mercoledì 8 gennaio 2014

l’Unità 8.1.14
Il governo chiede soldi ai prof
Saccomanni rivuole gli scatti percepiti nel 2013: un taglio di 150 euro al mese
Proteste nella scuola, sindacati sul piede di guerra
Carrozza al ministro: decisione da sospendere
Il Pd: danno inaccettabile
Di Giovanni Matteucci


l’Unità 8.1.14
Cannabis libera: se non ora quando
Un disegno di legge riapre il dibattito sulla legalizzazione
Favorevoli Sel e una parte del Pd, si divide la Lega
Picierno: rivedere la Fini-Giovanardi
Manconi (Pd) presenta ddl, Vendola esulta, il ministro no
Renzi: «È schizofrenia, prima via la Fini-Giovanardi»
di Rachele Gonnelli


Una mappa sul sito della Stampa: le leggi in proposito negli altri Stati
disponibile qui

l’Unità 8.1.14
Senza il proibizionismo un «bonus» da oltre 6,5 miliardi
Il 14,6% dei cittadini italiani fra i 15 e i 65 anni fa uso di droghe leggere
In carcere 4 detenuti su 10 per la violazione dell’attuale legge «proibizionista»
di Massimo Solani


l’Unità 8.1.14
Carceri umane e narcotraffico
Perché liberalizzare conviene
di Luigi Cancrini


l’Unità 8.1.14
L’immaginazione al potere
di Laura Pennacchi


l’Unità 8.1.14
Matteo Orfini: la sinistra non può ridursi a una corrente
«Non chiudiamo la sinistra in una ridotta»
«Il congresso è finito, ora confrontiamoci sulle cose da fare. Per noi il Job Act va bene se contiene due cose: malattia e maternità per tutti i tipi di contratto»
«Sul caso Fassina il primo a sbagliare è stato il segretario, ma spero che Stefano ritiri le dimissioni»
intervista di Maria Zegarelli


l’Unità 8.1.14
Berlusconi in cerca di un filo con Renzi
L’ex premier e il segretario Pd potrebbero incontrarsi a breve
di Federica Fantozzi


La Stampa 8.1.14
Legge elettorale, da Forza Italia
tappeto rosso al leader Pd
Preferito il modello spagnolo In settimana Berlusconi e Matteo potrebbero parlarsi
di Ugo Magri


Definirlo un «via libera» di Forza Italia sarebbe riduttivo. L’immagine più esatta è quella di un tappeto rosso srotolato ai piedi di Renzi e accompagnato da un
«prego, si accomodi». Per la nuova legge elettorale, il segretario Pd adotti il sistema che più gli aggrada, l’importante è che non stia lì a perdere tempo prezioso... Poi, si capisce, sulle tre ipotesi formulate nei giorni scorsi da Renzi i «berluscones» avrebbero alcune preferenze. Se Silvio e Matteo si parleranno, magari in settimana, il primo consiglierà al secondo di adottare il modello spagnolo che favorisce i grandi partiti e cancella i «nanetti». Berlusconi dirà pure che un doppio turno per eleggere il «Sindaco d’Ita-
lia» sarebbe un gentile omaggio ai piccoli partiti in quanto li metterebbe nella condizione di esercitare «ricatti» sui fratelli maggiori. Però al Cavaliere pare interessi una cosa soltanto: andare alle urne il 25 maggio prossimo insieme con le Europee. In cambio dell’«election day», Berlusconi sembra pronto ad accettare perfino il «Mattarellum», cioè la legge in vigore fino al 2006, per la quale aveva maturato una idiosincrasia. Insomma, un accordo con Forza Italia Renzi può considerarlo già in tasca .
Ecco perché la lunga riunione pomeridiana di ieri, con tutti i capi forzisti ospiti del capogruppo «azzurro» alla Camera Brunetta, si è conclusa senza le solite accanite discussioni tra il padrone di casa e Verdini sulla bontà di questo o quel modello, bensì con una presa d’atto all’insegna del realismo: inutile alzare barricate, mettere condizioni o anche semplicemente aggiungere codicilli. Tanto alla fine Berlusconi, se davvero desidera votare quanto prima, e la sua non è tutta una finzione scenica, dovrà ineluttabilmente adeguarsi ai voleri del giovane leader che ha la metà dei suoi anni. E qui si addensa un vero mistero. Perché nessuno che frequenti Arcore è in grado di spiegare l’azzardo politico del Cavaliere, pronto a tutto pur di ottenere tra quattro mesi una resa dei conti da cui uscirebbe, verosimilmente, con le ossa rotte. Alla candidatura Renzi, Berlusconi non potrà contrapporre la propria poiché interdetto dai pubblici uffici a seguito della condanna. E se gli sarà permesso di fare campagna elettorale, lo valuteranno a marzo i magistrati nell’udienza che servirà a decidere l’affidamento o meno ai servizi sociali. Bel capolavoro tattico, se Berlusconi ottenesse le elezioni e poi gli vietassero di andare in tivù...
Qualcuno ipotizza la discesa in campo della figlia Marina, ma chi è al corrente degli sviluppi garantisce che lei resta ancorata al suo no. Gli stessi sondaggi (in attesa che Euromedia Research gliene fornisca di aggiornati) invogliano Berlusconi fino a un certo punto. Ma forse lui si considera in grado di ribaltare qualunque pronostico, anche il più negativo. E dunque, nel faccia a faccia con Renzi ancora da fissare ma dato per certo da entrambi gli entourage, l’ex-premier getterà le basi di un’intesa che i due vorranno estendere a Grillo. La scommessa è la seguente: se la prospettiva è di sbaraccare Parlamento e governo, come faranno i Cinque Stelle a non sottoscrivere un’intesa a tre?
L’unico vero dubbio che circola tra i forzisti riguarda la Corte costituzionale. A seconda di come questa motiverà l’abrogazione del «Porcellum», potrebbe far pendere da una parte o dall’altra la bilancia della riforma. Per esempio, avvantaggiando il doppio turno che non piace a Berlusconi ma segnerebbe la vittoria di Alfano. La Santanché già avverte odore di bruciato: «Non vorrei», tweetta preoccupata, «che la legge elettorale fosse già scritta nelle motivazioni della Consulta. Sarebbe un esproprio!».

Corriere 8.1.14
Ma sul «contratto» il premier teme il fuoco amico
Riflettori più sul partito che sul sindaco «Lì ci sono maggiori tabù ideologici»
«Neppure a Matteo conviene il voto anticipato, fiducioso sulla fase due»
Per il presidente del Consiglio l’eventuale rimpasto sarà dopo la firma del patto
di Marco Galluzzo


ROMA — Visto che l’intenzione di Letta è quella di «fare in un anno le riforme che non si sono fatte negli ultimi 20» e visto che a Palazzo Chigi giudicano sia Scelta civica che il nuovo partito di Alfano movimenti «senza preconcetti ideologici, liberali e in grado di essere realmente riformisti», per paradosso il rischio più grande per Letta arriva dal suo stesso partito.
Non è una questione legata a Renzi, alla nuova leadership, al movimentismo del sindaco di Firenze che flirta con Berlusconi e Forza Italia sulla legge elettorale e che prende almeno su questo tema un percorso diverso da quello che sta compiendo il presidente del Consiglio.
No, il problema è emerso ieri nel corso dell’incontro con i rappresentanti di Scelta civica. Letta intende dividere il Contratto di coalizione, che si chiamerà Impegno 2014, in due parti: una molto incisiva sulle riforme economiche e sociali, dettagliata il più possibile nei tempi e nel merito; un’altra sulle riforme che sarà più di indirizzo, in omaggio all’autonomia delle Camere. Bene, sulla prima parte, Letta è consapevole che le maggiori riserve verranno proprio dal suo partito. E che toccherà a lui superarle.
La cornice, beninteso, è sempre quella dell’ottimismo: a porte chiuse, prima di salire al Quirinale per riferire dell’avvio dei colloqui, ieri mattina il capo del governo ha scandito queste parole ai rappresentanti del partito fondato da Mario Monti: «Posso rassicurarvi, non conviene né a Renzi né al Pd andare al voto anticipato, io resto molto fiducioso in questa fase due del governo, che può concludersi nella primavera del 2015».
Detto questo però lo stesso premier è apparso consapevole che proprio nel partito democratico albergano le maggiori resistenze nei confronti di un’agenda realmente liberale e riformista. E chi lavora con lui conferma quanto discusso con Scelta civica: «Sicuramente ci sono maggiori tabù ideologici nel Partito democratico che nelle altre forze che sostengono il governo, è anche opinione del presidente del Consiglio, e se questo renderà il compito forse più difficile resta comunque la fiducia in un obiettivo che è a portata di mano».
Insomma è dal Pd che il presidente del Consiglio attende il maggiore supporto possibile, proprio perché a quel punto la strada diventerebbe chiara. Non certo in discesa, perché dopo la chiusura del Contratto di coalizione ne dovrà iniziare l’attuazione, con tanto di sinergia fra governo e Parlamento, ma «è una questione di volontà politica, quella che è mancata in questi anni, in tutti i partiti: se ci sarà quella, di fare una cosa straordinaria, mai fatta prima, allora supereremo qualsiasi cosa», ripete Letta.
E le cose, il merito, i programmi, verranno prima dei nomi, della squadra di governo. Gli hanno chiesto del rimpasto, Letta ieri mattina è rimasto quasi in silenzio, non affronta l’argomento nemmeno a porte chiuse. Fa sapere che non gli piace il termine, che se qualcosa avverrà sarà dopo la chiusura di Impegno 2014, ma che preferisce parlare di eventuali nuovi ingressi.
Lo stesso Renzi del resto, ieri sera, ospite della trasmissione di Lilli Gruber, ha detto che anche a lui del rimpasto non gli interessa, è rito da Prima Repubblica. C’è da scommettere che Letta ha gradito l’osservazione. Glielo dirà domani o dopodomani, quando dovrebbero incontrarsi.

il Fatto 8.1.14
Legge elettorale: il segretario Pd pronto a vedere B.
Consultazioni parallele sul governo a Palazzo Vecchio, dove è arrivato Monti
e a Palazzo Chigi con il resto di Scelta Civica
di Sara Nicoli


Basta “giochini della politica”, intima Matteo Renzi, “io non voglio poltrone, ma se Letta vuole, faccia pure”. E, infatti, il sindaco di Firenze vuole di più: ottenere un accordo sulla legge elettorale, firmato anche da Berlusconi (dal quale non accetta “nessun diktat”), quindi costringere Letta alle dimissioni, andando verso un election day a maggio con le europee. Il premier lo sa e intanto rompe gli indugi, va da Napolitano e avvia le consultazioni per arrivare all’annunciato “patto d’impegno di maggioranza per il 2014” che avrà lo scopo di traghettare il governo almeno fino al prossimo anno. Con chi ci sta. Ieri, dopo aver visto Saccomanni e aver fatto il punto con Giovannini, il premier ha incontrato la delegazione di Scelta Civica, la forza politica più attiva, durante le feste, nel chiedere nuovi spazi nella compagine dell’ esecutivo; entro dieci giorni, hanno chiesto gli uomini di Monti, tutte le forze di maggioranza si dovranno trovare intorno a un tavolo per definire e sottoscrivere un documento che consenta, appunto, la sopravvivenza del governo almeno fino alla fine del semestre europeo. È solo che, in questo tavolo, potrebbe esserci un grande assente; proprio Matteo Renzi. Che di legarsi troppo alle larghe intese non vuol sentir parlare. Ieri, non a caso, il sindaco di Firenze ha compiuto un’azione parallela a quella di Letta, incontrando a Palazzo Vecchio proprio Mario Monti. Per parlare certo di rilancio delle imprese, di lavoro e di economica. Ma anche – e soprattutto – di legge elettorale.
È QUESTO – da qualunque parte la si voglia vedere – lo snodo su cui si fonderanno i numerosi incontri politici dei prossimi 10 giorni, quando, appunto, si dovrebbe siglare il nuovo patto di governo, con annesso rimpasto (chiesto chiaramente ieri dalla delegazione montiana a Palazzo Chigi). Renzi vuole trovare un’intesa per poter condizionare l’azione di Letta, che invece ieri ha ricevuto, in questo senso, precise indicazioni dal Quirinale; la legge elettorale è una priorità senz’altro, ma basterebbe vararla dopo la chiusura della finestra elettorale di maggio. Astuzie parlamentari su cui conta il premier che, non a caso, anche ieri ha ostentato ottimismo sulla tenuta dell’esecutivo. Renzi, però, logora ai fianchi. Giovedì o venerdi vedrà il premier e pare intenzionato a entrare a Palazzo Chigi con in mano non solo un elenco di titoli. L’idea sarebbe quella di presentarsi con un patto siglato anche con Berlusconi. E infatti i due si vedranno a breve, anche se non è ancora chiaro quando. Oggi Berlusconi sarà a Roma, vedrà i suoi. Una posizione unitaria all'interno di Forza Italia, infatti, non c’è, dunque l’ultima parola sarà quella di Berlusconi che è convinto di trovare in Renzi "un valido alleato” sul fronte elettorale. Per questo non intende legarsi le mani su un modello elettorale definitivo, purché non si scardini il bipolarismo. Comunque, un accordo tra FI e Pd creerebbe più di uno “sconquasso” nella maggioranza e in Ncd, cosa molto gradita a San Lorenzo in Lucina. Alla nuova legge elettorale, dunque, sono legate anche le sorti del governo. Ncd più volte ha sottolineato l’esigenza che un’intesa vada trovata prima di tutto all’interno della maggioranza, lasciando presagire ripercussioni in caso di accordi trasversali tra Pd e Fi.

il Fatto 8.1.14
Matteo e Denis contro Letta, parte il tandem fiorentino
Da anni giocano sullo stesso campo: fu il coordinatore di Forza Italia a volere il “debole” Giovanni Galli contro di lui a Firenze
DSa un loro accordo i rischi per il governo
di Wanda Marra

“Matteo, io e te ci dobbiamo parlare”. Così Denis Verdini, uomo forte di Forza Italia, si rivolgeva a Matteo Renzi. Oggetto? La trattativa sulla legge elettorale. Lo scriveva il 19 dicembre l’Huffington Post. Poi il 21 la notizia diventava una denuncia, per bocca di Quagliariello, ministro delle Riforme per quel Nuovo Centro Destra che rischia di rimanere schiacciato in una trattativa tra il segretario del Pd e Berlusconi. “Capisco benissimo che Renzi abbia più comodità, sia politica sia geopolitica, ad avere a che fare con Verdini che con noi. Con Denis non deve neanche spostarsi da Firenze: l’inciucio lo fa lì”, dice a Libero. Matteo non risponde, non polemizza, non interviene. Anzi, si racconta di un colloquio tra i due tra Capodanno e la Befana. D’altra parte ogni volta che i territori renziani e berlusconiani si toccano, l’accostamento tra il segretario del Pd e l’ex coordinatore del Pdl è immediato. I loro rapporti si danno per scontati, non fosse altro – appunto – per la contiguità territoriale. Anche se per la verità sono molto misteriosi: molti se ne dicono a conoscenza, nessuno è in grado di raccontare quando sono nati e come si sono evoluti. A favorirli sono anche i caratteri. Entrambi “toscanacci”, entrambi pronti alla battuta, entrambi irruenti, sopra le righe. Diversamente talentuosi, diversamente gemelli.
CERTO, con una differenza non da poco: Verdini è pluri-indagato a Firenze e Roma in ogni tipo di inchieste (dal concorso in corruzione e appalti per il G8 dell’Aquila al crac del Credito cooperativo fiorentino) e Renzi no. Epperò, se Matteo è andato ad Amici vestito come Fonzie, Denis si è fatto riprendere mentre cantava Rose rosse per te con Fiorello, se Matteo s’è presentato alla cerimonia degli auguri alle istituzioni di Napolitano con un inadattissimo abito grigio, Denis si lasciò andare all’indirizzo di Re Giorgio a un sonoro “ce ne freghiamo” delle prerogative del Quirinale (erano i tempi della fiducia del 2010, quella ottenuta da B. per il rotto della cuffia, dopo settimane di compravendita di deputati).
I due in pubblico sono stati visti insieme almeno una volta. Anno 2008, location il meeting di Cl, evento la presentazione delle Lettere di Graziano Grazzini, consigliere provinciale fiorentino, cattolico, morto per infarto nel 2006. Renzi è presidente della Provincia, Verdini deputato. Chi c’era tra i vicini a Matteo racconta che i rapporti tra i due in quell’occasione erano piuttosto tesi. Eppure durante le primarie per la candidatura a Sindaco di Firenze a una delle iniziative di Renzi venne avvistato anche l’imprenditore toscano, Riccardo Fusi, ex patron del gruppo Btp, finito nell’indagine sulla cricca, i cui assidui rapporti con Verdini sono noti. Il nome di Fusi torna un’altra volta accostato a quello dell’allora presidente della Provincia: nelle carte note dell'inchiesta sulla P3, si parla di un volo promesso ad Andrea Bacci (allora presidente di Florence Multimedia) da Fusi per permettere a Matteo di non far tardi alla trasmissione della Bignardi. Renzi smentì tutto: "Mai volato su un aereo di Fusi, non ho mai chiesto a Fusi o ad altri imprenditori l'utilizzo per fini personali o istituzionali di un elicottero, non so perché Andrea, che è un mio amico, lo abbia fatto". E poi c’è la decisione di schierare l’ex portiere della Nazionale Giovanni Galli a Firenze per la poltrona di primo cittadino. Una candidatura voluta dallo stesso Denis, che molti valutarono particolarmente debole. Le interpretazioni si sprecano: nel centrodestra oggi i più sobri tra i nemici dell’ex coordinatore del Pdl dicono che lui in Toscana - trattandosi di una regione rossa - ha da sempre giocato a perdere contro il centrosinistra per garantirsi una sua area di potere. I più avvelenati lo accusano di aver voluto favorire Renzi, perché gradito a B. È l’Espresso che il 21 giugno del 2012 tira fuori un documento riservato messo a punto per il Cavaliere da un gruppo ristretto di consiglieri capeggiati da Dell’Utri e Verdini, invitandolo a catturare il campione del campo avverso, “il solo giovane uomo che ci fa vincere, Matteo Renzi” e schierarlo con il Cav.. Ovviamente non se ne fa nulla. Quello che oggi è il segretario del Pd ha detto in tutte le salse possibili che il suo campo è il centrosinistra. E le pro-offerte amorose di Verdini degli ultimi giorni? Si spiegano, secondo gli uomini vicini al sindaco di Firenze, come una manifestazione della guerra di potere dentro a FI, che vede schierato anche nella trattativa sulla legge elettorale l’ex macellaio (che vuole il sistema spagnolo) contro il capogruppo Renato Brunetta (per il Mattarellum).

il Fatto 8.1.14
La svolta di Renzi: è finita l’era del “sono stato frainteso”
di Alessandro Robecchi


Ancora quasi non era scoppiata la bombetta del “Chi?” staffilato da Matteo Renzi al (suo) viceministro dell’Economia Stefano Fassina, e già erano al lavoro molti volenterosi pompieri del capo: chi a dire che quel “Chi?” non era mai stato pronunciato, chi ad accusare i giornalisti di mestare nel torbido. Un classico degli ultimi vent’anni: il sasso che parte, la mano che si nasconde. Sarebbe bastato un “Sono stato frainteso” per rispettare il copione. Invece, Renzi ha rivendicato la battutina e gli zelanti pompieri del capo sono rimasti con la pompa in mano, la scala a mezz’asta e la sirena ripiegata. Non era colpa dei giornalisti, insomma,enessunoerastatofrainteso,enonc’era nessun “gomblotto”. È un piccolo episodio, per carità, e se lo si ricorda qui, a qualche giorno dai fatti, non è per polemica. È semmai perché può servire a un dibattito serio che riguarda la sinistra italiana e non solo lei. Un dibattito che dovrebbe crescere intorno alla saggia domanda che ha posto Ilvo Diamanti su Repubblica , non un invasato grillino, non un nostalgico ideologico. La domanda che Diamanti pone sul Pd renziano alla fine della sua analisi è questa: “Se sia possibile costruire un soggetto post-berlusconiano senza essere Berlusconi”. O, almeno, senza assomigliargli almeno un po’, nei modi, nelle dinamiche, nel porsi di fronte agli avversari interni ed esterni. O ancora, per dirla con Gianni Cuperlo (che del Pd renziano è il presidente), se sia possibile in quella logica fare una distinzione tra il “dirigere” e il “comandare”. Per ora ci si deve accontentare di piccoli indizi. Il tempo dirà. Certo, tra gli indizi c’è anche quello degli zelanti pompieri: accusare i giornalisti per una frase effettivamente pronunciata farebbe pensare che sì, che c’è nel renzismo una componente fideistica che ricorda certe uscite dei fedelissimi berlusconiani in relazione alle sparate (quasi sempre infelici) del loro Santo Silvio. Altri elementi sono un certo decisionismo ostentato (ma per ora un decisionismo senza decisioni), una forte accelerazione sul carattere personalistico del partito, un modellare la principale forza politica della sinistra sulla figura del nuovo capo.
Il “Non sarò mai un grigio burocrate” detto da Renzi somiglia abbastanza da vicino al “Non faccio parte del teatrino della politica” detto da Berlusconi, e ci sarà tempo per verificare se avrà più fortuna. Ma insomma, alcuni indizi, quelli messi in fila dall’ottimo Diamanti e quelli che ognuno può vedere, ci sono. La domanda rimane sospesa e forse la risposta vera la può dare solo la base del Pd, cioè quei milioni di italiani che si vantavano (con Bersani) di sostenere l’unico partito non personale e che ora si ritrovano con il dubbio di sostenere un partito “padronale” (e questa è una citazione di Fassina). Italiani che dicono le cose in italiano e non in inglese, che magari rimangono affezionati a qualcosa che somigli a un’ideologia e che non la considerano una parolaccia, che magari non sono nemmeno tanto affascinati dai panini di Eataly e che potrebbero persino essere un po’ irritati dalle interviste dei loro leader su Chi?, la bibbia del gossip berlusconiano. Insomma, alla domanda di Ilvo Diamanti risponderanno loro, prima o poi. A meno che il nuovo Pd post-berlusconiano (ancora parole di Diamanti) non decida che di loro può fare a meno, che quei voti non gli servono, che è davvero diventato un’altra cosa, nel nome e nel culto del capo. Post-berlusconiano e anche un po’, forse, post-democratico.

l’Unità 8.1.14
Grillo attacca ancora l’Unità: nuovi insulti sul suo blog
di Natalia Lombardo, Toni Jop


Corriere 8.1.14
L’Italia tragica di «Presadiretta»
di Aldo Grasso


Mentre Raiuno «cucinava» la Lotteria di Capodanno (gli italiani credono preferibilmente a ciò che desiderano, dalla Lotteria al Paradiso), mentre Raidue si inebriava delle stratosferiche avventure di Kazzenger, Raitre mandava in onda pestaggi. Più che pestaggi, e infatti il tema della puntata di «Presadiretta» di Riccardo Iacona, con la collaborazione di Giulia Bosetti, si chiamava «Morti di Stato». Sono temi delicati perché spesso il manganello diventa un abuso, il braccio della giustizia colpisce a tradimento, il carcere si trasforma in un inferno (lunedì, ore 21.10).
La puntata ha raccontato i casi, molti dei quali già tristemente noti, di Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Giuseppe Uva. Ma anche quelli di Michele Ferrulli, morto a Milano durante un fermo di polizia mentre ballava per strada con gli amici; Riccardo Rasman, rimasto ucciso durante un’irruzione della polizia nel suo appartamento dopo essere stato legato e incaprettato col fil di ferro; e ancora, Stefano Brunetti, morto il giorno dopo essere stato arrestato col corpo devastato dai lividi.
E come non commuoversi di fronte alle parole di chi è sopravvissuto alle botte ma ne porta per sempre i segni? Paolo Scaroni, in coma per due mesi dopo le percosse subite durante le cariche della polizia contro gli ultras del Brescia; Luigi Morneghini, sfigurato dai calci in faccia di due agenti fuori servizio e delle altre vittime che a oggi aspettano ancora giustizia.
L’Italia è anche questa, mossa da un lotteria ben più tragica. L’Italia è anche quella dei testimoni che vedono, urlano, ma al processo non parlano per paura. L’Italia è anche rappresentata dalla superficialità con cui alcuni pubblici ministeri conducono le indagini. Per questo, sul finale, ho molto apprezzato le parole di Alessandro Marangoni, vice capo della Polizia: «Dobbiamo fare tesoro di ogni storia».

il Fatto 8.1.14
2238 morti in cella
Perna e gli altri: gli strani decessi dietro le sbarre

NON SOLO NEI COMMISSARIATI e nelle Questure: le morti sospette si verificano, e sono tante, anche in carcere. L’ultima in ordine di tempo è quella di Federico Perna, un giovane di 34 anni deceduto l’8 novembre scorso nel penitenziario di Poggioreale, a Napoli. Federico era malato di cirrosi epatica e più di un medico aveva decretato la sua incompatibilità carceraria. La madre, come il Fatto ha documentato, denuncia anche le percosse che il figlio avrebbe subito. In totale nel 2013 sono state 148 le persone che sono morte dietro le sbarre, 49 delle quali si sono tolte la vita. In questi primi giorni del 2014, sono già tre.

il Fatto 8.1.14
Lo Stato che tortura e uccide, la rabbia di chi guarda
!Presa diretta” manda su Rai Tre le storie di abusi e violenze su semplici cittadini
Emozione e sdegno tra gli utenti
Il sindacato Cosap “Fango su di noi”
di Chiara Paolin


La verità più indicibile diventa semplice se si raccontano i fatti, uno dopo l’altro. Lunedì sera Presa-diretta ha messo in fila gli episodi accertati dalla cronaca negli ultimi anni: tutte le volte che un poliziotto, un carabiniere, un agente penitenziario hanno negato il diritto alla dignità di un cittadino; tutte le volte che, invece di applicare la legge, gli uomini di Stato hanno schiaffeggiato, bastonato, preso a calci e pugni una persona affidata alla loro responsabilità.
Chi legge il Fatto Quotidiano conosce molte di quelle storie, perché ha seguìto nel tempo la fatica delle famiglie, la rabbia di chi ha disperatamente lottato per veder riconosciuta la violenza inferta ai propri cari. Riccardo Iacona e Giulia Bo-setti, autori della puntata, hanno mostrato le foto dei morti insanguinati, i video delle aggressioni registrati fortunosamente da qualche testimone, gli sguardi persi di chi ha vissuto un abuso. E gli italiani hanno capito. Hanno lanciato allarmi via Facebook e Twitter: guardate che cosa sta andando in onda, accendete su Rai3, è un dovere civile. Bisogna per forza guardare la mamma di Federico Aldrovandi, la sorella di Stefano Cucchi, gli amici di Giuseppe Uva, la faccia di chi ha temuto di non poter mai arrivare alla verità sul proprio dolore.
SONO STATI LORO lo strumento più efficace per far prendere a tutti coscienza piena di un fenomeno su cui nessuno può tacere. Soprattutto quando i dettagli spiegano la banalità del trattamento riservato a esseri umani strapazzati come bambole. “A Federico gli sono saltati addosso, sulla schiena, gli hanno fermato il cuore, si sono rotti due manganelli su quattro” ha detto la mamma di Aldrovandi. “In Italia non esiste la pena di morte, non la possono fare loro. Io madre te l’ho dato sano, me l’hai dato morto” piange ancora Rita Cucchi.
Ma il valore più riconoscibile per i “Morti di Stato” è la sequenza meccanica delle storie meno famose, di chi è arrivato con la sua pena scandalosa fino ai giornali locali, ai dubbi di un cronista blandito dalle rassicurazioni ufficiali: nessun abuso, il problema è stato il soggetto violento, ubriaco, fanatico, malato di mente.
A VOLTE BASTA essere fratelli e mettersi a litigare un po’ più forte del normale per essere portati in Questura e rimediare una scarica di legnate (Tommaso e Niccolò De Michiel). Basta rispondere storto a un poliziotto durante un controllo per finire ammanettato e stramazzare al suolo senza che un solo testimone voglia spiegare come e perché (Michele Ferrulli). Oppure, vai allo stadio, finisci in un pestaggio alla stazione e resti disabile per tutta la vita (Paolo Scaroni).
“Dedichiamo Presadiretta a uomini delle Forze dell’ordine che ogni giorno cercano di essere all’altezza della divisa e della Costituzione” ha twittato Iacona a fine serata. “Una trasmissione vergognosa che infanga la professionalità: invitiamo tutti i colleghi a non pagare il canone” ha risposto il sindacato Consap. Nessuna reazione ufficiale è arrivata dal governo, dalle forze politiche, da carabinieri e polizia. Il silenzio, ancora.

FEDERICO ALDROVANDI
Viene ucciso a Ferrara la notte del 25 settembre 2005 a soli 18 anni. A colpirlo con calci e manganellate sono quattro poliziotti, condannati in via definitiva a tre anni e sei mesi di reclusione. Scontata la pena, sono tornati in servizio.
RICCARDO RASMAN
Viene ucciso a Trieste il 27 ottobre 2006. Ha 34 anni e gravi disturbi psichici. Tre poliziotti fanno irruzione in casa sua dopo la segnalazione di un vicino e lo incaprettano col filo di ferro. La Cassazione ha confermato la condanna a sei mesi.
GIUSEPPE UVA
Muore il 14 giugno 2008 a Varese dopo una notte in caserma dei Carabinieri. Inutile un primo processo. Il pm dell’inchiesta, Agostino Abate, è oggetto di un’azione disciplinare da parte del ministero ed è accusato dal Csm di ignoranza e negligenza.
STEFANO CUCCHI
Muore nel reparto detentivo dell’ospedale romano Pertini una settimana dopo il suo arresto per droga. È il 22 ottobre 2009. Il processo di primo grado ha visto l’assoluzione di tre agenti penitenziari e la condanna dei soli medici imputati.
GABRIELE SANDRI
Ucciso mentre con altri ultras laziali sta lasciando in auto l’autogrill di Badia al Pino l’11 novembre 2007. A sparare un colpo di pistola, dall’altra parte dell’A1, è il poliziotto Luigi Spaccarotella, condannato in Cassazione a 9 anni e 4 mesi di reclusione.
STEFANO BRUNETTI
Muore il giorno dopo essere stato arrestato per un tentato furto il 9 settembre 2008. Quattro poliziotti del commissariato di Anzio sono stati accusati di omicidio preterintenzionale, ma il Tribunale li ha assolti con formula piena.
MICHELE FERRULLI
Muore il 30 giugno 2011 a Milano durante un controllo di polizia. Viene ammanettato e crolla a terra. A giudizio ci sono 4 agenti ma, dopo i primi giorni, nessuno dei tanti testimoni sembra più disposto a testimoniare contro di loro.

il Fatto 8.1.14
Senza trasparenza. La polizia in trincea non dà risposte
Il Prefetto Marangoni: “Non copriamo i colpevoli” ma non se la sente di identificare chi sbaglia
Si studia fino a che punto è lecito usare i maganelli
di Silvia D’Onghia


Sarebbe potuto essere l’intervento definitivo, per chiudere con un passato spesso oscuro e per aprire finalmente le porte della “casa di cristallo”. E invece l’intervista al vice capo della Polizia, Alessandro Marangoni, realizzata e mandata in onda da Riccardo Iacona lunedì sera, di chiarificatore ha avuto ben poco. E non perché Marangoni non sia realmente convinto della necessità di proseguire nel percorso di trasparenza già avviato dal suo ex capo Antonio Manganelli – che tante volte ha insistito sui “muri di cristallo” –, quanto perché è sembrato voler svicolare proprio rispetto ai temi più scomodi posti da Iacona. Col rischio che il già dilagante sentimento anti-polizia diventi un fiume in piena.
L’OMERTÀ. Per tutta la puntata abbiamo assistito a testimonianze, stralci di processi, lettura di atti giudiziari nei quali la polizia ha solo tentato di coprirsi, a tutti i livelli, dai colleghi dei vari imputati fino ai vertici delle Questure chiamate in causa. Ma a Marangoni, evidentemente, questo non basta per parlare di “copertura”. “Lei ha indicato casi particolari – ha risposto il vice capo della Polizia al conduttore di Presa Diretta – e io non voglio prendere casi particolari, sui quali la magistratura è già intervenuta. La responsabilità penale è personale”. Certo, lo dice la Costituzione. Ma proprio per questo, nel caso di un poliziotto che sbaglia, l’istituzione ha il dovere di pretendere chiarezza, di fare essa stessa luce al suo interno e di adottare provvedimenti. Quando la magistratura apre una seconda inchiesta per depistaggio, vuole dire che l’istituzione ha fallito.
BUONE PRASSI. Alessandro Marangoni ha annunciato che, per volere del prefetto Pansa, capo della Polizia, è stata istituita una commissione che ha il compito di studiare le buone pratiche e dar vita a un regolamento operativo, in particolare sull’uso dei mezzi di coazione. Questo, ha sottolineato, a garanzia degli stessi poliziotti e dei cittadini. Ma cosa vuol dire, che bisogna capire fino a che punto si può usare il manganello? Anche. Un paio di mesi fa, dopo un giro di consultazioni sindacali, Pansa ha effettivamente messo in piedi presso il ministero dell’Interno una commissione composta dai funzionari delle direzioni centrali. Il loro compito è quello di analizzare le innumerevoli casistiche e le infinite denunce ed elaborare una bozza di protocolli operativi che dovranno poi diventare legge. Un iter molto lungo che dovrebbe servire a svecchiare le procedure di ammanettamento, traduzioni, interventi della Polstrada, uso dello spray al peperoncino – che si sperimenterà a breve a Milano – e, appunto, del manganello. Gli attuali riferimenti sono quelli del codice penale “Rocco” del 1930 e del codice di procedura penale, del 1989. Un po’ datati rispetto ai tempi e alla società attuali. Sarebbe sicuramente un passo in avanti anche rispetto alla scuola dell’ordine pubblico istituita da Manganelli a Nettuno, ma a due mesi dalla nascita della commissione è troppo presto per dire se funzionerà e in quale direzione.
PSICOLOGI. Iacona ha chiesto al vice capo della Polizia se gli agenti stressati possono ricorrere a un supporto psicologico e Marangoni ha risposto che, oltre a esserci il servizio interno, esistono anche le convenzioni esterne. Fonti del Dipartimento di Pubblica sicurezza fanno sapere che il numero degli psicologi della polizia presenti su tutto il territorio nazionale non supera le 50 unità. Numero che comprende quelli della “scuola tecnica”, ovvero il personale che contribuisce a selezionare i nuovi poliziotti. E che, se un agente si rivolge a un professionista, rischia di vedersi tolti in rapida successione pistola e tesserino. “È un supporto che va sicuramente potenziato e diffuso in tutte le articolazioni territoriali – precisa il segretario generale del Siap, Giuseppe Tiani –, perché il servizio va reso fruibile a tutti”. Un poliziotto delle Volanti, che guadagna 1.200 euro al mese, magari ha problemi a casa e deve pure affrontare notti di risse e ubriachi, prima di sfogarsi con questi ultimi è meglio che lo faccia con un professionista.
NUMERO IDENTIFICATIVO. Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, lo aveva già annunciato: nessun numero di riconoscimento sui caschi in ordine pubblico, pena l’incolumità dei poliziotti. E certo Marangoni non poteva dirsi a favore. In molti Paesi europei si usa, senza che questo comporti rischi per gli operatori della sicurezza, ma in un periodo di incertezza politica e sociale come quello che l’Italia sta attraversando nessuno vuole prendersi questa responsabilità. Anche perché già così sono in tanti, tra gli agenti, a chiedersi per quanto ancora valga la pena prendersi sputi e sampietrini in piazza. Le scene di Torino insegnano.
SANZIONI. Con fatica, incalzato dalle domande del giornalista, il prefetto Marangoni ha dovuto ammettere che c’è differenza tra l’omicidio colposo dovuto a un investimento stradale e l’omicidio colposo di Federico Aldrovandi. Il regolamento disciplinare, invece, non fa distinzioni e soprattutto non prevede la destituzione del poliziotto che si è macchiato di un simile crimine. Tanto che gli agenti condannati per la morte di Aldrovandi, scontata la pena, sono tornati in servizio. Da parte di Marangoni c’è stata una timida apertura, “possono essere valutate le differenze”. Speriamo che la volontà si trasformi presto in efficienza.
CASA DI CRISTALLO. “Vogliamo che la nostra sia una casa di cristallo”, affinché si possa recuperare il rapporto tra le forze dell’ordine e la società civile, di cui siamo parte integrante, ha concluso il vice capo. Si potrebbe cominciare dal recuperare il rapporto con la stampa, visto che la gestione post-Manganelli nega persino di comunicare le statistiche sui furti. Ne sappiamo qualcosa.

il Fatto 8.1.14
13 milioni di euro. Anche Palazzo Chigi ha i suoi affitti d’oro
Ecco quanto ha speso la Presidenza del Consiglio, Protezione civile compresa, per otto edifici
Nel 2013 un taglio c’è stato: spendeva oltre venti milioni con B.
di Carlo Tecce


Giulio Tremonti e pure Silvio Berlusconi: “Vendiamo gli immobili pubblici”. Mario Monti e la truppa di ministri con il loden: “Vendiamo gli immobili pubblici”. Enrico Letta e i collaboratori di larghe intese: “Vendiamo gli immobili pubblici”. Non va buttato il tempo per notare le differenze: non ci sono. Vendere per fare cassa, non fa difetto il buon proposito, però affittare perché?
Lo Stato ha un patrimonio immenso di caserme, capannoni, palazzoni, allora perché Palazzo Chigi, l’essenza statale e politica, spende 13,4 milioni di euro l’anno in “locazioni di vario genere”?
Ai calcoli, la giusta sentenza: le stagioni dei tecnici e lettiani, ultimo triennio, fanno risparmiare quasi 6 milioni di euro.
La crescita, esponenziale e incontrollata, l’aveva provocata il Cavaliere: 2011, a ogni sottosegretario veniva affidato un appartamento di lusso. Esempio: Daniela Santanchè, Attuazione del programma, occupava un panoramico ufficio in piazza di Montecitorio. Il governo di Berlusconi sforava con leggerezza i 20 milioni di euro.
Più di un terzo degli odierni 13,4 milioni di euro sono per la Protezione civile: via Vitorchiano di proprietà di Roberto Amodei e famiglia (editori del Corriere dello Sport), un cubo di cemento e vetrate, in zona a rischio allagamenti, costa 4,454 milioni di euro. I mezzi sono adagiati in via Affile; scrutato un groviglio di numerose società, s’arriva a banca Bnl: vale 1,219 milioni di euro.
Va segnalato che il professor Mario Monti, che pure aveva ridotto di parecchio la spesa in locazioni, ha stipulato un contratto da 1,6 milioni di euro con Unicredit per palazzo Ve-rospi, storico e centrale, via del Corso. Propri lì, fra affreschi e capitelli, il sottosegretario Giovanni Legnini (editoria) riceve, e le foto lo testimoniano, illustri ospiti e delegazioni.
In via dell’Umiltà, non lontano dall’ex sede dei berlusconiani, il governo ospita la stampa estera: 1,8 milioni di euro, considerati troppi dai dirigenti governativi. Il segretario generale di Chigi, sfruttando l’articolo di legge inserito con fatica nel Milleproroghe contro gli affitti d’oro, vuole disdire gli accordi pluriannuali per via della Vite e via dei Laterani: una limatura da 870.000 euro. E grazie a quel comma che il Movimento Cinque Stelle ha proposto e il Partito democratico ha compreso con ritardo, Palazzo Chigi vorrebbe ridiscutere le tariffe per (almeno) tre palazzi. Anche i 310.000 euro per il parcheggio di Pozzo Pantaleo potrebbe traslocare altrove (e gratis) scegliendo una nuova e vicina destinazione fra le infinite proprietà dello Stato: Palazzo Chigi vuole comprare dal demanio militare. Disperso fra la lista d’acquisti per caffè, acqua minerale effervescente o naturale e tende con ricami, mister spending review Cottarelli ancora non ha toccato la pratica immobili di Chigi (o dei ministeri).
Dai 20 milioni di Berlusconi ai 13,4 milioni di Letta, che l’anno prossimo saranno 12: lo spreco diminuisce, però resta. Così non sarà credibile per un presidente del Consiglio, affiancato con seriosità dal ministro di turno, far notare che “il patrimonio pubblico è troppo, inutilizzato e va dismesso”. Non s’è mai visto un ricco immobiliarista che prende qua e là palazzi in affitto.

il Fatto 8.1.14
Philippe Ridet Corrispondente “Le Monde”
“Napolitano assomiglia sempre più a un Faraone. O a un Re”
di Beatrice Borromeo


Che la figura del capo dello Stato fosse un po’ strana, qui in Italia, l’ho capito quando il Colle se l’è presa pure con me, chiamando l’ambasciata francese per lamentarsi di un mio articolo”. Ma Philippe Ridet, da sei anni corrispondente di Le Monde, il principale quotidiano francese, non si è affatto scomposto: “Mi veniva da sorridere, nulla più. Tanto né l’ambasciata né il mio giornale hanno fatto una piega, ovviamente”.
Cos’aveva scritto, Philippe, di così ingiurioso?
Era il periodo in cui il presidente della Repubblica domandava la tregua tra i politici e la magistratura. Solo che “i politici” avevano un nome solo: quello di Berlusconi. Quindi ho suggerito a Napolitano di abbandonare i toni generici e parlare chiaro. Era una critica politica, non certo personale. Anche perché non ho niente contro di lui. Semplicemente, quando uno sbaglia, mi pare normale dirlo.
Si è stupito quando l’hanno informata delle proteste?
No. È il vecchio gioco del gatto e del topo, che conosco bene. È il potere che cerca di far tacere la stampa, anche se di solito non ci riesce. Non ero affatto offeso, ho solo pensato che se il Quirinale si scomoda pure per il povero corrispondente francese chissà come si agita per tutti gli altri attacchi. Mi pare si facciano prendere troppo facilmente dall’isteria.
Gli attacchi però non sono così frequenti, nei principali quotidiani italiani.
Questo perché Napolitano ha sempre più l’aura del Re. Da quando è stato rieletto sembra che non si possa più giudicarlo, che vada lodato dalla mattina alla sera. Ed è un po’ anomalo, soprattutto perché questo presidente non è mica la regina d’Inghilterra.
Meno titolato?
Meno di facciata! Napolitano fa politica attivamente, senza sosta. Cosa che non giudico: mi pare accettabile, in tempo di crisi. Ed è altrettanto normale che, di conseguenza, possa essere criticato sul piano politico. È il gioco della democrazia. In Francia nessuno, tranne Sarkozy, ha mai pensato di portare in tribunale un cittadino. Anche perché il presidente della Repubblica è anche il capo della magistratura: sarebbe un bel conflitto d’interessi.
Ma in Italia e in Francia i ruoli dei presidenti, si sa, sono diversi.
Certo, infatti il paragone è complesso. Ma è anche vero che Napolitano è entrato nel buco della politica italiana a febbraio, quando ha accettato il secondo mandato. E dato che pesa sulle scelte del governo, trovo normalissimo che il suo operato possa essere giudicato. La cosa anormale, semmai, è che questo presidente somigli sempre più a un Faraone.
Pirani, in un editoriale su “Repubblica”, ha citato questa frase: “Molta tristezza l’ottavo monito del Presidente Monarca”. Dice che andrebbe perseguita penalmente.
Può sempre provarci, se non ha paura del ridicolo. Comunque non so chi sia questo Pirani – che chiedendo al ministro della Giustizia di muoversi, probabilmente, scambia un suo desiderio per la realtà – ma so che se mai ci fosse un processo perché un giornalista paragona un presidente a un monarca, riderebbero tutti. E il ridicolo uccide, come insegna Berlusconi.

il Fatto 8.1.14
Fusioni fredde
Chrysler, Moody’s boccia Marchionne
L’agenzia minaccia il declassamento
Intanto Rcs comincia a inglobare La Stampa
di Carlo Di Foggia


L’operazione Chrysler non convince l’agenzia di rating Moody’s che ieri ha messo sotto revisione il titolo Fiat per un suo possibile declassamento (downgrading). Il rating oggi è Ba3, già definito “spazzatura” dagli operatori ma l’assenza di mezzi freschi e la mole dell’indebitamento complessivo della Fiat preoccupa gli analisti finanziari. “Stiamo mettendo sotto osservazione il rating di Fiat - dice Moody’s - per un downgrade perché l’acquisizione annunciata può indebolire in modo sostanziale la posizione di liquidità di Fiat in un momento in cui la società ha ancora un free cash flow negativo”. Inoltre, non convince il fatto che Marchionne non abbia ancora diradato i dubbi sulla “entità giuridica” che dovrà nascere dalla acquisizione e perciò l’agenzia intende mantenere rating separati per Chrysler e Fiat. Moody’s esprime dubbi, infine, anche sulla redditività delle attività di Fiat Brasile che, pure, hanno contribuito significativamente agli utili del Lingotto. Sotto revisione per un downgrade è stato posto anche il debito emesso da Fiat Finance and Trade Ltd SA e Fiat Finance North America Inc., nonché la valutazione B1 di Fiat Finance Canada Ltd. Un giudizio, quello dell’agenzia Usa, che dunque spezza il coro di consenso attorno a Sergio Marchionne e lo indebolisce soprattutto oltre Atlantico. Al di qua dell’oceano, invece, l’attenzione per Fiat è rivolta alle ipotesi di collaborazione, forse di fusione, tra il Corriere della Sera e La Stampa. A partire dal primo febbraio, infatti, Rcs gestirà la raccolta pubblicitaria del quotidiano torinese, controllato dal gruppo Fiat con il 20,5%, finora affidata a Publikompass. Per molti è il passo decisivo in direzione del matrimonio. Tra le concessionarie, però, più che una fusione, quello che si va delineando sembra piuttosto un processo di cannibalizzazione.
Publikompass aveva già dismesso la raccolta locale per editori terzi, diventando di fatto la concessionaria della sola Stampa. Da ieri invece, tutta la raccolta nazionale è passata nelle mani di Rcs e a Publikompass rimane solo quella locale.
L’ACCORDO DI IERI è una buona notizia per le casse in rosso di Rizzoli, visto che nei primi nove mesi del 2013 i ricavi pubblicitari sono scesi di 23 milioni di euro rispetto al 2012. La vera partita, però, si gioca a monte, sotto la regia di John Elkann. Il piano di aggregazione è da mesi sul tavolo. Una convergenza che passa anche attraverso il management, come il nuovo direttore centrale Rcs, Raffaella Papa, una lunga esperienza in Exor, la cassaforte di casa Agnelli, e fino a pochi mesi fa responsabile risorse umane de La Stampa. Il passo decisivo potrebbe avvenire in occasione del nuovo aumento di capitale da 200 milioni previsto per Rcs. Con alcuni soci in uscita (Mediobanca) o non intenzionati a scucire altri soldi (Intesa), l’unico potenziale oppositore rimane Diego Della Valle che, col suo 10 per cento, si è sempre dichiarato contrario a un nuovo patto tra i grandi azionisti dopo la fine di quello vecchio.

l’Unità 8.1.14
Il Corriere e la Stampa sono sempre più vicini
di Marco Ventimiglia


l’Unità 8.1.14
Nel cognome della madre
di Sara Ventroni


Repubblica 8.1.14
Parità dei cognomi, Italia sotto accusa
di Michela Marzano


Ce lo ha ricordato ieri la Corte Europea dei diritti umani: negando la possibilità a una coppia di dare alla figlia il cognome materno, l’Italia non rispetterebbe il principio di uguaglianza e discriminerebbe le donne; i genitori dovrebbero sempre avere la libertà di dare ai figli il cognome che vogliono: quello paterno, quello materno, oppure anche entrambi.
In Parlamento, sono anni che si accumulano proposte di leggi che vanno in questa direzione. Quando si parla della famiglia, però, va a finire sempre nello stesso modo: prima grandi dibattiti e grandi speranze; poi grandi polemiche; infine tutto si blocca. Le proposte di legge non vengono calendarizzate, oppure si arenano in qualche commissione, sepolte da mille altri progetti considerati più urgenti. Come nel caso del divorzio breve, delle unioni civili, dell’inseminazione eterologa, ecc. Ossia ogniqualvolta si parli di sessualità o di procreazione. Come se dietro l’idea di promuovere l’uguaglianza e le pari opportunità dei cittadini — indipendentemente dal sesso, dal genere e dall’orientamento sessuale — ci fosse per forza la volontà di rimettere in discussione l’ordine, il valore della famiglia, o anche il “nome del padre”, per utilizzare la celebre formula di Jacques Lacan. Mentre inrealtà si tratterebbe solo di scrivere leggi adeguate alle trasformazioni e all’evoluzione della società. Senza più trincerarsi dietro concezioni arcaiche dei rapporti di coppia. Senza più promuovere una visione patriarcale delle famiglie. Perché d’altronde dovrebbe essere sempre e solo il padre a trasmettere il nome della propria famiglia e una madre dovrebbe accontentarsi di aggiungere il proprio cognome accanto a quello paterno?
All’epoca in cui tutti sembrano celebrare il trionfo dell’uguaglianza, l’unica plausibile risposta a questo tipo di domande è l’abitudine. È per abitudine che ancora tante donne considerano normale che i figli portino il cognome del padre. È per abitudine che tanti uomini continuano a pensare che, trasmettendo il nome, trasmettono poi ai figli anche la propria storia e i propri valori. È per abitudine che ci si adatta e si va avanti, quella stessa abitudine che per Étienne de La Boétie spiegava perché gli esseri umani, per natura liberi e uguali, accettassero poi forme di servitù volontaria. Ecco perché abbiamo bisogno di leggi capaci, grazie anche al proprio valore simbolico, di scardinare queste abitudini, dando strumenti adeguati a tutti per poi costruire delle società in cui l’uguaglianza e le pari opportunità non siano semplici “significanti” privi di “significato”.

il Fatto 8.1.14
Caos rifiuti a Roma
Risarcimenti e Parentopoli, Ama nei guai
L’azienda rischia di dover pagare 75 milioni. Otto assunzioni sospette
di Carlo Di Foggia


Un contenzioso che potrebbe portare ad un salasso milionario e diverse assunzioni sospette, che delineano una nuova parentopoli. Oltre allo scontro a distanza tra i vertici e il sindaco di Roma, Ignazio Marino, l’intracata vicenda dell’Ama - la municipalizzata che si occupa dei rifiuti - da ieri si complica ulteriormente. Come rivelato dal Corriere della Sera, infatti, nei giorni in cui Roma affrontava il caos rifiuti, con tanto di foto di maiali grufolanti tra i cassonetti, in Ama assumevano otto persone vicine all’ex amministratore delegato Franco Panzironi, tuttora sotto processo per le 841 assunzioni sospette del biennio 2008-2009. Contrarri arrivati in un clima da ultimi giorni di Pompei. Il cda convocato per domani deve nominare i nuovi vertici (il nome più gettonato è Alessandro Filippi, ingegnere della municipalizzata Acea), dopo lo scontro a distanza tra Marino e l’ad Piergiorgio Benvenuti, nominato dal precedente sindaco Gianni Alemanno. Tra i destinatari dei contratti last minute del 30 dicembre scorso si conta anche il cognato di Panzironi, Giovanni Marzi, insieme ad altri sette impiegati e funzionari della Marco Polo, una joint venture tra Ama, Acea e Ente Eur, chiusa nel 2011. Gli otto (tre sono stati segnalati dal sindacato Ugl), che per effetto della liquidazione della società hanno continuato a percepire lo stipendio anche senza mansioni precise,erano stati assunti alla Marco Polo per chiamata diretta, la stessa procedura che nel processo sulla parentopoli Ama ha avuto un ruolo determinante nella decisione di rinviare a giudizio l'intero vecchio vertice. Tutto questo mentre i 250 selezinati nel 2011 dalla “Manpower” per la raccolta differenziata, attendono ancora una chiamata, un'interrogazione presentata in Campidoglio dal M5S. Ed è proprio da un’altra interrogazione, indirizzata dai Radicali all’assessore all'Ambiente Estella Marino, che arrivano altre pessime notizie per l’azienda. I problemi riguardano la discarica Malagrotta. Esistono due arbitrati per ottenere risarcimento rispetto alle irregolarità contrattuali su servizi extra e costi ulteriori sostenuti dalla Co.La.Ri, il consorzio del ras laziale dei rifiuti Manlio Cerroni, che rischiano di provocare un nuovo buco nei conti dell’azienda. In primo grado Ama Spa è stata condannata a pagare oltre 75 milioni di euro. L'azienda ha fatto ricorso in appello. Sui tempi lunghi per cambiare la dirigenza, Marino ha spiegato di aver atteso che “i vertici arrivassero alle dimissioni per evitare anche la beffa di dover pagare buonuscite milionarie”.

La Stampa 8.1.14
La rivista «Nature» boccia Stamina:
“Preoccupano sicurezza ed efficacia”
“Nel protocollo errori e omissioni”. E spuntano sezioni copiate da Wikipedia

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La Stampa 8.1.14
La Scienza fa sentire la sua voce
La rivolta della comunità scientifica
di Eugenia Tognotti

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La Stampa 8.1.14
Nella cassaforte dei Camilliani
le prove di interferenze sul caso P3
Roma, tra dossier e intercettazioni illegali spunta il nome di Sabina Began
di Guido Ruotolo

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il Fatto 8.1.14
Oltretevere
“Così tante volte mi hanno molestato in Vaticano”
Una ex guardia svizzera rivela gli abusi subiti anni a a un quotidiano di Basilea
di Andrea Valdambrini


Uno spettro si aggira in Vaticano, quello dell’esistenza di una ‘lobby gay’. Per quanto smentita da Papa Francesco (“non ho mai visto nessuno registrato come gay sulla sua carta di identità”), che però ha precisato che ogni lobby è pericolosa per la Chiesa, l’ipotesi della presenza di una importante componente omosessuale all’interno della Curia romana viene rilanciata dalla stampa internazionale, dopo una nuova denuncia partita due giorni fa dalle pagine di un giornale elvetico. Questa volta si tratta della testimonianza di una ex guardia svizzera, in servizio durante il pontificato di Giovanni Paolo II. Il militare, che è voluto rimanere anonimo, ha raccontato al quotidiano di Basilea Schweitz am Sonntag di essere stato oggetto di attenzioni sessuali esplicite e inequivocabili da parte di numerosi prelati entro le mura vaticane. L’intervistato assicura che le ripetute proposte, che talvolta sono sconfinate in molestie quantomeno per la loro insistenza, non sono un caso isolato: solo a lui sono capitate tra le 20 e le 25 volte nel corso dei suoi anni di servizio a Roma.
“UNA VOLTA un po’ dopo la mezzanotte”, racconta nel corso della lunga intervista, “mi arrivò una chiamata sul cellulare. La persona all’altro capo del telefono mi disse di essere un cardinale e mi chiese di andare nella sua stanza privata”. Questo e altri fatti furono più volte denunciati ai superiori, sostiene l’anonimo accusatore, che però non gli diedero grande importanza. Nessun commento ufficiale da parte della Santa Sede. L’unico a parlare è Urs Moser, portavoce del corpo di guardia che protegge il Papa. Al giornale svizzero, Moser ha dichiarato: “Le voci di una rete gay all’interno del Vaticano non sono un problema che ci riguarda. I nostri uomini concentrano le loro energie esclusivamente su temi di ordine religioso e militare”. Anche se sulla testimonianza dell’ex guardia svizzera i dubbi sono legittimi, non si tratta certo della prima volta che emergono denunce e sospetti simili. Però è anche chiaro il motivo per cui la stampa internazionale ha ripreso la notizia con un certo rilievo, additando l’ipocrisia del Vaticano. Nonostante la recente apertura di papa Francesco (“chi sono io per giudicare se qualcuno è gay?”), la Santa Sede rimane ufficialmente ferma sulla sua condanna dei comportamenti omosessuali.

Corriere 8.1.14
Concorsi universitari
Bocciati i migliori Scadente. Quindi promosso. Preparato. Quindi bocciato


I misteri dei concorsi universitari, a volte, riescono a essere impenetrabili. Il terzo segreto di Fatima confidato dalla Madonna ai tre pastorelli Giacinta, Francisco e Lucia rimase gelosamente custodito dal 1917 fino al 2000, quando Giovanni Paolo II decise di renderlo noto. La formula «magica» della Coca-Cola restò top secret ancora più a lungo, dalla nascita della bibita creata ad Atlanta nel 1886 da un farmacista con il nome di «Pemberton’s French Wine Coca» fino alla pubblicazione nel 1993 del libro di Mark Pendegrast «For God, Country and Coca-Cola», «Dio, patria e Coca-Cola».
Le valutazioni dei concorsi no: misteri inaccessibili. Prendiamo i verbali dei giudizi espressi da alcuni membri della commissione 10/D3 (Lingua e letteratura latina) della Abilitazione Scientifica Nazionale, la nuova modalità di reclutamento dei docenti introdotta dalla Gelmini per uscire dalla vecchia logica dei concorsi di una volta che avevano visto andare in cattedra anche dei somari, purché portassero il cognome giusto.
Il candidato Tizio, contrassegnato dal numero 57, porta 111 pubblicazioni (perfino troppe, forse) compresi 2 libri, 28 articoli e capitoli di libri «normalizzati» e 14 articoli su riviste di fascia A, cioè le più prestigiose? Bocciato. Ecco il giudizio d’un commissario: «Ricercatore laborioso, ma non ancora pervenuto alla maturità critica e scientifica necessaria per ottenere l’abilitazione. Il candidato ha collaborato ad un progetto Firb e, dal 2005 al 2008, con l’Enciclopedia sul lessico della classicità nella letteratura europea moderna della Treccani. Ha collaborato inoltre con Iulm (Milano) e S.i.s.m.e.l. (Firenze). La sottoscritta ritiene, per i soprascritti elementi e per la qualità scientifica delle pubblicazioni presentate che il candidato non sia in possesso della maturità scientifica necessaria per conseguire l’abilitazione a professore di seconda fascia». Il candidato Caio non presenta alcun libro, 11 articoli vari e solo 2 su riviste della fascia A. Lo stesso commissario commenta: «Anche se non si segnalano novità di grande rilievo e manca un recente lavoro di ampio respiro che permetta di valutare a pieno un allargamento di orizzonti critici, segno di acquisita maturità scientifica...», e qui ti aspetteresti una sonora bocciatura, «la sottoscritta ritiene dunque, per i soprascritti motivi, che il candidato sia in possesso della maturità scientifica necessaria per conseguire l’abilitazione a professore di seconda fascia». Un sillogismo perfetto.
Andiamo avanti? Lasciamo perdere. Dice tutto un articolo di sdegno pubblicato on line da Loriano Zurli, ordinario di Filologia latina Università di Perugia, che invita a «comparare la produzione scientifica di almeno tre quinti dei commissari con quelle di certi candidati davvero eccellenti, bocciati benché sicuramente meritevoli di conseguire l’abilitazione nazionale». Risultato: «I migliori, e comunque tra i migliori, sono stati sistematicamente bocciati». Ovvio, chiude il docente con una scudisciata polemica, se «i commissari sono peggiori dei candidati»...

Repubblica 8.1.14
L’europorcellum da cambiare
di Barbara Spinelli


ANCORA non sappiamo come reagiranno i cittadini europei e italiani, il 22-25 maggio quando si voterà per il nuovo Parlamento dell’Unione — se diserteranno le urne, se si interesseranno ai propri rappresentanti in Europa — ma sin da ora sappiamo una cosa: per la prima volta, nella crisi che ci assilla, parlano e decidono i popoli, e non più solo le troike, la Banca centrale, ancor peggio il Fondo monetario.
Sarà la prima occasione, per loro, di respingere oppure approvare quel che è stato fatto sinora, di mandare in Parlamento deputati in cui credere. A governare la crisi ci sono anche i cittadini.
Dicono i disillusi che non conta nulla, il Parlamento di Strasburgo. Che non vale la pena mettere la scheda nell’urna, visto che ogni nodo è sgrovigliato altrove: da mercati senza obblighi, dai banchieri centrali, da un rapporto di forza tra Stati che reintroduce nel continente il vecchio equilibrio di potenze, con le sue disparità e i suoi conflitti. Vale la pena invece, perché altri strumenti democratici non esistono nell’Unione, e perché i poteri dei suoi deputati sono tutt’altro che irrilevanti.
Delle leggi attuate negli Stati, l’80 per cento è co-deciso dal parlamento che abbiamo in comune. È sempre lui a censurare o appoggiare la Commissione, la sua capacità o incapacità di governare in nome di tutti. È del tutto illogica la condizione in cui ci troviamo: proprio oggi che il parlamento ha più ascendente, le politiche europee si fanno contro i popoli o scavalcandoli. È quel che accade di solito nelle guerre. Votare è l’occasione per dire che la crisi non va omologata a una guerra o a una peste.
Tanto più essenziale è sapere come voteremo: con quale legge elettorale, dunque con quali speranze di essere ascoltati e di contare, senza discriminazioni. La questione della rappresentatività democratica fu cruciale nell’Europa liberata dal nazifascismo, dopo due guerre mondiali. Lo ridivenne dopo l’89, quando a Est caddero le dittature comuniste. La crisi vissuta come stato di eccezione e di guerra crea uno scenario analogo. Uscirne con i pareggi di bilancio è come rendere più funzionali gli eserciti, quando si tratta di ritrasformare i soldati in cittadini.
Ogni ripristino della democrazia esige l’elezione di parlamenti costituenti, che riscrivano le Carte e limitino poteri divenuti esorbitanti. Ogni democrazia rifondata prescrive istituzioni che rappresentino tutti, quindi leggi elettorali sostanzialmente proporzionali. L’Italia decise questo, dopo il fascismo. Il proporzionale fu giudicato il più democratico, il più adatto a eleggere nel ’46 l’Assemblea costituente: nella ricostruzione, dovevano pesare tutte le forze estromesse dal Ventennio.
Non così in Europa e soprattutto non in Italia (i 28 paesi hanno leggi elettorali diverse: un’assurdità). Il pericolo, da noi specialmente acuto, è che nel parlamento comunitario siedano solo i partiti più agguerriti. Una soglia di sbarramento asfissiante, del 4%, rischia di vanificare il grande esercizio di democrazia che saranno le elezioni di maggio: escludendo partiti piccoli o movimenti nati durante la crisi, smobilitando moltissimi elettori. La barriera che smista e seleziona è un marchingegno inventato per favorire potentati o cricche di eminenti. Per estendere a Strasburgo leUnioni Sacreche nei singoli Stati gestiscono lo squasso. È proprio quel che vogliono gli oligarchi nazionali, e se si eccettua qualche voce di GreenItalia,pochi protestano. La parola d’ordine è: tagliare le ali a rappresentanze alternative, continuare a ignorarle. Fingere democrazia, e intanto deturparla.
La propensione oligarchica ha una storia lunga in Italia. Nel ventennio berlusconiano si è accentuata, ed è la stoffa delle grandi o piccole intese. Non a caso la barriera del 4% è frutto di un surrettizio accordo al vertice, stipulato nel 2009 tra Veltroni, allora leader del Pd, e Berlusconi. Il governo Prodi era stato appena affossato e la decisione fu presa quasi di nascosto, senza consultazione alcuna con altri partiti. Nacque quel che fu chiamato europorcellum: una legge truffa simile a quella tentata nel 1953. Lo scopo: armare i forti, disarmare i piccoli (Vendola, Rifondazione, radicali, Verdi, Storace). La giustificazione: garantire l’efficienza e la governabilità a scapito della democrazia. Fassino disse, all’epoca: va evitato lo sbarco di «un’armata Brancaleone a Strasburgo». La menzogna della
stabilità— il quotidiano Wall street journal l’ha definita il 24 novembre «stabilità dei cimiteri» — cominciava a espandersi geograficamente.
La campagna elettorale europea era alle porte, e in poche settimane il vecchio proporzionale fu abolito. La trattativa iniziò nel gennaio2009, e la nuova legge con la soglia fu varata il 20 febbraio dal parlamento italiano, tre mesi circa prima del voto. Questo significa che deliberazioni di tale portata possono esser prese ancora una volta, se solo si vuole. C’è tempo di abolire anche in Europa il porcellum, come imposto dalla Consulta per le elezioni italiane.
La cosa più sorprendente è che la battaglia contro le leggi truffa, nell’Unione, è giudicata vitale non dai paesi piccoli ma da quello più forte: la Germania. È uno dei paradossi dei tempi presenti: lo Stato che con maggiore prepotenza esige austerità è simultaneamente il più allarmato dal deficit democratico europeo, il più sensibile alle regole dello stato di diritto. In favore di una legge proporzionale, e di un Parlamento sovranazionale più rappresentativo, è addirittura scesa in campo la Corte costituzionale, con una sentenza emessa il 9 novembre 2011 che giudica incostituzionale la soglia tedesca di sbarramento (in Germania era più alta che da noi: il 5%). Due princìpi della Legge Fondamentale erano violati, secondo i giudici di Karlsruhe: l’uguaglianza fra cittadini-elettori, e l’opportunità data a tutti i partiti di concorrere alla democrazia delle istituzioni europee. Il parlamento nazionale ne ha preso atto, e pur non abolendo la barriera l’ha portata al 3%. Molte associazioni cittadine ritengono che non basti, e hanno fatto ricorso. La Corte si pronuncerà in quest’inizio 2014.
L’argomento dei giudici tedeschi è impeccabile, e in Italia andrebbe meditato al più presto. Nell’Unione «non c’è ancora un governo vero e proprio», che esiga maggioranze parlamentari stabili, continuative. Non può aprirsi un divario, fra rappresentatività e governabilità. Senza la soglia del 5, sostengono i giudici tedeschi, i partiti europei aumenterebbero di poco, e il funzionamento del Parlamento non verrebbe debilitato da armate Brancaleone.
Purtroppo solo la Corte di Karlsruhe si occupa della vera attualità europea: lo stravolgimento delle democrazie costituzionali ad opera della crisi economica e sociale. Lo fa spesso per difendere interessi solo nazionali: per frenare solidarietà europee troppo costose per i connazionali. Ma il dramma della democrazia amputata è pensato con costanza, e a fondo. In Italia è ignorato dai partiti dominanti. La divaricazione fra democrazia ed efficienza è voluta e comunque data per scontata.
Con la soglia di sbarramento, il parlamento di Strasburgo si aprirà solo a una parte di italiani: a chi vota centrosinistra, destra, 5 Stelle, e alcuni altri. Significativamente sono esclusi coloro che vorrebbero cambiare l’Europa, e non condividono né le grandi coalizioni sinistra- destra né le disordinate risposte di 5 Stelle ai mali dell’Unione.
Cambiare l’europorcellum è non solo necessario, ma possibile. Si dirà che è troppo tardi. Abbiamo visto che è una fandonia: l’accordo Veltroni-Berlusconi divenne legge in un mese. Se Renzi e Grillo fanno sul serio quando reclamano più democrazia in Europa, hanno tutto il tempo per darci una legge all’altezza della strana disfatta, dal sapore bellico, in cui la crisi ci ha gettati.

La Stampa 8.1.14
Germania, ora di Islam alle elementari
“Favorirà l’integrazione dei più piccoli”
L’esperimento sarà avviato per la prima volta in Assia: «I corsi aiuteranno la minoranza islamica a inserirsi e contrasteranno la crescente influenza del pensiero islamico radicale nel Paese»

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Repubblica 8.1.14
La svolta di Hollande che spiazza la destra
di Bernardo Valli


L’IMPACCIATO, riservato François Hollande ha compiuto a fine d’anno una svolta rilevante. Diremo poi, con i risultati davanti, se è stata grande, o se è stato un semplice annuncio. L’impatto c’è comunque stato. Ed è stato forte. Lo dimostra il sorpreso silenzio della destra, presa di contropiede dal presidente socialista. I capi dell’opposizione di solito aggressivi hanno avuto l’impressione che Hollande usasse le loro stesse parole, esprimesse gli stessi propositi. Insomma che avesse adottato il loro discorso. Stupiti, senz’altro un po’ smarriti, non l’hanno criticato. Hanno preso tempo.
Hollande è sempre stato un moderato, un allievo del socialista cattolico Jacques Delors, ma al tempo stesso il militante e il dirigente di un partito che, malgrado la disinvolta pratica di governo, ha sempre aborrito ufficialmente il termine socialdemocratico. L’ultimo intervento di François Hollande è stato definito social-liberale. E così era. Con quel discorso ha lanciato «un patto di responsabilità» con le imprese, nel quale propone una riduzione degli oneri, una semplificazione amministrativa (nel mercato del lavoro), meno spese pubbliche, meno tasse in cambio di assunzioni e di un più intenso dialogo sociale. Va ricordato che neppure Nicolas Sarkozy, il predecessore di Hollande, aveva osato ridurre le spese pubbliche e ridimensionare l’ampio sistema assistenziale.
Hollande si discostava finora dai leader della sinistra che hanno governato in Europa. Mi riferisco a Tony Blair e a Gerhard Schroeder, entrambi presi di mira dai socialisti francesi perché troppo socialdemocratici, o troppo social-liberali. Erede come primo ministro di una Gran Bretagna ristrutturata dai governi di destra, in particolare da quello di Margaret Thatcher, Tony Blair adeguò il partito alla nuova realtà nazionale creata dai conservatori trasformando il vecchio Labour in un New Labour. E con l’Agenda 2010 Gerhard Schroeder liberalizzò tra l’altro il mercato del lavoro favorendo una ripresa tedesca, secondo canoni di notevole successo ma non propriamente di sinistra. Blair, Schroeder (e Renzi?) furono contestati ma popolari. Non è il caso di Hollande.
La democrazia d’opinione, con i suoi bollettini quasi quotidiani sugli umori del paese, rende stressante l’impopolarità. François Hollande ne sa qualcosa. Con lui i sondaggi sono particolarmente crudeli, senz’altro i meno generosi da quando ritmano la vita politica della Quinta Repubblica. Non c’è giorno in cui non venga ricordato, da tv radio e giornali, che è il presidente meno amato da mezzo secolo in qua. La colpa è in larga parte della crisi che l’ha accolto appena uscito dalle urne. Ma la mancanza di carisma di Hollande accentua la sensazione di incertezza in una società in cui lo Stato, e quindi chi ne è alla testa designato dal suffragio universale diretto, è una bussola che indica costantemente la direzione. La vaghezza crea smarrimento. E in fatto di comunicazione il settimo presidente della Quinta Repubblica lascia a desiderare. Appare indeciso, esitante, anche se al personaggio viene attribuito, ed è evidente, un forte carattere, dietro l’aspetto un po’ troppo normale.
La riduzione del mandato presidenziale da sette a cinque anni ha eliminato l’elezione di mezzo termine alla francese, poiché le legislative quinquennali avevano quella funzione, e adesso avvengono subito dopo la designazione del capo dello Stato. Di fatto coincidono e finiscono con l’essere una conferma. A François Hollande mancano ancora poco più di tre anni, poiché sarà nella primavera del 2017 che dovrà tentare una rielezione. Ha insomma abbastanza tempo, e senza grandi appuntamenti, per risalire la china dei consensi (che per ora oscillano soltanto attorno al venti per cento in suo favore). Ma ha tempo e tranquillità soltanto in teoria, perché nei prossimi dodici mesi c’è in programma una raffica di consultazioni secondarie, ma non per un leader vulnerabile come lui. In marzo ci sono le comunali; in maggio le europee; in settembre il Senato (col voto indiretto, degli amministratori locali); e subito nel 2015 le dipartimentali e le regionali. La sinistra rischia di perdere comuni, dipartimenti e regioni che adesso controlla in larga parte. Ha la maggioranza al Senato per la prima volta ma la conquista recente appare già effimera visto il clima politico nel paese. Insomma François Hollande può arrivare alla fine del mandato con alle spalle sconfitte ancora calde, che certo non lo favoriranno.
Per frenare il declino, o evitare il naufragio, della seconda presidenza socialista cominciata nel 2012 (la prima fu quella di François Mitterrand lunga due settenni, 1981-1995) François Hollande ha compiuto la svolta politica che ha lasciato di stucco la destra, abitualmente aggressiva. In un libro dedicato a Manuel Valls, due giornalisti diLe Monde, David Revault d’Allonnes e Laurent Borredon, illustrano una situazione da cui emerge un secondo motivo all’iniziativa del presidente: la concorrenza del suo popolarissimo ministro degli Interni, che è appunto Manuel Valls.
Quest’ultimo ha molte caratteristiche che riconducono, in versione francese, a Tony Blair, a Gerhard Schroeder (e perché no al debuttante Renzi). Lui, Valls, non ha certo paura di essere considerato un socialdemocratico. La sua visione della sinistra è appunto social-liberale. Il problema che gli sta a cuore è la sicurezza ed è quello che lo rende popolare a un gran numero di connazionali angosciati dalla forte immigrazione. Non c’è un’aperta tenzone tra Hollande e Valls. Il ministro degli Interni è devoto al Presidente, per il quale ha curato la comunicazione durante la campagna elettorale e dal quale è stato portato al governo; e Hollande non può che apprezzare il dinamismo del suo ministro. Ma si tratta di «associati rivali». È inevitabile che il presidente impopolare guardi con fastidio, sia pur rispettoso, il subordinato popolare; e che il ministro carico di consensi pensi di sostituire un giorno il presidente povero di consensi.
Adottando quello che i giornali parigini definiscono « socialismo dell’offerta » , François Hollandeha pensato soprattutto a rilanciare l’occupazione. Il suo discorso non aveva certamente come scopo principale quello di destabilizzare la destra. Se tradotta in pratica con successo, l’iniziativa social-liberale può dargli tuttavia popolarità, e quindi rafforzare la sua autorità e disperdere i potenziali rivali.

Repubblica 8.1.14
“Francia in declino”, esplode la rivolta
Newsweek attacca ma l’articolo èp ieno di errori
Moscovici: “Come siete caduti in basso”
di Anais Ginori


PARIGI — La penna è affilata ma a doppio taglio. Con il suo lungo articolo sul declino della Francia, la giornalista diNewsweek Janine di Giovanni ha provocato un mezzo caso diplomatico finito dentro alla conferenza stampa congiunta tra il ministro dell’Economia francese, Pierre Moscovici, e il segretario al Tesoro americano, Jack Lew. «Sono aperto alle critiche, ma in questo caso stiamo parlando di un articolo infarcito di errori » ha tuonato ieri Moscovici, definito dalla cronista statunitense come uno degli uomini politici «più odiati» di Francia, perché promotore della nuova stangata fiscale sui ricchi.
Nelle complesse e tormentate relazioni transaltantiche si ricorda di molto peggio. L’articolo, apparso sull’edizione online il 3 gennaio, denuncia il preoccupante stato dell’economia francese, appesantita dal debito pubblico e da uno Stato sociale in bancarotta. Niente di così nuovo, neanche per i francesi affetti da “declinismo” molto prima che se ne accorgesse Newsweek. Ma la giornalista, che pure dice di amare il paese dove vive da dieci anni, si è fatta prendere un po’ la mano e ha collezionato una serie di castronerie: le mamme francesi avrebbero a disposizione “pannolini gratis” ma poi dovrebbero sborsare 4 dollari(quasi 3 euro) per comprare mezzo litro di latte. Per rappresentare la scarsa mentalità capitalista dei transalpini, Di Giovanni sostiene che la parola “entrepreneur”, imprenditore, non esiste in francese. All’inizio dell’articolo si spinge in un parallelo un po’ azzardato. Da quando il presidente socialista François Hollande si è insediato all’Eliseo, facendo approvare la tassa al 75% sui redditi più elevati, ci sarebbe stata una fuga di milionari paragonabile a quello che è successo con le ricche famiglie di mercanti ugonotti dopo la revoca dell’editto di Nantes nel 1685.
Forse bastava una risata per chiudere la faccenda. E invece la reazione sciovinista è dilagata in poche ore su social network, trasmissioni tv, fino a scomodare i vertici del governo. La portavoce dell’esecutivo, Najat Vallaud-Belkacem, ha twittato un messaggio invitando «i lettori di Newsweek a visitare la Francia». Moscovici è andato oltre, prendendo spunto dall’incontro con Lew per «rattristarsi» di come sia caduta in basso una rivista che «era un punto di riferimento internazionale». Il quotidianoLe Monde ha ripreso tutti gli sfondoni e le imprecisioni della giornalista di Newsweek.Sull’Huffington Post, versione francese, la direttrice Anne Sinclair, ex moglie di Dominique Strauss-Kahn, ha ironizzato: «L’articolo viene da una giornalista ben nota, a quanto pare, per la qualità dei suoi reportage di guerra in Medio Oriente. Ma deve essersi confusa fra Parigi e Beirut, magari dopo un veglione troppo innaffiato da Dom Pérignon rosé o da Château Margaux».
Sommersa dalle critiche, Di Giovanni ha deciso di chiudere il suo profilo Twitter dove il titolo del suo articolo, la “caduta della Francia”, è diventato un popolare hashtag “la caduta di Newsweek”. Il settimanale fondato nel lontano 1933 ha replicato ieri con una nuova puntata, “La caduta della Francia 2”, firmato da un’altra collega, Leah McGrath Goodman. La giornalista risponde in parte alle inesattezze e accusa “il paese del gallo” di comportarsi “come uno struzzo”. La storica testata, in crisi da tempo e che ha cessato le pubblicazioni su carta, è stata acquistata qualche mese fa da un francese, Etienne Uzac, alla guida del gruppo di media online Ibt di New York. “Non voglio commentare l’articolo — ha glissato — perché non interveniamo nella linea editoriale ma mi sembra che si sia aperto un dibattito interessante per la Francia”. Il trentenne Uzac dovrebbe rilanciare il settimanale su carta in primavera. Con fiuto per gli affari, forse ha intuito che il “french bashing”, bastonare i francesi, è un popolare filone editoriale nella stampa americana.

il Fatto 8.1.14
Israele, gli immigrati neri in fuga

Un certo numero dei circa 30mila immigrati, soprattutto eritrei e sudanesi, in sciopero permanente da domenica a Tel Aviv avrebbero deciso spontaneamente di lasciare Israele. I rappresentanti della comunità ebraica nera hanno chiesto un incontro con il premier Netanyahu. LaPresse

il Fatto 8.1.14
Gaza, 27 attivisti italiani bloccati

Partiti il 26 e bloccati per alcuni giorni in Egitto, sono ora fermi a Gaza a causa della chiusura del valico di Rafah, deciso dalle autorità egiziane dal 4 gennaio. Il viaggio annuale porta solidarietà all’Ospedale Al Awda, danneggiato da Israele con l’operazione Piombo Fuso (2008-2009). LaPresse

l’Unità 8.1.14
Erdogan epura la polizia «Erano dei cospiratori»
Il premier ha ordinato di licenziare 350 poliziotti, tra cui 80 alti dirigenti
Indagavano sullo scandalo che sta travolgendo il suo partito e il governo
di Gabriel Bertinetto


l’Unità 8.1.14
Accusata di frode Cristina, infanta di Spagna
di Sonia Renzini


La Stampa 8.1.14
In Cina distrutte pubblicamente
6,1 tonnellate di avorio illegale
Il Wwf: anche l’Italia dovrebbe fare lo stesso

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La Stampa 8.1.14
Respinta la richiesta di soggiorno della famiglia di Leonarda
La ragazza era stata espulsa dalla Francia durante una gita scolastica nell’ottobre scorso e rimandata con la famiglia in Kosovo
Ma l’avvocato ha già annunciato il ricorso contro la decisione dell’avvocatura di Besançon

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Corriere 8.1.14
La richiesta di autonomia della Slesia resuscita in Polonia le ombre del ‘900
di Maria Serena Natale


Lo strano caso degli autonomisti di Slesia. «Vogliamo uno Stato decentrato, come la Germania e la Svizzera — proclama lo storico Jerzy Gorzelik, 42 anni, leader del movimento politico che turba la quiete di Varsavia — ma nel nostro Paese anche una richiesta moderata suona estrema». La crescita di un partito regionale autonomista è un fenomeno inedito per la Polonia che nei secoli ha dovuto lottare per la propria integrità territoriale. E affianca le spinte separatiste dei ben più aggressivi scozzesi di Gran Bretagna o dei catalani di Spagna che ieri hanno annunciato per il 2014 il referendum sull’indipendenza.
Aspirazioni al decentramento e rivendicazioni identitarie che si saldano a un forte ancoraggio all’Europa: paradosso vuole che, in tempi di euroscetticismo montante tra gli stessi fondatori, il sentimento di appartenenza all’Unione sia necessario alle piccole patrie, altrimenti sperdute nel vuoto globale.
Più che geografica, la Slesia è una regione storica incastonata tra Polonia, Germania ed ex Cecoslovacchia, che ha visto frantumarsi regni e frontiere a partire dalla Grande Moravia passando per le dominazioni asburgica e prussiana. Nella Polonia del Dopoguerra, in seguito all’eliminazione della comunità ebraica ad opera dei nazisti, alle espulsioni dei tedeschi e allo slittamento dei confini nazionali verso Ovest, gli abitanti della Slesia erano la minoranza più forte. Quel passato di stratificazioni e cicatrici nutre il senso di comunità in un’area industriale ricca di risorse minerarie e culturalmente legata al mondo germanico.
Alle elezioni locali del 2010 gli autonomisti hanno ottenuto l’8,5% e in vista delle amministrative di novembre puntano ancora più in alto. Fenomeno emblematico di una tendenza ad affermare identità locali da sempre parallela all’integrazione comunitaria ma che, di fronte a strumentalizzazioni storiche e spinte centrifughe ogni giorno più pressanti, richiede maggiori sforzi di contenimento. A Gorzelik ha risposto la Corte suprema, stabilendo che «l’autogoverno si oppone all’integrità dello Stato polacco» e che l’esistenza di una nazione di Slesia, nell’Europa del XXI secolo, «è una suggestione».

l’Unità 8.1.14
Archeologia
La grigliata del Faraone
Così gli egizi conservavano i cibi nelle tombe più nobili
Non solo carne essiccata ma addirittura mummificata per durare anche millenni
La ricetta scoperta di recente E speriamo rimanga segreta come i misteri delle Piramidi
di Franco Rollo


l’Unità 8.1.14
Severino, la disputa sugli inutili sistemi
di Bruno Gravagnuolo


il Fatto 8.1.14
Teatro
Dalla camorra nasce un attore
L’aria è ottima (quando riesce a passare). Io, attore, fine-pena-mai
Aniello Arena, Rizzoli, pagg. 222
di Camillla Tagliabue


IL TEATRO è delinquenziale: dal camorrista è nato un artista. Aniello Arena, napoletano, classe 1968, è il più famoso attore-carcerato del mondo, già istrione della compagnia della Fortezza del carcere di Volterra (nata dal genio folle e visionario di Armando Punzo) e vincitore di un Nastro d’Argento come protagonista di “Re a l i ty ”, film di Matteo Garrone, incensato a Cannes. Ora il teatrante si cimenta con la scrittura, sfornando insieme a Maria Cristina Olati, la toccante autobiografia “L’aria è ottima (quando riesce a passare). Io, attore, fine-pena-mai”.
Condannato all’ergastolo per strage, Arena si professa (almeno di quella) innocente, ma il suo libro non è una memoria difensiva, né una sbrodolata retorica sul pentimento o un appello al sentimento, quanto il quaderno del carcere di un uomo che dietro le sbarre ha imparato l’italiano, ha preso il diploma di terza media, ha studiato recitazione e adesso cita Shakespeare e Dostoevskij. Nel Paese delle galere sovraffollate, dei detenuti suicidati, dei regimi penitenziari indegni e inumani, quella di Aniello suona come una favoletta per anime belle: eppure è cronaca vera, e nera; un manifesto poetico degno di Artaud e Genet; un’avventura improbabile, quasi utopistica, in cui l’arte è prim’attrice, moglie, amante, pozione, medicina, ovvero l’unica possibilità di riscatto e di evasione, anche in senso letterale. Con un pizzico di umiltà (“Non sono un attore, sono uno che fa teatro perché mi fa sentire bene”) e molta ironia, il guappo somiglia a un anti-eroe di un dramma didattico di Brecht, o al mollusco di una sua celebre battuta: “Sapete come si sviluppa la perla nell’ostrica? Un corpo estraneo insopportabile, per esempio un granello di sabbia, penetra dentro al guscio e l’ostrica, per seppellire quel granello, secerne calce, e in questo processo rischia la morte. Allora, dico io, al diavolo la perla, purché l’ostrica resti sana!”.

La Stampa TuttoScienze 8.1.14
Psichiatria
«Perché è il momento di dire basta all’abuso di psicofarmaci»
Il dibattito: si esagera con le diagnosi di malattia?
«Primo, non curare chi è normale. Contro l’invenzione delle malattie»
Maurilio Orbecchi intervista Alle Frances, psichiatra della Duke University

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La Stampa 8.1.14
Norberto Bobbio

Il grande filosofo moriva il 9 gennaio 2004
Lo ricordiamo attraverso le sue risposte ai lettori della Stampa

due pagine qui

Repubblica 8.1.14
Un anno dedicato a Norberto Bobbio
Gli appuntamenti nel decennale della morte del filosofo
di Massimo Novelli


TORINO Il 9 gennaio del 2004, all’età di 94 anni, Norberto Bobbio moriva a Torino. Sincero e commosso fu l’omaggio che migliaia di persone gli resero, dandogli l’ultimo saluto nella camera ardente allestita nell’aula magna dell’Università torinese, dove, oltre che negli atenei di Camerino, di Siena e di Padova, il filosofo aveva insegnato. Curiosamente il decennale della scomparsa cade nei mesi che, quantomeno a livello politico, dovrebbero segnare la riscossa dei quarantenni e la rottamazione del cosiddetto“vecchio”. Invece proprio il ricordo di un “grande vecchio” come Bobbio offre nel 2014 la possibilità di ritornare al suo pensiero, sempre vivo e contemporaneo. Tutto ciò avverrà grazie alle ripubblicazione di alcuni saggi e alle numerose iniziative volute dal Centro studi Piero Gobetti, che ne ospita l’archivio e la biblioteca, e alla famiglia Bobbio.
Distribuite tra Torino, Roma, Firenze e forse Bari, le manifestazioni di quello che si può definire davvero un anno bobbiano cominciano ufficialmente il 21 gennaio, attraverso un incontro pubblico alle cinque del pomeriggio nella sala del Consiglio comunale torinese, per proseguire fino all’autunno. L’appuntamento subalpino, in Sala Rossa, prevede gli interventi del sindaco Piero Fassino, del rettore dell’Università Gianmaria Ajani, di Pietro Polito (direttore del Centro Gobetti), del professor Luigi Bonanate (allievo di Bobbio) e di Ezio Mauro, direttore diRepubblica.Già dal 14 gennaio, però, Il Circolo dei Lettori di Torino darà vita a un gruppo di lettura, “Capire la Polis”, con cui si vuole riflettere sul significato odierno di politica alla luce degli scritti di Bobbio. E, per restare ai libri, sono annunciate le riedizioni di
Elogio della mitezza, pubblicato da Il Saggiatore, e diDestra e sinistra,in uscita da Donzelli, così come, per i tipi di Passigli, saranno riproposti Maestri e compagni, Italia civile eLa mia Italia.Ancora Donzelli, poi, sta per dare alla stampe Quel che resta di Marx, una raccolta di inediti di Bobbio su Karl Marx e sul marxismo curata da Cesare Pianciola e da Franco Sbarberi.
La complessità e la ricchezza del magistero del giurista e del filosofo della politica, che non si sottrasse mai dall’esprimere le sue opinioni sui temi più problematici dell’attualità, dalla “guerra giusta” ai diritti dell’uomo, dalla differenza radicale fra destra e sinistra ai temi della laicità, a quelli della vecchiaia, sono ben delineate dal programma messo a punto per il decennale della morte. È un calendario scandito da lezioni magistrali (se ne annuncia una di Remo Bodei su “Democrazia, vecchiaia, futuro”), da seminari, da dibattiti in collaborazione con istituzioni, case editrici e riviste come le Università, il Salone del Libro di Torino, l’Einaudi, Donzelli, Laterza, Passigli, Il Saggiatore, laNuova Antologia, e da mostre fotografiche come quella del Consiglio Regionale del Piemonte, che, dal 7 aprile, racconterà i luoghi della sua vita.
Ma, soprattutto, a dare il titolo al complesso di appuntamenti e, in particolare, all’iniziativa di Torino del 21 gennaio, declinandone il senso generale, è “Riascoltiamo Bobbio”. Il tributo popolare e di massa resogli alla camera ardente, e le decine di messaggi di cordoglio, da parte di cittadini e cittadine, giunti al Centro Gobetti nel gennaio del 2004, fecero comprendere che il suo pensiero, i libri di esemplare chiarezza, i commenti incisivi su La Stampa, erano andati molto al di là degli ambiti accademici e degli addetti ai lavori. Forse per la prima volta la “gente”, gli italiani, piangevano la scomparsa di un filosofo che non si era chiuso, neppure da vecchio, nella proverbiale torre d’avorio.

Corriere 8.1.14
La mappa della lingua è universale e infinita
Viaggio nella cartografia delle strutture verbali dove «istintivamente le aquile che volano nuotano»
I meandri del cervello
Ciò che ogni essere umano sempre padroneggia è un oggetto certo finito, ma di portata illimitata, cui è concesso un repertorio incalcolabile di espressioni
di Noam Chomsky


Il linguaggio è stato proficuamente studiato per 2500 anni, ma solo di recente è diventato possibile formulare chiaramente la sua proprietà fondamentale: in parole semplici, ogni lingua offre il modo di esprimere un repertorio infinito di pensieri. Nel corso degli anni vi erano stati tentativi sommari di cogliere tale proprietà. Per esempio, Charles Darwin osservò che gli animali inferiori differiscono dagli esseri umani solamente per il maggior potere, un potere quasi infinito , di associare e comporre i più svariati suoni con le più svariate idee. L’espressione quasi infinito deve essere intesa come, semplicemente, infinito , e adesso sappiamo che il modo di fare tali associazioni è nell’uomo radicalmente diverso da quello di ogni altra specie. Ciò detto, Darwin aveva sostanzialmente ragione, sebbene non fosse ancora in grado di formulare in dettaglio un programma produttivo di ricerca su questa speciale facoltà umana.
Uno dei più insigni studiosi dell’evoluzione, Ian Tattersall, in una sua recente rassegna sulle origini dell’uomo, conclude dicendo: «L’acquisizione della sensibilità unicamente umana è stata improvvisa e recente nei tempi dell’evoluzione e la sua espressione è stata quasi certamente il portato dell’invenzione di quello che è il singolo più notevole tratto dell’uomo moderno, cioè il linguaggio». In sostanza, ritroviamo il potere notevolissimo di cui parlava Darwin.
A partire dalla metà del XX secolo, le scienze formali (matematica, logica e teoria del calcolo) avevano offerto una ricca comprensione di come un sistema finito — il cervello umano o un calcolatore programmabile — possa generare un repertorio infinito di espressioni. Ciò rese possibile formulare precisamente la proprietà in questione e aprire la strada a un’indagine in profondità sulla proprietà che era stata fino ad allora inaccessibile a un esame specifico.
La lingua che ogni essere umano padroneggia è un oggetto finito, ma di portata infinita. È una proprietà interna alla persona, un sistema di elaborazione e calcolo di un cervello finito che rende possibile esprimere un repertorio infinito di espressioni strutturate, ciascuna delle quali viene interpretata su due livelli: quello dell’apparato sensorio-motorio (per lo più suoni, ma anche segni nei linguaggi dei segni) e quello dei sistemi di pensiero atti a interpretare il mondo circostante, pianificare le azioni, ragionare ed eseguire molti altri processi mentali. Uno schema di ricerca che vuole cogliere tale proprietà è (per definizione) una grammatica generativa . Tale tipo di grammatica cerca di rendere totalmente espliciti i processi finiti che subentrano nel normale uso della lingua nella sua varietà complessa e illimitata.
Il programma di ricerca della grammatica generativa , avviato in questi termini circa 60 anni orsono, ha enormemente arricchito l’ambito dei fenomeni empirici accessibili allo studio, includendo lingue di tipi assai diversi. Ha, inoltre, consentito di indagarli a un livello di profondità prima inimmaginabile e in domini nuovi: per esempio studiare in modo nuovo e molto illuminante in che modo il significato di espressioni complesse sia determinato dall’operare di poche e astratte regole interne al linguaggio. Studiare il linguaggio come oggetto biologico ha anche consentito di ampliare enormemente il tipo di dati propri a una certa lingua, includendo il modo in cui il bimbo la acquisisce e come esso è dissociato da altre funzioni cognitive, inaugurando anche una bio-linguistica e una neuro-linguistica.
Un obiettivo ancora più ambizioso è stato quello di portare alla luce (usando le parole dell’insigne linguista Otto Jespersen) «i grandi principi che sottostanno alle grammatiche di tutte le lingue, ottenendo una più approfondita comprensione dell’intima natura del linguaggio e del pensiero umano». Nell’era moderna, tale studio ha preso il nome di grammatica universale , adattando una terminologia tradizionale al nuovo contesto. Non mi sembra possa essere messo seriamente in dubbio che gli esseri umani sono accomunati da un bagaglio biologico prefissato, che è alla base della capacità di acquisire e usare il linguaggio, e questo è ciò che la grammatica universale studia. Che questa capacità sia, in essenza, il patrimonio unico dell’umanità, è quanto Darwin e molti altri studiosi avevano riconosciuto. Nella misura in cui comprendiamo le proprietà della grammatica universale , lo studio di una lingua può poggiare sui risultati ottenuti nello studio di altre lingue, consentendo, una volta di più, una maggior comprensione della natura e dell’uso del linguaggio.
Lo studio di ogni bagaglio biologico è sempre complesso. Cionondimeno, c’è stato un notevole progresso sul fronte della grammatica universale , sebbene molti problemi e ardui interrogativi siano ancora aperti e ne scaturiscano sempre di nuovi. Il progresso è stato sufficiente a rendere abbordabile un nuovo programma di ricerca negli ultimi anni: chiedersi quale sarebbe la soluzione perfetta per soddisfare le richieste fondamentali imposte dal funzionamento del linguaggio, imposte, cioè, dalla proprietà fondamentale vista sopra. Quando si scoprono delle discrepanze tra ciò che si osserva e le soluzioni ideali, ci si chiede come reinterpretare i dati e come rivedere le intuizioni teoriche in modo da sanare tali discrepanze. Questo programma prende il nome di programma minimalista , e ben si attaglia al quadro della recente e subitanea emergenza evoluzionistica del linguaggio descritta da Tattersall. Adottando progressivamente questo programma di ricerca è stato possibile rivelare che alcune proprietà piuttosto sbalorditive della grammatica universale sono il portato coerente dell’ipotesi che il design del linguaggio sia ottimale sotto il profilo visto sopra.
Un esempio di tale ottimizzazione è il fenomeno onnipresente dello spostamento sintattico. I sintagmi possono essere uditi in una posizione nella frase, ma interpretati sia in tale posizione che in una diversa. La frase «Quali libri ha letto Gianni?» viene interpretata come se fosse «Quali libri sono tali che Gianni ha letto quei libri?». «Libri» è il complemento oggetto diretto di «leggere», ma non viene pronunciato o scritto immediatamente alla destra del verbo. Tale spostamento è stato a lungo, nella professione, considerato una strana imperfezione del linguaggio, ma possiamo oggi mostrare che risulta da una radicale semplificazione del calcolo mentale sintattico, mostrare, cioè, che è la più semplice operazione mentale sintattica immaginabile, il risultato automatico di una massima semplicità. Contrariamente a quanto ritenuto fino a pochi anni fa, l’assenza di ogni spostamento sintattico sarebbe stata una strana e inspiegabile imperfezione. Un ulteriore esempio è il dato insolito e curioso che le regole del linguaggio sono, senza eccezioni, centrate sulla minima distanza strutturale, non superficiale (cioè calcolata lungo il numero di parole nella frase), anche se tale distanza sarebbe in linea di massima più facile da calcolare e da elaborare linguisticamente. Così nella frase «Istintivamente le aquile che volano nuotano» l’avverbio «istintivamente» è superficialmente più vicino a «volano», ma strutturalmente più vicino a «nuotano», al quale in effetti si applica.
Questa computazione mentale è più astratta e più complessa, ma è quella giusta. Non ci sarebbe niente di errato nel pensiero che le aquile che istintivamente nuotano volano, ma non lo si può esprimere con questa frase. Tale proprietà è linguisticamente onnipresente ed è automaticamente colta dal bimbo sulla base di dati praticamente miseri, se non del tutto assenti. Lavori recenti offrono una spiegazione sorprendente, basata sull’efficienza del calcolo sintattico mentale, con conseguenze di vasta portata che minano alla base svariate ipotesi tradizionali e ben radicate sulla natura e l’uso del linguaggio. In questo caso, i principi della grammatica universale sono stati verificati su studi delle funzioni cerebrali, un successo importante e arduo, ottenuto in lavori diversi, tra i quali spiccano quelli di Andrea Moro (Università di Pavia), il quale ha integrato contributi di spicco alla teoria linguistica con indagini pionieristiche nel campo della neuro-linguistica.
Una linea di ricerche molto produttive ha esplorato ciò che in termine tecnico si chiama la cartografia delle strutture linguistiche, cioè le gerarchie universali delle frasi, attraverso le modifiche apportate dagli avverbi e le strutture di informazione veicolata dalle frasi (con componenti tecnici come il fuoco, l’informazione topica e così via). In particolare, i più recenti lavori di Guglielmo Cinque (Università di Venezia) e Luigi Rizzi (Università di Siena) hanno rivelato strutture linguisticamente universali di notevole complessità, con interessantissime conseguenze sintattiche e semantiche, dischiudendo nuovi problemi sul perché il linguaggio è organizzato in tal modo e non in qualche altro modo.
È impossibile in questo breve spazio passare in rassegna i risultati conseguiti nel moderno studio del linguaggio, le sue rappresentazioni neurali, il suo intimo ruolo nelle nostra vita mentale e sociale. Né raccontare le molte sfide ancora aperte alla nostra comprensione del linguaggio che tali risultati hanno suscitato, segno che si tratta di una disciplina vivace e in continuo fermento. Tali ricerche procedono, senza dubbio, a un livello che travalica nettamente quanto potevamo immaginare anche solo alcuni anni addietro, e offrono prospettive entusiasmanti su scoperte ancora più profonde delle capacità linguistiche della nostra specie, appunto sul «singolo più notevole tratto dell’uomo moderno» e la nostra specialissima sensibilità moderna.

Corriere 8.1.14
L’errore di sostenere che solo l’evoluzione ci abbia dato la parola
di Massimo Piattelli Palmarini


La disciplina linguistica chiamata grammatica generativa, inaugurata da Noam Chomsky oltre 60 anni fa, come lui stesso racconta nel testo qui accanto scritto per il «Corriere», conta oggi circa duemila studiosi in varie parti del mondo e in Italia, seconda solo agli Stati Uniti per quantità e qualità di contributi.
Quasi dall’inizio s’è scontrata con critiche e pretese smentite, come correttamente riferito ne «la Lettura» del 15 dicembre da Sandro Modeo («Il gene che creò la parola: due studi smentiscono le teorie di Chomsky sul linguaggio»). Questi attacchi sono stati tutti puntualmente e, a mio avviso, persuasivamente controbattuti non solo da Chomsky stesso, ma anche da altri insigni studiosi del settore. Un tema ricorrente in queste critiche consiste nel ribadire che il linguaggio, nella sua evoluzione biologica, nei correlati cerebrali e nel suo uso collettivo non è una facoltà unica e speciale, bensì la conseguenza di capacità cognitive generali e di una lunga storia di contatti sociali.
Tale tesi si scontra con molti dati fondamentali. Soggetti quasi completamente privi di movimenti volontari acquisiscono e usano il linguaggio senza problemi. L’ipotesi che il linguaggio sia un derivato della motricità in generale, tesi già sostenuta dal celebre psicologo svizzero Jean Piaget molti anni addietro, è del tutto infondata. Quanto poi alla modularità della mente e del cervello, si tratta di uno dei dati centrali meglio comprovati delle moderne scienze cognitive. Nel settore del linguaggio, molteplici patologie molto specifiche mostrano come una singola componente cognitiva possa essere compromessa senza intaccarne altre. Da un lato, si sono studiati soggetti con limitatissime capacità cognitive generali, ma competenza linguistica intatta. All’opposto, deficit linguistici assai specifici in soggetti che godono di competenze cognitive extra-linguistiche intatte.
Sul fronte della sintassi vera propria, innumerevoli dati su svariate lingue e dialetti mostrano che le esigenze della comunicazione tra parlanti non possono nemmeno cominciare a spiegare la natura fondamentale delle strutture sintattiche. Oltre agli esempi offerti da Chomsky nel suo testo qui a fronte, molti altri dello stesso tenore possono essere citati. Perché la frase «Ogni uomo ama sua madre» può benissimo significare che ciascun uomo ama la propria madre, mentre la frase «Sua madre ama ogni uomo» vuol dire tutt’altro? Perché è sintatticamente impeccabile chiedere «Con quale collega non sai mai come comportarti?». Ma orribile chiedere: «Come non sai mai con quale collega comportarti?». Perché il tipico afasico di Broca e i bimbi piccoli capiscono senza problema «Mostrami l’elefante che sta innaffiando il leone», ma hanno seri problemi a comprendere la frase «Mostrami il leone che l’elefante sta innaffiando?». Perché in espressioni come «far ridere i polli», «far divertire i bambini», «far cuocere il brodo» è il soggetto stesso che compie l’azione, mentre in espressioni come «far licenziare gli operai», «far tagliare il bosco» si danno istruzioni a qualcun altro?
Niente di tutto ciò è misterioso per la grammatica generativa . Impossibile, invece, spiegare questi fenomeni invocando le regole della conversazione, la cognizione generale del mondo e l’impatto delle emozioni sui parlanti. Quindi, la sintassi è una sfera cognitiva specifica e non proviene dalle pressioni selettive della comunicazione, degli scambi sociali e nemmeno del pensiero in generale. «Lo ritengo intelligente», «lo sospetto colpevole» vanno benissimo, ma «lo nego intelligente» oppure «lo escludo colpevole» vanno malissimo, anche se i pensieri corrispondenti sono chiarissimi.
Bisogna ammettere che è molto difficile far passare l’idea che la sintassi non sia il prodotto evolutivo del movimento, della comunicazione e della generica conoscenza del mondo. Un mio studente americano, dopo aver seguito con attenzione tre lezioni nelle quali avevo spiegato in dettaglio perché la tesi di continuità tra linguaggio e altre sfere cognitive è insostenibile, mi disse candidamente: «Niente potrà mai persuadermi che il linguaggio non è il prodotto evolutivo della comunicazione e del pensiero in genere». Ne rimasi piuttosto scandalizzato, dato che si tratta di scienza e non di fede ideologica, ma almeno era più sincero di molti oppositori della grammatica generativa .

Corriere 8.1.14
L’incontro al Festival delle Scienze


L’universo mondo che ruota attorno al macro-tema «I linguaggi», declinato in ogni possibile sfaccettatura: linguistica fantastica e lingue immaginarie, genetica e patologie del linguaggio, i linguaggi della sessualità, il linguaggio della ricerca, la filosofia del linguaggio o il linguaggio dei segni... Questi alcuni degli argomenti affrontati nella nona edizione del Festival delle Scienze che si svolgerà a Roma, presso l’Auditorium Parco della Musica, dal 23 al 26 gennaio prossimi (festival prodotto dalla Fondazione Musica per Roma, in collaborazione con Codice). Quattro giorni tra analisi scientifica, indagine filosofica e incursioni nella fantascienza, fitti di incontri, conferenze, proiezioni, dibattiti e laboratori, con ospiti provenienti da tutto il mondo (gli eventi del festival, a esclusione degli spettacoli, sono a pagamento al costo di due euro). Tra i tanti nomi presenti, oltre a quello di Noam Chomsky (per lui una serata speciale introdotta da Andrea Moro dal titolo I l linguaggio come organo della mente , ore 21 di sabato 25), Bernhard Nickel, Jason Stanley, Stephen Crain, Jesse Snedeker, Alfonso Caramazza, Simon Fisher, Tullio De Mauro, Nicla Vassallo.

Corriere 8.1.14
Anche Barbablù-Enrico VIII aveva un cuore. Poi chiamava il boia
di Isabella Bossi Fedrigotti


Le due anime del sovrano I primi messaggi furono scritti in francese, lingua del romanticismo; in seguito, più pragmaticamente, in inglese L’orco sapeva essere tenero, pieno di pensieri per la sua amata, perfino dolce. Barbablù aveva un cuore e, quando voleva, sapeva scrivere alla maniera degli stilnovisti. Salvo poi mandare a morte la sua «signora», la sua «amica», la sua «adorata» come la chiamava, prestando fede a tutte le malvagità attribuitele — adulterio, incesto, alto tradimento, stregoneria — così tante, in verità, che viene da chiedersi come sia stato possibile commetterle tutte quante in un tempo, dopotutto, relativamente breve. E mentre nel paniere cadeva la testa della sventurata finita in disgrazia, la rimpiazzante già aspettava, vestita di bianco, ai piedi dell’altare.
L’orco, il Barbablù è naturalmente Enrico VIII d’Inghilterra, marito di sei mogli — una di seguito all’altra — di cui due ripudiate, due decapitate, due morte per cause naturali. Ad Anna Bolena, seconda della serie, quella che probabilmente amò più di tutte, forse perché per averla dovette affrontare la prova pesantissima dello strappo dalla Chiesa di Roma, inviò, cominciando quando la bella era ancora una delle damigelle d’onore della regina Caterina d’Aragona, sua prima moglie, lettere romantiche, piene di promesse, di ansia, di suppliche e di fremente desiderio.
Scritte nel corso dei primi due decenni del Sedicesimo secolo, qualcosa come cinquecento anni fa, andate perdute e poi ricomparse (nella Biblioteca Vaticana) ai primi del Diciottesimo, le Lettere d’amore di Enrico VIII ad Anna Bolena escono in italiano (editore Nutrimenti, pp. 126, € 12), tradotte e commentate da Jolanda Plescia, con prefazione di Nadia Fusini.
Colpisce che le prime, quelle più irruenti e appassionate, siano in francese, le restanti, invece, in inglese; tuttavia si comprende: il francese era la lingua dell’amore per antonomasia e quando l’amore bruciava più forte (anche perché Anna, probabilmente, ancora non gli si era concessa), il sovrano usava quell’idioma che, peraltro, conosceva perfettamente; più tardi, dal momento in cui l’ardore della fiamma cominciò ad affievolirsi un poco e vari altri argomenti s’introdussero nella corrispondenza, egli tornò al più pragmatico, meno romantico inglese.
Fino a noi sono arrivare soltanto le missive di Enrico. Facile immaginare che Anna le abbia custodite come tesori, preziosi non soltanto dal punto di vista sentimentale: forse conoscendo già e possibilmente anche temendo l’indole volubile del marito, dovevano rappresentare una specie di assicurazione per la vita, un lasciapassare, in eventuali, futuri tempi bui, per sé e per i suoi.
Delle lettere di lei, nessuna traccia: troppe da troppe mogli, amanti, amiche ne aveva probabilmente ricevute il regale destinatario e, chissà, per cautela, magari strappate e gettate via subito dopo averle lette oppure più tardi, al compiersi della vicenda. Del resto, quale uomo, re o signor nessuno, conserverebbe volentieri le lettere d’amore, che si immaginano devote e carezzevoli, della donna che ha fatto ammazzare?
Una soltanto ne figura nel libro, ma non c’è certezza della sua autenticità. Sarebbe l’ultima scritta da Anna a Enrico, dalla Torre di Londra, piena di fierezza e dignità, poco prima dell’esecuzione. Leggenda vuole che sia stata trovata tra le carte del primo ministro Thomas Cromwell —quando fu a sua volta consegnato al boia — vero regista occulto del grande circo matrimoniale del sovrano, sempre pronto a trovare ragioni «giuste» per eliminare regine non più amate (e, soprattutto, incapaci di mettere al mondo un figlio maschio) e a facilitare il turnover di quelle nuove. Vera o falsa che sia, sicuro è che quella lettera Enrico non la ebbe mai.

Corriere 8.1.14
A tu per tu con il boia nazista
di Frediano Sessi


 Un piccolo libro si offre al lettore come un grande libro: il lavoro di Costantino Di Sante (Auschwitz prima di «Auschwitz» , Ombre Corte, pp. 180, e 18) che ricostruisce la vita di Massimo Adolfo Vitale e, soprattutto, il suo viaggio nel marzo del 1947 a Varsavia, su incarico dell’Unione delle comunità ebraiche e del ministero di Grazia e Giustizia. In quell’occasione assiste al processo del comandante di Auschwitz Rudolf Höss, riesce a parlare con lui, poi decide di mettersi alla ricerca degli ebrei italiani, recandosi ad Auschwitz e a Majdanek. Il suo dettagliato rapporto del processo e della visita al lager offre una visione inedita dei luoghi dello sterminio nazista. Inoltre, la sua fu la prima visita di un italiano non deportato nei luoghi della tragedia dell’ebraismo europeo. Il libro è corredato di documenti, comprese alcune relazioni giurate degli ebrei italiani sopravvissuti. Tra questi, tre scritti di Primo Levi. La postfazione è affidata a Liliana Picciotto, che riconosce a Vitale il merito di avere redatto un primo elenco anagrafico delle vittime.

Corriere 8.1.14
Pochi finanziamenti pubblici ma i nostri ricercatori primeggiano
di Orsola Riva


Cenerentola o principessa? Come nella favola, tutte e due le cose insieme. Parliamo della ricerca italiana. Che il nostro Paese investa nell’Università e nella Ricerca assai meno dei nostri amici e concorrenti europei è noto. In quattro anni (leggi dal decreto Tremonti del 2009) l’Università ha perso quasi un miliardo di euro e i ricercatori, a causa del blocco del turnover, sono scesi da 60 a 50 mila.
Rispetto alla popolazione, abbiamo la metà dei ricercatori dei tedeschi, dei francesi e degli inglesi e alla ricerca va l’1,25% del Pil contro il 3% previsto dall’Agenda di Lisbona. Eppure. Eppure i nostri ricercatori sono «più bravi». O meglio, sanno fare di più con il poco che hanno a disposizione. A dirlo è un rapporto commissionato dal governo britannico agli analisti della casa editrice Elsevier sulle performance dei propri ricercatori citato da «Nature». Ebbene: a parità di soldi spesi, i nostri ricercatori pubblicano più articoli dei loro assai più ricchi colleghi americani, tedeschi e francesi: testa a testa con il Canada, secondi solo alla Gran Bretagna. Lo stesso vale per il numero di citazioni ottenute: terzo posto (sempre per unità di spesa) dietro inglesi e canadesi. Sorpresa? Non per il rettore dell’Università di Padova Giuseppe Zaccaria, alla guida dell’Ateneo in vetta alla classifica Anvur sulla qualità della ricerca in Italia. «Che i nostri ricercatori siano eccellenti — spiega Zaccaria — lo provano non solo gli indici bibliometrici ma il fatto che si piazzano benissimo nelle competizioni per ottenere fondi europei. Il guaio è che non sempre scelgono di portare a termine le loro ricerche in Italia: altrove infatti trovano laboratori migliori e una minore burocrazia».
Del resto, se c’è la fuga dei cervelli, è perché i cervelli ci sono: sennò perché le università straniere farebbero a gara ad accaparrarseli? Molti partono, alcuni ritornano. Come l’astrofisico Francesco Sylos Labini, otto anni di lavoro fra Svizzera e Francia, attualmente al Cnr. È stato lui a segnalare sulla rivista online «Roars» la ricerca pubblicata da «Nature». «Malgrado la politica ostile e i problemi strutturali — dice Sylos Labini — , le nostre scuole preparano ancora benissimo». È per questo che siamo ambitissimi. Fuori, ma non in casa. E qui una grossa fetta di responsabilità va anche al sistema industriale che investe pochissimo nella ricerca. Chi è più tirchio, lo Stato o i privati? Sylos Labini non ha dubbi: «Le imprese. I nostri imprenditori preferiscono comprarsi calciatori che scienziati».

Repubblica 8.1.14
Un saggio dello psicologo americano Peter Gray
Cari bambini non giocatevi la fantasia
di Massimo Ammaniti


È stato recentemente pubblicato negli Stati Uniti il libro Free to learn (Basic Books, 2013) scritto dallo psicologo americano Peter Gray che sostiene una tesi interessante. Secondo Gray è cambiato il contesto in cui vivono i bambini negli ultimi decenni, infatti mentre in passato i bambini erano abbastanza liberi di giocare organizzandosi fra loro, oggi passano il tempo a scuola oppure in attività dirette dagli adulti, come ad esempio gruppi sportivi, musicali oppure di danza. Aggiungerei che la giornata dei bambini è anche occupata dalla televisione oppure dai videogiochi e quando si avvicinano all’adolescenza da facebook.
Ma qual è il valore del gioco nella vita dei bambini?
Se guardiamo il mondo animale, in particolare quello dei mammiferi, si scopre che durante l’infanzia i cuccioli passano quasi tutto il loro tempo giocando, rincorrendosi, lottando, arrampicandosi. Si può senz’altro affermare che il gioco si sia sviluppato attraverso i processi evoluzionistici permettendo ai cuccioli di apprendere, di mettere alla prova le proprie capacità ed iniziare a riconoscere il proprio rango all’interno del gruppo, come sosteneva lo zoologo tedesco Karl Groos nel lontano 1898.
Il gioco per i bambini è una necessità vitale perché devono apprendere i complessi codici degli scambi sociali, scoprire situazioni nuove, superare ostacoli imprevisti, coordinare i propri sforzi con gli altri per raggiungere un risultato condiviso. Basta osservare dei bambini che giocano per comprendere il valore e il significato del gioco: non è un’attività imposta, i bambini spontaneamente decidono se partecipare o no, se non si divertono più possono ritirarsi o contrattare per iniziare un altro gioco, fare dei compromessi e stabilire insieme le regole. L’esempio raccontato dalla psicologa americana Carol Gilligan è particolarmente illuminante: un bambino ed una bambina decidono di giocare insieme, il maschietto pretende di giocare ai pirati, mentre la bambina propone di giocare alla famiglia. Il bambino si infastidisce e con aria scocciata si rifiuta di giocare «è un gioco da bambine», ma alla fine dopo vari tira e molla la bambina propone «va bene giochiamo ai pirati che stavano in famiglia».
Prima di giocare i bambini discutono a lungo sul gioco da fare, definiscono le regole, per trovare alla fine un compromesso in cui ognuno rinuncia a qualcosa per ottenere quello che desiderava. Come scrive Peter Gray il gioco è una vera palestra sociale per i bambini, si apprende l’empatia verso gli altri e si comprende quello che gli altri desiderano e vogliono, capacità fondamentali anche nella vita adulta. E che conseguenze ha questa dilatazione di attività finalizzate dirette da un adulto a scapito del gioco libero sulla personalità in formazione di un bambino? Peter Gray è piuttosto pessimista, la riduzione del gioco libero interferisce con le capacità di empatia e di intelligenza sociale favorendo piuttosto atteggiamenti egocentrici e narcisistici, che osserviamo nei bambini poco abituati a giocare con i compagni. Una tesi simile era stata sostenuta anche dallo psicoanalista americano Bruno Bettelheim nel suo libroIl mondo incantato,secondo cui le favole tradizionalmente raccontate ai bambini servivano ai bambini per elaborare i conflitti con i fratelli oppure con gli adulti stimolando la ricerca di soluzioni a livello immaginario. Ma anche le favole fanno sempre meno parte della vita dei bambini e questo rischia di impoverire il loro mondo interiore e soprattutto la sfera inconscia che è alla base della ricchezza emotiva e della creatività. E questo sarebbe confermato da ricerche recenti che avrebbero messo in luce “una crisi della creatività” fra i bambini, che sarebbero oggi meno in grado di esprimere le proprie emozioni, meno ricchi di immaginazione, meno entusiasti e meno capaci di inventare prospettive diverse. In altri termini si corre il rischio di educare i bambini scoraggiando la loro creatività, che come è ben noto non si può insegnare ma si può soltanto assecondare.
Per ritornare al passato non può non ricordare un racconto di Stephen King “Il corpo” nel suo libroStagioni diverse in cui un gruppo di ragazzi tredicenni viene a sapere che è stato ritrovato il corpo di un loro coetaneo che era morto dopo una inspiegabile scomparsa. I quattro amici decidono di andare alla ricerca del corpo del loro coetaneo e siccome il luogo è lontano devono trovare una scusa per i genitori. Inizia qui la loro avventura, dovranno affrontare pericoli, si dovranno scontrare con un gruppo di ragazzi più grandi ma questa è l’impresa della loro vita che li porta a confrontarsi con la morte di un ragazzo come loro. Forse la vita dei bambini oggi se da una parte è troppo ovattata, dall’altra è troppo condizionata dalle pressioni degli adulti e senza la libertà di giocare le nuove generazioni non potranno mai sviluppare a pieno le proprie potenzialità.
IL SAGGIO: Free to learn dello psicologo americano Peter Gray (Basic Books)

Repubblica 8.1.14
L’appello
L’allarme di docenti e scrittori
“Salviamo le nostre biblioteche”


UN APPELLO in favore delle biblioteche statali, che rischiano la chiusura per mancanza di fondi e di personale, è stato lanciato dall’Associazione dei lettori della Nazionale di Firenze e da quella dei lettori dell’Universitaria di Pisa. In favore delle biblioteche, “volano di conoscenze e di innovazione”, “unica leva su cui costruire il futuro”, e auspicando concorsi e assunzioni, si sono espressi, fra gli altri, Alberto Asor Rosa, Piero Bevilacqua, Luciano Canfora, Umberto Eco, Giulio Ferroni, Giuseppe Galasso, Paul Ginsborg, Claudio Magris, Adriano Prosperi, Marco Santagata, Gennaro Sasso, Cesare Segre, Luca Serianni e Salvatore Settis.

Repubblica 8.1.14
Firenze
C’è l’intesa per il Maggio Musicale

FIRENZE — Raggiunta l’intesa con i sindacati per il salvataggio e il rilancio del Maggio musicale fiorentino. Lo ha annunciato il commissario straordinario della fondazione Francesco Bianchi: «Con questo accordo il Maggio camminerà sulle sue gambe. Ora esistono le basi perché questo teatro possa uscire dalla crisi». Il piano triennale sarà sul tavolo del supercommissario per le fondazioni liriche Pinelli entro domani, con quelli dei teatri che intendono avvalersi dei fondi della legge Valore Cultura. I punti fondamentali: 4 milioni di euro di risparmi annui sulla spesa per i lavoratori a tempo indeterminato, ottenuti con una rimodulazione del contratto integrativo per 1,5 milioni di euro. L’organico del teatro passerà da 362 a 310 unità.