venerdì 10 gennaio 2014

«potrebbe esserci Emanuele Santi (Il portiere e lo straniero, L’Asino D’Oro)»
Repubblica 10.1.14
Niente Serra-Piccolo, lo Strega si farà senza duello finale
“Il desiderio di essere come tutti” rimane il superfavorito
di Raffaella De Sanctis


Tutti a cercare il duello. Lo Strega senza battaglia finale non è la stessa cosa. Non esistono ancora le candidature ufficiali e già è iniziato il toto premio. Ma come spesso accade le indiscrezioni hanno vita corta. Così a poche ore dall’ipotesi della sfida tra Francesco Piccolo (Il desiderio di essere come tutti,Einaudi) e Michele Serra (Gli sdraiati, Feltrinelli), l’eventualità sembra già rifluire. Certo la gara sarebbe piaciuta alle case editrici, agli organizzatori del premio, ai giornali. E sarebbe stato curioso vedere fronteggiarsi due amici, due scrittori che condividono un percorso comune giocato tra pagina scritta e televisione: entrambi autori di Sanremo e di programmi di Fabio Fazio (Piccolo nella squadra autoriale diVieni via con mee Serra in quella diChe tempo che fa). Dalla Fondazione Bellonci fanno sapere che al momento non ci sono candidati ufficiali. Allo Strega possono partecipare i libri pubblicati entro il 31 marzo, mentre la scadenza entro cui presentare le candidature è fissata per la metà di aprile. La Feltrinelli non conferma e non smentisce, ma, mentre si gode il successo editoriale de Gli sdraiati (250 mila copie vendute e otto ristampe a due mesi dall’uscita), va già sondando altre possibilità. Tra i papabili ci sarebbe Giuseppe Catozzella, il cui libroNon dirmi che hai paura è la storia di un’atleta somala che sogna le Olimpiadi di Londra. Se Serra declinasse, come sembra ormai sicuro, non sarebbe una prima volta. Si ricordano i «no, grazie» di Andrea Camilleri e di Alberto Arbasino, che nel 2011 ha declinato l’invito con una garbata lettera alla Fondazione Bellonci: «In qualità di vegliardo, sarei ovviamente onorato e incantato per un eventuale premio alla mia lunga operosità letteraria. Ma mi parrebbe fuori posto una eventuale gara con competitori che hanno la metà dei miei anni». Si prospetta dunque un’edizione con Francesco Piccolo come super-favorito, per quanto Einaudi ancora non si pronunci ufficialmente e nonostante Il desiderio di essere come tuttisia un romanzo anomalo che si muove tra saggio e narrazione, raccontando la storia della sinistra italiana in una miscela di vita pubblica e privata. Dovesse vincere, non sarebbe certo il primo ad imporre sul podio un memoir di fattura spuria: è stato così nel 2011 con Storia della mia gente (Bompiani) di Edoardo Nesi e nel 2012 con Qualcosa di scritto (Ponte alle Grazie) di Emanuele Trevi, battuto per soli due punti (126 contro 124) daInseparabili di Alessandro Piperno (Mondadori). E in fondo anche il vincitore della passata edizione, Resistere non serve a niente di Walter Siti (Rizzoli), era una narrazione atipica sul mondo della finanza.
Un paio di mesi e sapremo con certezza chi sono i concorrenti. Il gruppo Rcs, fresco di vittoria con il marchio Rizzoli, potrebbe partecipare con i Viaggiatori di nuvole di Giuseppe Lupo (Marsilio), storia di uno stampatore di origine ebraica del XV secolo già accolta entusiasticamente dalla Civiltà cattolica. Certa anche la partecipazione di Bompiani, indecisa tra più possibilità, mentre per il gruppo Gems circolano voci sulla candidatura diLa vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro (Ponte alle Grazie). Tra i piccoli potrebbe esserci Emanuele Santi (Il portieree lo straniero, L’Asino D’Oro) e sicuramente Elisa Ruotolo per Nottetempo (Ovunque, proteggi in uscita in questi giorni). In più si vedrà il debutto di una graphic novel, Unastoria di Gipi (Coconino-Fandango), e si parla di un premio per i giovani: un modo per movimentare le acque, in mancanza di duello.

Repubblica 10.1.14
Il codice di Babilonia
“Sono in mesopotamia le vere origini della nostra politica
Parla l’archeologo Giorgio Buccellati, docente a Los Angeles, che per anni ha scavato nella regione
“Lo sviluppo del linguaggio urbano e il politeismo hanno portato il progresso scientifico”
intervista di Giulio Azzolini


«Nel 1968, entrando nell’Istituto Orientale di Los Angeles dove lavoravo con mia moglie Marilyn, alzai gli occhi e riconobbi una scritta sulla facciata: “Le passioni dell’irrilevanza”. A ripensarci, fu una sorta di monito». Da allora è come se Giorgio Buccellati, archeologo, classe 1937, non abbia mai smesso di “rilevare”. Oggi si divide tra la California e la Val d’Ossola, ma ha attraversato il mondo, scavando in Siria, Turchia, Iraq e Caucaso. Distinguendo l’effimero dal prezioso. Calibrando le epoche sul metro dei millenni. Ricostruendo grammatica e semantica di lingue morte («meglio non chiamarle così», precisa). E sforzandosi di mostrare la rilevante attualità di ciò che un giorno apparteneva a una civiltà «interrotta» (l’aggettivo giusto).
Professore, leggere i primi due volumi del suo Corpus mesopotamico. Il paese delle quattro rive pubblicati negli ultimi mesi da Jaca Book (gli altri due usciranno nel 2015), dà una sensazione di vertigine. Per lei la preistoria non è un passato oscuro e ineffabile, ma la radice viva di questo nostro terzo millennio. È così?
«Sì, lo scopo del progetto è proprio comunicare il valore sostanziale della civiltà mesopotamica per il mondo contemporaneo. Il racconto è basato sulla lettura dei dati con cui ho lavorato per tutta la vita, ma l’universo che questi rivelano è descritto in vista di interessi perenni, dunque anche presenti. Alle origini della politica dà la prospettiva cronologica alla serie. Il pensiero nell’argilla e Le forme della fantasia saranno dedicati rispettivamente alla letteratura e all’arte. E «Quando in alto i cieli... », benché sia uscito per primo, è il libro idealmente conclusivo».
Lei confronta la spiritualità politeistica della Mesopotamia con la religiosità monoteistica della Bibbia. Qual è la differenza tra le due?
«Il contrasto principale riguarda l’atteggiamento nei confronti dell’assoluto. Il monoteismo biblico rinuncia a frammentarlo e così a spiegarlo; il politeismo mesopotamico, invece, lo fa a pezzi per poterlo analizzare e controllare. Sono strutture culturali parallele e irriducibili, ma è la spiritualità mesopotamica ad aver fatto da matrice storica per il secolarismo e il progressismo scientifico. Non bisogna prendersi troppo gioco del politeismo, perché i riti e le mitologie celano una razionalità variegata e rigorosa,che sotto diversi aspetti permane».
Nella civiltà mesopotamica avrebbero luogo anche le «grandi trasformazioni» all’origine della politica occidentale. Vorrebbe indicarle?
«Il motore iniziale, che ancor oggi è acceso, non scaturisce tanto dalla rivoluzione urbana, hurrita prima e sumera poi. La prima grande trasformazione è l’introduzione nel tardo paleolitico del linguaggio articolato e sintattico. Il secondo fattore decisivo è la funzionalizzazione. La società nasce quando il rapporto tra gli uomini passa dal personale al funzionale: esiste una certa casella funzionale, la quale vincola chiunque vi sia inserito ad agire in un modo preciso e perciò prevedibile».
Qui entra in scena il potere. Perché individua nella «direzionalità» la sua natura più propria?
«Il termine leadership ormai è usurato, tanto da confondersi con l’idea di comando. Invece il potere, non solo quello antico, è sì violenza, ideologia, amministrazione, ma anche e soprattutto capacità di creare consenso su una linea precisa, che stabilisca il senso di un gruppo. Non a caso nell’etimologia di “governo” risuona il termine “timone”. Per non parlare della metafora del re pastore, che risale al terzo millennio a.C.».
Stando all’indice, Alle origini della politica sembra un manuale di relazioni internazionali: si parla di egemonie e stati, di sovranità e territorialità.
«Non bisogna fossilizzarsi sul nominalismo. Ai mesopotamici non erano aliene le parole, ma il modo formale, tipicamente moderno, di analizzarle. Ad esempio, non avevano le parole “verbo” o “aggettivo”, ma utilizzavano verbi e aggettivi. Come non c’era una grammatica della lingua mancava una teoria della politica, eppure parlavano e chiaramente conquistavano».
Il libro contiene persino una chiave di lettura del postmoderno. Accenna alla post-istoria, insiste sull’idea di controllo e, soprattutto, sull’analogia tra globalizzazione e impero. Perché?
«L’impero si sviluppa pienamente con gli assiri, ma il suo concetto è quasi viscerale. L’impero non è uno Stato grande, è una compagine di elementi eterogenei ideologicamente unificati. La logica imperiale tende a includere l’intera ecumene e non tollera nulla al di fuori di sé. In questo somiglia molto alla globalizzazione odierna».
Il suo sembra un approccio archeologico al mondo, non tanto al sapere, come quello che tentava Michel Foucault. Che cos’è per lei l’archeologia?
«L’archeologia non è una teoria, tantomeno una filosofia della storia. Ciò che l’archeologo, e nessun altro, fa è disseppellire e rendere ragione dei materiali di civiltà collassate su loro stesse. E per ricostruire la sensibilità e l’esperienza di tradizioni interrotte, nessun loro portatore cosciente può fornirgli testimonianza. Un archeologo è solo nel confronto coi dati. Per giocare col titolo di Oliver Sacks, è sempre “un archeologo su Marte”».
Lei, invece, è archeologo cosmopolita per formazione. Laurea in Lettere classiche alla Cattolica, PhD a Chicago, cattedra a Los Angeles. Quali sono stati i suoi maestri?
«A Milano ho imparato l’ebraico da Giovanni Rinaldi. A Chicago il mio supervisore in assiriologia fu Ignace Gelb. Ma ho studiato anche filosofia, a Innsbruck e a New York con Dietrich von Hildebrand».
Finché nel 1973 fonda l’Istituto di Archeologia all’Università della California, oggi tra i più importanti al mondo...
«Ero molto giovane e, benché lavorassi già come archeologo, insegnavo soprattutto linguistica e storia. Immaginavo una scuola che esaltasse il dialogo fra le tre discipline. Una profonda vocazione interdisciplinare che è rimasta ».
Lei è stato tra i primi a utilizzare il computer negli scavi archeologici. A cosa le è servito?
«L’archeologia è l’unica scienza dove non si può ripetere l’esperimento. Il computer consente di registrare i momenti dello scavo e di ottenere una grammatica della stratigrafia. Ma il computer non è solo un mezzo di lavoro: ha inciso sulla mente umana più di ogni altro strumento. Introducendo un “pensiero digitale” fatto di ipertesti, registri paralleli e, soprattutto, di nessi inediti».
La maggior parte delle persone, però, si accontenta della mobilità virtuale. Invece a lei andava stretta anche la carriera accademica. Perché? Nasconde forse uno spirito da Indiana Jones?
«No, no (ride), non ho mai subito il fascino dell’esplorazione in quanto tale. Il fascino della conoscenza, quello sì. Se ho potuto avvicinarmi al mondo degli scavi, è perché conoscevo il babilonese. Ma l’archeologia ha sempre attratto il cinema. Qualche anno fa, Martin Sheen ha festeggiato il suo compleanno con noi a Urkesh».
Aveva allestito una scenografia degna di Hollywood...
«Per lui era così, ma io preferisco pensarmi come un direttore d’orchestra. Gli strumenti sono i reperti: affinché suonino, rievocando l’atmosfera di una civiltà antica, a me tocca disporli con armonia nel sito. La difficoltà è che, per riuscirci, non c’è spartito su cui possa contare».

l’Unità 10.1.14
Il Pd non sia profeta disarmato
di Alfredo Reichlin


l’Unità 10.1.14
Renzi-Letta ai ferri corti
articoli di Andriolo, Fantozzi, Fusani, Zegarelli


il Fatto 10.1.14
La situazione si fa difficile. E sul Colle arriva D’Alema...


LA SITUAZIONE è difficile, si sa. Persino il solitamente assai interventista presidente della Repubblica sembra in questa fase osservare quel che succede più che dettare l’agenda come al solito. Quale idea migliore, dunque, che farsi una bella chiacchierata col più tattico tra i politici italiani per chiarirsi le idee? È per questo che non desta sorpresa che ieri pomeriggio Giorgio Napolitano – dopo una corroborante cerimonia per i 150 anni del Club alpino italiano – abbia trovato il tempo per ricevere al Quirinale nientemeno che Massimo D’Alema. Nel comunicato del Colle non si spiega il perché dell’incontro, ma con l’ex premier e compagno di partito da una vita di cose da dire ce ne sono molte: il nuovo corso di Renzi alla guida del Pd, i rapporti non proprio sereni dentro la comunità ex diessina, la candidatura alle Europee del lider Maximo che agita i sonni del sindaco di Firenze e dei suoi accoliti. “Non c’è mica solo D’Alema”, ha risposto stizzita Maria Elena Boschi in tv a Bruno Vespa che le proponeva la questione. Non c’è mica solo il Pd, potrebbe rispondere l’interessato: un posticino potrebbero offrirglielo infatti i partiti socialisti francese o tedesco.

il Fatto 10.1.14
I conti (salati) al ristorante del renziano Carbone
Circa 15mila euro in cene e viaggi
di Alessandro Ferrucci e Carlo Tecce


Il carteggio è definito “copioso” dai protagonisti. A volte con toni piccati, puntiglioso nelle argomentazioni, rari spunti ironici, citazioni in latino tanto per impressionare l’interlocutore. Accuse reciproche su circa quindicimila euro di rimborso spese. Da una parte c’è il Collegio Sindacale della Sin, Sistema Nazionale Integrato per lo sviluppo dell’Agricoltura, dall’altra il suo ex presidente e amministratore delegato, Ernesto Carbone, esponente Pd di neanche quarant’anni, fiero renziano, considerato un figlio privilegiato della nuova politica per età, esperienze e relazioni trasversali. Un predestinato.
IL 23 DICEMBRE scorso il Fatto Quotidiano si è occupato dello scontro tra lui e il Collegio, raccontando le spese “ingiustificate” (così vengono definite nel carteggio) da parte dell’ex dirigente. Oggi le notule hanno acquisito un ulteriore valore. Un ristorante, un aperitivo, un taxi alle due di notte, un aereo verso la Croazia, un treno per Bologna in business, ovvio, un altro da Roma sempre per Bologna e sempre in business. Ancora aperitivo. Il pranzo. Cena. Viaggio. Sosta. Aperitivo. La sua si potrebbe definire una vita intensa a prova di colesterolo, come raccontano le specifiche presentate. In ordine sparso: amatriciana, ostriche, crocchette di baccalà, moscardini fritti, polpettine di tonno (il suffisso ine va molto di moda nella Capitale, pare renda il piatto presentato più chic). Fettuccine alle triglie. Paranza. E ancora, e ancora, fino a un totale di 15.770, 05 euro spesi in appena otto mesi; 1.050 dei quali sono stati restituiti dallo stesso Carbone. Ma il punto è un altro: secondo il contratto siglato dall’esponente Pd, l’unico compenso percepito doveva essere lo stipendio (60 mila euro l’anno) senza l’aggiunta di alcun benefit. Né ristorante, né taxi, né viaggio. Niente. Eppure lo stesso Carbone si è fatto assegnare una carta aziendale senza passare dal consiglio – come da regolamento – per poi spendere a suo piacimento, come gli viene contestato negli atti del Collegio. E sono finanziamenti pubblici arrivati dall’Europa. Il Sin dispone di 7,2 miliardi di euro che annualmente vengono affidati all’Italia dalla Pac, la Politica agricola comunitaria dell’Unione europea; il Sin gestisce il Sian (Sistema informativo agricolo nazionale), il meccanismo attraverso il quale lo Stato individua, controlla e ripartisce i fondi destinati agli agricoltori nazionali .
Insomma, un gigantesco forziere dentro al quale girano le speranze, aspettative, sogni e delusioni di centinaia di migliaia di piccoli, magari piccolissimi, medi e grandi coltivatori nostrani. Carbone per due volte è stato ai vertici e nella seconda occasione è incappato in una situazione dove si “ribadisce il carattere di gravità delle irregolarità ed illegittimità riscontrate”, come scrive il Collegio, non convinto delle specifiche offerte dal democratico. Quest’ultimo, infatti, in un secondo tempo ha presentato gli scontrini richiesti, con scritto a penna sul retro il motivo della rappresentanza. Ecco un generico “Senato”, un altrettanto vago “Camera”, quindi “Fin-meccanica”, “Mipaf”, sempre così.
NESSUNA ulteriore specifica su “chi” della Camera o del Senato. In alcuni casi compare “Gabinetto”, e proprio in quel periodo ricopriva anche il ruolo di vice capo di gabinetto al ministero delle Politiche Alimentari e Forestali. In sostanza, un pranzo di rappresentanza con se stesso. E che conti, con botte da 130 euro per una sola persona, altri più bassi, altri molto più alti, nei migliori esercizi della Capitale, tanto da poterlo considerare un neo “Trip advisor” per varietà, eccellenza e frequentazione. Contatto dal Fatto, Carbone ha replicato: “Il Collegio ce l’ha con me perché ho apportato tagli e ho messo mani dove non dovevo. Andate a vedere quanto costa adesso il Collegio composto da tre persone di cui due siciliani: 390.000 euro totali l’anno e stanno anche 4 giorni a Roma in albergo, per fare cosa? Le mie spese, invece, sono tutte giustificate e inferiori rispetto a quelle dei miei predecessori”. Sul suo sito scrive: “Ormai siamo un Paese abituato agli scandali, ai furti legalizzati, a fantaprogrammi pieni di promesse vuote. Dobbiamo tornare a pretendere serietà, rispetto e trasparenza perché l’Italia non è di chi la governa ma di chi la vive”. Sante parole.

il Fatto 10.1.14
Fassina, tanti buoni motivi per dimettersi
di Luisella Costamagna


Caro Onorevole Stefano Fassina, innanzitutto un plauso al gesto: in un paese in cui l’attaccamento alla poltrona supera quello alla mamma, vedere che lei “non ha la colla nelle chiappe” – come disse, con sottilissima metafora, l’ex ministro dimissionario Josefa Idem – è una boccata d’ossigeno. Ma oltre al gesto formalmente apprezzabile c’è anche il merito, e su questo mi permetto di sollevare alcune perplessità. Una su tutte: possibile che con tutti i problemi che abbiamo, con i dati economici drammatici che riguardano l’Italia e che lei conosce bene, dobbiamo trovarci senza viceministro dell’Economia (mica un ruolo qualunque) per la battuta-non battuta del segretario Renzi “Fassina chi? ”.
Laureato alla Bocconi, economista al Fondo Monetario Internazionale, lei rivendica, a differenza di Renzi, “un ex portaborse diventato sindaco di Firenze per miracolo” – parole sue – “una lunga esperienza professionale fuori dalla politica”. Da tangenziale alla politica ora però lei è diventato perpendicolare: perché invece di mettere queste competenze (rare nel nostro panorama politico, ahimè) al servizio degli italiani, decide di dimettersi per beghe di partito? Perché questo sono: lei ha chiesto un rimpasto di governo per far entrare – e “responsabilizzare” – i renziani dopo il congresso e Renzi l’ha liquidata con una battuta-non battuta. I disoccupati, gli imprenditori, i precari, le famiglie italiane non stanno più nella pelle per questa querelle d’inizio anno! Chi dovrebbe occuparsi del loro pasto pensa al rimpasto. Applausi.
Di occasioni per dimettersi, caro Fassina, ne avrebbe avute di ben più dignitose in questi otto mesi. All’inizio, per la verità, manco voleva entrarci, nel governo, per la “continuità con Monti”, ma è bastata la nomina a sottosegretario prima e a viceministro poi, per farle cambiare idea. Dopodiché ha combattuto – e perso – molte battaglie: non sarebbe stato meglio lasciare per l’aumento dell’Iva, il taglio dell’Imu, la sudditanza all’Europa, la legge di Stabilità a sua insaputa, invece che per Renzi? Soprattutto, ci saremmo aspettati le sue dimissioni dopo aver detto: “Esiste un’evasione di sopravvivenza. La pressione fiscale è insostenibile”, che è come se un magistrato dicesse “capisco i delinquenti”. Invece niente, rivendicò quella frase e rimase al suo posto, ottenendo il plauso di Brunetta, che la paragonò giustamente a Berlusconi (ma non era Renzi quello che a suo dire “ripete a pappagallo ricette di destra”?), e del centrodestra. Gli stessi che ora si congratulano per il suo passo indietro e le fanno tanto piacere. Sigh. Non pago, si fece pure fotografare cheek to cheek con Brunetta su Panorama per annunciare “La nostra grande intesa”. Questo sì è insostenibile! Adesso, da deputato semplice (e forzista ad honorem), cosa farà? Guiderà l’opposizione interna al Pd o si dimetterà pure dal partito e tornerà a fare l’economista? Sono le domande su cui si arrovellano tutti gli italiani, che purtroppo non si possono dimettere da nulla. Un cordiale saluto.

Repubblica 10.1.14
Svolta di Vendola, il futuro di Sel è la federazione con i democratici
E già si pensa a un correntone di sinistra con Fassina
di Giovanna Casadio


ROMA — «Quando sarà il momento Sel si scioglierà in qualcosa d’altro». Nichi Vendola lo dirà tra quindici giorni nel congresso che solo un anno fa, quando con l’ex segretario democratico Bersani diede vita all’alleanza “Italia bene comune”, mai avrebbe immaginato così “solitario”. Eppure già nell’ottobre del 2010 quando “Sinistra ecologia e libertà” fece il suo primo congresso a Firenze, reduce da scissioni e ricomposizioni, Vendola annunciava un partito di transizione. Poi è andata come è andata. I vendoliani sono finiti all’opposizione e ora una nuova svolta. A Riccione si terrà dal 24 al 26 gennaio l’assise in cui Sel si gioca il tutto per tutto: quale futuro per sopravvivere. E Vendola sta pensando di instaurare con il Pd di Renzi un rapporto sul “modello Landini”.
Dialogo e intese su alcune questioni, come ha inaspettatamente fatto il leader della Fiom, Maurizio Landini. Un percorso a tappe per i vendoliani. Con l’obiettivo, a fine percorso, di una federazione democratica. Sarebbe l’unico modo per uscire dall’impasse in cui il governo Letta e la coalizione dei dem con la destra, hanno ricacciato la sinistra storica: nella ridotta cioè di un’opposizione sbiadita e schiacciata dai grillini. Sel morde il freno. La mozione unica di Vendola dal titolo che è tutto un programma (“La strada giusta”), sarà vincente. Se anche il “governatore” della Puglia, sotto botta per la vicenda Ilva, volesse congelare le scelte in attesa di vedere cosa succede al governo sotto la pressione di Renzi, ci sono due bivi in primavera: le europee e le amministrative. Sono il primo banco di prova. E poi c’è la partita delle elezioni politiche, per la quale non ci si può fare trovare impreparati. Qui la legge elettorale farà la differenza: se dovesse passare una riforma alla spagnola, che favorisce il bipartitismo, la strada di un abbraccio stretto fino alla fusione con il Pd sarebbe segnata per Vendola. Ma Sel èper ora schierata con il Matterellum, che premia le coalizioni e quindi consentirebbe di riscrivere la partitura del centrosinistra.
Però prima ci sono le europee. Sel è divisa tra chi non disprezzerebbe di partecipare alle liste di personalità per Tsipras, il leader della sinistra radicale greca, e chi pensa si potrebbe fare come il Pd, e cioè schierarsi con il Pse e per Martin Schulz. Scelte che si trascinano una ricaduta sulla politica domestica. Vendola per ora dice che si potrebbe tentare una terza strada, cioè correre alle europee in proprio e vedere come va. Per questo nei prossimi giorni i vendoliani presenteranno alla Camera una proposta di legge per abolire la soglia del 4% alle europee, che li vedrebbe del tutto penalizzati in una corsa in solitaria. Le differenze nel partito ci sono, eccome. Sopite? Gennaro Migliore, il capogruppo alla Camera, dichiara che la discussione è in corso. «I migliori risultati noi li abbiamo ottenuti quando siamo stati in un campo unitario del centrosinistra - riflette Migliore - Renzi è un’occasione, nel senso che possiamo ritrovarcisul no alla Bossi-Fini, per la legge sulla rappresentanza sindacale e sui diritti civili». E avvicinarsi fino ad entrare nel Pd per costituire un “correntone”? Nelle file del Pd si fa largo l’ipotesi che la mossa di Stefano Fassina di lasciare il governo e guidare una opposizione dentro il partito, miri a un “correntone” irrobustito da Sel, tutta o in parte. Idee che nascono dall’incertezza sul ruolo di Sel. «Ci sono diversità, certo, tra di noi, le perplessità che però non sono così rilevanti rispetto alla leadership di Nichi», commenta Ciccio Ferrara. Più a disagio sulla vicenda europee è l’area ecologista guidata da Loredana De Petris. Schierata per il Pse è Titti De Salvo. E al congresso Sel ha invitato Renzi: attende risposta nella prossima settimana. Inviti stanno per essere recapitati anche ai leader dei partiti progressisti e della sinistra europea, a Schulz come a Tsipras.

Oggi alle 11.30 è ospite di Repubblica Tv Stefano Fassina, ex viceministro dell’Economia dimessosi sabato in polemica con Renzi

l’Unità 10.1.14
Con il «Jobs Act» riparte il cantiere di sviluppo e lavoro
Camusso auspica una maggior ambizione e la patrimoniale per trovare le risorse
Cuperlo è pronto ad andare a «vedere» la proposta di Renzi
I Giovani Turchi «positivamenti sorpresi» dal documento
articoli di Venturelli e Frulletti


Il testo integrale sul sito di Matteo Renzi, qui

il Fatto 10.1.14
Il lavoro secondo Matteo. Costi e omissioni del Jobs Act
di Salvatore Cannavò e Stefano Feltri


SERVONO DUE MILIARDI PER RIDURRE L’IRAP, I COSTI DELL’ENERGIA SALGONO E LA LEGGE SUI SINDACATI È GIÀ IN PARLAMENTO. ANALISI DEL PIANO DEL SINDACO

Quanto c’è di nuovo e, soprattutto, di fattibile nel tanto atteso Jobs Act di Matteo Renzi, annunciato nelle sue grandi linee mercoledì sera? Ecco una prima analisi dei punti principali.
• Taglio dell’Irap del 10 per cento finanziato dall’aumento dell’aliquota sulle rendite finanziarie.
L’Irap vale 33 miliardi all’anno e serve a finanziare la sanità delle Regioni. Ammesso che Renzi voglia ridurre del 10 per cento solo l’Irap privata, che vale una ventina di miliardi, dovrebbe comunque trovare 2 miliardi di copertura, un aumento del carico fiscale di circa il 20 per cento, non poco.
•Energia: ridurre il costo del 10 per cento per le aziende attraverso un taglio degli “incentivi cosiddetti interrompibili”.
Martedì sera a Otto e Mezzo Renzi aveva un’idea completamente diversa: tagliare gli oneri di distribuzione, cioè far pagare il conto alle reti (Terna e Snam) e ai venditori di energia. La nuova proposta invece mira a ridurre quei 600-700 milioni all’anno dati a grandi aziende disposte a subire un’interruzione della fornitura di energia. Il costo viene scaricato sulle altre imprese. Tagliare questi incentivi “interrompibili” avrà come effetto immediato quello di far salire i costi per alcune grosse aziende.
•Assegno universale per chi perde il lavoro, con obbligo di seguire un corso di formazione e di non rifiutare più di una proposta di lavoro.
L’assegno universale esiste già, è l’Aspi e la mini-Aspi introdotta dalla riforma Fornero nel 2012 e perde il diritto a riceverla chi “non accetti una offerta di un lavoro superiore almeno del 20 per cento rispetto all'importo lordo dell’indennità cui ha diritto”. L’unica cosa che Renzi può fare è ridurre i requisiti necessari per accedere all’Aspi. A meno di non voler rivedere del tutto gli ammortizzatori sociali a partire dalla cassa integrazione
•Obbligo di rendicontazione online ex post per ogni voce dei denari utilizzati per la formazione professionale finanziata da denaro pubblico.
Il pozzo oscuro della Formazione professionale è bene che sia illuminato perché assorbe circa 600 milioni l’anno senza controlli. Non è detto, però, che una volta controllati i fondi il lavoro lo si crei davvero o i corsi divengano davvero formativi.
Eliminazione della figura del dirigente a tempo indeterminato nel settore pubblico.
Serve a contrastare l'inamovibilità dei dirigenti della Pa anche se incapaci. Eliminare la garanzia dell'incarico a tempo indeterminato rende i dirigenti più soggetti alla politica.
Trasparenza: amministrazioni pubbliche, partiti, sindacati devono pubblicare online ogni entrata e ogni uscita.
Sarebbe una novità positiva, in particolare per le spese delle Pubbliche amministrazioni. Ma anche per partiti e sindacati, finora esentati dal rendere trasparenti i loro bilanci.
•Nuovi posti di lavoro. Per sette settori (Cultura-Turismo-agricoltura, Made in Italy, Ict, Green economy, Nuovo Welfare, Edilizia, Manifattura), il JobsAct conterrà un singolo piano industriale.
Il cuore del “piano del lavoro” di Renzi non ha concretezza. Si limita ai titoli.
•Presentazione entro otto mesi di un codice del lavoro.
Il Codice del lavoro forse va presentato prima di otto mesi, il tempo delle attese non era finito?
•Riduzione delle varie forme contrattuali, oltre 40. Processo verso un contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti.
Le forme di lavoro previste dalle attuali normative sono, probabilmente, 40 ma quelle utlizzate non arrivano a dieci (tempo indeterminato o determinato, contratti a progetto, lavoro interinale, lavoro stagionale, le “false” partite Iva, lo staff leasing e poco altro). Il contratto unico indeterminato è stato proposto inizialmente da Tito Boeri e Pietro Garibaldi e si basa sull'idea che basti una forma contrattuale in cui il raggiungimento di tutte le garanzie avvenga nell'arco di tre anni. Una razionalizzazione che va verso la stabilità solo se spazza davvero via tutte le tipologie contrattuali esistenti. Se si trasforma in un “processo” potrebbe significare solo un nuovo modo di chiamare la realtà esistente.
•Agenzia Unica Federale che coordini i centri per l’impiego, la formazione e l’erogazione degli ammortizzatori sociali.
La novità più rilevante attiene alla possibilità di erogare gli ammortizzatori sociali da parte di un'Agenzia unica che sostituirebbe l'Inps. I Centri per l'impiego sarebbero frequentati in modo significativo. Ma i 556 Centri diffusi in Italia danno lavoro solo al 3,7% dei richiedenti, mentre in Germania la percentuale è del 13. L'agenzia unica può servire a coordinare meglio ma, al fondo, la differenza sarà fatta dalle effettive opportunità di lavoro.
•Legge sulla rappresentatività sindacale e rappresentanti eletti dai lavoratori nei Cda delle grandi aziende.
La legge è già in discussione alla commissione Lavoro della Camera. La si potrebbe approvare in poche settimane rendendo felici sia la Fiom che la Cgil. Sull'ingresso nei Cda delle aziende: il sistema tedesco, la Mitbestimmung, prevede la presenza dei lavoratori in Consigli di sorveglianza con possibilità di intervenire sulle scelte aziendali e, anche, di nominare i manager. Ma non di divenire azionisti o amministratori dell'impresa.

il Fatto 10.1.14
Le reazioni
Lo scontro con la Cgil non c’è stato E adesso si scoprono tutti renziani
di Sal. Can.


La bozza del Jobs Act per ora mette d’accordo tutti. O, perlomeno, non incontra grandi resistenze. Il tanto temuto scontro con la Cgil non c’è stato. Almeno per ora. Il sindacato di Susanna Camusso ha scelto di non esporsi in uno scontro con un leader che, al momento, gode ancora del vento delle primarie. “Positivo che finalmente si parli di lavoro”, ha detto ieri il segretario generale della Cgil, che si è concessa il lusso di rimproverare Renzi per la “scarsa ambizione”. Via libera al contratto unico, bocciatura dei lavoratori nei Cda, richiesta di attenzione per i dirigenti della Pubblica amministrazione. Ma, soprattutto, qualcosa di più concreto sulle misure per creare davvero lavoro. Grande apertura, invece, da parte di Raffaele Bonanni, segretario Cisl, mentre Maurizio Landini, conferma i giudizi positivi dei giorni scorsi anche se chiede di estendere alcuni diritti o di porre il tema della riduzione dell’orario di lavoro. Per la prima volta, però, nessuno parla di articolo 18 e qui sta forse il punto a favore di Renzi.
Non si mette di traverso nessuno neanche dal fronte interno al Pd. Nemmeno i “lavoristi” alla Cesare Damiano che si limita a mettere le mani avanti sul rischio di intaccare la cassa integrazione. Semmai, la polemica più diffusa è sulla mancanza di coperture finanziarie, come fa notare il ministro Flavio Zanonato o quello del Lavoro, Enrico Giovannini. La minoranza del Pd, che si riunirà martedì sera, non ha alcuna intenzione di seguire la linea bellicosa di Stefano Fassina e per il momento punta al dialogo con Renzi. Anche dal Movimento 5 Stelle, con Paola Taverna, si parla di “parziale condivisibilità” delle misure anche se, nota la senatrice, “sarebbe meglio il reddito di cittadinanza. Ma aspettiamo dei vedere i fatti”. Via libera anche dall’Unione europea con il Commissario al Lavoro, Laszlo Andor. Caustico , invece, il giudizio che Forza Italia esprime tramite Renato Brunetta: “Lavoro da dilettanti” mentre Scelta Civica presenta il proprio Jobs Act, riprendendo il codice del lavoro di Pietro Ichino. Da sinistra, invece, netta bocciatura da parte di Giorgio Cremaschi, della minoranza della Cgil, mentre il deputato di Sel, Giorgio Airaudo, sfida Renzi sulla rappresentanza sindacale: “La legge è in Commissione alla Camera, se vuole la si approva in un mese”.
 
La Stampa 10.1.14
Fassina: “Condivisibile però non è un piano: manca il sostegno alla domanda”
intervista di Francesca Schianchi

qui

l’Unità 10.1.14
Lavoro e welfare, la sfida del congresso della Cgil
Il vero tema è come il sindacato affronta la crisi e si riappropria di attenzione e consenso
di Carla Cantone


l’Unità 10.1.14
Legge elettorale in Aula il 27
Il segretario Pd incassa e intanto ufficializza la sua ricandidatura a Firenze
di Vladimiro Frulletti


il Fatto 10.1.14
Il pentito Storico
“Roby il pazzo” che annientò Prima Linea
di Gian Carlo Caselli


La notizia delle morte di Roberto Sandalo riporta alla memoria la sconfitta del terrorismo “rosso”, iniziata nel 1980 quando – tra le giostre di piazza Vittorio – finisce in manette Patrizio Peci, capo della colonna torinese delle Brigate Rosse. Con le sue rivelazioni, Peci consente di individuare i responsabili di tutti gli omicidi, gambizzazioni”, rapine e sequestri commessi a Torino (e non solo) dalla sua banda. Innesca inoltre una reazione a catena che porta ad un’infinità di altri pentimenti, determinando il crollo verticale delle Br. Una banda armata non meno sanguinaria era “Prima linea”. Peci parla anche di un “piellino” torinese aspirante brigatista ed in pochi giorni costui viene identificato in Roberto Sandalo, detto “Roby il pazzo”, ex membro del servizio d’ordine di Lotta Continua. Peci sa tutto perché è un capo. Sandalo no, ma è ugualmente a conoscenza di informazioni decisive. Pl infatti era un’organizzazione più movimentista, più slabbrata rispetto alle verticistiche e catacombali Br. Per questo anche un quadro non di vertice come Sandalo è in grado di fornire informazioni che disarticolano da cima fondo l’organizzazione fino a disintegrarla. E al pari di Peci, Sandalo ebbe il merito di essere il primo anello di una catena infinita di altre collaborazioni.
Tra le migliaia di notizie fornite, Sandalo rivelò anche che fra i capi di Pl vi era un tal Comandante Alberto, presto identificato in Marco Donat Cattin, figlio del senatore e ministro Carlo. Sandalo parlò anche di alcuni suoi incontri con il senatore, che gli aveva riferito di colloqui con il presidente del consiglio Cossiga in ordine alla posizione del figlio Marco. Nell’adempimento dei nostri doveri istituzionali inviammo gli atti alla Camera (Commissione per i procedimenti di accusa). L’ipotesi era di violazione del segreto per consentire la fuga di un terrorista.
ALLA FINE di un tormentato iter il Parlamento bocciò la proposta di messa in stato d’accusa davanti alla Corte costituzionale con 535 voti contro 370 e il caso venne chiuso. In una intervista rilasciata anni dopo ad Aldo Cazzullo (7 settembre 2007), Cossiga dirà che aveva tenuto (essendosi saputo che Peci aveva fatto il nome di Marco Donat Cattin) questo comportamento: “Presi su di me la grana. Verificai la notizia e avvertii il mio ministro che suo figlio era ricercato. Va detto che non sapevo di quanti e quali reati si fosse macchiato il ragazzo; ignoravo che fosse nel gruppo che aveva assassinato il giudice Alessandrini. E chiesi a Donat-Cattin di dire al figlio di consegnarsi e raccontare tutto quanto sapeva”. Ora, poiché – lo ripeto – inviare il fascicolo al Parlamento era stato semplicemente doveroso (gli estremi per farlo c’erano proprio tutti, che poi gli elementi non siano stati considerati sufficienti in sede politica, è ovviamente un altro discorso), francamente non sono mai riuscito a capire perché Cossiga se la sia presa così tanto con me e non abbia mai nascosto di avermela giurata.
Va ancora ricordato che i segretissimi verbali di Patrizio Peci, comprese le parti in cui si racconta del “piellino” Sandalo e di Marco Donat Cattin, finirono sui giornali (il vice capo dei Servizi di allora fu incarcerato). In forma integrale il 3,4 e 5 maggio 1980 su Il Messaggero. In parte il 7 maggio su Lotta Continua, dove mancavano però alcune pagine, segnalate con la scritta: “A questo punto nel verbale manca un foglio”. Ma per la pagina di Marco Donat Cattin (n. 50 del verbale Peci), la scritta inserita da Lotta continua era diversa, perché – fingendo un refuso – si parlava ironicamente di mancanza di... “un figlio”. E tuttavia, questi venne individuato a Parigi dagli uomini del generale Dalla Chiesa, uno dei quali (un investigatore eccezionale, nome di copertura “Trucido”) si era appostato per giorni e giorni in metropolitana fingendosi suonatore ambulante. Arrestato ed estradato per gli omicidi commessi, Donat Cattin deciderà di collaborare ampiamente. E dire che all’inizio, ascoltando il racconto di Sandalo sul senatore Donat Cattin e Cossiga, confesso che restammo perplessi.
TUTTO SEMBRAVA un po’ surreale, in particolare il fatto che il senatore (ricevendo in vestaglia, nella sua casa torinese, il Sandalo) gli avesse indicato un suo segretario – tal Fantasia – a cui fare riferimento. A quel nome, “Fantasia”, mi si chiuse lo stomaco, perché temevo che “Roby il pazzo” stesse proprio lavorando di fantasia, prendendosi gioco di noi. E invece no, il segretario Fantasia esisteva davvero, così come erano vere tutte le altre circostanze riferite da Sandalo. Certo è che avvertimmo fin da subito nubi cupissime all’orizzonte a fronte di ipotetici scarsi vantaggi per le indagini. Perché, oltrepassare certi limiti fa sì che il cordone sanitario del potere scatti inesorabile ogni volta che ci si inoltra lungo sentieri “scomodi”, dove chi indaga seriamente rischia. Il potere in genere non è molto sportivo, accetta a fatica di essere chiamato in causa. Ma sono cose che imparerò ancor meglio quando deciderò, come procuratore di Palermo, di occuparmi senza sconti di mafia e politica.

La Stampa 10.1.14
Evitato il salasso ai prof
il conto lo pagano gli studenti I 500 milioni arriveranno dal fondo per l’offerta formativa
di Flavia Amabile


Messe da parte liti e polemiche, ora inizia la parte più difficile di questo pasticcio degli scatti dei prof: trovare i soldi. Innanzitutto bisogna capire la cifra da recuperare, persino questo ancora non è del tutto chiaro.
Si tratta di una cifra elevata, intorno al 500 milioni di euro in totale, suddivisi in circa 100-120 milioni relativi al 2012 e altri 380 per il 2013. Dove recuperare una simile cifra? Per il 2012 si dovrebbe riuscire a coprire la somma attingendo al 30% di risparmi derivanti dai tagli ai prof. Per il 2013, invece, si potrebbe finire per fare ricorso ancora una volta al «Mof», il fondo per il miglioramento dell’offerta formativa, cioè i soldi che le scuole usano per supplenti, progetti, integrazioni alla didattica.
Per fortuna alle scuole è già stata versata una prima parte dei fondi per l’anno scolastico in corso, 521 milioni di euro. Restano nella disponibilità dei tecnici al lavoro in questi giorni 463 milioni. Il partito di chi vuole evitare che vengano in gran parte usati per risolvere il problema lasciando le scuole senza soldi per la seconda parte dell’anno scolastico è forte ma difficile dire ora se si riusciranno a trovare alternative valide. Intanto ieri mattina con una nota il ministero dell’Istruzione ha sospeso il recupero degli incentivi economici già pagati nel 2013 al personale Ata come aveva chiesto il ministero dell’Economia.
E il governo sta pensando ad un provvedimento di legge per neutralizzare il provvedimento che sempre il governo Letta aveva emanato quest’estate ponendo le basi della richiesta del Mef ai prof di restituire gli scatti già percepiti.
I sindacati bocciano l’ipotesi di usare di nuovo i fondi destinati alle scuole. «E’ necessario che il governo reperisca risorse aggiuntive per ripristinare gli scatti. L’ipotesi di riduzione del «Mof» per pagare gli scatti del 2012 è consistente e impraticabile. Infatti il fondo si ridurrebbe a meno di 600 milioni di euro anche a seguito del taglio già effettuato per pagare gli scatti 2011. Si colpiranno pesantemente studenti, personale e famiglie». «Si cancelli la norma che nell’ottobre dell’anno scorso ha aggiunto un altro anno, il 2013, a quelli sterilizzati dal governo Berlusconi nel 2010 determinando il pasticcio poi evitato in extremis dal governo» chiede Francesco Scrima, segretario generale della Cisl scuola.
La questione scatti però rischia di provocare una valanga che il Tesoro potrebbe avere qualche difficoltà ad arginare. Anche altre categorie hanno subito il blocco degli scatti come i poliziotti. Se dovessero essere trovate risorse per pagar egli scatti ai prof estranee al ministero dell’Istruzione si creerebbe una sperequazione che provocherebbe forti proteste.
La Gilda, poi, denuncia un altro dei mille problemi del mondo della scuola, i precari sono senza stipendio da due mesi per uno dei ricorrenti blocchi del sistema informatico del Mef.

l’Unità 10.1.14
Lo scandalo di Roma
Crolla l’impero dei rifiuti
Sette arresti con accuse pesanti: tra di loro il patron della discarica di Malagrotta
di Anna Tarquini


l’Unità 10.1.14
«Trasparenza e legalità», Marino cambia i vertici Ama
di J. B.


La Stampa 10.1.14
Saluzzo, l’uomo accusato di abusi dal 2010 al 2013
Mostro o malato, scontro di periti sul prof che faceva sesso con le allieve
di Barbara Morra

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La Stampa 10.1.14
Oliverio, commercialista dei padri Camilliani e agente dei servizi segreti
Suo il dossier su Sabina Began, amica di Berlusconi
di Guido Ruotolo

qui

Corriere 10.1.14
Il fiscalista dei Camilliani lavorava per i servizi segreti
Avrebbe controllato la Began per conto degli 007
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Paolo Oliverio era un collaboratore dei servizi segreti. Il fiscalista arrestato per gli affari illeciti compiuti con l’ordine religioso dei Camilliani, ha collaborato per due anni con l’Aisi, l’agenzia per la sicurezza interna, all’epoca diretta dal generale Giorgio Piccirillo. È stato ingaggiato nel settembre 2009 per svolgere attività «coperta» senza retribuzione. Ed è stato aggregato alla sezione di intelligence economica. Ha dunque risvolti clamorosi e inquietanti la scoperta del suo archivio informatico che contiene dossier su politici, manager, 007, militari della Guardia di Finanza, personaggi dello spettacolo. Perché adesso bisognerà scoprire chi lo ha assoldato e soprattutto quale fosse la contropartita visto che non risulta aver ricevuto compensi in denaro. Alle verifiche della magistratura, si aggiungono quelle del Copasir, il Comitato parlamentare di controllo, che ha avviato un’indagine e ha già sollecitato chiarimenti ai vertici della struttura.
Gli evasori di San Marino
Il contatto tra il professionista (l’Ordine nazionale dei commercialisti smentisce che sia iscritto all’albo) e gli 007 avviene attraverso un funzionario di vertice nell’estate del 2009. Per accreditarsi e mostrare la propria affidabilità Oliverio consegna all’Aisi l’elenco degli italiani che hanno trasferito soldi a San Marino. L’informazione si rivela preziosa per l’intelligence , dunque si decide di portare avanti il rapporto. Ma qui sorgono i primi interrogativi. Perché Oliverio accetta di non guadagnare nulla? Che cosa riceve in cambio? È possibile che per questa collaborazione possa aver ottenuto una sorta di impunità, visto che al momento di essere «arruolato» aveva infatti alcune pendenze giudiziarie. Oppure — ed è questa l’altra ipotesi che dovrà essere esplorata — che anche lui abbia ottenuto informazioni riservate da utilizzare per i propri affari e interessi personali.
Quanto emerso finora nell’inchiesta condotta dal pubblico ministero Giuseppe Cascini e delegata agli investigatori della Guardia di Finanza guidati dal colonnello Cosimo De Gesù, accredita la possibilità che Oliverio abbia ricattato numerose persone. Non si può escludere che lo abbia fatto utilizzando anche notizie ricevute dagli 007. Del resto lui stesso si era accreditato come un agente segreto con numerosi interlocutori.
I rapporti con i prelati
È il superiore generale dei Camilliani Renato Salvatore — ancora in carcere per il finto sequestro dei suoi «oppositori» interni all’ordine religioso — a raccontarlo in una nota firmata dai suoi legali Massimiliano Di Parla e Annarita Colaiuda con la quale assicura di non aver avuto «alcuna consapevolezza dell’intreccio di relazioni con personaggi della politica, della criminalità, della finanza e dello spettacolo intessute da Oliverio».
Aggiungono gli avvocati: «Oliverio era conosciuto in ambito ecclesiale, tanto da essere presentato all’Ordine dei Camilliani proprio nel corso di una cerimonia di intitolazione cardinalizia di una Basilica minore del centro storico di Roma. Venne accreditato non solo come titolare di un importante studio tributario di Roma, ma anche come alto ufficiale della Guardia di Finanza sotto copertura per il suo ruolo nell’ambito dei Servizi Segreti. Ruolo che lo stesso Oliviero si è preoccupato di avvalorare nel tempo presso l’Ordine dei Religiosi Camilliani, attraverso dichiarazioni, comportamenti e abitudini».
I viaggi  della Began
Numerosi dossier trovati nell’archivio segreto custodito in una pen drive e nel computer sequestrati a Oliverio al momento della cattura sarebbero stati preparati proprio per essere consegnati agli 007. Nell’elenco c’è anche la pratica relativa a Sabina Began, l’«Ape Regina» di Silvio Berlusconi. Nell’informativa allegata agli atti si parla del «file 000488 denominato “visto Sabina Beganovic”, documento che riporta un apparente visto turistico rilasciato alla stessa Beganovic».
Secondo alcune indiscrezioni si tratterebbe di appunti relativi a un’attività che sarebbe stata commissionata al fiscalista dai suoi referenti all’interno dell’Aisi. Chi decise di mettere sotto controllo la «preferita» del presidente del Consiglio? Il Copasir ha chiesto di sapere chi abbia proposto Oliverio al vertice dell’intelligence e chi fossero i suoi referenti, la natura degli incarichi a lui affidati e soprattutto la portata delle informazioni date e ricevute. Domande che nei prossimi giorni potrebbero porgli anche gli inquirenti.

Corriere 10.1.14
Gian Luigi Gessa, neuropsicofarmacologo
«L’ho provata: la cannabis fa danni, l’alcol è peggio»
intervista di Elvira Serra


«Sulla cannabis gli scienziati si dividono in falchi e colombe. I primi sono contrari, le seconde favorevoli. Io non sono un volatile, non ho pregiudizi. Posso elencarne gli effetti positivi e negativi. Di certo, in una classifica di pericolosità collegata alla reale tossicità, la cannabis non la metterei in testa: prima l’alcol, poi l’eroina, la cocaina in forma di crack e la nicotina».
Gian Luigi Gessa è un neuropsicofarmacologo. Ha diretto a lungo il Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Cagliari trasformandolo in centro di eccellenza. Ha guidato per il Cnr diversi gruppi di ricerca sulle dipendenze. Interviene nel dibattito di questi giorni sulla liberalizzazione delle droghe leggere, su cui ieri si è espresso anche il ministro della Salute Beatrice Lorenzin dicendosi «assolutamente contraria».
Lei qualche anno fa, in un’intervista sull’Unione Sarda , ammise di aver provato la cocaina, per concludere che era meglio studiarla che prenderla. E la cannabis?
«Ovviamente l’ho sperimentata. Se si prova da adulto, le conseguenze non sono preoccupanti. A certe condizioni».
Quali?
«Molte. Anzitutto è necessario che abbia un alto contenuto di cannabidiolo, una sostanza cugina stretta del principio attivo che attenua quello che fa male».
Come si può essere sicuri che la cannabis sia «buona»?
«Non si può, non con quello che c’è in circolazione, senza regole».
Effetti negativi?
«Il primo e più grave è finire in prigione. Poi la capacità della sostanza di dare dipendenza. Ancora, un’influenza negativa sulla coordinazione motoria: se dopo guidi o vuoi fare sport, potresti avere degli incidenti. E ci sono ripercussioni sull’apprendimento e sulla memoria: durano una o due ore dal momento dell’assunzione».
E quali sarebbero i positivi?
«Il più gradito è l’euforia, un’allegria indistinguibile che nelle persone fortunate si genera naturalmente. Poi ci sono quegli effetti che ne rendono apprezzabile l’uso terapeutico, sempre a patto che ci sia il cannabidiolo: aumenta l’appetito, riduce la nausea, funziona da analgesico per i dolori neuropatici e per la cefalea, è efficace anche per il glaucoma. Artisti e musicisti gradiscono la percezione alterata dei suoni e dei colori».
Non è pericoloso?
«Sì, lo è in quelle persone che non dovrebbero provare la cannabis».
Chi sono?
«Gli adolescenti e i preadolescenti, perché in questa età il cervello si sta ancora formando. Oltre agli effetti detti prima: presentarsi a un’interrogazione sotto amnesia non va bene».
Chi altro non dovrebbe?
«Le persone vulnerabili, con disturbi psichiatrici o psicologici gravi, ansiosi, depressi, schizofrenici non manifesti».
Cosa risponderebbe a un adulto che le chiede se può «farsi una canna»?
«Se non rientra nelle categorie appena dette, non lo dissuaderei più che dal bere tre bicchieri di vino a cena: l’effetto è lo stesso e il rischio dipendenza minore».
Vista la sua esperienza, e dunque la sua capacità eventualmente di dosarne l’uso, perché non fuma cannabis?
«Perché non sento l’esigenza di provare un’euforia artificiale. Tutte le droghe, producono i loro effetti nel cervello sostituendosi fraudolentemente ai neurotrasmettitori. Il principio attivo della cannabis agisce sostituendosi all’anandamide. Ecco, io credo di averne pure troppa».

l’Unità 10.1.14
Le grandi coalizioni minano la democrazia?
Le Monde solleva la questione in prima pagina
Le larghe intese nate con la crisi «favoriscono il voto anti-sistema»
di Marina Mastroluca


Corriere 10.1.14
Storia di una parola ambigua. Il populismo di ieri e di oggi
risponde Sergio Romano


Il degrado delle istituzioni sembra essere anche conseguenza dell’improprio uso di molti lemmi. Per esempio: il populismo, che era un’ideologia che vedeva nel popolo un modello etico e sociale, è stato degradato al livello di razzismo: il peggior epiteto che si possa attribuire a una persona. Perché?
Qual è l’origine di questa trasformazione?
Giorgio Ricci

Caro Ricci,
La parola «populista» ha un’origine latina, ma secondo il Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia fu usata anzitutto in Gran Bretagna, verso la fine dell’800, per tradurre «narodnik (da narod, popolo)»: il termine russo con cui erano definiti i militanti di un movimento politico e sociale nato per «andare al popolo», per strappare le plebi dell’impero zarista alle loro miserevoli condizioni di vita. Il movimento era ispirato dall’amore per gli umili, dalla convinzione che soltanto nel loro cuore fossero depositati i semi della bontà, della giustizia e della verità, i valori che avrebbero redento l’umanità. Questa idealizzazione del popolo ispirò in quegli anni un grande numero di operatori sociali, missionari, intellettuali e lasciò tracce importanti nella letteratura verista e naturalista tra l’Ottocento e il Novecento. Ma produsse anche alcuni fra i più sanguinosi attentati, soprattutto in Russia, dei decenni che precedettero la Grande guerra.
Le prime critiche vennero dai marxisti e in particolare da Lenin, a cui non parve realistico pensare che la trasformazione della società potesse essere affidata allo spontaneismo di gruppi che agivano in modo confuso e velleitario. Per cambiare il mondo, occorrevano organizzazione, disciplina, una valutazione «scientifica» degli eventi storici, una strategia rivoluzionaria. Nato in Russia, il populismo trovò in quel Paese i suoi critici più severi.
Nell’Europa centro-occidentale, dove le condizioni delle masse popolari erano complessivamente migliori e i partiti socialisti potevano agire pubblicamente, il populismo non mise radici. Ma alcune delle sue tesi preferite sulle innate virtù del popolo finirono nel bagaglio ideologico di alcuni ambiziosi uomini politici che ne fecero un uso spregiudicato e si atteggiarono a incarnazione della volontà popolare. Vi sono tracce di populismo in tutti i sistemi autoritari e totalitari del ‘900. Il culto tributato a molti dittatori, da Mussolini a Stalin, ha una evidente matrice populista. Nelle democrazie contemporanee esiste da qualche anno un neo-populismo in cui un tribuno della plebe «va al popolo» per spiegargli che è vittima della globalizzazione, della Commissione di Bruxelles, dei «poteri forti», degli immigrati. Soltanto lui, il tribuno, è capace di interpretare i suoi sentimenti e battersi per i suoi diritti. Il popolo, in altre parole, ha sempre ragione, ma la distanza che separa questo slogan da un altro («Mussolini ha sempre ragione») è brevissima.

La Stampa 10.1.14
La Guerra fredda, lunga pace costata cara
Un saggio sugli anni dal 1945 alla caduta del Muro
Tra i due litiganti, chi ci ha rimesso è il Terzo mondo
Milioni di persone hanno perso la vita in conflitti e insurrezioni in Africa, Asia e Medio Oriente
di Umberto Gentiloni

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La Stampa 10.1.14
L’oligarca scomodo incastrato dalle mire russe
Una pedina di scambio per gli affari. François Hollande preferisce sbarazzarsi di un ospite scomodo
di Anna Zafesova

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La Stampa 10.1.14
Non tutti i dissidenti sono uguali
Da Khodorkhovsky a Gusinsky, gli uomini scomodi dell’ex Urss hanno sempre trovato protezione da parte dei Paesi europei, indipendentemente dalle accuse che venivano loro rivolte. Come mai per Ablyazov è andata diversamente?
di Anna Zafesova

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La Stampa 10.1.14
“Una vergogna. Mio marito finirà di certo torturato”
di Alma Shalabayeva


Questa decisione è una  vergogna per la giustizia francese. Il tribunale ha sostenuto le menzogne che provengono dal regime kazako. Per mio marito, l’estradizione equivale a  una sentenza di morte. E se  sarà estradato non rivedrà  mai più me o i nostri quattro  figli. Non potrà avere un  processo giusto in Ucraina,  o in Russia o in Ka Mio marito Mukhtar ha sacrificato ogni cosa per combattere per la democrazia in Kazakhstan. Il regime vuole distruggerlo. Vogliono uccidere ogni speranza di cambiamento democratico. La Francia è un Paese democratico. Si dice che la Francia dovrebbe essere una nazione dei diritti umani. La Francia non può aiutare il regime del Kazakhstan a distruggere mio marito. Quel regime non durerà in eterno, un giorno quella gente si pentirà di aver cooperato con questo regime. Un giorno ci sarà la democrazia in Kazakhstan e tutti in Francia comprenderanno che è stato un errore collaborare con quel sistema. Ma per mio marito sarà troppo tardi.

il Fatto 10.1.14
Due pesi e due misure
Il dissidente kazako nelle mani del “lupo” russo
Parigi estrada a Mosca il marito della Shalabayeva
Amnesty: consegnato al boia
di Giampiero Gramaglia


Senza procedere di soppiatto a rendition palesemente illegali, ma agendo alla luce del sole e seguendo l’iter della giustizia, la Francia tenta di liberarsi della presenza scomoda, e ambigua, dell’ex oligarca kazako Mukhtar Ablyazov, divenuto poi un oppositore del regime di Astana. La Corte d'Appello di Aix en Provence dà via libera all'estradizione verso la Russia, o in subordine l’Ucraina, dell’ex banchiere e ministro dell’Energia, accusato di frode e di appropriazione indebita d’una somma equivalente a quasi 6 miliardi di dollari, ai danni della banca di cui era presidente. La sentenza è inappuntabile sul piano legale – la corte avalla le richieste di Mosca e Kiev - anche se appare discutibile sul piano dei principi: i giudici partono dal presupposto che Russia e Ucraina diano garanzie d’un processo equo e d’un trattamento umano all’oppositore kazako. Per difensori e familiari, la sentenza equivale “a una condanna a morte” - la moglie Alma Shalabayeva - ed è “una vergogna” - la figlia Madina. Amnesty invita a non dar corso all’estradizione. La famiglia annuncia ricorso. La battaglia legale è ancora aperta. Ablyazov è detenuto dal 31 luglio, quando fu arrestato in una villa a Mouans-Sartoux, sulla Costa Azzurra. In Italia, la vicenda richiama quella della moglie Alma, che, il 31 maggio, fu prelevata con la figlia Alua, 6 anni, da una villa a sud di Roma, e messa alla chetichella su un aereo per il Kazakistan. Solo a fine dicembre, hanno potuto lasciare il Paese: rientrate in Italia il 27, Alma e Alua sono poi partite per Ginevra e di lì per la Francia. La loro vicenda aveva squassato il governo e messo in dubbio la credibilità del ministro dell’Interno Alfano, cui i diplomatici kazaki s’erano rivolti. Il caso non è ancora chiuso: le rivelazioni del prefetto Procaccini, all’epoca dei capo di gabinetto di Alfano, hanno gettato ulteriore ombra sulla versione fornita dal ministro in Parlamento.
Ablyazov, 50 anni, fisico, fece fortuna nel suo Paese negli Anni ‘90, dopo il dissolvimento dell’Urss. Vicino al satrapo  locale Nursultan Nazarbayev, uomo forte della banca Bta fino al 2009, cercò poi rifugio in Gran Bretagna quando l’aria si fece pesante. Condannato a Londra per oltraggio alla Corte in uno dei tanti processi civili intentatigli, sparì a inizi 2012, ricomparendo 18 mesi dopo in Francia all’atto dell’arresto. “La Francia lo consegna ai suoi persecutori”, commenta la sentenza un portavoce di Ablyazov. Per Amnesty International la sentenza pare “ignorare la situazione sul terreno”, dove “i servizi di sicurezza russi e ucraini collaborano” con quelli kazaki, temendo che l’oppositore venga così spedito ad Astana.

Repubblica 10.1.14
Francia, sì all’estradizione di Ablyazov in Russia
In Italia M5S e Sel attaccano il ministro Alfano sul caso Shalabayeva: “Si dimetta”
di Giampiero Martinotti e Fabio Tonacci


L’ULTIMA parola spetterà a Jean-Marc Ayrault. Tocca infatti al primo ministro francese decidere se firmare o no un decreto di estradizione e Mukhtar Ablyazov non fa eccezione: il via libera dato ieri dalla sezione istruttoria della corte d’appello di Aix-en-Provence alla sua consegna alla Russia o all’Ucraina è un passo necessario, ma non sufficiente. E mentre in Italia M5S, Sel e alcuni senatori del Pd tornano a chiedere spiegazioni al ministro Alfano dopo l’intervista che il suo excapo di Gabinetto ha rilasciato a Repubblica, in Francia si discute sul futuro del dissidente detenuto nel carcere di Luynes dal 31 luglio scorso.
Consegnare un uomo a uno Stato straniero è un gesto politico: la magistratura francese ha quasi sempre autorizzato l’estradizione degli italiani ricercati per fatti di terrorismo, ma il governo non ha quasi mai dato seguito a quelle sentenze. Anche nel caso dell'ex oligarca kazaco, la decisione sarà politica.
Per i suoi legali, i giudici si sonomostrati inetti: «È una decisione che non onora la giustizia francese », sostiene Bruno Rebstock, uno degli avvocati. «C’è il pericolo che finisca per ritrovarsi in Kazakhstan — aggiunge Amnesty — dove rischia la tortura». «Estradarlo sarebbe come condannarlo a morte», dice la moglie Alma Shalabayeva. A dicembre, il pm aveva spazzato via queste obiezioni, definendo Ablyazov «un delinquente di alta levatura ». La sentenza apre la strada alla consegna a Russia o a Ucraina, ma nell'immediato bisognerà aspettare il ricorso in Cassazione, già annunciato dai difensori.
Nemmeno in Italia il caso è chiuso. Anzi. «Alfano venga in Aula a spiegare perché il suo ex capo di gabinetto dà una versione dei fatti diversa dalla sua», chiedono i due senatori del Pd Roberto Cociancich e Isabella De Monte. Più duro il senatore grillino Michele Giarrusso: «Alfano si dimetta subito». Come se si fosse tornati a quei giorni del luglio scorso, quando il ministro dell’Interno fu costretto a chiarire in Parlamento perché per tre giorni ildipartimento di Pubblica sicurezza si mise a disposizione dei diplomatici di Astana per espellere dall’Italia la moglie di Ablyazov, Alma Shalabayeva e la figlioletta di sei anni.
Nell’intervista di ieri Procaccini, a distanza di cinque mesi e mezzo dalle sue dimissioni volontarie, racconta circostanze che smentiscono la versione di Alfano, consegnata a deputati e senatori il 16 luglio scorso e sulla base della quale ottenne la fiducia. «La sera del 28 maggio il ministro mi informò che l’ambasciatore kazako lo avevacercato perché aveva urgenza di comunicare con lui. E mi disse che si trattava di una grave minaccia alla pubblica sicurezza». Logica vuole, dunque, che Alfano avesse ben chiaro cosa andasse cercando Andrian Yemelessov. Diventa arduo, per il titolare del Viminale, continuare a sostenere di «essere trasecolato » nell’apprendere solo il 2 giugno dal ministro Bonino dell’espulsione.
Non sfugge la delicatezza politica della questione, in un momento in cui gli alleati di governo, il Pd diRenzi e l’Ncd di Alfano, hanno altri attriti anche sul fronte dei matrimoni gay. Tant’è che i due senatori Cociancich e De Monte sono sì renziani, ma non della stretta cerchia del segretario, che ieri ha evitato di commentare. Non si esprime nemmeno Luigi Zanda, capogruppo del Pd al Senato, che già a luglio aveva notato un’incongruenza: «Se il ministro sapeva che a Procaccini sarebbero state sottoposte questioni “delicate” — disse in Aula — allora doveva conoscere il perché di tanta delicatezza».
Atti ufficiali, oltre a una generica richiesta di tornare riferire alle camere, ancora non ce ne sono. «Non escludiamo di presentare a breve una mozione di sfiducia contro Alfano, come facemmo quest’estate », annuncia Manlio Di Stefano, capogruppo dei grillini in commissione Affari Esteri. Ci va giù pesante anche il presidente di Sel Nichi Vendola, che su Twitter scrive: «Se le parole del prefetto Procaccini a
Repubblica saranno confermate, il ministro ha mentito al Parlamento e al Paese. Il presidente del Consiglio Letta non ha nulla da dire?».

il Fatto 10.1.14
Razzisti fin da bambini: addio al mito britannico
In aumento le denunce su abusi verbali tra i compagni di classe
Presi di mira sopratutto gli islamici
di Caterina Soffici


Londra Qualcosa sta cambiando nella società multietnica e interraziale britannica? O gli allarmi sulla xenofobia crescente sono solo uno specchietto per le allodole in vista delle elezioni, per contenere l’offensiva lanciata dal partito euroscettico e razzista dell’Ukip di Nigel Farage? Forse è ancora presto per dirlo, ma di certo nell’aria c’è molta tensione. E a farne le spese sono principalmente le fasce più deboli (al solito), gli immigrati e le comunità etniche di minoranza. Il caso di Mark Duggan ha rinfocolato gli animi. Il ragazzo nero di Totthenham era stato ucciso dalla polizia durante un inseguimento e la sua morte era stata la miccia dalla quale erano scoppiate le rivolte che avevano infiammato Londra nell’agosto 2011. Proprio l’altro ieri il tribunale ha riconosciuto la legittimità dell’azione degli agenti, anche se è stato provato che il ragazzo, membro di una gang di North London, nel momento in cui è stato colpito non stava impugnando una pistola. Ci sono state proteste, si è temuto un nuovo focoloaio e il dilagare di scontri, che per fortuna non ci sono stati.
Ma la rabbia cova sotto la cenere e lo stesso capo di Scotland Yard ha dovuto ammettere che dal fatidico episodio nel 2011 i rapporti con la comunità nera non sono più gli stessi. La sentenza di assoluzione per i poliziotti ha solo peggiorato la situazione. Tanto per far capire il clima, dopo la sentenza la madre del ragazzo ucciso ha rifiutato l’invito a incontrare le forze dell’ordine.
Ma questo è solo un episodio dei tanti. L’area più critica è quella dei rapporti con la comunità musulmana, in continua crescita e fonte di tensioni costanti. Sul velo, sull’educazione, sulle tradizioni: lo scontro è latente e continuo. Al netto degli episodi di estremismo, tipo l’uccisione del soldato inglese sgozzato a colpi di machete, gli islamici sono visti come una minaccia. Tanto che un razzismo strisciante sta dilagando anche nelle scuole del Regno Unito e i bersagli preferiti sono i musulamni. Il servizio di assistenza ChildLine (una sorta di telefono azzurro locale) dice che le richieste di aiuto da parte di ragazzi per motivi razziali nel 2013 sono aumentate del 69 per cento rispetto al 2012. Sono state 1400 le telefonate di bambini e ragaxxi che hanno denunciato abusi verbali da coetanei per motivi etnici o religiosi. Agli islamici dicono “terroristi” e “bombaroli”. I nuovi arrivati, che non parlano ancora bene l’inglese, vengono scherniti con il nomignolo di “freshy”. In certi casi i compagni di scuola dicono ai bambini di fare le valigie e tornare a casa con le proprie famiglie. Il tema dell’immigrazione e della chiusura delle frontiere è parte dell’agenda politica ed è un po’ il gatto che si mangia la coda. Più se ne parla e più i ragazzi lo recepiscono come problema. E ultimamente se n’è parlato molto. La campagna contro l’aperture delle frontiere a romeni e bulgari ha tenuto banco per mesi. Le sparate dell’Ukip hanno raggiunto livelli parossistici: Farage si è spinto adirittura a dire che preferisce un paese più povero ma con meno immigrati. Cameron arranca e dice che taglierà i sussidi per gli stranieri. Mentre la Bbc ha presentato un sondaggio scioccante, secondo cui più del 75% degli inglesi è favorevole a una riduzione del numero di stranieri che decidono di stabilirsi nel Paese.

Corriere 10.1.14
L'abbraccio di Toni Negri a Tsipras che imbarazza la Sinistra greca
di Antonio Ferrari


È davvero il massimo. Nella polemica politica della Grecia, devastata dalla crisi economico-finanziaria, prostrata dai sacrifici, e ora presidente di turno dell’Unione Europea, irrompe un personaggio italiano di cui avevamo perduto le tracce e di cui non si aveva particolare nostalgia: Toni Negri. Ma sì, proprio lui, l’ineffabile professore padovano, leader ideologico dell’Autonomia operaia, condannato a trent’anni di carcere negli anni 70. Negri, non avendo più una platea adeguata (soprattutto al suo ego) in Italia, ha pensato a un’entrata decisa nella crisi ellenica. In un editoriale comparso sul sito di «euronomade», e firmato assieme a Sandro Mezzadra, ha indicato l’Europa come «unico terreno realistico per la lotta contro la dittatura neoliberista che oggi la governa». E ha manifestato con convinzione il suo sostegno ad Alexis Tsipras e al suo partito di sinistra radicale Syriza, da sempre assai critico sulla politica di Bruxelles.
L’editoriale, ripubblicato dal giornale greco Avgi , che riflette le posizioni della sinistra radicale, ha scatenato quasi un finimondo. Al punto che il portavoce del primo ministro greco Antonis Samaras, leader del partito di centrodestra «Nuova democrazia», e alleato con i socialisti del Pasok, si è spinto molto avanti, sostenendo che in Syriza c’è gente che parteggia per i terroristi. Tesi avanzata anche dallo scrittore Petros Tatsopoulos, deputato della stessa Syriza, il quale ha detto che vi sono persone del partito che potrebbero essere simpatizzanti delle idee del gruppo terrorista «17 novembre». Poi, vista la polemica infuocata, lo scrittore ha fatto marcia indietro.
Tsipras, condottiero di grinta e fascino, che ha rifiutato di partecipare, ad Atene, alla cerimonia ufficiale per l’avvio del semestre di presidenza, è l’ambizioso capo di un partito che piace alla sinistra radicale. A sostenerlo come possibile presidente della Commissione Europea si è espressa, in un’intervista, anche Barbara Spinelli, figlia di Altiero, uno dei padri nobili dell’Europa. Tuttavia, l’affettuoso abbraccio politico di Toni Negri non è il miglior regalo che il leader di Syriza potesse attendersi.

Repubblica 10.1.14
Il razzismo proibito
di Bernardo Valli


SUL caso del comico razzista, che doveva esibirsi in un teatro di Nantes, diverse procedure giudiziarie si sono contraddette per tutta la giornata, rispecchiando e attizzando la polemica in corso in tutta la Francia.
In serata è intervenuto infine il Consiglio di Stato e ha proibito lo spettacolo antisemita di Dieudonné. Così la più alta istanza amministrativa del Paese ha stabilito, in questo caso, i limiti della libertà di espressione quando sconfina nel razzismo. Ma sull’opportunità di interdire all’attore di esibirsi sul palcoscenico con un repertorio ritmato dalle provocazioni, rivolte in particolare agli ebrei, si continuerà a discutere anche dopo la decisione del Consiglio di Stato. Il dibattito è acceso ed è destinato a suscitare forti reazioni: il contrasto tra le varie istituzioni riflette le divergenze e i dubbi che agitano l’opinione pubblica nazionale.
Nelle ultime ore il governo aveva compiuto la scelta più severa, e attraverso un’ordinanza del prefetto della Loira-Atlantico aveva proibito lo spettacolo. Ma il tribunale amministrativo locale, temendo proteste violente, ha annullato il decreto prefettizio. A sua volta giudicando insufficiente la motivazione del rischio di disordini, il Consiglio di Stato è intervenuto contraddicendo il tribunale e confermando la proibizione. Ha dato quindi ragione al governo. Manuel Valls, il ministro degli interni, promotore della linea intransigente, ha subito parlato di una vittoria politica.
È sempre meglio “proibire di proibire” che censurare. Una democrazia la si misura anche sulla libertà di espressione. La libertà è un diritto generale, l’interdizione deve essere l’eccezione. La prima incorre tuttavia nella seconda nei casi previsti dalla legge. E la legge prevede delle restrizioni, ad esempio per quanto riguarda la protezione dei diritti d’autore, i limiti della pornografia o l’incitamento alla violenza razziale. Per il governo Dieudonné ha infranto quest’ultimo principio con il suo antisemitismo. Il principio è chiaro: se questo è accettato o tollerato in alcuni Paesi, non lo è, non può esserlo per esperienza storica, in modo variabile, nelle democrazie europee.
Una parte dell’opinione, non pochi commentatori, intellettuali o militanti di varia tendenza non sono d’accordo, non perché condividano le idee del comico antisemita, ma perché, oltre a ferire la libertà d’espressione, per loro il ricorso al divieto è maldestro e inopportuno, rischia di creare una vittima della censura. E quindi di procurargli una popolarità, non certo meritata. Meglio ricorrere dunque all’azione giudiziaria, di portare il comico in tribunale e attendere la sentenza. Ma Dieudonné è già stato condannato più volte. Ha rifiutato di pagare le multe e ha continuato imperterrito negli show antisemiti. E comunque egli può sempre ricorrere alla giustizia. Lo ha fatto più volte e con successo. Ma permettergli di continuare nelle sue provocazioni equivarrebbe, pensa giustamente il governo, a legalizzare il razzismo.

Repubblica 10.1.14
Marek Halter: “Gli antisemiti vanno fermati”
“Una scelta giusta perché anche le parole possono uccidere”
intervista di Pietro Del Re


MAREK Halter, è tutto lecito in democrazia?
«Le parole possono creare speranza, ma anche uccidere. La democrazia non significa poter esprimere ogni cosa. Se qualcuno dice “Io detesto i negri”, bisogna fermarlo. Perché quella frase può cadere nelle menti sbagliate, può germogliare e creare altro odio. Fino al giorno in cui qualcuno ammazzerà un “negro”. Quando si urla nel vuoto c’è sempre il rischio che un pazzo, un criminale o un idiota raccolga l’urlo sbagliato».
I tabù possono quindi essere sacrosanti?
«Certo. È ovviamente lecito pensare e dire in privato ciò che si vuole, ma se in mezzo alla strada qualcuno predica la morte di un ebreo, di un fascista o un arabo, bisogna fermarlo e sanzionarlo».
Come spiega il fenomeno Dieudonné?
«Per capirlo basta rileggere “L’infanzia di un capo” di Jean-Paul Sartre, in cui si narra di un personaggio squallido, triste, al quale un giorno viene in mente un’idea geniale, quando comincia a dire: “Io odio le patate e odio gli ebrei”. Da quel giorno, molti si accorgono di lui. Ecco, Dieudonné, che stava per essere spazzato dall’indifferenza di un pubblico stanco, ha cominciato a scherzare sulle camere a gas e sulla Shoah».
Come giudica l’intervento del ministro dell’Interno francese, Manuel Valls?
«Con Valls ho parlato due giorni fa, e lui teme la velocità della comunicazione di massa. Ha deciso di fermare il flusso. Molti anni fa Willy Brandt mi spiegò: “Non creda che Hitler conquistò la Germania perché nel 1933 c’erano molti nazisti che lo sostenevano. La conquistò perché non c’erano abbastanza democratici”. Vede, se i russi sputano sulle tombe dei ceceni, gli americani su quelle degli afgani, e via elencando, che cosa resterà di noi? Dove finirà l’umanità? Finirà in un pozzo nero».

Repubblica 10.1.14
Lo scrittore
Tahar Ben Jelloun: “Il governo non doveva intervenire”
“Proibire è un errore adesso diventerà ancora più popolare”
intervisya di Alix Van Buren


«DIEUDONNÉ starà fregandosi le mani dalla soddisfazione. Non aspettava altro: l’interdizione del suo spettacolo da parte di un ministro di Stato». Tahar Ben Jelloun, primo premio Goncourt mai assegnato a un autore marocchino, in prima linea da decenni nel gettare ponti fra culture diverse, nel censurare il razzismo, giudica «grave, anzi gravissima » la decisione di Valls, il ministro dell’Interno.
Professore Ben Jelloun, il governo parla di “vittoria della Repubblica”. E invece, a suo avviso che risultato avrà?
«Otterrà come effetto l’esplosione della popolarità di Dieudonné: se finora l’umorista aveva centinaia di spettatori, ora ne avrà migliaia. I suoi filmati su Youtube già sono visti da oltre un milione di persone. Si può dire che oggi il governo francese ha fatto nascere un fenomeno chiamato Dieudonné. È stato un gravissimo errore politico ».
Che fenomeno è Dieudonné?
«È molto difficile classificarlo: lui si professa anti-sionista e non anti-semita, ma per larga parte della stampa e degli intellettuali in tv i due termini si equivalgono. Lui s’è imposto come umorista in coppia con Elie Semoun, un comico ebreo. Poi i due si sono separati, sono iniziate le scaramucce. Dieudonné usa un linguaggio di odio, però i suoi propositi non sono mai del tutto chiari. Per questo oggi nasce un caso politico. Basta ascoltare i ragazzi delle periferie francesi».
Come reagiscono?
«Tracciano un parallelo con la pubblicazione delle vignette satiriche, l’insulto al profeta Maometto e ai musulmani. La scelta fu difesa in Francia nel nome della libertà d’espressione. Ritengono che Dieudonné sia sanzionato solo perché critica Israele. Una questione politica, insomma. Sotto un certo profilo hanno ragione: la libertà d’espressione deve valere per tutti. Poi intervengano i giudici: spetta a loro, non al governo, il compito d’infliggere una punizione».

il Fatto 10.1.14
Abraham Yehoshua
La patria degli ebrei non è per tutti
“Dico no a nuovi immigrati Israele è il Paese degli ebrei”
di Roberta Zunini


Non possiamo essere noi a risolvere anche i problemi dell’Africa”. Al contrario del collega David Grossman, lo scrittore Abraham Yehoshua appoggia la politica restrittiva di Netanyahu.

Questa settimana migliaia di immigrati, sudanesi, eritrei, etiopi (non ebrei) e altri africani provenienti da vari Paesi si sono radunati nelle piazze principali di Tel Aviv, Eilat e Gerusalemme per protestare contro l'arresto e la detenzione di molti di loro nel centro di raccolta di Holot in pieno deserto del Negev. “Siamo profughi non criminali, non potete arrestarci”, urlavano In piazza Rabin a Tel Aviv dove erano ben 30mila, decisi a rischiare l'arresto pur di manifestare la loro rabbia e frustrazione nei confronti del governo conservatore guidato da Netanyahu. Che non intende rivedere la sua politica restrittiva in materia di immigrazione e le espulsioni di massa, nonostante il parere contrario della Corte Suprema, poiché molti sono richiedenti asilo politico, essendosi opposti alle dittature in cui vivevano e dunque costretti a fuggire.
Al contrario del suo collega David Grossman, lo scrittore e intellettuale Abraham Yehoshua ritiene che le autorità debbano essere inflessibili sull'immigrazione perché Israele è un paese piccolo, con una vasta minoranza (arabo-israeliana, ndr) già dentro i confini nazionali.
“Mi dispiace ma Israele è la patria degli ebrei, inoltre lo spazio territoriale è limitato e quindi non possiamo dare asilo a tutti quelli che lo chiedono e, tanto meno, a coloro che vengono a cercare lavoro. Dobbiamo già affrontare la crescita demografica dei palestinesi con nazionalità israeliana. Non possiamo essere noi a risolvere anche i problemi dell’Africa.
Cosa dovrebbero fare allora le autorità per dirimere la questione?
Fermarli al confine, sigillando ancora di più la lunga frontiera con il Sinai, attraverso cui transitano e impiegare i 50mila circa che si trovano già qui in ambito agricolo, dandogli un permesso di lavoro temporaneo al posto degli immigrati asiatici. In questo modo si impedirebbe peraltro il loro sfruttamento.
Quando dice sigillare, intende l’allungamento della barriera costruita sul confine?
Sì, e aumentare massicciamente la sorveglianza lungo tutto il confine. Entrambe hanno dimostrato di funzionare.
A proposito di sorveglianza, il segretario di Stato americano John Kerry ha appena ricevuto il niet del premier Netanyahu circa il dispiegamento di forze internazionali per controllare la valle del Giordano in Cisgiordania. Cosa ne pensa?
Che Netanyahu in questo caso ha agito bene perché la valle del Giordano, anche qualora dovessero andare a buon fine i negoziati di pace e dovesse nascere lo Stato palestinese, come spero, dovrà essere sorvegliata almeno per i primi anni dalle forze dell’ordine israeliane assieme a quelle palestinesi e internazionali dato che la sua posizione è cruciale per la sicurezza di Israele, a maggior ragione dopo il caos siriano.
Non ha fiducia nelle forze della comunità internazionale?
Non sono sufficienti, basta guardare come si comportano in Libano dove sono dispiegate a ridosso del confine con il nostro Stato. La valle del Giordano è quella grande area che mette in comunicazione la Siria con la Giordania e la Giordania con Israele. Se i terroristi di Al Qaeda che stanno combattendo in Siria non riescono a entrare nel territorio israeliano attraverso le alture del Golan, visto che è capillarmente pattugliato dai nostri soldati, a quel punto potrebbero entrare attraverso la valle del Giordano. Voglio far notare che sarebbe un grosso problema anche per la dirigenza palestinese avere i qaedisti in casa.
Cosa pensa della situazione siriana?
Che ormai vige il caos assoluto. Nessuno può essere in grado di predire cosa accadrà.
Se Sharon non fosse in coma da 8 anni lo saprebbe?
Non credo.
Chi era, come militare e politico, Sharon?
Un uomo molto pericoloso.
Il suo errore più grave?
La guerra con il Libano nel 1982.
Una cosa positiva ?
Il ritiro dalla Striscia di Gaza.
Perché i suoi familiari si ostinano a impedire ai medici di lasciarlo morire, anche ora che non ci sono più speranze?
La sua pensione è molto alta.
Ritiene giusto che il Consiglio di Stato francese abbia dato parere positivo alla richiesta del ministro degli Interni di vietare gli spettacoli di Dieudonné, il comico francese antisionista e antisemita?
Certamente. I suoi spettacoli sono vergognosi e criminali. Non si trattava di salvaguardare la libertà di espressione ma di impedire che venissero commessi dei reati: diffamazione e istigazione all'odio razziale. Sarei dello stesso parere anche se insultasse un’altra minoranza.

Repubblica 10.1.14
L’autore di “Lanterne rosse” dovrà pagare 900 mila euro per aver infranto la legge che non consentiva di avere più di un erede. “Basta privilegi ai vip”
Cina, multa record al regista Zhang Yimou per i figli segreti
di Giampaolo Visetti


PECHINO — Multa record, a furor di popolo, per aver infranto la legge più odiata dalla popolazione stessa, al punto da essere stata appena riformata dal presidente Xi Jinping. Finisce con un paradosso la saga dei figli segreti di Zhang Yimou, indiscussa star del cinema cinese e militante fedele del partito comunista. Le autorità di Wuxi, città dello Jiangsu dove ufficialmente risiede l’attuale moglie, hanno imposto al regista di «Lanterne rosse» l’ammenda più alta mai pretesa, in trentacinque anni, da chi ha violato la legge del figlio unico. Zhang Yimou, entro un mese, dovrà pagare 7,48 milioni di yuan, oltre 900 milioni di euro, per aver generato tre figli, due maschi ed una femmina, dopo che già aveva concepito un erede con la prima moglie.
La pianificazione di Stato, prima della riforma entrata in vigore a fine anno, permetteva un solo figlio per coppia e le sanzioni erano proporzionali al reddito. Il caso Zhang Yimou era scoppiato nel maggio scorso, quando si diffuse la voce che il regista fosse padre di sette figli, generati con compagne diverse. Il mistero aumentò fino ai primi di dicembre, quando la procura rese noto che il cineasta, assieme alla moglie Chen Ting, era irreperibile da mesi. La stampa di Stato si spinse ad adombrare una fuga all’estero, paragonando il regista preferito del partito, artefice della cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Pechino, ad un dissidente. Sospetti dissolti in pochi giorni: Zhang Yimou ammise i tre figli avuti con Chen Ting, accettò di fare autocritica, si disse pronto ad affrontare qualsiasi punizione e chiese pubblicamente scusa alla nazione. Salvo in extremis, ma fuori tempo massimo, perché nel frattempo il suo amore per i figli si era già trasformato nello scandalo dei privilegi pretesi dai vip. Proprio la ragione che ha costretto i funzionari di Wuxi, pressati dalla leadership del partito, alla multa da primato.
Sotto accusa non erano più i figli venuti alla luce nel 2001, 2004 e 2006, prima del matrimonio tra Zhang Yimou e Chen Ting nel 2011, ma l’opportunità concessa ai ricchi di infrangere la legge. Per Xi Jinping, paladino della nuova guerra contro la corruzione che mina la stabilità del sistema, un rischio da evitare: riformare la norma che ha reso la Cina una potenza di anziani, ma al tempo stesso tollerare che le icone del sistema si sottraggano alla legge in virtù di soldi e fama. La popolarità per l’addio al figlio unico, causa di 400 milioni di bambini mai nati e dell’atrocità di aborti di Stato e sterilizzazioni di massa, sarebbe stata annullata dalla resa ai privilegi della nomenclatura. Zhang Yimou pagherà così 300 mila euro a figlio per confermare ai sempre più inquieti cinesi ciò che Xi Jinping ha ricordato ieri anche a giudici e dirigenti: che la legge di Pechino «ora è uguale per tutti», anche se sbagliata. La multa corrisponde a otto volte il reddito annuale della coppia, accertato da nove squadre di investigatori inviati in decine di città per quantificare le entrate reali del regista e capire come Zhang Yimou abbia aggirato il sistema di registrazione dei figli. Servirà per pagare i costi del «mantenimento sociale» dei tre bambini, obbligo che nessun cinese oggi condivide. Per il genio di «Sorgo Rosso» il soggetto perfetto per un film, se non fosse la sua vita.

La Stampa 10.1.14
Le due facce della politica del figlio unico
Multe per i ricchi, aborti forzati per le donne povere
di Ilaria Maria Sala


Movencentomila euro di multa a Zhang Yimou, il regista più amato dal governo cinese, per aver sforato il piano regolatore delle nascite con ben tre figli «in più», avuti dalla seconda moglie, Chen Ting. Zhang, ricopertosi di allori ai festival internazionali e coreografo della cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici di Pechino del 2008, era già dall’estate scorsa in trattative con i funzionari della Pianificazione familiare, nella sua città natale di Wuxi (non distante da Shanghai), dopo che si era sparsa la voce che si fosse dato alla fuga per le grane con il piano regolatore. Per quanto Pechino abbia annunciato da poco la decisione di rilassare la politica di controllo delle nascite, autorizzando tutte le coppie composte da almeno un genitore figlio unico ad avere due figli, il piano regolatore resta una realtà con cui ogni famiglia deve vedersela, e che non prevede sconti retroattivi. Certo, per un regista di rilievo come Zhang la multa non è poi rovinosa, ma per chi non può contare sui suoi mezzi, e i riguardi che nutre per lui il potere, la realtà può ancora essere molto dura. Proprio in questi giorni si sono avute altre notizie di «aborti» forzati oltre il settimo mese. Alcuni dei casi trapelati riguardano donne uigure, provenienti dalla regione occidentale Xinjiang, sui cui si fatica a ottenere notizie, mentre altre storie venute alla ribalta in queste ore risalgono a più tempo fa. Come per il caso di Gong Qifeng, da poco ricoverata per schizofrenia, dopo che il dolore fisico e mentale dell’essere stata forzata con metodi brutali ad abortire il secondo figlio al settimo mese l’ha spezzata. Un particolare degno di nota: nell’allargare il numero di persone a cui è consentito avere più di un figlio si è eliminata un’importante fonte di reddito per i funzionari locali: un’inchiesta portata avanti lo scorso anno dall’avvocato Wu Youshui, che ha richiesto i documenti alle amministrazioni regionali, ha mostrato che 17 delle 31 regioni cinesi avevano rastrellato un totale di più di 2 miliardi di euro in multe per i figli «in più». Una cifra di tutto rispetto, considerando che i governi locali sono piagati da un debito pubblico stimato a oltre il 200% del loro Pil. E per quanto la legge sia oggi ammorbidita, le autorità locali continuano ad essere tenute a rispettare le quote di popolazione stabilite, pena multe severe ai funzionari stessi e blocco delle loro promozioni.

La Stampa 9.1.14
Cina, la protesta dei “panini al vapore”
Diventa un luogo-simbolo il locale di Pechino dove il presidente Xi è stato fotografato mentre consumava un pasto economico
I turisti fanno la coda per scatti souvenir, ma c’è anche chi manifesta: “quando il Presidente si sazia di panini al vapore il mondo intero lo nota, quando la gente comune ha fame non ne parla nessuno”
di Ilaria Maria Sala

qui

il Fatto 9.1.14
Dalla Cina con fantasia
Il venditore d’aria cinese che sognò il Nyt
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Pechino “Allora andrò al Wall Stret Journal a verificare se è in vendita”. Così il miliardario Chen Guangbiao – che si è guadagnato le prime pagine dei giornali di inizio 2014 per aver affermato di voler comprare il New York Times – torna all'attacco. Le testate statunitensi si sono affrettate a smentire, ma Chen non si tira indietro. Martedì ha indetto una conferenza stampa a New York. Ha ribadito che il quotidiano – lo stesso che ha vinto il Pulitzer per aver indagato sugli affari di famiglia dell'ex premier cinese – dovrebbe coprire la Cina in maniera “più realistica e oggettiva”. Ha cantato “Il mondo intero sarà testimone del mio sogno cinese” – canzone di cui è autore – e ha preparato il colpo di scena. Ha presentato alla platea di giornalisti due donne che si erano date fuoco in piazza Tienanmen nel 2001. Protestavano contro la stretta governativa sugli accoliti della religione Falun Gong, bandita dal governo cinese. Chen ha promesso di pagar loro una chirurgia plastica che un sit-in di praticanti della religione ha definito “uno strumento di propaganda”.
Chen, che con un patrimonio di oltre 800 milioni di dollari si posiziona tra i 400 uomini più ricchi della Cina, è sempre stato un asso nell'autopromozione. La sua agiografia lo vuole nato nel '68 da una famiglia poverissima (due dei suoi fratelli sarebbero morti di stenti). A 10 anni avrebbe cominciato a vendere acqua e ghiaccioli ai contadini. Con i soldi guadagnati si sarebbe pagato l'università. All'inizio degli anni ‘90 era già passato ai cantieri edili e al settore immobiliare. Poi c'è stata la costruzione della sua carriera da benefattore e l'appoggio incondizionato della leadership. Nel 2008 ha prestato i propri mezzi e la propria passione alle zone terremotate del Sichuan (70mila vittime accertate) ed è diventato l'esempio della filantropia con caratteristiche cinesi.
Esattamente un anno fa, nel pieno delle polemiche per i livelli d'inquinamento atmosferico raggiunti dalle città cinesi, ha venduto lattine di aria fresca ai suoi concittadini. I proventi andavano in beneficenza ma sull'involucro campeggiavano il suo faccione stilizzato e uno slogan: “Chen Guangbiao è un brav'uomo”.
Oggi vuole un quotidiano statunitense. Ha calcolato che il suo valore non supera il miliardo di dollari (in realtà il Nyt è quotato al doppio) e sostiene anche di aver già convinto un imprenditore a investire 600 milioni nel progetto. “Posso essere considerato un anticonformista – ha scritto sul Global Times – ma questa non è una barzelletta”.

Repubblica 10.1.14
Norvegia, il paese dei fortunati dove ognuno nasce milionario
Da vent’anni Oslo deposita i profitti dei pozzi petroliferi nel Mare del Nord in un fondo sovrano

La parte intitolata a ogni cittadino oggi ammonta a 1.040.000 in corone, ossia 118 milioni di euro
di Ettore Livini


Benvenuti nel paese dei Signor Bonaventura. Il petrolio e il boom delle Borse hanno fatto il miracolo: il valore del fondo sovrano di Oslo, il maxi-salvadanaio dove la Norvegia deposita da vent’anni i profitti garantiti dai pozzi nel Mare del Nord, è arrivato a Natale a 5,11 trilioni di corone, 608 miliardi di euro. E i 5,09 milioni di abitanti della nazione vichinga si sono ritrovati improvvisamente tutti milionari. Ogni norvegese — vecchi e bambini compresi — ha in tasca oggi 1.040.000 corone del Norway Global Fund, qualcosa come 118mila euro. Si tratta, intendiamoci, di soldi virtuali, visto che nessuno può svegliarsi la mattina e andare a ritirare quei quattrini come al Bancomat. Ma proprio per questo valgono forse ancora di più: il tesoretto di Oslo è (e verrà) utilizzato dalloStato per continuare a garantire il generosissimo welfare nazionale e per ammortizzare contraccolpi sull’economia nazionale nel caso — da quelle parti incrociano tutti le dita — il greggio passi di moda.
La storia, a modo suo, è un déjà vu: gli idrocarburi hanno cambiato il destino di tanti paesi. Ma mentre nel Golfo Persico e dintorni i petrodollari sono stati un affare per pochi emiri, ai 71 gradi latitudine Nord della democraticissima Norvegia, la pioggia di profitti garantiti dalla Bonanza dell’oro nero è finita (per legge) nelle tasche di tutti.
I Paperoni artici hanno iniziato a costruire la loro fortuna a cavallo tra gli Anni ’70-’80, quando due choc petroliferi consecutivi hanno spinto le quotazioni alle stelle e le trivelle delle sette sorelle a cercare pozzi più sicuri nei fondali del Mare del Nord. La caccia al tesoro è andata bene: le acque territoriali di Oslo si sono rivelate il Golfo Persico d’Europa e nelle casse dello Stato hanno iniziato a piovere fiumi diroyalty, dividendi e diritti esplorativi. Che farne? Per un po’ di anni — un milione alla volta — la Norvegia ha utilizzato questa ricchezza piovuta dal mare per gettare le basi di quello stato sociale che ne fa oggi la seconda nazione più felice del mondo e la prima per indice di sviluppo. Nel 1990 la svolta: il petrolio — contrariamente ai diamanti — non è per sempre, si sono detti i politici nazionali. E per evitare la fine della Cicala di Esopo, hanno deciso di mettere un po’ di soldi da parte in vista dei periodi di vacche magre, istituendo il super-fondo nazionale.
Il suo funzionamento è uguale a quello, vecchio come il mondo, del salvadanaio. Oslo versa tutte le entrate garantite dagli idrocarburi — le licenze d’esplorazione e i dividendi di Statoil, l’Eni norvegese — sul conto corrente del Norway Global fund. I soldi vengono investiti in azioni e titoli di stato stranieri per non surriscaldare il listino locale e il governo utilizza i profitti — fino a un tetto massimo del 4% del valore del patrimonio— per tappare i buchi aperti nel bilancio pubblico dal sistema di welfare più generoso al mondo. Siamo a livelli da Bengodi: Oslo garantisce il dentista gratuito per tutti i suoi cittadini fino a 19 anni, fornisce il riscaldamento per le stalle oltre il Circolo polare e garantisce un congruo sussidio di disoccupazione che ha convinto un adulto su 5 a vivere a spese dello Stato senza lavorare, con un tasso di senza lavoro fermo lo stesso attorno al 3%.
Le cose, fino ad oggi, sono andate benissimo. Il petrolio, traalti e bassi, non ha mai smesso di foraggiare le casse del Tesoro. Il Pil procapite nel paese dei milionari è arrivato a 80mila euro circa l’anno. E nessuno ha mai dovuto mettere mano al martello per rompere il super-salvadanaio. Risultato: la ricchezza del fondo — complice il buon momento delle borse — è andata alle stelle. Oggi il Norway Global è il primo investitore al mondo e controlla l’1% delle Borse globali. Il suo problema, oltre che far soldi, è dove metterli: ora il 63% è in azioni e il 35% in bond, tra cui 3,5 miliardi di titoli italiani. Negli ultimi anni il Governo ha prima autorizzato il suo sbarco nei paesi emergenti, poi gli acquisti di immobili (si è appena comprato per la modica cifra di 684 milioni il 45% della torre di Times Square a New York). E ora, a caccia di rendimenti, potrebbe dare l’ok al suo ingresso diretto in opere infrastrutturali.
Il bello è che troppa ricchezza, alla fine, ha finito per mettere in difficoltà persino la Norvegia dei milionari. I prezzi delle case — al netto di una timida frenata negli ultimi mesi — è raddoppiato in 10 anni. La crisi dell’euro ha spedito per diverso tempo la corona alle stelle penalizzando le esportazioni e i tassi bassi hanno fatto volare al 200% del reddito disponibile l’indebitamento dei privati. Il nuovo governo conservatore eletto qualche mese fa è stato così costretto (beati loro) a fare i conti con gli eccessi di successo del modello norvegese, provando a frenare il costo della vita. Qualcuno — davanti a un pil che crescerà solo del 2,2% nel 2014 dopo la media del 6% registrata per quasi un ventennio dal 1993 — ha iniziato persino a ventilare l’ipotesi di ridurre i benefit dello stato sociale. I norvegesi per ora non si preoccupano. Mal che vada hanno in tasca una certezza: un milione a testa.

Corriere 10.1.14
Grande Guerra, la scintilla fu italiana. Il «Bel suol d’amore» finì in massacro
Fu l’occupazione della Libia a scatenare i nazionalismi nei Balcani
di Luciano Canfora


Esce il libreria il 14 gennaio il saggio di Franco Cardini e Sergio Valzania, «La scintilla» (Mondadori, pp. 216, e 19)

L’anno appena incominciato sarà segnato da costanti riferimenti alla ricorrenza centenaria dello scoppio della Grande guerra (1914). Non si dovrebbe parlare di celebrazioni, anche se qualche tentazione in tal senso è prevedibile. Speriamo che l’involuzione intellettuale dispiegatasi in molti campi con la cosiddetta, e a torto esaltata, «fine delle ideologie» non porti ad un recupero del peggior patriottismo e riproponga la retorica della nostra entrata in guerra nel maggio 1915, dopo dieci mesi di neutralità, come «quarta guerra d’indipendenza»: definizione usuale nei manuali di storia di epoca fascista.
È ormai nota quasi in ogni dettaglio la storia del nostro cinico comportamento consistente nel mercanteggiare con entrambi gli schieramenti ormai in guerra il maggior lucro da trarre dall’uno o dall’altro eventuale alleato. (Ma eravamo legati ad un patto di alleanza con Austria e Germania, rinnovato ancora alla vigilia quasi del conflitto, il 5 dicembre 1912).
Il 6 maggio 1891 era stata già rinnovata la Triplice Alleanza (Italia, Austria, Germania). Il testo che ribadiva e ulteriormente rinnovava l’alleanza sanciva, all’articolo IX, che Germania e Italia «s’impegnano a mantenere lo statu quo nel Nord-Africa e in particolare in Cirenaica, Tripolitania e Tunisia» e che però, se – dopo maturo esame – Germania e Italia avessero constatato l’impossibilità di mantenere lo statu quo nella regione, la Germania si impegnava a sostenere l’Italia in qualunque azione «compresa l’occupazione di territori o altre forme di garanzia che l’Italia decidesse di intraprendere in quelle regioni».
Nel 1911 l’Italia invase la Libia, e nel protocollo del secondo rinnovo della Triplice (5 dicembre 1912) il punto 1 recitava: «Resta inteso che lo statu quo menzionato nell’articolo IX del Trattato implica la sovranità dell’Italia su Tripolitania e Cirenaica». Insomma i nostri appetiti coloniali venivano accontentati e assecondati dal partner più interessato – la Germania – alla spartizione coloniale dell’Africa: un aiuto fattivo e arricchito del costante riferimento alle eventuali «provocazioni» da parte della Francia.
Nei libri per le scuole in epoca fascista l’attacco italiano alla Libia veniva raccontato così: «Nel 1911, per rafforzare la sua posizione nel Mediterraneo, l’Italia si accinse, dopo una pacifica penetrazione, ad occupare la Libia, terra africana che comprende la Tripolitania e la Cirenaica, ed era sottoposta al governo dei Turchi»; «Ma la Turchia ancora non cedeva. Allora nella primavera del 1912 l’Italia portò la guerra nel Mare Egeo, dove occupò le isole del Dodecaneso e inoltre la grande e importante isola di Rodi, soggetta ai Turchi. A Losanna finalmente fu firmata la pace» (L. Steiner, «Nozioni di Storia, Geografia e cultura fascista per i corsi annuali di avviamento professionale, Paravia, Torino, 1937, terza ed., pp. 94-95).
Pur nella sua rozza faziosità, questa sintetica descrizione della vicenda fa emergere chiaramente l’effetto destabilizzante che le ripetute aggressioni italiane, in Nord Africa e nell’Egeo ebbero sugli equilibri sempre meno solidi dell’anteguerra. Quando poi la guerra esplose, piantammo in asso la Triplice che ci aveva appoggiati nell’avventura coloniale e puntammo sull’appoggio anglo-francese per sottrarre all’Austria terre tedescofone, e a tal fine cambiammo fronte. La politica italiana si inseriva comunque, e sia pure in modo aggressivo, dentro un più generale quadro di lotta inter-imperialistica per l’egemonia e per la spartizione del bottino coloniale. Tale infatti fu la Grande guerra, matrice perciò della più radicale crisi che l’Europa abbia mai attraversato (anche più violenta del 1848) e cioè il quinquennio 1917-1922, al termine del quale era cambiata la faccia, e la sostanza, dell’intero pianeta.
In che misura le avventure italiane furono il detonatore del conflitto? Due studiosi italiani, non nuovi ad imprese congiunte, Franco Cardini medievalista e Sergio Valzania polemologo, hanno studiato questo segmento tutto italiano dell’anteguerra in un libro imminente per la Mondadori, La scintilla : forse intenzionale allusione alla testata del giornale di Lenin, «Iskrà». Titolo appropriato, perché l’inchiesta storiografica che essi hanno svolto ha fatto emergere la concatenazione di avvenimenti che conduce, a partire dall’invasione italiana della Libia, alla deflagrazione della grande crisi. L’attacco italiano all’impero ottomano infatti innescò una reazione a catena inducendo anche le piccole potenze balcaniche a pretendere, a danno del «grande malato» come allora veniva chiamato l’impero euro-asiatico, incrementi territoriali. Presto si mossero Bulgaria, Serbia, Montenegro, e anche la Grecia. Dopo due «guerre balcaniche», nella seconda delle quali intervenne anche la Romania, la Serbia ebbe quasi raddoppiato il suo territorio: era ormai la più grande delle piccole potenze regionali, per adoperare un’antica formula delle Lettere slave di Mazzini. Era insomma la principale spina nel fianco dell’Austria.
E la Grande guerra partirà appunto di lì: dallo scontro, drammatizzato al massimo dalla corte di Vienna dopo l’attentato di Sarajevo, tra l’Austria e la Serbia. La quale, dopo il crollo austro-tedesco del novembre 1918, diventerà la grande Jugoslavia (denominazione assunta ufficialmente nell’ottobre del 1929), risultando così la vera vincitrice degli interminabili conflitti balcanici dell’anteguerra. E intanto — non senza un conflitto locale con la Grecia — verrà a maturazione anche il tracollo della vecchia impalcatura imperiale ottomana e sorgerà, ridimensionata territorialmente, una nuova Turchia laico-parafascistica sotto la guida di Kemal Atatürk, dal 1921 capo carismatico a vita della risorta Turchia. Alla luce di questo vasto e consequenziale sviluppo, non appare dunque affatto improprio definire «scintilla» di tutto ciò la deplorevole avventura giolittiana nel «Bel suol d’amore» della Tripolitania.
I due autori della Scintilla hanno brillantemente assolto al loro compito, e il lettore è grato. Ma lasciano nell’aria una domanda sulla possibilità stessa di individuare una sola «scintilla». Naturalmente essi seguono un filo molto articolato e coerente. E tuttavia, nella comprensione dei fatti storici, può apparire piuttosto unilaterale il privilegiamento di una «causa». Anche il grande Tucidide si trovò di fronte ad una grande guerra, incominciata anch’essa con un conflitto locale (tra Corinto e Corcira) e via via cresciuta su se stessa fino a coinvolgere, come egli scrive all’inizio della sua opera, «la gran parte dell’umanità». Tucidide non smise di indagare sulle cause, e, man mano che la guerra si ingigantiva, di porsi sulle tracce delle cause «vere». Il frutto di tali ricerche occupa un intero libro, il più lungo degli otto che compongono l’opera. Alla fine si convinse di averla scoperta, la «causa verissima e inconfessata», come egli la chiama: il conflitto di potenza, la lotta per l’egemonia tra le grandi potenze. Gli Spartani — scrive — si convinsero che la guerra fosse inevitabile perché Atene era ormai diventata troppo forte.
Si potrebbe dire che c’è un che di tautologico in questo tipo di spiegazione. Ma c’è anche la presa d’atto dell’insufficienza delle spiegazioni settoriali, parziali, uniche. La guerra del 1914 fu «inevitabile» per le stesse ragioni per cui lo fu la guerra del Peloponneso. E speriamo che le grandi potenze che oggi si fronteggiano nell’Oceano Pacifico non giungano prima o poi ad analoghe, irreparabili, determinazioni.

Corriere 10.1.14
In camicia nera, senza pentirsi
di Franco Tettamanti


«Per potersi arruolare e partecipare alla Grande Guerra occorrono 18 anni e se hai solo 16 anni e nove mesi c’è ben poco da fare. Una sola incredibile e azzardata mossa: falsificare il certificato di nascita. Ed ecco che sulle carte ufficiali il 1898 si trasforma in 1896. È il 1915, l’attesa finisce, la divisa dei granatieri è pronta e si parte per il fronte». Comincia da qui la storia di Niccolò Nicchiarelli che Stefano Fabei, insegnante a Perugia e autore di numerosi saggi, ripercorre ne Il generale delle camicie nere (Pietro Macchione, pp. 642, e 25). Una ricerca rigorosa, basata sulla documentazione degli archivi, e in particolare di quelli conservati dalla famiglia, per raccontare un personaggio singolare e per ricostruire la storia e la geografia del fascismo e dell’Italia nei primi decenni del Novecento.
Ecco allora Nicchiarelli prigioniero in Germania, poi squadrista (partecipò alla marcia su Roma) e sindaco fascista di Castiglione del Lago. Insieme gli eventi, i drammi, le sofferenze, le battaglie, le scelte del regime, le imprese della milizia, il ritorno alla guerra. Nicchiarelli che comanda la legione «Cacciatori del Tevere» e più avanti la «Legione San Giusto a Trieste» e la terza legione libica. Conquista, colonie, battaglie in Africa, nomina a segretario federale a Bengasi, Seconda guerra mondiale, adesione alla Repubblica Sociale sino a comandare la Guardia nazionale repubblicana. Tappa dopo tappa un percorso lungo e spesso ricco di ostacoli.
Niccolò Nicchiarelli venne catturato e processato nel 1945 e assolto l’anno successivo dopo tredici mesi di carcere. Una vita e una scelta senza mai un pentimento. «L’amore di Patria è una tremenda, inguaribile malattia. Ed io sono malato di questa malattia» usava dire senza arretrare mai. Stefano Fabei racconta (servendosi anche di fotografie d’epoca) insieme alla storia e alla vita dell’ufficiale anche quella della milizia fascista. E cerca sempre di tenersi lontano dall’apologia, dal luogo comune, dalla voglia di condannare o di assolvere per principio. Niccolo Nicchiarelli morirà in una clinica di Milano il 22 dicembre del 1969.

Corriere 10.1.14
I vicerè globali venuti da Madrid
di Giuseppe Galasso


Quello spagnolo è stato, come si sa, fra gli imperi più grandi della storia. È stato, anzi, con quello portoghese, ma in maggiore misura, il primo impero cui davvero si possa riconoscere la qualifica di mondiale o globale. Solo in seguito quello inglese o quello francese o quello russo hanno conosciuto un’uguale o maggiore dimensione intercontinentale. E anche per questo motivo nell’impero spagnolo l’articolazione periferica di rappresentanza sovrana e di gestione della cosa pubblica in nome e per conto del potere centrale ebbe un rilievo particolare. Impiantata o riveduta da Carlo V (sovrano dal 1516 al 1556) e dal figlio Filippo II (che regnò dal 1556 al 1598), la struttura delegata di governo delle periferie fu poi, ma non radicalmente, modificata in seguito, finché la rivolta delle colonie latino-americane, dal 1809 in poi, mise fine all’impero.
Ancora agli inizi del Settecento, l’impero comprendeva, intor- no al suo centro ispanico, vaste zone d’Europa (Sardegna, Sicilia, Napoli, Milano, Paesi Bassi); poi, perduti i possedimenti europei, si ridusse alle vastissime parti extraeuropee. La sua origine europea decise anche la forma che assunse il governo di queste parti, subito costituite come nuovi reami del sovrano spagnolo, che vi era rappresentato, come in Europa, dai suoi viceré, considerati l’alter ego del sovrano (in Sardegna si diceva alter nos; dove, come a Milano e nei Paesi Bassi, non si trattava di regni, si portava il titolo di governatore). Il viceré spagnolo aveva, ovviamente, nei paesi extraeuropei una fisionomia e una sfera d’azione diversa e maggiore che in Europa. Qui doveva sottostare a consuetudini e leggi di Paesi di antica tradizione politica e istituzionale, che legavano lo stesso sovrano che si rappresentava.
Ciò non aveva un valore assoluto di vincolo per il sovrano, ma aveva un’importanza dirimente sui modi in cui i rapporti e la vita politica e amministrativa dovevano procedere. Oltreoceano non era così. La personalità politica, anzi, l’intera personalità civile di quei Paesi e dei loro popoli, furono disconosciute dai conquistatori e si procedette a impiantarne il governo sulla sola base dell’esperienza politica e civile del centro europeo. Ciò diede ai viceré in America un’enorme libertà di azione, accresciuta dalla lentezza delle comunicazioni con l’Europa, che rendeva ancora meno facile intervenire tempestivamente nel loro operato. Non per ciò si deve credere che quei viceré fossero despoti incondizionati. La storiografia, anche recente, oscilla tra il considerarli tali e in balia delle forze sociali locali. Visioni errate, l’una e l’altra. Il potere di Madrid, pur con tutti i limiti tecnici e politici che si vogliono, era effettivo e si faceva sentire ovunque nell’impero. È verissimo, invece, che molti dei viceré in Europa e fuori furono personalità politiche e uomini di governo di prim’ordine, che svolsero un’opera storica memorabile e duratura, sicché anche da questo fattore della loro personalità e dal tratto personale della loro azione di governo, di cui non mancò di risentire la storia posteriore dei Paesi governati, fu determinato il rapporto fra centro e periferia dell’impero spagnolo. Un rapporto duplice, variamente vissuto dai singoli viceré: da un lato, del viceré stesso con Madrid; dall’altro, del viceré con le forze politiche e sociali in più o meno rapida maturazione nelle dipendenze della corona, e nucleo di future classi dirigenti locali (forze che, in Europa, proseguono, ovviamente, una ben più lunga storia).
Tutti questi problemi sono felicemente affrontati da Aurelio Musi in un denso saggio (L’impero dei viceré, Il Mulino, pp. 272, e 23), che proprio dall’istituto vicereale (già da lui trattato in un altro importante saggio del 2000, L’Italia dei viceré) trae lo spunto per una dimostrazione concreta e persuasiva della fisionomia (anche nei cerimoniali e nei riti del potere) unitaria, pur coi limiti in cui poteva esserlo, dell’impero di Madrid. I viceré sono, quasi sempre, rampolli delle grandi aristocrazie del Paese dominante (ma molti sono di altri Paesi dell’impero), e sono un documento-tipo di quella formazione di grandi élite moderne del potere, che dovrebbero essere studiate nella loro struttura e dinamica (anche sovranazionali) come finora non lo sono state. È passata anche per questo tramite, e in non piccola misura, l’impronta profonda lasciata dalla Spagna nei Paesi che appartennero ai suoi sovrani, e che ancora non è stata del tutto liberata dalle ombre scurissime di cui l’ha circondata una lunga «leggenda nera».

Repubblica 10.1.14
Città del libro, nasce il network dei festival


ROMA — Va prendendo forma il progetto di un network dei festival italiani. Ieri si è tenuto a Roma il secondo convegno della “Città del libro” (questo il nome dell’iniziativa promossa da Centro per il Libro e la Lettura e dal Salone di Torino), un incontro con le rappresentanze di 70 città italiane, da Roma con Più libri, più liberia Milano con BookCity, da Sarzanaa Modena. «È un modo per ridare al territorio un potere a livello internazionale», ha detto il presidente del Censis Giuseppe De Rita, mentre per Gian Arturo Ferrari si deve avviare un processo di respiro europeo puntando sui contenuti culturali. Il primo passo sarà un portale web che partirà a maggio e conterrà tutta la documentazione sulle manifestazioni italiane. Al convegno sono intervenuti tra gli altri il ministro Massimo Bray e Piero Fassino.