domenica 12 gennaio 2014

l’Unità 12.1.14
Estremisti in camicia verde
Il decaduto Cota grida al golpe. Bandiera Pd bruciata in piazza
Insulti e scontri per Kyenge a Brescia. Intervista alla ministra: «Hanno paura del futuro»
articoli di Ferrero, Fusani, Gonnelli, Venturelli


l’Unità 12.1.14
I precari della cultura sfilano uniti a Roma contro il bando per 500 stagisti
Il ministro solidarizza con un tweet. Ma loro non ci stanno
di Luca Del Frà


l’Unità 12.1.14
Jobs Act
Sergio Cofferati: «L’art. 18 è già stato cancellato dalla Fornero. Cosa vuole fare il Pd?»
di Laura Matteucci


l’Unità 12.1.14
Jobs Act
Chiara Saraceno: «Il Jobs Act parte da un presupposto sbagliato, che bisogna cambiare il welfare per creare lavoro
Cosa succede alle donne che vanno in maternità nei tre anni di contratto in prova? La sfida è l’occupazione femminile»
di Bianca Di Giovanni


il Fatto 12.1.14
Effetto Jobs Act
Scontro Fiom-Cgil sulla rappresentanza

Scontro tra Fiom e Cgil sul nuovo accordo sulla rappresentanza sindacale. Secondo Maurizio Landini è indigeribile: “Visitando il sito www.cgil.it   apprendo che la segreteria generale ha firmato un accordo con alcuni contenuti mai discussi in nessun organismo della nostra organizzazione”. Il riferimento è al “Testo unico sulla rappresentanza” firmato l’ieri l’altro da Confindustria e Cgil, Cisl e Uil, in cui si stabiliscono le regole per siglare i contratti. Una delle intese tra Landini e Matteo Renzi era stata l’approvazione di una legge sulla rappresentanza sindacale. Ma il giorno dopo il Jobs Act, sindacati e industriali hanno siglato l’accordo.
Sal. Can.

il Fatto 12.1.14
Vendola, con Renzi e contro il governo

Con Renzi e contro Letta. Così ieri Nichi Vendola in un’intervista all’Unità. Il segretario democratico “rappresenta una speranza per il Paese. Ma rischia di logorarsi rapidamente se ogni giorno deve dare una registrata a questo governo dalla natura ambigua e dalla proiezione programmatica altalenante come un dondolo nevrotico e contraddittorio, come sui diritti civili o su come governare una società multietnica. Alla fine l’unico collante vero si chiama austerity, è il rimanere subordinati ai diktat della tecnocrazia europea che stanno listando a lutto la parola Europa”. Per questo, “sono interessato a parlare con Renzi del Jobs Act, perché, a prescindere dai dettagli, rimette al centro la democrazia e il lavoro. Non mi pare che il governo Letta sia in grado di farlo se il ministro dell’Economia pensa che ci sia ripresa quando aumentano la disoccupazione e la povertà assoluta”.

La Stampa 12.1.14
Castelli (M5S): “Landini? È diventato schiavo del Pd”
La deputata: “In tv parla come noi, ma poi fa il gioco di Renzi”
“Ha normalizzato la Fiom e si è dimenticato degli operai”
di Andrea Malaguti

qui

La Stampa 12.1.14
Legge elettorale
Doppio turno, nel Pd fronda contro Renzi
Al leader democratico e a Forza Italia non dispiace il sistema spagnolo
Il segretario: mi vedrò con Berlusconi quando servirà per chiudere un’intesa
di Carlo Bertini

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Repubblica 12.1.14
Legge elettorale
Cuperlo stoppa la trattativa con Fi “La soluzione è il doppio turno”

ROMA — Per Renzi le sue tre proposte sulla legge elettorale si equivalgono, ma non è così per il presidente del Pd Gianni Cuperlo: «Sulla legge elettorale l’impegno da parte nostra è assoluto. Ma il modello spagnolo è quello che trovo meno convincente. Resto dell’idea che la soluzione più utile per il paese sia il doppio turno di coalizione». Ossia la proposta “storica” del Pd.
Cuperlo difende anche l’impostazione di Letta sulle alleanze per la riforma: «In termini di metodo è giusto partire da un rapporto con le forze di maggioranza che sostengono il governo, dopo di che è giustissimo allargare la discussione a tutte le forze parlamentari. Sarebbe auspicabile che la legge elettorale fosse votata da tutto il Parlamento». Ma il segretario del Pd non abbandona una ricerca a tutto campo. E non rinuncia al dialogo con Berlusconi. Che ha scelto proprio il sistema spagnolo: «Serve un premio di governabilità al 15 per cento per avere la maggioranza e poter fare quello di cui l’Italia ha bisogno dal 1948», ha detto ieri .

il Fatto 12.1.14
Metamorfosi
Letta e Renzi, due politici diventati piccoli piccoli
di Furio Colombo


Non so se avete avuto anche voi questa impressione, ma all’improvviso i personaggi della scena politica hanno cominciato a rimpicciolirsi, come negli effetti speciali di un film. Prendiamone due, Letta e Renzi, per restare vicini alla ossessiva cronaca quotidiana. La cronaca si specializza nel misurarli a confronto: oggi è più grande Renzi o troneggia Letta? Vi sarete accorti che non è il punto. Il punto è che, dai tempi del miracoloso governo che compare all’improvviso sulla scena, dal momento magico in cui i cavaliere bianco Enrico Letta attraversa la scena e viene indicato e, anzi, nominato, “l’unico” senza spiegazioni ma con persuasione assoluta, capace di governare in pace (sia pure con l’espediente traumatico delle “larghe intese”) qualcosa è clamorosamente cambiato. L’uomo alto dai gesti impeccabili e dalla voce gentile e inflessibile appare indeciso, impacciato e molto più piccolo della scena che dava l’impressione di dominare.
Adesso seguiamo Renzi. Da candidato a tutto che conosce tutto perché è ovviamente capace di fare tutto (sindaco di grande città, segretario del partito di maggioranza, primo ministro, protagonista europeo, modello della vita da giovane) appare alle prese con un groviglio, che riguarda il partito, riguarda il governo, riguarda il parlamento e riguarda il mondo. E di quel groviglio non scioglie nulla. Rimane fermo, benché loquace, in una zona di sosta, fermo per un giro, per due (poi vedremo) come in certi giochi da tavolo.
VI CHIEDO di voltarvi indietro a guardarli, Letta e Renzi, giovani e nuovi e pronti, distinti solo dal grado di impazienza. Guardateli in quel loro incontro a Palazzo Chigi, con foto da telefonino e frasi gentili ma ambigue. Non vi sembrano improvvisamente rimpiccioliti rispetto alle immagini che ci avevano offerto al debutto? Potrete dire che i problemi sono diventati, nella lunga attesa di non risolverli, sempre più grandi e questo fa apparire così piccoli coloro che devono agire in una scena che adesso appare gigantesca. Però, se ci pensate, i problemi sono gli stessi del mondo. No, c’è qualcosa di diverso e di nuovo nel personale dirigente di questo Paese. Così come non si può vivere senza speranza, non si può governare senza progetto. È come costruire muri a casaccio, senza uno straccio di disegno del geometra. Questa clamorosa inadeguatezza diventa anche fisica. Voi vedete due leader piccoli su due poltrone troppo grandi scambiarsi complimenti e minacce (nello strano gergo della “larghe intese”) e intanto non hanno assolutamente nulla da proporre o da dire che non sia tenersi a bada a vicenda.
L’evidenza del rimpicciolimento è data da tre fatti: sembrava che contassero molto e contano poco. Sembrava che avrebbero fatto qualcosa invece del vuoto, e ma resta il vuoto. Sembrava che si sarebbero rivolti per prima cosa ai cittadini (che il governo Berlusconi aveva trasformato in audience, il governo Monti in severo campeggio scout, il primo Letta in una corsia da visitare in occasione di feste e ricorrenze). Invece non è avvenuto.
Sembrava che avrebbero visto (o ammesso di vedere) il grave stato delle cose, e invece la grande finzione della crisi che sta per finire continua. Al punto che la più grande impresa industriale italiana può cambiare patria e missione, e non solo nessuno fa una piega, ma piovono elogi per il clamoroso trasferimento che, si sa, porta via tutto, e lascia indietro solo i lavoratori. Volete due piccole prove del nulla che sta accadendo? Una è il Jobs Act di Matteo Renzi, ottima idea di prodotto: prima cosa, trovare il nome. Ma non c’è altro. Come tutti gli accenni precedenti, mai diventati progetti, il lavoro viene visto dal punto di vista del che fare con chi lavora, una volta che abbia ottenuto il famoso posto. Ma niente ci dice come, lungo il percorso economico, quello organizzativo e quello politico, si arriva a quel punto, come si crea il posto di lavoro. L’altra è in questa descrizione (citazione letterale) del “programma Garanzia Giovani” che sembra scritto da Michele Serra in un giorno di astuta e comica cattiveria, e invece è di pugno di Enrico Giovannini, ministro del Lavoro.
“IL PROGRAMMA Garanzia Giovani ( http/www. lavoro  gov.it  / Priorità/Pages/Giovani. spx) si basa sui numerosi provvedimenti adottati in questi mesi, tra cui l’alternanza scuola-lavoro, gli incentivi alla assunzione, la semplificazione normativa, il finanziamento di tirocini e di fondi per l’autoimprenditorialità, per un investimento che supera il miliardo di euro. Una sorta di prova generale di una svolta che stiamo imprimendo alle politiche ‘attive’ per l’occupazione e il reinserimento, dopo tanti anni di dibattiti nei quali si sono privilegiate le politiche ‘passive’ basate sugli ammortizzatori sociali”. (cito Enrico Giovannini da Il Corriere della Sera, 11 gennaio). Qualcuno ricorda quali ammortizzatori sociali sono previsti per i giovani che non hanno mai lavorato?
Come vedete, la sproporzione tra il paesaggio infestato di impedimenti al futuro e le dimensioni dei leader è paurosa. Due soli personaggi appaiono al momento in proporzioni normali: Pierluigi Bersani, che è riuscito a non morire (e a cui va ovviamente un carico di auguri) e Silvio Berlusconi, che è riuscito a non andare in prigione. Se ne va, libero e pieno di progetti, in giro per l’Italia con donna e cagnolino, mentre da mesi dovrebbe essere in cella, secondo sentenza. Sono due diverse misure, d’accordo, ma, per l’Italia di oggi, è tutto. Per questo stringe il cuore sentire il piccolo Letta che, dalla sua immensa poltrona, dice al piccolo Renzi, chiacchierone, festoso ma anche lui un po’ imbarazzato per la vastità della scena: “Serve un cambio di passo”.

Corriere 12.1.14
Una caduta che gli analisti definiscono «verticale»
Per l’esecutivo consensi in calo da novembre


Per il governo, stando ai sondaggi, l’anno è iniziato in salita. Il calo di fiducia, secondo un’indagine Ispo, non intacca però l’immagine del premier Enrico Letta che resta ben più popolare della compagine che guida.
Per gli intervistati dall’istituto Ispo l’esecutivo ha perso in due mesi 15 punti di consenso: dal 44% di novembre 2013 al 29% dei primi giorni del 2014. Una caduta che gli analisti definiscono «verticale» e che avrebbe molto a che fare con il tema delle tasse. Agli intervistati è stato chiesto se credono che nel 2014 le imposte diminuiranno, come annunciato dal ministro dell’Economia Saccomanni: il 91% ha risposto di no. Nonostante le difficoltà dell’esecutivo, Enrico Letta secondo l’indagine continua a godere di una quota notevole di popolarità personale:¬il premier è al 41%, secondo solo a Matteo Renzi che in questo momento è il leader che riscuote maggiore fiducia con il 49% (Angelino Alfano è al 23%, Silvio Berlusconi al 19% e Beppe Grillo al 15%).
Le difficoltà per il governo in questi primi giorni dell’anno ( l’indagine è stata realizzata l’8-9 gennaio) sono ben rappresentate anche dal giudizio che danno dell’esecutivo gli elettori dei singoli partiti. Se è ovviamente molto negativo tra chi sostiene l’opposizione — in Forza Italia è all’84%, nel Movimento 5 Stelle al 90% — la contrarietà raggiunge quote significative anche tra chi vota per i partiti di governo. Tra i sostenitori dell’Ncd di Alfano solo il 24% apprezza l’esecutivo, mentre nel Pd il 44% si dichiara ostile al governo.
Per quanto riguarda Matteo Renzi il sostegno dentro al suo partito è molto alto, l’83%, perfino di più, quindi, di chi l’ha effettivamente scelto alle primarie di dicembre. Quasi due terzi degli elettori pd nega poi che in questa fase il segretario voglia mettere in difficoltà Letta . Fuori dal perimetro di chi vota democratico lo scenario è assai diverso: i soddisfatti dell’azione di Renzi scendono sotto il 50% e i critici crescono. Fino alla punta dell’88% di sostenitori del Nuovo centrodestra che definisce «chiacchere» le proposte avanzate finora dal leader pd.

il Fatto 12.1.14
Parola di Silvio: “Posso convincere gli elettori di M5S”

Gli elettori di Cinque Stelle sono delusi, possiamo convincere anche loro”. Parola di Silvio Berlusconi, che ieri ha parlato via telefono agli iscritti del club “Forza Silvio 2.0” di Forlì. L’ex premier ha assicurato: “Secondo i sondaggi, nel Movimento 5 Stelle gli elettori sono delusi dal comportamento dei loro parlamentari, non c'è affezione verso il marchio e quindi ci sono molte possibilità di convincere anche loro”. Berlusconi ha poi lanciato il consueto appello: “C’è bisogno di tanti italiani che costruiscano i club: missionari azzurri, che vadano a convincere gli elettori. Ogni club - ha esortato - metta in campo una decina di entusiasti per il porta a porta”. Chiosa romantica: “Il 26 gennaio festeggio 20 anni di impegno politico”.

il Fatto 12.1.14
Berlusconi, diritti e doveri
La condanna è definitiva. Perché Berlusconi non è in prigione?
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, la condanna è definitiva. Perché Berlusconi non è in prigione?
Stefania

CI SONO MOLTE RAGIONI e cercherò di elencarne alcune con ordine. 1) Berlusconi non è in prigione perché ha superato i 70 anni. É vero che una legge in proposito non è ancora stata approvata, ma è in attesa, su proposta di qualcuno di Forza Italia. Evidentemente si pensa che sia una buona cosa attendere quella legge che, ovviamente, beneficerà tanti italiani e, per puro caso, anche Berlusconi. 2) Berlusconi non è in prigione per non dare l’impressione che si voglia infierire contro di lui. È già stato espulso dal Parlamento. Secondo il vice primo ministro di questo nostro governo quella espulsione, benché prevista con decorrenza immediata dalla legge, è un affronto inaccettabile. Chiaro che sarebbe di cattivo gusto infierire. 3) Berlusconi non è in prigione perché è il capo, il leader, insostituibile guida di Forza Italia e va continuamente consultato sia dalle migliaia di collaboratori, sia dai leader degli altri partiti. Sarebbe scomodo e improprio fare continuamente riunioni politiche di alto livello in prigione. 4) Berlusconi non è in prigione perché la sistemazione regolare, al momento, prevede da quattro a sei persone in una cella (dove ci sarebbe posto per due). Mettetevi nei panni di un direttore di carcere. Come farebbe a garantire la discrezione necessaria per trattative politiche di alto livello (mettiamo, per formare un governo, che senza Berlusconi non si può fare) in presenza, ogni volta, di cinque estranei al mondo politico e alle cariche istituzionali? 5) Berlusconi non è in prigione perché possiede un cane affezionatissimo. Imprigionare il padrone sarebbe maltrattamento grave per il fedele animale e molti non potrebbero tollerarlo. 6) Berlusconi non è in prigione perché governa. Pensate all’Imu. Come dicono i giornali, “è ancora caos per la tassa sulla casa” perché Berlusconi, da statista, non cambia idea: “Niente Imu”. Il caos travolge il Paese ma non il padrone, che non può, in piena crisi dell’Imu, essere portato in carcere. Chi decide, senza di lui? 7) Berlusconi non è in prigione perché deve candidarsi come capolista in tutte le circoscrizioni alle prossime elezioni europee. Teoricamente sarebbe stato interdetto, con sentenza definitiva, dai pubblici uffici, ma questo è un noioso dettaglio caro solo agli antiberlusconiani viscerali d’altri tempi. 8) Potete indicare una cosa, una sola, che viene fatta perché non c’è più Berlusconi, o che non viene fatta perché manca Berlusconi? No? E allora ammettetelo: Berlusconi resterà fra noi per sempre. (La saga continua).

l’Unità 12.1.14
Caso De Girolamo
il Pd: «Spieghi in aula»
di Osvaldo Sabato


Repubblica 12.1.14
“De Girolamo in Parlamento”
il Pd chiede chiarimenti e sul rimpasto ora è pressing
di Francesco Bei


ROMA — Il rimpasto è sempre più vicino. Tempo due settimane e ci sarà un nuovo governo, la strada ormai è segnata. Al ritorno da Città del Messico, Enrico Letta dovrà iniziare a ragionare in fretta sulla scomposizione e ricomposizione della sua squadra, come gli hanno chiesto Matteo Renzi e gli alleati minori consultati in questi giorni. Un’operazione che il premier finora ha cercato di evitare ma che, ormai, non sembra più rinviabile. Tanto più che il Pd ora chiede che Nunzia De Girolamo si presenti in parlamento per «chiarire» ilsuo coinvolgimento nella vicenda della Asl di Benevento.
Sono diversi i ministri in bilico in questa giostra, una lista a cui si è aggiunta appunto anche De Girolamo. L’interessata, che non risulta indagata, ieri ha ammesso di aver «sbagliato nell’usare espressioni poco eleganti, anche se le ho usate in casa mia e sono state registrate abusivamente e illegalmente». E tuttavia la luce sul suo caso resta accesa, soprattutto da parte dei renziani che ne approfittano per non mollare la presa sull’esecutivo. Il pretesto, come sul caso Cancellieri, lo forniscono i grillini, che insistono sulla richiesta di una seduta parlamentare. «Venire a riferire in aula sarebbe il minimo», sostiene Luigi Di Maio, il vicepresidente M5S della Camera. I grillini si sono fatti furbi, dopo la vicenda Cancellieri-Ligresti hanno compreso che la mozione di sfiducia a un ministro ha come unico effetto quello di ricompattare la maggioranza. Così chiedono “solo” che De Girolamo venga a riferire sull’affaire beneventano. Una richiesta che trova orecchie attente nel Pd renziano. «Il ministro De Girolamo deve chiarire in Parlamento e poi si valuterà il suo comportamento», confermano infatti dal Nazareno. Dietro garanzia di anonimato un renziano di provata fede ammette che «se i grillini alzano il tiro non potremo comportarci come con Alfano e Cancellieri e fare finta di niente». Certo il caso De Girolamo è una materia imbarazzante per il Pd, anche da ciò si spiegano i silenzi di palazzo Chigi e dello stesso Renzi. Nunzia è sposata con Francesco Boccia — lettiano doc ma sostenitore di Renzi alle primarie — e ha un rapporto di amicizia da diversi anni con lo stesso Enrico Letta, tanto da far parte del board del think tank lettiano “Vedrò” (responsabile del Mezzogiorno).
A parte la questione del ministro dell’Agricoltura (voci di una sua sostituzione con Bruno Tabacci), le pressioni per un rimpasto attraversano la maggioranza e occupano le conversazioni del Transatlantico. Nello stesso Pd se ne parla apertamente: «Spetterà a Letta — spiega il deputato Dario Ginefra, certo non ascrivibile ai renziani — rimediare a talune scelte apparse non sempre all’altezza della sfida che abbiamo assunto con il paese. Si chiami rimpasto, si chiami verifica,l’importante è che si tolga dall’imbarazzo un’intera maggioranza parlamentare dalle troppe scivolate che in questi mesi vi sono state ad opera di alcuni sopravvalutati suoi collaboratori». L’elenco dei sacrificabili si apre con due ministri finiti da tempo nella lista nera di Renzi. Il primo è il bersaniano Flavio Zanonato, ministro dello Sviluppo economico. Poi c’è il titolare del Welfare, Enrico Giovannini, che ha aggiunto la critica al Job Act alle già numerose stoccate rifilate in passato al sindaco di Firenze. Per succedergli è pronto l’ex segretario Pd Guglielmo Epifani, che ha stretto un rapporto solido conLuca Lotti, braccio destro di Renzi. Vacilla il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri e persino Fabrizio Saccomanni, nonostante Letta e Napolitano lo coprano totalmente, è finito sulla graticola. Al suo posto, potrebbe andare Mario Monti, essendo Scelta Civica in debito di posti (raccontano che il Professore sia in freddo con Enzo Moavero, accusato di non averlo mai difeso dagli attacchi). Ieri, poco prima di incontrare Matteo Renzi, il presidente Pd della Toscana, Enrico Rossi, ha dato voce ai rumors: «Non accadrà. Ma intanto ieri sono circolati due incubi. Berlusconi candidato alle europee. Monti che ritorna con il ministero dell’economia e delle finanze ». Persino il ministro Kyenge potrebbe lasciare, ma stavolta l’uscita sarebbe concordata con il Pd, visto che si parla di lei come capolista alle Europee in una delle circoscrizioni del Nord.
Ma per fare tutti questi spostamenti Letta potrebbe essere costretto a un passaggio rischioso: le dimissioni con reincarico immediato al Quirinale. Un Lettabis per azzerare tutto il governo e ripartire con una squadra nuova.

Corriere 12.1.14
Il linguaggio e le parole colorite di una ministra assai vivace
di Aldo Grasso


Ma che dice Francesco di Nunzia, che dice? Avranno parlato a cena della storia dell’Asl di Benevento, dello zio, del bar, del Papa (Giacomo Papa, attuale vicecapo di gabinetto al ministero dell’Agricoltura), dei frati del Fatebenefratelli? Tra moglie e marito è meglio non metterci il dito, ma la storia è speciale, la coppia è speciale. Loro sono la Giulietta e il Romeo del Parlamento italiano, a destra Nunzia De Girolamo e a sinistra Francesco Boccia. La moglie si è cacciata in un bel ginepraio, il marito tace.
Ma che dice Francesco di Nunzia, che dice? Com’è noto, la ministra De Girolamo è stata vittima di un’intercettazione abusiva da parte di un dirigente sanitario della Asl di Benevento, Felice Pisapia (indagato poi per truffe varie). Era a casa di suo padre (siamo nel 2012) e così, come si fa quando in famiglia si gestisce un minimo di potere, ordina controlli contro ospedali «sgraditi», discute di come orientare la gara del 118, tratta le ubicazioni di presidi sanitari secondo il criterio della «vicinanza» dei sindaci. Normale amministrazione. Sì, c’è quella storia di suo zio che vorrebbe il bar dell’ospedale. Nunzia si lascia andare, dice qualche parola di troppo: «Facciamogli capire che un minimo di comando ce l’abbiamo! Mandagli i controlli... e vaffa...!».
Il Fatto Quotidiano pubblica le trascrizioni delle intercettazioni e adesso c’è bufera, qualcuno chiede le dimissioni, lei insulta Mastella e minaccia azioni legali a tutela della propria onorabilità. Con il nostro Fabrizio Roncone la ministra si è giustificata così: «Vabbé, ho usato parole non esattamente consone a una signora di classe? E che ci posso fare? Quanto perbenismo... Stavo a casa mia, potrò parlare come mi pare a casa mia, sì o no?».
Ma che dice Romeo di Giulietta, che dice? Nunzia usa parole poco consone a una signora di classe? E poi, visto il piglio con cui comanda, in famiglia chi porta i pantaloni, chi ha il minimo di comando? Poco prima di sposarsi Nunzia diceva: «Francesco è un moderato, un popolare centrista, sono molto più di sinistra io di lui!». Lui replicava: «Lei è una conservatrice liberista che gioca a fare la spiritosa».
Una mano lava l’altra, ma a casa, evangelicamente, la sinistra non sappia quello che fa la destra.

il Fatto 12.1.14
La questione morale
Felice Casson, ex pm e senatore del Pd, alle ultime primarie ha votato per Pippo Civati:
“Su De Girolamo c’è una congiura del silenzio”
“Se affronta la questione morale, l’esecutivo crolla”
“Ingoiare tutto, ecco il patto di governo”
di Fabrizio d’Esposito


“Dal ministro dell’Agricoltura comportamenti inappropriati. Alfano all’Interno e Cancellieri alla Giustizia scelte di profilo bassissimo: dovevano dimettersi”

Per il terremoto ci vuole un culo da sciacalli, nel senso di mazzette e appalti per ricostruire. Per ingoiare gli scandali ci vuole invece uno stomaco largo e di ferro. Come la pancia enorme del Partito democratico, che tritura scandali locali e di governo in assoluto e imbarazzante silenzio. Tranne poche eccezioni, come quella del senatore, già magistrato, Felice Casson, che alle ultime primarie ha votato per Pippo Civati.
Casson, perché il Pd, anche quello nuovo di Renzi, sta sempre zitto?
Mi faccia dire prima un’altra cosa.
Quale?
La ripetizione costante di casi di corruzione e malaffare continua a essere sottovalutata da tutti, anche adesso che non c’è più il paravento del berlusconismo, ossia il peggiore sistema di questi anni.
Non ci sono più alibi.
Esatto e la politica ancora non fa nulla di fronte a questa ondata di scandali.
Torniamo al silenzio del Pd.
Sia all’interno del partito, sia nel governo non c’è alcuna iniziativa sulla questione morale, che non viene mai presa in considerazione.
Un dimenticare senza fine.
In questo momento storico c’è un motivo particolare. Bisogna mantenere un profilo bassissimo altrimenti salta la maggioranza.
E il Pd ingoia di tutto.
È come se ci fosse un patto tacito tra le forze di governo per non affrontare i temi della legalità, della trasparenza, della solidarietà. Io me ne accorgo in commissione Giustizia al Senato.
Di che cosa si accorge?
Che se parlo di corruzione, riciclaggio, falso in bilancio c’è subito una spaccatura.
Con chi?
Con il Nuovo Centrodestra.
I diversamente berlusconiani di Alfano.
Non è cambiato nulla, dal punto di vista della moralità. L’equilibrio precario di questo governo ha portato a scelte di profilo bassissimo, penso appunto ad Alfano all’Interno e Cancellieri alla Giustizia, espressione di forze più o meno parlamentari.
Cancellieri è in quota tecnici del Colle.
Ho detto forze più o meno parlamentari.
In ogni caso, Alfano e Cancellieri sono entrambi portatori sani di scandali, dalla vicenda Shalabayeva a quella Ligresti.
Sono ministri che dovevano andare fuori dal governo, dimettersi, ma Letta è stato costretto a mettere la fiducia su stesso per salvare questo fragile compromesso al ribasso.
L’ultimo caso è quello della De Girolamo, titolare dell’Agricoltura.
Anche su di lei il mio giudizio è negativo, ha avuto un comportamento inappropriato nelle vicende che avete riportato.
Il governo però va avanti senza se e senza ma.
Il Pd sbaglia perché, al di là delle indagini, potrebbe già giudicare i comportamenti che emergono da questi fatti. Queste valutazioni sono necessarie, anche senza aspettare le conseguenze giudiziarie. E non dimentichiamo che per i casi interni c’è il codice etico di partito.
Una bolla di smemoratezza che non risparmia nemmeno Renzi.
Renzi è appena arrivato, diamogli tempo.
Ma una parola sull’Aquila, sulla De Girolamo?
Certo che poteva dirla. Aggiungo di più, oltre a Renzi c’è un’intera segreteria che ha il dovere di dire qualcosa perché responsabile davanti agli iscritti e alla società italiana.
La presunta diversità morale è scomparsa.
Io giro per tutto il territorio nazionale, a partire dal Veneto, la mia regione, e incontro iscritti e simpatizzanti che sono molto più avanti della classe dirigente.
In che senso?
Sono cittadini che reclamano con forza trasparenza, pulizia e moralità.
Tante voci nel deserto.
Con Bersani segretario, alle ultime politiche, un lavoro di selezione è stato fatto, questo va riconosciuto.
Gli impresentabili del Pd.
Appunto, però adesso viviamo questa fase particolare che ha congelato tutto.
C’è il rischio che il governo arrivi fino al 2015.
Io sarei andato già a votare, ma da tempo. È l’unico percorso lineare che si può seguire per arrivare a una maggioranza omogenea, in grado di affrontare la questione morale e il tema della solidarietà. Oggi se parlo di diritti civili, sempre in commissione Giustizia, scatta Giovanardi che blocca tutto.
Un’agonia di basso profilo.
Non c’è alcun senso a vivacchiare così per altro tempo e tutti questi scandali non sono più accettabili.
Renzi è il destinatario numero uno delle sue riflessioni.
Glielo dirò appena incontrerà, da segretario, i gruppi parlamentari, ma i tempi di un partito non possono essere più scollegati dalla realtà, ci vorrebbero più decisione e soprattutto più chiarezza.

il Fatto 12.1.14
Piazze e palazzi
L’asse Boccia–De Girolamo è uno dei fulcri su cui regge il patto tra Letta e Alfano
“Deve andarsene, ma il Pd dorme”
di Vin. Iur.


Io sono rimasto molto spesso solo. E altrettanto spesso i fatti mi hanno dato ragione”. In solitudine nel Pd il deputato beneventano Umberto Del Basso De Caro, avvocato penalista che ha avuto e ha tra i suoi clienti Craxi e Mancino, ha annunciato il sì a una eventuale mozione di sfiducia alla ministra beneventana Ncd Nunzia De Girolamo. Detta così, sembra un regolamento di conti in terra sannita simile al duello via sms tra la ministra e Mastella. Eppure c’è chi sottolinea che l’asse Boccia–De Girolamo è uno dei fulcri su cui regge il patto tra Letta e Alfano.
Ma un governo può mai cadere sulle mozzarelle degli amici della ministra?
Detta così, credo proprio di no”
Pensa che qualcuno nel Pd si accoderà?
Non lo so. Francamente non mi interessa.
Nessuna difficoltà se resta il solo piddino a votare sì alla mozione?
Che problema c’è? Ognuno rimane con la propria coerenza e coscienza. Quando e se verrà quel momento, argomenterò il mio sì in piena libertà.
Perché la De Girolamo deve lasciare il governo?
É evidente l’incompatibilità alla funzione di governo. C’era un direttorio politico nella gestione della sanità che manifestava ingerenze su questioni diverse da quelle di cui dovrebbe occuparsi la politica.
Qualcuno dirà che andrebbe giudicata da ministro e non per le vecchie vicende di casa sua. Peccato che anche il ministero e le agenzie collegate siano state farcite di beneventani.
E ci sarebbe anche la nomina tra capodanno e la Befana (il 3 gennaio, ndr) del nuovo commissario dell’Inea (affidato a Giovanni Cannata, rettore fino a due mesi fa della non lontana Università del Molise, ndr). Se ne è accorto solo il deputato Pd Massimo Fiorio, che si è detto sconcertato e ha parlato di ‘colpo di mano’.
Sarà. Ma il Pd è sostanzialmente in silenzio sul caso De Girolamo. Dipenderà dal suo matrimonio con Boccia?
Ma no. C’è imbarazzo nel Pd, questo sì. Un imbarazzo che dipende dal fatto che il governo è presieduto da un democratico, Letta, che io stimo e sostengo.
Non avete avuto imbarazzo a ‘fare fuori’ la democratica Josefa Idem per molto meno.
Accompagnata gentilmente alla porta per circa 5000 euro di Imu non pagati quando l’Italia era in subbuglio per questa tassa. Erano argomenti assai labili, ma fu giusto chiederle in quel momento.
Lei fa politica su quel territorio da decenni: c’è qualcosa di diverso tra il metodo del ‘vecchio’ Mastella e il metodo della ‘nuova’ De Girolamo?
Io e Mastella siamo stati avversari, ma leali. Avrà compiuto tanti errori ma lui ha pagato un prezzo altissimo. Detto questo, la prassi di occupare le istituzioni talvolta devastandole è eterna.
Lei è penalista. Ha ragione Mastella quando dice che se c’era lui al posto della De Girolamo l’avrebbero sbattuto in galera?
Mastella e i suoi hanno subito inchieste per vicende meno incisive sul piano probatorio.
Mai ricevuto sms ingiuriosi da Mastella?
Mai.

l’Unità 12.1.14
L’Aquila
Cialente sbatte la porta: ho perso
di Deborah Palmerini


il Fatto 12.1.14
L’annuncio al Fatto di Massimo Cialente
“Sono in bolletta, ma ho perso io e ora mi dimetto”
di Chiara Paolin


La giornata più lunga è finita dopo quattro anni da incubo: Massimo Cialente lascia L’Aquila: “Io ho perso”.
Perché?
Ma siete stati voi del Fatto, no? Avete scritto che io sto qua col cerchio marcio intorno, e allora basta, me ne vado: è giusto così.
Se un suo assessore dice “che culo” avere il terremoto da gestire non è colpa del Fatto.
Allora cerchiamo di parlare chiaro: da quando è iniziato tutto, io ho continuato a ripetere una sola cosa. E cioè che troppa gente aveva troppi interessi su ’sta tragedia. Che il governo doveva predisporre un piano per l’emergenza ma soprattutto mettere in piedi un sistema per ridare L’Aquila agli aquilani. C’è mai stato qualcuno che m’abbia preso sul serio?
L’assessore Tancredi l’ha scelto lei.
Esempio perfetto: Tancredi è un pezzo grosso dell’opposizione, un vecchio Dc che conta molto nel centrodestra. Dopo il terremoto mi fa: voglio dare il mio contributo, dammi una delega sulla ricostruzione. Io, sperando che un governo di salute pubblica potesse funzionare, gli ho affidato un ruolo sugli immobili del Comune, neanche sulla ricostruzione. Un segnale. Quando ho dato la notizia mi sono arrivati insulti di ogni genere, nel giro di una settimana gli ho tolto il mandato.
Pure il vicesindaco Roberto Riga, ora indagato per mazzette, stava all’opposizione, con Forza Italia. Era gente di cui si fidava?
Io ormai non mi fido neanche di me stesso. Dico solo che mi dimetto per un avviso di garanzia mandato ad altri. E che se uno governa una città in macerie con 19 gruppi in Consiglio comunale deve fare i salti mortali.
Nelle intercettazioni lei c’è.
Parla con l’assessore dell’Udeur Ermanno Lisi degli appalti gestiti da Carlo Bolino, funzionario addetto alla ricostruzione delle strade.
Eh, appunto: e che dico io? Sto incazzato con Lisi, urlo perché non mi va bene che Bolino scelga da solo a chi dare i 40 mila euro dell’appalto. Poi però mi hanno spiegato che l’appalto c’era già stato, e che Bo-lino mandava avanti il lotto secondo l’esito dalla gara. Comunque, vabbè, Bolino è un tipo così. I funzionari sono fatti così.
Così come?
Forse non ci siamo ancora capiti: qua la torta è gigantesca e ha fatto gola a tutti. Ognuno tentava di prendersene un pezzetto mentre io urlavo a Roma: dateci una mano a scrivere regole più serie, per esempio sugli appalti. Com’è possibile che una ditta piccoletta possa avere lavori per 200 milioni di euro?
Chi di preciso doveva intervenire, secondo lei?
L’unico che ha provato a mettere i paletti è stato Fabrizio Barca. Dava i soldi e dava le regole. Poi se n’è andato, nessuno ha portato avanti i decreti attuativi e s’è fermato tutto. Mercoledì prossimo dovevo incontrare il ministro Trigilia per chiedere le sue dimissioni: su L’Aquila non sta lavorando per niente. E il 7 gennaio, il giorno prima del casino, ho incontrato il sottosegretario Legnini, pure lui abruzzese, per avvisarlo. Per dirgli che la politica se ne sta sbattendo di noi.
Un’altra rogna per il Pd.
M’hanno chiesto di restare, sennò è peggio e sembra che c’ho colpa io. Invece io esco pulito, perché ciò che ho fatto è stato per il bene della città, della mia gente. Di tutto il resto me ne frego.
Che dicono a casa?
Mio figlio sta a Barcellona con l’Erasmus, mi ha scritto un messaggino: chi ha fatto il suo dovere deve andare sempre a testa alta. Questo è importante per me. C’è un giornale on line che ha chiesto di segnalare a loro tutti i sospetti sulla famiglia Cialente: sono 14 i nipoti di casa mia, la chiamata alla delazione è roba da Shoah.
Accusano sua cognata di aver guadagnato con la ricostruzione di un appartamento.
Quando mai! Mio fratello non m’ha parlato per mesi perché il Comune ha sostenuto la linea della valutazione ribassata.
Lei era la testa di legno in un sistema di furbetti?
Le carte che ho visto fin’ora, su questa ultima indagine, non quadrano tutte. Ma aspettiamo i processi, la verità verrà fuori e io non la temo. Mi fa rabbia un’altra storia.
Quale?
C’è in ballo un affare enorme, a L’Aquila. É la ricostruzione privata, cioè i soldi che lo Stato pagherà per rifare le abitazioni crollate o danneggiate. Quelli che stano finendo nei guai sono tutti legati al business, sono procacciatori d’affari per questo giro qua.
Come funziona?
Semplicissimo. Lei ha una casa, o un appartamento in un condominio. L’assemblea deve decidere il progettista e l’impresa per fare i lavori. Roba che vale dai 500 mila euro ai 20 milioni a botta. In tutto fanno 10 miliardi, e la figura chiave è chi riesce a mettere in contatto i proprietari di casa con i costruttori: gente che guadagnerà la mediazione, chiamiamola così. E non esistono norme per blindare la procedura, la materia è libera da controlli e vincoli.
Chi farà i soldi ora?
Adesso vedranno gli altri che fare. Adesso vincerà il centrodestra.
E Cialente?
Cialente ha perso, Cialente si fa da parte. Torno a fare il medico con il conto corrente che sta sotto di 12 mila euro. Da sindaco prendevo 2.400 euro e non mi bastavano neanche a coprire le spese. Mi sono rimesso a lavorare per la Asl, questo mese ho preso 1.190 euro. La politica mi ha mangiato tutto.
Mai più sindaco?
In Italia fingiamo di voler fare le cose per bene, ma non è mica vero. Io crepo e sono tutti contenti. Amen.

l’Unità 12.1.14
Da migranti a detenuti è il «carcere» di Pozzallo
di Flore Murard-Yovanovitch


il Fatto 12.1.14
Discariche, i regali di Cerroni in Regione
Il re dei rifiuti romani era generoso con tutti, consiglieri, dirigenti e impiegati
di Valeria Pacelli e Nello Trocchia


I regali, soprattutto a ridosso del Natale, arrivavano a tutti, non solo ai vertici della “piramide amministrativa e politica della Regione” ma anche ai “semplici impiegati che si prestavano a varie richieste finalizzate ad agevolare gli interessi delle aziende legate all’imprenditore”. Sarebbe questo un altro filone di indagine che coinvolge Manlio Cerroni, l’avvocato finito ai domiciliari per associazione a delinquere, truffa e traffico illeciti di rifiuti, re delle discariche romane. I pacchi-dono, per la politica, di destra e di sinistra, venivano ordinati dal noto marchio di ristorazione Palombini, come si legge negli atti. Nel 2000, lo ricorda il gip Massimo Battistini, un decreto del ministro della Funzione pubblica stabilisce che i dipendenti non devono ricevere regali se non di modico valore da chi ha rapporti con gli uffici. Per questo l’indagine sul sistema rifiuti dovrà chiarire anche il valore di questi regali e le finalità per i quali venivano elargiti. Per il gruppo di Cerroni fare regali a Natale è d’obbligo. Nelle intercettazioni emerge l’attivismo delle segretarie, preoccupate di stilare le liste dei fortunati. Il 15 dicembre 2010 – riporta l’informativa del Noe del 15 ottobre 2012 – Federica Conte, che intratteneva “la corrispondenza con la Regione Lazio per tutte le società del gruppo” e Simona Celli controllano i nomi dei destinatari al telefono.
Simona Celli: Qui nella tua lista ci sono due nominativi in più, non vorrei che fossero stati aggiunti e non sapevo, ho la dottoressa Anna Maria Frascati (...) e poi Paola Mazzei.
Federica Conte: Mazzei, la segretaria di Fegatelli.
Simona: Perché nella lista mia io non ce l’ho. (...) E questa Anna Maria Frascati?
Federica: E questa, secondo me questa si può anche togliere perché è la.. diciamo la segretaria di.. Ricciarello, effettivamente mi era servita.. c’era servita..
Simona: No, perché se no io ne prendo altri due, eh?
Federica: Eh si... vabbè Paola Mazzei (...) è la segretaria di Fegatelli(...) Fegatelli è uno della Regione, forte!
Secondo l’accusa, Fegatelli, finito ai domiciliari, è il dirigente della Regione Lazio che avrebbe fatto da ponte per gli interessi del gruppo Cerroni. Sempre il 15 dicembre del 2010 le due segretarie si riparlano al telefono. Le telefonate partono dalle società Sorain (controllata da Cerroni) e dalla Secor. Sorain: Ti faccio i nomi (..) mi dici quali sono i più importanti? (...) Robilotta (consigliere regionale e assessore durante la giunta Storace, estraneo all’inchiesta, ndr) lo conosci? importante? Secor: Sì sì... Landi... so tutti personaggi di Landi Sorai: (...) Spagnolini? Secor: Sì Sorain: Iacono? Secor: Si Sorain: (...) Desideri (ex consigliere regionale Pdl, ndr) hai detto che non lo conosci (...) É consigliere regionale Secor: Beh allora sarà importante (...) io non l’ho mai sentito... ti dico la verità... Tra i fortunati, stando alle intercettazioni del Noe, anche Mario Marotta, responsabile della direzione Generale Attività Produttive e Rifiuti della regione, pure lui indagato.

La Stampa 12.1.14
Stamina
In gioco la credibilità dello Stato
di Vladimiro Zagrebelsky


Le «cure compassionevoli» sono quelle che possono intervenire quando ciò che è normalmente autorizzato e praticato, è ormai inutile. Si chiamano cure compassionevoli. Compassionevoli, ma pur sempre cure. E cure, che si vogliono somministrate in strutture del Servizio sanitario nazionale.
Il caso Stamina ha aspetti che giustificano gravi sospetti. Esistono però problemi che sono presenti nell’attività ordinaria di medici e di strutture ospedaliere, che non emergono nei media e che tuttavia mettono a dura prova le regole routinarie, il senso di responsabilità dei medici, il dolore dei malati e di chi sta loro vicino. La patologia di una vicenda, intendo dire, non deve mettere in ombra l’esistenza di una normalità di casi difficili.
Una normalità in cui l’integrità dei protagonisti è fuori discussione e le decisioni da prendere sono ardue e rischiose.
Le deviazioni deontologiche, ipotizzabili in questa o quella vicenda particolare, consentono analisi semplici e chiedono rimedi noti. Sono più difficili i problemi di cui non ci si può liberare identificando colpevoli. La domanda di «cure compassionevoli» è uno di questi. Le regole ordinarie sono impraticabili e quelle eccezionali, che pur esistono, lasciano largo spazio a scelte discrezionali difficili, rischiose; scelte discutibili a priori e discusse a posteriori, quando l’esito sia negativo.
Le cure compassionevoli sono praticate e regolamentate in Italia come altrove nel mondo. Ed anche l’Unione Europea con i suoi organi vigila e promuove l’armonizzazione delle regole. Si tratta di regole che riguardano i medici e gli ospedali. Dopo l’opera dei medici, talora sono chiamati a decidere i giudici e il loro ruolo è controverso.
Con l’espressione «cure compassionevoli» si intende l’uso di farmaci «off-label», non (ancora) autorizzati o non autorizzati per quello specifico uso: farmaci cui ricorre il medico, in assenza di terapie autorizzate, con il consenso del paziente. Naturalmente ciascuno e libero di curarsi come vuole, ma il problema nasce quando si pretende che sia una struttura pubblica, lo Stato dunque, a praticare una terapia non autorizzata in situazioni normali. Il problema non si presenta solo in Italia. Recentemente la Corte europea dei diritti umani ha esaminato un ricorso contro la Bulgaria, le cui autorità amministrative e i cui giudici avevano rifiutato di autorizzare la somministrazione a malati terminali di cancro di un farmaco non registrato in quello Stato. La Corte ha affermato che il diritto alla salute non implica un dovere assoluto dello Stato di agire, anche in violazione delle regole che si è dato in materia di sicurezza sanitaria. E in effetti una cosa è il diritto a non essere oggetto di attentati alla propria salute, altro è la pretesa che non vi siano limiti al dovere dello Stato di provvedere. Ed anche la Corte Costituzionale ha ritenuto che il diritto alla salute, pur fondamentale, trova limiti in considerazione di altri diritti e principi costituzionali.
Le regole italiane ammettono l’uso dei farmaci riconosciuti per le cure compassionevoli dalla Commissione unica del farmaco del ministero della Salute, in considerazione del fatto che sono stati già registrati in altri Stati o sono in corso di sperimentazione per quella patologia. L’uso di tali farmaci è ammesso a condizione che la procedura di sperimentazione sia già in stadio avanzato o esistano pubblicazioni scientifiche, accreditate in campo internazionale, da cui se ne possa desumere l’affidabilità. E il ricorso a tale tipo di terapia deve essere eccezionale e legato alla specificità della concreta situazione del paziente. Il pericolo è infatti che una applicazione generalizzata diventi una via per sottrarsi alle rigide regole della sperimentazione clinica dei nuovi farmaci. Solo in tal modo si può ritenere che il medico, conformemente al giuramento prestato, abbia agito secondo «scienza e coscienza».
Come si vede, ad ogni passo il medico deve compiere valutazioni impegnative, in cui il confine tra il giusto e lo sbagliato è discutibile e l’errore sempre possibile. Esistono casi in cui l’adozione da parte del medico di una terapia non autorizzata ha portato quel medico davanti al giudice penale, imputato per avere cagionato l’aggravamento o la morte del paziente. Ma ed ecco il problema esploso ora nella vicenda Stamina al giudice si richiede anche di prender decisioni quando la cura non è praticata, ma impedita. A chi, se non a un giudice, può il paziente richiedere che sia garantito il suo diritto alla salute? Che si tratti di un diritto è fuori discussione, donde la competenza del giudice. Ciò che invece è discutibile sono i limiti e le condizioni per l’applicazione al paziente delle regole esistenti. Ecco allora che le incertezze, le valutazioni, i rischi entro i quali si muove il medico, si trasferiscono al giudice. E la similitudine delle posizioni del medico e del giudice si vede anche nel fatto che l’uno e l’altro non possono evitare di prendere una decisione; con la differenza però che quella del giudice è l’ultima, definitiva. Il giudice, in più deve ricorrere alla perizia di un esperto, poiché egli tutto ignora della specifica disciplina medica. In molti casi i veri esperti sono pochissimi e difficilmente raggiungibili. E le valutazioni di un perito sono spesso smentite dal giudizio di altri. Donde decisioni difformi e lo scandalo di cure ordinate e di cure negate da giudici diversi in casi che sembrano eguali. Come quello di due fratelli affetti dallo stesso male, per l’uno dei quali un giudice ordinò la cura e per l’altro un altro giudice la negò.
Da tutto ciò potrebbe trarsi la conclusione che in un campo così difficile, tutto quello che è avvenuto non è che il prodotto inevitabile della difficile natura del problema. E rassegnarsi a dire che si sia nel migliore ancorché penoso mondo possibile. Non è così. Si poteva far meglio. In questa vicenda il governo nel corso del tempo ha dato segnali contraddittori, equivoci, come quando ha vietato le cure Stamina, ma ha autorizzato la continuazione di quelle già in corso. Il parlamento lo ha ammesso la presidente della Commissione sanità del Senato ha legiferato senza le conoscenze necessarie. E per far chiarezza si è dovuto attendere – come è ormai abitudine che si attivasse un’indagine penale. E i giudici? I giudici, con decisioni molto argomentate e palesemente meditate, hanno dato risposte in contrasto l’una con l’altra. La funzione della giustizia è di decidere i casi singoli, ma è anche quella di assicurare stabilità e prevedibilità del diritto che i giudici enunciano. Il sistema giudiziario nel suo complesso non ha dato buona prova. La cattiva prova anzi è venuta dall’insieme del sistema istituzionale. Conclusioni di organi scientificamente attrezzati, cui la legge rimette valutazioni altamente tecniche, dovrebbero essere rispettate, anche dai giudici. La ricerca, per distaccarsene, di possibili vizi formali dei provvedimenti amministrativi rischia di condurre a distorsioni dei ruoli reciproci; a scapito dell’osservanza delle regole stabilite, sulla serietà della «cura» prevale l’umana «compassione». Ma è questa la funzione dei giudici? Il conflitto con la comunità scientifica accreditata, non mette in discussione la credibilità di uno Stato di cui anche l’istituzione giudiziaria è parte?

Corriere 12.1.14
Nella rete del fiscalista-007 spunta anche Propaganda Fide
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Nella «rete» di Paolo Oliverio c’era anche Propaganda Fide. Il fiscalista arrestato per gli affari illeciti nella gestione patrimoniale dei padri Camilliani si sarebbe occupato degli immobili della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli e questo sembra confermare quanto la sua rete fosse ben radicata all’interno del Vaticano. Lo racconta ai pm uno dei finanzieri che si era messo al suo servizio e per questo è adesso in carcere.
Assistito dall’avvocato Davide De Caprio, il sottufficiale Alessandro Di Marco — accusato di sequestro di persona per aver tenuto in una caserma per un intero giorno due sacerdoti che si opponevano alla rielezione del generale superiore dei Camilliani Renato Salvatore — ha deciso di rispondere alle domande dei magistrati per cercare di alleggerire la propria posizione chiarendo che «con Oliverio eravamo diventati amici perché io volevo entrare nei servizi segreti, è il mio più grande desiderio da quando sono nella Guardia di Finanza». E aggiunge: «Ero in condizione di sudditanza nei confronti di Oliverio, ancora oggi penso che abbia potentissimi contatti». Giura di aver prelevato e interrogato i due prelati «perché Oliverio disse che c’era un’istituzione che operava in tutto il mondo al cui interno c’erano fenomeni di mal governo, mi diede un dossier, mi disse che i due sacerdoti stavano operando lo svuotamento delle casse e dunque era nostro interesse capire che cosa stesse accadendo».
Gli appalti della Santa Sede
La ricerca della verità sulla vita di Oliverio appare tutt’altro che conclusa. Lo accusano di aver riciclato i soldi della ‘ndrangheta e dei vecchi esponenti della Banda della Magliana, di aver organizzato ricatti e truffe, di aver fatto da prestanome per grosse operazioni finanziarie. Di certo c’è che, pur non essendo iscritto all’ordine dei commercialisti, aveva clienti facoltosi che a lui si rivolgevano per risolvere problemi fiscali. Soprattutto che per due anni — da settembre 2009 allo stesso mese del 2011 — ha lavorato per gli 007 dell’Aisi, l’Agenzia per la sicurezza interna. E proprio con una tale «copertura» si sarebbe infiltrato in numerosi ambienti. Adesso bisogna capire per conto di chi, soprattutto con quale obiettivo. Per questo è importante ascoltare che cosa raccontava ai militari suoi complici.
Dichiara Di Marco: «Oliverio mi disse: “Io conosco tanta gente in Propaganda Fide”, che gestiva gli immobili, “ho conoscenze importanti” e un mio amico imprenditore era molto interessato a questa cosa. Poi nel corso di una cena mi disse che era il direttore amministrativo della congregazione che a Napoli stava ristrutturando un ospedale». È uno degli affari che gli furono affidati dai Camilliani. Secondo gli avvocati del superiore generale, Massimiliano Parla e Annarita Colaiuda «Oliverio fu presentato all’Ordine religioso nel corso di una cerimonia di intitolazione cardinalizia di una Basilica minore del centro storico di Roma e fu accreditato non solo come titolare di un importante studio tributario di Roma, ma anche come alto ufficiale della Guardia di Finanza sotto copertura per il suo ruolo nell’ambito dei Servizi Segreti». Si tratta della chiesa di Santa Maria in Aquiro a Roma gestita dal cardinale salesiano Angelo Amato.
I nomi dei potenti
Il finanziere Di Marco racconta che Oliverio parlava molto del suo ruolo nei servizi segreti «e io mi fidavo perché quando gli squillava il telefono io vedevo nomi noti... vantava conoscenze, vantava amicizie con Attilio Befera e personaggi di alto rango istituzionale, con il presidente di Finmeccanica Gianni De Gennaro, con Lorenzo Borgogni di Finmeccanica, con due mesi di anticipo sapeva che De Gennaro sarebbe stato presidente». Gli inquirenti appaiono convinti che in alcuni casi si trattasse di millanterie per convincere i finanzieri a collaborare con lui visto che alcune «anticipazioni» di nomine erano in realtà uscite sui mezzi di informazione. Lo riconosce lo stesso Di Marco quando afferma: «Mi faceva vedere le telefonate forse per aumentare il suo credito, ancora oggi non so chi sia questa persona, chi è che conosce».
Con Borgogni aveva certamente una partecipazione societaria. E nella zona di Montalcino, dove l’ex manager di Finmeccanica ha una grossa tenuta, Oliverio aveva anche altri interessi. Dice Di Marco: «Ci recammo a Montalcino, non capii bene il senso dell’invito. Mi portò in una località, c’era una villa di Salvatore Ferragamo... Aveva un immobile che stava facendo ristrutturare, Oliverio mi disse che la persona che stava ristrutturando era in soggiorno obbligato».

Repubblica 12.1.14
Se vuol ballare Signor Contino

di Eugenio Scalfari

SE VUOL ballare/ signor Contino/ il chitarrino/ le suonerò/: così canta uno dei protagonisti delle “Nozze di Figaro” mozartiane e così sembra atteggiarsi la politica italiana nei rapporti tra le varie forze (o debolezze) che si confrontano e si scontrano in un clima di crescente tensione economica e sociale.
Ne esamineremo alcune spassionatamente, senza dimenticare un’altra versione di quella illuminante cantata che così conclude: Se vuol venire/ alla mia scuola/ la capriola/ le insegnerò.
La capriola: questo è il rischio (o l’intenzione) che alimenta le tensioni e può creare una situazione che sfugga ad ogni controllo precipitando il Paese in un marasma dal quale sarà molto difficile uscire.
Comincerò dal mio articolo di domenica scorsa dove ricordavo che cosa era la questione morale concepita da Enrico Berlinguer agli inizi degli anni Ottanta. La questione morale, per lui, era l’occupazione delle istituzioni da parte dei partiti, una prassi che a suo giudizio doveva immediatamente cessare.
Le istituzioni (così pensava e diceva) ciascuna nel suo campo sono titolari dell’interesse generale; i partiti sono invece portatori di una visione del bene comune, visione che differisce da partito a partito, si confronta con le altre e riscuote il consenso degli elettori. Chi vince quella competizione ha il diritto di influire sulla composizione del governo sapendo però che quel governo nel momento stesso in cui si insedia deve perseguire l’interesse generale sia pure tenendo presente la visione del bene comune prevalente nel Parlamento.
Questa era la concezione di Berlinguer e questo è scritto nella Costituzione la quale attribuisce al Capo dello Stato il potere di nomina del presidente del Consiglio e dei ministri che quest’ultimo gli propone.
La tesi di Berlinguer era sottile ma logica. Purtroppo nessuno ne ha mai tenuto conto nei fatti anche se le ha reso omaggio a parole. Il governo è certamente un “governo amico” della maggioranza parlamentare la quale però non può considerarlo uno strumento nelle sue mani. Sono due poteri distinti, il Legislativo e l’Esecutivo. Il primo approva o modifica o respinge i disegni di legge del secondo e controlla con attenzione i comportamenti della pubblica amministrazione. Può anche abbattere il governo ritirandogli la fiducia.
È evidente che si tratta di equilibri assai delicati e continuamente a rischio ma questo schema, quando viene rispettato, fa il bene del Paese; quando viene invece manomesso quella che Berlinguer chiamava la questione morale si ripropone in tutta la sua gravità e sconvolge la vita politica.
***
Ho ricordato questo dibattito, che ebbe luogo nei primi anni Ottanta del secolo scorso, perché mai come ora dovrebbe valere la distinzione tra l’interesse generale affidato alle istituzioni e la visione del bene comune in base alla quale i vari partiti cercano il consenso degli elettori.
Il partito che nell’attuale legislatura ha il maggior numero di seggi in Parlamento è il Pd, rappresentato dal neo-segretario Matteo Renzi. La visione del bene comune del Pd dopo le primarie dello scorso dicembre è sempre quella di un “riformismo radicale”, come lo definì Veltroni nel discorso di fondazione al Lingotto di Torino, ma il significato è profondamente diverso. Il cambiamento riguarda al tempo stesso la societàe il partito, i suoi obiettivi e soprattutto la sua classe dirigente. È nata una nuova leadership, quella appunto del sindaco di Firenze; cambiano i dirigenti centrali e locali, cambiano gli obiettivi, cambia il rapporto tra il partito di maggioranza relativa e il governo in carica.
Il presidente del Consiglio si è incontrato ufficialmente col neo-segretario venerdì mattina alle 8 e, almeno in apparenza, il colloquio è andato bene: sono stati delimitati i rispettivi campi d’azione e si è parlato anche, “sobriamente” dei contenuti. Letta avrà il compito di governare e Renzi di portare avanti tutte le iniziative di spettanza del partito, a cominciare dalla legge elettorale.
In apparenza è tutto condiviso e regolare, ma c’è un aspetto della situazione che sembra sfuggire all’attenzione del sindaco di Firenze: il governo Letta non è sorretto soltanto dal Pd, ma da una coalizione di varie forze tra le quali la principale è il Nuovo centrodestra di Alfano. Una riforma delle legge elettorale che penalizzasse alcuni dei partiti della coalizione potrebbe portare alla crisi di governo. Al di là delle apparenze questo è dunque il punto sensibile che alimenta la tensione tra Letta e Renzi.
***
Queste difficoltà e pericoli i protagonisti li conoscono bene. Per superarli è necessario un compromesso che non dovrebbe essere difficile da raggiungere se non ci fosse un altro aspetto della situazione: la nascita di una nuova leadership che è appunto rappresentata da Renzi.
I sondaggi di vari specialisti confermano che il solo e vero legame che tiene unito il Pd e ne rafforza la crescita è la nuova leadership la quale però deve dimostrare la sua presenza per essere realmente avvertita dagli elettori effettivi e potenziali. Il compromesso non soddisfa queste aspettative, il “riformismo radicale” d’un nuovo leader deve puntare su una rapida fine del governo e della legislatura. E se, per ottenere questo risultato, Renzi deve intendersi con Vendola, con Landini,con il Movimento 5 Stelle e perfino (perfino) con Berlusconi, lo faccia. Se adotta una politica economica che metta in discussione le coperture finanziarie previste dagli impegni di Bruxelles lo faccia. Se il “Jobs Act” rischia di diventare uno strumento esplosivo, tanto meglio: l’Europa subirà.
Questa è la spinta che arriva dal basso e che per certi aspetti sembra paradossale perché è proprio da sinistra che viene questo tipo di consenso.
Da questo punto di vista è stato di notevole interesse il dibattito avvenuto venerdì’ scorso nella trasmissione “Otto e mezzo” diretta da Lilli Gruber, tra Stefano Rodotà e Paolo Mieli. L’ho seguita con molta attenzione e credo valga la pena di darne un sommario racconto. *** I due invitati mi avevano incuriosito. Li conosco entrambi da molti anni, Rodotà cominciò a collaborare a “Repubblica” fin dai primi numeri, Mieli fu assunto all’Espresso nel 1966, e se ben ricordo aveva 18 anni o poco più. Immaginavo, conoscendoli, che Rodotà avrebbe puntato sul “mantra” dei diritti e della Costituzione e Mieli avrebbe trovato i modi per contraddirlo opponendogli la realtà dei fatti che impone altri e più pragmatici percorsi. Invece sbagliavo e lo si è capito fin dalle prime battute. Per 35 minuti i due hanno danzato un minuetto dove Mieli conduceva e Rodotà completava e infiocchettava. Perfino la Gruber era stupita o almeno così m’è sembrato. I due interlocutori erano d’accordo su tutto e di volta in volta si felicitavano reciprocamente di quell’accordo. E non erano questioni da poco quelle che venivano affrontate.
Mieli aprì con un attacco agli intellettuali che non avevano trovato il coraggio di opporsi alla decadenza del Paese dagli anni Settanta in poi. Rodotà assentì portando l’esempio deludente del Pds che, dapprima battagliero, poi si ritirò rientrando in buon ordine sotto le ali della vecchia nomenclatura occhettiana.
Poi tutti e due si dichiararono in favore di Renzi che aveva aperto a Landini, discuteva positivamente con Vendola, voleva abolire la Bossi-Fini e reclamava le coppie di fatto legalizzate. Per di più, dissero tutti e due, ha capito che sui grillini con prudenza si può puntare.
La conduttrice chiese giudizi su Letta. Tutti e due riconobbero che è una brava e onesta persona, ma politicamente mediocre; prima se ne andrà meglio sarà.
Un giudizio su Napolitano? Sta modificando la sua posizione su Letta. Comunque è bene che rimanga al Quirinale fino a quando non ci sarà più bisogno di lui. Un giudizio sull’ipotesi che Berlusconi si ripresenti alle elezioni? Questione da approfondire.
L’affondo finale di Mieli è stato contro la politica che avrebbe dovuto provvedere da sola a costruire e ricostruire il Paese e invece ha chiamato in supplenza la magistratura. Lo fece per combattere il terrorismo e lo rifece per combattere Berlusconi. Rodotà ha dato beneplacito, Gruber ha ringraziato.
Da questa trasmissione ho capito bene la forza di Renzi. Mieli e Rodotà non sono persone da poco, uno è un giurista di valore, l’altro uno storico molto serio di storia moderna e da qualche anno anche di storia antica.
Una sola cosa mi ha lasciato perplesso: come poteva la politica combattere il terrorismo senza che la magistratura intervenisse? Era gente che ammazzava innocenti per ammazzare i simboli dello Stato che essi rappresentavano. E come poteva la politica impedire la supplenza della magistratura nel caso Berlusconi? Ha commesso reati, c’è una condanna definitiva della Cassazione (ancora non eseguita). Sono reati. La politica è sicuramente impigrita e castale, ma sia per il terrorismo e sia per Berlusconi la magistratura non gioca in supplenza; gioca in prima persona e su questo non c’è proprio altro da aggiungere.

l’Unità 12.1.14
La morte di Sharon
Saeb Erekat, capo dei negoziatori dell’Autorità palestinese:
«Per noi fu sempre un nemico Le colonie? Netanyahu lo segue.
Siamo contrari ad altre 1800 abitazioni in Cisgiordania e a Gerusalemme Est»
di U.D.G.


La Stampa 12.1.14
“Concepiva solo la guerra
La sua è una terribile eredità” Il negoziatore dell’Anp Ishtayeh: ci odiava
di M. Mo.


«Ariel Sharon lascia dietro di sé una scia di guerre e massacri che ha più volte ostacolato e allontanato la pace in Medio Oriente»: per leggere l’eredità dell’ex premier attraverso gli occhi dei palestinesi bisogna ascoltare Mohammed Ishtayeh, fino alla scorsa primavera è uno dei negoziatori più impegnati nelle trattative con Israele e rimane a Ramallah fra i consiglieri più stretti del presiden-
te Abu Mazen.
Che cosa segna di più il ricordo di Sharon fra i palestinesi?
«I massacri, le aggressioni e le guerre. È stato un soldato, un generale, un ministro della Difesa e un premier di Israele che ha perseguito la sistematica aggressione dei palestinesi. Fu lui a volere la guerra in Libano nel 1982, fu lui a essere indirettamente responsabile dei massacri nei campi profughi di Sabra e Shatila».
Quale è stato a suo parere il
suo maggiore errore?
«Non essere riuscito ad essere, mai nella sua vita, un uomo di pace. Ebbe delle opportunità, ma le mancò tutte».
Ci faccia un esempio...
«Penso a quanto avvenne durante il negoziato di Wye Plantation con Yasser Arafat, in Maryland nel 1998, durante la presidenza di Bill Clinton. Si incontrarono con Arafat ma Sharon rifiutò perfino di stringergli la mano. Fu un gesto che tradiva lo spirito degli accordi di Oslo, risalenti a cinque anni prima, e rivelava la sua totale incapacità di negoziare qualsiasi cosa con la controparte. Rifiutava di ammettere che i palestinesi erano la sua controparte».
Eppure nel 2005 Sharon, da premier, decise il ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza. Non fu un gesto di pace?
«No, non lo fu per il motivo che Ariel Sharon prese quella decisione da solo. Rifiutò di coordinarsi con i palestinesi. La decisione di agire unilateralmente, confermava la sua scelta di non considerare i palestinesi come interlocutori per una pace in Medio Oriente».
C’è qualcosa che può affermare di aver imparato dal suo avversario?
«Ho imparato che era una persona che non amava i compromessi né gli accordi. Ciò che sapeva, e voleva fare, era combattere. Gli israeliani forse lo ricorderanno come “Arik, re d’Israele” ma per noi è stato il peggiore dei nemici. Temo che pagheremo a lungo le conseguenze delle sue azioni».

La Stampa 12.1.14
Quando lasciò i falangisti massacrare Sabra e Chatila
Fece chiudere i campi per 36 ore e fu l’inferno per donne e bambini
di Mimmo Candito


L’ informatrice, Rita, arrivò all’albergo poco dopo l’alba. «Pare si possa passare», sussurrò che nessuno sentisse. Lei stava con un siriano che stava con i palestinesi; e sapeva tutto.
Svegliammo l’autista, partimmo subito; Rita sedeva muta in un angolo. Erano tre giorni che di Sabra e Chatila non si sapeva più nulla; solo qualche raffica di mitra raccontava che a Beirut, comunque, si stava ancora facendo la guerra. Però da laggiù, niente.
In quell’estate calda dell’82, l’esercito di Sharon aveva attaccato con una forza d’urto massiccia, lunghe colonne di carri e di blindati, aerei, forze speciali, migliaia di uomini che avevano chiuso a tenaglia su Beirut. La chiamavano «Operazione Pace in Galilea», perché chi fa la guerra mette sempre le mani avanti e dice che lo fa per la pace. Ma la pace in quei giorni aveva trasmigrato. Con una bomba sotto la scrivania, avevano appena ammazzato Bashir Gemayel, capo della Falange maronita, ma anche nuovo presidente del Libano e, soprattutto, l’uomo d’Israele. Tutti dicevano ch’erano stati i palestinesi, bisognava far piazza pulita. Ma intanto era intervenuta l’Onu e 15.000 fedayin se ne poterono andar via con le loro armi in (un nuovo) esilio scortati dai marines col mitra spianato e anche dai nostri bersaglieri e dai legionari di Parigi. Nell’inferno sporco e puzzolente dei campi profughi restarono, in gran parte, solo le donne e i vecchi; poi, però, anche i marines e i bersaglieri e i legionari se ne tornarono a casa, e Beirut, allora, fu tutta nelle mani di Sharon (sì anche dei maroniti, e dei morabitun, e di Amal, e dei drusi di Jumblatt; ma quello che conta era che c’erano a tenaglia i carri di Tsahal e i suoi soldati con la kippah. E loro erano la guerra e la pace).
Entrare nei due campi non fu facile: c’erano carri di David a ogni incrocio, e soldati israeliani, e blindati con la stella gialla. L’autista però conosceva i vicoli puzzolenti della città come casa sua, e riuscì a far fessi i guardiani. E ci trovammo nell’inferno degli uomini. In un silenzio che anche i passi sulla terra battuta parevano un oltraggio, le piccole case di fango e di legno erano diventate cimiteri muti d’una strage senza perdono. C’erano cadaveri ovunque, soprattutto quello che restava di corpi che, prima, erano stati donne e bambini. Le donne, oscene nella violenza di cosce nude squarciate dallo stupro, le gonne tirate su di strappo fino alla gola, le bocche dilatate in un urlo che ancora l’eco pareva sospeso nell’aria; i bambini, macchie di carne nera che il caldo putrefaceva, qualcuno ancora infilzato da un coltellaccio, molti ridotti a brandelli senza profilo. Le mosche ronzavano avide sui cadaveri sparsi, Rita aveva gli occhi sgranati che nemmeno parlavano. Incontrammo qualche vecchia che piangeva in silenzio, e vagava senza parole. C’erano solo i cadaveri e loro e nessun altro.
Quel 18 settembre, Sabra e Chatila, era uno sterminato puzzolente cimitero all’aperto, dove noi 8 o 9 reporter europei e americani che, soli, riuscimmo a entrare nei campi ci facemmo raccontare da quelle vecchie impietrite un massacro che era andato avanti ininterrottamente, giorno e notte, per più di 36 ore. Il pomeriggio del 16 settembre, Sharon aveva messo i suoi carri e i suoi uomini tutt’attorno ai due campi, che nessuno ne entrasse e nessuno ne uscisse. Poi aveva dato il via libera ai falangisti, che avevano trasformato la loro vendetta per la morte di Gemayel in un autentico genocidio, lavorando di coltello e poi di kalashnikov, indisturbati, meticolosi, casa per casa, anfratto per anfratto. Ne ammazzarono, forse, 2200, o 3 mila; ma sono conti che le fosse comuni si sono portate via con sé.
Beirut, quel giorno di settembre, restò isolata, non c’erano telefoni che funzionassero, né telex. Noi reporter andammo a dettare gli articoli da un centro comunicazione militare che Sharon aveva montato su, in collina, a Baadba. Ci concessero un ponte-radio con Gerusalemme, e le centraliniste furono gentilissime anche se al Comando sapevano bene che cosa stessimo raccontando al mondo. Qualcuno di noi piangeva mentre dettava, nel buio della notte che ci era scivolata addosso. Sharon dovette sottostare a un’inchiesta internazionale, e fu condannato per avere autorizzato quelle 36 ore dell’inferno in terra. Poi lasciò l’uniforme, e passò a fare il capo di governo.

Affermare il primato delle idee sulla realtà e sull’esistenza degli esseri umani è una vera e propria patologia: se la separiamo dal corpo, dal biologico, dall’infinita ricchezza della materia viva, noi facciamo il peggiore dei torti alla mente.
arroccarsi nella mente logica, lineare, razionale, sistematica  per resistere alla presunta bar- barie del mutamento non può essere certo la soluzione
L’intelligenza della mente è inseparabile dall’intelligenza del corpo e delle sostanze chimiche che lo abitano
Friedrich Nietzsche diceva: vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza
l’Unità 12.1.14
Quel bisogno urgente di un nuovo intellettuale
La conoscenza deve essere vitale e non solo mentale
Cultura è ciò che ti rende più forte
di Franco Bolelli


il Fatto 12.1.14
Verso le europee Andrea Camilleri
“Spero di essere vivo quando dovranno scusarsi con i greci”
di Argiris Panagopoulos


Questa intervista, anticipata dal sito www.micromega.net  e uscita oggi sul quotidiano greco “Avg i ”, molto vicino al partito della sinistra radicale Syriza, fa seguito a una lettera che Andrea Camilleri ha inviato (insieme a Paolo Flores d’Arcais, Luciano Gallino, Marco Revelli, Barbara Spinelli e Guido Viale) al leader del partito, Alexis Tsipras, per chiedere che sia il candidato alla Presidenza europea di una lista italiana promossa dalla società civile.
Come vede la situazione politica in Italia?
Sembra che l’Italia stia vivendo una fase di stallo e il sistema politico è bloccato da troppo tempo. Possiamo dire che si possono fare pochissime cose. Le elezioni hanno portato tre partiti ad avere quasi la stessa percentuale ed è difficile costruire una maggioranza veramente solida. Oggi la maggioranza è formata da residui di dissidenti del Popolo della Libertà di Berlusconi che permettono al governo di continuare a esistere, ma non di governare.
Il governo Letta continua ad applicare una ingiusta austerità?
Il problema dell’austerità è un problema che riguarda l’Europa in generale. Per questo motivo alcuni di noi stanno cercando di creare una lista sovranazionale e transnazionale per affrontare le elezioni europee. Da un lato stiamo cercando di combattere il riflusso antieuropeo che sembra che sarà espresso nelle prossime elezioni. Ritengo fondamentale proteggere il nostro essere europei, nonostante le evidenti mancanze della macchina europea che durante questa lunga e tragica crisi ha continuato a lavorare facendo pagare un prezzo altissimo, un prezzo che non possiamo nemmeno immaginare, a decine di milioni di cittadini. C’è bisogno di una radicale revisione di tutti gli accordi europei. Una revisione che non può basarsi solamente e ancora una volta sui libri di contabilità. I ragionieri distruggono l’Europa. Dobbiamo fermarli. Perché i libri dei contabili parlano solo di un dare e avere. Non ci sono altre voci. Manca la voce: società. L’Europa non può continuare a vivere ricattata solo dal valore dell’euro, deve condividere gli stessi ideali per essere unita. In caso contrario non sarà in grado di continuare a esistere. La prossima guerra, perché questa crisi è stata una guerra, lascerà sul campo molto più che paesi come la Grecia o altri colpiti mortalmente dalla crisi attuale. Per questo motivo dobbiamo dare una risposta unitaria a questa crisi sostenendo Alexis Tsipras per la presidenza della Commissione Ue.
Una volta in Italia c’era la più grande sinistra in Occidente, mentre oggi si fa fatica a trovare il giusto passo.
La sinistra italiana era forte quando c’era il vecchio Partito comunista. Poi è arrivato il centro-sinistra, che non ha potuto mantenere nulla dai grandi valori che aveva ereditato. È stato creato il partito di Rifondazione Comunista, ma si è sempre fermato a un piccolo consenso. Ci siamo trovati in questa situazione perché abbiamo assistito a un periodo di conflitto all’interno di questi piccoli partiti. Mancano persone che traccino insieme un denominatore comune tra questi partiti frammentati, il popolo della sinistra e della disobbedienza, per unificare queste forze e avere una sinistra sana. Per questo insisto su una lista per le elezioni europee, perché può portarci a qualcosa di buono. Questi partiti così come sono oggi non hanno peso, non hanno le percentuali per entrare in Parlamento. L’esempio della sinistra greca è molto importante.
Lei è un uomo di cultura, un intellettuale. Cosa l’ha spinta ad avere una posizione così chiara contro la crisi e a unirsi con altri nel tentativo di ricomporre la sinistra?
Ho sempre preso una posizione. La cultura è soprattutto un modo di vita e di prendere posizione. Ancor più di fronte a una crisi come questa che distrugge la società e i suoi valori. Una cultura che vive ai margini e guarda solo ai fatti è una cultura sterile. Io sono un uomo che scrive romanzi, un raccontastorie. Ma sono anche un cittadino italiano e europeo. Devo partecipare obbligatoriamente a tutto ciò che accade nel mio paese, l’Italia e l’Europa.
Lei è anche un siciliano di Porto Empedocle, di Agrigento e la valle dei templi greci. Ha vissuto la Magna Grecia nella sua vita quotidiana. Qual è l’idea che ha per la Grecia?
Ritengo che quello che è successo in Grecia sia il termometro degli errori europei. Inizialmente hanno cercato di creare un’unione attraverso le nostre comuni radici ebraiche e cristiane. Questo non può funzionare. Quello che abbiamo in comune è la nostra cultura. Una cultura che nasce in Grecia, su cui abbiamo speculato e che ancora sfruttiamo. Il modo in cui l’Europa ha trattato la Grecia è come se avesse maltrattato le sue stesse radici. È come se non avessimo tratto insegnamento da queste migliaia di anni. L’Europa ha dimostrato di non capire nulla di ciò che è nella realtà l’Europa. L’Europa è il Partenone. L’Europa sono i templi di Agrigento. L’Europa è la cultura e la civiltà. La culla della cultura e della civiltà in questo mondo. In questo senso l’Europa ancora oggi può essere un’auto da corsa e non una macchina stanca com’è stata fino a oggi. Con le elezioni europee dobbiamo coltivare la speranza del cambiamento. L’Europa è stata il regno della fantasia e della creatività. Il regno dell’arte. Se ci fosse anche un po’ di questo estro anche all’interno della politica europea le cose sarebbero diverse. Non possiamo fondarci solo sui principi economici. Dobbiamo costruire ideali e valori, dobbiamo riconoscere la nostra cultura. Io mi auguro di essere ancora vivo il giorno in cui dovranno scusarsi con la Grecia per il modo in cui si sono comportati. Perché è come se avessero maltrattato la loro stessa madre e l’avessero buttata per strada. La Grecia è la culla della civiltà, alla quale appartengo. Ci sono le basi dell’Europa, il resto è superfluo.
A volte l’Europa ha tendenze autodistruttive...
Stiamo cercando di evitarle. L’Europa di oggi è uscita da una guerra che abbiamo vinto pagando un prezzo pesante per ottenere la libertà, per vivere in società democratiche e con sistemi di protezione sociale. Non dobbiamo permettere il ritorno a un periodo di insicurezza e di annullamento dei nostri diritti. A maggio dobbiamo scegliere il futuro, la ricostruzione dell’Europa sulla base della giustizia, la solidarietà e i fondamenti democratici.
Perché sostiene la creazione di una lista transnazionale in Italia con capolista un greco?
Mi sembra qualcosa di meraviglioso. È un modo per celebrare di nuovo l’Europa unita. Dobbiamo uscire dagli stretti confini nazionali e dai loro limiti. Se in Italia e in Grecia ci sono persone che hanno ideali comuni è completamente inutile continuare a parlare di Grecia e Italia. Parliamo di Europa e di questi ideali comuni, che rappresentano una vera e propria forza di cambiamento. Dopo tutti questi anni in questo mondo non abbiamo ancora capito che non siamo divisi da confini e lingue, ma che ci unisce una civiltà comune?

La Stampa 12.1.14
Perché il voto europeo è cruciale
di Gian Enrico Rusconi


La Germania della Grande Coalizione si è assestata, sommessamente soddisfatta. Concentrata sui
suoi impegnativi programmi sociali interni, mantiene verso l’esterno un profilo basso.
Almeno in apparenza. Non può infatti proclamare a voce troppo alta che in Europa alla fine si è imposta la linea della sua cancelliera Angela Merkel.
Naturalmente negli ambienti politici di Berlino regna la cautela, in dialettica sintonia con l’unica vera interlocutrice della Germania di oggi: la Banca centrale europea guidata da Mario Draghi. Ma all’interno dell’apparato istituzionale che forma l’Unione europea non si sono affermati progetti alternativi alla linea Berlino-Francoforte, su come controbattere la crisi economico-finanziaria. La tanto temuta e denigrata «egemonia tedesca» si è configurata di fatto come il «modello di riferimento» per gli altri Stati europei. Sono ipotizzabili soltanto aggiustamenti, miglioramenti, interventi correttivi e compensativi – purché ben guidati e sotto controllo.
Detto così, può sembrare un modo per svalorizzare queste iniziative. Non è così. Ma il limite di queste proposte, fatte da varie parti e in varie sedi istituzionali, è il loro carattere asistematico. Si insiste sull’unione bancaria (che va avanti con troppe reticenze e incertezze); sul fondo salva-Stati che dovrebbe essere dotato di più poteri e ancorato al Parlamento europeo; si parla di modifica dello statuto della Bce per farla diventare prestatore di ultima istanza sul modello della Federal Reserve americana. Ma queste e altre proposte, avanzate disordinatamente, sono incapaci di comporsi in un vero e proprio disegno complessivo, in grado di indicare le linee di una rinnovata cooperazione economica europea. Soprattutto non sanno ridare una nuova identità solidale all’Europa, travolta e tradita dalla retorica dei decenni passati.
Tutti parlano – compresa Angela Merkel – della necessità di una nuova comune politica economica e finanziaria, a cominciare dall’unione bancaria. Ma tutto rimane a livello di dichiarazioni di principio con lentissimi progressi. In compenso la strada della ripresa e della crescita è ancora molto lunga, anche se sembra aver perso le asprezze di ieri. O forse semplicemente ci si è rassegnati.
Berlino rimane sempre vigile: «l’ Europa degli altri» infatti può nascondere agli occhi dei tedeschi qualche sorpresa sgradita. Ora si teme l’ondata lunga (e tardiva) del risentimento anti-tedesco che, diventando risentimento anti-euro e quindi confusamente anti-Europa, potrebbe materializzarsi in un risultato delle prossime elezioni europee in grado di paralizzare il Parlamento di Strasburgo. E’ questa la grande incognita.
La cancelliera Angela Merkel dichiara di avere molto a cuore il Parlamento europeo, di volerlo rafforzare per superare il sempre evocato «deficit democratico» dell’Unione. Ma non è chiaro che cosa si aspetta esattamente dalle prossime elezioni di maggio, al di là dell’insuccesso dei partiti anti-euro. Qui si annida l’equivoco.
L’efficacia della parola d’ordine con la quale la cancelliera ha tenuto testa in questi anni ai suoi avversari e ha vinto le elezioni tedesche – «se fallisce l’euro, fallisce l’Europa» – rischia di diventare un boomerang per il suo semplicismo. Se nel Parlamento europeo si affermassero non già i nemici dell’euro come tale, ma coloro che avanzano proposte correttive (del tipo indicato sopra), saranno stigmatizzati come affossatori dell’Europa?
Il discorso si sposta allora sulla qualità e sulle competenze dei rappresentanti europei che i partiti dei vari paesi manderanno a Strasburgo. Sarebbe un errore se tutta la competizione elettorale si riducesse all’alternativa euro sì / euro no. Al punto in cui siamo infatti il vero problema è come mettere in moto quei processi correttivi e migliorativi dei meccanismi finanziari e monetari di cui stiamo parlando. E come potranno farlo i parlamentari europei se nei loro paesi d’origine le forze politiche e le opinioni pubbliche appaiono vaghe, incerte e insicure sul da farsi? Basta guardare al panorama politico italiano.
Per contrasto la situazione in Germania è diversa. Non che manchino opinioni contrastanti e dibattiti vivaci sulla questione dell’euro, ma a livello politico con la formazione della Grande Coalizione si è creato un formidabile consenso attorno alla politica dell’euro praticata dal governo Merkel. L’altro giorno, il ministro degli esteri, il socialdemocratico Frank-Walter Steinmeier è andato ad Atene come segno di attenzione per i greci. Come scrive un grande giornale tedesco, «molti greci attendevano dal nuovo ministro socialdemocratico l’annuncio di un nuovo corso in tema di risparmi e rigore. Sono stati delusi». Non poteva essere diversamente: la generosa politica sociale interna, promossa dalla socialdemocrazia per la Germania, è possibile soltanto contestualmente con la «politica del rigore» in Europa.
La Germania della Grande Coalizione è attrezzata per il caso peggiore di un ipotetico contrasto tra il Parlamento europeo e quello tedesco. Non solo nel caso estremo di una paralisi di Strasburgo per la presenza di consistenti forze anti-euro, ma anche di fronte a progetti e proposte che fossero percepite dai tedeschi come lesive della loro sovranità parlamentare nazionale. Strasburgo contro Berlino è uno scenario improbabile, ma da evocare per rendersi conto di quanto siano importanti le prossime elezioni europee, che nel nostro paese rischiano di essere affrontate in modo approssimativo, in un’ottica tutta subordinata a logiche domestiche.

Corriere 12.1.14
Quei 500 miliardi dei Paesi deboli che hanno salvato le banche tedesche
di Antonio Foglia

banchiere

Con un efficace paragone, l’economista Luigi Zingales ricorda che l’euro è un progetto analogo alla Conquista del Messico da parte di Cortes che si bruciò le navi alle spalle per impedire ogni tentazione di ritirata ai suoi uomini. Quando partì l’euro, chi lo volle sapeva che si trattava di un progetto incompleto che avrebbe probabilmente avuto bisogno di importanti aggiustamenti. Il vertice europeo del giugno 2012 mise a fuoco quelli più urgenti.
Tra essi, si individuarono una Banking Union per evitare la balcanizzazione del mercato comune, oltre che del sistema bancario, e una Fiscal Union per prendere atto che, entrando nell’euro, tutti gli Stati nazionali si ritrovarono indebitati in una moneta che non potevano più emettere. E debiti pubblici in moneta estera superiori al 60% del Pil si sono storicamente quasi sempre dimostrati insostenibili.
Entrambi i progetti sono da allora osteggiati dalla signora Merkel, che vede nella Banking Union e negli eurobond il salvataggio delle banche e degli Stati dei Paesi più deboli della periferia dell’eurozona a spese della Germania. Ma, superata la tornata elettorale tedesca, è ora di prendere atto che uno dei maggiori effetti imprevisti dell’attuale architettura incompleta dell’eurozona è che tutte le nazioni europee in solido hanno in pratica salvato il sistema bancario tedesco dai rischi dei crediti dubbi accumulati come contropartita dei surplus commerciali persistenti della Germania. A tutti gli effetti, un bailout di oltre 500 miliardi di euro del sistema bancario tedesco da parte dei partner europei di cui pochi si sono ancora accorti.
Dai primi anni 2000, la Germania accumula avanzi commerciali persistenti verso alcuni partner europei. Nell’ambito di un’unione monetaria, un Paese esportatore netto, che consuma e investe meno di quanto produce, non può che accumulare passività finanziarie dei Paesi importatori netti come pagamento ed essere quindi esportatore netto di capitali verso i Paesi importatori di merci.
Gli americani chiamano questa dinamica vendor-financing : ti vendo qualcosa ma te ne finanzio l’acquisto. Una politica commerciale che dà facili successi ma che alla lunga è estremamente pericolosa, come prima o poi rischiano di scoprire anche i cinesi che finanziano il Tesoro Usa. E infatti il sistema bancario tedesco, a furia di erogare credito che andava a finanziare anche le bolle immobiliari in Spagna e Irlanda (ma anche in Usa, tanto che la prima banca saltata nella crisi dei Subprime fu la tedesca Ikb nel 2007) si ritrovò nel 2008 esposto per più di 900 miliardi di euro verso i Paesi della periferia dell’eurozona. Cifra pari a oltre due volte e mezzo il capitale totale delle banche tedesche.
Inizialmente la Banca centrale europea (Bce) fece imporre a Paesi come l’Irlanda, che avevano finanze pubbliche perfettamente sane, di rovinarle per salvare il proprio sistema bancario. A vantaggio anche delle banche estere creditrici che poterono rientrare dai crediti facili erogati. Anche gli altri Paesi dovettero garantire i propri sistemi bancari, peggiorando il proprio merito di credito sovrano e quindi indebolendo ulteriormente il loro sistema bancario carico di obbligazioni dello stesso Stato. E i flussi interbancari internazionali si invertirono.
Al persistere della crisi, alla fine del 2011, la Bce decise di erogare credito generoso a buon mercato (Ltro) per evitare l’avvitamento dell’aumento dei tassi sul debito sovrano e bancario. Manovra giustamente presentata da Draghi come di politica monetaria, perché l’aumento dei tassi stava distruggendo il mercato comune forzando le aziende dei Paesi periferici a finanziarsi a tassi molto più alti dei loro concorrenti in altri Paesi e impedendo la trasmissione degli stimoli monetari espansivi della Bce a sostegno delle economie in crisi.
Coi soldi ricevuti, le banche dei Paesi periferici in crisi in parte proseguirono il rimborso dei crediti interbancari ricevuti soprattutto dalla Germania e in parte ricomprarono dall’estero il debito sovrano nazionale.
Ma quando una banca tedesca chiede a una banca italiana di rimborsare un credito interbancario, o di pagarle un Btp che le ha venduto, la banca tedesca vuole essere accreditata presso la Bundesbank. La banca italiana quindi chiede alla Banca d’Italia di addebitarla in conto e accreditare la Bundesbank. Il rapporto tra le due banche private si estingue ma la Bundesbank resta creditrice, e la Banca d’Italia debitrice, sul sistema di pagamento della Bce noto come Target 2.
E infatti, mentre l’esposizione verso la periferia dell’eurozona del sistema bancario tedesco scese da oltre 900 miliardi di euro del 2008 ai 380 circa di oggi, il saldo creditore della Bundesbank su Target 2 esplose e si colloca oggi a oltre 520 miliardi.
In questo processo, il settore privato tedesco si è disfatto di molti crediti dubbi. Non sente più il rischio, e non trasmette quindi alla politica l’urgenza di venire incontro ai debitori per sperare di vedere rimborsati almeno parte dei finanziamenti erogati all’estero. Facile quindi pretendere la ristrutturazione del debito pubblico greco, ormai venduto, o il bailin dei depositanti ciprioti. E diventare intransigenti dopo aver inondato l’Europa del credito facile creato dalle proprie esportazioni e di cui ci si è nel frattempo largamente disfatti.
Ma la maggior parte del credito concesso dalle banche tedesche alla periferia dell’eurozona è stato in pratica semplicemente passato alla Bundesbank come saldo di Target 2. E dei saldi di Target 2 rispondono in solido gli azionisti della Bce, e quindi anche la Germania, ma solo per il 27%. Ecco quindi come il sistema bancario tedesco è stato di fatto salvato mutualizzando i suoi crediti dubbi verso la periferia a spese di tutti i Paesi dell’eurozona.
L’Italia ha i suoi drammatici problemi. Gli altri Paesi periferici, meglio di noi, stanno già ristrutturandosi. Ma, diversamente da loro e dalla stessa Germania, l’Italia non ha avuto un peggioramento altrettanto vistoso delle finanze pubbliche e degli squilibri dei conti con l’estero da quando ha aderito all’euro. Avrebbe quindi buon titolo, se appena riuscisse a fare qualche vero progresso in campo domestico, per chiedere alla Germania quella solidarietà che ora nega dopo averne, inconsciamente, approfittato. E rilanciare così, al suo turno di presidenza tra pochi mesi, il progetto europeo.
(banchiere)

Corriere 12.1.14
Riemergono le carte della commissione istituita nel 1946
Abusi e atrocità dalla Grecia all’Albania, dalla Russia alla Jugoslavia: nessun responsabile fu giudicato
Quei crimini rimasti impuniti commessi dai generali del Duce
Le pagine oscure della guerra d’occupazione italiana
di Franco Giustolisi


C’ è l’armadio della vergogna, ma anche il carrello della vergogna. Nel primo furono nascosti per mezzo secolo i fascicoli degli innumerevoli crimini commessi in Italia dai nazisti con il valido aiuto degli scherani di Mussolini. Nel secondo, un enorme carrello a due piani, per ancora più tempo sono stati accantonati (sarebbe meglio dire occultati) tutti i faldoni riguardanti le non gloriose imprese commesse dalle truppe inviate dal Duce alla conquista del mondo. E, mi duole dirlo, non c’è eccessiva differenza tra le azioni delle camicie brune tedesche e quelle delle camicie nere.
Italiani brava gente? In guerra quasi non esistono differenze, come non sono esistite e non esistono nel trattamento morale e penale di nazisti e fascisti. Tranquilli i primi, nei loro Paesi, nonostante condanne all’ergastolo comminate dai nuovi Tribunali militari. Tranquillissimi i secondi, neanche sfiorati dalle inchieste.
Ora i fatti. Tra le montagne di carte di quell’enorme carrello, che per oltre due anni ho faticosamente inseguito, c’è la relazione della Commissione istituita il 6 maggio del 1946 dal ministero della Guerra per «accertare le responsabilità nelle quali potessero essere incorsi i comandanti o i gregari italiani nei territori d’oltre confine occupati dalle forze armate italiane nell’ultima guerra». Firma la relazione, datata 30 giugno 1951 e inviata a quello che ormai è divenuto il ministero della Difesa, il senatore avvocato Luigi Gasparotto: antifascista, cofondatore del Partito della democrazia del lavoro (scomparso nei primi anni del dopoguerra insieme al Partito d’azione) e unico civile tra tanti militari. Uno dei suoi figli, rinchiuso nel lager di Fossoli, fu ucciso dai nazifascisti assieme al finto generale Della Rovere e ad altri settanta internati.
Gli accusati dalle varie nazioni aggredite dal fascismo sono 326 di cui solo 34, secondo la relazione, «sarebbe opportuno sottoporre a giudizio dell’autorità competente». Ma quest’ultima, cioè la Procura militare di Roma, quando riemersero le carte, si pronunciò qualche anno fa per la «non punibilità» di tutti, a norma, artatamente, di un articolo del codice militare di guerra, il 165, previsto per ben diverse situazioni.
La relazione parte considerando le richieste della Jugoslavia, «Paese dal quale sono state mosse le più numerose e più gravi accuse alle nostre truppe di occupazione e alle autorità civili preposte all’amministrazione dei territori occupati». Dopo aver respinto l’accusa di preordinata e sistematica violenza da parte italiana, si fa riferimento alla necessità degli occupanti di emettere provvedimenti di rigore per controbattere «gli atti di ferocia commessi dai partigiani». E che i partigiani jugoslavi non fossero anime gentili, è raccontato in un altro di quei numerosissimi fascicoli: 40 bersaglieri catturati furono evirati. Ma un generale italiano commentò: «Però noi siamo gli aggressori». Vien anche scritto in questa relazione che «l’annientamento di interi villaggi, le rappresaglie più spietate, furono opera di gruppi etnici e religiosi in lotta fra loro». L’allusione riguarda, evidentemente, la guerra intestina tra titini e monarchici. «Tuttavia non può disconoscersi che gli ordini e le disposizioni dati da alcuni comandanti militari e da qualche autorità civile e i giudizi sommari di qualche tribunale straordinario apparissero improntati ad un rigore eccessivo». E così vengono denunciati, tra gli altri, alle autorità competenti «i generali Roatta e Robotti, il governatore della Dalmazia, Bastianini, i componenti del tribunale straordinario di Sebenico, generale Magaldi e colonnello Sorrentino, essendo stato l’altro componente, Pietro Caruso, fucilato in Roma, dove aveva esercitato le funzioni di questore, dietro condanna dell’Alta Corte di Giustizia». Roatta, già capo dei servizi segreti fascisti, mandante insieme a Mussolini, dell’assassinio in Francia dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, comandante supremo dell’armata che aveva invaso la Jugoslavia, diceva ai suoi: «Non dente per dente, ma testa per dente». E il suo successore, Robotti, si lamentava nelle riunioni dello stato maggiore perché «qui ne ammazziamo troppo pochi». Ma non c’è problema: loro e tutti gli altri se la cavarono a norma di quell’articolo 165 del Codice militare di guerra che prevede la parità della tutela penale, come se ci fosse parità tra eserciti e civili, come se si mettessero sullo stesso piano le vittime di S. Anna di Stazzema e chi le massacrò.
Albania. Dice la relazione: «Anche il governo albanese, sull’esempio di quello jugoslavo, ha rivolto molteplici gravi accuse di crimini di guerra ai connazionali militari e civili di cui hanno chiesto la consegna… Costoro, secondo quanto afferma detto governo, avrebbero ispirato, organizzato ed eseguito l’aggressione armata del 17 aprile 1939, favorito l’aggressione da parte della Germania del 6 luglio 1943, ordinato e commesso innumerevoli delitti contro il popolo albanese», consistenti in deportazioni, uccisioni, atti di terrore, atrocità. Ma «si tratta di accuse così vaghe e generiche» da non potersi prendere in considerazione. E le varie colpe addebitate ai singoli sono «quelle misure che potevano essere compatibili con le condizioni anormali create dallo stato di guerra». E poi, stigmatizza la commissione, «il governo albanese, anziché lanciarsi in accuse infondate, avrebbe dovuto ricordare l’azione oltremodo benefica svolta dall’Italia in quel Paese negli anni che precedettero l’occupazione». Come vi permettete? Siete privi di memoria?
Grecia. A norma dell’art. 45 del Trattato di pace il governo greco chiese la consegna di 23 persone, tra militari e civili. Tra queste l’ex luogotenente in Albania Francesco Jacomoni. Però, nell’aprile del 1948 le autorità greche «dichiaravano di rinunciare a dette consegne, lasciando alla magistratura italiana il compito del giudizio». Anche in questo caso, nota la relazione, ci si trova davanti a generiche enunciazioni (ma alcune inchieste riaperte dal nuovo procuratore Marco De Paolis dimostrano esattamente il contrario). Quindi, per la Commissione tutto a posto. Unica eccezione il generale Gherardo Magaldi, ancora lui, «il cui carattere violento avrebbe potuto giustificare l’accusa di uccisioni e atti di crudeltà da lui commessi e ordinati… Per questo è stato deciso di inviare il suo caso ai nostri organi giurisdizionali per compiere un’ampia istruttoria». Ma come vado ripetendo non se ne farà niente.
Russia. In una nota dell’ottobre del 1944 il governo russo denunciava come criminali di guerra il generale Roberto Lerici ed altri 11 ufficiali. «Tuttavia la Commissione si è dovuta convincere che le accuse erano basate su dati di fatto inesatti o insussistenti». Comunque il governo russo non rispose alle richieste di chiarimenti, «dimostrando, tra l’altro, di non insistere sulla consegna degli accusati». Alla commissione arrivarono richieste anche dalla Francia e dalla Gran Bretagna, di rilevanza minore, comunque anch’esse completamente azzerate. Manca, stranamente, in questa relazione finale della «Commissione d’inchiesta per i crimini di guerra italiani secondo alcuni Stati esteri» ogni riferimento a quel che combinarono in Africa i marescialli Badoglio e Graziani. In particolare quest’ultimo, che poi aderirà a Salò.
La conclusione, assai amara: in questo Paese è più facile, molto, molto più facile far riemergere la mastodontica Concordia, piuttosto che la storia, la memoria, la giustizia. Cioè, in una parola, la civiltà.

Corriere 12.1.14
I due saperi, rivali o alleati
«Il Mulino» riapre il dibattito su scienza e umanesimo
Il degrado degli studi produce una politica senza idee
di Antonio Carioti


Il grido d’allarme in favore dell’umanesimo lanciato da Alberto Asor Rosa, Roberto Esposito ed Ernesto Galli della Loggia, pubblicato dalla rivista «Il Mulino», denuncia lo svilimento degli studi storici, filosofici e letterari come un pericolo mortale per l’Italia. Un tema che può essere considerato da svariati punti di vista. L’appello non è piaciuto agli autori convinti che il guaio peggiore del Paese sia piuttosto la carenza di cultura scientifica, mentre altri studiosi ne hanno apprezzato e sottolineato la valenza sul terreno politico. Al primo gruppo appartiene Gilberto Corbellini, autore del saggio Scienza (Bollati Boringhieri): «Io insegno Storia della medicina e vedo che quasi tutti gli studenti escono dalla scuola superiore senza sapere nulla del metodo scientifico, senza avere idea, per esempio, di come si accerta l’efficacia di un farmaco: poi non c’è da stupirsi se si dà credito agli imbonitori, come nel caso Stamina». A suo avviso l’appello uscito sul «Mulino» ha un taglio conservatore: «È pervaso dall’idea che la conoscenza umanistica sia più profonda e dinamica, rispetto al presunto appiattimento del sapere scientifico». Assai diverso l’approccio di Massimo Adinolfi, docente di Filosofia teoretica e autore del saggio Continuare Spinoza (Editori Internazionali Riuniti), che ha commentato positivamente l’appello sul «Messaggero» del 5 gennaio: «Il punto cruciale colto dai tre sottoscrittori riguarda il destino della politica.
Essa in Italia ha tratto la sua linfa da una tradizione impregnata di cultura umanistica. Se quel patrimonio storico finisce nel dimenticatoio, come sta accadendo, si perdono le coordinate della vita pubblica. E poi ci ritroviamo ad essere governati da partiti come quelli attuali: formazioni senz’anima e senza storia, incapaci persino di declinare un albero genealogico coerente».
Non tutti però apprezzano il retroterra della cultura politica italiana. Molto critico si mostra ad esempio il sociologo Luciano Pellicani nel libro Contro la modernità (Rubbettino), scritto con Elio Cadelo: «L’appello uscito sul “Mulino” — dichiara — rispecchia una grave arretratezza. Penso all’invettiva contro la cosiddetta “idolatria del mercato”, che forse ha un senso negli Stati Uniti, ma è paradossale in un Paese votato allo statalismo come il nostro. Quanto alla tradizione politica, nelle campagne elettorali italiane non si fa cenno ai temi della ricerca scientifica, che sono invece centrali nei dibattiti delle presidenziali americane. Lungi da me l’idea di sottovalutare l’importanza della letteratura o della filosofia, ma l’emergenza di cui soffriamo è su un altro versante». Roberto Esposito, firmatario dell’appello, mette in guardia contro gli equivoci: «Abbiamo puntato l’attenzione sull’umanesimo in modo molto netto, forse anche provocatorio, ma non pensiamo certo che si debbano ridimensionare le discipline scientifiche. E siamo consapevoli della necessità di un’osmosi.
Essa tuttavia è possibile solo se ciascuno dei due ambiti (anzi tre, se si aggiungono le scienze sociali come l’economia e la sociologia) mantiene la sua specificità. L’errore è omologare i saperi come fanno certi meccanismi di valutazione, tutti basati su parametri quantitativi e oggettivi, che non possono valere per gli studi umanistici, fortemente caratterizzati in senso qualitativo e soggettivo».
Su questo Corbellini concorda: «Anch’io trovo ridicole le modalità di valutazione oggi in uso e la sceneggiata dell’abilitazione nazionale per la docenza universitaria. I tre firmatari dell’appello hanno ragione nel definire umiliante e provinciale la richiesta che un commissario straniero partecipi alle procedure di valutazione. Ed è assurdo che chi scrive fesserie in inglese abbia più probabilità di essere abilitato rispetto a chi scrive cose intelligenti, ma solo in italiano». Tuttavia, a suo avviso, questi sono proprio i risultati di una tradizione che ha svalutato la scienza: «La nostra classe politica, cui si devono i guasti denunciati sul “Mulino”, non viene quasi tutta da una formazione umanistica? Servirebbe una franca autocritica da parte di chi opera in quel campo. Invece l’appello esalta i tratti peculiari dell’identità italiana, proponendo quasi una riedizione del Primato di Vincenzo Gioberti, men- tre trascura il ruolo cruciale che la scienza ha giocato nello sviluppo della modernità, della tolleranza e della democrazia liberale».
È un’impostazione che non convince Adinolfi: «L’idea che tutti i Paesi si debbano adeguare a un modello unico liberale di matrice anglosassone mi sembra priva di senso storico. In realtà l’Italia del dopoguerra ha conosciuto enormi progressi economici e civili finché hanno tenuto i filoni politico-culturali originali radicati nella nostra vicenda nazionale, come il cattolicesimo democratico della Dc e la tradizione socialista del movimento operaio. Quando quei riferimenti ideali si sono consunti, il nostro Paese ha perso quota ed è entrato in una fase di grave declino». «Vorrei ricordare — osserva a sua volta Esposito — che l’attuale ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, e il suo predecessore, Francesco Profumo, sono docenti di materie scientifiche, quindi il monopolio dell’umanesimo al governo non esiste più. Riconosco comunque che la tradizione culturale italiana è stata spesso interpretata in modo mediocre dalle classi dirigenti. Aggiungo che tuttavia negli Stati Uniti, dove ha sempre prevalso il sapere scientifico, oggi si riscopre l’importanza della visione umanistica e proprio la filosofia italiana è molto apprezzatra. Ma quella espressa nel nostro appello sul “Mulino” non è una posizione di difesa identitaria: semmai abbiamo voluto sottolineare una innegabile specificità italiana, cioè il ricchissimo patrimonio artistico e culturale che ci deriva dal passato. È una risorsa immensa, di cui altri Paesi non dispongono. Ma come si può valorizzarla, se si emarginano gli studi umanistici?». Pellicani pensa che la priorità sia un’altra: «Mancano i laureati in matematica e in fisica, per giunta i più dotati tra loro vanno all’estero. E troppi studiosi di materie umanistiche continuano a ignorare gli sviluppi delle scienze naturali e il loro contributo alla comprensione delle nostre esperienze individuali e sociali. Mi sembra che temano un’invasione di campo, anche per la diffidenza diffusa verso tutto ciò che è misurabile e quantitativo. Io invece, come sociologo, giudico prezioso, per esempio, l’apporto della psicologia evoluzionista, che studia il tasso di condizionamento biologico nei comportamenti della specie umana». Esposito nega però ogni paura di contaminazione: «Nessuna chiusura. Al contrario, personalmente parlo da anni di biopolitica, cioè sostengo la necessità di mettere in rapporto politica e dinamiche biologico-naturali. Neuroscienze e filosofia trovano un terreno comune nella categoria di bios, la vita biologica, attraverso la quale si va facendo strada un nuovo paradigma scientifico più flessibile, attento al divenire, alle differenze, alle varianti. Ma un confronto fecondo esige che non si pretenda di allineare tutti i saperi lungo l’unico orizzonte delle scienze naturali».

Corriere 12.1.14
L’economia vista dal papa, la Chiesa che piace alla sinistra
risponde Sergio Romano


Caro Romano, può ricordare ai lettori che anche papa Francesco ha attaccato la «trickle down economics» perché, purtroppo, alle sue dichiarazioni i media hanno dato poco spazio?
Giulia Colla

Cara signora,
L’ espressione definisce una tesi economica molto diffusa dall’epoca di Margaret Thatcher, primo ministro britannico dal 1979 al 1990, e di Ronald Reagan, presidente degli Stati Uniti dal 1980 al 1988. Secondo questa tesi, la ricchezza, nei regimi capitalisti, scende goccia a goccia lungo i rami dell’albero sino a fertilizzare l’intero terreno sociale. I suoi sostenitori ne concludono che il miglior modo per favorire il progresso generale sia quello d’incoraggiare la formazione della ricchezza privata. Lo Stato che spende molto per garantire previdenze e servizi ai ceti sociali più bisognosi sarebbe quindi molto meno efficace di uno Stato che taglia le tasse, garantisce la flessibilità del mercato del lavoro e si astiene da misure che possano limitare la libera gara tra soggetti economici autonomi e intraprendenti.
Il Papa ne ha parlato in una Esortazione apostolica, «Evangelii Gaudium», pubblicata nel novembre dell’anno scorso. Ha auspicato una economia inclusiva che non tratti l’uomo come una macchina dei consumi. Ha affermato che all’origine della crisi finanziaria vi è una crisi antropologica: la negazione del primato dell’essere umano. Ha preso chiaramente posizione contro la «trickle down economics» (che ha liberamente tradotto come teoria della «ricaduta favorevole») e ha aggiunto: «Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare».
Non tutti gli economisti saranno d’accordo con il Papa. Qualcuno potrebbe osservare che vi sono stati numerosi momenti della storia economica in cui le politiche favorevoli allo sviluppo dell’industria, all’apertura dei mercati e alla creazione di ricchezza privata, hanno dato un forte contributo alla lotta contro la povertà e alla creazione di un più diffuso benessere sociale. E altri potrebbero ricordare che il buon capitalismo si è dimostrato spesso capace di correggere i propri errori. A giudicare dalle riforme avviate dall’Ue in questi ultimi anni, il capitalismo europeo potrebbe emergere dalla crisi più forte e credibile di quello degli Stati Uniti, dove le riforme sono state limitate e spesso contestate.
È comunque interessante osservare che le dichiarazioni del papa hanno trovato una eco favorevole in molti ambienti politici occidentali. Nelle loro prossime campagne elettorali, al di qua e al di là dell’Atlantico, i partiti progressisti cercheranno di raccogliere voti nelle fasce sociali che sono state maggiormente colpite dalla recessione e non mancheranno di citare il Papa ogniqualvolta avranno l’impressione che una certa sintonia con le sue posizioni giovi alle loro fortune politiche. In una recente riunione del Partito democratico a Washington sul tema della ineguaglianza sociale, un senatore avrebbe detto: «In questo campo abbiamo dalla nostra parte un importante alleato: il Papa».
Questa sintonia sarà tanto più politicamente utilizzabile quanto più il Papato di Francesco sembrerà disposto ad affrontare alcuni problemi umani e civili come le unioni fra omosessuali, con atteggiamenti più aperti e tolleranti. Nessuno pensa che la Chiesa si appresti a rovesciare la sua politica tradizionale sul matrimonio. Ma la domanda con cui il Papa ha risposto a un quesito sulle coppie omosessuali («Chi sono io per giudicare?») continua a rimbalzare in giro per il mondo da un giornale all’altro.

il Fatto 12.1.14
Caso Dieudonné, serve davvero alla libertà negare la libertà?
di Silvia Truzzi


IN FRANCIA infuria la polemica su tal Dieudonné, umorista antisemita e ideatore della “quenelle”, una specie di saluto nazista con il braccio rivolto verso il basso. È intervenuto il presidente Hollande in persona: “Di fronte all’antisemitismo, al disturbo per l’ordine pubblico che suscitano le provocazioni indegne, alle umiliazioni che rappresentano le discriminazioni, chiedo ai rappresentanti dello Stato e in particolare ai prefetti di essere vigilanti e inflessibili”. I prefetti hanno risposto, vietando le esibizioni dell’“artista”. Dopo ricorsi e controricorsi, il Consiglio di Stato alla fine ha stabilito che lo spettacolo non deve essere rappresentato. Il Tar, chiamato a decidere sulla tappa di Nantes, non ravvisando “pericoli per l’ordine pubblico” a veva cancellato il divieto del prefetto della regione: quasi tutti i 6mila biglietti erano stati venduti. A meno di due ore dall’inizio dello show, poi, è arrivata la sentenza del Consiglio di Stato. Fine della storia? Non proprio: ieri Dieudonné ha annunciato sulla sua pagina Facebook di voler tornare a Parigi con una nuova versione del suo show, nel teatro della Main d’Or, dove si è esibito negli ultimi anni. La prefettura ha emesso un altro provvedimento di divieto, contro cui i legali del comico hanno presentato ricorso. In un video il comico ha chiamato i suoi sostenitori a manifestare il 26 gennaio alla Bastiglia, pur avendo dichiarato: “In uno stato di diritto bisogna rispettare la legge”. Intanto esulta il ministro dell’Interno, Manuel Valls: “È una vittoria della Repubblica contro l’antisemitismo”. Con lui anche il premier, Jean-Marc Ayrault: “Non possiamo accettare che nella nostra società ci sia anche la minima compiacenza con l’antisemitismo, totalmente estraneo ai nostri valori e ai nostri principi”.
BENE. Che dire di questo signore che si vanta di aver fatto pipì sul Muro del pianto? Possiamo risparmiare righe e aggettivi per questo genere di vergognosi insulti. Quest’uomo si qualifica da solo, basta la Storia a definirlo. Qualche parola invece la merita il terremoto giudiziario messo in moto dal governo socialista. Qual è stato l’effetto? Far passare questo tizio per un martire della libertà, amplificando a dismisura le sue “tesi”. Fin qui, si può obiettare, si tratta di un effetto collaterale. Ma come si può non vedere il pericolo della censura, giustificata in nome di un bene superiore? È molto facile essere favorevoli alla libertà di parola quando questa non contraddice quello che pensiamo. Assai più difficile sostenere e realizzare il principio di libertà quando, e questo è sicuramente un caso esemplare, l’opinione altrui ci offende. Diceva Adorno che dopo Auschwitz non sarebbe più stato possibile scrivere poesie: l’Olocausto è stata una ferita immane nella storia dell’uomo. Eppure nemmeno di fronte a questo dolore è lecito prendersi la libertà di negare la libertà. Non solo perché la Storia ci insegna che ogni censura trova il suo antidoto, ma perché questo segna un precedente pericoloso. Un valore condiviso, la condanna della Shoah, non è sufficiente: è una democrazia diminuita quella che non tollera l’opinione diversa, anche quando la maggioranza la considera intollerabile.

Corriere Salute 12.1.14
Come si aumentano davvero memoria, creatività, concentrazione
di Elena Meli


È utile leggere, imparare a suonare uno strumento, studiare una lingua straniera. Ma lo è ancora di più dormire abbastanza ed evitare stimoli eccessivi

Esistono molti modi per ottenere il massimo dal nostro cervello aumentandone le prestazioni: avere più memoria, riuscire a concentrarsi di più, sfruttare a fondo la creatività, imparare a usare meglio il ragionamento, rafforzare la logica. È possibile farlo da giovanissimi, quando le capacità cerebrali si stanno sviluppando grazie alla creazione di nuove connessioni fra i neuroni, ma è un obiettivo realistico anche per chi è già adulto: ormai si sa da tempo che le cellule del cervello mantengono una certa plasticità ben oltre i 18 anni, consentendo a chiunque di poter migliorare le performance cerebrali e, almeno in teoria, in ogni momento dell’esistenza.
Il bello è che dare una marcia in più al cervello sembra perfino piacevole: stando alle ricerche scientifiche, le attività più efficaci allo scopo sarebbero, per esempio, lo studio di uno strumento musicale, la meditazione, un buon sonno, un po’ di sano movimento o esercizi che chiunque può fare senza troppi sforzi. Prima regola, usare costantemente il «muscolo-cervello», perché l’inattività lo indebolisce. «Come la ginnastica fortifica i muscoli, così l’attività mentale rafforza il cervello — spiega Giuseppe Iannoccari, presidente di Assomensana (Associazione per lo sviluppo e il potenziamento delle capacità mentali) —. Così come l’eccesso di sport può far male, però, anche il superlavoro cerebrale può essere deleterio: lo stress, attraverso ormoni come il cortisolo, impedisce ad esempio la sedimentazione della memoria e compromette l’apprendimento. Allo stesso modo, guai a “intasare” il cervello con troppe informazioni: per trattenere ciò che arriva dall’esterno le cellule devono creare collegamenti e per farlo serve tempo, e se vengono continuamente “sovrapposte” notizie finiamo per creare solo confusione».
Il cervello per potenziarsi ha bisogno di allenarsi, ma anche di riposarsi: non a caso un buon sonno è fondamentale, perché è in questa fase che le connessioni cerebrali si riorganizzano e alcuni circuiti mentali sono rafforzati mentre altri sono sfoltiti. «Dormire bene è indispensabile per il cervello — interviene il neurologo e psichiatra Sandro Sorbi, responsabile della Clinica neurologica 1 al Policlinico universitario Careggi di Firenze —. Dopo una notte poco ristoratrice le performance sono meno brillanti, chi ha disturbi del sonno con l’invecchiamento va incontro più facilmente a disturbi cognitivi. In caso di difficoltà però occorre rivolgersi a uno specialista: farmaci come le benzodiazepine, usati da molti per il fai da te antinsonnia, possono peggiorare le prestazioni cognitive».
Ma quali sono le attività più utili per far diventare «super» il cervello? «Come nel nostro corpo abbiamo molti muscoli diversi, da potenziare con allenamenti differenti, così il cervello ha varie capacità da esercitare: memoria, attenzione, concentrazione, linguaggio, logica, creatività, ragionamento e così via — riprende Iannoccari —. Per stimolare il cervello però serve qualcosa che lo attivi davvero: le parole crociate, ad esempio, sono un esercizio passivo in cui andiamo semplicemente a recuperare nozioni già presenti nella memoria. Pure la lettura può essere passiva, se non sollecita la fantasia e non ci stimola: chi ama leggere, per far sì che ciò diventi un buon esercizio mentale, dovrebbe fermarsi dopo aver letto alcune pagine e ripensare agli avvenimenti e ai personaggi, rievocando le emozioni provate. In questo modo la lettura diventa strumento per allenare la memoria e l’attenzione».
Un altro esercizio molto semplice proposto dall’esperto è la ripetizione a tre persone diverse di una notizia appresa durante la giornata: la prima volta il racconto sarà poco efficace, la seconda sarà più chiaro e fluente, alla terza ripetizione ci accorgeremo di saper riferire la storia in maniera lineare e con ricchezza di particolari. Un metodo facile, che aiuta a migliorare concentrazione, capacità linguistiche, costruzione del pensiero e memoria. Un po’ più di impegno nel lungo termine occorre per attività che secondo numerosi studi scientifici sono un toccasana per il cervello: imparare a suonare uno strumento, ad esempio, sembra addirittura in grado di aumentare il quoziente intellettivo se si comincia da piccoli. I meccanismi non sono chiari, probabilmente hanno un ruolo le risorse motorie, sensoriali ed emotive coinvolte. Chi non suona può provare con l’effetto Mozart , secondo cui le prestazioni cerebrali migliorerebbero anche solo ascoltando buona musica: molti esperti ritengono però che non si tratti di un vero potenziamento delle capacità del cervello, bensì che il benessere indotto dall’ascolto aiuti la mente a funzionare al massimo. C’è invece certezza sull’efficacia dell’apprendimento di una seconda lingua: da tempo si sa che i bilingui hanno un vantaggio cognitivo (ad esempio migliori capacità esecutive, cioè migliore capacità di concentrarsi su ciò che serve o di passare da un compito all’altro senza confondersi), ora molte evidenze sottolineano che pure studiare le lingue da adulti migliora le performance cerebrali. «Anche imparare a usare uno strumento tecnologico nuovo, come un tablet o uno smartphone, è utile — aggiunge Iannoccari —. Per riuscirci dobbiamo ristrutturare gli schemi cognitivi e imparare a pensare in modo diverso, allenando perciò la mente a essere flessibile: più l’intelligenza è fluida, più siamo capaci di trovare soluzioni ai problemi».
Chi preferisce attività contemplative può affidarsi alla meditazione. È dimostrato che ritagliarsi ogni giorno qualche minuto per meditare allena attenzione e concentrazione, aiutando il cervello a ottimizzare le sue prestazioni. Chi al contrario è un iperattivo per natura può sfruttare i vantaggi dell’esercizio fisico: «Facendo sport non si diventa automaticamente geni, è bene specificarlo. Tuttavia, essere in forma crea le condizioni ideali perché il cervello possa dare il meglio: l’attività fisica mantiene sano il sistema cardiovascolare ossigenando e irrorando il sistema nervoso, inoltre produce endorfine che tengono alto il tono dell’umore e aumenta la sintesi di proteine preziose per proteggere i neuroni» conclude Giuseppe Iannoccari.

Corriere 12.1.14
I farmaci sono una scorciatoia che funziona solo per poco


La tentazione, per alcuni, è forte. Perché non aumentare le capacità cognitive inghiottendo semplicemente una pillola? Alcuni farmaci potenzialmente potrebbero aiutarci: il metilfenidato ad esempio, molto discusso per il trattamento di bambini e giovani con deficit di attenzione e iperattività, consente di rimanere più concentrati più a lungo; il modafinil , impiegato in soggetti con narcolessia, tiene svegli e attenti per ore e ore filate. Senza contare i «rimedi» per sostenere lo studio a oltranza degli studenti universitari in prossimità degli esami, dai derivati delle amfetamine ai litri di caffè. Tutte queste sostanze, aumentando l’allerta, ci fanno apparentemente lavorare di più e perciò viene da credere che pure le nostre capacità cerebrali si potenzino; in realtà non è così, come spiega Giuseppe Iannoccari, presidente di Assomensana: «L’aumento della vigilanza è innegabile, ma il lavoro fatto in queste condizioni non è duraturo. In altri termini, sotto l’effetto dei farmaci si possono incamerare più informazioni, ma queste poi “scivolano via” e in breve tutto ciò che è stato appreso verrà dimenticato. Per imparare davvero occorre tempo, solo concedendoselo ciò che “entra” nel cervello ci resterà a lungo». Senza contare i possibili effetti collaterali di farmaci assunti senza che vi sia un motivo medico o i danni delle droghe stimolanti, che possono provocare dipendenza, allucinazioni, paranoie e depressione. «Gli stimolanti cognitivi sono per il cervello quello che gli steroidi rappresentano per il fisico, un pericoloso doping — osserva Iannoccari —. Non c’è un vero potenziamento delle capacità di performance, ma una loro esaltazione temporanea, al prezzo di conseguenze negative nel lungo periodo. Per di più, come nel caso del doping per chi vuole gonfiare i muscoli, dopo aver utilizzato sostanze stimolanti si hanno ricadute in cui le prestazioni sono perfino peggiori di prima».

Corriere Salute 12.1.14
La validità degli esercizi di «brain training» non è sempre ben documentata


Il cervello è un organo plastico con grandi potenzialità: allenarlo è possibile e negli ultimi anni diversi ricercatori hanno provato a mettere a punto sistemi per un vero e proprio brain training a base di esercizi, giochi, programmi specifici. Ma funzionano? Uno studio pubblicato sul Journal of Neuroscience sembra dar ragione agli scettici, perché suggerisce che i miglioramenti nelle performance ottenuti attraverso gli esercizi si limitino allo specifico compito eseguito di volta in volta e siano perciò di durata ed entità limitate nel tempo. Il dato fa riflettere e mostra come in questo campo sia opportuno andare con i piedi di piombo, cercando per quanto possibile di affidarsi alle prove scientifiche di efficacia. In Italia, Neocogita, una start-up a cui lavorano neuroscienziati, psicologi ed esperti in gran parte provenienti dal Dipartimento di psicologia e scienze cognitive e di informatica dell’Università di Trento, ha scelto proprio questa strada. «Esistono moltissimi esercizi di brain training e giochi mentali che affermano di poter migliorare le capacità di chi li esegue; purtroppo spesso dietro a questi programmi non ci sono studi scientifici o dimostrazioni documentate di un effetto reale, così i tanti che vi si avvicinano li abbandonano ben presto perché non ottengono davvero benefici — spiega Nicola De Pisapia, ricercatore del Dipartimento di psicologia e scienze cdell’Università di Trento e responsabile scientifico di Neocogita —. Per questo stiamo cercando di mettere a punto solo esercizi e metodi per i quali la letteratura scientifica si sia già espressa in modo positivo e per cui esistano prove di efficacia. La ricerca ovviamente prosegue e ciò che oggi può sembrare la tecnica migliore potrà non esserlo più in futuro: gli esercizi cambiano continuamente, ma lo sforzo è creare un allenamento per la mente che sia davvero valido e utile».
I programmi si articolano in tre metodi: il primo è il classico training con esercizi da fare di solito al computer, mirati a sviluppare la capacità cognitiva che interessa potenziare (concentrazione, percezione, memoria, capacità di gestire lo stress e così via); a questo si associa la mindfulness , una tecnica di meditazione. «Moltissime dottrine e tradizioni utilizzano la meditazione, a noi però non interessa il “contorno” bensì il metodo di base, che serve ad aumentare l’attenzione e la capacità di gestire le distrazioni, così da essere nella migliore condizione per raggiungere gli obiettivi che ci si prefigge — dice De Pisapia —. La terza tecnica è il biofeedback : attraverso sensori possiamo controllare le reazioni all’esercizio mentale, ad esempio misurando risposte fisiologiche come il battito cardiaco, la frequenza respiratoria, l’andamento delle onde cerebrali, la conduttanza della pelle. È infatti dimostrato che “vedere” in modo oggettivo come reagisce il nostro organismo a un’attività psicocognitiva ci aiuta a diventare più consapevoli di ciò che facciamo e a gestire meglio le nostre capacità mentali. Si sa, ad esempio, che soggetti sottoposti a una risonanza magnetica a cui venga consentito di “vedere” come si attiva il loro cervello a seguito di determinati stimoli, poi, pur non sapendo coscientemente come, possono attivare a comando quelle stesse aree, grazie al feedback che hanno avuto. Si tratta di un settore in cui c’è ancora molto da scoprire, con grosse potenzialità».

Corriere Salute 12.1.14
La resistenza all’insulina invecchia la mente


Nuove evidenze sul ruolo degli zuccheri nei deficit mnemonici Non è mai troppo tardi per iniziare ad allenare il cervello. Anche da adulti, perfino da anziani si può fare qualcosa per migliorare le performance cerebrali e allontanare lo spettro di deficit cognitivi che possono minare la vecchiaia. Certo, molto si costruisce quando si è più giovani, come spiega Sandro Sorbi, direttore della Clinica neurologica 1 al Policlinico universitario Careggi di Firenze: «Nelle persone anziane con un alto grado di scolarità, che hanno svolto un’attività lavorativa intellettualmente impegnativa e hanno avuto una vita sociale intensa, le prestazioni cognitive sono indubbiamente migliori. Tenere impegnato il cervello durante l’arco di tutta una vita serve a rafforzare la rete delle connessioni cerebrali creando una riserva cognitiva consistente che diventa assai utile con l’andare degli anni: quando qualche funzione viene meno per il deteriorarsi delle cellule nervose, può essere infatti rimpiazzata da altri neuroni del network».
Durante la vita adulta e poi quando si è anziani, è fondamentale un’alimentazione corretta: sono ormai innumerevoli le prove che mostrano come il nostro cervello sia parecchio influenzato da ciò che mettiamo nel piatto. Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Neuron di recente, ad esempio, ha spiegato che l’aminoacido asparagina contenuto nella carne, nelle uova e nei latticini è indispensabile per il corretto sviluppo del cervello; sono noti da tempo, inoltre, gli effetti positivi degli antiossidanti di frutta e verdura, che proteggono i neuroni dai radicali liberi, e degli acidi grassi polinsaturi dell’olio, della frutta secca e del pesce (il cui fosforo, invece, non aumenta affatto l’intelligenza, come si credeva in passato).
I grassi «buoni» rivestono le cellule nervose e hanno un’azione positiva anche quando vengono introdotti con il cibo; i grassi idrogenati dei cibi spazzatura invece sono molto dannosi per il cervello, così come lo zucchero, che secondo gli esperti è un vero e proprio “veleno” per i neuroni, tanto che alcuni hanno ribattezzato la demenza di Alzheimer come «diabete di tipo tre». «Il legame fra l’eccesso di carboidrati e i deficit cognitivi passa dall’alterazione della sensibilità all’insulina, che nel cervello agisce come un neuromodulatore — spiega Giuseppe Paolisso, presidente della Società italiana di gerontologia e geriatria —. In chi ha un alterato metabolismo degli zuccheri la sensibilità all’insulina a livello cerebrale diminuisce e ciò facilita la deposizione di placche di beta-amiloide, una sostanza di scarto del metabolismo cerebrale correlata all’Alzheimer. Non a caso l’uso di farmaci antidiabetici riduce lievi deficit cognitivi nei pazienti che li manifestano». Ewan McNay, un neuroscienziato dell’Università statunitense di Albany, ha dimostrato che un calo di insulina nel cervello, così come una ridotta sensibilità dei tessuti all’ormone, comporta una riduzione della memoria e questo ha un senso, evolutivamente: «Quando un nostro antenato trovava cibo, ad esempio bacche, il picco di glucosio e di insulina che ne derivava era una sorta di “bandierina” apposta per ricordarsi che quell’alimento era buono». A confermare il legame fra eccesso di zuccheri e deficit cognitivi, uno studio sul Journal of Clinical Investigation ha mostrato che il cervello di pazienti deceduti con Alzheimer non reagisce se viene «imbevuto» di insulina, mentre quello di persone sane si “rianima” manifestando addirittura segni di un’attività sinaptica. Morale, chi vuole avere un cervello in forma a lungo farà bene a evitare troppi dolci e pure i cibi ipercalorici.
«Gli alimenti ricchi di grassi insaturi, infatti, oltre a essere privi di sostanze protettive come vitamine e antiossidanti, favoriscono la comparsa della resistenza all’insulina — sottolinea Paolisso —. Per migliorare il funzionamento del cervello, quindi, sì alla dieta mediterranea ricca di fibre e con una quantità non eccessiva di zuccheri, facendo attenzione, però, a non introdurne troppo pochi, perché sono la “benzina” per i neuroni. Sì anche al movimento, che proprio durante la vecchiaia sembra più efficace nell’aumentare le performance cognitive: uno studio recente ha mostrato che nel cervello degli anziani attivi si trova una quantità di sostanza grigia e bianca paragonabile a quella di soggetti più giovani e molto maggiore rispetto ai coetanei sedentari. Possono essere una buona idea anche i cosiddetti “senior games”, videogiochi studiati appositamente per potenziare alcune capacità cerebrali, che hanno una discreta efficacia soprattutto sulle funzioni esecutive: il soggetto deve riconoscere un comando, ricordare che cosa significa e rispondere in modo adeguato, così si allenano comprensione, memoria ed esecuzione». Già, la memoria. Perderla è il timore di tutti, rafforzarla il desiderio di chiunque soprattutto con l’età che avanza. Come riuscirci? «Intanto, esercitandola: alla sera, ad esempio, è utile ripensare a tutto ciò che è successo durante la giornata richiamando i fatti nei dettagli per “stratificare” i ricordi e allenare la memoria — consiglia Giuseppe Iannoccari, presidente di Assomensana —. Lo stress, l’ansia, la depressione, la stanchezza sono “saponette” dei ricordi, li spazzano via e vanno perciò combattute. Senza confondere memoria con attenzione: quando entriamo in una stanza e dimentichiamo perché ci siamo arrivati non abbiamo preoccupanti deficit mnemonici, nel frattempo abbiamo pensato ad altro e ci è sfuggito lo scopo iniziale per cui ci siamo mossi. La memoria peraltro non si è evoluta per trattenere tutte le informazioni, ma per rammentare che cosa è pericoloso: voler ricordare tutto è frustrante, perché è davvero impossibile riuscirci. Chi ricorda tutto è un caso patologico studiato dai medici, saper dimenticare ciò che non ci serve è indispensabile perché troppe informazioni ci disorienterebbero».
Resta il fatto che i pochi con una memoria prodigiosa per nomi, numeri e altro sono guardati con invidia. Esistono tecniche alla portata di tutti per rafforzare le capacità mnemoniche? «Per ricordare efficacemente sono importanti quattro passaggi: innanzitutto, abituarsi a disporre ciò che non si vuole dimenticare in un ordine, organizzandolo in categorie o creando associazioni mentali; queste, se possibile, dovrebbero essere insolite o bizzarre perché il cervello viene “colpito” e fissa meglio elementi stravaganti — raccomanda Iannoccari —. Quindi, è essenziale che ci sia la motivazione a fissare il dato: prima di destinare le sue preziose risorse a ricordare qualcosa, il cervello deve sapere che ne vale la pena. Infine, bisogna richiamare spesso alla mente ciò che ci si propone di non dimenticare, riattivando le tracce del ricordo. In caso contrario il tessuto cerebrale che “contiene” l’informazione si sfilaccia: dopo un paio di settimane è normale non rammentare più il nome di una persona che ci è stata presentata, se non abbiamo avuto interesse od occasione per trattenerne il ricordo». L’interesse, peraltro, insieme alla novità è la «molla» principale per potenziare le capacità cognitive, da giovani e da anziani: «L’apprendimento di qualcosa di stimolante e diverso dal solito favorisce nuove connessioni neuronali — spiega Sorbi —. È un meccanismo presente finché siamo vivi, da coltivare sempre. In questo senso sarebbe preferibile dedicarsi ad attività che non siano ripetitive come le parole crociate: frequentare amici, visitare musei, creare occasioni per imparare qualcosa di nuovo e che piace sono metodi efficaci e soprattutto piacevoli per mantenere il proprio cervello in forma il più a lungo possibile».

Corriere Salute 12.1.14Craig Venter
L’uomo che vuol fare i vaccini in casa (con la stampante 3D)
di Adriana Bazzi


NEW ORLEANS — Vaccini che si possono fabbricare a casa, quando serve. Immaginiamo la prossima pandemia influenzale, una spagnola del XXI secolo (se mai accadrà, ma gli scienziati ne sono sicuri: arriverà, prima o poi) e pensiamo a quello che è successo nel 2009 con l’allarme influenza suina da virus H1N1: il panico generale e una corsa miliardaria ai vaccini che i governi prenotavano e l’industria prometteva, ma avrebbe avuto difficoltà a produrre, in tempo reale, nel caso di vera emergenza. Che, per fortuna, non c’è stata. Ecco, se si dovesse verificare in un futuro (non troppo vicino, però, perché stiamo parlando di ipotesi un po’ avveniristiche) una nuova, reale pandemia, la soluzione non starebbe nelle migliaia di uova di pollo indispensabili fino a oggi per produrre il vaccino anti-influenzale, ma in un software e in una stampante 3D (tre dimensioni).
Il software potrebbe essere facilmente scaricato da Internet (e fornirebbe tutti i dettagli genetici del virus) e la stampante 3D potrebbe riprodurre i suoi antigeni, cioè proteine o addirittura frammenti di geni, che, una volta somministrati, stimolano il sistema immunitario a difendersi dall’infezione (le stampanti 3D, infatti, possono fabbricare qualsiasi cosa, attingendo a un serbatoio di materiale biologico precostituito e magari inserire il vaccino neoprodotto in una siringa già pronta per l’uso).
L’idea è di uno dei personaggi più affascinanti (si dice anche dei più arroganti, ma, all’apparenza non sembra) e più discussi («vuole sostituirsi a Dio», sostengono alcuni suoi detrattori, perché vuole ricreare la vita; «è mosso solo da interessi commerciali e aspira al Nobel», rincarano altri) della biologia e della genetica contemporanea: J. Craig Venter. Americano, nato a Salt Lake City nel 1946, figlio minore di un mormone scomunicato che beveva e fumava troppo, studente capace, ma surfista migliore, soldato nel corpo medico della Marina Militare a Da Nang, durante la guerra del Vietnam.
E poi brillante, brillantissimo ricercatore, prima al Nih (i National Institutes of Health americani) e successivamente alla guida delle società private che via via ha fondato: l’ultima in California a La Jolla, San Diego, il J.Craig Venter Institute, organizzazione no-profit dedicata alla ricerca genetica.
È lui che sta progettando i software per creare la vita artificiale.
Incontriamo Venter a New Orleans, all’apertura del meeting annuale dell’Ascb (American Society of Cell Biology ) dove presenta il suo secondo libro (il primo è la sua autobiografia) «Life at the speed of light. Sottotitolo: From Double Helix to the Dawn of Digital Life».
«La vita, alla fine, è una macchina biologica guidata dal Dna — ci spiega Venter —. Tutte le cellule viventi funzionano grazie al software del Dna che comanda centinaia di migliaia di proteine-robot. Abbiamo imparato a leggere questo software grazie al sequenziamento del patrimonio genetico dell’uomo con il Progetto Genoma Umano. Adesso dobbiamo andare in un’altra direzione: dobbiamo digitalizzare questi codici e sfruttarli per disegnare nuove forme di vita artificiale. L’obiettivo è costruire un software con le informazioni genetiche di un essere vivente, di usarlo per sintetizzare chimicamente il suo Dna in modo da riprodurlo in un altro luogo. Siccome tutte queste informazioni sono digitali, possono essere rapidamente trasferite alla velocità della luce: così si può riprodurre una vita a distanza e in tempi brevi. L’umanità sta entrando in una nuova fase dell’evoluzione. È questa l’idea alla base della possibilità di creare vaccini grazie a al metodo chiamato reverse vaccinology (vaccinologia inversa ): analizzare il virus, trovare i suoi punti deboli e costruire il vaccino adatto (in questo settore Venter sta collaborando con Rino Rappuoli, un ricercatore italiano che lavora a Siena ed è a capo del Vaccines Research for Novartis Vaccines and Diagnostics). Ma non solo. L’obiettivo finale è appunto la vita sintetica. Venter ha già alle spalle alcuni successi nella programmazione della vita artificiale: nel 2008 ha annunciato di aver sintetizzato il cromosoma del Mycoplasma genitalium (un microrganismo, il più piccolo esistente in natura, che provoca infezioni genitali) e di averlo inserito in un Mycoplasma capricolum (un germe delle pecore), realizzando così la prima cellula sintetica. Nel 2012, poi, ha dimostrato che questo batterio artificiale poteva avere un suo ciclo vitale, cioè una sua vita autonoma.
Come è possibile allora riprodurre la vita? chiediamo. «Stiamo studiando un prototipo di convertitore digitale biologico (strumento assimilabile alla stampante 3D, ndr ) che potrebbe servire non solo a produrre vaccini in casa, ma anche a combattere una nuova sfida che è quella della resistenza agli antibiotici, grazie ai batteriofagi ».
Fin dal 2003, infatti, Venter si sta occupando di virus chiamati batteriofagi (ha identificato il codice genetico di uno di questi, il Phi-X174) capaci di entrare nei batteri, di inserirsi nel loro Dna e di distruggerli.
«L’idea è quella di trovare una strada alternativa agli antibiotici — continua Venter — che in molti casi si stanno rivelando armi spuntate. Così si può pensare di analizzare il Dna di un batterio insensibile ai farmaci, trovare il suo punto debole e costruire un batteriofago, cioè un virus, capace di annientarlo. In tempi rapidissimi e caso per caso». Anche in questo frangente le informazioni, utili per la costruzione del virus-killer del batterio, potrebbero essere veicolate da un software e tradotte, con un convertitore o una stampante 3D, in un “farmaco antibatterico pronto per l’uso”. Oggi i laboratori di Venter possono di progettare e sintetizzare 300 batteriofagi al giorno.
Accanto allo sviluppo del convertitore digitale biologico, Venter sta anche lavorando a una macchina chiamata “unità digitale per l’invio della vita” il cui obiettivo è il teletrasporto biologico. Compito dell’unità di invio è trovare, tramite un robot, forme di vita (rappresentate soprattutto da batteri), analizzare il loro patrimonio genetico e generare un file digitale del Dna che possa essere inviato a un convertitore, il quale, a sua volta, può riprodurre la vita originaria di questi microrganismi in un altro luogo. Alcuni esperimenti sono cominciati nel deserto del Mojave in California (con l’obiettivo di cercare microbi e di leggere il loro Dna) ma l’idea più affascinante è portare queste apparecchiature su Marte, intercettare forme viventi e il loro Dna, trascriverlo su software, trasmetterlo, alla velocità della luce, sulla Terra e ricreare, da noi, i «marziani». Senza eventuali contaminazioni.

Corriere La Lettura 12.1.14
Roma città persa
a metropoli che corrompe è ancora un luogo comune Renzi ci casca, il Papa urbanista no
di Sandro Veronesi


 Un antico detto di origine (almeno per me) ignota, recita: «Più vicino sei a Roma, più lontano sei dal cielo». Forse proprio per via del fatto che non riesco a ricordare da dove provenga, l’ho sempre considerato l’emblema del florilegio di detti, frasi, aforismi e citazioni che identificano Roma come il luogo di perdizione per antonomasia. Nessun’altra città occidentale è accompagnata da una simile reputazione, ed è interessante notare che essa ha attraversato tutte le epoche, da quella dello splendore imperiale fino a oggi, passando per i secoli del declino e dell’Inquisizione. La letteratura sull’argomento è sterminata, e la quantità di autori che hanno contribuito a costruirla è impressionante quanto il loro valore. L’elemento comune a tutti questi rilievi è l’assunto per cui Roma, per il suo essere da sempre epicentro del potere (di quello imperiale, di quello spirituale, di quello politico), permette ai suoi abitanti di godere di una licenza speciale che li rende non-punibili, e dunque impuniti, e dunque corrotti e dannati. Che a corrompere e a dannare sia proprio Roma, cioè la città, il luogo, lo spazio, è sottinteso, quando non esplicitamente asserito: «Vivere a Roma è un modo di perdere la vita», è uno dei tanti aforismi che Flaiano ha dedicato alla sua città adottiva — che pure, come ben sappiamo, egli amava. Da qui, com’è ovvio, deriva una vulgata tenace e aggressiva che, spogliata di ogni valenza letteraria, identifica dritto per dritto nella città di Roma la sorgente di tutto il marcio che zampilla dal clero, dalla politica, dal clientelismo, dalla burocrazia, dall’affarismo senza scrupoli, dall’elitismo intellettuale, dal baronato universitario, dal mondo dello spettacolo — praticamente da tutto ciò che produce scandali in Italia e in tutta la cristianità: tanto che nel mazzo delle citazioni antiromane ha trovato cittadinanza anche quel rozzo «Roma ladrona» inventato dai leghisti che pensano soltanto a riprendersi con la mano sinistra le tasse che sostengono di pagare con la destra.
Davanti a tutto questo la prima cosa che bisogna chiedersi è se sia veramente così. Roma è davvero questo postribolo, è davvero il luogo della perdizione e dell’indolenza, del menefreghismo e del parassitismo, dove se magna a ufo senza nulla produrre? Vivendoci e lavorandoci da quasi trent’anni mi verrebbe da dire di no, che si tratta solo di un morto luogo comune che continua a emanare la propria luce proprio per la siderale distanza che separa Roma da chi lo alimenta. Perché una cosa è sicura: in Italia ci sono milioni di persone che credono davvero che i romani non lavorino, ma si tratta principalmente di persone che a Roma non mettono piede. E com’è imbarazzante constatare la dabbenaggine con cui tanti di loro (persone sotto altri aspetti anche molto evolute, colte, educate e intelligenti) sono realmente convinti che a Roma non si possa andare a cena fuori senza ordire trame di potere o aggiustare impicci in sfregio alla legalità: la loro fede nel luogo comune è talmente incrollabile che non vale nemmeno la pena tentare di scalfirla, né si può cercare di spiegare loro quanto la faccenda sia in realtà assai più complessa, dato che questa spiegazione è impossibile da dare a chi non serbi nel proprio cuore almeno una minima curiosità sull’argomento. Molto meglio, in questi casi, dirottare la conversazione sullo scandalo attivo in quel preciso momento nella loro terra (la banca che porta il nome della loro città che ha polverizzato la loro ricchezza, il giro di tangenti che ha accompagnato la realizzazione del loro aeroporto o l’arciprete che ha violentato per sei anni i chierichetti), e rientrare così nel generico e fondamentalmente inconcludente campo giuridico della chiamata in correità: con l’accortezza però di non spingere troppo in là nemmeno questa argomentazione, poiché prima o poi l’interlocutore trova un punto di ribaltamento con cui riesce a ricondurre anche le proprie vergogne locali a una sorgiva responsabilità romana.
E tuttavia, detto della pochezza rivelata da questa cieca fede nell’assunto della Roma ladrona, bisogna anche dire che nulla di ciò che viene imputato a questa città è inventato o falso. È vero che nel cuore di Roma (ma anche nei suoi organi periferici) pulsa una potente batteria corruttiva, e che il pericolo maggiore in chi vi cresce o vi si trasferisce è quello di perdervi per così dire l’innocenza. Di nuovo, anche qui, si potrebbe subito prendere il bivio del «così è dovunque», perché la verità è che qualunque posto è buono per scoprirsi corrotti, ma è meglio affrontare frontalmente la questione. A Roma, è vero, il rischio di «smarrire la via» è alto e costante, in forza proprio di quella secolare tradizione di mollezza che l’accompagna, ma è anche vero che ad alimentare questo rischio e questa tradizione è l’ingorgo di funzioni che, essa sola, si ritrova a svolgere. Non esiste infatti nessun’altra città in tutto il mondo che sia contemporaneamente metropoli, capitale, città d’arte e città sacra: ognuna di queste identità vi concentra funzioni ingombranti e poteri immensi che metterebbero a dura prova città anche molto più strutturate — tenendo conto che, dalla fine dell’epoca imperiale all’unità d’Italia, cioè per circa millequattrocento anni, Roma è stata solo una cittadina aruvinata piena di orti e di chiese, con una popolazione assai contenuta e una struttura urbana oltremodo fragile e vetusta. È questa inaudita concentrazione di funzioni, dunque, che attira a Roma da tutto il mondo ciò che nel luogo comune si sostiene sia Roma a spargere nel mondo, e alla fine succede che quando un potente si tiene lontano da Roma, quella distanza viene automaticamente trasformata in stigma di onestà e di laboriosità.
Prendiamo l’ultimo dei potenti, in senso cronologico: Matteo Renzi. Il fatto che non resti mai a dormire a Roma, e che di recente abbia convocato la nuova segreteria del Partito democratico direttamente a Firenze, ha giovato molto alla sua immagine di uomo fuori dai giochi romani , anche se è evidente che queste sue scelte sono dovute a ragioni di natura logistica: poiché continua a essere sindaco di Firenze, deve evitare che l’incarico di segretario del partito lo allontani troppo dai suoi doveri locali; inoltre, da padre di famiglia quale sono, mi sento di aggiungere che in questo modo, pur se di sfuggita, egli può ancora frequentare la sua famiglia, baciare in fronte i figli addormentati, scambiare qualche battuta con la moglie in cucina — tutte cose che, queste sì, hanno una grande importanza per impedire a un uomo di smarrirsi nel proprio potere. Ma accade che tra gli italiani fermamente convinti dell’essenza peccaminosa che trasuda dalle pietre di Roma, il suo diventa un negarsi al molle abbraccio della città corrotta, e viene registrato come un titolo di merito: giustamente, a nessuno è saltato in mente di considerare Firenze la città di Denis Verdini o la Toscana la terra di Licio Gelli e della massoneria occulta. Così come, pur se palesemente dettata dalle medesime ragioni logistiche, anche la sua decisione di convocare la prima segreteria del suo mandato alle sette e mezzo del mattino è stata salutata come una picconata all’ozio e alle comodità da cui si crede — si sa — essere accompagnata la vita nella capitale, e a nessuno è capitato di considerare che alle sette e mezza del mattino milioni di romani sono già svegli da un pezzo e affollano autobus e metropolitana, oltre che intasare le strade consolari, per raggiungere il posto di lavoro come in qualsiasi altra grande città del mondo. La comune percezione, in questo caso, scavalca di slancio i dati di realtà, li rende invisibili ed esalta solo quell’idea di rinnovamento che Renzi proietta attorno a sé con grande energia: il suo rapporto con Roma non c’entra nulla, ma poiché, per ragioni del tutto comprensibili, esso si mantiene per ora entro i confini di un non-rapporto, questo fatto finisce per acquisire una valenza morale. Probabilmente alla sua prima apparizione su una terrazza del centro si sentirà dire che anche lui si è perduto.
Tuttavia, per riportare il discorso su quella complessità di cui è così difficile parlare quando si parla di Roma, ecco tendersi la mano del grande rivoluzionario di questi nostri tempi, e cioè papa Francesco: penalizzate dalla festività che non ha fatto uscire i giornali la mattina successiva, le sue parole del 31 dicembre obbligano a considerare Roma nella sua complessa, per l’appunto, e irrisolta identità metropolitana. Roma, ha detto il Papa, «è una città di una bellezza unica, ma ci sono tante persone segnate da miserie materiali e morali», «povere, infelici, sofferenti, che interpellano la coscienza di ogni cittadino»: a Roma, ha aggiunto, «sentiamo più forte il contrasto tra l’ambiente maestoso e il disagio sociale di chi fa più fatica». Parole semplicissime nella forma e nel contenuto che però spazzano via di colpo il luogo comune e identificano il cuore del problema.
Problema che poche settimane fa, su queste stesse pagine, ho cercato di affrontare mettendo a confronto due recenti e bellissimi film ambientati a Roma: La grande bellezza di Paolo Sorrentino e Sacro GRA di Gianfranco Rosi. A fronte di tutte le implicazioni storiche, sociologiche, estetiche e antropologiche che la loro visione comporta, mi sforzavo di radunare le idee su questa doppiezza di Roma nel campo, ahimè oggi poco guarnito, dell’urbanistica: da una parte la città eterna, da secoli ormai museo di se stessa, abbacinante, solenne e sterile, quinta immutabile della decadenza di cui Roma è l’emblema da duemila anni, e dall’altra la città invisibile, effetto collaterale di una mera infrastruttura, nata dal fallimento delle utopie che non sono mai riuscite a rendere il presente degno del passato. Pur nel suo aspetto miserabile, dicevo, pur nel degrado e nel disordine che essa si trova a produrre, è questa seconda Roma a riscattare la prima, dandole l’unica identità contemporanea che possieda, che aspetta solo di essere vista, tanto per cominciare, e poi accettata, capita, regolata, immaginata, governata, per poter finalmente parlare di Roma fuori dal luogo comune che la imprigiona. Arricchito nel frattempo dalla lettura del formidabile libro che ha ispirato il film di Rosi, Sacro Romano GRA , di Sapo Matteucci e Nicolò Bassetti, pubblicato da Quodlibet — breviario metropolitano, portolano dell’abbandono, atlante della incoercibile, quasi metafisica energia della periferia romana —, non posso che approfittare dell’assist di papa Francesco per ribadire lo stesso concetto, allo scopo di dare a Roma quel che è di Roma: innanzitutto vediamola , questa città, come quel tutt’uno che è veramente, senza banalizzarla in concetti separati come se quella separatezza fosse un dato di fatto, mentre è soltanto una scelta dettata dal pregiudizio, dalla pigrizia e dall’impotenza di chi non è mai riuscito a concepirla in un intero; dopodiché, quando avremo cominciato a considerarla nella sua identità unica al mondo, verrà naturale anche la semplice, quotidiana, rivoluzionaria azione di collegamento auspicata dal Pontefice — inteso qui non tanto come pastore, ma come urbanista. Quando quell’azione verrà avviata, e il rapporto tra l’invisibile e il fin troppo visto comincerà a equilibrarsi, prendere le distanze da Roma non sembrerà più un’azione morale, così come abbracciarla non sarà più un sintomo di perdizione — e soprattutto potremo finalmente cominciare a descriverla al netto di un luogo comune che a quel punto si mostrerà improvvisamente non più praticabile, perché non più vero.
A proposito del quale, mi corre l’obbligo di dire che nel tempo impiegato a scrivere queste righe mi si è prodigiosamente aperto uno spiraglio nella memoria, che riconduce il detto citato all’inizio, «più vicino sei a Roma, più lontano sei dal cielo», a padre Girolamo Maria Moretti (1879-1963), francescano appartenente all’ordine mendicante dei minori conventuali, fondatore della grafologia moderna (a lui è intestato l’Istituto Grafologico di Urbino), genio della psicologia diagnostica nonché mio prozio — ragion per cui ho letto in prima edizione molti suoi libri, e soprattutto ho conosciuto quel motto fin da piccolo come uno dei suoi preferiti. Lo zio Umberto, come lo chiamava mio padre: uomo straordinario, tanto nei racconti di famiglia quanto nei riscontri storici e bibliografici, autorità indiscussa in campo grafologico e sacerdote di vigoroso nerbo morale — intelligentissimo, colto, esperto di uomini e di donne, e tuttavia anch’egli prigioniero di quel ribrezzo per Roma che, in mancanza di un’alternativa condivisibile, ottunde tante belle menti anche oggi, insieme a quelle meno belle.
Diamogliela, maledizione, quest’alternativa.

Corriere La Lettura 12.1.14
Già postmoderna senza modernità
di Vittorio Vidotto


«Roma è la sola città d’Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali; tutta la storia di Roma dal tempo dei Cesari al giorno d’oggi è la storia di una città la cui importanza si estende infinitamente al di là del suo territorio; di una città, cioè, destinata ad essere la capitale di un grande Stato»: con queste parole Cavour dava voce alle aspirazioni di tutto il movimento nazionale proclamando Roma capitale d’Italia nel 1861. A distanza di oltre un secolo, il maggiore scrittore romano del Novecento, Alberto Moravia, (nella foto) riecheggiava, sull’«Espresso» del 28 maggio 1971, uno dei temi ricorrenti degli antiromani: «Come si fa a voler bene a Roma, città socialmente spregevole, culturalmente nulla, storicamente sopravvissuta a furia di retorica e di turismo?». Sono appena due esempi dei molti registri coi quali si manifesta il complesso rapporto degli italiani con Roma: anche perché Roma ha un carattere multiforme. Capitale di uno Stato nazionale, dominatrice dell’antichità, capitale del cattolicesimo. E gli italiani, nella loro permanente divisività, si riconoscono e privilegiano un aspetto a discapito degli altri. Il mito della Terza Roma e della sua missione tra i popoli, propugnato da Mazzini in chiave romantica e democratica, si trasformò in un nazionalismo retoricamente tronfio dopo la vittoria nella Grande guerra per poi dilatarsi ancora nel fascismo e finire travolto dalle sue sconfitte. Sul terreno politico e del confronto dei poteri, a Roma rimase centrale per ottant’anni il conflitto con la Chiesa cattolica, nei momenti cruciali della Repubblica romana del 1849, della presa di Porta Pia, del violento scontro che oppose nel 1910 il sindaco massone Nathan, sostenitore della superiorità della Roma laica sull’oscurantismo, a Papa Pio X. Un periodo che si chiuse nel 1929 con la conciliazione voluta da Mussolini. Oggi, con i Pontefici che dominano la scena pubblica, non è difficile constatare che piazza San Pietro ha prevalso sul Campidoglio, sul Vittoriano e sui palazzi di una politica interprete timida dei valori laici dello Stato. Spesso il rimpianto di una Roma perduta, ancora semirurale con le pecore al pascolo nelle periferie, si accompagna alla percezione di un’inadeguatezza che ognuno registra appena varca le Alpi. Città già da tempo postmoderna, senza aver attraversato tutte le tappe virtuose della modernità, misurarsi con Roma non è semplice, come dimostrano gli affanni confusi del nuovo sindaco Ignazio Marino.

Corriere La Lettura 12.1.14
Nell’universo c’è qualcosa di buffo
I cacciatori dell’antimateria analizzano i dati provenienti dalla stazione spaziale
di Maria Antonietta Calabrò


Non è il capitano Kirk, comandante della nave stellare Enterprise. Ma il suo compito è proprio quello di esplorare nuovi mondi. Non viaggia nello spazio interstellare a velocità di curvatura, ma seduto alla scrivania del suo ufficio dell’Istituto di fisica nucleare di Pisa controlla il flusso ininterrotto di dati dell’AMS-02, che è alla caccia delle particelle primordiali di antimateria e della materia oscura. AMS sta per Alpha Magnetic Spectrometer, un apparato di quasi sette tonnellate di peso, lanciato nello spazio dallo Space Shuttle Endeavour il 6 maggio 2011, e agganciato da allora a un braccio della Stazione spaziale internazionale (Iss). Si tratta di un rivelatore costato un miliardo e mezzo di dollari e costruito da un team internazionale composto da 56 istituti di ricerca di 16 nazioni, un progetto sponsorizzato dal Dipartimento per l’energia del governo americano (Doe).
Da quasi tre anni AMS continua a inviare a terra dati. Franco Cervelli, 64 anni, professore di Macchine acceleratrici all’università dove studiò Galileo, è il costruttore-ideatore della parte finale di un apparato (un rivelatore di circa 600 chili) che deve misurare le particelle quando esse si trasformano in pura energia e scompaiono. Con uno sforzo mondiale, il mondo scientifico sta cercando di capire ciò che nell’universo ci risulta strano. La nostra cosmologia scientifica, basata sul cosiddetto Modello Standard, infatti, non riesce più a spiegare tutto. I dati che arrivano dall’AMS potrebbero presto offrire delle sorprese.
Professor Cervelli, c’è molta attesa per i vostri esperimenti.
«Diciamo così, il mondo scientifico sta aspettando, i fisici teorici stanno aspettando i nostri risultati. La cosa straordinaria è che l’AMS sta lavorando continuativamente, portata a spasso dall’Iss, come fa il paguro bernardo con l’attinia, sul fondo del mare».
Che cosa state cercando esattamente?
«La spiegazione di tre fenomeni fisici che non tornano».
Quali sono?
«Innanzitutto siamo alla caccia di eventuali particelle di antimateria “sopravvissute” dopo il primo milionesimo di secondo successivo al Big Bang».
Cioè?
«L’universo ha avuto inizio 14 miliardi di anni fa, con il Big Bang, e noi sappiamo che al “Tempo zero” esistevano sia le particelle di materia che le loro gemelle speculari di antimateria, cioè il protone e l’antiprotone, l’elettrone e l’antielettrone, con polarità elettrica opposta. Lo dimostrano le equazioni di Dirac. L’antiprotone fu scoperto da Emilio Segrè. Tuttavia non sappiamo spiegarci perché dopo il primo milionesimo di secondo, l’antimateria è praticamente sparita».
Sparita?
«Sì, questo è uno dei più grandi misteri del nostro universo. Non solo. Non sappiamo perché la materia è stata “più che favorita” a svantaggio dell’antimateria. Per carità, è stata una fortuna, perché altrimenti noi non esisteremmo, ma in base al Modello Standard ci dovremmo attendere una quantità di materia grande quanto la nostra galassia, la via Lattea, invece le galassie sono molte, molte di più. Poi c’è anche un altro problema: la lentezza della rotazione delle galassie a spirale... Queste galassie in base alla legge di gravitazione di Newton dovrebbero ruotare a una certa velocità, invece sono molto, molto più veloci, come se la galassia avesse più massa rispetto a quello che ci dovremmo attendere...».
E questa massa in più che cos’è?
«Abbiamo dovuto ipotizzare l’esistenza della dark matter , la materia oscura, che potrebbe anche essere connessa alla sparizione dell’antimateria. Non è né materia né antimateria, non assorbe la radiazione, cioè la luce. Poi c’è anche da capire perché l’espansione dell’universo, seguita al Big Bang, non rallenta, ma anzi accelera. È come se l’universo fosse “attratto” ai suoi limiti da un’enorme massa gravitazionale».
I vostri dati perché sono importanti?
«Fino a oggi nonostante dettagliate mappe dell’universo vicino, che coprono lo spettro elettromagnetico dalle onde radio ai raggi gamma, si è riusciti a individuare solo il 10% della sua massa, come ha dichiarato nel 2001 al “New York Times” Bruce H. Margon, astronomo all’Università di Washington: “È una situazione alquanto imbarazzante dover ammettere che non riusciamo a trovare il 90% della materia dell’universo”. Ma noi pensiamo che molto più delle misurazioni a terra saranno le misurazioni effettuate nello spazio dal’AMS-02 ad aumentare la conoscenza dell’universo e portare alla comprensione della sua evoluzione tramite ricerche che riguardano l’antimateria, la materia oscura e misurazioni effettuate sui raggi cosmici».
L’anno scorso, la Nasa ha annunciato che qualcosa si comincia a vedere...
«Dal momento della istallazione sull’Iss nel maggio 2011, per 18 mesi fino a dicembre 2012 AMS ha analizzato 25 miliardi di raggi cosmici scoprendo la presenza di una gran quantità di positroni. Le possibili spiegazioni sono due: pulsar che nelle loro veloci rotazioni emettono coppie elettroni-positroni, oppure “neutralini” che nelle loro collisioni dovrebbero emettere positroni ad alte energie. Ci vorranno più dati alle alte energie per decidere la loro origine effettiva. Ecco, i neutralini, oggetti molto complessi e finora solo ipotizzati, sono i maggiori candidati alla materia oscura...».
Immagino che ci sia la rincorsa a conoscere i vostri dati, prima possibile...
«Sì, certo: devo dire che negli ultimi tempi il telefono è diventato bollente. C’è qualcosa di “buffo” nei dati, ma per dire “ho visto” ancora ce ne vuole. I fisici teorici, però, non ci danno tregua, sono in fermento... Il premio Nobel Samuel Ting, che coordina la nostra ricerca, ha dichiarato pubblicamente che nei prossimi mesi l’AMS sarà in grado di dirci in modo conclusivo se i positroni che abbiamo trovato “sono un segno della materia oscura oppure se hanno un’altra origine”. Personalmente non aggiungo altro».
Dal punto di vista teorico, i vostri dati potrebbero portare addirittura a un cambiamento del Modello Standard, potrebbero insomma portare a una rivoluzione scientifica?
«L’esistenza della materia oscura è stata ipotizzata per spiegare fenomeni osservati sperimentalmente ma che il Modello Standard non aveva previsto. Quindi il Modello Standard va sicuramente corretto, e ancora non sappiamo come. Quello che mi preme sottolineare è un parallelo con una scoperta recente di grandissima portata, come il Bosone di Higgs. Ci sono voluti cinquant’anni, ma alla fine il Bosone, cioè una particella prevista dalla teoria, è stata trovata. Nel nostro caso, cioè nel caso della materia oscura, non è esattamente la stessa cosa: nell’universo c’è qualcosa di strano che noi non abbiamo capito».
Quanto tempo potrà lavorare ancora l’AMS-02?
«Diciamo dieci anni, e questo fatto da solo è un successo straordinario, perché ci dà moltissime possibilità di individuare fenomeni rari. I rivelatori di particelle dell’AMS-02 saranno in grado di lavorare così a lungo, perché dopo una sofferta discussione abbiamo scelto di non usare un magnete superconduttore, ma solo una diversa configurazione di parte della strumentazione per il tracciamento delle particelle. Il progetto AMS-02 ha visto coinvolti 56 Paesi, ma centrale è stata la sponsorship del Dipartimento dell’energia del governo americano. E in generale è stato fondamentale l’impegno degli Stati Uniti. Per molti anni è rimasto incerto se AMS-02 sarebbe mai stato lanciato nello spazio, perché non era stata resa nota la possibilità di volare su uno delle rimanenti missioni dello Space Shuttle. Dopo il disastro del Columbia del 2003 la Nasa decise di ridurre i voli e ritirare i rimanenti shuttle entro il 2010. C’è voluta una legge del Congresso, firmata dal presidente George W. Bush il 15 ottobre 2008 per autorizzare la Nasa ad aggiungere un volo per l’AMS-02 alla lista prima che il programma dello Space Shuttle cessasse. Solo il volo dello shuttle per portare sull’Iss l’AMS-02 è costato tra i 20 e i 25 milioni di dollari. Di recente l’amministrazione Obama ha anche deciso di prorogare il programma della Stazione spaziale internazionale oltre il 2015».

Corriere 12.1.14
Il primo Stato keynesiano fu l’Atene di Pericle e Fidia
di Luciano Canfora


S’intitola Fidia. L’uomo che scolpì gli dei (Laterza, pagine 296, € 19) il libro che Massimiliano Papini ha dedicato al grande scultore e architetto greco. Nato e vissuto ad Atene nel V secolo a.C., quando la vita della città era dominata dalla figura carismatica di Pericle, Fidia fu tra l’altro sovrintendente ai lavori per il grandioso tempio dedicato alla dea Atena, il Partenone, e ne seguì la decorazione scultorea fino al 438 a.C. Secondo diverse fonti, fu vittima delle lotte politiche e in particolare delle trame di ambienti ostili a Pericle

Un’epoca turbolenta Alle vicende della più importante città della Grecia nel V secolo a.C. Luciano Canfora ha dedicato diversi saggi, tra cui La guerra civile ateniese (Rizzoli, pagine 395, € 19) e Il mondo di Atene (Laterza, 2012). Altri due libri recenti su quel periodo sono Come si abbatte una democrazia di Cinzia Bearzot (Laterza, pagine 222, € 18) e Demokratía di Domenico Musti (Laterza, pagine 440, € 20). Da segnalare anche: Peter Funke, Atene nell’epoca classica (Il Mulino, 2001); Gabriella Poma, Le istituzioni politiche della Grecia in età classica (Il Mulino, 2003)

Che lo «Stato sociale» sia un peso lo pensano soprattutto coloro che non hanno problemi economici. Essi predicano, con calore e convinzione, la virtù. Va da sé che lo Stato sociale è costoso. E infatti coloro che se la passano bene temono sempre che, in un modo o nell’altro, il peso di esso ricada sulle loro spalle. Di qui la loro costante esortazione all’altrui virtù e l’ostilità che essi sempre manifestano verso i politici che dallo Stato sociale traggono forza e consenso.
L’archetipo occidentale dello Stato sociale fu l’Atene di Pericle, fatte salve beninteso le differenti misure e proporzioni. Roosevelt, figura-simbolo dello Stato sociale nella prima metà del Novecento, non ne ebbe forse sentore, ma subì, per molti aspetti, contraccolpi e ottenne successi analoghi rispetto a quelli che toccarono all’aristocratico ateniese alla metà del V secolo a.C. L’ostilità di cui Pericle fu bersaglio ci è nota soprattutto grazie alla Vita di lui scritta da Plutarco sulla base di buone fonti che colmano egregiamente la distanza tra Pericle e l’età di Nerva e Traiano (in cui Plutarco visse e scrisse le Vite parallele ). La massa di informazioni allarmanti su Pericle che Plutarco riesce a mettere insieme — le insinuazioni sulla sua vita privata, i processi contro i suoi migliori collaboratori e in primis contro Fidia, vero cervello della sua politica urbanistica e di lavori pubblici, gli attacchi velenosi dei comici etc. — non deve portarci fuori strada. Sul piano della comprensione storica, il fatto principale è che Pericle è riuscito a farsi rieleggere stratego per decenni e decenni consecutivamente. Ciò significa che affrontava ogni anno la campagna elettorale e ogni anno la vinceva. Il che non era certo fatica da poco con un elettorato così politicizzato e volubile. Non si riflette a sufficienza sulle implicazioni concrete di questo fatto macroscopico. Dunque il consenso (fino all’incauta decisione di entrare in guerra nel 431 a.C.) non gli è mai mancato. (Anche lui, come Roosevelt, ha dovuto faticare per convincere i concittadini della necessità di entrare in quella guerra, ma è morto troppo presto per poter vedere gli effetti di tale scelta).
Come si consolidava un tale ininterrotto consenso? La grande politica di lavori pubblici gli consentiva di assicurare lavoro e salario a molti. Né mancava, nel meccanismo della «democrazia» ateniese il modo di far gravare, al tempo stesso, il peso di tante spese per la città (feste, teatro, arsenali, navi: le cosiddette «liturgie») sui ricchi. Scrisse nei primi anni di Weimar un notevole storico berlinese, allora comunista, Arthur Rosenberg, che i ricchi erano, all’interno del «sistema Atene», la «mucca da spremere». Non espropriare, dunque, ma costringere la ricchezza (la quale di solito, diceva Benjamin Constant, «si nasconde e fugge» e perciò è «più forte del governo») a farsi piegare per usi sociali.
Al centro della politica sociale-urbanistica di Pericle c’è un uomo la cui biografia largamente ci sfugge: Fidia. Massimiliano Papini, per Laterza, ne ha tentato un ritratto: Fidia. L’uomo che scolpì gli dei .
Diamo la parola a Plutarco (Vita di Pericle ): «Tali opere — edifici ecc. — comportavano lavori di ogni genere e suscitavano le più svariate necessità: stimolando tutte le arti, mobilitando ogni mano, davano occupazione retribuita a tutta la città, la quale si trovava perciò nella condizione di mantenersi e al tempo stesso abbellirsi. (…) Pericle propose al popolo grandi progetti di costruzioni e disegni di opere la cui esecuzione richiedeva tecniche e tempi lunghi. Ogni arte radunava sotto di sé, come un generale il proprio esercito, una massa di manovali e lavoratori non specializzati che servivano quali membra e strumenti. Così le diverse necessità di lavoro distribuivano e diffondevano il benessere in tutta la popolazione. Gli edifici sorgevano dovunque, magnifici nella loro grandiosità, e inimitabili per bellezza perché gli artigiani facevano a gara per superarsi l’un l’altro. Si era creduto che ciascun edificio sarebbe giunto a compimento solo con l’opera di parecchie generazioni e invece furono tutti terminati al culmine di un solo governo. (…) Da questi monumenti emana come una perenne giovinezza che li preserva dal logorio del tempo. Direttore e sovrintendente dei lavori per incarico di Pericle fu Fidia, anche se ciascuna costruzione ebbe propri e grandi architetti. Callicrate ed Ictino ad esempio lavorarono al Partenone». E segue un’ampia esemplificazione di monumenti e rispettivi direttori dei lavori.
Pericle, amico del filosofo Anassagora e della audace Aspasia, etèra di Mileto, non era certo un bigotto. Ciò non gli impedì di riuscire a trasformare in miracolo un infortunio sul lavoro. Un operaio che lavorava ai Propilei sull’Acropoli cadde dall’impalcatura e fu quasi in fin di vita. Ma Pericle fece sapere che la dea Atena, protettrice della città, gli era apparsa in sogno e gli aveva dettato la cura. In breve l’infortunato si riprese. Pericle fece subito innalzare una statua in bronzo ad «Atena Igea», patrona della salute. Padre Pio non ha inventato nulla.
La buccia di banana in cui si cercò di far scivolare Pericle fu proprio il legame con Fidia. Contro di lui furono fatte circolare le più diverse accuse: per esempio che accogliesse in casa «donne di buona famiglia, per conto di Pericle». La stessa accusa fu rivolta anche ad Aspasia, dal comico Ermippo: anche Aspasia, secondo tale accusa, riceveva «donne di condizione libera per il piacere di Pericle» (Plutarco, capitolo 32). Ovviamente il doppione insospettisce. Plutarco protesta contro queste maldicenze, ma ugualmente dà largo spazio a tutto ciò. Un certo Diopite, di mestiere indovino, cercò di imbastire un processo per empietà contro Anassagora. Il quale si allontanò da Atene. Un tale Dracontide, che ad un certo punto fu eletto stratego, pretese la pubblicità dei registri contabili relativi alle ingenti spese pubbliche.
Ma il colpo più duro, che questa volta andò a segno, fu l’accusa di furto mossa contro Fidia da un sottoposto del suo stesso atelier. Secondo costui, che si chiamava Menone, Fidia avrebbe rubato porzioni dell’oro utilizzato per ricoprire la grande statua di Atena. Il mostruoso processo si concluse con la condanna, e forse morte in carcere, di Fidia. Si era alla vigilia della guerra con Sparta, e qualcuno si spinse a dire che Pericle provocava la guerra per offuscare l’effetto negativo del processo. La tradizione su questa vicenda è molto pasticciata: tra l’altro, potrebbe trattarsi di avorio e non di oro (Pericle fece staccare l’oro dalla statua, lo fece pesare e dimostrò che non mancava nulla), e il processo potrebbe risalire al 438, non al 432. Sulla vicenda Papini orienta molto bene, con un’analisi stratigrafica delle fonti.
Questo libro ha molti meriti. Oltre ad essere il primo tentativo moderno di costruire una biografia scientifica di Fidia, è anche un bilancio, ovviamente problematico, sulla effettiva entità dell’opera artistica di lui. Papini si rende ben conto della centralità politica di Fidia nel sistema pericleo. E sa anche spiegare al lettore, non di rado frastornato dalla critica d’arte a carattere estatico-esclamativo, il senso esatto di quel grande artigianato che fu l’impegno «artistico» nell’arcaica e fervida Atene del V secolo.

Corriere La Lettura 12.1.14
La narrativa iraniana si svela
Oltre il chador, oltre la diaspora, oltre (talvolta) la censura La letteratura è viva, grazie soprattutto alle donne
di Cristina Taglietti


Donne velate e ribellione. L’Iran della letteratura non è soltanto questo. Il Paese torna ad affascinare l’Occidente, complici anche gli accenni di disgelo politico e diplomatico, con un’onda di interesse che è partita soprattutto dal cinema, grazie a registi come Abbas Kiarostami, Jafar Panahi, Majid Majidi e ora Asghar Farhadi, il cui film più recente, Il passato , ha avuto successo anche nelle sale italiane. Qui il Paese d’origine del regista rimane lontano, quasi sullo sfondo (la storia è ambientata a Parigi), ma con Una separazione , Orso d’oro a Berlino nel 2011, Farhadi aveva offerto, attraverso la storia privata di un divorzio, una lettura profonda della società iraniana.
Il primo febbraio inizia il Fajr International Film Festival, forse l’evento culturale più importante del Paese, che farà il punto su che cosa si muove dietro la macchina da presa. Tuttavia la letteratura, che a maggio ha a Teheran la sua Fiera del libro, ha ancora un po’ di strada da percorrere per uscire e affermarsi fuori dai confini. La più famosa tra gli scrittori in esilio resta senza dubbio Azar Nafisi, che in Leggere Lolita a Teheran ha raccontato la sua esperienza di docente che cerca, negli spiragli lasciati aperti dalla catechesi islamica dell’Iran postrivoluzionario, di parlare ai suoi allievi di «romanzi sconsigliati», come Il grande Gatsby , Lolita , Huckleberry Finn : in un Paese in cui il valore delle opere letterarie è strettamente connesso alla loro utilità come puntello alla teocrazia sciita. Nafisi, espulsa dall’università per essersi rifiutata di indossare il velo, ha lasciato Teheran nel 1997 per trasferirsi definitivamente negli Stati Uniti con la famiglia, così come vive a Parigi da quando aveva 25 anni Marjiane Satrapi, 44 anni, autrice di Persepolis , un’autobiografia a fumetti diventata anche film d’animazione.
Parlare di scrittori iraniani significa parlare soprattutto di scrittori della diaspora, intellettuali dalla cultura molto aperta, cosmopoliti, che scrivono spesso nella lingua del Paese in cui si sono trasferiti (come, in Italia, fanno Bijan Zarmandili e Hamid Ziarati), e guardano alle loro radici con un misto di appartenenza e denuncia. Non solo: parlare di scrittori iraniani significa parlare di scrittrici. Che sopravanzano, qualitativamente se non quantitativamente, i loro colleghi uomini. «La letteratura contemporanea è nota soprattutto attraverso i bestseller di scrittrici che raccontano un modello sostanzialmente identico di sottomissione e ribellione», dice Farian Sabahi, padre iraniano, madre italiana, giornalista e scrittrice, autrice di una Storia dell’Iran per Bruno Mondadori ma anche di un testo per il teatro intitolato Noi donne di Teheran . «Si tratta di libri — spiega — che tuttavia spesso danno un’immagine stereotipata del Paese, simili anche nelle copertine. E che gli editori, soprattutto americani, propongono per incontrare i gusti del lettore occidentale ma che sono poco rappresentativi della realtà. Eppure esistono opere importanti, ancora da tradurre in italiano, come Savushun , letteralmente “lamento funebre”, romanzo ambientato negli anni Quaranta, scritto da Simin Daneshvan, una grande scrittrice scomparsa l’anno scorso».
Il coro femminile della diaspora si compone di voci disuguali, anche dal punto di vista letterario. Le atmosfere da grande saga si mescolano alle rievocazioni storiche e alla denuncia di una condizione di sottomissione, allo straniamento di chi vive da profugo. La mappa include nomi come Shahrnush Parsipur, nata a Teheran nel 1946, alle spalle una lunga storia di detenzione cominciata ai tempi dello scià, ora in esilio a New York (tutti i suoi romanzi sono banditi dall’Iran, alcuni sono stati tradotti in italiano da Tranchida); o Siba Shakib, laureata ad Heidelberg, in Germania, scrittrice e documentarista molto impegnata sul fronte delle difesa dei diritti delle donne (in Italia è pubblicata da Piemme); o ancora Kamin Mohammadi, giornalista, scrittrice di narrativa di viaggio (è co-autrice della guida Lonely Planet dell’Iran) che ha lasciato Teheran nel 1979, a dieci anni, e ora vive tra Londra e Firenze. Scrive in francese Nahal Tajadod, tradotta nel 2008 da Einaudi (Passaporto all’iraniana ) e ora da e/o, che ha da poco pubblicato L’attrice di Teheran , dialogo tra due donne, una nata nel 1983, nel pieno della guerra con l’Iraq, l’altra cresciuta nell’Iran dello scià.
La studiosa Anna Vanzan, a cui si deve la traduzione di libri come Il colonnello di Mahmoud Doulatabadi (Cargo) e Tre donne di Goli Taraghi (edizioni Il Lavoro) ha dedicato alle scrittrici iraniane dal XIX secolo a oggi Figlie di Shahrazàd (Bruno Mondadori), un saggio dove — in opposizione al modello Nafisi che offre ai lettori «il ritratto di un Paese politicamente martoriato, privo di una tradizione culturale e di una scena letteraria e artistica» — fa notare che proprio «l’abbondanza di autrici che di continuo appaiono consente la coesistenza di molteplici voci, capaci di offrire altrettante immagini, non solo delle donne, ma in generale del Paese dell’altipiano».
Le scrittrici in Iran costituiscono la parte maggiore del mercato, sono circa 400 quelle con almeno una pubblicazione all’attivo, con numeri che per noi sono molti alti. La tiratura in genere è di 5 mila copie, ma non sono pochi i libri che arrivano a 100 mila. «Le donne in Iran hanno sempre scritto ma — spiega Vanzan — la grande novità degli ultimi trent’anni è che adesso vengono anche pubblicate. È un mestiere consentito, un’attività domestica che non impone una presenza sociale ingombrante. La necessità di scrivere si incontra con la necessità di leggere del pubblico femminile, si crea un legame. Diciamo che ci sono due generazioni di scrittrici nella letteratura iraniana contemporanea, quella delle trentenni e quella delle cinquanta-sessantenni». Accanto a un nome come Parinoush Saniee, il cui romanzo Quello che mi spetta è stato tradotto in tutto il mondo (in Italia da Garzanti), esiste un mondo letterario sommerso che avrebbe molto da dire anche all’estero. «Come Farkhondeh Aqai — continua Vanzan — una cinquantenne che lavora in banca, che ha saputo praticare generi molti diversi, compreso il giallo, e ha scritto un romanzo sul cambio di sesso che è sfuggito alla censura».
In Iran non si può parlare della produzione letteraria senza parlare della censura, elemento che influenza in modo significativo lo stile e la lingua del racconto. Benché negli ultimi anni le maglie si siano fatte più strette, allungando i tempi per ricevere il permesso alla pubblicazione, gli scrittori riescono spesso a dire senza dire. «Non è facile capire bene come funziona la censura», spiega l’iranista Bianca Maria Filippini che, con Felicetta Ferraro (già addetto culturale dell’ambasciata italiana in Iran) e l’antropologa Irene Chellini, ha fondato nel 2009 la casa editrice Ponte 33. «A volte i libri escono e poi vengono ritirati. La censura si applica soprattutto al sesso e naturalmente alla politica, però gli autori hanno imparato a gestire il loro modo di scrivere, usando con grande naturalezza l’ambiguità letteraria, facendone un punto di forza. È una tradizione che riguarda anche la poesia che, fino ai primi del Novecento, è stata la forma privilegiata di scrittura».
«Gli ultimi cinque anni per gli scrittori sono stati molto difficili — aggiunge Vanzan — e molti si sono autocensurati, questo spiega anche perché la produzione letteraria è stata meno intensa». Per questo c’è anche chi, pur vivendo a Teheran, pubblica all’estero, come Fereshteh Sari. Anna Vanzan ha tradotto il suo Sole a Teheran , per una piccola casa editrice di Firenze, Ed.it, che lo pubblicherà a breve. Ponte 33 pesca esclusivamente nel bacino degli autori che scrivono in persiano: la casa editrice ha iniziato con Come un uccello in volo , il romanzo di una scrittrice, Fariba Vafi, che non appartiene all’élite culturale, lontana dagli ambienti letterari della capitale. Guardia carceraria, casalinga, madre, è sempre riuscita a ritagliarsi uno spazio per la scrittura. Il suo romanzo in prima persona racconta, in forma minimalista, proprio la storia di una giovane casalinga che sogna una vita diversa ma non ha il coraggio di lasciare il Paese e la famiglia. A novembre Ponte 33 ha pubblicato Particelle , in cui la scrittrice Soheila Beski si cala nei panni di un maschio iraniano di oggi che si barcamena tra le ossessioni di una cultura millenaria e le possibilità offerte dal mondo virtuale.
Oggi la narrativa iraniana si esprime al meglio soprattutto nella forma breve, nel racconto, capace di rendere in modo più dirompente l’immediatezza degli eventi. I temi sono influenzati proprio dalla prevalenza femminile. «C’è molto intimismo, diari, bilanci esistenziali — dice ancora Filippini — in cui si riflette e ci si mette in discussione. C’è un’attenzione per gli aspetti e le relazioni familiari che partono dal privato per aprirsi, spesso, a rappresentare dinamiche sociali più ampie, ad affrontare temi come la menzogna, l’ambiguità, il non detto». È una letteratura di inizi, non di fini, in cui ci sono più domande che risposte, come emerge anche da un romanzo come Osso di maiale e mani di lebbroso dell’ingegnere Mostafà Mastur, uno degli autori contemporanei più significativi, anche se alcuni critici gli rimproverano di evitare qualunque riferimento alla situazione politica, alla repressione dell’autorità. Mastur esplora la quotidianità di un condominio di Teheran, dove le contraddizioni irrisolte di una società in frantumi, scaraventata nel caos nonostante i continui riferimenti religiosi, trasfigurano in una dimensione universale, in una riflessione su vita e destino che oltrepassa i confini tra Oriente e Occidente. In generale, sottolinea Filippini, «c’è molta introspezione e poco confronto con l’altro inteso come l’Occidente, nonostante la società ne sia ossessionata e ne osservi i modelli soprattutto attraverso le numerose tv satellitari iraniane che hanno sede in America». Il fascino del Paese sta, in larga parte, proprio nelle sue contraddizioni. E non può che essere la letteratura il luogo privilegiato per coglierle.

Corriere 12.1.14
Come Klee , oltre Klee: Dorfles pittore zen


Un percorso filosofico nel cuore del Novecento E l’«Immaginario» contro l’«incubo della ragione»
di Arturo Carlo Quintavalle


Al primo piano della Fondazione Marconi un gruppo di grandi opere dipinte a metà degli anni Novanta da Gillo Dorfles si impone subito per la forza dell’impianto, per la novità della scrittura, ma anche per la misteriosa, concentrata figurazione. I titoli, intriganti, sono fuori di ogni tradizione: L’orecchio di Dio , Crisalide gialla , Simbiosi di esseri , Metamorfosi di piante , Custodire l’intervallo ; a questi si aggiunge un dipinto senza titolo: Verde.
Simbiosi di esseri e Verde sembrano voler insistere su un medesimo tema, la vitalità della crescita, ritagli ameboidi che racchiudono forme spermatiche, figure nella tradizione di Paul Klee piuttosto che di Mirò ma con dentro altro che, a prima vista, non si comprende. In Crisalide gialla la matrice sono ancora le ricerche kleeiane fra primo e secondo decennio, ed ecco le forme della crescita, dell’eterna rinascita, la forza dei neri e dei gialli che ritroviamo in L’orecchio di Dio , quasi una dilatata maschera del teatro kabuki dove il numero demoniaco «666» anima lo spazio denso di segni.
Chiave per capire questo gruppo di opere è Custodire l’intervallo : qui una figura, animale o vegetale che sia, colori arancio e rosato e bianco, domina lo spazio rettangolare secondo un ritmo largo: qui proprio l’intervallo, il silenzio, il tempo della composizione è la chiave per capire. Spiega Dorfles: «Silenzio come cessazione del rumore, del suono, d’ogni attività esplicita, ma anche silenzio come presenza di qualcosa che non è definibile… silenzio come pausa, come intervallo fra due suoni, due parole: una pausa nella quale sia possibile attingere alle ancora inespresse forze creative» (1988). Ecco dunque il rapporto fra il colore, la grafia, lo spazio mentale di queste forme di lunga durata nella storia del pittore.
Dorfles è stato un protagonista dell’arte europea dal 1948 in poi ma la sua novità, la sua dirompente distanza dai compagni di strada non è mai stata valutata appieno, salvo in tempi recentissimi (Sansone). Se si ripercorrono gli scritti che raccontano delle sue origini triestine, dunque mitteleuropee, e si vedono i suoi primi dipinti, persino i pochi degli anni Trenta legati alla teosofia, e poi quelli fondamentali del decennio del Mac (Movimento arte concreta) fra 1948 e 1958, si scopre la distanza dalle geometrie di Max Bill e ancora le ricerche da Veronesi a Soldati a Munari. Dorfles così spiega le sue scelte: «Mi ha sempre interessato un’arte intelligente. Per dare un prototipo di quest’arte direi Klee, l’artista che ho amato di più. Né Picasso né Mondrian. Piuttosto Mirò, insomma artisti che mostrassero, oltre alla qualità pittorica, un’intelligenza teorica» (1989).
Le parole di Dorfles ci fanno capire altre opere in mostra: una carta del 1992, quasi un’ameba sconvolta rosa e verde su fondo blu; un nucleo bianco con filamenti rossi e verdi del 1993; e poi Gran cornuto (2004) e Il giocoliere (2006) o Il fustigatore (2007) che evocano quel mondo di maschere, personaggi, burattini e, alla fine, di angoscianti angeli della morte che Klee inventava alla fine.
Nel comporre gli spazi, gli intervalli quasi musicali nelle proprie opere Dorfles propone un modello di lettura, quella che lui stesso suggeriva per i dipinti di Mirò. Dunque «abolizione dell’elemento simmetrico», quindi «ricerca del vuoto», poi «colore timbrico», «bidimensionalità», «creazione di un alfabetario di segni privilegiati», «aspetto grafico decorativo del lettering », «personaggi fantastici e decisa ricerca dell’asimmetrico e del ritmico» (1981). In mostra altri dipinti rispondono a queste scelte: Due simbionti , Doppia visione , Nucleo centrale , Circonvoluzione , Simmetria sconfitta , Strega marina , Bleu vincente . Dorfles questo suo nuovo racconto lo ha inventato nel decennio del Mac, l’Informale e la Pop gli hanno fatto lasciare ai margini per quasi vent’anni la pittura, poi, dagli anni Ottanta, ecco il grande ritorno: opere chiave nella storia dell’arte europea, discorso diverso da quello surrealista, diverso dall’astrazione geometrica, insomma una ricercata sintesi fra mondo organico e processi percettivi delle culture in Occidente e in Oriente. Ma dove nascono questi nuovi dipinti? Non dalla psicoanalisi freudiana, ma da una distinta consapevolezza della psicologia della Gestalt intesa come trasformazione della forma e del senso dei segni nel tempo, dunque del loro mutevole valore simbolico studiato da Carl Gustav Jung in Simboli della trasformazione (1912).
Sarebbe però sbagliato chiudere Dorfles in questo recinto, per lui il senso del silenzio, diciamo da John Cage in qua, è momento determinante dell’esperienza dell’arte che deve cercare il «recupero dell’Immaginario in un’epoca come la nostra che vive spesso sotto l’incubo della ragione» perché «da sempre (è) il pensiero simbolico, mitico, quello capace di svelare all’uomo le maggiori e più complesse situazioni dell’esistenza» (1986) sia nella creatività artistica che scientifica. Dorfles, con la sua pittura, propone una dimensione filosofica diversa, quella dell’asimmetria contro la simmetria, quella della lunga durata contro il consumo delle immagini, ed è la riflessione zen quella che traspare nelle sue figure, è la scoperta del tempo lungo della meditazione, la scoperta dell’intervallo, della visione appiattita non prospettica, e poi la evocazione dell’ambiguità delle forme vegetali, animali, seminali. La novità di queste pitture sta nella loro organicità; certo, la loro matrice va indietro fino ai primi disegni degli anni Trenta, ma adesso le opere sono dense di nuove consapevolezze. Dorfles è consapevole della qualità della propria ricerca. Così, in un’intervista del 2003: «Guarda che se ho una modesta opinione di me come critico, nell’ambito della pittura mi sento a un livello altissimo... queste opere sono soltanto mie e… di conseguenza, rappresentano qualcosa di unico». La mostra va meditata lentamente, aprendo un nuovo dialogo con il più alto protagonista di una nuova arte «organica» intesa come ponte fra Oriente e Occidente.

Corriere La Lettura 12.1.14
Dal Neolitico a oggi
CannaBis, la doppia vita della Marijuana
di Anna Meldolesi


L’erba proibita ha sempre avuto una doppia vita, come molti dei suoi fumatori. Verrebbe voglia di chiamarla canna-bis tanto è bifronte. Può essere usata per coprire il corpo e per scoprire le emozioni. È medicina e minaccia. Viene prescritta e proscritta. Come pianta è bruttina, ma iconica. Può essere della varietà indica o sativa . È fatale che anche la sua narrazione si sdoppi. Per alcuni la foglia palmata è un simbolo di libertà, per altri il biglietto di ingresso per l’inferno delle droghe pesanti. Negli anni Sessanta e Settanta a volte è sembrato che la popolarità avrebbe portato con sé l’accettazione, invece la centralità della marijuana nella controcultura ha contribuito a farne il bersaglio della guerra alla droga nei successivi trent’anni. Il pendolo della storia ultimamente volge in suo favore.
Secondo l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) la marijuana viene consumata da 147 milioni di persone. In dicembre l’Uruguay è diventato il primo Paese a legalizzarne e controllarne la vendita. Dal primo gennaio può essere acquistata a scopo ricreazionale in Colorado e quest’anno dovrebbero aprire i primi negozi nello Stato di Washington. In Italia si schierano a favore Sel e una parte del Pd. I fautori della liberalizzazione però non conducono la partita su scala globale.
Il rapporto tra uomini e cannabis è un intreccio di tabù e paradossi che si è ingarbugliato nel corso dei millenni; non sarà facile da sbrogliare. Quando i nostri antenati hanno iniziato a coltivare la canapa nel Neolitico erano interessati alle fibre, ma ben presto sono stati conquistati dai suoi effetti speciali. Forse non siamo stati noi ad addomesticare la cannabis, è lei che ha addomesticato noi. La pensa così il «filosofo del cibo» Michael Pollan, che nel libro La botanica del desiderio (Il Saggiatore, 2013) racconta il mondo dalla prospettiva di quattro specie: mela, tulipano, patata e cannabis, appunto. Pensateci bene: perché l’evoluzione ha premiato la produzione di sostanze psicoattive in una pianta? Forse il tetraidrocannabinolo (Thc) aiuta l’«erba» a proteggersi dai danni delle radiazioni o dai parassiti. O forse, suggerisce Pollan, le è servito da esca per attirare noi.
Il desiderio umano di esperienze trascendenti, leggerezza e oblio sarebbe stato utilizzato dalla canapa per guadagnarsi i favori degli uomini, che si sono dati da fare per coltivarla. Le vie di diffusione sono state due come due sono i bisogni umani che può soddisfare, offrendo tessuti e piacere. La via delle fibre — utili per fabbricare abiti, corde, vele e carta — sarebbe partita dalla Cina, arrivando in Europa e poi in America. La via della droga, invece, dai piedi dell’Himalaya si sarebbe diretta in India, Persia, Medio Oriente e Africa.
In Europa la marijuana sarebbe stata introdotta più di 3 mila anni fa dagli Sciti. Molto tempo dopo alla sua diffusione ha contribuito l’esercito di Napoleone impegnato in Egitto. Nelle Americhe, invece, sbarca nel XVI secolo con la tratta degli schiavi africani, che ne portano i semi con sé sulle navi e la usano per resistere alla fatica nelle piantagioni. Oggi è illegale in gran parte del mondo, anche se numerosi studi scientifici attestano che il suo rapporto rischi-benefici non è peggiore di quello dell’alcol. Dal punto di vista logico non siamo in una situazione molto diversa da quella dell’America del 1920, quando la marijuana era lecita e l’alcol vietato.
Il potenziale terapeutico della cannabis, d’altro canto, è sempre più riconosciuto: la vendita del primo farmaco a base di cannabinoidi (l’antispastico Sativex) è stata autorizzata anche in Italia, mentre in Usa la marijuana medica è ammessa in una ventina di Stati. Come «medicina delle meraviglie» è nuova, ma al tempo stesso antica. Alla fine dell’Ottocento sulle riviste scientifiche erano già apparsi oltre cento articoli sui suoi benefici. In Francia lo psichiatra Jacques-Joseph Moreau de Tours sperimentava con dolcetti di hashish insaporiti con pistacchi, buccia d’arancia e spezie. Li serviva anche a Honoré de Balzac, Victor Hugo, Gustave Flaubert, che si trovavano ogni mese con altri grandi all’Hotel Pimodan di Parigi per goderne gli effetti. Lo chiamavano Le Club des Haschischins . Presto la canapa avrebbe ispirato altri scrittori al di qua e al di là dell’Atlantico, da Oscar Wilde a Lewis Carroll, da R. L. Stevenson a Jack London.
Il voltafaccia della storia si consuma negli anni Trenta, con il contributo di circostanze fortuite, xenofobia e ignoranza, come documenta il giornalista e saggista Martin Lee nella sua storia della cannabis (Smoke Signals , Scribner, 2012).
Il vero bersaglio dei divieti negli Usa è la minoranza messicana, così come in passato la legislazione sull’oppio era servita a controllare i cinesi. È in questo periodo che i sostenitori del proibizionismo diffondono il nome ispanico, marijuana, per enfatizzarne l’uso da parte degli immigrati. L’agenzia federale sui narcotici inizia a dipingere i consumatori come violenti e maniaci sessuali. Negli anni Quaranta l’accusa si ribalta e chi la fuma è uno zombie. La pianta dall’impeccabile pedigree patriottico, che era servita a stampare le prime copie della Bibbia e su cui Thomas Jefferson aveva scritto la bozza della Dichiarazione d’indipendenza , si è trasformata nell’erba del diavolo.
La cattiva fama però ne fa un simbolo di ribellione ed è così che il fumo diventa letteratura con la Beat Generation di Allen Ginsberg e Jack Kerouac, e viene messo in musica da Bob Dylan e dai Beatles. La droga dei poveri diventa la droga dei college e ancora oggi non conosce barriere di classe. A spegnere gli entusiasmi delle prime iniziative per la depenalizzazione arriva l’amministrazione Reagan, ma il nuovo clima di caccia alle streghe sortisce due effetti imprevisti. Il primo, spiega Lee, è che le ricerche avviate allo scopo di dimostrare i danni degli spinelli fanno luce sul sistema biologico degli endocannabinoidi, sostanze simili a quelle contenute nella droga bandita, che noi stessi produciamo per modulare molte delle nostre esperienze. Dalla percezione del dolore al sonno alla fame. I set di recettori sensibili nel nostro organismo, guarda caso, sono due, e anche le proprietà psicotrope della marijuana sono bi-fasiche, perché cambiano a dosi alte e basse. La seconda sorprendente conseguenza del proibizionismo, racconta Pollan, è che la cannabis ha trovato il modo di sfruttare anche il suo status di fuorilegge.
Negli anni Ottanta gli appassionati mettono a punto sofisticate tecniche di coltura indoor per sfuggire ai controlli e sono intenti a incrociare le varietà indica e sativa , per unire la forza della prima alla piacevolezza della seconda. I divieti però convincono gli ibridatori a trasferirsi ad Amsterdam, dove la genetica a stelle e strisce incontra la tolleranza (e la passione per la floricoltura) degli olandesi. È così che si producono le varietà «migliori», si clonano gli esemplari femminili, si manipolano luce e nutrienti producendo le super-piante di oggi. «Ultraincrociate, supernutrite, sovrastimolate, velocizzate e nanizzate, tutto in una volta».

Repubblica 12.1.14
1914-2014
Gli ultimi giorni dell’Europa
di Vittorio Zucconi


«Dall’alto della propria torre orgogliosa la Morte guardò il suicidio dell’isola nel mare ai suoi piedi». Fu questo verso di Poe che la storica Barbara Tuchman scelse per narrare il secolo del suicidio europeo cominciato nel 1914, l’anno fatale nel quale il continente più prospero, colto, sviluppato, civile, più egemone che il mondo avesse mai conosciuto, decise, per ragioni ancora inspiegabili, di autodistruggersi. L’Europa fu il Cavallo di Troia di se stessa. Implose — senza invasioni né attacchi, né orde di barbari — spalancando le porte della storia al Secolo Americano.
È difficile, per noi che abbiamo conosciuto soltanto l’Europa della miracolosa, e ora claudicante rinascita un secolo dopo quel 1914, comprendere quanto assoluta fosse la supremazia del nostro continente sul pianeta. E quanto improbabile apparisse in quell’anno la «marcia dei sonnambuli» — secondo la definizione di Christopher Clark a Cambridge — verso l’abisso. Chi lamenta la globalizzazione di oggi, non sa quanto già globale fosse il mondo della Belle Époque e profonda l’interdipendenza fra le nazioni del Vecchio Continente. Basteranno due cifre per dare la misura dello strapotere europeo: il 67 per cento della produzione industriale mondiale veniva da qui; l’80 per cento delle flotte militari e commerciali batteva bandiere europee.
Una guerra fra le corone, tutte posate sulla testa di parenti, cugini e cognati, e l’unica grande repubblica del tempo, la Francia, appariva anche più assurda di quanto possa sembrare oggi alle legioni di ragazzi che sciamano da un’università all’altra sotto il segno di Erasmo, ai turisti che salgono e scendono da voli low cost e treni superveloci, che passeggiano lungo le rive del Reno, della Mosa, della Vistola dopo avere attraversato frontiere di garitte vuote o bunker ormai coperti di edera. In un best seller del tempo, il Nobel per la pace sir Norman Angell poteva scrivere nel 1910 che la devastazione del credito e della finanza avrebbero impedito lo scoppio di una guerra o ne avrebbe reso brevissima la durata, nella solita fiaba del “tutti a casa per Natale”. Ironicamente, il titolo del suo saggio, La grande illusione, sarebbe divenuto un indimenticabile film contro la guerra. Ma Angell non avrebbe potuto immaginare che la rivoltella di un allucinato nazionalista serbo-bosniaco, Gavrilo Princip, contro l’erede al trono degli Asburgo Francesco Ferdinando a Sarajevo avrebbe messo in moto «la marcia dei sonnambuli» destinata a durare per l’intero «secolo breve», come lo chiamò Eric Hobsbawm. La stampa Usa, di fronte al clamore suscitato da quel-l’assassinio, si concesse addirittura qualche ironia. L’Heralddi New York scrisse che «con tutti i duchi e gli arciduchi che hanno in Europa, uno in meno non può fare grande differenza». Cento anni dopo, e ben più di cento milioni di morti direttamente o indirettamente attribuibili a quell’«arciduca in meno», storici della guerra come John Keegan si chiedono addirittura se non sia stata la farraginosità e la lentezza delle comunicazioni fra Cancellerie, non ancora adeguata alla velocità del telegrafo, dei telefoni già esistenti in cavi sottomarini, della neonata radio, a scatenare la reazione a catena.
Ma ciò su cui nessuno ha dubbi è il meccanismo di azioni e reazioni, catastrofi e vendette, conti di sangue lasciati in sospeso, che avrebbe prodotto la Guerra dei Trent’anni europea, chiusa soltanto nel maggio di trentun anni dopo per poi congelare il continente nella glaciazione del conflitto ideologico fra Est e Ovest. Tutto quello che sarebbe accaduto nella Seconda guerra, e nel lungo Dopoguerra che ancora tocca con le proprie dita gelide i rapporti fra Russia e Occidente, ha le proprie radici in quelle giornate di agosto 1914. Le mostruose tecnologie di morte usate nella Seconda guerra hanno il Dna nella Prima, i bombardamenti aerei, i tentativi di estendere la sofferenza alle popolazioni civili colpendo Parigi con supercannoni dalla gittata di 130 chilometri, i panzer, i primi rudimentali missili usati per abbattere palloni aerostatici e dirigibili. E i gas letali che dalle trincee sarebbero passati direttamente alle camere dello sterminio nazista e, ancora oggi, sostanzialmente identici, ai massacri in Siria.
Molti, se non tutti, i protagonisti, della Seconda guerra, erano figli della Prima. Churchill, Lord dell’Ammiragliato fino al 1915; Gamelin, vincitore della prima battaglia della Marna nel 1914 e poi disastroso comandante supremo dell’Armée francese nel 1940; Hitler, reduce rancoroso e ferito nelle trincee del fronte occidentale; Zhukov, il conquistatore di Berlino, decorato sui campi del 1915 contro le armate del Kaiser; Badoglio, vincitore del Sabotino e poi Capo di Stato Maggiore per la sciagurata offensiva contro la Grecia del 1940. E naturalmente Mussolini, ferito sul Carso da una bomba durante un’esercitazione.
Insieme con il cumulo di macerie, cadaveri, di immensi danni economici che dimezzarono le capacità industriali di nazioni come la Germania e divorarono una generazione di giovani uomini che in Francia lasciarono, nel 1918, una proporzione di sei donne per quattro maschi e centinaia di migliaia diinvalides,l’eredità più sottilmente velenosa di quel 1914 fu quella che John Keegan definì «la militarizzazione della politica». Nei totalitarismi prodotti dalla guerra, dove le ideologie e i partiti erano stati messi in divisa restò, e ancora sotto pelle sopravvive, «il morso dell’odio per il nemico e quel risentimento — scrive sempre Keegan — che è sempre veloce nell’azzannare e lentissimo nel lasciare la preda ». Dovette essere l’America, due volte strappata al sonno del suo isolazionismo, a impedire alla Terra Madre di precipitare in un abisso senza ritorno.
Oggi quel campo della morte che fu l’Europa è silenzioso. Ma la Signora di Edgar Allan Poe, alta sulla propria gigantesca torre, osserva l’isola nel mare ai suoi piedi e aspetta paziente.

Repubblica 12.1.14
1914-2014
Senza guerra né pace
di Lucio Caracciuolo


Cento anni fa scoppiava la «guerra per finire tutte le guerre», come la definì già nell’agosto 1914, in una fortunata serie di articoli poi raccolti in libello, lo scrittore britannico Herbert George Wells. Sentenza degna del padre fondatore della fantascienza, resa poi celebre da un leader politico molto immaginifico, il presidente americano Woodrow Wilson.
Da allora il mondo ha conosciuto centinaia di conflitti, di cui almeno una cinquantina ad alta o media intensità, che hanno falciato almeno centotrenta milioni di vite umane, oltre la metà delle quali nelle due guerre mondiali (quindici nella Prima, sessanta nella Seconda). Attualmente sono in corso una decina di conflitti che producono più di un migliaio di morti all’anno. Il più tragico è quello di Siria: oltre centotrentamila morti. La tendenza umana ad annientarsi reciprocamente per quote di potere, territorio e ricchezza — e per qualcosa che usiamo chiamare “onore” — visibile fin dall’alba della storia, ha avuto ragione dell’ottimismo di Wells.
Ma come è cambiata la guerra, dalla Grande Guerra a oggi? Molto, anche se meno di quanto correntemente si pensi. I principali mutamenti sono di tre ordini: riguardano gli attori, e quindi le vittime; le tecnologie belliche; la relazione con la politica.
Fino alla Prima guerra mondiale (inclusa), i conflitti moderni erano condotti essenzialmente da e fra soldati, in spazi limitati. Militare era per conseguenza la maggior parte dei caduti. Già nella Seconda guerra mondiale il numero dei morti civili eccede quello dei militari. Non solo perché i combattimenti escono dalle trincee e dai campi di battaglia per dilatarsi spesso nel cuore dei centri abitati, ma anche per le nuove tecnologie, a cominciare da esplosivi sempre più potenti e impiegabili a vasto raggio. La guerra area, in particolare i bombardamenti terroristici contro la popolazione civile — che i britannici identificano con Coventry (e Londra), i tedeschi con Dresda, i giapponesi con le bombe convenzionali su Tokyo e le atomiche su Hiroshima e Nagasaki — segna una svolta sia nelle dottrine militari (ricordiamo il nostro Giulio Douhet, che nel 1921 pubblica il suo Dominio dell’aria) che nella percezione delle opinioni pubbliche. Al punto che “solo” tremila morti civili — non le centinaia di migliaia dei bombardamenti a tappeto della Seconda guerra mondiale — in un attacco aereo non convenzionale contro le Torri Gemelle di New York, l’11 settembre 2001, marcano un tornante storico.
Una nuova frontiera tecnologica è offerta dalla guerra cibernetica (cyberwarfare), che viene incontro a una necessità assai sentita nelle società occidentali o comunque benestanti: ridurre la visibilità del conflitto e limitare al massimo le perdite. Almeno le proprie, specie se civili. Ma proprio tali caratteristiche ci rendono più vulnerabili al terrorismo, agli attacchi “asimmetrici”, in cui il duellante più debole sfrutta a proprio vantaggio la strapotenza del più forte.
La scarsa disponibilità occidentale a morire per la patria e a impegnarsi in guerre massicce e prolungate, accentuata dall’«inutile strage» del 1914-18, ha indotto alcuni studiosi a dichiarare la morte della guerra, almeno nel senso tradizionale del termine. I conflitti nei quali sono impegnate le Forze armate dei paesi Nato (esemplare il caso afgano) non vengono ufficialmente definiti tali, ma declassati a “operazioni di pace” per non turbare le troppo sensibili opinioni pubbliche e forse anche le coscienze di alcuni decisori che hanno bisogno di credere alla propria propaganda.
Se fino a metà del secolo scorso le guerre potevano essere rappresentate come esplosioni di violenza delimitate nello spazio e nel tempo, i conflitti attuali sarebbero leggibili come un continuum: una costante tensione latente che ha i suoi picchi e le sue pause, non più un inizio e una fine (si pensi ai Balcani, da Sarajevo a Sarajevo, e oltre). Così a morire non è tanto la guerra quanto la pace.
Di sicuro è in crisi, se non defunto, il paradigma classico che vuole la guerra continuazione della politica con altri mezzi. L’impiego della forza è spesso astrategico, nel senso che non persegue un fine politico determinato. O quanto meno, gli obiettivi sono alquanto fungibili e mutevoli, soprattutto in conseguenza degli umori delle opinioni pubbliche domestiche e internazionali.
Lasciamo stare i Balcani o l’Afghanistan: qualcuno è in grado di spiegare in una frase l’obiettivo della guerra americana al terrorismo, dopo l’11 settembre? Certamente non seppe farlo George W. Bush — si contano una trentina di sue spiegazioni, spesso contraddittorie — mentre l’attuale presidente Barack Obama ha preferito rinunciare a chiamarla per nome, per proseguirla in modo meno visibile (cibernetica, droni, operazioni coperte) ma non meno letale.
In ogni guerra, specie in quelle a noi contemporanee, riposa dunque una componente irrazionale, che spin doctor, accademici e strateghi militari — talvolta la stessa persona con tre cappelli — cercano di ridurre ad algoritmo. A questa costante non si può sfuggire. La guerra è anzitutto e sempre avventura, sanguinosa e paradossalmente fascinosa. Poiché lo spirito d’avventura appare troppo umano per essere debellato, la profezia di Wells dovrà sopportare, per il tempo prevedibile, le dure repliche della Storia.

Repubblica 12.1.14
Il giro del mondo in biblioteca
di Paulo Mauri


Chissà se nella biblioteca di Alessandria d’Egitto hanno finalmente risolto il problema acustico dovuto alle gambe delle sedie spostate dai lettori. Lettori che hanno a disposizione una sala immensa e molto ben illuminata, ma un numero di libri ancora limitato e con qualche esclusione “mirata”. Non ci sono, per esempio, I versi satanici di Salman Rushdie, che però, assicura la direzione, si possono leggere in traduzione, così come mancano altri libri sospetti di poca correttezza verso l’Islam. Fu costruita sul finire del secolo scorso, non senza qualche polemica perché le ruspe avrebbero sacrificato reperti della biblioteca antica: quella che secondo una vulgata Cesare avrebbe fatto bruciare con suprema indifferenza. Luciano Canfora attribuisce invece l’incendio al Califfo Omar nell’anno del Signore 640. La Biblioteca di Alessandria è nell’immaginario di molti la biblioteca per antonomasia, anche se nessuno ovviamente ha mai visto la biblioteca antica e quella nuova è bellissima ma nuova, appunto, e potrebbe essere dovunque nel mondo. Così la nuova Bibliothèque National di Parigi, intitolata a Mitterrand, criticatissima perché d’inverno si scivola su certe pendenze dell’entrata, non ha certo il fascino della Richelieu, antica sede ora in via di ristrutturazione, dove si conservano preziosi fondi antichi, documenti rari e molte carte di scrittori (tra le ultime acquisizioni ci sono anche quelle di Tabucchi). Quando la Biblioteca Nazionale di Roma era ospitata nei palazzi del Collegio Romano, frequentarla aveva un sapore ben diverso dal mettere piede nei saloni lucidi della nuova sede costruita in mezzo alle caserme di Castro Pretorio, ma — e lo sa chiunque abbia in casa anche una modesta biblioteca personale — gestire e aggiornare un patrimonio librario non è facile. E certo non è facile il compito delle biblioteche nazionali che devono per legge possedere e schedare ogni libro pubblicato, a costo di scoppiare e di essere costantemente in emergenza.
Comunque, Alessandria docet, c’è sempre qualcuno in qualche parte del mondo, che vuole incendiare i libri nemici e non è affatto vero che i roghi siano finiti con quelli dei nazisti. Nel 1992 i serbi hanno incendiato la biblioteca di Sarajevo e all’incirca dieci anni dopo sono state devastate le biblioteche dell’Iraq “liberato” dagli americani. Per paradosso il tiranno Saddam Hussein, con un gesto politico e non certo culturale, aveva staccato un assegno da ventun milioni di dollari (uno in più del principe degli Emirati Arabi, Feisal) per finanziare la costruzione della nuova biblioteca di Alessandria.
Confesso che frequento malvolentieri le biblioteche immense, anche se non manco mai di visitarle, magari solo per dare un’occhiata ai cataloghi. A Buenos Aires, per esempio, è inevitabile fare un salto alla Biblioteca Nazionale per rendere omaggio a Borges che ne fu il direttore. E Borges ci autorizza a dire che, dopotutto, anche le biblioteche immaginarie hanno una loro esistenza e una loro capacità di accogliere il lettore (sempre di lettore si tratta). Borges, con la sua biblioteca di Babele che poi è l’Universo, si qualifica subito come un estremista del libro. Elias Canetti destina al fuoco la biblioteca del sinologo dottor Kean, protagonista del romanzo Autodafè. Abbiamo assistito al suo ampliamento, visto che Kean ha eliminato le finestre per poter aumentare i suoi scaffali. Ma ha anche sposato, nel corso del romanzo, una incredibile tiranna popolana ignorantissima che se ne infischia dei suoi libri e del sapere e che lo ridurrà allo stremo. La cultura combatte con la barbarie, è un topos. Un’altra biblioteca immaginaria che ormai è divenuta leggenda è quella descritta da Eco neIl nome della rosa anche se qualcuno gli ha rimproverato di aver messo troppi volumi in una biblioteca medievale: ottantasettemila, mentre nel Trecento le biblioteche si potevano al più permettere venti codici e trecento mano-scritti, come racconta Lucien X. Polastron nel suo Libri al rogo. Già, anche Eco fa bruciare la sua biblioteca.
Il nome della rosa, come si sa, ruota intorno a un’opera perduta di Aristotele. Non è facile che in una biblioteca si trovi un’opera perduta di un grande autore, ma non è nemmeno da escludere a priori. Chi frequenta una grande biblioteca non sa mai quali libri può trovare, mentre è escluso che possa fare scoperte sorprendenti nella propria biblioteca, dove tutto gli è noto. Così per esempio ragionava un grande studioso, Carlo Dionisotti, per lunghi anni insegnante di letteratura italiana a Londra e frequentatore della British Library.
In Italia abbiamo la fortuna di poter entrare in molte biblioteche più o me-no rimaste come erano quando furono fondate ed è un vero piacere per gli occhi muoversi, per esempio, nella grandiosa sala della seicentesca Biblioteca Angelica di Roma che ha un notevole patrimonio librario proveniente dai lasciti di vari cardinali e anche, dal 1940, il fondo librario dell’Arcadia di cui ora è praticamente la sede. L’Angelica fu una delle prime biblioteche a essere aperte al pubblico, così come la quasi coeva Biblioteca Ambrosiana fondata a Milano dal cardinal Borromeo, proprio quello citato dal Manzoni come un sant’uomo, mentre un recente studio di Edgardo Franzosini (Adelphi) racconta che proprio santo non era. Comunque la Biblioteca è lì e accanto c’è la Pinacoteca, sempre voluta dal Borromeo, dove si può ammirare tra l’altro (e l’altro è moltissimo) il famoso Cesto di fruttadel Caravaggio. A Ventimiglia ho avuto modo di frequentare anni fa la Biblioteca Aprosiana, fondata appunto da Angelico Aprosio (siamo sempre nel Seicento) che oltre a sbrigare oggi l’ufficio di biblioteca pubblica, conserva anche un buon fondo antico, in gran parte dovuto al fondatore. Ci lavorò per qualche tempo lo scrittore Francesco Biamonti.
Quando tutto sarà digitalizzato e tutte le biblioteche saranno raggiungibili con il computer rischieremo di perdere lo spettacolo dei libri e delle cattedrali che li contengono? Mi auguro di no: per secoli i libri di carta ci hanno fatto una compagnia straordinaria. E poi la “birbioteca”, come la chiamava maliziosamente il Belli, è un luogo e non deve diventare un non luogo. Quando a marzo riaprirà al pubblico dopo la pausa invernale ci sarà una ragione in più per visitare il castello di Masino, nel Canavese, già della nobile famiglia Valperga e da oltre vent’anni proprietà del Fai che lo ha ristrutturato in modo mirabile. E la ragione sarà proprio la grande e antica biblioteca che il Castello contiene e che ora è stata riordinata e schedata. Il primo volume del catalogo è appena stato pubblicato da Interlinea, con magnifiche fotografie, a cura di Lucetta Levi Momigliano e Laura Tos. In quelle sale, amico dell’eruditissimo Tommaso Valperga di Caluso, che era il padrone di casa, circolava l’inquieto Alfieri. E le sue opere in varie edizioni sono ben presenti nella biblioteca del castello.

Repubblica 12.1.14
Genio e sregolatezza
Capolavori in corso c’è del metodo in quella follia
di Simonetta Fiori


Genio e sregolatezza? Niente di più sbagliato. Il cliché romantico dell’artista incline all’accensione creativa solo nel caos è destinato a essere smentito da un libretto uscito in Gran Bretagna. Si intitolaDaily Rituals (Picador), ma avrebbe dovuto chiamarsi Routines. Se c’è un tratto che accomuna i grandi talenti degli ultimi secoli — pittori, musicisti, romanzieri, registi, architetti, critici, filosofi e psicoanalisti — questo è proprio la ripetitività dei gesti quotidiani, l’alzataccia al mattino, la colazione sobria, le ore passate al tavolino, la vita sociale sapientemente calibrata. Lavoro, e poi lavoro, e ancora lavoro.
Il genio nasce da qui, da una regolatezza che sconfina nell’ossessione, da una scorbutica ostinazione nel rispetto di orari e programmi di lavoro. Con qualche eccentricità, naturalmente. Se Stravinskij riposa la mente facendo una verticale, Beethoven non disdegna abluzioni gelide. Così Kierkegaard riesce a meditare sull’angoscia solo con una tazzina di caffè. E la testa di Benjamin Franklin funziona meglio dopo un «bagno d’aria», nella sua camera da letto: seduto a scrivere o a leggere, completamente nudo. Sì, stravaganze, piccoli slittamenti rispetto all’ordinarietà di vite regolate solo dalle esigenze della produzione intellettuale. «Dopotutto lavorare», commenta Flaubert, altro celebre secchione «è il modo migliore per ripararsi dalla vita».
L’idea diDaily Rituals è venuta a Mason Currey, un newyorchese sveglio con problemi di concentrazione sul lavoro. Grazie a una sterminata documentazione raccolta in rete e in svariate biblioteche, è entrato nello studio di oltre centocinquanta geni. La morale? Non c’è. Se non che abitudine e creatività non sono affatto incompatibili, anzi è vero il contrario. L’autodisciplina ti protegge dagli agguati dell’umore. In qualche caso dalla depressione. L’incompatibilità è semmai con una normale vita sentimentale. Spesso infatti la monomaniacalità comporta solitudine, autismo del cuore. «Mi sento come un medico al pronto soccorso», dice Philip Roth, felice di vivere senza una moglie. «Con una differenza: sono io stesso l’emergenza di cui mi prendo cura». Quasi una conferma della saggia regola secondo cui i geni è meglio ammirarli nelle opere. Rigorosamente a distanza.

Repubblica 12.1.14
Che paradosso la verità al tribunale di Foucault
di Pier Aldo Rovatti


Il “laboratorio” di MichelFoucault è un pozzo senza fondo da cui sgorgano ogni volta materiali di enorme interesse. Tra non molto leggeremo in italiano (edito da Feltrinelli) l’attesissimo corso del 1980 sulGoverno dei viventi, mentre in Francia è appena comparso quello sullaSocietà punitiva di qualche anno precedente. Intanto, arriva la traduzione (presso Einaudi) delle lezioni tenute a Lovanio tra il gennaio e il maggio 1981, su invito della Facoltà di Diritto e della Scuola di Criminologia della locale università (Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia,a cura di Fabienne Brion e Bernard E. Harcourt). Qui il problema della confessione, uno degli argomenti più densi dell’ultima fase del lavoro di Foucault, è al centro di un quadro teorico e storico che riguarda l’incrocio tra la psichiatria e la giustizia, nella prima metà del secolo XIX, e che estende i suoi effetti fino alla nostra attualità, introducendo nel campo stesso del sistema penale una specie di “breccia”, o di paradosso, che ha a che fare precisamente con la questione della verità. Foucault ci soccorre delineando una scena inaugurale e una scena finale in termini molto limpidi. Ma prima, occorre forse spiegare un po’ il titolo del corso (e del libro).
“Mal fare” indica soprattutto quell’agire che siamo abituati a chiamare criminoso. “Dir vero” allude certamente alla confessione da parte di chi ha commesso il crimine ed è anche la posta in gioco di tutto il discorso di Foucault, quello che lui definisce i modi di “veridizione”, intendendo che ce n’è più di uno e che nella sequenza storica essi si trasformano.
L’accusato giura di fronte al tribunale di dire la verità, ma in cosa consiste questa verità? Noi pensiamo normalmente che essa stia nell’ammissione del suo crimine, tuttavia, a partire dall’inizio del Novecento, si tratta anche di altro, cioè – in breve – di dire la verità sul fatto stesso di essere un criminale. «Chi sei?», vuole sapere il giudice, e non è detto che l’accusato sappia o voglia rispondere alla domanda. Ma questa risposta diventa sempre più necessaria perché il sistema penale possa funzionare.
La scena inaugurale apre la conferenza in cui Foucault annuncia i temi che tratterà durante il corso. Essa è presa da un manuale del 1840 sul trattamento morale della follia. Lo psichiatra francese François Leuret racconta di come ha risolto un caso di delirio di persecuzione: sospinge il malato sotto una doccia ghiacciata e lo costringe a subire questa tortura finché lui, che si ostina a dichiararsi sano di mente, non cede e ammette: «Tutto il mio delirio è soltanto follia». Ecco una confessione, una “verità” estorta con la violenza. Per quanto tempo gli apparati dell’Inquisizione hanno usato simili pratiche? Ma il commento di Foucault va oltre: oggi – dice – ci siamo lasciati alle spalle la tortura o l’abbiamo squalificata come mezzo o “prova” giuridicamente utile. Abbiamo girato pagina, tuttavia dall’episodio di Leuret possiamo ricavare molte indicazioni, una soprattutto: che il procedimento inquisitorio è sempre una questione di po-tere dell’accusatore sull’accusato, anche se la giustizia parla in nome del volere collettivo e l’accusato deve non solo riconoscere le sue malefatte ma anche considerare giusta la punizione che riceve.
La seconda scena è la narrazione dell’episodio di un noto avvocato francese che sta difendendo un uomo che ha rapito un bambino e lo ha freddamente ucciso. L’avvocato si sta battendo contro la pena di morte e paradossalmente utilizza il silenzio del proprio assistito di fronte all’incalzare della giuria. Non basta che confessi l’orribile crimine, deve “raddoppiare” questa confessione con un supplemento: dire la verità su cosa è un individuo criminale. Ma lui tace, e allora l’avvocato si rivolge così ai giudici e alla giuria: «Potete davvero condannare a morte qualcuno di cui non sapete nulla?». L’episodio segnala quella “diffrazione” che a Foucault interessa: il passaggio dalla tradizionale ermeneutica del soggetto (il reo confesso) a una nuova “ermeneutica di sé” attraverso la quale la società vuole sapere dal soggetto stesso cosa è un criminale, per potersi così difendere dal “rischio” che esso comporta. Una nuova “problematizzazione” del dire la verità che, secondo Foucault, immette su una strada probabilmente senza uscita.

MAL FARE, DIR VERO di Michel Foucault Einaudi trad. di Valeria Zini pagg. 352 euro 25

Repubblica 12.1.14
I ricordi, le passioni, la politica di una “inossidabile comunistaccia”
Luciana Castellina
“Tutti quegli anni davanti ai cancelli delle fabbriche per vedere oggi la classe operaia diventare irrilevante”
Il suicidio di Lucio Magri? Forse solo ora sono riuscita a capirlo
intervista di Antonio Gnoli


Tutte le case di sinistra in qualche modo si somigliano. Ammetto che è un pensiero vago. Perfino insulso. Mi afferra una volta varcata la soglia dell’abitazione di Luciana Castellina. I libri, tanti e disposti quasi in ogni stanza, le foto attaccate ovunque alle pareti, i manifesti, i quadri, il lieve disordine che fa molto vissuto evocano una certa idea della politica e della morale. Sì, le case a volte parlano come e più degli umani. Sedimentano storie, forniscono indizi, mostrano il lato meno scontato del carattere: «Abito qui da sempre», dice, «in questo quartiere borghese con scarsa propensione all’avventura, nella Roma moderata e riccastra che si incistò ai Parioli dagli anni Trenta. Se fosse stato per questo clima di spenta moralità e di scarso agonismo non avrei fatto tutto quello che poi ho realizzato. Ho ereditato questa casa, senza sceglierla. E penso che alla fine i ricordi e le abitudini me l’abbiano resa non dico indispensabile, ma vicina, quasi una parte di me».
Si sente una privilegiata?
«Penso di esserlo stata. Quando e dove nasci non dipende da te. Credo che conti anche una certa dose di fortuna. Ma poi, senza troppi giri di parole, la questione è semplice: sei tu che scegli da che parte stare e con chi schierarti. È buffo. Proprio in questi giorni ripensavo all’operazione della Fiat e al fatto che la Chrysler sia finita sotto l’egida del marchio torinese».
Buffo in che senso?
«Ci fu un tempo che per questioni di militanza andavo spesso davanti alla “porta 2” della Fiat. Era il 1970. Due anni dopo, in piena campagna elettorale con Nixon lanciatissimo alla riconferma, arrivai a Detroit per una lunga inchiesta sulle case automobilistiche. Ce ne erano ben tre: General Motors, Ford e Chrysler. La più alta concentrazione di classe operaia al mondo era lì. Apparecchiata, neanche fosse un film dell’orrore, in una città agghiacciante. Dove un pedone era trattato alla stregua di un pidocchio. Un pugno di grattacieli liberty, una marea di casette bianche e in mezzo una enclave di disperazione, un vuoto abitato da “negri” e bianchi sfigati. Accomunati dalla disoccupazione. Ecco il capitalismo allo stato puro, pensai».
Immagino l’adrenalina.
«Era una delle rare volte in cui una comunista entrava in un paese che vietava l’accesso ai comunisti. Mi colpì la diffusione della droga tra gli operai. Molti di loro erano tornati dal Vietnam. Lì, per sopravvivere e per dimenticare, avevano imparato a fumare e a farsi di eroina. In fondo, le catene di montaggio non erano poi così diverse dalla giungla del sud-est asiatico, pensai».
Fu una delusione?
«No, era una classe operaia diversa, meno politicizzata della nostra».
Quel mondo, comunque lo si veda, oggi va sparendo.
«Leggevo, da qualche parte, che il costo della mano d’opera alla Fiat incide del 7 per cento. Sì, quel mondo è diventato irrilevante ».
E che conseguenze ne ha tratto?
«Mi chiede se siamo diventati degli orfani?»
Glielo chiedo.
«Non si tagliano le radici. Anche volendo reciderle, quelle continuano a restare confitte nel tuo terreno di appartenenza».
A proposito di radici, la sua era una famiglia borghese.
«Diciamo una famiglia irregolare. Nonno triestino, disertore della parte austriaca, amico di Oberdan. Mia nonna, orfana, proveniva da una famiglia di agrari di Tarquinia. Lui partì per l’Argentina. Lei lo raggiunse, si sposarono. Tornarono in Italia. Mio nonno aprì a Roma una litografia. Lo stabilimento crebbe e poi fallì. E lui tornò in Argentina. Questo da parte di madre. Dal lato di mio padre non sono molte le notizie».
Perché?
«Perché il matrimonio di mia madre, con Gino Castellina, durò poco. Lo sposò pensando fosse ricco. Invece aveva la consistenza del fumo. Quattro anni insieme, gli stessi che avevo io. Poi, grazie alla Sacra Rota, ci fu il divorzio. La mamma impiegò altri otto anni per approdare al secondo matrimonio. Era in parte ebrea e le leggi razziali impedivano i matrimoni misti. Per un bel mucchio di soldi l’avvocato Le Pera arianizzò mia madre. Fu così che lei si poté risposare. Con il secondo marito ci trasferimmo a Verona. Periodo abbastanza orribile. Poi tornammo a Roma. Mi iscrissi al Tasso. Cominciò una vita decente. Nella mia classe c’era la figlia del Duce».
E che ricordo ne ha?
«Di una ragazzina consapevole dei propri privilegi. Anna Maria era simpatica, spigliata, dotata di un’intelligenza aggressiva. Amareggiata da una poliomielite che la costrinse tutta la vita a portare un busto. A volte mi invitava a casa sua, nella residenza di Villa Torlonia. Ricordo che ci faceva ascoltare il “bollettino di guerra” e poi liberamente lo commentava con le parole che aveva ascoltato dal padre. Fu incredibile sentire certi giudizi pesantissimi sul Re, sui ministri e su certi esponenti del partito. Poi arrivò il 25 luglio 1943».
La data della caduta di Mussolini.
«La ricordo perfettamente. Ero a Riccione, ospite di Anna Maria. Giocavamo a tennis. Alcune guardie interruppero la partita dicendo che doveva rientrare immediatamente a Roma».
L’ha più rivista?
«Dopo la guerra. A casa di un’amica. Aveva perso un po’ della sua baldanza. Ma era sempre sferzante. Mi colpì una frase: papà ha fatto male a fidarsi di quel cretino del Re. So che poi sposò un attore e che morì sul finire degli anni Sessanta».
Cosa è stato per lei il fascismo?
«Per lungo tempo ne ebbi una totale incomprensione. Nessuno in famiglia, nonostante ci fossero diversi ebrei, si rendeva conto di quanto stava accadendo. Del resto, l’antifascismo nel paese fu un fenomeno limitato per lo più a coloro che erano esiliati o in galera. Scoprii tardi il suo valore. E se vogliamo dare un peso alle parole, non è irrilevante che si sia detto che il fascismo cadde e non che fu rovesciato».
“Cadere” nel senso del moto meccanico?
«In un certo senso sì, come se sia stata marginale la volontà di coloro che contribuirono alla fine di quel regime».
E lei vi contribuì sposando la causa comunista?
«La mia adesione al Pci venne dopo: alla fine della guerra. Fino a quel momento non sapevo bene cosa fare. C’era il Partito d’Azione che mi incuriosiva. Ma alla fine scelsi i comunisti. Mi pareva gente concreta e intelligente».
Continua a pensarlo?
«Ho avuto la fortuna di incrociare compagni con cui ho fatto un lungo pezzo di strada».
Non le pesava l’eccesso di dogmatismo di quel partito?
«Fino a un certo punto della mia storia direi di no. Poi, quando ho dovuto in qualche modo ripensarla, mi sono resa conto che la mia fu spesso una militanza acritica».
Quanto acritica?
«È una bella questione. Non so risponderle. O forse non voglio farlo. Non lo so».
Dà l’impressione di una persona ricca di qualità individuali.
«So di apparire così. Ma ero convinta, e in parte ancora lo sono, che il giudizio collettivo sia migliore di quello individuale».
Perché? Dopotutto, ognuno ha un cervello per ragionare in proprio.
«Ma vede, non c’entra niente l’obbedienza o il conformismo. È che nel collettivo ci sono linee di forza, ragioni e sintesi che l’individuo non possiede. Anche quando cominciai a dissentire dalla linea del Pci, lo feci insieme ad altri».
Si riferisce all’uscita dal Pci e alla nascita del manifesto?
«Più che uscita ci buttarono fuori. Per la storia di quel partito si ammetteva l’abiura o l’ortodossia. Noi fummo i primi a creare un dissenso vero. Fu una battaglia che iniziò nei primi anni Sessanta e preparò il ’68».
Cosa imputavate al Pci?
«Di essere un partito immobile. Stavano accadendo cose, codicendoleme la nascita del femminismo, l’ecologia, i nuovi consumi, su cui il partito non si esprimeva. Accettando solo la banalità del presente».
Vi accusarono di essere degli intellettuali.
«Era una critica che ci arrivava soprattutto da Lotta Continua. Ma infondata. C’eravamo per anni fatti un culo tremendo davanti alle fabbriche, nelle riunioni operaie e di partito. Venivo da una lunga gavetta e per lungo tempo avevo diffidato degli intellettuali. Nel partito loro erano la “marina” e io mi consideravo “fanteria”».
Però poi ha sposato Alfredo Reichlin, una delle teste pensanti del Pci.
«Ma questo avvenne molto dopo. E all’inizio, le confesso, guardavo con una certa diffidenza alle sue amicizie culturali».
Eravate ancora assieme quando la cacciarono dal partito?
«No, mi pare che fossimo separati già da una decina di anni».
Cosa provò per quella espulsione?
«Soffrii enormemente. Mi sembrava di essere stata buttata via dalla finestra. Fu un periodo doloroso. Il partito si comportò orrendamente. Con Pajetta in testa che ci gridava contro: chi vi paga? Tra i pochi che si comportarono con dignità ci furono Nilde Iotti ed Emanuele Macaluso».
Usciste in diversi: lei, Rossana Rossanda, Aldo Natoli, Luigi Pintor, Valentino Parlato, Lucio Magri e altri. Cosa è stato per lei questo nuovo gruppo?
«Credo qualcosa di irripetibile. Come in tutte le famiglie abbiamo molto litigato e siamo stati bene assieme. Mi fa male pensare che alcuni di loro non ci siano più».
La morte di Lucio Magri, o meglio il suicidio, fu una vicenda dolorosa, che provocò qualche dissidio tra di voi.
«Ero nettamente contraria. Stiamo parlando della vita di una persona, non di una mozione politica. Con Lucio ho avuto una storia privata che è durata 25 anni. Non era facile accettare che una parte di te decidesse di morire. In passato ero riuscita a farlo desistere già in un paio di occasioni. Purtroppo, agiva su di lui una depressione patologica, furente, insidiosa. E alla fine non ci fu nulla da fare».
Come giudica la scelta della Rossanda di accompagnarlo a morire?
«Non la giudico ma non ero favorevole. Lucio aveva un carattere impossibile, ma era anche uno degli uomini più intelligenti che abbia conosciuto. E pensavo che quell’atto, così disperatamente lucido, fosse frutto di un profondo egoismo. Chi era lui per uccidersi? Per lasciarci in un mare di dolore?».
E oggi?
«A distanza di due anni da quell’episodio penso che Rossana avesse compreso molto meglio di me il problema».
In che senso?
«È difficile da esprimere, ma penso che anche lei sia stata in qualche modo accecata dalla vita».
Accecata?
«Molto più di me ha conosciuto in questi anni la disperazione e il dolore. Aveva antenne più sensibili. Io sono più vitaiola, mondana, estroversa».
Per lungo tempo lei è stata considerata una delle donne più seducenti della sinistra. Cosa ha significato per lei essere bella?
«La bellezza facilita la vita. Ma negli anni Cinquanta la bellezza di una donna era spesso equiparata alla stupidità».
Se non avesse scelto la militanza politica, con tutto quello che ha comportato, cosa avrebbe voluto fare?
«Certamente il pittore. Ero bravina. Ma sarei stata un’artista mediocre. Meglio la politica».
Si riconosce il senso del limite?
«Per anni ho avuto enormi complessi di inferiorità. Mi iscrissi a Legge, io che adoravo filosofia, perché ero convinta di non essere abbastanza intelligente».
Non dà l’idea di una persona insicura o frustrata.
«Invecchiando si diventa più sicuri. Ho spesso provato dubbi e incertezze. E poi, il limite vero lo stabilisce la morte».
La spaventa?
«No, evito di parlarne. Se l’affronti hai già perso in partenza. Ricorda il Settimo sigillo?»
Le piace il cinema?
«È una fonte inesauribile di pensieri ed emozioni. Un modo di viaggiare con gli occhi».
Solo con quelli?
«Il viaggio è una parte di me. Da piccola dicevo che avrei fatto il facchino alla Stazione Termini. Amavo guardare la gente partire».
I suoi bagagli le hanno pesato?
«A quali si riferisce?»
A quelli del suo impegno, della sua militanza, dei suoi sogni infranti, e delle tante sconfitte. In fondo non è questo il mondo che si aspettava. O no?
«Lo avevo immaginato diverso. Ma sono ancora qui. Dopo gli ottant’anni, un po’ più frivola. Ma pensando di essere ancora quella ragazza che nel ’45 cambiò vita. Sì, malgrado tutto, resto la solita inossidabile comunistaccia. Che continua a viaggiare, indignarsi e a scrivere».
Cosa sta scrivendo?
«Ad aprile, per il mio editore Nottetempo, uscirà un libro a quattro mani scritto con Milena Agus. Un pezzo di storia italiana, molto cruenta. In fondo questo paese deve ancora, in alcune sue parti oscure, essere raccontato».

Repubblica12.1.14
La poesia del mondo
Con la fantasia andiamo dove ci pare
La fuga libertaria di Emily Dickinson
di Walter Siti


Alcuni interpreti sostengono che gli interrogativi delle prime due terzine richiamano le domande famose di Amleto nel monologo “Essere o non essere”? Il mortal del quarto verso riprenderebbe ilmortal coil (tumulto, o groviglio, mortale) a cui fa riferimento Amleto chiedendosi quali sogni possano visitarci nel sonno eterno. La poesia parlerebbe dunque di una voglia di suicidio. Citazione impaziente e sbrigativa: lei non è un sofisticato principe filosofo, è una donna che ha fatto un solo anno al college e della correttezza grammaticale le importa poco. Che succederebbe se mi liberassi di “questo mortale”, cioè del corpo, e mi rifugiassi da te? I suoi what ripetuti sembrano una sfida, non una riflessione accademica.
Il “tu”, naturalmente, sarebbe Dio. E tutto il testo sarebbe una preghiera a Dio di accoglierla finalmente nella libertà, liberandola dal dolore. Guarda dove mi fa male, basta. Il tono è confidenziale, lei verso Dio e la religione non usa mai formalismi o riverenze; una delle cose belle del testo è che pur avendo una struttura metrica impeccabile (in ogni strofa due versi a rima baciata di quattro piedi giambici, più un verso di tre piedi con la stessa rima in ogni strofa) sembra buttato giù all’impronta, con una lingua rasoterra, dettato dall’urgenza dello sfogo. Sono gli anni della guerra civile americana, che ha fatto sentire i suoi contraccolpi perfino nel piccolo paese di Amherst
dove lei vive; la liberazione sarebbe anche liberazione dalla guerra (i morti non sono più minacciati né da prigioni né da fucili) e dichiarazione audace che la guerra stessa è senza significato. Qualcuno ha ipotizzato addirittura (puntando su un us, noi, che in una prima redazione stava al posto di me nel settimo verso) che il testo sia da intendersi come pronunciato da un soldato ferito in guerra che invoca la morte. Tutto andrebbe dunque declinato al maschile. Ma la quarta strofa resterebbe un enigma, un’aggiunta inspiegabile: che c’entra con un battaglione di soldati il riferimento ai merletti, e al circo ambulante? E perché un commilitone morto il giorno prima dovrebbe essere senza significato?
Personalmente ho l’impressione che la quarta strofa sia la più straordinaria del testo e che proprio da lì si debba partire per capirlo. In termini logici è solo un esempio, quasi inutile, di cose prive di significato: la tentazione romantica sarebbe di vedere Emily alla finestra della sua stanza (in reclusione forzata dovuta, pare, a una diagnosi di epilessia), che ha abbandonato sulla poltrona il lavoro di ricamo attratta dai rumori di un circo ambulante. Lei che ha ancora nell’orecchio una risata venuta dal piano di sotto, e che ricorda un lutto recente ma senza la retorica del lutto. Sarebbe una Dickinson simil-Leopardi, che in un testo cominciato con la dichiarata tentazione di morire rivela in tre versi incongrui una repressa voglia di vivere. Solo che lei non è di quella razza lì, non supplisce all’azione col pensiero; lei è un fucile carico, ha una tale gioia dentro che se sapesse ballare sulle punte oscurerebbe qualunque étoile del balletto. Lei il ricamo lo schifa, disprezza il quotidiano femminile come quello maschile, e la vita come la morte.
Non sono convinto che il “tu” del terzo verso si riferisca a Dio. Penso che alluda a una persona amata: o al reverendo Wadsworth che proprio nel 1862 si era trasferito da Boston a San Francisco, o a Sam Bowles, o alla cognata Sue da cui la dividevano un semplice giardino ma anche una montagna di convenzioni sociali e morali. Si può essere intensamente erotici anche prescindendo dalla carnalità e allora non si ha bisogno di morire per forzare il “cancello di carne” — né di distinguere pedantescamente tra l’erotismo e Dio. Semplicemente l’amore (come nella sua amata Emily Bronte) supera la morte e la vita, rende il resto insignificante perché giudica a partire dall’assoluto. Il testo è tutto uno slancio: c’è un prima che non conosciamo e che comunque è fatto di noia, da cui esplode quelwhat— e allora? e se invece io... Se andassimo insieme, liberi, in un territorio spirituale che con la carne non ha più niente a che fare, senza più subire minacce violente, lasciandoci alle spalle la casa, il paesello e i suoi miserabili passatempi? Altro che romanticismo, è pura barbarie.
Offrima con enough, lei vuole andar via perché non ne può più; e l’ultima strofa è come se dicesse «io con la fantasia vado dove mi pare». La sintassi è libera dalle regole scolastiche, le rime sono approssimative; i trattini sostituiscono le subordinate, le virgole collegano segmenti primordiali, i contenuti si aggiungono uno dopo l’altro come escono dalla mente. Non è ingenua, è refrattaria. Un’anima e lo spazio senza mediazioni, come solo potevano concepire i coloni del Nuovo Mondo con le loro genealogie strampalate in una terra aliena, violenta e semivuota. Come Walt Whitman che aveva qualche anno in più e tante più esperienze aveva digerito.
In vita pochissimi hanno conosciuto le sue poesie, rimaste praticamente inedite; nessuno dava importanza a quella zitella altera, sempre vestita di bianco, dal carattere ombroso e dagli entusiasmi anomali. Il suo modo apparentemente facile di scrivere, la sua finta trascuratezza che allude a una genialità incompresa sono diventati un alibi per molti cattivi poeti; ma un diamante non è meno tagliente se in molti l’hanno preso a modello.

Il Sole 24 Ore Domenica 12.1.14
Bobbio, non c'è politica senza cultura
Ricerca e verifica accurata dei fatti e argomentazioni rigorose come ingredienti chiave delle scelte pubbliche
di Mario Ricciardi


Norberto Bobbio se ne è andato in silenzio, con discrezione, come era nel suo stile, il 9 gennaio del 2004. Che fosse anziano e di salute cagionevole era noto. Forse meno conosciuta, se non alle persone intime, era la stanchezza che da alcuni anni lo aveva assalito, evoluzione di un'indole incline alla malinconia. Lo stesso Bobbio ne aveva parlato con la consueta lucidità a un corrispondente alcuni anni prima: «la mia vita ormai è vissuta al rallentatore. Lente nei movimenti le gambe e le mani. Lenti tutti i movimenti del corpo. Deboli gli occhi e quindi lenta la lettura. Faticoso anche il solo alzarmi per prendere un libro. Sempre più rapido invece questo processo di indebolimento. Da qualche tempo provo in maniera sempre più penosa la fatica di vivere, che, del resto, conosco, in forma leggera, naturalmente, sin dall'infanzia. Non viaggio più». Non che viaggiare fosse una passione per Bobbio. Scherzando, si descriveva come un provinciale. Bogianen, come si dice nella sua Torino. Uno che sta nel suo buco, che non si muove. Certo un buco confortevole, nel centro di quella che un concittadino della stessa generazione paragonava a una guarnigione, ma che mostrava ancora il suo volto di piccola capitale di un regno subalpino preservando con caparbietà e orgoglio la dignità che altre ex capitali della penisola faticavano a difendere. Pochi passi separavano via Sacchi, dove Bobbio abitava, dalla Facoltà di Scienze Politiche, dove si era trasferito lasciando l'insegnamento di filosofia del diritto per prendere quello di filosofia politica. Ma in mezzo c'era un mondo. Quello delle idee e dei pensatori che lo avevano accompagnato per anni: Locke, Hobbes, Kant, Hegel, Marx, Cattaneo, Kelsen, Weber e tanti altri, noti e meno noti, cui Bobbio si dedicava con pazienza e rigore, sezionandone le opere per esibirne l'anatomia a generazioni di studenti. Quello dei tanti corrispondenti, da Hart a Oppenheim fino a Scarpelli, con cui tesseva un fitto dialogo epistolare. In molti, tra chi ne frequentava le lezioni, sono diventati a loro volta professori. Non solo nelle "sue" materie, ma in tante altre. Perché quella di Bobbio era una "scuola" nell'unico senso rispettabile che questa espressione può avere quando si usa a proposito dell'accademia: un posto dove si impara. Si apprende come si ragiona, che bisogna aver rispetto dei fatti, della verità e degli interlocutori.
Sotto questo profilo Bobbio era un esempio. Nel 1996, lo stesso anno in cui scrisse la lettera a Danilo Zolo da cui ho ripreso la descrizione della sua «fatica di vivere», lo studioso torinese era al lavoro su un libro – fortemente voluto da Carmine Donzelli, che alcuni anni prima di Bobbio aveva pubblicato il fortunatissimo Destra e sinistra (1994) – che raccoglieva alcuni suoi scritti del periodo immediatamente seguente alla fine della seconda guerra mondiale, accompagnati da un commento retrospettivo dell'autore. Ritornando agli anni del fascismo, Bobbio scriveva: «non è difficile ricostruire lo stato d'animo di chi, come me e tutti gli appartenenti alla mia generazione, era arrivato agli anni della maturità senza aver mai votato, e avendo cercato, se mai, di sottrarsi a quelle forme di partecipazione forzata che erano le adunate e le altre messe in scena che non riuscivamo più a prendere sul serio».
In effetti, colpisce, in questi scritti del dopoguerra l'insistenza sull'eccesso di politica che molti vedevano nell'esperienza recente del regime fascista, cui c'era chi reagiva rivendicando l'apoliticismo come valore e la separazione tra tecnica e politica. Una chimera che, nel 1945, Bobbio liquidava con parole che oggi appaiono profetiche: «tecnica apolitica vuol dire in fin dei conti tecnica pronta a servire qualsiasi padrone, purché questi lasci lavorare e, s'intende, assicuri al lavoro più o meno onesti compensi; tecnica apolitica vuol dire soprattutto che la tecnica è forza bruta, strumento, e come tale si piega al volere e agli interessi del primo che vi ponga le mani. Chi si rifugia, come in un asilo di purità, nel proprio lavoro, pretende di essere riuscito a liberarsi dalla politica, e invece tutto quello che fa in questo senso altro non è che un tirocinio alla politica che gli altri gli imporranno, e quindi alla fine fa della cattiva politica». Dietro l'illusione della tecnica apolitica, Bobbio vedeva all'opera il politico incompetente che non è in condizione di prendere buone decisioni perché è privo delle conoscenze necessarie. Non ha idea di come procurarsele, e non se ne cura perché è soltanto un politicante. Un tema, come si vede, di schiacciante attualità nel dibattito in corso sulla riforma del parlamento. Proprio al compito di rendere la politica consapevole dell'importanza della conoscenza accurata dei fatti e del rigore nell'argomentazione Bobbio avrebbe dedicato una parte consistente delle sue energie nei decenni del dopoguerra, fino alla crisi della prima repubblica. Così, ad esempio, scriveva nei primi anni cinquanta, in polemica con i comunisti che proponevano una "politica culturale", difendendo una "politica della cultura" che fosse: «oltre che la difesa della libertà, anche la difesa della verità. Non vi è cultura senza libertà, ma non vi è neppure cultura senza spirito di verità. (…) Le più comuni offese alla verità consistono nelle falsificazioni di fatti o nelle storture di ragionamenti». C'è da chiedersi quanto, dello scoramento che Bobbio confessava alla fine degli anni novanta, fosse dovuto alla sensazione di aver combattuto questa battaglia invano.
Del rispetto per i fatti e per la verità, Bobbio è stato un esempio anche se lo riguardavano, dolorosamente, da vicino. Fu così, quando, nel 1992, emerse una lettera in cui si rivolgeva direttamente a Mussolini per evitare le conseguenze cui sarebbe probabilmente andato incontro per via delle sue frequentazioni nell'ambiente dell'antifascismo torinese. Bobbio non fece nulla per sottrarsi alle critiche virulente di cui fu oggetto: «non voglio aver l'aria di mendicare giustificazioni. Ci sono pur stati coloro che non hanno fatto compromessi». Vale la pena di notare che nessuno, tra quelli che compromessi non fecero – nemmeno tra gli avversari comunisti – si unì al coro delle critiche. Forse perché l'esperienza diretta di una dittatura affina la sensibilità delle persone, e le spinge a diffidare dei moralisti che rifiutano di vedere le sfumature.

Il Sole 24 Ore Domenica 12.1.14
Seneca: «Non condannate la saggezza alla povertà»
di Armando Massarenti


«Ci vuole una vita per imparare a vivere e, ciò che forse ti stupirà di più, ci vuole tutta una vita per imparare a morire». E non si può di certo dire che la vita di Lucio Anneo Seneca, oratore, consigliere, filosofo d'età imperiale, non sia stata ben spesa in tale prospettiva, se è vero ciò che racconta lo storico Tacito nel libro XV dei suoi Annali, vivida testimonianza di anni tra i più turbolenti e sanguinari dell'intera storia di Roma. Gli anni di regno di quell'imperatore, Nerone, di cui il ricco senatore Seneca («nemo sapientiam paupertate damnavit», nessuno ha mai condannato la saggezza alla povertà, secondo un suo celebre aforisma), noto per essere stato il creatore di una delle più grandi banche di credito dell'antichità, fu prima precettore e mentore – dispensatore di quei principi di saggezza così mirabilmente ispirati alla dottrina stoica e sapientemente infusi in tutte sue opere filosofiche e letterarie –, infine, vittima designata dell'arbitrio del sovrano.
Accusato di complicità nella congiura ordita da Pisone contro Nerone, il quale, come scrive Tacito, «aveva sperimentato l'indipendenza di Seneca più spesso del suo servilismo», nel momento fatale in cui il filosofo ricevette la notizia stessa della propria condanna a morte, non manifestò né con le parole né con la mimica del volto «alcun segno di paura o mestizia».
«Non venendogli meno l'eloquenza neppure in quell'estremo momento», in cui veniva di fatto costretto ingiustamente al suicidio, «chiamò a sé gli scrivani e dettò loro pensieri che io mi astengo dal rivestire d'altra forma, perché si sono divulgati con le sue stesse parole» (Tacito, Annali, XV, 63). Sono gli stessi pensieri che trovate, intessuti di metafore letterarie ed espressi in una prosa altamente poetica, nelle pagine raccolte nel volume dedicato alla “pace dell'animo”.
Il dialogo filosofico De tranquillitate animi non è altro, infatti, che l'equilibrato, ma al contempo accorato, invito di Seneca all'amico Sereno (quando si dice: un nome, un destino) a coltivare la propria interiorità, con costanza e senza tentennamenti, ovvero con rimedi di volta in volta vivificanti e lievi o potenti e invasivi, da somministrare a un animo soggetto a fisiologici ondeggiamenti, perennemente indeciso «fra l'una e l'altra cosa», motivato però a trovare la via della saggezza... di una rotta «sempre uniforme e favorevole» che è conoscenza di sé. Per usare le parole dello stesso Seneca: «Bisogna ogni giorno chiamare l'anima alla resa dei conti». Perseguendo la rotta della sapienza stoica ed evitando, più di ogni altra cosa, le ricadute – perché l'animo può cadere ammalato, e rimanere gravato dalla malattia, esattamente quanto il corpo, ci insegna Seneca con un'intuizione di sorprendente modernità – per raggiungere il supremo, ambitissimo fine della serenità.

Il Sole 24 Ore Domenica 12.1.14
Dieci risposte agli animalisti
La ricerca sugli animali è stata fondamentale per curare le principali malattie. Quando non sono stati fatti studi preclinici, sono accadute tragedie come quella del talidomide
Dieci argomenti elementari a confutazione degli animalisti estremi e delle loro tesi contro l'utilità e la legittimità etica della sperimentazione animale
di Elena Cattaneo e Gilberto Corbellini


1
Non è vero che in passato la sperimentazione animale non è servita a nulla: senza di essa non esisterebbero le scienze biologiche e la medicina scientifica. La sperimentazione animale ha consentito di sviluppare conoscenze scientifiche fondamentali (dalla scoperta della circolazione del sangue e delle funzioni di organi, tessuti, cellule e molecole dell'organismo animale o umano, alla dimostrazione del ruolo degli agenti infettivi come cause di malattie trasmissibili, nonché dei meccanismi implicati nell'origine di quasi tutte le malattie di cui si conoscono le cause) e trattamenti salvavita o preventivi (invenzione dell'anestesia e dell'antisepsi per l'avanzamento della chirurgia, vaccini e sieri, sulfamidici e antibiotici, chemioterapie anticancro o antivirali e trapianti, antidepressivi e antipsicotici, eccetera).
2
Non è vero che oggi la sperimentazione animale è inutile: praticamente tutti i trattamenti in grado di curare o di lenire le principali malattie dell'uomo come i tumori, le malattie cardiovascolari, quelle neurologiche, infettive o genetiche continuano a derivare dalla ricerca sugli animali. Quando, in passato, non sono stati fatti studi preclinici su animali, o sono stati fatti male, sono accadute tragedie, come le migliaia di casi di bambini focomelici per gli effetti della talidomide.
3
Non è vero che i dati raccolti studiando i modelli animali non sono validi per l'uomo, e le critiche epistemologiche alla sperimentazione animale fraintendono la natura del metodo scientifico. Stante il fatto che l'unico modo di avanzare nella conoscenza e nel controllo dei fenomeni naturali (inclusi i processi che danno luogo alle malattie) è l'indagine sperimentale che parte da ipotesi falsificabili, di certo il miglior modello dell'uomo sarebbe l'uomo. Il progresso civile umano ha però giustamente bandito la sperimentazione sull'uomo, senza il consenso libero e informato, e che non sia volta al beneficio diretto per la persona. Poiché tutti gli animali, incluso l'uomo, hanno una storia evolutiva comune, dal livello molecolare a quello sistemico, essi hanno in comune numerose caratteristiche e funzionano in base agli stessi principi biologici, per cui i modelli animali sono buone approssimazioni per ottenere risultati utili. Come la storia e l'attualità della ricerca biomedica dimostrano.
4
Non è vero che si possono già usare solo metodi alternativi agli animali: i metodi alternativi sono prodotti dagli scienziati e già preferiti agli animali, perché l'uso di animali ha costi più elevati oltre a implicazioni di stress lavorativo maggiore. Il fatto è che i metodi alternativi non sono davvero alternativi, in quanto le colture in vitro o i modelli o simulazioni in silico non consentono di studiare i processi fisiologici che controllano la funzionalità che tessuti e organi svolgono sulla base di interazioni complesse e sistemiche tra milioni di cellule organizzate tridimensionalmente o in popolazioni che cambiano dinamicamente.
Senza sperimentare su animali le ipotesi anche preventivamente testate con metodi alternativi, non avrebbero alcun valore esplicativo, per cui non sarebbe scientificamente giustificato e sarebbe pericoloso passare dai cosiddetti modelli alternativi direttamente al l'uomo. In pratica, vietando la sperimentazione animale, la ricerca si bloccherebbe, con danni gravissimi per tutti (inclusi gli animali).
5
Non è vero che la sperimentazione animale si fa normalmente anche su cani, gatti e primati: la ricerca su grandi mammiferi, animali domestici e primati è molto ridotta (2-3% di tutta la ricerca con animali) e l'autorizzazione è molto difficile da ottenere; cioè viene data solo in presenza di forti argomenti logico-razionali e dati preliminari in altre specie che fanno presumere che i risultati attesi possano essere di grande beneficio. Inasprire i divieti produce come principale conseguenza che risulteranno favoriti nella ricerca Paesi dove la sperimentazione animale non è regolamentata, e dove gli abusi e le sofferenze degli animali sono la norma.
6
Non è vero che gli scienziati sono indifferenti alle sofferenze degli animali: gli scienziati sanno da molto tempo che il benessere degli animali è essenziale anche per ottenere risultati più validi dagli esperimenti. Inoltre gli scienziati ricorrono all'uso di animali solo, perché e quando è necessario, dato che sono gli scienziati i primi a sapere che gli animali possono provare dolore e soffrire per condizioni di stress. Gli scienziati collocano questa sperimentazione necessaria nell'ambito di un obiettivo più alto: dare speranze concrete di spiegare e curare le malattie umane.
7
Non è fondato, scientificamente, sostenere che gli animali hanno un livello di coscienza (o una dimensione psicologica) equivalente a quello umano: le neuroscienze hanno scoperto quali sono le strutture del sistema nervoso che possono generare stati di coscienza, e gli animali che si usano per la sperimentazione non hanno un cervello altrettanto sviluppato quanto quello umano.
8
Non è giustificato ed è offensivo verso le persone umane malate sostenere che gli animali hanno i loro stessi diritti (secondo qualcuno gli animali avrebbero anche più diritti): siamo noi che attribuiamo agli animali dei diritti, mentre essi non immaginano che si possano rivendicare diritti, e non sono in grado di riconoscerli all'uomo, né a conspecifici. I malati e le persone emarginate godono invece di un diritto alla salute e a una decente qualità di vita che sarebbe compromesso dal divieto della sperimentazione animale.
9
La legge sulla sperimentazione animale danneggia la ricerca italiana e l'economia del Paese: recependo la direttiva europea in modo più restrittivo, la legge procurerà una procedura di infrazione da parte della Unione Europea ed escluderà i ricercatori italiani dai finanziamenti competitivi per programmi di ricerca che possono portare sviluppi innovativi in campo biomedico, in quanto i ricercatori italiani non saranno in grado di realizzare ricerche necessarie a validare i risultati di qualunque studio che abbia un potenziale di applicazione all'uomo (inoltre l'entrata in vigore di tale legge potrebbe costringere alcuni gruppi di ricerca a restituire finanziamenti). La legge sulla sperimentazione animale farà regredire le scienze biomediche e la medicina clinica italiane: i ricercatori e medici italiani non potranno insegnare nuove tecniche chirurgiche o studiare gli effetti di nuove droghe sintetiche o controllare gli effetti tossici di terapie cellulari avanzate, eccetera.
10
La legge sulla sperimentazione animale favorirà la ricerca clinica senza scrupoli sui pazienti: come dimostra la vicenda Stamina, se non si consente di acquisire informazioni precliniche sulla sicurezza ed efficacia dei trattamenti, sussiste il rischio concreto che personaggi senza scrupoli sperimentino le loro pseudo-cure direttamente su pazienti e bambini. In questo modo l'etica medica viene fatta regredire a stadi di inciviltà: sulla base di ragionamenti apparentemente non violenti si ammettono come preferibile il dolore e le sofferenze umane, pur di non consentire ricerche su animali.
Università di Milano e Roma

Il Sole 24 Ore Domenica 12.1.14
il problema della demarcazione
Come si individua la pseudoscienza
di Alessandro Pagnini


Stamina è un caso di "pseudoscienza", di "cattiva scienza" o di "falsa scienza con frode"? Nel nostro modo comune di affrontare certi problemi di plausibilità scientifica o di efficacia terapeutica non ci preoccupiamo gran che delle differenze e delle definizioni. Tuttavia un conto è sostenere il Disegno Intelligente rappresentando disonestamente come fallace la teoria dell'evoluzione solo perché si vuole impedire che un'educazione scientifica possa progressivamente sostituire un'educazione religiosa (che fa di certe spiegazioni ultime e di certi "misteri" la sua ragione); un conto è difendere una cura omeopatica credendo davvero nella sua efficacia; un altro ancora è lucrare sulla dabbenaggine e la disperazione della gente contrabbandando per scienza un'illusione.
Eppure se dovessimo dire quale dei casi citati è socialmente meno dannoso, soprattutto dopo aver riflettuto sulla ricca e documentata rassegna di esempi storici di "falsa scienza" che Silvano Fuso ci racconta, forse dovremmo dire il primo. Perché il Disegno Intelligente lo si può trattare a tavolino, magari con in mano qualche libro di supporto alle nostre argomentazioni; mentre gli altri costano: costano risorse economiche (per controlli alla fine inutili), costano tempo (e il tempo può a sua volta costare salute e vite umane), e soprattutto costano perché insinuano in menti deboli e ignoranti il tarlo dello scetticismo e della sfiducia nella scienza. Ecco perché, da Hume in poi, i filosofi moderni hanno considerato importante quello che Popper battezzò come "problema della demarcazione". Finché però, nell'83, un saggio del filosofo e storico della scienza Larry Laudan ne decretò la "demise", ritenendolo uno "pseudoproblema" che nulla aggiunge, se non per una sua valenza emotiva e retorica, al problema della distinzione «tra una conoscenza affidabile e una conoscenza non affidabile», o ai tradizionali problemi relativi al controllo empirico di una ipotesi.
Oggi, a distanza di trent'anni, a dispetto della sua fortuna (qualcuno, non a caso di vocazione religiosa, lo ha addirittura considerato «uno dei saggi più importanti nella filosofia della scienza del XX secolo»), i contenuti del saggio di Laudan appaiono poco convincenti, talvolta concettualmente confusi, e i suoi argomenti, come anche le sue sinossi storiche, tutt'altro che incontestabili. Meno ancora appare accettabile il verdetto con cui esso liquida come inutile o fuorviante un interesse epistemologico sulla demarcazione. Lo si evince dalla raccolta di saggi curata da Pigliucci e Boudry che si concentra sul problema particolare di una possibile definizione di "pseudoscienza".
Va detto subito che nessuno degli autori che intervengono nella discussione pretende di aver trovato, né ritiene si possano trovare, i criteri necessari e sufficienti affinché si possa dire in assoluto di una teoria o di un'ipotesi se è scientifica o pseudoscientifica. E i più sembrano concordi nel differenziare i criteri di demarcazione tra ambiti di conoscenza diversi (tra scienze mediche, scienze fisiche e scienze della vita, per esempio), nel rispetto della specificità delle loro teorie, delle loro leggi (quando ci sono) e dei loro metodi. I più sono anche concordi nel riconoscere che il problema riguarda meno la logica o la metafisica che non una ragion pratica. Ma l'idea di tutti è che quella demarcazione si abbia da fare; e che, anzi, non solo sia resa urgente dalle policies nella sanità, dall'allocazione delle risorse in medicina e negli investimenti per la tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, da scelte e priorità nell'educazione, da questioni legali riguardo alle frodi e da questioni etiche sul tipo di modelli cognitivi destinati a orientare i nostri comportamenti e le nostre decisioni, ma che di fatto sia (spesso tacitamente) presupposta in gran parte delle nostre considerazioni e dei nostri atteggiamenti normativi e valoriali, e non solo quando si parla del ruolo della scienza e dello scienziato nella società. Questo significa che il problema della demarcazione ci sfida a trovare soluzioni orientative, certo fallibili e revedibili, ma che riguardano in astratto e in generale una definizione di scienza (sia pure in termini di "somiglianze di famiglia" tra le sue unità), del tipo di quelle utilmente adottate, per esempio, dalla National Academy of Sciences, che periodicamente si premura di render pubblici dei criteri in base a cui valutare la "buona" condotta degli scienziati. Ciò non ammonta a riesumare il mito del Metodo con la M maiuscola, inteso come algoritmo per dedurre verità; quello che Joseph Agassi icasticamente definì una «science sausage machine» (una macchina per fare scienza simile a quella che fa uscire le salsicce da un impasto prescritto in una ricetta). Serve solo a ricordarci che negare il Metodo non appiattisce la scienza su altre forme di conoscenza o di attività umana. Le differenze ci sono, ed è nostro obbligo, anche morale, renderne conto.
Non sto a elencare i numerosi spunti di grande interesse e attualità che questi due libri ci forniscono sia per comprendere le pseudoscienze sia per comprendere la scienza, e intendo concentrarmi brevemente su una domanda: c'è, nell'evoluzione cognitiva umana, una tendenza "naturale" all'irrazionalità, alla pseudoscienza, come qualcuno sostiene? La mente umana è equipaggiata di euristiche semplici e veloci, le cui operazioni configurano una razionalità adattativa, ecologica. Tuttavia quando queste euristiche operano per risolvere problemi cognitivi astratti e complessi che richiedono una più lenta riflessione, se non c'è il vaglio di una razionalità normativa basata sulla logica e la probabilità, allora l'esito irrazionale diventa quasi inevitabile. Spesso l'autorità epistemica riconosciuta a una pseudoscienza è una scorciatoia alla fine della quale il pensiero trova l'approdo pigro di una credenza. I rimedi non possono che essere a livello normativo ed educativo, e non possono che consistere nel favorire, pervasivamente, una forma mentis in cui logica, ragionamento, argomentazione ed etica (molto convincente, nel volume sulla pseudoscienza, l'argomentazione del logico Van Bendegem … per un'«etica dell'argomentazione») trovino una loro naturale consistenza.

Massimo Pigliucci & Maarten Boudry (eds.), Philosophy of Pseudoscience. Reconsidering the Demarcation Problem, Chicago, University of Chicago Press, pagg. 470, £ 24.50.
Silvano Fuso, La falsa scienza, Roma, Carocci, pagg. 302, € 21,00.

Il Sole 24 Ore Domenica 12.1.14
I saperi in Parlamento
Umanisti e scienziati: 77 a 23
di Lamberto Maffei


Il buon senso, se ancora è possibile parlarne nella nostra Italia, suggerirebbe che i cittadini, con le loro varie professioni e mestieri, fossero ugualmente rappresentati nel parlamento, affinché tutte le istanze, richieste, esigenze fossero portate avanti e sostenute con uguale impegno e competenza.
Fatto salvo questo principio di democrazia non si può ignorare che la scienza e il sapere scientifico sono vergognosamente trascurati nel nostro Paese e le facoltà scientifiche vedono diminuire il numero degli studenti. Ora è indubbio che il futuro sociale ed economico, con le problematiche emergenti a livello mondiale, trova e sempre più troverà, nella scienza un punto di forza. Non a caso molte nazioni cercano di potenziarla sia nell'educazione che nella ricerca, mentre nel nostro Paese gli investimenti in questi campi vengono continuamente tagliati e l'Ocse ci ricorda che le nostre capacità matematiche, tecniche e persino la nostra capacità di lettura e comprensione sono al di sotto della media europea e che noi dedichiamo solo l'1,2% del Pil per istruzione e ricerca.
Ci si può domandare il perché di questa situazione in un Paese la cui storia è segnata da vette di eccellenza in tutti campi della cultura? Nel tentativo di trovare una risposta ho preso in esame la distribuzione dei titoli di studio nei 630 parlamentari della camera dei deputati: laureati 68,41% (431); muniti di diploma di istruzione secondaria superiore 25,71% (162); con la sola licenza media 1,27% (8), mentre il 4,60% (29 deputati) non indica il titolo di studio.
In ordine alle aree disciplinari dei laureati la formazione umanistica è assolutamente prevalente (il 77,7%), con predominanza della laurea in giurisprudenza (128), seguita da scienze politiche, economia, filosofia, lettere, lingue, scienze della comunicazione e storia.
Tra i 96 (ovvero il 22,3%) laureati di formazione scientifica prevale la laurea in ingegneria (34), seguita da medicina (20), e con peso decrescente architettura, chimica, fisica, informatica, scienze agrarie, scienze geologiche, farmacia, medicina veterinaria, scienze infermieristiche, scienze forestali, scienze statistiche biotecnologie fisioterapia pianificazione territoriale scienze biologiche, scienze naturali scienze e tecnologie per l'ambiente.
Il numero degli "scienziati" è veramente esiguo. Viene il dubbio allora che a livello politico il sapere scientifico e la scienza vengano trascurati perché non sono rappresentati. Predominano gli esperti nell'arte del linguaggio e, maliziosamente, si potrebbe dire che questa è la loro principale professionalità. Come si può sperare che un umanista verosimilmente in difficoltà nelle materie scientifiche, ne difenda l'incentivazione?
Ma si può azzardare un'ipotesi ancora più pericolosa e cioè che l'assenza di conoscenza o di interessi scientifici porti inevitabilmente i parlamentari a legiferare tenendo conto dei desideri popolari spesso influenzati, nel migliore dei casi, da pregiudizi e ignoranza. Votare una legge contro gli Ogm o contro l'uso di animali per la ricerca medica o a favore di ipotetiche terapie immaginarie, (esemplare di recente il caso stamina) risulterà quindi poco faticoso ed elettoralmente redditizio. In questa maniera i pregiudizi e ignoranza dei cittadini vengono automaticamente rinforzati con totale disprezzo dell'educazione e del sapere.
Da quanto detto risulta molto probabile che quando una legge riguardante problematiche scientifiche viene posta in votazione alle camere, la conoscenza del problema è nulla o quanto meno scarsa.
In questo contesto ha riscosso interesse e approvazione la recente proposta, apparsa sul sole 24 ore di domenica 8 dicembre (articolo di A. Massarenti) di considerare un senato della cultura cioè di competenti che analizzano criticamente e tecnicamente problemi in questioni fuori da influenze politiche o lobbi interessate, prima che questi passino alle valutazione dei politici che avrebbero il vantaggio di decidere conoscendo il problema.
«Conoscere per deliberare» come suggeriva la saggezza di Einaudi, mi sembra un dovere ineludibile.
Presidente dell'Accademia dei Lincei

Il Sole 24 Ore Domenica 12.1.14
Verso la giornata della memoria
La Resistenza della Danimarca
Settemila ebrei si salvarono nell'ottobre del '43 attraversando lo stretto di Øresund:
il popolo danese, racconta Bo Lidegaard, si oppose all'operazione di pulizia etnica
di Sergio Luzzatto


L'8 settembre della Danimarca fu inaugurato da un telegramma. Era il telegramma inviato a Berlino da Werner Best, giovane ufficiale delle SS che Hitler aveva nominato da poco, in quell'estate 1943, plenipotenziario del Reich a Copenaghen. «Una coerente attuazione del nuovo corso in Danimarca comporta adesso, a mio parere, una risoluzione della questione ebraica nel Paese»: così Best telegrafava a Berlino, e tutto lasciava intendere che la risoluzione della faccenda coincidesse anche lì con la Soluzione finale. Invece no. La storia prese tutt'altra piega. Per gli ebrei locali – diversamente che in Italia – l'8 settembre '43 segnò l'inizio di una tragedia a lieto fine.
Ormai da tre anni e mezzo la Danimarca era stata occupata dai tedeschi sotto uno strano regime di compromesso, una specie di occupazione pacifica per cui il Reich non aveva dichiarato lo stato di guerra né si era assunto la responsabilità degli affari interni danesi. A differenza che in Norvegia, dove la monarchia e il governo costituzionale erano stati deposti con l'avvento del collaborazionista Quisling, in Danimarca il re Cristiano X era rimasto sul trono e le istituzioni democratiche avevano continuato a funzionare. I tedeschi avevano tenuto quasi soltanto a garantirsi, attraverso il controllo dello stretto di Øresund, la regolarità delle comunicazioni dal mar Baltico al mare del Nord, e inoltre un accesso diretto alla produzione agricola danese.
Ma nell'agosto 1943 il precario equilibrio dell'occupazione pacifica si era infranto contro un'ondata di sabotaggi, scioperi, sommosse, cui i tedeschi avevano risposto instaurando la legge marziale. E scatenando infine la caccia – anche in Danimarca – contro il nemico per eccellenza, l'orrido giudeo: contro i sette-ottomila ebrei presenti allora sul territorio danese. Tremila circa di questi discendevano da famiglie insediate fin dal Seicento e appartenevano a un'élite assimilata. Circa altrettanti, i cosiddetti «ebrei russi», erano arrivati all'inizio del Novecento fuggendo la povertà e i pogrom dell'Europa orientale. Mille e passa erano giunti di recente: profughi tedeschi, austriaci, boemi, in fuga dalla persecuzione nazista.
Uomo di fiducia di Himmler, il «dottor Best» – come rispettosamente veniva qualificato a Copenaghen – sapeva quel che il capo delle SS si aspettava da lui: un personale contributo all'opera di disinfestazione razziale, la liquidazione degli ebrei dalla Danimarca verso le terre dello sterminio. Senonché Werner Best era un ufficiale nazista particolarmente colto, sensibile, e scaltro. A fine settembre '43, quando ricevette da Berlino l'ordine esplicito di procedere all'arresto e alla deportazione di tutti gli ebrei «purosangue», Best ebbe l'intelligenza di capire che la Danimarca non era, agli effetti della Soluzione finale, un Paese d'Europa come un altro. Decise allora di intraprendere un temerario doppiogioco. In apparenza, promosse l'operazione di pulizia etnica. In sostanza, procurò di limitarne la riuscita.
Ciò che rendeva la Danimarca un Paese diverso era una diversa concezione del "noi" e del "loro". Agli occhi dell'opinione pubblica, l'altro da sé non era l'israelita, cittadino danese o profugo straniero, che partecipava di una diaspora millenaria: l'alieno era il nazista, tedesco o indigeno, che designava l'ebreo come un «sottouomo». Così, proprio l'avvio dell'operazione antiebraica suscitò in Danimarca – dopo tre anni e mezzo di attendismo, o di larvato collaborazionismo – un movimento spontaneo di resistenza civile. E generò, rispetto ad altri contesti di persecuzione degli ebrei d'Europa durante la Seconda guerra mondiale, una configurazione originale del rapporto tra carnefici, vittime e spettatori.
Sapientemente ricostruita ed efficacemente raccontata, è questa la storia che si legge nel libro di Bo Lidegaard, Il popolo che disse no: è l'avventurosa storia del salvataggio di massa di quei sette o ottomila ebrei di Danimarca. Entro le prime due settimane dell'ottobre 1943 la stragrande maggioranza di loro poté traversare lo stretto di Øresund e raggiungere la Svezia, la cui neutralità nella guerra equivaleva alla salvezza. Gli ebrei furono indirettamente aiutati dagli uomini delle istituzioni, che rifiutarono di prestare ai tedeschi qualunque tipo di assistenza politica, militare, culturale. Furono indirettamente aiutati da uomini di chiesa come il vescovo di Copenaghen, che contro la violazione nazista del diritto fece appello alla libertà di coscienza del suo gregge. Soprattutto, gli ebrei furono aiutati dal soccorso diretto della gente comune. Inseguite dai carnefici, le vittime vennero assistite dagli spettatori, che in Danimarca non rimasero tali.
Si prenda un posto come Gilleleje, villaggio di pescatori all'estremo nord dello stretto di Øresund. Millesettecento anime che da un giorno all'altro si trovano ad accogliere – a nascondere, a scaldare, a nutrire, infine a imbarcare – diverse centinaia di ebrei sconosciuti, danesi o stranieri, uomini donne vecchi bambini. Certo, per i pescatori di Gilleleje la rotta degli ebrei braccati dalla Gestapo corrisponde a una benvenuta opportunità economica: pur di salire su una barca e arrivare in Svezia, i profughi sono pronti a sborsare fino all'ultima corona che resti loro in tasca. Ma i soldi versati ai pescatori non bastano per spiegare la nascita, a Gilleleje, di un «Comitato ebraico» animato dal meccanico Petersen e dal droghiere Lassen insieme al falegname del villaggio, al maestro di scuola, al medico condotto e al presidente del consiglio parrocchiale. I soldi non spiegano la mobilitazione di una comunità locale che, salvando la vita agli ebrei fuggiaschi, intende salvarsi come comunità umana.
La notte del 6 ottobre soldati della Gestapo avevano fatto irruzione nella chiesa di Gilleleje, avevano arrestato ottantacinque ebrei precariamente nascosti in quel luogo sacro, ne avevano disposto la deportazione verso il ghetto boemo di Terezin, anticamera dei Lager. La nascita del Comitato ebraico di Gilleleje costituiva una risposta a questo schiaffo. Non rappresentava soltanto un gesto di solidarietà verso sconosciuti ebrei in fuga: era anche un gesto di rivendicazione del l'identità comunitaria. Era una mobilitazione in difesa dei valori non negoziabili su cui tale identità si fondava.
Lungo le coste danesi dell'Øresund si moltiplicarono esperienze collettive di salvataggio come quella di Gilleleje. In totale, nei primi quindici giorni dell'ottobre '43, le traversate in barca organizzate clandestinamente furono circa settecento: e circa settemila furono gli ebrei che così scamparono in Svezia ai colpi della Soluzione finale. Mentre nessuno dei settecento trasporti illegali (neanche uno!) fu intercettato dalle pattuglie della Marina tedesca.
L'inefficacia dei pattugliamenti navali si spiega, prima di tutto, con il sottile doppiogioco del dottor Best. Il plenipotenziario germanico riuscì allora a convincere perfino Adolf Eichmann, giunto in missione a Copenaghen, che gli ebrei di Danimarca stavano meglio dispersi per le città della Svezia che ammassati nei ghetti di Boemia o nelle camere a gas di Polonia. Ma a un livello più profondo, l'improbabile inefficacia dei pattugliamenti lungo l'Øresund – e l'inusuale arrendevolezza di un uomo come Eichmann – si spiegano attraverso una dinamica propriamente politica. In Danimarca, il Terzo Reich rinunciò a realizzare la Soluzione finale per una ragione molto semplice, insopportabilmente semplice: perché fu posto di fronte all'opposizione di un popolo intero.
Bo Lidegaard, Il popolo che disse no.
La storia mai raccontata di come una nazione sfidò Hitler e salvò i suoi compatrioti ebrei, traduzione di Giuseppe Maugeri, Garzanti, Milano, pagg. 440, € 22,00

Il Sole 24 Ore Domenica 12.1.14
Secondo dopoguerra
L'Europa in un abisso di sangue e vendetta
di Vittorio Emanuele Parsi


«L'immediato dopoguerra è uno dei periodi più importanti della nostra storia recente. Se la Seconda guerra mondiale distrusse il vecchio continente, il primo dopoguerra fu il caos proteiforme da cui si formò la nuova Europa». È dedicato esattamente allo studio di «questo tempo violento e vendicativo» nel quale «molte delle nostre speranze, aspirazioni, pregiudizi e risentimenti presero forma», il volume di Keith Lowe, che assai tempestivamente esce in edizione italiana, Il continente selvaggio. L'Europa alla fine della Seconda guerra mondiale. È un colossale, impressionante affresco delle condizioni europee tra il 1944 e il 1949, gli anni in cui per diversi Paesi europei si concluse la II guerra mondiale, senza che però si esaurissero le tante guerre locali (civili, di classe ed etniche) che ne intrecciarono il corso, alimentandola ed essendone a loro volta alimentate.
Il libro, magistralmente scritto da Keith Lowe, uno storico non accademico che dimostra tutte le qualità di scrupoloso ricercatore e di suggestivo narratore di Niall Ferguson, è diviso in quattro parti. La prima, dedicata all'eredità della guerra con il suo carico di distruzione fisica e morale, descrive con lucidità il paesaggio di un continente devastato dalla scomparsa di popoli interi, caratterizzato da una fame che sarebbe oggi inconcepibile associare all'Europa, da spostamenti forzosi e violenti di milioni di persone in uno scenario di caos totale, in cui città rase al suolo e infrastrutture devastate hanno riportato la condizione umana ai tempi più bui del Medioevo.
L'Europa tutta era un continente senza legge né ordine, in cui il sangue sarebbe cessato di scorrere solo mesi e talvolta anni dopo l'8 maggio del 1945, data della capitolazione tedesca. La sete di sangue rinfocolata o scatenata dalla brutalità senza precedenti con cui venne condotta la guerra, provocò una volontà di vendetta che attraversò l'intera Europa. Ed è proprio alle forme della vendetta che è dedicata la seconda parte del libro, e ne fa il primo studio generale sul ruolo che la vendetta giocò all'indomani della guerra, colmando un vero e proprio vuoto storiografico, finora prevalentemente oggetto di pamphlet partigiani e superficiali. Dalla questione della sorte dei prigionieri di guerra germanici allo sfruttamento schiavistico delle minoranze tedesche in Polonia, Cecoslovacchia, a quello delle epurazioni nei confronti dei collaborazionisti: ogni singolo aspetto della vendetta sui vinti è preso in considerazione e indagato con scrupoloso rigore, compresi i temi scomodi delle violenze degli ex internati ebrei e dei deportati nei confronti dei propri carcerieri e della popolazione tedesca più in generale, oltre a quello, particolarmente odioso, della vendetta su donne colpevoli di avere "fraternizzato" con gli occupanti e sui bambini frutto di quelle unioni.
La terza parte considera la gigantesca questione della pulizia etnica che, iniziata da Hitler nei confronti degli ebrei, venne poi proseguita da polacchi, cechi, magiari, romeni trasformando l'Europa centro-orientale in qualcosa di radicalmente diverso da quel caleidoscopio etnico e religioso che era sempre stata. L'ultima parte, infine, è dedicata alla lotta per fare dell'esito della II guerra mondiale la piattaforma per la diffusione della rivoluzione in tutta Europa, contrassegnata dalle scelte democratico-parlamentari delle dirigenze comuniste in Italia e Francia, dalla tremenda guerra civile greca, dall'assoggettamento al potere comunista di tutti i Paesi occupati dall'Armata Rossa e dall'eroica resistenza opposta per oltre un lustro dalle forze partigiane in Ucraina e nei Paesi Baltici.
Quello di Lowe è un libro mai banale e sempre documentatissimo, che ha riscosso un grande successo di pubblico e di critica, e che, soprattutto, ci aiuta a ricordare in quale abisso d'orrore era scivolata la "civilissima" Europa così da poter meglio apprezzare la grandiosità politica e morale della sua attuale unificazione politica.
Keith Lowe, Il continente selvaggio. L'Europa alla fine della Seconda guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari, pagg. 518, € 25,00

Il Sole 24 Ore Domenica 12.1.14
Gli ismailiti tra Allah e Zoroastro
di Farian Sabahi


Lo studioso francese Henry Corbin (1903-1978) è noto soprattutto per gli studi sullo sciismo duodecimano. Meno noti, ma non meno decisivi, i suoi lavori su un altro ramo dello sciismo, noto come ismailismo: una corrente minoritaria, divisa in sottogruppi e spesso travisata perché associata alla setta di Hassan Sabbah nella fortezza di Alamut (a un centinaio di chilometri dall'odierna Teheran), i cui componenti sono stati spesso accusati di ricorrere all'hashish per compiere omicidi mirati, per poi essere spazzati via dai Mongoli nel 1256.
Ora, a fare giustizia sugli studi di Corbin sull'ismailismo è la pubblicazione da parte di Mimesis della raccolta Tempo ciclico e gnosi ismailita che contiene tre saggi dati alle stampe in francese nel 1982 e adesso in italiano: «Il tempo ciclico nel mazdeismo e nell'ismailismo», «Epifania divina e nascita spirituale nella gnosi ismailita», e «Dalla gnosi antica alla gnosi ismailita». Le questioni trattate sono il tempo ciclico, l'angelologia, la nascita spirituale e la visione teofanica. In una prospettiva ampia e comparativa, «volta a far uscire l'uomo contemporaneo dal suo esilio occidentale».
Dal 1945 Corbin trascorre lunghi periodi a Teheran e, come per altri scritti sullo sciismo duodecimano, anche in questi sul l'ismailismo lo studioso accentua il carattere iranico: attaccate dagli arabi musulmani, le popolazioni dell'altopiano iranico non possono che accettare l'Islam. Nel farlo reinterpretano la religione rivelata al profeta Muhammad, facendo tesoro del mazdeismo, dello zoroastrismo e dello zervanismo già presenti sull'altopiano. Per questo motivo il monoteismo iraniano non è rigido (come sarà il sunnismo, in altre parti del mondo musulmano) ma pluralistico, in grado di accettare gli Imam. E non solo.
Henry Corbin, Tempo ciclico e gnosi ismailita, a cura di Roberto Revello, introduzione di Bernardo Nante, Mimesis, Milano, pagg. 234, €20,00

Il Sole 24 Ore Domenica 12.1.14
Povero, folle Francesco
di Goffredo Fofi


«Tutto è miracolo», grida il Francesco di Nikos Kazantzakis. Lo ripeterà, dal suo letto di morte, il povero parroco di campagna di Bernanos, non meno afflitto dalla coscienza dei mali del mondo e dell'uomo perché in tempi assai diversi da quelli del Poverello, meno portati alla comprensione del sacro: «Che importa? Tutto è grazia.» È in questo miracolo, in questa grazia che Kazantzakis immerge la vita del santo di Assisi, in un romanzo che è piuttosto una agiografia, benché di misura e di sostanza assai diverse da quelle che si ammucchiano sugli scaffali delle librerie cattoliche. Egli ci racconta il miracolo e la grazia del vivere, il dono del vivere ma anche le sue pene, le sue tentazioni – quelle della mente più pesanti e complesse di quelle del corpo – affrontate da un personaggio d'eccezione cui lo scrittore greco non attribuisce bensì le idee del nostro tempo e di cui non intende forzare l'interpretazione delle vicende essenziali ed esemplari, note a tutti o quasi a tutti. Era forse questo il limite di L'ultima tentazione di Cristo (1951) reso famoso per una riduzione cinematografica di Martin Scorsese (1988) che peccava di qualche retorica esteriorità dimostrando ancora una volta l'inferiorità del cinema, anche del più ambizioso, sulla letteratura, soprattutto quando il cinema vuol farsi pensiero, dimostrazione e racconto del pensiero. Ma il romanzo era un grande romanzo, come altri dello scrittore greco, sempre diviso tra Gesù (Gesù come Cristo) e Nietzsche, come nel celeberrimo Zorba il greco (1946) più nicciano che cristiano, un romanzo che divenne best-seller internazionale grazie al film che ne trasse Cacoyannis contrapponendo il pallido intellettuale Alan Bates all'uomo di natura Anthony Quinn che vuol essere il libero padrone del proprio destino, nonostante tutto, e come Cristo di nuovo in croce (1954), che attualizzava il sacrificio di Gesù in tempi di guerre e occupazioni moderne e che fu tradotto in un film non eccelso da Jules Dassin nel 1957 (Colui che deve morire), e forse come quel Capitan Michele del 1950, tradotto in Italia per Martello nel 1956, che non conosco ma che non doveva essere neanche questo un romanzo accomodante rispetto alle religioni fatte chiesa, se fu detestato e condannato dalla chiesa greca ortodossa almeno quanto il Cristo di nuovo in croce da quella cattolica, che lo mise all'indice in tutta fretta. Per il poco che conosco dell'altra grande opera di Kazantzakis, una moderna Odissea in 33.333 versi, anche lì il tema religioso vi è dominante, nell'incontro con le figure dei massimi tra i profeti ispiratori delle grandi religioni, ma anche con le grandi figure dell'invenzione letteraria come Don Chisciotte.
Già nota come Il poverello di Dio, che è il titolo originale del libro, questa biografia di san Francesco viene riproposta in nuova traduzione, che sembra ottima (le precedenti erano di Costantino Nikas per un istituto di studi religiosi e di Francesco Maspero per Mondadori e Piemme) da Crocetti come risposta alla voga francescana aperta da un papa che per la prima volta nella storia della chiesa cattolica ha osato darsi quel nome e richiamarsi a quel magistero. E la sua lettura è certamente coinvolgente, per il calore e la passione con i quali in ogni sua pagina lo scrittore cerca di ritrovare il senso di una vita eccezionale, le sue gioie e i suoi tormenti, nelle occasioni più esterne come nelle più intime battaglie.
Se Kazantzakis cerca di riportarsi all'epoca in cui Francesco visse, non è per la ricerca di una credibilità storica, per la ricostruzione di un quadro storico minuzioso e attendibile, ma per penetrarne nei limiti del possibile le pulsioni più forti, un Medio Evo in cui il confronto con Dio (con la creazione) era ben diverso da quello dei nostri giorni, diventato una corrente della comunicazione, o perfino della pubblicità specialmente dopo l'immane fallimento delle utopie proclamanti la capacità dell'uomo di liberare e liberarsi con le sue forze. Non è molto importante che in questa rievocazione Lupo sia un brigante del monte della Verna, o che il modo in cui Francesco esprime la sua divina gioia e adorazione sia il ballo, musica e canto e danza insieme, in modi immaginati come assai simili a quelli dei dervisci, conta la tensione più intima e spirituale, appunto più religiosa, e la volontà di discernere quel che è di Dio da quel che è di Satana, senza rinunciare alla possibilità che anche Satana, creatura di Dio anche lui, possa venir redento e che, dunque, dal male l'umanità possa liberarsi. Conta l'amore per la vita e per le creature, per il creato, espresso in modi che possono ricordare quelli del capolavoro cinematografico di Rossellini, ispirato ai Fioretti e non alle biografie. Dai Fioretti sembra venire, anzi prender corpo, il narratore di questa Vita, frate Leone, che sembra a volte, fuggevolmente, assumere perfino i tratti di un Sancho Panza, della «spalla» necessaria al racconto, e per portare in esso il peso dei bisogni materiali e la lotta dei non-santi, dei comuni, per liberarsene. (L'episodio della zampa di maiale appare nel libro in contraddizione con l'amore e il rispetto della vita animale che c'è in tanti altri episodi, secondo la convinzione o pretesa, mai trascurata da quasi tutti i cristiani, della assoluta centralità dell'uomo nella vita del pianeta e, di conseguenza, della sua pretesa di dirigerla secondo i suoi modi e interessi…).
Il dilemma centrale resta pur sempre quello del confronto di Francesco con frate Elia e con il destino dell'ordine francescano. Dice Elia che «bisogna procedere in accordo con il tempo in cui si vive, questo è il dovere dell'uomo», mentre per Francesco «bisogna andare contro il tempo in cui si vive, questo è il dovere dell'uomo libero» (p. 377). Ma sarà Francesco a cedere e sarà Elia a vincere, lui consenziente, anche se alla fine per Kazantzakis e non solo per lui il messaggio prioritario è quello che Francesco lascia a Leone (p. 394): « "Hai detto: chi vive con i lupi deve essere lupo, e non agnello; questo hai detto, frate Leone, questo dicono gli uomini assennati; però a me Dio ha dato una follia, una nuova follia, e dico: chi vive con i lupi deve essere agnello, e lo divorino pure! Come si chiama quella cosa immortale che c'è dentro di noi?" "Anima". "Quella, frate Leone, non la possono divorare."»
Il Francesco di Kazantzakis non è forse il capolavoro letterario del grande scrittore greco, ma è di grande forza e spesso di grande poesia. E si presta assai bene a riflessioni oggi attuali perché sempre attuali.
Nikos Kazantzakis, Francesco, traduzione di Valentina Giraldi, Crocetti, pp. 402, € 16,00.

Il Sole 24 Ore Domenica 12.1.14
All'ombra del giardino islamico
Molte artiste contemporanee riscoprono e reinventano il rapporto della donna con quella che era un'oasi al riparo da sguardi estranei, ma non, come si crede, luogo di estenuati piaceri
di Pia Pera


Il primo film dell'artista iraniana Shirin Neshat, Donne senza uomini (2009), tratto dall'omonimo romanzo di Shahrnush Parsipur, è intessuto d'immagini in cui fluttua la memoria di un passato in cui il giardino era per la donna grembo e rifugio, ma anche specchio di una condizione. Una protagonista, emula di Dafne, si trasforma in albero diventando il centro di gravità di altre quattro in fuga dalla violenza maschile. Nel volgersi alla Natura riproducono tuttavia l'isolamento di una società di sole donne. Tutte salvo una, quella che, sposato il Giardiniere Gentile, genera con lui un fiore. E riafferma il legame tra donna e giardino.
Anna Vanzan ricorda questa come altre opere di artiste contemporanee di matrice islamica per raccontare come, da Kabul a Beirut, molte donne stiano realizzando orti sociali e spazi pubblici, riaffermando il rapporto col giardino. Scoprendone la matrice originaria: il cosiddetto giardino islamico risale infatti alla Persia zoroastriana anteriore alla conquista arabo-islamica. Residuo di un mondo precoranico, oasi al riparo da sguardi estranei, mondo altro rispetto a quello dei vincitori, è memoria di un precedente e in parte perduto paridaiza, il giardino cintato in cui donne e uomini potevano anche giocare ad armi pari. Pure le dimore di Circe e Alcina sono immerse in ameni giardini, visti tuttavia nella nostra cultura come pericolosamente seducenti, luoghi capaci di stregare il valore maschile, spegnere la sete di eroiche imprese, far cadere nell'oblio le cure terrene.
Mentre non avviene così nell'Islam, e chissà non sia la diversità di contesto ambientale a spiegare la minore apprensione di fronte ai piaceri offerti da una natura sapientemente orchestrata. Certo quando il paesaggio dominante è il deserto - al-sahara - anche un semplice ciuffo di palme intorno a una sorgente parrà giardino, occasione di vita e ristoro, non certo insidia. La tranquillità di fronte al giardino potrebbe tuttavia avere anche un altro motivo: come ricorda Anna Vanzan, Adamo è nel Corano altrettanto responsabile di Eva per avere ceduto all'inganno del diavolo: non la donna induce l'uomo a mangiare il frutto proibito, non è lei la tentatrice e ingannatrice, non istiga l'uomo a disubbidire al suo Creatore, né gli si ribella. E così anche dal giardino non può arrivare altro che bene: negli ospedali psichiatrici islamici i malati di mente venivano ospitati in stanzette che davano da un lato su un angolo fiorito, dall'altro su un cortile con fontane. Così nel manicomio di Edirne visitato nel 1651 dal grande viaggiatore turco Evliya Celebi. Il giardino riservato dal Corano ai giusti ha fiumi d'acqua incorruttibile, sorgenti abbondanti, ombre rinfrescanti e splendidi tappeti verdi, fiori senza spine e frutti d'ogni genere. Il giardino terreno è hortus conclusus, ideale per celare a sguardi estranei la vita privata, la presenza femminile. Non è però, come nella visione orientalista, luogo di molli, estenuati piaceri. Al contrario, è teatro di operosità intensa.
Se le case dei mussulmani sono generalmente spoglie, il cortile-giardino è arredato con recipienti in metallo o marmo, fontane, gabbie per gli uccellini, abbellito dai delicati intarsi lignei alle finestre. Perché è qui che scorre la vita, come testimoniato anche da fonti letterarie e pittoriche, qui che le donne cucinano, cardano la lana, zangolano il burro, tessono, partoriscono, lavano i panni, filano, mondano verdura e cereali, badano ai bambini. Certo possono chiacchierare, fare musica, leggere, danzare. Ma non al modo di certa letteratura e pittura orientalista - esemplari le tele di Fabio Fabbri e Benjamin Constant - dove in giardino si coltiva la lussuria, non si fa altro che fumare, bere caffè, farsi leggere la fortuna e intrattenere da musici e ballerine. Un altrove in cui incarnare sogni maschili di spensierato e grossolano piacere è stato vagheggiato anche dall'islam, e non solo in certi racconti delle Mille e una notte: in una leggenda di segno contrario a quella rappresentata dall'albero della fertilità nell'affresco duecentesco di Massa Marittima, con falli appesi ai rami, si favoleggiava di certe isole tropicali dove cresceva un albero, il waq waq, che produceva frutti d'aspetto femmineo.
Anzi, vere e proprie donne però mute, a parte appunto il verso wak-wak, appese ai rami per i capelli, a disposizione degli uomini che potevano staccarle dall'albero e goderne a loro piacere. Ma si tratta appunto di un altrove. Di norma il giardino è scenario d'incontri gentili, vi sbocciano teneri amori il cui emblema sono la rosa e l'usignolo: gol-o-bolbol nell'espressione persiana. La più celebre coppia di amanti è quella di Leila e Majnun, raffigurati fanciulli mentre, in giardino, ascoltano le parole del maestro oppure fanno i compiti: anche le bambine andavano a scuola, giacché valeva anche per loro l'ingiunzione della Sura coranica - Iqra (leggi!). Né erano escluse dallo studio dei sacri testi: la celebre mistica dell'ottavo secolo Rabi'ah al'Adawiya è resa fragrante dalle recitazioni notturne del Corano in giardino.
Alcuni splendidi giardini Moghul sono stati creati da donne. Come Nur Janan, che rimasta vedova a 34 anni sposò l'imperatore Jahangir e diresse la realizzazione di giardini a Lahore, Srinagar, Agra, aprendoli a funzioni pubbliche e commerci, divertendosi a farvi raffigurare gli occidentali nei loro esotici costumi. Tra le ottomane l'amore per il giardino era tale che alcune signore, quando si recavano in pellegrinaggio alla Mecca, si portavano appresso piccoli giardini a dorso di cammello: sbagliavo a ritenere orti e aiuole portatili un'invenzione del nostro tempo.
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Anna Vanzan Donne e giardino nel mondo islamico Angelo Pontecorboli Editore pagg. 148, € 18,oo

Il Sole 24 Ore Domenica 12.1.14
Papa Bergoglio e lo spirito del tempo
di Pietrangelo Buttafuoco


A prendersi carico di Scarpe strette, da oggi, sarà Pietrangelo Buttafuoco che si alternerà settimanalmente con Gualtiero Gualtieri, il vecchio titolare che – stanco di stroncare – ha scelto di dir bene del prossimo premiando, a sua scelta, di volta in volta, un meritevole. Con calzari più comodi e nobili: i Sandali di Hermes.
È più testimone dello Spirito del Tempo che dello spirito Santo. Papa Francesco, alla luce della scorsa Epifania, ha suggerito la furbizia per dare sapidità alla fede ma più che il Pontefice di Santa Romana Chiesa è sembrato essere solo un collega del Dalai Lama, dunque una pop star. E se questi ha la Repubblica Popolare Cinese a tenergli il muso, Papa Bergoglio – applaudito da tutti, cinesi inclusi – un pio ceffone se l'è preso dal patriarca Kirill che non cede «al canto delle sirene mondane». Proprio come un collega del Dalai Lama, Bergoglio che adotta il linguaggio del mondo apre agli omosessuali in tema di stato di famiglia e Sua Santità di Mosca e di tutte le Russie, allora – nella celebrazione del Natale ortodosso, giusto il 7 gennaio – gli ha tirato le orecchie: «Il diritto a professare la propria fede cristiana è violato in un occidente ossessionato con la questione dei diritti umani». È tutta una questione di Zeitgeist più che di crisma, e se la lingua dell'Evangelo è «sì-sì, no-no» con la rivoluzione Bergoglio in Vaticano ogni dichiarazione, ogni omelia, ogni annuncio (senza scordare le interviste autorevoli, come quella concessa a Eugenio Scalfari) diventa «non è proprio così, ma neppure no, certamente sì». La chiarezza della parola, così, finisce nel frullatore delle precisazioni e delle correzioni e delle infinite interpretazioni.
Si porta la borsa da solo, e va bene. Furoreggia nelle segreterie telefoniche di tutto il mondo, e va bene, va benissimo ed è sempre di più un collega del Dalai Lama non tanto per condividere con questi la responsabilità propria di ogni guida spirituale ma per quello stare à la page che tanto piace alla gente che piace. Cinto di agnellino al collo – senza la sciarpa arancione dei lama, perfetta per la photo opportunity con lady Obama in assenza di Carla Bruni – Papa Francesco, pastore a tal punto buono da lisciare il pelo al gregge sempre dal verso giusto, è anche un asso dei selfie, gli scatti ravvicinati fatti col telefonino. Sono ciò che più ogni altro evento, nell'accadimento dell'Essere, frantumano il pathos della distanza fissando l'Eterno nella trappola furba per eccellenza: «Fermati, attimo, sei bello!», avrebbe detto Mefistofele. «Fermati, attimo, sono Papa Francesco», sembra dire Bergoglio a ogni clic e se per caso il Tempo si ritrova distratto nello Spirito ecco, lui gli lascia un messaggio nella segreteria telefonica.

l’Unità 12.1.14
Addio artista burbero
Ci lascia Arnoldo Foà gigante del nostro ’900
di Rossella Battisti