisso della disuguaglianza
di Mariana Mazzuccato


LA CRISI finanziaria globale che è cominciata nel 2008 e i cui strascichi si fanno ancora sentire pesantemente, è stata provocata da due fattori. Il primo è l’aumento della disuguaglianza, specialmente negli Usa, che ha costretto le persone a indebitarsi fortemente.
IL secondo fattore è stata la presenza di un settore finanziario deregolamentato, che negli ultimi decenni è cresciuto a ritmi ben maggiori della produzione industriale perché la finanza, per speculare, prestava a se stessa invece che all’industria. Le politiche per il dopo-crisi dovrebbero quindi puntare prioritariamente a ridurre la disuguaglianza e indurre la finanza a coltivare e prestare soldi all’economia reale. Eppure oggi stiamo fallendo miserevolmente su entrambi i fronti.
La disuguaglianza è in aumento. E se le cifre scoraggianti relative agli Stati Uniti sono ben note, l’Italia, per molti aspetti, sta andando peggio del resto dell’Ocse su questo versante. I dati Eurostat mostrano che il 10 per cento più ricco della popolazione italiana guadagna tre volte di più del restante 90 per cento, e mentre nel resto dei Paesi dell’Ocse il reddito dell’1 per cento più povero in percentuale del totale è cresciuto (dall’1,8 al 2,6 per cento), in Italia continua a regredire. Inoltre, anche se fa comodo fingere che tutte le imprese se la passino male, la realtà è che la quota dei profitti sul totale del reddito a livello mondiale è a livelli record; e l’Italia da questo punto di vista è ai primi posti in Europa, con il 45 per cento rispetto a una media Ue del 40. E come dimostra Mario Pianta nel suo libro Nove su Dieci, tutto questo mentre i salari medi per lavoratore italiano sono diminuiti di oltre lo 0,1% in media l’anno per due decenni.
Ma per ridurre la disuguaglianza non basta considerare solo l’efficacia della tassazione redistributiva o elargizioni come il bonus degli 80 euro. È essenziale affrontare anche i problemi più intrinseci di governance aziendale che hanno consentito ai profitti di salire a livelli record, distanziando i salari. È proprio questo punto che ci porta al secondo problema. L’idea che la finanza grande e cattiva debba in qualche modo essere addomesticata per poter far pendere nuovamente la bilancia dal lato della buona vecchia industria non tiene conto di quanto sia diventata malata l’economia reale. L’industria stessa si è finanziarizzata, concentrandosi esageratamente sull’accumulo di liquidità (a livelli record) e/o spendendo per misure, come gli stock buy back, che rafforzano sul breve termine il titolo azionario (e di conseguenza le stock option e le retribuzioni dei top manager), invece di puntare su quelle tipologie di spesa che garantiscono una crescita nel lungo periodo, come gli investimenti in ricerca e sviluppo e in formazione del capitale umano.
È urgente quindi che la politica industriale, che finalmente sta tornando in voga, non si limiti a sostenere certi settori, come l’informatica o le bioscienze, ma chieda alle aziende che operano in questi e in altri settori di partecipare alla riforma necessaria. Invece stiamo assistendo all’esatto contrario: governi che si fanno in quattro per accondiscendere senza fiatare alle richieste delle grandi imprese “per favorire la crescita” e un attacco generalizzato contro i diritti dei lavoratori. Un esempio di quest’ultima tendenza è il modo in cui il governo italiano continua a sostenere che l’impedimento alla crescita in Italia risiede nel livello delle retribuzioni dei lavoratori e che la soluzione stia quindi nel fare di tutto per ridurre il costo del lavoro (la recente riforma Renzi). La realtà è che l’aumento del costo unitario del lavoro è il risultato di un calo della produttività dovuto alla diminuzione degli investimenti privati (e pubblici) in tutte le aree suscettibili di incrementare il capitale umano e l’innovazione.
Un esempio della prima tendenza (il governo ostaggio delle richieste delle imprese) è l’introduzione (purtroppo meno dibattuta) della patent box in Italia per opera del governo Renzi (nel 2013 era stata introdotta nel Regno Unito dal cancelliere dello Scacchiere Osborne). Questa politica, che riduce enormemente la tassazione sul reddito derivante da brevetti, ottiene il risultato di accrescere ancora di più i profitti delle imprese, ma fa poco o nulla per incrementare gli investimenti in innovazione del settore privato (lo scopo dichiarato della misura). I brevetti sono già dei monopoli: i governi non devono intervenire sul reddito che generano (protetto per vent’anni!) ma sulla ricerca che a quei brevetti conduce, specialmente in un Paese come l’Italia, che è fra quelli in cui le imprese spendono meno per ricerca e sviluppo. Invece questa misura ottiene come unico effetto di ridurre gli introiti dello Stato, costringendolo a tagliare su altri fronti per rimanere in linea con gli obbiettivi (dannosi) sul deficit.
Un altro esempio è quell’altra parte della riforma del lavoro di Renzi che riduce le tasse per fondi di private equity, crowdfinancing e fondi di venture capital, come se fossero questi i segreti per finanziare l’innovazione. La verità è che quello che serve alle piccole imprese innovative e in forte crescita sono finanziamenti pazienti, a lungo termine, non il modello sempre più speculativo del venture capital, che punta solo sulla “uscita” (in 3 anni) dall’investimento attraverso un buyout o Opa. Inoltre, la visione errata dei fattori che trainano la crescita ha spinto a portare la durata necessaria per ottenere riduzioni delle aliquote sulle plusvalenze per gli investimenti di private equity da dieci a due anni, incoraggiando molti di questi fondi a focalizzarsi sui rendimenti a breve termine. Cosa bisognerebbe fare nel 2015? La riforma del settore finanziario, mirata a ricongiungere finanza ed economia reale, dovrà innanzitutto studiare in modo critico i fatti concreti dell’economia reale, e non i miti. I periodi più lunghi di crescita stabile nella maggior parte delle economie si hanno quando le aziende medie e grandi investono i loro profitti nella ricerca di nuovi prodotti e nuovi modi di produrre. Quello di cui c’è bisogno oggi è una finanza impegnata nel lungo termine che aiuti questo processo, sotto forma di banche pubbliche (come la KfW in Germania) o agenzie pubbliche strategiche (come Darpa in Usa o Sitra in Finlandia), e una politica fiscale che favorisca l’approccio a lungo termine, invece di continui tagli delle tasse a beneficio degli speculatori. Solo in questo modo il settore privato troverà il coraggio ed il supporto per investire in innovazione.
Assieme ad una politica fiscale progressiva e non regressiva, è fondamentale anche costruire istituzioni in grado di continuare a negoziare condizioni migliori per i lavoratori, in un periodo in cui i profitti continuano a crescere in rapporto ai salari. I sindacati non sono il problema, sono la risposta: e ovviamente devono diventare il soggetto che più si batte per una crescita trainata dall’innovazione e investimenti invece che per il mantenimento dello status quo.
Finché non metteremo insieme politiche per l’innovazione, riforma del settore finanziario e rafforzamento delle istituzioni in grado di lottare per conto dei lavoratori (la quota del salario del reddito complessivo), continueremo a essere ossessionati dalla necessità di “correggere il settore finanziario”, lasciando l’economia reale malata come prima: più disuguaglianza, tante imprese piccole e deboli e una manciata di imprese grandi e finanziarizzate, che chiedono sempre di più e danno sempre di meno. La ricetta perfetta per il prossimo casinò finanziario e il prossimo crac.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Corriere 31.12.14
Colloquio con Carlo Rovelli
Lo scienziato a caccia della Verità «Si cerca attraverso l’ignoranza»
Ho passato la vita a studiare la gravità quantistica temendo che non sarebbe mai servita a nulla
Poi arriva questo film, Interstellar, dove la gravità quantistica salva il mondo. Fantastico
di Paolo Giordano


All’università, il poderoso volume di Carlo Rovelli sulla «gravità quantistica» circolava surrettiziamente fra gli studenti di fisica teorica, quasi si trattasse di un testo eversivo. Non vi era alcun corso, neppure fra quelli specialistici, che affrontasse la fisica moderna dalla sua prospettiva, perciò il nome di Rovelli suonava alle nostre orecchie come quello di un eremita, isolato chissà dove fra le sue idee troppo audaci.
In realtà, non era così lontano: si trovava appena al di là dell’arco alpino, a Marsiglia (dove lavorava già presso il Centre de Physique Théorique), e si sarebbe presto fatto conoscere fuori dalla cerchia ristretta della fisica teorica, grazie agli articoli sui quotidiani e a saggi come La realtà non è come ci appare (Raffaello Cortina) o Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi). Per il suo dono, assai raro, di attraversare indenne la selva oscura della complessità e di uscirne con un racconto semplice, adatto ai più, Rovelli è destinato ad aggiungersi ai pochi punti di riferimento italiani nella comunicazione scientifica. Quando, a luglio, gli consegnai il premio Merck Serono — premio che illumina talenti nel corridoio stretto fra scienza e lettere — ebbi l’impressione che avesse chiara la sua missione in questo senso, che ci fosse, nascosta in lui, una ferita aperta fra la fisica più estrema e il sapere inteso come corpo unico, una ferita che con quel premio, simbolicamente, si rimarginava.
C’è in tutto ciò che scrivi, mi pare, questa ambizione sottostante a voler ricomporre la frammentazione del sapere. Torni spesso a Lucrezio, e ai greci, che potevano ancora permettersi una visione unitaria della conoscenza. Scegli Anassimandro come modello di scienziato. Abbiamo perso qualcosa di importante?
«Abbiamo trovato, più che perso. Abbiamo aggiunto informazioni sulla natura, la musica di Schubert, i pensieri di Kant e Wittgenstein, una letteratura splendida. Non abbiamo perso l’unità del sapere, perché non c’è contraddizione fra le tante facce della cultura contemporanea».
Eppure, il nostro sistema universitario costringe a compiere una scelta drastica fra scienza e cultura umanistica a diciannove anni quando, forse, non si è ancora davvero coscienti delle proprie inclinazioni. Ricordi com’eri all’epoca di quella biforcazione e che cosa ti spinse infine verso la fisica?
«Lo ricordo bene. Un misto di domande sgangherate e confuse, come si hanno a quell’età. Le stesse domande che hanno guidato i miei pensieri nel resto della vita. Credo che si dovrebbe scegliere un mestiere, non quale cultura apprendere. La cultura è una, sfaccettata, inesauribile: è l’insieme degli strumenti che l’umanità ha elaborato per pensare e comprendere il mondo».
Sceglieresti gli stessi studi oggi, o credi che si siano aperti nuovi fronti più eccitanti, come quello delle neuroscienze?
«Leggo tutto ciò che posso sulle neuroscienze, sulle discipline che studiano la coscienza. Stiamo capendo cose nuove e importanti. Ma la bellezza della fisica resta per me ineguagliata. Forse proprio perché ci costringe a smettere di pensare a noi stessi, ci costringe a uscire dalla nostra melma, aprire la finestra, guardare fuori e contemplare la bellezza rarefatta del mondo».
Mi torna alla mente un libro di Saint-Exupéry, «Terra degli uomini», del quale ho scritto pochi giorni fa su queste stesse pagine. Parla di traversate aeree, ma soprattutto di quanto importante sia la «gravità» degli affetti, delle relazioni, ciò che ci dona peso come esseri umani e ci tiene incollati al suolo. Come fisico teorico sentivo spesso venire meno questa forma di gravità, mi sembrava di fluttuare per troppe ore al giorno in uno spazio interstellare, disabitato, e ne avevo paura.
«Io penso che la gravità degli affetti, di ciò che ci rende umani, non venga da un altrove rispetto alla Natura. La Natura è complessa, iridescente, bellissima: costruisce archi di galassie, esplosioni di buchi neri, onde di probabilità, il cielo stellato, il profumo delle viole, i sorrisi della mia ragazza. La fisica non mi fa sentire estraneo al mondo, mi fa sentire profondamente parte del mondo. È come l’alta montagna: uno spazio nudo, spopolato, essenziale. Ma dove ci si sente più a casa nel mondo che lassù?
A proposito di vagare fra gli astri, hai visto Interstellar?
«Ho passato la vita a studiare la gravità quantistica, temendo che non sarebbe mai servita a niente. Poi arriva questo film dove la gravità quantistica salva il mondo. Fantastico. Tra una baggianata e l’altra, il film riesce perfino a spiegare correttamente la differenza di velocità a cui può scorrere il tempo».
La gravità quantistica mi è sempre apparsa come una sorta di «controcultura» della fisica teorica. Il mainstream sono le stringhe, mentre tu hai scelto e difeso un’altra strada per tutta la vita.
«Ogni cultura nasce come controcultura: dal cristianesimo a Mazzini, dagli impressionisti alla gravità quantistica. Le stringhe erano dominanti anni fa, oggi meno. Soprattutto, dopo la mancata scoperta delle particelle supersimmetriche al Cern (la cui esistenza è fondamentale per la coerenza della teoria delle stringhe, ndr ), sono rimasti in pochi a essere sicuri quanto lo erano prima».
La gravità quantistica in una riga?
«Lo spazio vuoto è fatto di granelli indivisibili».
Nel mondo, e anche in Italia, c’è una fame non saziata di conoscenze scientifiche da parte del grande pubblico. Ma i modi di raccontare la scienza sono più o meno sempre gli stessi, non sembrano evolversi alla velocità di altre forme di narrazione.
«A me sembra che siano i romanzi moderni a essere ripetitivi (forse è per questo che, come ultimo romanzo letto e amato, mi cita il Genji Monogatari , datato 1021, ndr ). La divulgazione è invece cambiata moltissimo: il teatro che parla di scienza, i romanzi scientifici, le sperimentazioni su YouTube e sui blog, le iniziative per i bambini. E poi restano i grandi libri di idee, quelli di Hawking, Penrose, Smolin».
E la televisione?
«Ci sarebbe anche la televisione, se la smettesse di fare programmi profondamente antieducativi, come Voyager e simili. In altri Paesi — Inghilterra, Germania, Stati Uniti — ci sono splendide trasmissioni televisive sulla scienza. Piacerebbero anche in Italia».
Al termine di «Sette brevi lezioni» parli di «diffidenza per la scienza di una parte della cultura contemporanea». In Italia è più accentuata che altrove?
«È certamente più accentuata che altrove, sia rispetto ai Paesi ricchi sia rispetto ai Paesi emergenti. Per molti motivi: i residui crociani nella nostra scuola, l’impazzare di Heidegger nei dipartimenti di filosofia, ma soprattutto lo strapotere della Chiesa. Come dice il Vangelo di Matteo, nessuno può servire a due padroni: o la Verità è rivelata, oppure la cerchiamo attraverso la nostra ignoranza, con la limitatezza della nostra ragione».
Lo sai che agli scienziati, ai fisici in particolare, non viene mai risparmiata una domanda sull’esistenza di Dio...
«Sono convintamente ateo. Serenamente ateo».
Lavori fuori dall’Italia da più di vent’anni: Yale, Pittsburgh, Marsiglia. Lasciare il Paese oppure restare è diventato un leit-motiv un po’ irritante, e il modo in cui le generazioni più vecchie guardano alle più giovani e alla loro necessità di andare all’estero sembra solo l’ennesimo atto di commiserazione. Com’è stata la tua vita di nomade?
«Andare in giro per il mondo è bello. Peccato, però, che dall’Italia escano le menti più preziose. Ma arrivano in barca dei giovani dall’Africa: fra loro ce ne sono di sicuro di brillanti, per rimpiazzarle».
Tu che dichiari che «il tempo non esiste», come te la cavi con i passaggi di anno?
«Li vivo come tutti, sentendo il tempo che scivola fra le dita, amando per questo la vita ancora di più: proprio perché breve, è così preziosa».
E nella notte del passaggio?
«Sarò in una casuccia isolata, nel mezzo della natura, insieme alla persona che amo».

Corriere 31.12.14
Satana, strumento dell’ Onnipotente per misurare la virtù di Giobbe
Nel racconto biblico demone e divinità «alleati» per saggiare la fedeltà dell’uomo
di Pietro Citati


Giobbe è, probabilmente, il testo più difficile e arduo dell’Antico Testamento. «Spiegare Giobbe — diceva san Gerolamo — è come cercare di tenere nelle mani un’anguilla o una piccola murena: più forte la si prende, più velocemente sfugge di mano». Non è un caso che il testo sia così arduo: l’esperienza di Giobbe non è astratta o teologica, ma profondamente e drammaticamente religiosa; è un conoscere Dio momento per momento, via via che si esprime e si contraddice, si muove, scivola via tra le mani, e mentre noi stessi ci muoviamo e ci contraddiciamo nei suoi confronti.
Come il Faust di Goethe, il Libro di Giobbe si svolge in due luoghi: il cielo e la terra. Nel cielo Dio è doppio o quasi doppio: vi è il vero Dio, che dice sono colui che sono, e i figli di Dio: una coorte di angeli, tra i quali l’«avversario», il «satana», che non è affatto il nemico di Dio, come il diavolo cristiano, ma colui che ha la funzione di difendere i diritti divini, osservando e spiando la condotta dei fedeli.
Il «satana» ha appena compiuto un giro di ispezione sulla terra, perché Dio non possiede l’assoluta conoscenza visiva di ciò che vi accade: egli è l’occhio, l’esperienza del Signore. Dio gli dice che un uomo, Giobbe, è «una persona perfetta e retta, fedele a Dio e nemico del male». Il «satana» non mette né potrebbe mai mettere in dubbio la parola del Signore: ma aggiunge che Giobbe è buono perché Egli lo protegge, con una moltitudine di benefici. Non c’è nessuna prova — l’«avversario» aggiunge — che Giobbe ami Dio con un amore puro, assoluto, che non dipende dalla protezione. Allora il «satana» vuole «indurre in tentazione» Giobbe, come dice il Padre nostro . Il Signore acconsente.
Le prove si susseguono: le greggi, i guardiani, e i figli vengono massacrati, e i beni distrutti. Giobbe dà segno di un estremo dolore, e dice: «nudo dal grembo di mia madre sono uscito, nudo adesso ritorno. Dio ha dato, Dio ha strappato. Benedetto sia il nome di Dio». Dunque, non pronuncia una sola parola contro il Signore. Poi il «satana» prova Giobbe più tremendamente: nelle ossa e nella carne, con un’infezione maligna che lo avvolge dalla pianta dei piedi fino al cranio. A causa della malattia, egli viene escluso dalla vita religiosa di Israele, esposto ai rischi del deserto e dell’immondo. Ma Giobbe tace: secondo l’ Antico Testamento , l’uomo deve chiudersi nel silenzio, di fronte al dolore mandato da Dio: davanti a tutti i dolori, poiché tutti i dolori sono mandati da Dio.
All’improvviso, Giobbe urla, protesta, viola il silenzio che si era imposto. Maledice il giorno della propria nascita: quello del suo concepimento; ciò che è un modo implicito e indiretto di maledire Dio, che è in primo luogo Signore della creazione. Vuole diventare tenebra, morte: vuole essere avvolto dalla caligine, atterrito da una eclissi di sole. Maledice la fecondità e la vita, e di nuovo parla contro Dio, perché il Signore è colui che protegge la fecondità del mondo. Mentre condanna l’esistenza, egli accoglie ed esalta la morte, e Dio diventa il padre di un universo in cui tutte le differenze vengono cancellate nell’unità della morte. Come è lontana la Genesi , dove ogni cosa vibra di vita, di animazione e di colori.
Con un ultimo balzo mentale, Giobbe maledice la propria angoscia: la quale è provocata da Dio. «Le frecce del Signore si infiggono nel mio corpo». Come ogni uomo egli viene sottoposto a un servizio pesante: la sua vita sono mesi vuoti, notti di dolore, i suoi giorni scorrono veloci come spole, e fra poco egli scenderà negli inferi, per non risalire mai più alla luce. La sua morte è definitiva: non vi è alcuna speranza, per lui, come per gli ebrei del suo tempo, di rimettere foglie e fiori come alberi e piante. Rinascere e risorgere sono parole vuote. Tutta la natura risorge e rinasce tranne lui, Giobbe.
La cosa più spaventosa è che Dio lo considera troppo, sia pure per perseguitarlo: lo scruta con attenzione, lo ispeziona fin dal mattino, lo esamina ogni istante. L’uomo è una cosa piccolissima: e Dio lo vede come una cosa enorme, degna di essere spiata e perseguitata: mentre dovrebbe trascurarlo e dimenticarlo, come un’ombra senza vita né peso.
L’accusa di Giobbe si fa estrema: Dio diventa il carceriere e il torturatore incessante dell’uomo, circondato da un corteo di altri, minori ma non meno spaventosi torturatori. La preghiera di Giobbe è rancorosa e furibonda: «quando la finirai di spiarmi, e mi lascerai inghiottire la saliva». Via via, egli dice cose sempre più terribili contro il Signore: Dio è onnipotente e invisibile: «Egli mi incrocia per via eppure non lo vedo, sparisce e non me ne accorgo»; ma proprio perché è onnipotente, non è giusto: anzi è sommamente ingiusto. Giobbe immagina di essere chiuso in un’aula di tribunale, dove egli è l’accusato, e il Signore è insieme l’accusatore e il giudice. «Lì, anche se avessi ragione, non riceverei risposta: supponiamo pure che io lo invochi e che egli mi replichi, non credo che badi alla mia voce». Alla richiesta di giustizia, Dio risponde soltanto con la forza della sua onnipotenza. «Quand’anche fossi innocente, la sua bocca mi condannerebbe, quand’anche fossi giusto, egli mi dichiarerebbe colpevole». Il Signore sghignazza — questa è la parola precisa — sulla tragedia degli innocenti, e abbandona la terra in mano agli scellerati, suoi complici. È perfettamente inutile che l’uomo si affanni, faccia opere buone, sia virtuoso, retto e giusto, come raccomandava l’ebraismo del tempo: Dio condanna l’uomo a priori, perché è necessariamente colpevole.
Giobbe invoca una condizione impossibile: un vero giudizio, un vero giudice, che possa applicare quella cosa sconosciuta che è la giustizia. Se esistesse questo giudizio, egli parlerebbe senza timore: ma non esiste, ed egli non parla e si chiude nel silenzio assoluto dei muti e dei morti — la sola cosa che possiamo opporre all’onnipotenza di Dio. La speranza di Giobbe è quella di un mediatore tra Dio e l’uomo: un mediatore che, pur essendo prossimo all’uomo, possa parlare con Dio e persuaderlo. Solo la cristologia dei Vangeli raccoglierà la sfida di Giobbe, facendo balenare nell’uomo una possibilità di un mediatore perfetto, superiore all’uomo e identico a Dio.
Intanto Giobbe continua il suo processo contro il Signore onnipotente ed ingiusto. Lo accusa: sicuro che, nel lungo processo, Dio sarà dichiarato innocente, mentre è colpevole di ogni colpa. Giobbe gli chiede di non spaventarlo col terrore: ma Dio è sopratutto terrore. Il Signore si comporta come un nemico: lo accusa di delitti e di peccati, che Giobbe non ha mai commesso: redige verdetti assurdi e spietati, imputa a Giobbe le sue innocenti debolezze giovanili. Sopratutto spia tutti i passi di Giobbe, esamina tutte le sue impronte; e niente è più terribile di quest’occhio che, sia pure attraverso lo sguardo del «satana», non abbandona per un istante l’uomo, consegnandolo alla colpa inesistente. Ma le parole di Giobbe sono fuori luogo: Dio non può smettere di spiare; poiché Egli non può rinunciare al tratto più evidente della propria onnipotenza.
Nel Libro di Giobbe , si agita un bisogno e un desiderio di completezza: perché vuole raccogliere tutte le accuse che, in tutti i tempi e in tutte le religioni, l’uomo abbia mai rivolto a Dio. Preda di una specie di ossessione enciclopedica, Giobbe accusa senza perdonare mai, accusa ed accusa, come del resto fa il Signore nei suoi confronti. Le parti sono continuamente rovesciate. Giobbe esaspera le proprie parole: Dio è il capo di una banda di criminali, e nell’orribile mondo divino, il malvagio viene strappato alla catastrofe, e giunge a diventare un modello di vita per i contemporanei e per i posteri. «Gli saranno lievi le zolle della valle». «Gli empi spostano i confini, fanno pascolare greggi razziate, rapinano l’asino degli orfani, pignorano il bue della vedova». Dio resta sordo a tutte le infamie compiute dai suoi complici, e viene protetto da queste infamie.
Mentre Giobbe accusa Dio di ogni crimine, afferma di essere giusto. «Sono perfetto e retto, nemico del male», come aveva raccontato l’inizio del testo: giusto anche in questo momento, quando è immerso in dolori che i suoi nemici proclamano meritati. «Non conosco — dice — nemmeno l’ombra del male: le mie sventure sono assolutamente immeritate», peccati compiuti da quell’immenso colpevole che è il Signore. «Non c’è violenza nelle mie mani, la mia preghiera è sincera, non pronuncio menzogne», così egli ripete, cercando di giustificarsi senza fine davanti a sé stesso, agli amici e al Signore, e svelando tratti di cattiva coscienza. Come un principe reggente, avanza il documento della sua denuncia contro Dio: su di esso ha apposto la sua firma, e resta in attesa che Dio replichi. Giobbe è sicuro: solo violando le regole del processo, il Signore potrà risultarne innocente. Ma Dio violerà ogni regola, come è sua abitudine.
Alla fine la parola di Giobbe si spegne. «Oh, datemi qualcuno che mi ascolti! Il Signore mi risponda». Dio prende la parola; e come sua abitudine esalta sé stesso. Si esalta come autore dell’immensa e meravigliosa creazione di cui Egli è sommamente fiero. Non c’è nessun evento che Egli ignori ripercorrendo la Genesi e i Salmi , versetto dopo versetto. Ricorda il giorno in cui le stelle Lo acclamarono e gridarono la loro gioia: quando Egli domò il mare, spezzando il suo slancio e imponendogli confini, spranghe e battenti, dicendogli: «Fin qui tu verrai e non oltre»: quando fece sorgere l’aurora, distribuì la luce e la tenebra, controllò i serbatoi della neve e della grandine, diresse pioggia, rugiada e ghiacci: accese le Pleiadi, Orione, lo Zodiaco, l’Orsa: foggiò la sapienza dell’ibis, la perspicacia del gallo, la leonessa cacciatrice, il cervo, l’asino selvaggio, lo struzzo; e infine i grandi, meravigliosi mostri che esprimono insieme l’immaginazione e il furore della natura e di Dio, Behemoth e il Leviatano.
Dio non si cura affatto di spiegare le origini e la ragione del dolore, come Giobbe gli aveva domandato. Il Signore esalta la propria onnipotenza che Giobbe conosceva benissimo, come tutti gli ebrei del suo tempo. Non è una risposta né per noi né per Dio né per Giobbe. Eppure è una risposta. Proprio perché il Signore è onnipotente, il dolore non può venire spiegato. Cercare di spiegare la complessità di Dio è il primo degli errori dell’uomo. Rinunciare a capire il dolore, significa vedere Dio, comprendere Dio, amare Dio, sebbene sembri impossibile.
Nelle ultime parole del Libro avviene qualcosa che ci pare impossibile. Giobbe ci era sembrato così intelligente, così sottile, così capace di cancellare il sofisma del Signore: la sua teologia dell’onnipotenza. Eppure cede: «Riconosco che tutto puoi, e che nessun progetto per te è irrealizzabile. Chi è mai colui che, senza intelligenza, può oscurare i tuoi piani? Ho affrontato da insensato misteri che superano la mia comprensione... Io ti conoscevo solo per sentito dire: ora i miei occhi ti hanno veduto. Per questo io ritratto e mi pento sopra la polvere e la cenere». Giobbe impallidisce: si spegne; rinuncia a accusare Dio della sua colpa misteriosa: il dolore dell’uomo e dell’universo.
Giobbe ha ritrattato. Tutte le proteste e le accuse che egli ha rivolto contro Dio vengono cancellate come se non avesse mai parlato — mentre ha detto cose inconfutabili, che nessuna anima religiosa, né ebraica né greca né cristiana può dimenticare. Il testo-anguilla, il testo-murena, ha abolito sé stesso ed è rinata la mirabile ed assurda semplicità dell’inizio: Giobbe virtuoso e benedetto da Dio. «Il Signore cambiò la sua sorte: anzi il Signore raddoppiò tutti i beni di Giobbe. Benedisse la nuova vita più dell’antica: ebbe quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asini, ebbe sette figli maschi e tre femmine... Visse centoquaranta anni e vide figli e nipoti per quattro generazioni e morì vecchio e sazio di giorni».
Curiosa conclusione. Tanta virtù e felicità e ricchezza, tante pecore, buoi e cammelli e figli e figlie e nipoti e anni e anni, e generazioni dopo generazioni non ci dicono assolutamente nulla. Giobbe resta, per noi, colui che ha sofferto, ed è giunto a Dio attraverso la sofferenza. Così riconosce lo stesso Dio, che afferma due volte che egli ha parlato di lui «con fondamento», fondamento del male e del dolore.

Corriere 31.12.14
In lotta contro i «medici» dei lager
I cristiani che resistettero a Hitler
di Stefano Jesurum


A lsazia, lembo di Francia martoriata dall’occupazione, 1940 e anni seguenti. Stimato scienziato, virologo, cattedratico di chiara fama con alle spalle uno stage triennale all’Istituto Rockefeller di New York. La sconfitta delle infezioni — psittacosi e tifo — la sua grande missione. Dedizione pressoché assoluta alla scienza e al bene della Germania. Convinto nazionalsocialista. Padre dell’adorato Tom, figliolo per metà tedesco e per metà svedese da parte di madre pensando al quale, con immensa tenerezza, Herr Doktor si rallegra: «Ariano puro poiché gli svedesi, nella gerarchia delle razze sono tra i più vicini ai popoli germanici». Il quadro è chiaro.
Un gruppo di adolescenti rinchiusi in un campo di concentramento perché ribelli, imbrattavano i muri delle strade con scritte contro gli invasori e portavano a termine atti di sabotaggio. Poco più che bambini, di fronte ai quali il guardiano del lager si ferma chiedendo se conoscano quel ragazzo dal viso tumefatto. Tra gli internati costretti a osservare, in piedi davanti alla baracca numero 8, c’è Jean-Jacques Bastian: «Ciò che mi colpì in modo particolare fu che la vittima, nonostante fosse insanguinato dalla testa ai piedi, continuasse a gridare: “Viva la Francia!”, e il suo volto fosse illuminato da un grande sorriso».
Lui, il virologo nazista, è Eugen Haagen; loro i ragazzini dell’organizzazione Mano nera e successivamente i nuovi compagni del Fronte della Gioventù alsaziana. L’incontro tra l’uno e gli altri è storia che si svolge in buona parte nei campi di concentramento Schirmeck e Natzweiler. Racconti paralleli ricostruiti con la precisione documentaria che gli è propria da Frediano Sessi in Mano nera. Esperimenti medici e resistenza nei lager nazisti (Marsilio, pp. 256, € 17). Se i «protagonisti» del libro sono Haagen e, tra i molti, Marcel Weinum (fondatore della Mano nera), Charles, Aimé, André, Martin, Albert, Jean-Jacques, Ceslav... — in massima parte cristiani devoti —, i tragici «comprimari» sono per lo più prigionieri classificati dal potere come sottouomini: polacchi, zingari, più un centinaio di internati del lager di Auschwitz scelti come cavie umane dalle SS.
La storia mette ciascuno davanti alle proprie responsabilità. «Tra tutti i medici nazisti della Reichsuniversität di Strasburgo, Haagen fu quello che usò per i suoi esperimenti il numero maggiore di cavie umane. Assisteva beffardo e indifferente ai prelievi epatici, assai dolorosi». Alla fine della guerra fu arrestato, incarcerato a Norimberga, processato e, il 14 maggio 1954, dopo un’ora sola di camera di consiglio, condannato a 20 anni di lavori forzati; non fece ricorso e presto la pena fu ridotta a 10 anni; liberato nel settembre 1955; continuò a lavorare; morì settantaquattrenne nel suo letto, a Berlino, il 3 agosto 1972.
A Schirmech la Mano nera organizzò un attentato contro Haagen, non per ucciderlo — troppo credenti per togliere la vita — ma per renderlo inabile alla «ricerca», magari accecandolo. Fallirono. Parecchi, dopo lunghi periodi di durissima «rieducazione», furono costretti ad arruolarsi e a combattere — centinaia i racconti di questi soldati, i «Malgré-Nous». Altri conobbero il carcere. Altri riuscirono a raggiungere la Resistenza. Nell’aprile 1942 la stampa nazista diede notizia della decapitazione di Marcel Weinum, comandante dell’organizzazione «criminale» Mano nera.
Queste storie parallele confrontano due modelli di moralità. Quello del professor Haagen, di cui abbiamo conosciuto la delittuosità. E l’altro, di un gruppo di francesi per lo più in calzoni corti che decide di lottare a costo della vita per restituire la libertà alla propria terra e non perdere umanità e dignità. Quegli imberbi sono stati uno dei primissimi casi — se non storicamente il primo — di resistenza, «un modello che resta ancora un sogno in attesa di essere realizzato nonostante abbia militanti pronti a ogni sacrificio per convincere gli altri a perseguirlo». Continua Frediano Sessi: «Il mio libro vuole sollecitare i lettori a trasformarsi in promotori di quel sogno, per dare un futuro migliore non solo ai nostri figli e nipoti ma all’intera umanità».

Corriere 31.12.14
Come inquinavano i Greci e i Romani

Leggere d’un fiato l’ultimo libro dello storico svizzero Lukas Thommen, L’ambiente nel mondo antico (Il Mulino, pp. 192, e 15), può indurre legittime ma superficiali analogie con i nostri affanni ecologici. Esplorando l’ambito greco-romano tra i secoli IX a.C. e V d.C., Thommen restituisce infatti sequenze familiari, dalla crisi dell’Atene classica (con la denuncia di Platone contro i disboscamenti) alla Roma inquinata e rumorosa del console-speculatore Marco Licinio Crasso, coi suoi «casermoni» sovraffollati. In realtà, a colpire è soprattutto l’ambiguo rapporto uomo/natura tra soggezione e emancipazione: tra una visione mitica che riconduce al trascendente sia il bucolico che il terrifico (fonti e prati, terremoti e eruzioni) e un’intraprendenza tecnica (coltivazioni, irrigazioni, centri urbani) vissuta a lungo come una violazione all’ordine prestabilito, da farsi perdonare con riti e sacrifici. Decisivo, per lo scioglimento del conflitto tra spinte adattative e paure arcaiche, è lo sguardo introdotto dai filosofi ionici e dalla medicina ippocratica e culminato nel coro dell’ Antigone sull’orgoglio antropocentrico dell’uomo, nel difficile equilibrio tra libertà e responsabilità.

Repubblica 31.12.14
Fuochi
Quelle luci sull’anno che verrà nei botti rivive un rito antico
Dai primi falò alla notte di San Silvestro c’è un unico filo conduttore: il desiderio di scacciare la paura della fine e voltare pagina
di Marino Niola


QUANDO l’anno gira l’angolo, gli uomini giocano col fuoco. Per scacciare la paura della fine e fare luce sul nuovo inizio. Non a caso il Capodanno è il più antico dei rituali umani. Dai falò comunitari dei nostri lontani progenitori ai botti di San Silvestro si snoda un lungo filo che attraversa i millenni.
Ancor prima dell’invenzione della polvere da sparo e dell’arte pirotecnica si usava festeggiare i passaggi tra una stagione e l’altra facendo fuoco e rumore, con tutti i mezzi disponibili. Tamburi, sonagli, pentole, coperchi, martelli tutto ciò che era buono per produrre un frastuono assordante. Che aveva la funzione di spaventare e allontanare le forze del male, oggi diremmo le energie negative. Mentre i roghi purificatori servivano a bruciare i residui dell’anno vecchio, ma anche a illuminare il cammino di quello nuovo. Anche per questo la notte di fine anno tradizionalmente ci si liberava delle robe usate, per alleggerirsi del peso del passato e chiudere il conto con il tempo. Una sorta di bilancio consuntivo prima di voltare pagina. Anno nuovo, vita nuova.
Sono gesti scaramantici e propiziatori che continuiamo a ripetere anche oggi quando accendiamo una girandola, facciamo brillare un bengala, tiriamo un petardo, esplodiamo una castagnola. O incolliamo agli auguri un emoticon pirotecnico che lancia stelline fosforescenti. Per esprimere il calore e il colore degli affetti. Un modo per far divampare la festa, insomma. In fondo quella del fuoco è una passione elementare, un basic instinct che ci portiamo dietro da quando Prometeo rubò la prima scintilla agli dèi e la donò ai mortali, facendone il simbolo stesso dell’umanità e della civiltà. Ecco perché dalla fiamma delle Vestali alle fiaccolate per la pace il passo è meno lungo di quel che sembra. Con la modernità il potere propiziatorio della luce e del chiasso viene ereditato dai giochi pirotecnici. Che mettono insieme fuoco e rumore in una miscela esplosiva che trasforma il rituale scaccia guai in una forma d’arte. Una poetica notturna che dà al cielo il colore dei nostri desideri e la forma delle nostre speranze.
I primi a sparare botti sono stati i Cinesi che già nell’anno mille, al tempo della dinastia Sung, cominciano a festeggiare le svolte del calendario e i compleanni degli imperatori con lo sfolgorio della polvere nera.
Ma la nuova arte si trasferisce ben presto nella vecchia Europa dove nascono delle vere e proprie scuole di fuochisti. Come quelle gloriose dell’Italia rinascimentale. Grande tecnica artigianale e altrettanto grande teoria. Anche in versione scoppiettante, infatti, il made in Italy è sempre lui. Il senese Vannoccio Biringuccio, autentico genio della metallurgia e maestro di balistica, capo dell’artiglieria apostolica e artefice del mastodontico cannone Liofante, una proboscide di piombo che gitta palle a distanze fino ad allora impensabili, è passato alla storia per avere scritto nel 1540 il trattato “Della Pirotecnia ovvero arte del fuoco”, dove codifica l’abbiccì dell’esplosione gioiosa. E proprio “macchine di gioia” vengono chiamate nei secoli successivi le architetture effimere che servono da supporto ai fuochi d’artificio. Talmente amate da popolo e potenti che a progettarle sono chiamati architetti come Michelangelo Buonarroti, Pietro da Cortona e Gian Lorenzo Bernini. Ideatore della famosa Girandola, che trasforma Castel Sant’Angelo in una sorta di vulcano balenante e fiammeggiante. Altrettanto spettacolari sono i Vesuvi che Luigi Vanvitelli, l’architetto della settecentesca reggia di Caserta, fa eruttare con tanto di lapilli e nubi ardenti durante le sontuose feste di Carlo III di Borbone. In fondo un’eruzione è un artificio della natura. Ma il più grande inno all’arte pirotecnica lo mette sullo spartito Georg Friedrich Händel, il fiammeggiante musicista barocco che, nel 1749, viene incaricato da re Giorgio II d’Inghilterra di scrivere le musiche per celebrare la pace di Aquisgrana. Nasce così la stupefacente suite per i “Reali fuochi d’artificio”, un autentico capolavoro della storia della musica. Che è stato eseguito solennemente anche il primo giugno 2002 per festeggiare i cinquant’anni di regno della regina Elisabetta. Nozze d’oro con sound and light show .
Bruciare il tempo per guadagnare altro tempo. È questo, in sostanza, il senso millenario del nostro capodanno. Perché fuoco e rumore, luce e suono sono i più antichi simboli anti-spread. Ieri come oggi, infatti, servono a far quadrare i conti ed eliminare il debito che la società ha accumulato con se stessa e con gli altri. Insomma è un modo per manifestare la volontà di andare avanti e di superare le crisi. E del resto la parola crisi (dal greco krino) significa proprio differenziare. Svoltare. Dare un taglio al passato. Per andare sparati verso il futuro. Col botto.

Repubblica 31.12.14
Patrick Modiano
Le confessioni di un Nobel “Ho bisogno della lentezza per questo scrivo a mano”
L’autore francese si racconta. La sua infanzia. Le prime prove. L’ottimismo sul futuro della letteratura
intervista di Claire Devarrieux


NELLO studio di Patrick Modiano, che vive accanto ai Giardini del Lussemburgo in un vecchio appartamento dai soffitti molto alti, le pareti sono ricoperte di libri che arrivano giù fino al tappeto rosso. Ci dice che recentemente ha dovuto sbarazzarsi di tremila opere. Ha conservato, dai tempi della sua adolescenza, qualche libro in edizione tascabile (all’epoca erano i primi), di cui ama riscoprire i passaggi che sottolineava.
Si ricorda delle copertine coloratissime, pacchiane e un po’ aggressive dei classici, Stendhal, Balzac. Può ancora descrivere quella dell’edizione francese dell’ Amante di Lady Chatterley. A quell’epoca era in Inghilterra, dove il romanzo di Lawrence era proibito. Ha conservato qualche libro anche della sua infanzia. A otto anni amava Il viaggio meraviglioso di Nils Holgersson attraverso la Svezia . Si è ricordato di Selma Lagerlöf e di altri autori svedesi, come Hjalmar Söderberg, quando è andato a Stoccolma a ritirare il premio Nobel per la letteratura.
Qual è stato il momento più difficile a Stoccolma? Il discorso?
«Quando sei sopra un palco sei solo, non è così difficile. Quando devi fare un discorso sei obbligato, ti devi buttare, è come quando salti giù con un paracadute, non bisogna esitare. Non c’è stato un momento difficile, in realtà».
A tavola con il re, seduto accanto alla sorella, non pensava ai ringraziamenti che doveva fare alla fine del pasto?
«No, in realtà non ci ho pensato molto. È ovvio che ci sono dei momenti in cui un po’ di fifa può venire. Ma no. Una volta che si sta lì… È curioso, non è la mia natura, io sono piuttosto timido».
Nel suo discorso lei si è mostrato ottimista sul futuro della letteratura, come se avesse sempre una grande fiducia nella gioventù.
«Sì, io appartengo a una generazione un po’ intermedia. La nostra infanzia non era così diversa da quella della generazione degli anni ‘30. Quando avevo 8 anni non c’era la televisione, c’era una trasmissione radio per i bambini il giovedì: era ancora un’infanzia come quelle di prima della guerra. Tutto quello che ci affascinava, le cabine telefoniche, l’odore dei garage, l’odore delle macchine dentro i garage, quelle cose che mi colpivano… a volte mi vie- ne da pensare che adesso, per i bambini, gli oggetti siano meno magnetici, meno propizi alle fantasticherie. I bambini o i giovanissimi hanno l’abitudine di fare zapping. Ma di sicuro alcuni saranno affascinati, si fisseranno su oggetti di adesso. Anche da un punto di vista romanzesco, forse internet provocherà un mondo particolare. L’attività letteraria, fino ad oggi, era piuttosto solitaria, c’era bisogno di un’attenzione costante. Il fatto che questa attenzione ora sia più difficile può apparire pericoloso. Ma contemporaneamente si produrranno anche altri fenomeni. È per questo che sono ottimista».
Nel discorso di Stoccolma lei ha affrontato le difficoltà della scrittura. Perché in particolare le prime pagine?
«La cosa più facile per me, più gradevole, è una sorta di fantasticheria iniziale. Quando c’è da concretizzare, il problema è sempre lo stesso: c’è un momento in cui bisogna saltare ed è un po’ sgradevole. Dopo, non si è sicuri di aver preso la strada giusta. Per almeno un mese si continua a scrivere, c’è un momento di scoraggiamento: ma poi ci si rende conto che basta una piccola modifica, una cancellatura, e si riparte.
Fra un libro e l’altro rimane a lungo senza scrivere oppure ogni mattina si siede alla scri- vania?
«Fra un libro e l’altro mi prendo una pausa. Bisogna aspettare un po’ perché risorga qualcosa che hai già scritto nei libri precedenti ma hai dimenticato, e che riprendi cercando di svilupparla.
Che ne fa dei suoi manoscritti?
«Li accumulo dentro delle valige. Ora sembra strano. Perfino le persone della mia età per lo più scrivono al computer. Ma io preferisco che le correzioni siano visibili, così ci si rende conto meglio di certi tic. È un’attività che è già un po’ astratta. Ho sempre provato il bisogno, con un piccolo côté manuale, di fare dei ritocchi. E visto che è una procedura piuttosto lenta, il rischio è quello di scoraggiarsi: hai un’idea, ti ci vogliono parecchi giorni per scriverla e così perdi lo slancio. Quando è un po’ materiale è più facile. Capisco che su uno schermo sia più chiaro, ma io ho bisogno di questa lentezza. Se è troppo rapido, non c’è più materialità».
Un pedigree ( 2005), il suo solo testo esplicitamente autobiografico, è pieno di date. A che età ha avuto il suo primo diario?
«Non avevo un diario, ho cercato di ricostruire. Avendo avuto un’infanzia un po’ enigmatica mi sono concentrato sulle date, era il solo modo. È più facile se pensi agli anni di scuola, la quinta elementare, la prima media, la seconda media, così hai dei punti di riferimento. A partire dai diciotto- vent’anni hai delle agende dove annoti gli appuntamenti. Mi regalarono un diario quando avevo vent’anni. Ci annotavo delle cose che mi erano successe e mi avevano colpito. Per esempio mio padre mi aveva portato al commissariato di polizia e io ave- vo annotato la data. Non lo facevo perché pensavo che mi sarebbe potuto servire più tardi. In quell’episodio del commissariato, quello che mi succedeva mi sembrava così strano, ero come sdoppiato. A un certo momento, il commissario mi fece un’osservazione e minacciò di arrestarmi se facevo ancora l’imbecille, una piccola minaccia. Al limite avrei quasi desiderato che succedesse, la cosa mi interessava: era come essere spettatori di se stessi. Forse è questo l’inizio della scrittura: trovarsi in situazioni che ti riguardano concretamente e al tempo stesso non esserci affatto; avere paure e contemporaneamente essere interessato. Avevo questa impressione da bambino, quando andavo in giro: provavo paura ma al tempo stesso ero curioso di vedere cosa sarebbe successo.
Da giovane era come i narratori dei suoi romanzi, che non sono né alcolizzati né drogati?
«Ho la testimonianza di alcune persone che mi hanno incrociato quando avevo vent’anni, ed erano più grandi di me e non mi conoscevano. Dicevano, quando le ho rincontrate più tardi, che all’epoca pensavano che fossi drogato, che avevo un comportamento bizzarro, come di qualcuno che prende sostanze stupefacenti. Ero uno di quelli che vengono accusati di essere alcolizzati o drogati anche se in realtà sono sobri. Non avevo bisogno di ricorrere a quelle sostanze, ero già in stato secondo. Quando avevo cinque anni fui investito da una camionetta uscendo da scuola; non era niente di grave, ma mi addormentarono, all’epoca si applicava una maschera imbevuta di etere. In seguito ho sempre cercato di ritrovare quell’odore. C’erano questi flaconi blu scuro, che in seguito ho scoperto che erano fabbricati dall’editore di Genet, Marc Barbezat. Non sono diventato dipendente dall’etere, ma mi è rimasta a lungo questa attrazione. Aveva l’aria volatile, era piuttosto pesante. Riesco a capire l’alcolismo di tanti scrittori. Ma quando sei ubriaco fradicio, devi essere sicuro di avere qualcuno che ti riporterà a casa. I grandi scrittori alcolizzati, non arrivo a dire che abbiano avuto un’infanzia felice, ma sono sicuri di avere qualcuno che li riporterà a casa».
Lei ha fama di essere stato un amante degli scherzi.
«Non è così. Quando sei bambino o adolescente, se non ti senti troppo a tuo agio con un adulto, se non ti prendi, ti viene voglia di fargli uno scherzo. Io ne facevo pochi. A volte vendevo dei libri a dei negozi di antiquariato e scrivevo delle false dediche. Non era una burla, era quasi un trucco da falsario, una forma di truffa [una scena del genere viene descritta ne I viali di circonvallazione (1972), ndr ]. Ho ritrovato da un libraio qui vicino – e non ho osato dirglielo – delle false dediche che avevo fatto io. È diventata una burla perché spesso, nella biblioteca di certe persone, avevo preso l’abitudine di scrivere delle dediche assurde, per esempio di Simone de Beauvoir a Luis Mariano. I rari scherzi che ho fatto li ho fatti per il gusto delle mescolanze insolite, per far incontrare mondi estranei, personaggi eterocliti, per riuscire a incastrare gli opposti».
Dopo il Nobel ha visto risorgere persone del passato, come sperava in Pour que tu ne te perdes pas dans le quartier (2014)?
«Qualche persona che avevo perso di vista sì, è spuntata fuori. In effetti è sempre lo stesso problema, che forse è legato alla mia età. Le persone che avrebbero potuto darmi dei ragguagli su cose che mi sono sempre sembrate enigmatiche ora sento che non è più possibile incontrarle: sono sicuramente scomparse, avevano quindici o vent’anni più di me. Ogni volta spero che ci sarà qualcosa, qualcuno che mi darà dei dettagli, ma la faccenda si restringe. Ci si accorge che siamo invecchiati perché è passato tantissimo tempo. In circostanze del genere, l’attenzione è attirata su di te, ma le persone che ti hanno conosciuto da giovane, con quegli spazi di tempo enormi, di quaranta o cinquant’anni, non fanno il rapporto. Ci sono state delle occasioni nella mia vita in cui avevo preso il nome di mia madre (mio padre non voleva più che portassi il suo). È stato verso i 19 anni, e persone che allora mi hanno conosciuto sotto un altro nome ora non possono identificarmi. Quando ero più giovane, nei miei libri, inviavo dei segnali morse per indurre le persone da cui vivevo da bambino, degli amici a cui i miei genitori mi affidavano, a manifestarsi. Facendo delle ricerche su internet ho percepito che perfino tecnologie così perfezionate come questa incontrano una resistenza, un blocco. Almeno è quello che immaginavo: sentivo che non sarei riuscito ad arrivare a quello che mi sarebbe piaciuto sapere. Eppure, se trovi una scappatoia, se riesci a mettere insieme due nomi, sono sicuro che esiste un mezzo per sapere. Forse è questo che l’aspetto romanzesco di internet».
© Libération. Traduzione di Fabio Galimberti