giovedì 9 gennaio 2014

l’Unità 9.1.14
Disoccupazione al 12,7% Dal 1977 mai così alta
Per i giovani è al 41,6%
In un anno 450mila posti in fumo, cig oltre il miliardo di ore e boom di domande di sussidi
Si amplia il gap con l’Europa. Nomisma: «Ripresa modesta, effetti limitati»
di Laura Matteucci


il Fatto 9.1.14
Domande di disoccupazione: +32% nel 2013


 TRA GENNAIO E NOVEMBRE 2013 sono state presentate all’Inps, 1.949.570 domande di disoccupazione con un aumento del 32,5% rispetto alle domande presentate nei primi 11 mesi del 2012. Lo rileva l’Inps spiegando. L'Inps ricorda che da gennaio 2013 è cambiata la normativa di riferimento per la disoccupazione e la mobilità con l’entrata in vigore delle nuove prestazioni per la disoccupazione involontaria, ASpI e mini ASpI. Le domande che si riferiscono a licenziamenti avvenuti entro il 31 dicembre 2012 continuano a essere classificate come disoccupazione ordinaria, mentre per quelli avvenuti dopo il 31 dicembre 2012 le domande sono come ASpI e mini ASpI. Mentre per quanto riguarda gli ammortizzatori, nel 2013 le ore autorizzate di cassa integrazione hanno abbondantemente superato il miliardo (1.075 milioni) registrando un calo dell’1,36% sul 2012.

Corriere 9.1.14
L’ipotesi che l’opposizione interna possa aprire un fronte in nome della candidatura di D’Alema alle Europee
Governo e Pd, il doppio fronte del leader
Renzi pronto a «incontrare tutti» per chiudere sulla legge elettorale
di Maria Teresa Meli


ROMA — Matteo Renzi sa che se si ferma è perduto. E per questo vede con un misto di sospetto e di preoccupazione l’immobilismo di Alfano. L’iniziativa del segretario sulla riforma elettorale ha rimesso in moto le altre forze politiche: «Si stanno muovendo tutti», dice con soddisfazione il leader del Partito democratico, facendo il punto della situazione con i suoi. Tutti a eccezione del numero uno del Nuovo centrodestra, che sembra voler rallentare il lavoro di Renzi. «Forse — spiega uno degli uomini più vicini al segretario del Pd — è convinto che siccome non si può fare una legge senza di lui, Matteo dovrà dipendere dai suoi desiderata. Ma deve stare attento».
Però è necessario che stia sul chi vive anche il sindaco di Firenze, che oggi farà capolino a Roma proprio per capire di persona che cosa si agita nella maggioranza che sostiene il governo. C’è chi dice che potrebbe avere un contatto ravvicinato con il vicepremier, chi invece sostiene che il segretario prima di fare altri colloqui dovrà incontrare Enrico Letta entro domani. Si sa che il presidente del Consiglio sta cercando di stringere un’intesa con il leader del Pd, che metta al riparo da qualsiasi pericolo il suo governo. Ed è proprio per questa ragione che l’inquilino di Palazzo Chigi vorrebbe accelerare i tempi del faccia a faccia con il sindaco. Renzi, al contrario, non sembra troppo smanioso di fissare questo appuntamento. Ma è inevitabile che i due debbano parlarsi, anche perché solo nel corso di un colloquio con il premier il segretario del Pd sarà in grado di capire a che gioco intende giocare veramente Alfano e fino a che punto Letta ritiene di dover fare da sponda al suo vice.
Quello che pensa Renzi non è una novità. E lo ripeterà al premier: «Non si può andare avanti con la politica che discute, discute, e poi non approda a niente». Per questa ragione vuole portare a casa la riforma della legge elettorale e intestarsi la battaglia su lavoro. Sul primo punto, Renzi vuole procedere a tappe forzate. Il 16, in Direzione, verrà definita la proposta del partito: «Le condizioni per definire un accordo generale ci sono tutte. Incrociamo le dita e stringiamo i denti. Io sono pronto a incontrare tutti, Grillo, Berlusconi, Alfano, purché si chiuda su una riforma che serve agli italiani. Se invece queste trattative devono essere il modo per perdere tempo e prendere un caffè, lo prendo con i miei amici che mi diverto di più». Per quanto riguarda il «Jobs act», finora, c’è solo una bozza. Ma servirà per confrontarsi con gli altri partiti e per portarla all’incontro con Letta. È ovvio che questa iniziativa provocherà delle discussioni anche all’interno dello stesso Pd. Questo Renzi lo dà per scontato. Ma non teme le possibili reazioni. Come non sembra temere le manovre che l’ala più estrema dei bersaniani e dei dalemiani sta portando avanti.
Secondo un tam tam sempre più insistente gli oppositori del leader del Pd stanno preparandosi a creare un casus belli per aprire un fronte di guerriglia con il sindaco di Firenze. Il pretesto verrà fornito dalla non ricandidatura di D’Alema alle elezioni europee. Però su questo punto il segretario non ha intenzione di mollare. E quindi non è certo quello delle sorti europee di D’Alema il problema che affligge Renzi. No, la preoccupazione del leader è un’altra e riguarda le inefficienze del governo, che possono avere delle ricadute sul Partito democratico. L’ultima «figuraccia» è stata quella sugli insegnanti, su cui «poi il governo ha messo una pezza»: «Una vicenda allucinante», per Renzi. Ma tante altre ce ne sono state prima: «Perciò — spiega il segretario — dobbiamo trovare un modo diverso di lavorare insieme. Io non sono affezionato alle liturgie della prima Repubblica con gli incontri di delegazioni: mi è sufficiente che si prenda un impegno chiaro con i cittadini e che lo si rispetti».
Com’è naturale, il leader del Pd non vuole che gli sbagli del governo si riflettano negativamente sul Pd, tanto meno a pochi mesi dalla campagna elettorale per le Europee. Una campagna in cui Renzi contenderà i voti a Grillo, che «sta facendo il furbetto», rifiutandosi di lavorare sul serio in Parlamento per abbassare i costi della politica. «Sono i suoi elettori — avverte Renzi — che vogliono fare gli accordi. E a nulla serve che l’imponente apparato di comunicazione di Grillo — pagato con i soldi pubblici perché a quanto mi risulta i 5 Stelle prendono tutti i soldi fino all’ultimo del finanziamento pubblico dei gruppi parlamentari, pur avendo rinunciato a quello dei partiti — bombardi la Rete con i propri utenti veri e falsi: il punto centrale è che sta perdendo i consensi».

Repubblica 9.1.14
Cinquanta deputati Pd si schierano per due proposte di legge appoggiate anche dal Nuovo Centrodestra di Alfano
Mossa anti-Matteo della minoranza dem “Pronti a sostenere il sindaco d’Italia”
di Tommaso Ciriaco


ROMA — La crepa sarà evidente solo tra qualche giorno. Quaranta, cinquanta deputati della minoranza interna al Pd - appoggiati dal Nuovocentrodestra di Angelino Alfano e dall’area che fa capo a Enrico Letta - sono pronti a uscire allo scoperto per sostenere il modello elettorale del sindaco d’Italia. Hanno firmato due proposte di legge fotocopia e renderanno infinitamente più complesso il dialogo sul modello spagnolo intrapreso da Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. Una mossa capace di allungare i tempi della riforma e allontanare, soprattutto, il rischio di nuove elezioni.
Ci lavorano da tempo due deputati democratici. Uno è Michele Nicoletti, l’altro Simone Valiante. Il primo vicino a Rosy Bindi, l’altro a Beppe Fioroni. Le due proposte di legge sono praticamente fotocopia, anche se risultano depositate a Montecitorio in momenti diversi: alcuni mesi fa la prima, a fine dicembre la seconda. Il progetto di Nicoletti è stato sottoscritto da una trentina di deputati (e anche al Senato una legge analoga ha raccolto il sostegno di trenta senatori), quello di Valiante da una ventina di membri di Montecitorio. Unite, le due proposte potrebbero incrinare vistosamente il fronte democratico.
I due parlamentari dovrebbero incontrarsi già oggi. Valiante spinge per fondere le due proposte, Nicoletti è disponibile ad ascoltare: «Mi ha chiesto un incontro - conferma - Il mio progetto è il più vicino a quello del sindaco d’Italia ed è a disposizione della segreteria». Dovessero unire le forze, questa folta pattuglia democratica entrerebbe prepotentemente nel risiko del dopo Porcellum.
Il progetto di Valiante - come quello del collega di partito - ipotizza un sistema proporzionale a doppio turno con le preferenze. Il premio di maggioranza è assegnato alla coalizione vincente: al primo turno se raggiunge il 40%, altrimenti al secondo turno. La soglia di sbarramento è fissata al 4%, i collegi sono provinciali.
Proprio sui collegi si gioca la partita decisiva. Riscriverli provincia per provincia è operazione complessa, affidata all’esecutivo.Modulare la distribuzione dei seggi in base all’ampiezza dei collegi, poi, è missione faticosa e, soprattutto, molto lunga. Ecco allora la sponda offerta dall’ala governista, con l’obiettivo di allontanare le urne. Ed ecco soprattutto i contatti con gli uomini di Alfano e l’attenzione dell’area lettiana. «Noi pensiamo solo che sia un sistema efficace. Poi, certo - sottolinea Valiante - piace al Nuovo centrodestra, ma ricalca ancheuno dei tre modelli proposti dal segretario. E infatti ne ho inviato copia alla responsabile Riforme del Pd Maria Elena Boschi».
Nicoletti, dal canto suo, ostenta cautela. Ricorda che «all’inizio la proposta fu sottoscritta da alcuni renziani, adesso invece è considerata vicina ai governisti». Di certo c’è che delimita molto il perimetro di riferimento, ostacolando il dialogo con le opposizioni: «È semplicemente più omogenea rispetto alla maggioranza che sostiene l’esecutivo». Non resta che attendere la reazione di Renzi.

Corriere 9.1.14
Contratto a «tutele crescenti». Resta il nodo articolo 18
Percorso da costruire: equilibrio difficile tra le imprese, la Cgil e la sinistra pd Procedure «militari» su spesa e demanio
di Enrico Marro


ROMA — Più dettagliato e decisionista nella parte sulle semplificazioni burocratiche. Sommario sul capitolo dei piani di settore per creare occupazione. Cauto sulle nuove regole del mercato del lavoro. Le tre parti di quello che sarà il Jobs Act, il documento che la direzione del Pd approverà il 16 gennaio e che entro un mese diventerà un piano tecnico e successivamente un insieme di proposte di legge, sono per ora solo accennate. Offerte alla discussione, comprese le «polemiche» e le «resistenze» che lo stesso segretario Matteo Renzi non si nasconde ci saranno.
E questo nonostante la bozza diffusa ieri sera stia per esempio ben attenta a non citare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello che regola i licenziamenti individuali. La norma non viene tirata direttamente in ballo, ma si conferma che il Pd vuole attivare un «processo verso un contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti». Un percorso tutto da costruire, ma il cui approdo sarebbe un contratto che in una prima fase (da uno a tre anni, secondo alcune ipotesi) lascia alle aziende una libertà sostanziale di licenziamento, una sorta di periodo di prova allungato. Il tutto bilanciato da uno sfoltimento della giungla contrattuale, limitando quindi le forme flessibili, e dalla previsione di un «assegno universale per chi perde il posto di lavoro» esteso anche a chi «oggi non ne avrebbe diritto», con l’obbligo però di seguire un corso di formazione professionale.
La prima idea, quella del contratto a tutele progressive potrebbe incontrare il favore delle imprese e anche del centrodestra quanto più la libertà di licenziamento fosse ampia, ma in questo caso si scontrerebbe con l’opposizione della Cgil e della sinistra dello stesso Pd. Renzi dovrà quindi trovare un difficile equilibrio, se davvero vuole portare la proposta in Parlamento. La seconda idea, quella della riduzione dei contratti flessibili e dell’istituzione di un sussidio universale di disoccupazione si scontra invece con due ostacoli: le imprese che non vogliono rinunciare alla flessibilità e le risorse finanziarie necessarie a coprire l’erogazione del sussidio (quanto durerebbe? chi lo pagherebbe, le piccole aziende o la fiscalità generale?). Non piacerà alle imprese, e neppure a una parte del sindacato, la proposta di una legge sulla rappresentatività sindacale e sulla presenza di rappresentanti dei lavoratori nei consigli di amministrazione delle grandi aziende.
Proprio perché «polemiche e resistenze» saranno forti, Renzi sa che il dibattito e le fasi successive vanno chiusi rapidamente. E così indica l’obiettivo di un «codice del lavoro che racchiuda e semplifichi tutte le regole attualmente esistenti» in materia di lavoro da presentare «entro otto mesi». Del resto, che sia urgente intervenire è confermato dai dati diffusi ieri dall’Istat, che segnalano il record della disoccupazione dal 1977, con 3 milioni e 254mila persone in cerca di lavoro. La lunga crisi ha fatto perdere dal 2008 a oggi circa un milione e duecentomila occupati, facendo scendere ancora di più l’Italia nella classifica internazionale del tasso di occupazione. Nella fascia d’età fra i 20 e i 64 anni lavora meno del 60% della popolazione. In Germania circa il 77%, la media europea è di quasi il 70%. Ma Renzi, sa che «non sono i provvedimenti di legge che creano lavoro, ma gli imprenditori». Chi governa, però, può creare le condizioni favorevoli. In questo senso il leader del Pd prospetta una «visione per i prossimi anni» e «piccoli interventi per i prossimi mesi».
La «visione» è tutta nel senso di cogliere le opportunità della globalizzazione valorizzando le potenzialità dell’Italia, grande economia di trasformazione e Paese che può essere molto attrattivo sia di investimenti che di turisti. Gli «interventi» sono tutti da verificare. Quelli sulla burocrazia sono i più dettagliati e vi si riconosce il piglio decisionista del sindaco Renzi. Per esempio, quando dice che le procedure in materia di spesa pubblica e beni demaniali vanno semplificate «sul modello che vale oggi per gli interventi militari», eliminando tra l’altro anche il potere dei Tar di sospendere gli atti. Resistenze arriveranno sicuramente sulle proposte di togliere l’obbligo per le imprese di iscriversi alle Camere di commercio e di cancellare i contratti a tempo indeterminato per i dirigenti pubblici.
Delicate le misure prospettate in campo fiscale, a partire dall’aumento delle tasse sulle rendite finanziarie per coprire un taglio del 10% dell’Irap sulle aziende. Scarse le informazioni sulle misure direttamente orientate alla creazione di posti di lavoro. Per ora si indicano sette «piani industriali» in altrettanti settori dell’economia, dal made in Italy al Nuovo Welfare. Un ritorno alla politica industriale o alla programmazione?

l’Unità 9.1.14
Governo ad alta tensione
Retromarcia sulla scuola ma è scontro Saccomanni-Carrozza
Intervista alla ministra: «Basta togliere all’istruzione»
Letta blinda Saccomanni
articoli di Andriolo, Di Giovanni, Lombardo


l’Unità 9.1.14
Se i docenti ritrovano la voce
Cari docenti, così abbiamo vinto
di Mila Spicola


il Fatto 9.1.14
Dossier docenti. “Non è una questione di soldi così continuano a umiliarci”
C’è chi ha due lauree ma guadagna 1.348 euro al mese. Chi invece ha solo i risparmi per acquistare un’auto usata
“Se siamo sfigati, allora lo è l’intero Paese”
di Salvatore Cannavò


Mila Spicola ha 252 studenti da governare. Ed è contenta. Indignata ma contenta. “Lo sai che ti dico, a noi dei soldi, in fondo, non importa nulla. Qualcuno ha visto gli insegnanti nelle strade, rivoltare i cassonetti, protestare per i mancati aumenti? No, mai. Forse abbiamo anche sbagliato, ma la situazione è questa. A noi interessa questo lavoro, lo facciamo davvero per passione. Loro, invece ci umiliano. soprattutto quando parlano solo di soldi”. Nonostante faccia parte della direzione del Pd versione Renzi, Mila Spicola resta sempre un’insegnante in prima linea. Lavora a Palermo, nel quartiere Brancaccio, “quartiere a rischio” sottolinea con orgoglio. E insegna Educazione artistica in nove classi. “Così ho la bellezza di 252 studenti da seguire”. Quello che le fa male non è essersi vista richiedere indietro 150 euro al mese, ma il fatto che un ragazzo qualsiasi cresca con l’idea “che noi insegnanti siamo degli sfigati”. “Siccome viviamo in un mondo che valorizza quanto guadagni e non il lavoro che fai, i ragazzini che idea devono farsi di noi? ”.
LA REAZIONE degli insegnanti mediamente è questa. Quella di chi è anche disposto a fare i sacrifici, anzi li ha fatti più di altri, ma vorrebbe un’idea di scuola che nessun governo, finora, ha portato avanti.
Il giorno dopo il “pasticciaccio” degli scatti di anzianità, il governo ha messo in mostra l’ennesima scena imbarazzante. A un certo punto hanno tremato gli Ata, i “bidelli”, per i quali sembrava che la restituzione non sarebbe scattata. Ma in serata la ministra li ha rassicurati. Solo che, come denuncia l’Anief, i soldi ripristinati per gli scatti sarebbero prelevati dal fondo per il Miglioramento dell’offerta formativa e quindi si scaricheranno sui singoli istituti. Il Movimento 5 stelle, poi, con la deputata Silvia Chimienti, ricorda che “la Finanziaria di Tremonti del 2008 prevedeva che il 30% dei tagli alla scuola pubblica avrebbe dovuto essere impiegato proprio per pagare gli scatti. Dove sono finiti questi soldi? ”. Già.
Se nei convegni e nelle dichiarazioni programmatiche la scuola per la politica occupa uno spazio enorme, nei fatti viene relegata a ruolo di ancella. Francesco Cori, trentenne romano, è precario da cinque anni. Si occupa di sostegno, non sa se il prossimo anno lavorerà, eppure a Natale ha ricevuto un “regalino” inaspettato: “Non mi hanno pagato le ferie maturate e, di fatto, mi hanno rapinato di mille euro”. Per spiegare come vive, e come vivono i suoi colleghi, utilizza l’espressione “panico permanente”. “Di fatto, non c’è mai tregua: quest’anno la vicenda degli scatti, l’anno scorso l’aumento dell’orario, poi il taglio di un anno alle superiori, il reclutamento diretto, i soldi alle private che aumentano sempre”. “A volte, ride, sembra di stare a fare il volontario”. Ma anche lui conferma le parole di Spicola: “Questo lavoro si fa per passione: ci sono tanti difetti, i colleghi che non lavorano, quelli che vanno in burnout, quelli che si stancano subito. Ma voglio ricordare che io lavoro a 1.200 euro al mese per dieci mesi e non so se lavorerò il prossimo anno”.
Spicola, che insegna alle medie dal 2006, ha due lauree, due dottorati e due master, di euro al mese ne guadagna 1.348 “mentre leggo di dirigenti della Pubblica amministrazione che, a Palazzo Chigi, per leggere delle email, hanno avuto un premio produzione di 30 mila euro”. Le chiediamo di raccontarci una giornata tipo e allora viene fuori che l’orario ufficiale è solo di facciata: “Oltre alle 18 ore in classe io ho il consiglio di classe, quello straordinario per i gravi problemi (e al Brancaccio non mancano), gli scrutini, il collegio docenti, le funzioni strumentali (programmazione, orientamento, viaggi, etc.), il ricevimento dei genitori e i compiti in classe, 500 a quadrimestre”. “Se ci trattano da ‘sfigati’, spiega, vuol dire che è questo Stato a essere sfigato. La nuova geografia del lavoro segue l’istruzione: Cina, Brasile, Usa”.
EPPURE, tanta consapevolezza non sembra esistere ai piani più alti. Ne è convinto anche Girolamo De Michele, docente di Storia e filosofia all’Ariosto di Ferrara, autore del libro La scuola è di tutti, il quale condivide l’idea che la scuola sia stata tenuta in vita dagli insegnanti, nonostante i governi. “La ministra Carrozza vuole fare la consultazione sulla scuola? Potrebbe leggersi la montagna di materiale, libri compresi, già prodotto dai docenti oppure ascoltare i consigli di Istituto, i collegi docenti, le strutture interne alla scuola”. Anche lui minimizza la questione salariale: “Siamo senza contratto dal 2003, l’ultimo aumento è del 2006, quando riprenderanno gli scatti, se riprenderanno, avremo comunque perso 9 anni di aumenti che incideranno sulla nostra pensione, che si vuole di più? ”. Eppure ammette che sul libretto postale ha solo i risparmi “per l’acquisto di un’auto usata” ma se avesse dovuto restituire i 150 euro “non ce l’avrei fatta a tenerli”. Poi rivela un particolare prezioso: “Quando ho saputo che avrei preso quei soldi a scapito dei fondi per le attività pomeridiane mi sono sentito un ladro, ho provato vergogna nonostante fossero soldi miei”.
La vergogna e l’orgoglio di insegnare, la scuola italiana è ritratta da queste istantanee dell’assurdo. Le stesse di chi, come Spicola, dice che al bisogno di scioperare si associa il desiderio di non bloccare la scuola, “di non danneggiare i ragazzini”. E oggi, qual è lo stato d’animo dominante? De Michele si sente “l’esistenza rovinata” ma gli altri due sono d’accordo nel dire che prevale la passione. “La scuola la teniamo noi, non il grigiore di Saccomanni”. Fino a quando durerà?

il Fatto 9.1.14
La resistenza dei professori
Più ci bastonano, più non molliamo
di Luigi Galella


È un po’ come la storia del cane Buck. Qualcuno ricorderà il protagonista del Richiamo della foresta di Jack London. Un cane fiero, che viene “addestrato” con una mazza, con estrema violenza, e sulle prime abbaia e ringhia, chiedendosi ragione di quel trattamento, non essendone abituato - è un cane intelligente, il narratore stesso della storia - ma colpo dopo colpo la sua rabbia arretra, perché c’è una scienza dietro l’arte di un simile apprendistato, fino al punto in cui la “civiltà” dell’ubbidienza lo conquista.
Perché stupirsi se si continua a colpire gli insegnanti col bastone?
Qualche volta, in fondo, arrivano anche le carote, con l’intento di blandirli. Ogni tanto ci si ricorda di mostrargliele. Vent’anni fa era Prodi - con la promessa di ricostruire l'idea stessa della politica intorno alla scuola e alla cultura - e i suoi comitati della “Scuola che vogliamo”. Poi iniziò l'avventura breve del suo governo e Luigi Berlinguer, al ministero della Pubblica Istruzione, prese a riformarla, tagliandola. Da allora ad ogni presunta riforma, un taglio. Intanto, con le prime “contrazioni” delle classi. Si chiamano così e vuol dire, semplicemente, che il numero degli alunni aumenta e il budget della scuola diminuisce. Tagli su tagli fino all’ultimo governo Berlusconi e all'ineffabile Tremonti - il coltissimo teorico del celebre assioma: “Con la cultura non si mangia” - il più ingordo di tutti i ministri, che in un solo squarcio divorò 8 miliardi.
DOPO TANTO “addestramento” non c’è da stupirsi se il governo attuale richieda indietro la risibile somma di 150 euro che una “tecnicalità errata”
- usano queste orribili parole - ha distribuito, per scatti di anzianità non dovuti.
Dopo il disincanto - si veda Jack London - subentra l’assuefazione. Forse facendo proprio leva su questo, ai ministri del governo Monti venne l’ideona - da valenti economisti - di aumentare la “produttività” portando le 18 ore di impegno della didattica frontale, previste in tutti i paesi europei (in Germania ne fanno 22 ma di 45 minuti, guadagnando quasi il doppio) a 24 ore settimanali. Perché non 36 allora? Perché non 40? Quando uno di questi politici parla di scuola, la sensazione è che non sappia che cosa dica. Che proprio non la conosca. Forse l’ha rimossa. Forse quella pubblica non l’ha mai visitata. E la scuola italiana sta diventando un non luogo, letteralmente un’utopia.
Tuttavia pur non mettendoci piede e pur non esistendo, come un non-luogo, è ancora possibile calpestarla. Lo si fa giornalmente, ignorandola; lo si fa con le finanziarie, tagliando o dispensando le poche briciole dell'ultima legge di Stabilità, fatte passare come un’importante “inversione di tendenza”; lo si fa infine con le “tecnicalità” da correggere.
MA LA SCUOLA, nonostante tutto, è ancora viva. Viva di un atteggiamento “resistente”, che forza i limiti della realtà. Come se ci si trovasse in guerra, abituati alle bombe che cadono, e con sprezzo del pericolo o con l’incoscienza dovuta all'assuefazione, si facesse finta di nulla.
La scuola vive del rapporto che i docenti - spes contra spem - instaurano coi propri alunni. Vive di simili romanticherie, che pur essendo foscoliane illusioni hanno più forza di una realtà così sorda e un tantino spregevole.
Siamo, noi docenti, come il cane Buck. Bastonati e addestrati. Ma coltiviamo ancora la forza illusoria di uno “spirto guerrier” ch’entro ci rugge.

Repubblica 9.1.14
I 45mila insegnanti troveranno la restituzione in busta paga
Ora l’esecutivo deve trovare 40 milioni taglierà l’offerta formativa delle scuole
di Corrado Zunino


ROMA — Retromarcia: gli scatti d’anzianità ottenuti nel 2013 dagli insegnanti non vanno restituiti. L’insurrezione di docenti, sindacati, parlamentari del Pd (suggellati dall’intervento del segretario Renzi) ha procurato, ieri mattina alle 8,30, una riunione d’urgenza di un pezzo del governo sul tema “buste paga della scuola”. Il premier Enrico Letta ha convocato i ministri dell’Economia Saccomanni e dell’Istruzione Carrozza (che ha fermato il suo viaggio a Washington) e dopo due ore è riemerso dalla riunione con iltweet atteso: «Insegnanti non dovranno restituire 150 euro percepiti nel 2013 a seguito della contorta vicenda scatti... «. La busta paga è salva. I 45 mila tra docenti e personale amministrativo il prossimo 27 gennaio troveranno sul cedolino due voci: prelievo di 150 euro (già stampato) e contemporaneamente restituzione di 150 euro (da aggiungere).
Chiusa la riunione politica si sono aperti i tavoli tecnici alla ricerca dei soldi (35-40 milioni) ora mancanti nei bilanci di Stato. Saccomanni ha fatto notare che quel denaro andrà recuperato nei bilanci dell’Istruzione, come da legge del 2010. «Nella ricerca sono a buon punto», dicono fonti del Mef. Come da prima ipotesi, gli scatti dei docenti saranno pagati togliendo soldi all’offerta formativa delle scuole. «Carta igienica, gessetti e toner per le stampanti continueranno a essere in carico dei genitori », sottolinea il sindacato Anief.
Dopo il botta e risposta di martedì sulle responsabilità del gran pasticcio (risolto in extremis), anche ieri le versioni tra i ministri sono rimaste lontane. Maria Chiara Carrozza: «Gli uffici del Mef hanno preso una decisione senza avvertirci». Fabrizio Saccomanni: «Il 9 dicembre abbiamo mandato una nota allaquale non c’è stata risposta». Il ministro dell’Istruzione ora assicura un’analisi interna, «capiremo chi ha sbagliato», e garantisce: «Rivedremo il processo decisionale, non è possibile che da una parte si decidono le cose per 800 mila insegnanti e dall’altra come e quando si pagano gli stipendi. Serve una riforma dello Stato ». I sindacati, dopo il primo successo, non mollano la presa. La Cgil scuola: «O la scuola viene messa al centro dell’azione di governo o sarà sciopero generale».

il Fatto 9.1.14
Pensioni, larghe intese ma per salvare quelle d’oro
Cestinata la mozione Pd che abbassava il contributo sugli assegni sopra i 60mila euro, bocciate le proposte dell’opposizione
La versione annacquata fa infuriare i renziani
di Luca De Carolis


Si sono ricompattati per scongiurare (veri) tagli alle pensioni d’oro. Con buona pace del nuovo corso di Renzi: proprio lui, che dipingeva come troppo alta la pensione di reversibilità da 3 mila euro della nonna (“La prende ancora anche se i figli sono grandi”). Ieri pomeriggio alla Camera la maggioranza delle ristrette intese ha bocciato tutte le mozioni dell’opposizione sulle mega-pensioni. Atti di indirizzo politico (non vincolanti per il governo),con cui M5S, Fratelli d’Italia, Sel e Lega chiedevano misure urgenti per recuperare soldi da destinare altrove. A cominciare dalle pensioni minime (495 euro mensili), che rappresentano il 13 per cento del totale. Distanti anni luce dai 24 mila euro al mese riservati a 300 italiani. Ma Pd, Nuovo Centrodestra e Scelta Civica hanno tirato dritto.
   PER LORO basta il pannicello caldo della norma inserita nella legge di Stabilità. Ovvero, il contributo di solidarietà per le pensioni più alte, ripartito in tre scaglioni: il 6 per cento per la parte eccedente i 90 mila euro, il 12 per cento per la quota sopra i 128 mila euro, il 18 per la parte sopra i 193 mila euro. Norma su cui pesa l’ombra della Consulta, che nel giugno scorso aveva bocciato come incostituzionale il contributo di solidarietà sulle pensioni voluto dal governo Monti (e prima da quello Berlusconi), ritenendolo “irragionevole e discriminatorio perché ai danni di una sola categoria di cittadini”. La certezza è che ieri in aula i partiti della maggioranza hanno respinto tutte le mozioni, ricalcando il parere contrario del governo. Per poi votarsi il proprio testo, con cui invitano il governo a “monitorare gli effetti delle misure contenute nella legge di Stabilità 2014” (il contributo, ndr), valutando in seguito nuove norme che realizzino “maggiore equità” su pensioni d’oro e cumulabilità dell’assegno pensionistico. Una scatola vuota, insomma: molto diversa dall’originaria mozione del Pd, che prevedeva una trattenuta sulle pensione superiori ai 60 mila euro, da destinare “alle fasce più deboli”. Stracciata, in nome delle intese. Collaborativa Forza Italia, che si è astenuta su tutte le mozioni. Così è caduto nel vuoto il testo di Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia), che prevede un tetto massimo di 5 mila euro entro il quale le pensioni non vengono toccate. “Sopra quella soglia - spiega Meloni - si calcolano i contributi previdenziali. Se non sono stati versati i contributi corrispondenti, la parte eccedente il tetto viene tagliata e con i risparmi si aumentano pensioni minime e di invalidità”. Proprio ieri, sul Fatto , la deputata aveva invitato Cinque Stelle e Renzi a convergere sulla sua proposta. Ora spiega: “Sono delusa. M5S ha proposto di tassare progressivamente tutte le pensioni, comprese le minime: una follia. E se questa è la nuova sinistra del 40enne Renzi...”. La mozione di Cinque Stelle “evocata” dalla Meloni prevedeva 9 aliquote progressive, dallo 0,1% sulle pensioni una volta superiore a quella minima ,fino al 32% su quelle 50 volte superiori alla cifra base. Scopo, ricavare oltre un miliardo e 400 milioni, con cui aumentare i trattamenti minimi. L’ha presentata Giorgio Sorial, che in aula ha mostrato le maschere di vari pensionati d’oro, invocando: “Basta con nonno Mario (Monti), e lasciate stare nonno Giuliano (Amato) che con un mese di pensione può comprare una fuoriserie al nipotino”. Botta anche per Renzi: “È stato assunto come dirigente dalla società della sua famiglia. E così il Comune e la Provincia di Firenze pagano i contributi per la sua pensione”. E le critiche alla mozione di M5S? Sorial replica: “L’abbiamo studiata così per aggirare obiezioni della Consulta sul carattere egualitario del testo. Ma in commissione Lavoro c’è una nostra proposta di legge per riformare il sistema”. In commissione c’è anche il ddl della Meloni, analogo alla sua mozione. Dovrebbe approdare in aula a breve. A margine, il renziano Roberto Giachetti. Ieri presiedeva l’aula e non poteva votare. Ammette: “Erano mozioni, la maggioranza poteva tranquillamente votarle: io avrei appoggiato quella della Meloni. È stato commesso un grande errore: dovevamo dare un segnale”.

l’Unità 9.1.14
Fiat, il governo non può stare a guardare»
La Fiom incontra oggi il Lingotto per il rinnovo del contratto di gruppo
Landini chiede un tavolo unico e un impegno sugli investimenti in Italia
di Massimo Franchi


il Fatto 9.1.14
Termini Imerese, rabbia e solitudine ai cancelli Fiat
Protesta degli operai disperati dopo le prime lettere di licenziamento per l’indotto
“Altro che conquista degli Usa, Marchionne ci caccia a calci in culo”
di Enrico Fierro


Sono operai disperati, traditi e soli. Con loro davanti ai cancelli della fabbrica non c’è nessuno. Deputati regionali, senatori e parlamentari di Roma, quelli che a ogni elezione, puntualmente, bussano alle porte delle loro case per chiedere voti, quelli che nei salottini delle tv sicule, la bocca a culo di gallina e lo sguardo perso nel vuoto, discettano di Mediterraneo e sviluppo, non si vedono. La Fiat chiude, arrivano le prime lettere di licenziamento, a Termini Imerese esplode la rabbia. “Qui ci giochiamo tutto, migliaia di famiglie rischiano di perdere anche quei quattro soldi della cassa integrazione, la miseria bussa alle case della gente e non si vedono prospettive”. Roberto Mastrosimone, operaio e segretario della Fiom ha convinto gli altri sindacati e i suoi compagni a fare un presidio davanti ai cancelli. La gente è stanca, sfiduciata, arrabbiata, impaurita. “Dopo quattro anni di tavoli interministeriali non abbiamo un imprenditore che voglia investire a Termini, a giugno scade la cassa integrazione in deroga, ma se ad aprile non c’è una soluzione la Fiat può licenziarci tutti. E allora bisogna lottare, anche occupare la fabbrica se serve, e chi non ci sta non scassi la minchia e lo dica”, urla al microfono. Una voce che si perde nel mare della crisi italiana.
NELLA TESTA degli operai, delle loro famiglie, di chi in Fiat era entrato da poco e oggi è giovane, e di quelli che sono invecchiati dentro la fabbrica, frullano gli interrogativi: quanto contiamo, chi è disposto a investire qui, in questo nucleo industriale in riva al mare? Finora i quattro imprenditori proposti dalla short-list compilata da Invitalia, la società governativa per “attrarre investimenti”, si sono rivelati un’enorme bufala. Due di loro sono finiti in manette, un terzo è fallito, Dr Motors di Massimo Di Risio, l’imprenditore molisano assemblatore di fuoristrada made in China, non si è più visto. L’unico dato certo sono le 170 lettere di licenziamento arrivate agli operai di due ditte dell’indotto, ma è solo il preludio di una tempesta che rischia di travolgere Termini e la Sicilia. La chiusura della fabbrica si è già mangiata lo 0,46% del Pil siciliano, qualcosa come 825 milioni tra produzioni Fiat e indotto, con 3500 posti di lavoro a rischio. Il resto dell’agglomerato industriale di Termini Imerese è un cimitero. Ferma la produzione il capannone che trasformava agrumi (63 posti), il cantiere navale (18 licenziati, 98 in mobilità), sbarrano la porta i supermercati (una ventina di lavoratori a casa), fallisce l’illusione della piccolo Hollywood della Trinacria, la fiction di Agrodolce, che aveva promesso miracoli e posti di lavoro è finita con 200 tecnici e 60 tra attori e comparse a spasso. “Colpi durissimi per la città”. Salvatore Burrafato, Totò, è il sindaco di Termini Imerese, è davanti alla fabbrica anche lui, unico politico lasciato solo di fronte alla disperazione. Lo contestano. “È una diga che non riusciamo più a tenere – ci dice – non so più che risposte dare alla gente che viene da me per chiedere aiuto. Abbiamo tagliato tutto, le spese superflue del Comune (anche il suo stipendio, abbassato a 532 euro al mese, ¼ di quanto previsto dalla legge per una città di 27 mila abitanti, ndr), le consulenze, ma non basta, è poco. Quando centinaia di famiglie non avranno più alcun sostegno economico succederà di tutto”.
IN CITTÀ aumentano le sale scommesse, i “Compro oro” promettono buoni affari, i negozi chiudono. È il Sud che esplode, “La Fiat ci ha traditi”, dice con amarezza il sindaco. Ed è vero. Tutto qui per anni è stato organizzato in funzione della Grande Fabbrica, anche il destino delle generazioni future. Questo hanno voluto le classi politiche degli anni Settanta e Ottanta del secolo passato, quelli che i posti di lavoro li vendevano in cambio di voti, con gli intellettuali, i mille paglietta da panchina, persi a discettare sulle grandezze di Imera e sulla malvagia Cartagine. La realtà è l’operaio di 57 anni che ci parla con le lacrime agli occhi. “Quando sono entrato qui avevo 23 anni, ho lavorato sempre in catena di montaggio, ho cresciuto i figli e ringrazio il signor Agnelli, ma oggi, dopo una vita, il signor Marchionne mi caccia a calci in culo. Sono troppo vecchio per lavorare e troppo giovane per una pensione di merda”. “Io ne ho 40 di anni – ci racconta un altro – da dieci lavoro qui, voglio darmi da fare, volevo fare un corso specializzato per computer, ma devo andare a Trapani...”. Centinaia di chilometri per imparare un nuovo mestiere nella Regione dello scandalo della formazione professionale, dei corsi per barman ed estetista, delle mogli dei boss politici finite in manette perché lucravano sui soldi pubblici. Cinque ministri (Scajola, Berlusconi, Romani, Passera, Zanonato) hanno messo le mani sul cadavere della Fiat di Termini: soluzioni zero. Ma la beffa più grande sono i finanziamenti. “Per far ripartire lo stabilimento – ci spiega Roberto Mastro-simone – sono pronti 450 milioni, 300 per l’accordo di programma per la reindustrializzazione, 150 per la riqualificazione infrastrutturale. Soldi che fanno gola, ma solo a gente che vuole speculare”. Gli operai si sentono sconfitti. “Siamo soli, chi se ne fotte di quattro morti di fame come noi. Sono tutti ad applaudire Marchionne che conquista l’America. Eppure la vedi la fabbrica, è pulita, in ordine, spendono centinaia di migliaia di euro per la manutenzione degli impianti. Se domani ci fanno entrare al lavoro possiamo ricominciare”.

l’Unità 9.1.14
Cannabis libera le ragioni del sì
di Sandro Gozi e Luigi Manconi


La Stampa 9.1.14
Lo spinello libero sarebbe la resa dopo la sconfitta
di Ferdinando Camon


Lei si fa di cocaina da un anno, lui esita e le chiede: «Com’è?». «Ricordi la prima volta che abbiamo fatto l’amore? Be’, mille volte di più». È un film tratto da un diario. Si può tirar fuori dal giro quei due, che han sentito la dolcezza mille volte più dolce? Troppo tardi. E quand’è che si poteva? Prima della prima droga leggera.
Ho lavorato anni nel primo Centro Regionale Anti-Droga fondato in Italia, e ricordo la polemica quando un collega preparò un librino da diffondere tra gli studenti: diceva che la marijuana dà un senso di «benessere». Lunga discussione, per correggere «benessere» in «euforia». Anche l’euforia è benessere, ma un benessere malato. Il ragazzo che prova la prima volta una tirata di spinello, o un quarto di pasticca, dice: «Tutto qui?». È una sensazione «di vittoria». La volta dopo fuma lo spinello tutto intero, o inghiotte tutta la pasticca. La pasticca è più pesante, certo. Ma il primo passo è pericoloso perché rende più facile il secondo. La pasticca si scioglie sprizzando un flash che brilla nel cervello, in quel lampo vedi di più, senti di più, hai l’impressione di godere di più. Ti piace. Ti piace che ti piaccia. Proverai quando vorrai, sei tu che comandi il giuoco.
Prima eri mezzo uomo, adesso sei un uomo intero. O se prima eri un uomo, adesso sei un superuomo. Potresti scrivere. O dipingere. Anche l’eroina, le prime volte, è piacevole. Anche la cocaina. La prima volta la cocaina ti lascia una nostalgia «straziante», ci pensi giorno e notte, anche dormendo. Se vuoi tener lontano un ragazzo dall’eroina o dalla cocaina, devi tenerlo lontano dalla marijuana. Chi ha la marijuana in circolo ha l’impressione che i colori si ravvivino e il tempo rallenti. È questo che dona euforia: il tempo si ferma, puoi goderti la vita con calma.
L’effetto della droga, sto ai diari e alle confessioni, è come un’onda che percorre il corpo, e l’onda dà la sensazione che adesso si sta bene mentre prima si stava male: la vita nella droga è sentita come guarigione, e la vita normale di prima è sentita come malattia. È malata la fretta, è malata la preoccupazione, è sana la calma, è sana l’indifferenza. Purtroppo la vita è una gara, e ritirarsi dalla gara significa ritirarsi dalla vita. L’euforia dura poco. Al calore subentra il freddo, che comincia dalle mani. Raffreddandosi, le mani tremano, se provi a scrivere fai degli scarabocchi. Allora subentra la paura, che in certi casi può diventare panico. La paura è maggiore negli studenti, minore nei lavoratori. Perché per lo studente la scrittura è un mezzo per rivolgersi agli altri, perdere la scrittura vuol dire perdere il mondo, essere perduto. È in quella fase, del freddo e della paura, che i ragazzi e le ragazze si spinellano in coppia. Spinellarsi in coppia vuol dire abbracciarsi.
Nelle scuole, i ragazzi che si spinellano aumentano le assenze e peggiorano i voti. Sono i peggiori della classe. Certo, il proibizionismo ha fallito. Ma la libera circolazione delle droghe leggere è una resa dopo la sconfitta.

il Fatto 9.1.14
Quando la politica si fa una canna
di Pino Corrias


SICCOME IN ITALIA non ci sono problemi urgenti da risolvere, nessuno evade le tasse, nessuno si ammala di cancro nella Terra dei Fuochi, l’Ilva ripulisce il cielo di Taranto, i detenuti non si suicidano, i ragazzi trovano un lavoro, le mafie si sono disarmate, gli insegnanti festeggiano i loro 150 euro, i politici non rubano, i giornali vendono, la Fiat fabbrica le migliori auto del pianeta e Pannella è andato in ferie, è sacrosanto aprire il dibattito sulla marijuana libera. Ascoltare le opinioni di due simpatici giovani senatori – Carlo Giovanardi e Luigi Manconi – che andando dallo stesso parrucchiere hanno tuttavia scelto di farsi ognuno la riga dalla parte opposta all’altro, uno contro la legalizzazione delle canne, l’altro a favore. E meno male che, al netto di Gasparri, nella contesa s’è aggiunto Nichi Vendola, incidentalmente governatore del cielo di Taranto, che sente anche lui “il bisogno di legalizzare la cannabis”, con la medesima urgenza – immaginiamo – con cui, un paio di anni fa, sentiva “il bisogno di sposare il mio compagno Eddy in Chiesa”. Lieto dibattito ci attende se la roba che gira è tanto buona da renderli già così eloquenti alle prime boccate dell’anno.

l’Unità 9.1.14
Famiglia e unioni gay
di Claudio Sardo


l’Unità 9.1.14
Sperimentazione, Stamina e la scelta che fece Luca
Maria Antonietta Farina Coscioni


Repubblica 9.1.14
Shalabayeva, la verità del prefetto “Alfano mi disse che quel caso minacciava la sicurezza nazionale”
Procaccini: “Ordinò che incontrassi l’ambasciatore kazako”
di Carlo Bonini


ROMA — Il prefetto in pensione Giuseppe Procaccini, 64 anni, capro espiatorio dell’affaire Shalabayeva, siede a un tavolo d’angolo del Caffé delle Arti, nella Galleria di arte moderna di Villa Borghese. «Ora ho finalmente il tempo per le mostre», sorride. Cita Cicerone («A me interessa più la mia coscienza di ciò che la gente dice di me») , il retore ateniese Isocrate, san Paolo («Ho combattuto una giusta guerra. Ho terminato la corsa. Ho mantenuto la fede») . Si commuove evocando un figlio che la malattia gli ha portato via troppo giovane. Poi si fa affilato. Certosino nel ripercorrere i dettagli di quei giorni della scorsa estate che hanno portato il ministro dell’Interno Alfano, di cui era capo di gabinetto, a un passo dalla sfiducia del Parlamento. Procaccini ha scelto di dimettersi. Alfano è rimasto al suo posto. Ma ora, nel racconto del prefetto, il ruolo del ministro nel caso Shalabayeva è cruciale. Così come si dimostrano false almeno due circostanze accreditate dallo stesso Alfano in Parlamento. Aver sostenuto di non essere stato informato dal suo capo di gabinetto della caccia al latitante. Aver sostenuto di essere trasecolato nell’apprendere dal ministro Emma Bonino, il 2 giugno, che esisteva una “questione kazaka” legata a un’operazione di polizia condotta nel nostro Paese.
Prefetto, perché incontrò al Viminale l’ambasciatore kazako la sera del 28 maggio?
«Non fu una decisione che presi di mia iniziativa. Quella sera, infatti, intorno alle 21.15, 21.20, raggiunsi Alfano a Palazzo Chigi. Dovevo consegnargli alcuni documenti e in quell’occasione il ministro mi informò che l’ambasciatore kazako lo aveva cercato perché aveva urgenza di comunicare con il ministero. Aggiunse quindi una cosa cruciale — ricordo con esattezza le parole — Mi disse che si trattava di una questione di grave minaccia alla pubblica sicurezza ».
“Grave minaccia”?
«Esattamente. E per questo motivo decisi di rientrare immediatamente nel mio ufficio. Da lì, chiamai l’ambasciatore il quale, dopo le 22, mi raggiunse al Viminale. Qui, come è ormai noto, l’ambasciatore mi riferì di Ablyazov, della segnalazione dell’Interpol, dell’asserita pericolosità di quest’uomo che definì un nototerrorista e dei colloqui da lui già avuti in Questura, che, per altro, aveva già provveduto alla localizzazione della villa di Casal Palocco e avrebbe condotto di lì a poche ore il blitz».
Perché Alfano aveva maturato l’idea che Ablyazov rappresentasse una “grave minaccia”?
«Non ne ho idea. Non me lo spiegò e io non glielo chiesi».
Ritiene che il ministro avesse parlato con l’ambasciatore?
«Non saprei. È possibile che altri gli avessero riferito della sostanza delle informazioni dell’ambasciatore kazako».
Quando tornò a parlare con Alfano della vicenda?
«Il mattino successivo, il 29 maggio. Lo informai verbalmente della visita notturna dell’ambasciatore, del blitz nella villa di Casal Palocco e del suo esito negativo».
Lo informò del fermo della moglie, Alma Shalabayeva?
«No. E non avrei potuto. Perché a mia volta io ignoravo la circostanza. Il Dipartimento non mi aveva informato».
La mattina del 29, informò Alfano che l’ambasciatore era tornato al Viminale per sollecitare un’altra perquisizione nella villa?
«No. Lo ritenni superfluo. Anche perché quella seconda visita e la sua insistenza mi provocò del fastidio. Che l’ambasciatore per altro avvertì. Si giustificò infatti sostenendo di essere tornato nel mio ufficio solo per ringraziarmi e per lasciarmi in ricordo un calendario kazako e una medaglietta con l’immagine di Astana, la capitale del Paese».
In che occasione riparlò con Alfano della vicenda Ablyazov?
«Il 2 giugno, quando mi riferì del colloquio che aveva avuto con il ministro Bonino e mi chiese di informarmi di quanto accaduto con la signora Shalabayeva. Fu quella la prima occasione in cui appresi che nella vicenda c’erano una donna e sua figlia».
Ebbe la sensazione che Alfano avesse quantomeno collegato la Shalabayeva di cui “nulla sapeva” all’operazione Ablyazov che aveva invece sollecitato?
«Il ministro mi diede l’impressione di aver ricollegato le due vicende. Anche perché erano passati pochi giorni».
Perché lei si è dimesso?
«Il ministro era molto preoccupato. Il Governo era a rischio. E io ho sempre ritenuto che essere un civil servant significhi anche assumersi responsabilità che magari non sono proprie, ma comunque interpellano la credibilità dell’Amministrazione cui si appartiene».
Alfano provò a convincerla a restare al suo posto?
«La sera del 17 luglio gli consegnai di persona la mia sofferta lettera di dimissioni che lui ritenne di non leggere. Almeno di fronte a me. Mi dispiacque solo come comunicò le mie dimissioni al Senato. Le rese un gesto banale».
Non crede che se l’ordine di procedere su Ablyazov non fosse arrivato da Alfano in questa storia le cose sarebbero andate diversamente? E forse la Shalabayeva non sarebbe mai stata consegnata ai kazaki?
«Ci ho riflettuto a lungo. È possibile che l’input arrivato dall’autorità politica abbia reso tutti più realisti del Re. Alfano era appena diventato ministro e magari qualcuno ebbe paura di essere impallinato per scarsa attenzione o zelo rispetto a una vicenda definita appunto una grave minaccia per la sicurezza pubblica».
Che fine ha fatto il calendario kazako che le ha regalato l’ambasciatore?
«L’ho conservato per un po’. Poi l’ho buttato quando ho traslocato dall’Eur, dove alloggiavo in una casa dell’Amministrazione, al quartiere san Paolo».
E la medaglietta di Astana?
«L’ho regalata. Non ricordo se a un commesso o a un autista».

Repubblica 9.1.14
Francia
Oggi l’udienza per l’estradizione di Ablyazov I legali: “Temiamo lo riportino in Kazakhstan”


ROMA — È fissata per oggi l’udienza della Corte di appello di Aix-En-Provence, che dovrà decidere sull’estradizione dalla Francia di Mukhtar Ablyazov, detenuto in isolamento nella prigione di Luynes dal 31 luglio scorso, quando fu arrestato dalla polizia francese. Su di lui pendono le richieste di Russia e Ucraina (non del Kazakhstan, che non ha accordi di estradizione con la Francia). «Ma siamo sicuri che i due Paesi lo tratteranno in modo giusto? — si chiedono i legali del dissidente — Temiamo che possano riportare Ablyazov nelle mani del dittatore Nazarbaev».

il Fatto 9.1.14
Furio Colombo
La vera storia dei Marò


CARO FURIO COLOMBO, sarei interessato a conoscere con precisione i fatti che hanno portato all’arresto dei nostri due fucilieri di Marina accusati di avere ucciso due pescatori indiani. Non capisco se i nostri due soldati debbano essere considerati quasi degli eroi, come sembra far intendere il nostro presidente della Repubblica, o degli scriteriati.
Mario

LA DOMANDA è legittima visto che tutti i media italiani, compresi quelli in grado di seguire la vicenda sul posto, sembrano implicare (però senza affermazioni provate e decisive) l’estraneità dei due italiani all’incidente mortale e il fatto che gli indiani sono investigatori mossi dal pregiudizio. Ma non è così semplice. Per capire bisogna restare sul versante italiano. Qualche lettore noterà che mi ripeto, su questo argomento, ma mi sembra inevitabile. Primo. Come mai, per ordine di chi e con quali “regole di ingaggio” i due militari (ma non erano solo due) sono stati imbarcati su una nave commerciale italiana? Sappiamo tutti della questione pirateria. Ma dobbiamo credere che in questo momento ogni nave privata italiana viaggia con militari italiani a bordo, armati e pronti a sparare? Manca la risposta e manca l’insistenza dei media italiani ad avere la risposta. Secondo. I due marinai accusati non hanno e non potevano avere libertà di decisione, dato il loro grado militare. Chi ha dato l’ordine? Se hanno agito senza un ordine, essi devono risponderne prima di tutto ai loro superiori italiani. Se c’è un ordine, di chi? La domanda è importante, perché chi ha dato l’ordine deve rispondere anche penalmente (si tratta di militari) in ambito nazionale e internazionale in luogo di chi ha eseguito l’ordine. Terzo. Fino a questo momento sappiamo che l’evento è avvenuto in acque territoriali internazionali. Manca un accertamento e non si capisce perché l’Italia, ma anche le organizzazioni internazionali (Onu) abbiano lasciato in sospeso questo punto. Quarto. Perché il comandante della nave privata italiana ha consegnato i due soldati italiani, da cui faceva difendere il suo carico privato, alla polizia indiana? Non si trattava di mercenari. Data la catena disciplinare, la giurisdizione era sicuramente italiana e infatti non si ha memoria di alcun precedente del genere: un Paese non porta in giro per il mondo i suoi soldati per poi consegnarli a un altro Paese in caso di incidente. Il giudice indiano non può essere giudice terzo. È il rappresentante non solo del punto di vista, ma anche dei sentimenti della controparte. I due marinai italiani non sono, e non dovrebbero essere celebrati come eroi, se non altro perché non sappiamo nulla del loro comportamento, delle regole di ingaggio e degli ordini ricevuti (e prima ancora del perché, e con l’autorizzazione di chi, erano a bordo). Ma non possiamo abbandonarli perché è impossibile che possano rispondere personalmente di un delitto non privato, non personale, ma commesso (se commesso) in nome e per conto della Repubblica italiana che li ha assegnati a quella nave. Solo un tribunale militare italiano, con il dovuto monitoraggio indiano, o un giurì internazionale sostenuto dalle Nazioni unite, può essere il luogo giusto per trovare le risposte a una situazione contorta e distorta in tutti i suoi punti. La calma bravura con cui il ministro degli Esteri Bonino ha saputo far tornare libera Alma Shalabayeva e la sua bambina, potrà forse trovare una rapida e decorosa via d’uscita a questo insieme di gravissimi errori (dal delitto in mare al processo in India).
   Furio Colombo

La Stampa 9.1.14
Morto in carcere Roberto Sandalo, il pentito che portò Cossiga alla sbarra Combattente di Prima Linea, rivelò la militanza del figlio di Donat Cattin
Scarcerato passò alla militanza anti-islamica
Nel 2008 viene arrestato dopo una serie di attentati a centri culturali musulmani e a moschee
di Mauro Baudino

qui

Corriere 9.1.14
I dieci milioni spariti dalle casse dei Camilliani
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Una «rete» di 47 società utilizzate per riciclare denaro e trasferirlo all’estero. Ma anche per occultare i soldi di alcuni clienti. Agiva così Paolo Oliverio, il fiscalista arrestato per aver gestito in maniera illecita gli affari dei Camilliani. E dal suo archivio segreto, custodito in una pen drive e in un computer e sequestrato al momento della cattura, emergono nuove e inquietanti vicende. Perché si scopre che dalle casse dell’ordine religioso sarebbero spariti ben 10 milioni di euro. Soldi che il professionista avrebbe sottratto grazie al «sistema» di spostamento dei fondi su conti aperti in Romania. Un meccanismo gestito con la complicità di alcuni finanzieri che in cambio di decine di migliaia di euro erano disponibili anche a chiudere le verifiche fiscali.
Le indagini affidate dal pubblico ministero Giuseppe Cascini al colonnello della Guardia di Finanza Cosimo De Gesù hanno già individuato alcuni militari «infedeli». Ma il sospetto è che il numero degli ufficiali a disposizione possa essere ben più ampio, tanto che in una delle informative allegate agli atti processuali si evidenzia come la corruzione di pubblici ufficiali sia avvenuta «attraverso rapporti illeciti con politici,uomini delle forze di polizia, banchieri esponenti politici che sostenevano il modus operandi dell’organizzazione nelle illecite operazioni bancarie con utilizzazione di canali esteri». Per questo sono state disposte nuove verifiche sui nomi emersi dai dossier riservati che Oliverio aveva confezionato potendo contare su informazioni provenienti anche da alcuni 007 con i quali risulta essere in stretto contatto.
C’è poi il capitolo che porta in Vaticano e ad aprirlo è stato il generale superiore dei Camilliani Renato Salvatore — arrestato con il fiscalista agli inizi di novembre per aver fatto sequestrare due preti che si opponevano alla sua rielezione al vertice dell’ordine religioso — con una dichiarazione rilasciata davanti al giudice. Il religioso ha spiegato che «Oliverio mi fu accreditato da alcuni alti prelati con i quali era in contatto». Salvatore ha poi confermato la sparizione dei fondi della Provincia Siculo-napoletana e ha ammesso di aver custodito alcuni documenti giudiziari per conto di Oliverio «perché lui me lo chiese e io non conoscevo affatto il loro contenuto». Si trattava degli atti relativi all’inchiesta P3 e adesso si sta cercando di verificare se anche alcuni personaggi coinvolti potessero essere tra i clienti di Oliverio oppure vittima di uno dei suoi ricatti.
Le «schede» contenute nell’archivio sono centinaia. I file comprendono sia documenti originali, sia relazioni compilate da Oliverio su fatti e persone. Ora bisogna capire chi ne fosse a conoscenza, soprattutto che utilizzo è stato fatto di quelle notizie, anche a livello istituzionale. Il sospetto è che pure alcuni finanzieri coinvolti nell’attività illecita abbiano sfruttato le informazioni acquisite in un gioco di ricatti che i magistrati ritengono di «ampia portata». Anche perché sono stati accertati i legami tra il fiscalista e alcuni esponenti di primo piano delle famiglie di ‘ndrangheta. Boss che si sarebbero serviti di lui per ripulire il denaro sporco. Usando spesso proprio i canali dei Camilliani, le loro società, e arrivando a «schermare» il passaggio di denaro con gli appalti per la ristrutturazione degli ospedali in Campania, Calabria e Sicilia gestiti dai religiosi. Non a caso la richiesta di scarcerazione di Oliverio è stata negata dal giudice in attesa dell’esito dei nuovi accertamenti sull’archivio disposti dal pubblico ministero.

Repubblica 9.1.14
E-democracy
Quel che resta della politica se dalle piazze si passa al web
Le consultazioni online diventano sempre più frequenti
Vantano alcuni successi, ma anche clamorosi fiaschi
E l’Italia è considerata la loro frontiera avanzata
di Riccardo Luna


Fra i risultati del dibattito in rete, la Costituzione islandese, il voto in Estonia i bilanci partecipati in Brasile
Diverse volte nel nostro Paese si è sollecitata la partecipazione Ma senza molti esiti

Una consultazione online fa molto chic e ancora non impegna (purtroppo). Come certi bracciali di bigiotteria che servono a fare scena per una sera e basta. Con lo stesso meccanismo, quando non si sa bene cosa fare, con la e-democracy non si sbaglia. E così accade che la democrazia elettronica, che pure sarebbe un obiettivo teoricamente meraviglioso, è diventata l’ultima moda della politica in crisi di autorevolezza e a corto di idee, non solo in Italia; e come tutte le mode rischia di sparire al prossimo cambio di stagione. Non funziona!, diranno per sbarazzarsene. Quando in realtà stanno facendo di tutto per non farla funzionare. E se davvero dovesse andare così sarebbe un peccato perché in tanto confuso attivismo c’è del buono. C’è la promessa di una trasparenza dei dati pubblici utile e non legata al mito grillino degli scontrini del bar. C’è la speranza di una partecipazione dei cittadini alla vita pubblica non rissosa o biliosa, ma competente e collaborativa (possibile con l’aria fetida che si respira a volte sul web? Pare di sì). E c’è il mito del governo “open”, “aperto”, quale unica via per rafforzare e rilanciare l’esangue democrazia rappresentativa.
Gli ultimi segnali in questa direzione sono molto forti. E indurrebbero un cauto ottimismo. Per esempio alla fine di novembre nel Regno Unito il presidente della Camera dei Comuni John Bercow, un cinquantenne di punta del partito conservatore, ha convocato i leader di Facebook, Twitter, Google, Apple e Microsoft non per chiedere loro conto di come usano i nostri dati personali, visti i rapporti del servizio segreto inglese con la Nsa americana, ma addirittura per aver suggerimenti su come favorire la partecipazione dei cittadini alla vita politica in una auspicata transizione verso la democrazia elettronica. La più antica democrazia del mondo che chiede aiuto alla Silicon Valley: a qualcuno sarà andato di traverso il whiskey. E qualche giorno dopo da Nashville, nel Tennessee, l’imprenditore-attivista americano Rod Massey, che in estate aveva raccolto 780mila dollari di finanziamenti per la sua startup Citizengine(più o meno: motore-cittadino), lanciava la prima app, iCitizen grazie alla quale seguire il dibattito politico statunitense e intervenire sulle questioni calde, ovvero «tutta la forza della democrazia sul vostro telefonino!», come recita lo slogan sul sito. Il tono è quello della réclame di fustino di detersivo, è vero, ma la app non è affatto male.
Il fenomeno della e-democracy non nasce oggi, anzi: viene da lontano (sono dieci anni esatti che si parla di rafforzare la democrazia con la rete); vanta alcuni successi clamorosi (la bozza di Costituzione islandese riscritta anche attraverso la partecipazione dei cittadini attraverso i social media; il voto elettronico in Estonia; il bilancio partecipato in certi comuni del Brasile); e ha da poco assunto il rango di un obiettivo mondiale grazie alla Open Government Partnership, un’alleanza alla quale partecipano – distrattamente invero - un centinaio di paesi.
Ma, per strano che sembri, è l’Italia la frontiera più avanzata verso una democrazia diretta o quantomeno molto partecipata. La causa va rintracciata naturalmente nel Movimento 5 Stelle, che ne ha fatto una bandiera, ma non solo. Nonostante l’età avanzata dei suoi ministri, fu il governo Monti ad avviare la stagione delle consultazioni online: a un certo punto se ne contarono cinque aperte contemporaneamente. Chi partecipava? Perché? Cosa se ne faceva l’esecutivo di quelle indicazioni? Chi garantiva l’autenticità del processo e chi tutelava i diritti degli assenti, che sono sacrosanti a meno di non voler instaurare una dittatura degli attivi? Sono tutte domande rimaste senza risposta, anzi sono domande che nessuno si è davvero mai posto in quei mesi e neanche dopo. Neanche adesso. Il richiamo delle consultazioni online deve essere sembrato troppo forte per fermarsi un istante a ragionare su come farle funzionare davvero: non c’era tempo forse anche per il tentativo un po’ goffo di arginare la domanda di partecipazione via web emersa con il grillismo.
E così quando a Palazzo Chigi si è insediato Enrico Letta, il ministro della Riforme istituzionali Gaetano Quagliarello ha lanciato un sito per chiedere ai cittadini quale modello di forma di governo adottare. E qualche giorno fa il ministro Maria Chiara Carrozza ha annunciato addirittura una maxi consultazione online sul tipo di scuola che vogliamo. Il suo predecessore, Francesco Profumo, con questo sistema dovette rimangiarsi l’impegno ad abolire il valore legale del titolo di studio perché via web emerse una volontà contraria. È questa la politica che vogliamo? Eterodiretta da attivisti col clic facile? Forse no. Perché in effetti se uno avesse voglia di guardare davvero dentro queste mitiche consultazioni digitali scoprirebbe cose curiose.
Per esempio, la consultazione più nota del governo Monti riguardò la spending review: venne chiesto ai cittadini di mandare una mail con le spese da tagliare; ne arrivarono 151.536, una enormità, ma solo 80.236 vennero esaminate, per le altre 71.300 non ci fu nemmeno uno sguardo (senza contare che la foto della pila di mail stampate in un ufficio di Palazzo Chigi era l’immagine stessa dello spreco di carta da tagliare…).
Con la consultazione avviata da Quagliarello è andata anche peggio: il ministro si era rivolto a due giovani civic hacker molto esperti, Donatella Solda Kutzman e Damien Lanfrey, che avevano allestito un sito chiaro e rapido per informarsi e dire la propria: “Partecipa!”, il titolo. Risultato: «203.061 questionari validi!», esultò il ministro dopo tre mesi, «è stata la più grande consultazione online d’Europa ». Già, ma a qualcuno interessa davvero cosa hanno detto quei cittadini, il loro parere conta adesso che il dibattito sulle riforme è entrato nel vivo? Zero.
Non è andata meglio finora con gli esperimenti in area Beppe Grillo e dintorni. Il punto di partenza è stato Liquid Feedback, una piattaforma per la democrazia diretta realizzata dal Partito pirata tedesco. Dopo un fallimentare test con il programma tv Servizio Pubblico nel 2012, una nuova versione è stata adottata da un gruppo di parlamentari del partito democratico guidati da Laura Puppato:
Tu Parlamento doveva servire a portare in aula le migliori proposte dei cittadini. Bello, ma dal 6 settembre scorso il sito è fermo. Nel frattempo i grillini si sono spostati su Airesis: è una nuova piattaforma sviluppata da un gruppo di volontari «che vogliono una democrazia più evoluta ». Il vero test di Airesis avrebbe dovuto essere a Parma, nell’unico comune amministrato da un sindaco grillino. «Vogliamo convincere tutti i cittadini di Parma a iscriversi», era il proposito iniziale. Se ne sono perse le tracce. Intanto febbraio dovrebbe essere il mese clou per un altro esperimento a 5 stelle: si chiama Parlamento Elettronico e vuole «trasformare l’Italia nel più avanzato laboratorio di democrazia digitale del pianeta». Per un obiettivo così importante la raccolta fondi procede un po’ a rilento: duemila euro.
I problemi non sono solo italiani. La Commissione Europea ha appena lanciato una consultazione monstre sul copyright che richiede di scaricarsi un file word di 140 pagine. Impossibile partecipare. E così la parlamentare del Partito pirata svedese Amelie Andersdotter e un gruppo di hacker durante le feste di Natale hanno realizzato un sito multilingue che rende facile e intuitiva la partecipazione. Morale: solo icivic hacker, gli smanettoni animati da senso civico, possono salvare la e-democracy.

Repubblica 9.1.14
Qual è la vera natura delle scelte nel Movimento 5 Stelle
Grillo e Casaleggio, l’inganno in un clic
di Curzio Maltese


A dispetto dei proclami non si era mai visto un partito con il marchio depositato alla camera di commercio, un marchio concesso o negato secondo logiche aziendali. Vedi il caso Sardegna

Non abbiamo bisogno di attendere febbraio e il risultato della consultazione online lanciata da Beppe Grillo per conoscere la proposta di legge elettorale «liberamente votata» dagli iscritti al Movimento 5 Stelle. Si può scommettere sin d’ora che non sarà nessuna delle tre ipotesi maggioritarie (sindaci, sistema spagnolo, Mattarellum corretto) avanzate dal Pd di Renzi, ma una quarta di base proporzionale che, vedi il caso, coincide con gli interessi aziendali della Grillo&Casaleggio associati. In questo modo l’unica maggioranza possibile sarà ancora quella destra-sinistra, con Pd e Berlusconi, e Grillo potrà sempre gridare all’inciucio.
Grillo&Casaleggio non vuole liquidare l’orrido regime della Seconda repubblica, altrimenti voterebbe una legge maggioritaria puntando alla vittoria finale. Preferiscono lucrare il più possibile sul caos politico, alla faccia e sulla pelle degli italiani. Beppe è stato un grande comico e potrebbe evitarci queste pagliacciate della cosiddetta democrazia diretta, ma nella presa per i fondelli dei propri elettori è compresa questa finzione, già sperimentata con successo con le parlamentarie, che hanno eletto senatori e deputati i militanti con più parenti, e le quirinarie, una vera farsa. Alle quirinarie gli iscritti avevano votato, sempre liberamente, una lista di candidati utile alla strategia dei capi: mettere in difficoltà il Pd, ma senza arrivare a un accordo per un nome condiviso (Prodi, per esempio).
Sono convinto che Internet sia un passo indietro rispetto all’evoluzione della specie. Di sicuro lo è per la democrazia, retorica a parte. Il partito-movimento di Grillo, che è il più grande fenomeno politico mondiale nato dalla rete, ne è una conferma clamorosa. Con tutte le chiacchiere sulla democrazia diretta e «l’uno vale uno», il Movimento 5 Stelle è un partito autocratico da anni Trenta. Non si era mai visto uno schieramento con il marchio depositato alla camera di commercio e protetto da unostuolo di legulei. I capi concedono o negano il marchio, vedi il caso Sardegna, secondo logiche aziendali. Decidono quando fare le dirette streaming e quando non farle. Le consultazioni online sono riservate ai soli iscritti, per giunta quelli della prima ora, poche decine di migliaia di persone, spesso molto meno. I risultati sono palesemente decisi da Grillo e Casaleggio, che possono anche non comunicarli, come hanno fatto dopo il primo turno delle quirinarie. I commenti non in linea con la volontà dei capi sono sistematicamente espulsi dal sito. Il quale sito, peraltro, rimane di proprietà di Grillo, che lo usa per vendere propri prodotti e pubblicità. È la follia. Eppure i seguaci non fiatano, illusi di partecipare con un clic al grande gioco. Gianroberto Casaleggio, ideologo della democrazia in rete, è del resto unoligarca e un teorico del governo della rete da parte di un’élite illuminata.
Lungi dal liberare i cittadini dalla passività del mezzo televisivo, la rete ha costruito una base di finta partecipazione che permette a chi comanda di decidere da solo, ma fra gli applausi dei sudditi. Oltre a impedire la partecipazione, la rete limita anche il dibattito. O meglio, abbassa il dibattito a un livello tale da renderlo del tutto inutile, se non come pretesto per sfogare la rabbia di qualcuno e la pazzia di molti. Su Internet sono tutti esperti, scienziati, profeti. Il dato oggettivo non esiste perché, almeno in questo, uno vale davvero uno. Si assiste dunque a discussioni su argomenti importanti e complessi affidati a pseudo studiosi, con corredo di deliranti teorie del complotto e vere e proprie leggende metropolitane. Al confronto, perfino i dibattiti in Parlamento sembrano una faccenda seria. Si parte con i petrolieri che bloccano da decenni l’auto all’idrogeno e le case farmaceutiche che boicottano la cura contro il cancro, e si finisce con chi ha visto le sirene e i microchip della Cia sotto la pelle. Poiché tutto è complotto, nulla lo è.

Repubblica 9.1.14
Il pensiero debole dell’Europa che si accontenta
di Stefano Rodotà


NEL suo gran libro su La crisi della coscienza europea dal 1680 al 1715, Paul Hazard ebbe a definire l’Europa come “un pensiero che mai si accontenta”. Oggi, prigioniera di una crisi senza precedenti, l’Unione europea si accontenta di politiche economiche restrittive, quasi una frontiera invalicabile. Questa è l’Europa degli anni che viviamo. Nella quale sono deboli i tentativi di colmare il deficit di democrazia segnalato da Jacques Delors. Ed essa è scivolata verso un deficit di legittimità, che è alla base della crescente sfiducia dei cittadini, delle spinte verso la rinazionalizzazione, dell’abbandono di valori e principi dell’Unione come accade in Ungheria.
Vi era stato un momento in cui questo rischio era stato individuato, e s’era imboccata la via per contrastarlo. Nel 1999, il Consiglio europeo aveva aperto una fase costituente, affidando ad una Convenzione il compito di scrivere una carta dei diritti. La ragione di questa scelta era netta: “La tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell’Unione europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità. Allo stato attuale dello sviluppo dell’Unione, è necessario elaborare una Carta di tali diritti al fine di sancirne in modo visibile l’importanza capitale e la portata per i cittadini dell’Unione”. Si manifestava così la consapevolezza che la costruzione dell’Europa affidata solo al mercato avesse esaurito le sue risorse.
Eche la sua piena legittimità esigesse ormai una centralità dei diritti. Ritroviamo qui l’eco lontana dell’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: “la società nella quale non è assicurata la garanzia dei diritti, e non è determinata la divisione dei poteri, non ha Costituzione”.
Quel che sta accadendo nell’Unione europea è appunto questo — una decostituzionalizzazione. Il suo sistema è stato amputato della Carta dei diritti fondamentali, del suo Bill of Rights,che pure, com’è scritto nell’articolo 6 del Trattato di Lisbona, “ha lo stesso valore giuridico dei trattati”. Cogliendo questo spirito, addirittura quando la Carta non era vincolante, l’allora presidente Romano Prodi dichiarò subito che “Parlamento e Commissione hanno già fatto sapere che intendono applicare integralmente la Carta”. Proposito ribadito e reso più impegnativo da successive comunicazioni della Commissione.
Oggi l’orizzonte è mutato, l’Unione agisce come se la Carta non vi fosse, nega ai cittadini il valore aggiunto ad essa affidato proprio per acquisire legittimità attraverso la loro adesione, e muta i cittadini da attori del processo europeo in puri spettatori, impotenti e sfiduciati di fronte all’arrivo da Bruxelles di imposizione di sacrifici e non di garanzie dei diritti. V’è in tutto questo una contraddizione, un abbandono della logica che volle il passaggio dell’espressione “Mercato unico” a “Unione europea”, che avrebbe dovuto avvicinare istituzioni e cittadini, e questi tra loro. E vi è pure un abbandono di quanto è scritto nel Preambolo della Carta, dove si afferma l’Unione “pone la persona al centro della sua azione”.
Una “costituzione finanziaria” ha sostituito tutto questo, e dunque da qui bisogna ripartire, anche perché si è diffusa la consapevolezza dei guasti provocati da una sua assunzione acritica. Questo dovrebbe essere il tema centrale delle imminenti elezioni europee. Altrimenti finirà che, sul versante degli europeisti, prendano il sopravvento le lamentazioni contro i populismi antieuropei, quelli che l’Economist chiama la “Europa dei Tea Parties”, mentre bisogna guardare a fondo nelle loro ragioni e produrre gli anticorpi necessari. E questo può avvenire solo se si ricompone il contesto costituzionale europeo, reintegrandolo con la Carta, anche per riprendere un diverso filo della stessa discussione economica. Così acquisterà chiarezza anche l’obiettivo di avere più Europa politica. Per fare che cosa? Rendere ancora più stringente la logica economica? O ridare fiato ad un pensiero che non si accontenta di questo inquietante riduzionismo?
Partire dall’Europa, allora, non è un parlar d’altro, un tentativo di eludere le specifiche questioni italiane. È un passaggio obbligato proprio per definire meglio le responsabilità nazionali, oggi frammentate tra difficoltà ed egoismi dei singoli Stati, per affrontare senza reticenze non l’antieuropeismo spicciolo di chi cercherà di lucrare qualche consenso alle prossime elezioni, ma l’obiezione radicale di chi, da ultimo Wolfgang Streeck, vede ormai nell’Unione europea l’epicentro della “colonizzazione capitalistica”. La replica di Juergen Habermas a questa tesi può anche apparire non del tutto convincente, ma coglie un punto di verità quando segnala il rischio di “una rinuncia disfattista al progetto europeo”, che non aprirebbe la via a una Europa rinazionalizzata, ma manterrebbe al centro proprio le distruttive dinamiche della pura austerità. L’ipotesi è quella di democratizzare il sistema delle istituzioni europee, intervenendo sui trattati. Ma questa strategia sarebbe monca e debole se rimanesse fuori la revisione della nuova costituzione economica e, soprattutto, se si ignorasse il grande conflitto sui diritti che ha già devastato l’Europa accrescendo distanze e diseguaglianza, impoverendo intere popolazioni, e che è oggi l’ostacolo vero per la creazione di un “popolo europeo”. Se vi è un errore nelle ripulse d’una sinistra estrema, altrettanto rischiosa è l’incapacità dell’altra sinistra di considerare ineludibile questo tema.
Esiste ormai un insieme di critiche alle politiche di austerità che dovrebbe essere messo a frutto, articolato com’è anche in specifiche proposte d’intervento, che indicano non una via d’uscita dall’Unione, ma la necessità di una revisione dei suoi strumenti istituzionali. Proprio per questo l’attenzione alla sola dimensione dell’economia sarà insufficiente se non sarà reintegrata in questo più vasto contesto.
Qui si coglie il nesso tra Europa e Italia, dove troppi continuano a separare le due questioni e dove è in atto il tentativo di scorporare dalla Costituzione tutta la parte relativa ai diritti. Si è manifestata una critica irridente i difensori dei diritti fondamentali, sfruttando una colorita battuta di Roberto Benigni sulla “Costituzione più bella del mondo”. In discussioni impegnative si dovrebbero frequentare anche altre fonti. Massimo Severo Giannini, ad esempio, che definì “splendida” la prima parte; o Leopoldo Elia, che nella Costituzione vide “una delle migliori prove del costituzionalismo europeo, soprattutto per la completezza e lo spessore della dichiarazione dei diritti civili, sociali e politici”. Questo non è trionfalismo, ma l’indicazione di una politica costituzionale che, proprio in vista di riforme della seconda parte, non può abbandonare i principi definiti nella prima. Unione europea e Italia hanno il medesimo problema di ricomposizione dell’ordine costituzionale come condizione della sopravvivenza della stessa democrazia.
A tutti gli europei, e ai loro governanti, dovrebbe essere imposta la lettura dell’ultima pagina dell’Omaggio alla Catalogna di George Orwell, con la straordinaria descrizione dell’inconsapevolezza inglese verso i segnali dell’imminente guerra mondiale. Rassicurati allora nelle loro piccole certezze (“non vi preoccupate: la bottiglia del latte sarà davanti alla porta di casa domattina e ilNew Statesman uscirà di venerdì”), chiusi oggi i paesi più ricchi in una insolente rottura d’ogni solidarietà e progetto comune, proprio così si erodono le basi di una “Unione” ben più degli antieuropeisti di professione.

La Stampa 9.1.14
Uccisero un giovane nero
Londra, assolti i poliziotti
Per la giuria gli agenti agirono legalmente nonostante la vittima fosse disarmata
Nel 2011 la morte del 29enne Duggan innescò scontri a Tottenham
di Claudio Gallo


Una giuria di sei donne e due uomini ha stabilito che l’uccisione, da parte della polizia a Tottenham, nella periferia nord di Londra, di Mark Duggan è stata legale, sebbene i giudici abbiano riconosciuto che al momento della cattura il giovane non era armato. La morte di Duggan, 29 anni, dipinto dalla stampa come uno spacciatore e dalla polizia come un affiliato alla gang Mam Dem, fu la scintilla che scatenò, nei primi giorni dell’agosto 2011, una spaventosa rivolta, prima a Tottenham e poi in altre parti della grande periferia londinese, estesasi poi a Birmingham, Bristol e Manchester. Notti di incendi, saccheggi e aggressioni, che finirono con 5 morti, 16 feriti e 3100 arresti.
La sentenza, che solleva la polizia dalle accuse più gravi, è destinata a rinfocolare le polemiche. La giuria ha scagionato l’agente che ha sparato al petto («è morto nel tempo di otto battiti cardiaci», è stato spiegato in aula) e al braccio del giovane, pur riconoscendo con una maggioranza di 8 a 2 che la vittima non aveva una pistola in mano. La famosa pistola esiste, è stata trovata avvolta in una calza nera in un’aiuola a sei metri di distanza. È probabile, i giudici ne sono convinti, che l’uomo l’abbia gettata dal finestrino quando
il taxi su cui viaggiava fu intercettato da un’auto della polizia. Era ancora intonsa, su di essa nessuna traccia del Dna di Duggan. Nel corso del processo un testimone aveva suggerito che l’arma fosse stata portata sul luogo dalla stessa polizia e un perito ha detto che difficilmente poteva essere stata lanciata dall’auto fino all’aiuola.
Alla lettura della sentenza c’è stato il caos in aula. La madre della vittima è svenuta. Il fratello Shaun Hall, con le lacrime agli occhi, ha commentato: «È incredibile, non posso dire altro». La zia, Carol Duggan, ha detto che si è trattato di una «esecuzione». Il giornalista della «Bbc» Dominic Casciani ha twittato: «Non penso di aver mai visto una giuria di un tribunale insultata mentre compie il pro-
prio dovere civico».
Il parlamentare laburista di Tottenham, David Lammy, ha detto che sul caso «ci sono ancor molte domande a cui rispondere». La «Bbc» racconta che nelle prime ore della notte a Tottenham la situazione è tranquilla, «ma ci sono molti poliziotti nelle strade».

l’Unità 9.1.14
Francesc Morata Tierra
Il docente di Scienze Politiche alla Universitat Autònoma de Barcelona:
«L’Infanta? È la crisi del modello Juan Carlos»
«In discussione non sono solo le istituzioni ma anche la monarchia»
di Elena Marisol Brandolini


Corriere 9.1.14
Grossman in campo per i migranti «Israele non può chiudersi in sé»
«Noi israeliani dobbiamo ricordare tutte le porte rimaste chiuse quando avevamo bisogno»
Anche ieri diecimila africani hanno protestato a Gerusalemme
di Lorenzo Cremonesi


GERUSALEMME — Hanno marciato in oltre 10.000 ieri di fronte al parlamento israeliano. «Sì alla libertà, no alla prigione», lo slogan più ripetuto. Assieme al loro urlo di accusa: «Siamo profughi, non criminali!». Un grido acuto, disperato, misto al bisogno di aiuto e di essere ascoltati. Oltre 10.000, che si sono messi assieme, hanno affittato decine di autobus con i loro magri risparmi e da Tel Aviv, Haifa, Holon, Eilat e gli altri centri urbani dove lavorano per lo più come camerieri, operai, spazzini, si sono concentrati nel cuore della capitale politica di Israele. Sono gli immigrati arrivati illegalmente dall’Africa profonda per lo più durante gli ultimi dieci anni. Chiedono di poter restare a lavorare e vivere da «persone normali». Manifestano, rivendicano lo status di rifugiati, di vittime perseguitate, contro le recenti scelte del governo Netanyahu che vorrebbe invece recluderli, isolarli e alla fine espellerli. Quanti sono in tutto? Non c’è un censimento definitivo. La polizia parla ufficiosamente di «oltre 52.000» persone, giunte per lo più da Etiopia, Eritrea, Sudan, Costa D’Avorio, Niger.
Il governo non li ascolta. Da domenica ogni mattina in oltre 20.000 hanno manifestato a Tel Aviv presso le maggiori ambasciate, a partire da quella americana e non lontano da quella italiana. Hanno anche letto un appello pubblico al premier Benjamin Netanyahu, in cui chiedono che i loro casi siano esaminati «uno per uno». Ma il premier è stato lapidario. «Queste manifestazioni non servono. Anzi sortiscono l’effetto contrario», ha dichiarato. Tre parlamentari della sinistra israeliana erano invece pronti a riceverli ieri. Ma il presidente del Parlamento, Yuli Edelstein, ha negato loro ogni accesso. Ad ascoltarli, e addirittura amplificare le loro richieste, è stato però lo scrittore David Grossman, che si è unito alla manifestazione indossando blue jeans e un largo piumino nero. Le sue parole, che non erano lette da un discorso preparato, ma gli sono venute spontanee, così, in inglese, da un altoparlante improvvisato, hanno toccato le corde profonde di questo Paese nato dagli anni bui del Novecento europeo. «Sono confuso, mi vergogno», ha detto senza lesinare critiche alla politica delle «porte chiuse» voluta dal governo. Una politica «fallimentare e ottusa», ha tuonato. «Noi israeliani dobbiamo ricordare tutte le porte rimaste chiuse quando avevamo bisogno, disperati che si aprissero. E ricordare che quelle poche porte che si aprirono cambiarono il nostro destino», ha aggiunto Grossman tra gli applausi. Ma la maggioranza ebraica del Paese sembra sorda a questi appelli. Qui il sentimento di simpatia con cui si accolgono gli immigranti ebrei è inversamente proporzionale a quello per i non ebrei. Gli africani sono accusati di diffondere criminalità, prostituzione, violenza, addirittura di aver «stravolto il carattere ebraico» dei quartieri dove risiedono in massa alla periferia meridionale di Tel Aviv.
Per arrivare in Israele hanno attraversato l’inferno. In Italia siamo ormai abitati alle loro storie di disperazione nel mezzo del Mediterraneo, ai racconti di ingiustizie, fame e solitudine. Qui invece sono stati vittime delle bande beduine, degli abusi sessuali, delle rapine e dei trafficanti di organi nel Sinai ora ancora più destabilizzato dal caos che regna in Egitto. Tanti sono spariti. E anche Israele ha la sua Lampedusa. Non sta in mezzo al mare, piuttosto nel deserto del Negev. Si chiama Holot, una sorta di centro raccolta profughi che gli africani definiscono apertamente «carcere». Situato presso il centro di detenzione di Ketziot (vi sono reclusi i criminali più pericolosi oltre ai palestinesi accusati di terrorismo), è difficile da raggiungere a ancora più complicato da lasciare, specie per chi non ha un mezzo di trasporto privato. Per bloccare i loro ingressi illegali è stata eretta lungo il Sinai una barriera elettrificata lunga 230 chilometri da Eilat a Rafah, sul modello di quella costruita al confine con il Libano. I lavori sono terminati solo pochi mesi fa e da allora gli arrivi sono praticamente azzerati. La politica delle «porte chiuse» prevale.

Corriere 9.1.14
L’immigrazione clandestina dall’Africa in Israele, soprattutto attraverso l’Egitto, è iniziata in modo massiccio a metà degli anni 2000. Quasi tutti gli immigrati hanno chiesto asilo come rifugiati ma pochissimi l’hanno ottenuto
Nel 2006 gli «infiltrati africani», come sono chiamati spesso dai media israeliani, sono stati circa mille, per continuare a crescere fino a più di 10 mila nel 2012. In tutto gli africani illegali in Israele oggi sono oltre 52 mila, ma il loro numero è iniziato a calare

Corriere 9.1.14
Il risiko dei giornali francesi
Le Monde consolida la sua rete
Un grande polo di sinistra con il Nouvel Observateur e il sito Rue89
di Stefano Montefiori


PARIGI — A dispetto dei 40 anni che li separano, Claude Perdriel e Xavier Niel hanno molte cose in comune: il genio negli affari usato per finanziare il pallino per l’editoria, la fortuna fatta con i «Minitel rosa» negli anni Ottanta, il piacere delle vacanze alle Maldive.
Qui l’87enne fondatore del Nouvel Observateur e il 46enne coeditore di Le Monde si sono incontrati, a Natale, e hanno trovato un accordo di principio: il primo news magazine francese (circa mezzo milione di copie alla settimana) assieme al sito di informazione Rue89 entrerà nell’orbita del quotidiano più autorevole di Francia (ma secondo nelle vendite dietro al Figaro , 275 mila contro 312 mila copie tra carta e digitale).
Per il sistema mediatico e la società francesi è una svolta importante, decisa per superare il momento di crisi della stampa che ha indebolito entrambi i gruppi. Nasce, con la benedizione dell’Eliseo, un polo editoriale saldamente ancorato a sinistra: se la linea di Le Monde è tradizionalmente equilibrata, il Nouvel Observateur è dalla fondazione nel 1964 esplicitamente schierato con la gauche , dalla battaglia per l’aborto al sostegno a Mitterrand alla recente campagna per il matrimonio gay. Le due redazioni resteranno separate e non sono previste sinergie giornalistiche, ma industriali sì, a cominciare dalla raccolta pubblicitaria.
Il consiglio di amministrazione del Nouvel Observateur convocato per stamattina confermerà un’operazione che avrebbe dovuto rimanere segreta. La fuga di notizie ieri ha sorpreso anche Pierre Bergé, l’ex compagno di Yves Saint Laurent e coeditore di Le Monde , che in un primo momento ha negato la sua partecipazione. In serata poi Bergé ha ammesso che le trattative coinvolgono non solo «Citizen Niel» (il fondatore del provider Internet Free con una fortuna personale di 5 miliardi di euro), ma anche lui stesso e il finanziere Mathieu Pigasse, ossia il cosiddetto trio BNP (Bergé-Niel-Pigasse) che attraverso la holding Le Monde Libre edita Le Monde e i periodici Courrier International e Télérama .
Se nei mesi scorsi alcune voci si sono levate per criticare un’eccessiva concentrazione di potere — industriale e mediatico — nelle mani di pochi uomini, la tendenza al consolidamento editoriale dettata dalla crisi ha finito con il prevalere.
Niel è il ragazzo terribile della classe dirigente francese: non laureato, sprezzante verso il sistema delle scuole di élite (come l’Ena o il Polytechnique) tanto da fondare il suo istituto privato di informatica «42» (in omaggio a Douglas Adams), è diventato miliardario alla fine degli anni Ottanta capendo per primo le potenzialità del Minitel, antesignano francese di Internet: le messaggerie erotiche gli hanno fruttato soldi usati per fondare Free, un impero delle telecomunicazioni che ha abbattuto prima i costi di accesso a Internet e poi quelli della telefonia mobile, facendo concorrenza ai colossi Orange (ex France Télécom), Sfr e Bouygues. Oltre a Le Monde , Niel ha una partecipazione (di minoranza) nel sito di informazione Mediapart , e nel sistema di streaming musicale Deezer.
Anche il «banchiere rock» Mathieu Pigasse non si limita a Le Monde : capo di Lazard France, è proprietario del settimanale culturale Les Inrockuptibles e azionista dell’Huffington Post francese mentre Pierre Bergé, che fondò con il compagno stilista la maison Ysl, si è ritirato di recente dal periodico di cultura gay Têtu .
In un Paese dove il quotidiano più venduto è il Figaro di Serge Dassault (industria aereonautica e armamenti), e dove gli arci-rivali del lusso Bernard Arnault (LVMH) e François-Henri Pinault (Kering) possiedono rispettivamente il quotidiano economico Les Echos e il settimanale Le Point , quel che c’è di più simile a un editore puro è paradossalmente proprio l’ingegnere Claude Perdriel del Nouvel Observateur .
Perdriel ha guadagnato miliardi in parte con le chat erotiche del Minitel (come Niel) ma soprattutto con le sue floridissime aziende di pompe idrauliche e gabinetti chimici, fonte perenne di investimenti a fondo perduto nella sua unica vera passione: i giornali. Ora, vicino ai 90, «Perdro» prepara la successione, ed è pronto a cedere il 65% della sua creatura per 13,4 milioni di euro. Un prezzo inferiore al valore di mercato, ma in cambio il fondatore ottiene il rispetto delle sue condizioni: linea editoriale ancora e sempre a sinistra, conferma della attuale direzione di Laurent Joffrin e, soprattutto, nessun licenziamento.

Repubblica 9.1.14
Pechino compra il più antico birrificio inglese


Shopping cinese a Londra. Il colosso immobiliare Greenland Group, di proprietà del governo di Pechino, ha acquistato per 600 milioni di sterline Ram Brewery, il più antico birrificio della Gran Bretagna che si trova nel quartiere di Wandsworth, a sud-ovest della capitale. Il progetto cinese prevede di trasformare il complesso e l'area circostante in una zona residenziale con 661 nuovi appartamenti, negozi, bar e ristoranti. Il birrificio verrà ricordato all'interno con un museo. Ram Brewery era nata nel 1831 in un sito dove già si produceva birra dal 1500. A rilevarla erano stati Charles Allen Young e Anthony Fothegill Bainbridge. Il birrificio fu distrutto da un incendio l'anno dopo e ricostruito con l'acquisizione di uno dei primi motori a vapore industriali, funzionante fino al 1976. Il sito era famoso anche per il numero di animali che l'avevano scelto come casa, tra cui anche un montone, 'ram' appunto.

l’Unità 9.1.14
È utile censurare un comico antisemita?
Il caso Dieudonné riapre il dibattito sui divieti
di Tobia Zevi


l’Unità 9.1.14
Un Paese senza Bobbio
A dieci anni dalla morte abbiamo ancora più bisogno della sua limpidezza
Un ricordo personale del filosofo: «È stato un grande intellettuale che ha arricchito la cultura italiana
Voglio sottolineare che era convinto che bisognasse sconfiggere la manipolazione delle parole e disvelare i manipolatori»
di Gianfranco Pasquino


La Stampa 9.1.14
A lezione da Bobbio: se la sinistra
è conservatrice, non è sinistra
Quando difende l’equilibrio dato, viene meno al suo compito. Il filosofo nel ricordo di Veltroni: appena eletto segretario dei Ds, gli chiesi di incontrarlo
di Walter Veltroni

qui

l’Unità 9.1.14
Schnitzler, il sognatore
Per quasi tutta la vita lo scrittore tenne un personale diario onirico
Edito in Italia per i tipi del Saggiatore, il testo respira un’aria di ricerca intorno ai materiali onirici simile e insieme lontana dalla psicoanalisi nascente dove il sogno diventa contrappunto della vita
di Romano Màdera
psicoanalista


La Stampa 9.1.14
I campi di sterminio secondo Hitchcock. Un film 70 anni dopo
Nel 1945 il regista choccato non riuscì a concludere il documentario su Bergen-Belsen: uscirà nel 2015
di Cla. Gal.

qui

il Fatto 9.1.14
Il film che fece paura anche a Hitchcock
di Caterina Soffici


Londra Le scene sono così agghiaccianti che lo stesso Alfred Hitchcock ne rimase così turbato da abbandonare la sala di montaggio dei Pinewood Studios. Passò una settimana prima che il leggendario regista inglese maestro del thriller, abituato a inchiodare con i suoi film gli spettatori alla poltrona, prendesse il coraggio per tornare negli studi cinematografici fuori Londra a lavorare al film sugli orrori dei campi di sterminio nazisti.
La realtà, questa volta, era molto più tremenda della finzione. E il risultato è un filmato scioccante, in puro stile Hitchcock. Fuori campo c’è la voce dell’attore Trevor Howard, che sembra quella di Hitchcock, asettica e monotona, che sciorina dati e mostra grumi di corpi umani, cadaveri incartapecoriti trascinati dai soldati tedeschi per un braccio come manichini, buttati a migliaia dentro fosse comuni scavate con la ruspa. Uomini e donne così magri da non reggersi in piedi, che vagano come fantasmi e si scontrano tra loro. Era il 1945. Questi filmati mai visti prima, ripresi dalle truppe sovietiche e dagli inglesi, mostravano cosa era successo nei campi di concentramento. Più che le ciminiere e le camere a gas, qui si vedono esseri umani morti di fame e di stenti.
IL MONDO DOVEVA SAPERE e la grande macchina della propaganda alleata si era messa in moto per mostrare con immagini, anche le più crude, quanto erano buoni gli yankee e quanto erano stati cattivi i tedeschi. Hitchcock era stato chiamato dall’amico Sidney Bernstein per collaborare al progetto di documentario sulle atrocità dei tedeschi. Ma ci furono dei ritardi nella produzione e il film non fu mai proiettato perché a un certo punto i comandi alleati decisero che mostrare quelle atrocità sarebbe stato controproducente per il processo di pace e il nuovo clima di ricostruzione (e con il processo di Norimberga contro i gerarchi nazisti che stava prendendo l’avvio). Non è chiaro quanto Hitchcock abbia contribuito alla produzione, ma sicuramente il suo zampino è forte. “Non si saprà mai a chi appartengono quei corpi. Cattolici, luterani, ebrei: non potremo mai dargli un nome, sappiamo solo che sono nati, hanno sofferto e sono morti agonizzando in questi campi” recita la voce mentre le ruspe rivoltano montagne di cadaveri. Poi si vedono bambini, e sempre la voce fuoricampo: “Qualcuno è nato qui dentro, in circostanze che non voglio neppure immaginare. Dove sono i loro genitori? Qui (e si vedono corpi scheletrici trascinati per una gamba) o qui (e si vede la scena di una grande buca, piena di cadaveri) ”. Il tono propagandistico del filmato è molto alto. Un soldato britannico parla nella telecamera: “Ora che ho visto questo so perché sono qui e perché ho combattuto”. E parimenti forte è la demonizzazione del nemico: cittadini e autorità della città di Weimar vengono portati nei campi di Buchenwald. Dice la voce fuoricampo: “Devono vedere per cosa hanno combattuto e perché noi li abbiamo combattuti”. I tedeschi arrivano sorridenti, come per una scampagnata, e poi rimangono ammutoliti di fronte all’orrore che viene posto sotto i loro occhi. L’idea di poter “rieducare” i cittadini tedeschi a suon di film non era destinata però a funzionare. L’Independent, che dedica un lungo articolo all’Olocausto ritrovato di Hitchcock, racconta che Billy Wilder diresse Death Mills (nel 1945) dove mostrava le atrocità perpetrate dai tedeschi proprio con l’intento di mostrarle ai connazionali. Ma non funzionò, perché durante la proiezione la platea uscì dalla sala perché non riusciva a sostenere quell’orrore. Così il documentario di Hitchcock, Memory of the Camps, fu chiuso in un cassetto e 5 delle 6 pellicole furono depositate all’Imperial War Museum e lì dimenticate.
SOLO NEL 1980 IL FILMATO è stato trovato da un ricercatore americano in una latta arrugginita e la versione incompleta fu mostrata al Festival di Berlino nel 1984. Ma la qualità era scarsa e mancava la sesta bobina. Ora, finalmente, il film verrà proiettato nella versione originale pensata da Hitchcock. La pellicola è stata accuratamente restaurata dal-l’Imperial War Museum utilizzando sofisticate tecnologie digitali ed è stato recuperato anche il materiale mancante della sesta bobina.
È stato anche prodotto un nuovo documentario dal titolo Night Will Fall (Cadrà la notte), regista Stephen Frears. Entrambi verranno trasmessi dalla tv britannica nel 2015, in occasione dei 70 anni della fine della Seconda guerra mondiale e della liberazione dell’Europa dal nazismo. Pare che gli amanti di Hitchcock si stiano già interrogando su quanto la visione di quei filmati nel 1945 abbia poi influenzato la produzione del regista negli anni successivi e il suo modo di rappresentare la paura e il terrore.

Corriere 9.1.14
Torna alla luce il film di Hitchcock sui lager
Ritrovata l’ultima bobina del documentario realizzato nei campi di sterminio
di Fabio Cavalera


LONDRA — L’ultima delle sei bobine era nascosta e dimenticata negli archivi del War Imperial Museum di Londra. Adesso che i curatori l’hanno ripescata e montata con le precedenti pellicole, diventa un nuovo film documentario sulle atrocità naziste nei campi di sterminio. È un lungometraggio inedito, nella sua forma completa, che porta la firma di sir Alfred Hitchcock e ne arricchisce la già straordinaria biografia. Interessante è la trama di questa scoperta.
La vita del maestro del brivido, londinese di nascita e morto in California nel 1980, s’incrocia con l’Olocausto a conclusione della Seconda guerra mondiale. Il regista si è trasferito a Hollywood e lavora a Notorious , uno dei suoi capolavori, con Cary Grant e Ingrid Bergman. Un amico, Sidney Bernstein, lo contatta per sondarlo sulla volontà di collaborare a documentare la vergogna della persecuzione e della eliminazione degli ebrei.
È il 1945, gli alleati liberano l’Europa, entrano nelle camere della morte di Hitler, si trovano davanti all’orrore che vogliono riprendere per mostrarlo al mondo e a quei tedeschi che attorno ai campi abitano ma che restano muti e indifferenti. L’ordine del presidente americano Eisenhower e del premier britannico Churchill è di mandare troupe di cameramen per riprendere la realtà dello sterminio e affidarne la narrazione a direttori prestigiosi.
Sidney Bernstein è una delle figure chiave della cinematografia britannica, antifascista, collabora con il ministero dell’Informazione ed è a capo della sezione film nella divisione «guerra psicologica» del comando alleato. È lui che chiama Alfred Hitchcock a Londra nel giugno del 1945. I due si sono già parlati e il regista ha dato indicazioni agli operatori dell’esercito su come vuole le inquadrature, le riprese lunghe, i dettagli da raccontare e visualizzare nel documentario. È il suo timbro.
Hitchcock s’imbarca per l’Inghilterra. Lo aspettano tre chilometri di riprese effettuate a Bergen Belsen, a Dachau, a Buchenwald, a Mauthausen. Materiale che va sistemato. Le immagini sono dure e violente. Ne resta impressionato a tal punto lo stesso Hitchcock che per una settimana evita di presentarsi nelle sale di montaggio. Ma alla fine il risultato è che ne escono sei bobine di dieci minuti ciascuna. Con Hitchcock collaborano Colin Wills, ex corrispondente di guerra, e Richard Crossman, che poi sarà personaggio di rilievo del laburismo.
Il film è pronto. Ma dopo l’estate del 1945 gli americani cambiano idea e convincono gli alleati a non diffonderlo: la sua proiezione e la sua divulgazione potrebbero essere controproducenti nel processo di ricostruzione della Germania e nella complessa opera di coinvolgimento del popolo tedesco. Spiegherà Sidney Bernstein: «Il nostro Foreign Office e il Dipartimento Usa decisero che essendo i tedeschi in uno stato di apatia dovevano essere stimolati e non costretti a cacciare il naso nelle atrocità commesse».
La pellicola va in archivio. Anzi, nelle cantine del War Imperial Museum. Fino a che nei primi anni 80 un ricercatore americano la rintraccia in un contenitore di metallo arrugginito. È un documento di straordinario valore: ne toglie la polvere e lo spedisce al festival di Berlino nel 1984 col titolo Memory of the Camps , Memorie dei campi. Però è incompleto. L’ultima parte della storia di questo film documentario è dei mesi scorsi. Uno dei curatori del Museo, Toby Haggith, ritrova i «pezzi» che mancano, ricuce e ristruttura la pellicola. L’anno prossimo sarà il 70esimo anniversario della liberazione dell’Europa dal nazismo e il film di Hitchcock sull’Olocausto, con un titolo diverso, andrà nella sale e in tv. Proprio come il grande maestro avrebbe desiderato perché, per usare le sue parole, «la televisione riporta indietro il delitto e l’atrocità nelle case dove essi nascono».

Corriere 9.1.14
Labirinti, storia di un enigma
«Il palazzo di Creta? Come la Bastiglia. Edifici da violare»
di Ranieri Polese


America, nella provincia profonda un maniaco rapisce sevizia uccide bambine. Nella caccia al mostro — il film è Prisoners di Denis Villeneuve — il primo sospettato è un ragazzo che dipinge ossessivamente i muri della sua casa con labirinti. Ma forse c’è un altro colpevole nell’ombra, uno che porta al collo una medaglia con inciso un labirinto. Dalle remote lontananze dei miti ai tempi di oggi, il labirinto si associa prevalentemente a uno stato di turbamento, di inquietudine. Così fu per Teseo, il figlio del re di Atene, mandato a Creta per uccidere il Minotauro che ogni anno esigeva l’offerta di giovani ateniesi. Il labirinto è una figura che accompagna tutta la cultura occidentale, contagiando poeti e artisti, fino a diventare elemento decorativo di giardini a partire dal Cinquecento. Lo si ritrova in canzoni (da Adamo, con Non voglio nascondermi , a Elisa, con Labyrinth ) e in film (da Pedro Almodóvar, in Labirinto di passioni , 1982, a Il labirinto del fauno di Guillermo Del Toro, 2006).
C’è chi, come Franco Maria Ricci, ha dedicato anni e sforzi copiosi per la costruzione di un labirinto vegetale a Fontanellato in provincia di Parma. Otto ettari di terreno, un percorso di tremila metri, centoventimila bambù di trenta specie diverse, e due complesse costruzioni destinate, una, a ospitare la collezione bibliografica e artistica di Ricci, l’altra adibita a spazi culturali e commerciali per i visitatori. Dedicato a questa impresa, esce ora il libro Labirinti — Rizzoli — con testi di Ricci, Giovanni Mariotti, Luisa Biondetti e una introduzione di Umberto Eco.
Al suo «tardivo esordio da saggista», Giovanni Mariotti, narratore — Storia di Matilde , Il bene che viene dai morti premio Bagutta 2011 — e da oltre quarant’anni collaboratore di Franco Maria Ricci, risponde alle nostre domande. Cominciamo dalla parola, labirinto : «Per qualche tempo si è detto che labirinto derivava da labrus , ascia bipenne, ma questa etimologia non convince più. La mia congettura è che il Labirinto di Creta non sia mai esistito, sia una cosa mentale, come l’Inferno di Dante o la Biblioteca di Babele di Borges. In un dialogo platonico, o pseudoplatonico, il Minosse , Socrate definisce il mito del Labirinto una leggenda attica messa in giro dai tragici. Nella mia interpretazione il Labirinto è una sorta di Bastiglia: a violarlo è Teseo che, conviene ricordarlo, è anche il fondatore mitico della democrazia ateniese. Il 14 luglio a Parigi si balla per le strade, e anche la vittoria sul Labirinto era commemorata con una danza chiamata delia, o danza delle gru».
Qual era la forma del labirinto greco? «Bisogna distinguere il Labirinto come edificio e il Labirinto come motivo grafico. Nessuno — aggiunge Mariotti — ha la minima idea di come fosse fatto l’edificio; quanto al motivo grafico, la versione greca ha sette spire. La spirale in effetti è all’origine del Labirinto; ma un grafico geniale introdusse in quel motivo, già noto agli aruspici babilonesi che lo usavano per rappresentare le viscere compresse degli animali, una variante stupefacente: prima di raggiungere il centro, nei cui pressi chi percorreva un labirinto si trovava sin dal primo momento (quello dell’ingresso), era necessario allontanarsene non una, ma due volte. In quel percorso capzioso, alla Escher, molti nel corso dei secoli avrebbero visto un avvertimento: il mondo era complicato, andare diritti allo scopo non era possibile, per dirla con un verso di Pasternak, vivere una vita non è attraversare un campo. C’era un’altra caratteristica: quel percorso era complicato però unico, nessun rischio di perdersi, niente bivi o vicoli ciechi; se il Labirinto di Creta fosse stato fatto così Teseo non avrebbe avuto alcun bisogno del filo di Arianna. E qui incontriamo la più grande stranezza: si direbbe che per secoli nessuno si sia accorto che il labirinto grafico, quello univiario, non poteva essere quello del mito. Secondo grandi studiosi come il Kern, la differenza sarebbe stata percepita solo nel XX secolo. Però non è vero. Mi faccio un piccolo vanto d’avere scoperto un brano dove il Boccaccio, nel Commento alla Divina Commedia , mostra di esserne perfettamente cosciente».
Più tardi ci saranno labirinti molto meno semplici. «Nell’età del Manierismo, in pieno Cinquecento — continua Mariotti —, si afferma il labirinto multiviario, quello con vicoli ciechi e biforcazioni. Prima occorre fare un cenno a quello romano, con quattro labirinti intercomunicanti. Era un intrico spogliato di ogni connotazione ansiosa; situato all’ingresso delle grandi domus, era destinato a scoraggiare ladri e altri malintenzionati». Anche i cristiani adottano la figura del labirinto. «Che stavolta ha undici spire. Si tratta ancora di un labirinto univiario. Gesù aveva detto: Io sono la Via, e dunque la via era una, non ce ne poteva essere un’altra».
La prima testimonianza di labirinto multiviario, con bivi e vicoli ciechi, è il disegno di un olandese. «Si tratta della copia di un progetto per giardino di Palazzo Te a Mantova — specifica Mariotti —. Quel progetto non fu mai realizzato; ma poco dopo, tra Sei e Settecento, si sarebbero sviluppati da un capo all’altro dell’Europa i grandi labirinti arborei (labirinti da giardino), quasi tutti multiviari. Luoghi di divertimento e piacere per dame e cavalieri, con i loro anfratti offrivano spazi propizi alla solitudine e alla meditazione, ma anche a incontri erotici (quello di Schönbrunn a Vienna fu distrutto nell’Ottocento perché era diventato uno scandaloso ritrovo di coppie). L’arbusto classico è stato per molto tempo il bosso (il recente labirinto dell’Isola di San Giorgio a Venezia, dedicato a Borges, è fatto di siepi di bosso), ma oggi si sperimentano anche altri vegetali; Ricci usa il bambù; in Francia, a Reignac-sur-Indre, esiste un labirinto di mais; il disegno viene cambiato ogni anno».
C’è molta letteratura sui labirinti, a cominciare dagli antichi. Mariotti cita Borges quasi di continuo: «Di labirinti Borges ha parlato per tutta la vita ed è l’ispiratore e un po’ il Santo Patrono di quello di Ricci; cito anche altri autori — Italo Calvino, autore del saggio La sfida al labirinto , Umberto Eco, che ha inventato il labirinto-biblioteca de Il nome della rosa , Julio Cortázar, autore di una pièce teatrale ambientata alla corte di Minosse, Lo reyes … — che sono stati amici di Ricci e hanno contribuito al suo catalogo; ma il personaggio del Minotauro ha offerto materia anche ad altri scrittori, nel secolo scorso: Friedrich Dürrenmatt, la Yourcenar… Retrocedendo nel tempo, una potente esplorazione delle fogne di Parigi considerate come labirinto si trova ne I miserabili di Victor Hugo; e il Verne del Viaggio al centro delle terra ci offre immagini di quelle diramate cavità sotterranee attraverso cui, ne sono convinto, l’idea di labirinto si aprì per la prima volta un varco nella mente degli uomini. Oggi quel varco è mantenuto aperto da molte altre cose: per esempio Internet».
Dunque, per lei cosa significa il labirinto? «Da un lato è il contrario della felicità — risponde Mariotti —, che è legata al fluido. Per Leopardi gli uccelli sono le più liete creature del mondo; il filosofo taoista Zhuang-zi parla della gioia dei pesci… Felicità è potersi muovere in tutte le direzioni, in un ambiente privo di ostacoli. Così almeno ce la rappresentiamo; il labirinto invece propone strade e passaggi obbligati, sovverte i percorsi, ci trasmette una sensazione di incertezza. In un’epoca come la nostra, in cui i navigatori satellitari ci guidano infallibilmente verso la meta prescelta, i nuovi labirinti ripropongono, sotto forma di gioco, un luogo dove ci si può perdere. In un tempo lontano questo metteva paura, oggi no, o di meno; però provoca un piccolo brivido, che i francesi chiamano frisson . Senza frisson , niente labirinto. Senza frisson può esserci felicità, ma non c’è piacere».
Il Minotauro, figlio degli amori tra la regina Pasife e un toro, viveva rinchiuso nel labirinto costruito da Dedalo. Ucciso il mostro, uscito dall’intricato percorso grazie all’aiuto della principessa Arianna, Teseo torna ad Atene (strada facendo però abbandonerà la sua salvatrice sull’isola di Nasso), ma non sarà un ritorno felice: non cambiando il colore delle vele, provocherà la morte del padre Egeo che si uccide pensando che anche il figlio sia stato ucciso dal Minotauro.

Corriere 9.1.14
Bruno Gentili, una vita per la poesia greca
di Luciano Canfora


Il nome di Bruno Gentili, scomparso ieri a Roma novantottenne, è legato al grande lavoro da lui dispiegato, d’intesa e col valido sostegno della sua scuola, nel campo della lirica greca, fino alla recentissima edizione, per la Fondazione Valla, delle Olimpiche di Pindaro (2013). Di mezzo ci sono stati contributi di grande spicco come l’edizione delle Pitiche (1995) e soprattutto, con l’imprescindibile contributo di Carlo Prato, l’edizione dei Poeti elegiaci greci per la Biblioteca Teubneriana (2 voll., 1979-1985; nuova edizione, rivista, nell’anno 2000). Agli esordi va posta l’edizione di Anacreonte (1958) con cui conquistò la cattedra di Letteratura greca nel lontano 1963.
Si deve dire inoltre che questa intensa operosità editoriale si sviluppava parallelamente ad un intenso lavoro teorico nel campo della metrica greca: La metrica dei Greci è il titolo di un suo fortunato manuale. Si colgono in questo filone di studi, che fu al centro della sua attività, l’influsso e l’insegnamento di Gennaro Perrotta, di cui Gentili fu assistente alla Sapienza di Roma. Insieme con Perrotta, Gentili aveva pubblicato una importante antologia dei lirici greci (Polinnia , 1948; 1957; 2007), corredata di commenti e altri apparati esegetici preziosi. Era un libro per la scuola: per una scuola ben altrimenti funzionante che l’attuale. A Roma, negli anni in cui Perrotta, per ragioni di salute, non riusciva più ad esercitare pienamente il suo lavoro (strascico di un doloroso e prolungato disagio prodottosi nell’ultimo tempo della guerra), Gentili resse di fatto l’insegnamento del greco ed ebbe significativa influenza sugli allora «giovani» della filologia classica capitolina, tra cui l’insigne metricista Luigi Enrico Rossi.
Temperamento aperto al nuovo, Gentili fu molto preso dalla corrente «oralistica». Questo suo orientamento raggiunse la più compiuta espressione nel volume laterziano Poesia e pubblico nella Grecia antica, da Omero al V secolo (1984). Il suo fermo convincimento, espresso in prefazione, è che «la teoria dell’oralità offre la chiave per introdurci nel vivo e concreto problema pertinente alla funzione sociale e culturale della poesia greca da Omero al V secolo».
Il convincimento cui Gentili era approdato — sull’onda delle teorie, ormai alquanto in declino, di Milman Parry — è che «l’idea di una poesia tradizionale, formulare, comunitaria, di interazione tra cantore e uditorio, costituisce la chiave indispensabile per una corretta intelligenza della produzione culturale greca, sino all’avvento del libro nell’età di Platone» (Poesia e pubblico ). Oggi si tende a distinguere più nettamente i due piani: quello di una, immaginata ma non documentata, composizione orale e quello della prevalente diffusione dell’opera letteraria in Grecia arcaica attraverso la diretta comunicazione di fronte ad un pubblico di fruitori. È, forse, quest’ultimo il piano più fecondo, e storicamente significativo. Né solo nel campo della poesia, ma anche, e non meno, nel campo del teatro e dell’oratoria. Beninteso, guardandosi dagli eccessi di «primitivismo» che rischiano di non rendere adeguatamente conto del fenomeno, imponente, della sopravvivenza grazie alla circolazione libraria della letteratura greca precedente Alessandria e all’enorme lavoro di conservazione e filologico posto in essere da quel grande centro di produzione e conservazione del sapere universale.
Non va trascurato il contributo che Gentili diede, insieme ad un suo allievo, Giovanni Cerri (il quale intraprese ben presto una sua propria strada nell’interpretazione politica dei tragici), nel campo della storiografia classica: Le teorie del discorso storico nel pensiero greco e la storiografia romana arcaica (Ed. dell’Ateneo, 1975). Tra i pregi del volume va segnalata l’apertura verso la cultura romana. Un frutto maturo in tal senso fu anche la fortunata Letteratura latina che Bruno Gentili pubblicò presso Laterza e che ha vissuto, per un certo tempo, una felice stagione nelle nostre scuole.

Repubblica 9.1.14
Addio al grecista Bruno Gentili, l’uomo che ci fece amare i lirici
Tra i maggiori studiosi di letteratura, metrica e poesia dell’antichità, scomparso a 98 anni
di Maurizio Bettini

Ci ha lasciato Bruno Gentili, uno dei maggiori grecisti del panorama italiano e internazionale. Studioso di metrica, di teatro, di poesia lirica, personalità libera e singolare, a tratti davvero unica. Era una sorta di leggenda fra noi “giovani” degli anni Settanta, e ha continuato a esserlo fino a ieri, quando a novantasette anni lo abbiamo visto pubblicare, assieme ai suoi allievi, una monumentale edizione commentata delle Olimpiche di Pindaro.
Nato nel 1914, la sua formazione di studioso si sviluppò in un ambiente culturale che era storico-filologico da un lato, estetico dall’altro. Gentili ha imparato che ai testi non si accede senza filologia e senza storia; ma che bisogna anche amarli, apprezzarli, se si vuole che l’impulso ad avvicinarvisi sia efficace. Poi, fra gli anni Sessanta e Settanta, Gentili fa una serie di incontri e di esperienze intellettuali che in qualche modo lo trasformano. In quel periodo la cultura italiana, e con essa anche gli studi classici, si apre alla sociologia della letteratura, alla semiotica, allo strutturalismo linguistico e letterario. Senza dimenticare i formidabili contributi che, soprattutto in senso antropologico, vengono dal cuore della filologia greca: come quelli di Milman Parry e George Havelock. Nell’ormai raggiunta maturità dello studioso, queste esperienze intellettuali, invero abbastanza vorticose, hanno anche un importante sbocco geografico: Urbino, che si trasforma in uno straordinario luogo intellettuale, una piccola ma orgogliosa capitale della cultura. A Urbino Gentili non è solo. C’èCarlo Bo, prima di tutto, raro esempio di rettore e straordinario uomo di cultura; ci sono colleghi, classicisti e non, che contribuiscono — talvolta in emulazione o polemica, si sa come vanno queste cose — alla creazione di Urbino come centro di studi classici. Ma il motore di tutto ciò, anche per il suo carattere entusiasta e vitale, è stato Gentili. Un movimento, quello urbinate, che fa sì che in Italia gli studi sull’antichità greca prendano una nuova direzione.
Per avere un saggio di quello che è accaduto, basta prendere in mano l’antologia dei lirici greci, Polinnia, che Gentili curò con Gennaro Perrotta nel 1948. Un testo su cui hanno studiato intere generazioni di liceali. Ebbene, questo libro era privo di introduzione, nel 1948 gli autori non avevano ritenuto opportuno spiegare che cosaera la lirica greca. Evidentemente si dava per scontato che lo si sapesse — perbacco, la lirica greca, tutti sanno cos’è! Pura, vera poesia. Proviamo dunque a confrontare questa vecchia Polinnia con la nuova edizione che lo stesso Gentili, assieme a Carmine Catenacci, ha pubblicato nel 2007. Un altro mondo. Adesso c’è una lunga introduzione che evidenzia il carattere pragmatico della lirica greca, ossia la necessità di metterla in contesto per capirne davvero il senso; poi la natura tutt’altro che individuale, “lirica” in senso moderno, di questa poesia, che era rivolta a stabilire una comunicazione con una comunità. Sono le cose, in gran sintesi, che Gentili è venuto insegnandoci in tutti questi anni. Grazie Bruno.