lunedì 13 gennaio 2014

l’Unità 13.1.14
La partita del Letta-bis
Il caso De Girolamo avvicina il rimpasto. Lei si difende: pronta a chiarire
Intervista a Speranza: «Basta con i problemi personali dei ministri»
Delrio apre a nuovo esecutivo. Saccomanni: non lascio
articoli di Fusani e Zegarelli


l’Unità 13.1.14
Settimana cruciale per la legge elettorale. Il Cavaliere tentenna
Entro mercoledì le motivazioni della Consulta sul Porcellum
Boschi: «Renzi e Verdini si sono sentiti». Berlusconi punta sul sistema spagnolo
Alfano e Scelta Civica premono per il doppio turno
di Federica Fantozzi


Repubblica 13.1.14
Legge elettorale, oggi vertice del Pd Renzi apre all’intesa di maggioranza
“Ma basta meline o tratto con Silvio”
Decisive le motivazioni della Consulta, forse in giornata il verdetto
di Goffredo De Marchis


ROMA — Matteo Renzi riunisce subito il Pd. Non vuole aspettare la direzione di giovedì. Oggi arriva a Roma e ha convocato, stasera alle 8 e mezzo a Largo del Nazareno, i capigruppo, gli uffici di presidenza e i referenti democratici nelle commissioni parlamentari. All’ordine del giorno il patto di governo. Sottotitolo: la legge elettorale, il tema che gli sta più a cuore. «Il mio sistema preferito è lo spagnolo», spiega il segretario ai fedelissimi che lo sentono tutti i giorni. Un modello quasi bipartitico, quindi super bipolare. Lo stesso che piace a Berlusconi. «Ma del Cavaliere non mi fido quindi sono pronto a ragionare anche del doppio turno», aggiunge Renzi. Vale a dire, il sistema che metterebbe d’accordo la maggioranza di governo, che Angelino Alfano sponsorizza come unica scelta e che, per salvare l’esecutivo, è stato “adottato” anche da Enrico Letta.
Il doppio turno è la proposta storica del Partito democratico. Avrebbe perciò la strada spianata all’interno delle varie correnti del Pd. Il punto però sono i rapporti di fiducia instauratisi nella coalizione. «I tempi per me sono importantissimi. Se dovessi capire che Alfano svicola, rinvia o mette dei veti, mi tengo la porta aperta dell’accordo con Berlusconi. Va rispettata la scadenza del 27 gennaio in aula alla Camera. Non posso permettermi di perdere la faccia accettando slittamenti ». Per questo Renzi tiene «l’arma carica» del dialogo con Forza Italia. Per far capire ad Alfano che non accetta dilazioni. L’incontro con Berlusconi viene rimandato. Il sindaco non lo esclude ma lo immagina come la fine di un percorso. «Semmai dovessimo sederci a un tavolo con lui sarà per sottoscrivere un’intesa già preparata. E non saremo soli: coinvolgerò tutte le forze che condividono la stessa riforma».
Adesso bisogna solo aspettare le motivazioni della sentenza con cui la Corte costituzionale ha cancellato il premio di maggioranza del Porcellum. Il presidente Gaetano Silvestri e il relatore Giuseppe Tesauro le avrebbero già pronte nel cassetto. Elaborate dopo un lungo confronto perché la sentenza èa suo modo “storica”: coinvolge il rapporto tra governo e Parlamento (la governabilità), il rispetto della sovranità popolare, il legame tra cittadini ed eletti. I princìpi-cardine di una Costituzione. Ma il testo c’è. Oggi potrebbe diventare pubblico, secondo alcune indiscrezioni. Al massimo, con qualche limatura, si potrebbearrivare a mercoledì. Renzi attende le motivazioni per accelerare in maniera definitiva. E per capire su quale dei tre modelli proposti, che lui considera ancora tutti validi, si può procedere velocemente.
La commissione Affari costituzionali ha messo in calendario audizioni di esperti fino a giovedì. Dopo è necessario arrivare a un testo base da votare. «Penso sarà un testo della maggioranza — spiega il capogruppo del Pd alla Camera Roberto Speranza —. Pd, Ncd e Scelta civica possono convergere sul doppio turno di coalizione. Mi sembra difficile fare una legge contro Alfano, verrebbe giù il governo. Ma Renzi fa benissimo a tenere aperto il canale conBerlusconi. Dev’essere sterilizzato il potere di ricatto del Nuovo centrodestra». Il passaggio della direzione di giovedì non è secondario. In quella sede potrebbe emergere una maggioranza chiara a favore del doppio turno. Ma il segretario racconterà gli esiti delle consultazioni anche sulle altre proposte. Ci lavorano Dario Nardella, che ha sentito anche il Ncd Cicchitto e la responsabile Riforme Maria Elena Boschi, che oggi alle 12 riunisce i membri Pddella commissione Affari costituzionali. La Boschi ha parlato con il ministro Gateano Quagliariello che le ha confermato la linea Maginot degli alfaniani: il doppio turno e basta. Questo non impedisce a Renzi, a Nardella e alla stessa Boschi di continuare la trattativa con Denis Verdini e Renato Brunetta.

Repubblica 13.1.14
Le proposte di Renzi e gli equilibri del governo
di Stefano Rodotà


Caro direttore, ho l’impressione che Eugenio Scalfari abbia visto una trasmissione diversa da quella effettiva e ne ha parlato nel suo articolo domenicale, commentando la discussione tra Paolo Mieli e me a “Otto e mezzo”. O forse è stato semplicemente spiazzato dal fatto che, invece di assistere alla solita corrida televisiva, si è trovato di fronte due persone che cercavano di ragionare e Lilli Gruber, invece di giocare alla conduttrice che infilza banderillas per provocare la rissa, ha assecondato il tentativo comune di argomentare.
Ma il vero fraintendimento sta nel fatto che la legittima critica non può essere fondata sulla distorsione di fatti e opinioni. Senza dar troppo peso al modo con cui quelle critiche sono state espresse, credo opportuno qualche chiarimento cominciando dalla questione Renzi (ometto ogni riferimento all’argomento trito del saltare sul carro del vincitore, visto che a me è sempre stato rimproverato piuttosto il contrario). Vi è una sorta di pretesa dimettere Renzi tra parentesi perché insidia il governo Letta. Chi si diletta di questo modo di leggere la realtà italiana può farlo, ma poi rischia di non comprenderla. Renzi esiste e le sue mosse non possono essere interpretate solo come fasi di una guerriglia antigovernativa. Deve farlo soprattutto chi non è pregiudizialmente simpatetico con le sue posizioni, e io l’ho fatto proprio suRepubblica. Ma non v’è dubbio che siamo di fronte al tentativo di costruire un’agenda politica e sociale, uscendo dalla logica di un’agenda tutta costruita sulle convenienze governative. Trovo benvenuto il riemergere del tema dei diritti civili. O, per non turbare gli equilibri di governo, dobbiamo volgere lo sguardo solo all’arretratezza culturale del nuovo centrodestra, che pretende di imporre di nuovo una linea che ha gravemente penalizzato la sinistra e allontanato i cittadini dalle istituzioni? Aspettiamo i contenuti delle proposte sul lavoro, come abbiamo detto l’altra sera (quando nessuno ha parlato di Letta come politico mediocre). Ma possiamo ignorare il fatto che finalmente il lavoro torna ad essere punto di connessione tra politiche più generali e che si affrontano temi come la rappresentanza sindacale e il reddito minimo che non sono invenzioni di Renzi?
Tocco solo un’altra questione, riguardante la magistratura, dove il fraintendimento è massimo, poiché ho sempre sottolineato il ruolo fondamentale della magistratura nella lotta al terrorismo. Ma le risposte parlamentari, non quelle dei magistrati, sono state molte volte frettolose, tanto che poi si son dovute modificare diverse norme. E poi: che cosa c’entra Berlusconi? Nessuno ne ha parlato l’altra sera, e trovo profondamente sbagliato mettere insieme alcune questioni generali e la sanzione di reati comuni, dove non v’è stata alcuna supplenza della magistratura (tesi propriamente berlusconiana), ma l’applicazione doverosa delle norme del codice penale.
I fraintendimenti non sono solo questi, ma ci si può fermare qui.

l’Unità 13.1.14
Il modello del «sindaco d’Italia» in Europa non esiste
Altro che sistema francese: quella proposta è di fatto un Porcellum corretto
Si torni piuttosto all’«ispano-tedesco» della bozza Vassallo
di Roberto Gualtieri

europarlamentare Pd

l’Unità 13.1.14
Sel a congresso, prove di avvicinamento a Renzi
L’apertura di Renzi riaccende il dibattito nel partito di Vendola
All’ex rottamatore non si guarda più con ostilità. «Ma tante cose ci dividono»
di Rachele Gonnelli


l’Unità 13.1.14
Atipici a chi?
L’autocritica del congresso Cgil
di Bruno Ugolini


l’Unità 13.1.14
Noi, la ricerca e gli animali
Animalismo, le ragioni dell’altro
Domani un secondo incontro al Senato sul tema della sperimentazione animale
Si accende il dibattito e si susseguono gli episodi violenti mentre l’Italia si appresta a votare una proposta di legge più restrittiva di quella vigente in Europa
di Pietro Greco


Ultimo «strappo»? Ma dove vive Monteforte?
La Stampa: «è frequente che ciò avvenga nelle parrocchie». Il Corsera: «Accade spesso che vengano battezzati anche figli di coppie di fatto, non sposate neanche civilmente, o di madri sole»!
l’Unità 13.1.14
Ultimo «strappo»: il battesimo di Giulia
Tra i 32 bimbi battezzati ieri da Papa Francesco alla Cappella Sistina anche la figlia di una coppia sposata solo civilmente. Poi l’annuncio di 16 nuovi cardinali, tra cui Parolin
di Roberto Monteforte


Repubblica 13.1.14
Il fiscalista amico dei Servizi dalla corte di Pollari ai ricatti
I segreti di Oliverio, il truffatore che frequentava prelati e mafiosi
di Carlo Bonini


ROMA — Chi è Paolo Oliverio? A chi fa paura? E perché? Il tipo, un romano di 47 anni, scalpita in una cella di Regina Coeli e mette a rumore le cronache. “Se parlo io....”. Come un insistito annuncio di tempesta. Che forse arriverà. O forse no. Perché — come dice chi lo teme, e come lui dà a intendere — si vuole sia seduto su una montagna di velenoso fango, di piccoli e grandi ricatti, capace di portarsi via uomini degli apparati (Guardia di Finanza e Servizio segreto interno), qualche politico, manager e imprenditori.
Arrestato il 6 novembre scorso, quattro giorni prima di sposare la quarta donna della sua vita (incinta dell’ultimo di 4 figli avuti da tre donne diverse), Oliverio finisce dentro per sequestro di persona. Impigliato in una storia di malversazioni nel cosiddetto “scandalo dei Camilliani”, ordine religioso di cui è stato procuratore speciale in alcune operazioni immobiliari. L’ultima capriola della sua vita da “sòla”,per dirla in gergo. Se si preferisce, di «truffatore» scaltro, di uomo abituato a una vita trasiticcia e molto al di sopra delle sue possibilità, come lui stesso racconta nel suo interrogatorio a Giuseppe Cascini, il pm che lo ha arrestato. Ma, soprattutto, e nello stresso tempo, di infaticabile tessitore di relazioni. Che coltiva nella Guardia di Finanza, dove negli anni di Speciale frequenta i corridoi nobili del Comando generale, dove mena vanto di godere dellabenevolenza di Nicolò Pollari (ex direttore del Sismi) e Paolo Poletti (ex capo di stato maggiore e attuale vicedirettore dell’Aisi) e grazie alla quale, per un anno e mezzo (tra il 2009 e il 2010) ottiene un contratto gratuito da “fonte in prova” del nostro Servizio interno (l’Aisi), dove stringe un rapporto di stima e — dice lui — «di amicizia» con l’allora direttore Giorgio Piccirillo. Ma che coltiva anche con famiglie in odore di ‘ndrangheta in quel di Cirò Marina e con politici calabresi che pure quelle famiglie incrociano (come l’ex consigliere regionale del Lazio Vincenzo Maruccio, finito in carcere nel novembre 2012).
Accade così che quando lo arrestano nella casa di 200 metri quadri di piazza di Spagna (dove è in affitto da un ente religioso), i finanzieri del Nucleo di Polizia Tributaria, trovino ad Oliverio una pen-drive che dovrebbe essere un archivio da 007 o qualcosa che gli somiglia. Da cui, tra l’altro, saltano fuori un file intestato a un permesso di soggiorno di Sabina Began, l’ape regina delle cene eleganti diSilvio Berlusconi, un documento titolato “estorsione” di cui è oggetto tale Francesca Neri, commercialista, “evidenze” di un fantomatico e in realtà farlocco traffico d’armi di cui viene indicata come fonte un impiegato di Equitalia di Napoli. Ma accade anche che, una volta a Regina Coeli, Oliverio chieda di poter dividere la cella con tale Salvatore Pappaiani, calabrese di Cirò, detenuto per omicidio.
Dunque e di nuovo. Chi è davvero Paolo Oliverio?
Si dice da sempre “fiscalista” senza essersi mai laureato. Si fa conoscere una prima volta alle cronache nell’indagine Imi-Sir come giovane spallone dei 10 miliardi di lire che l’ex giudice Renato Squillante sposta illegalmente in Svizzera (il processo muore per prescrizione a Roma). E leggenda di tribunale vuole che al magistrato, in quella giostra, riesca a soffiare un miliardo e mezzo tondo tondo, sapendo che tanto non potrà denunciarlo. In tempi più recenti, posa ad esperto di antiriclaggio in convegni organizzati dal Monte dei Paschi e intanto offre con la sua srl “P. O.” consulenze “fiscali” aclienti che trasforma in vittime. Con un format costante. Li convince che sono nei guai perché oggetto di verifiche della Finanza. Quindi, li fa convocare da sottufficiali del corpo in una caserma, dove i disgraziati vengono terrorizzati con finti verbali. Poi, il colpo di scena. Una sua telefonata “risolve il problema”. Naturalmente dietro lauto compenso. Come accaduto all’ultimo “pesce” finito nella sua rete nel luglio scorso. Tale Franco Celletti, un imprenditore convocato in caserma e ripassato a dovere da due marescialli in forza al Nucleo tutela dei mercati, Mario Morgini e Alessandro Di Marco (oggi detenuti come lui).
Oliverio è così svelto che la fa persino a un tipo non di primo pelo come Lorenzo Borgogni, già capo delle relazioni istituzionali di Finmeccanica. Gli “secca” qualche centinaio di migliaia di euro, da amministratore della società immobiliare “Reb Venture”, dove entra nel 2012 con il 5 per cento delle quote e che, a quanto pare, svuota dei liquidi destinati al pagamento dell’Iva. «Mi ha fatto fare la figura del bischero — dice ora Borgogni— E l’ho anche denunciato. Ma chi poteva immaginarlo? Si presentò come consulente legato al prestigioso studio Lupi. Partecipava a convegni con il professor Sepio». Se è per questo, tra il 2009 e il 2010, durante il suo “lavoro” per l’Aisi, Oliverio divide il suo studio in un appartamento di via Veneto con il faccendiere Flavio Carboni, cui promette “protezione” dall’indagine P3 che invece lo travolgerà. Un’altra delle sue “sole”.Ma spesa con il peso di chi poteva dirsi “uomo dei Servizi”. Amico appunto — come riferisce almeno un testimone delle sue cene — di uomini degli apparati come Pollari, Piccirillo, Poletti e, aggiungeva lui per non guastare, De Gennaro. La storia promette di camminare. Ma intanto pone una domanda. Chi ha usato chi? Oliverio i Servizi? O il contrario? E a che scopo?

l’Unità 13.1.14
Se la magistratura prende il posto della scienza
Nella vicenda di Stamina esiste un conflitto evidente tra autorità sanitarie e ricerca
da una parte e la logica giuridica dall’altra
di Donata Lenzi

deputato Pd

La Stampa 13.1.14
“Non potevo pagare le cure di Vannoni e mi dissero: fai prostituire tua moglie”
Il padre di una paziente: mi sono indebitato per 47 mila euro

qui

l’Unità 13.1.14
Cannabis, il disastro del proibizionismo
di Stefano Bartolini

Università di Siena

Corriere 13.1.14
San Patrignano e le cifre sul carcere e la cannabis
di Marcello Chianese

Responsabile dell’ufficio legale di San Patrignano

Caro direttore,
nell’attuale dibattito sulle droghe una delle principali tesi sostenute dai legalizzatori e/o liberalizzatori è che le carceri italiane sono sovraffollate di ragazzi trovati in possesso di cannabis. Un convincimento che non riusciamo a capire da dove provenga e in base a quali numeri. Noi un dato statistico che ci permettesse di sostenere tale tesi non siamo mai riusciti a trovarlo. Ciò per la semplice constatazione che l’art.73 della legge 309/90, per tutti la Giovanardi Fini, che attualmente disciplina gli stupefacenti, non prevede distinzione fra droghe cosiddette leggere e quelle droghe considerate pesanti e conseguentemente non vi è distinzione nel raccoglimento dei dati. Detto questo però siamo convinti che in carcere non vi sia un solo semplice detentore di cannabis. Quando sono presenti detentori di cannabis è perché al tempo stesso si tratta di spacciatori. La legge infatti, al contrario di quanto affermato da alcuni, da sempre punisce lo spaccio e non la detenzione. Infatti il comma uno bis dell’articolo 73 che fa riferimento alla detenzione dice che un giudice per condannare un detentore di qualsiasi tipo di stupefacente deve dimostrare che la sostanza deve apparire destinata ad un uso non esclusivamente personale. Un giudice quindi per condannare un soggetto per detenzione di stupefacente deve (perché giuridicamente ne ha lui l’obbligo) motivare la sentenza affermando che la droga fosse ragionevolmente destinata allo spaccio. Ciò è pacifico in giurisprudenza e logico in termini letterali tanto che il legislatore ha sentito l’esigenza di disciplinare l’ipotesi del mero detentore, vale a dire del soggetto trovato con dosi di cannabis tali da far ritenere l’uso personale, con le sanzioni amministrative come specificato nell’articolo 75. Nessuno quindi può essere in carcere con una sentenza di condanna definitiva per aver detenuto qualche spinello perché nessuno ha mai inteso farlo.

l’Unità 13.1.14
Acea, assunto l’ultimo amico. Marino: «Ora basta»
L’incarico dato dal presidente nominato da Alemanno. Il Comune, azionista al 51%, all’oscuro
Dalle bollette pazze alla scarsa illuminazione della capitale, l’azienda è un problema per il sindaco
di Jolanda Bufalini


Repubblica 13.1.14
Il ghetto per immigrati nel cuore di Roma
“Dormiamo per terra, senza acqua né luce”
Ammassati da tre mesi in un palazzo occupato: ecco isuperstiti di Lampedusa
di Carlo Picozza


LAMPEDUSA è al civico tre di via Curtatone, Roma centro, insieme con un pezzo d’Africa subsahariana. Nella vecchia sede dell’Ispra, Istituto per la protezione ambientale, più di 450 eritrei, profughi e rifugiati politici per lo più, sopravvivono, con unacinquantina di bambini.

DORMONO in terra, nei corridoi e nelle stanzeufficio piene di polvere einsidiate dai topi. Asserragliati dietro la cancellata appena nascosta dallo sporco sulla vetrata, si danno il cambio, 40 alla volta, in difesa di quell’avamposto della disperazione nel cuore della capitale.
Giovani e giovanissimi. Sono i sopravvissuti alle traversate del Mediterraneo. Gli scampati ai pericoli delle marce nel deserto, ai maltrattamenti nei centri libici di detenzione, ai soprusi degli scafisti, hanno fatto i conti con l’accoglienza italiana, «segregati per mesi in condizioni inumane», racconta uno di loro.Si sapeva dell’insediamento di 500 eritrei ed etiopi al Collatino, in un palazzo abbandonato dal ministero del Tesoro. Si era detto, visto e scritto, dopo le sanzioni dell’Europa all’Italia, dei mille tra eritrei, etiopi, somali e sudanesi che alla Romanina, in uno stabile malmesso e pericolante dell’Enasarco, vivono da anni tra infiltrazioni d’acqua e mura cadenti. E si conosceva la baraccopoli tirata su da un centinaio di eritrei ed etiopi a Ponte Mammolo. Ma ora spunta, nel cuore di Roma, un altro ghetto per migranti. Viene alla luce conun blackout provocato da qualcuno che, entrato negli interrati dal tombino di una strada vicina, ha tagliato i cavi nella cabina dell’azienda elettrica comuna-le, interrompendo il flusso di energia al palazzo. Così, da cinque giorni, quei migranti vivono senza luce e senza l’acqua delle vasche alimentate dalle pompe dell’autoclave, in condizioni disumane.
«Siamo vivi; è quanto basta», dice Yohanns Mhretaab, 23 anni sbarcato a Lampedusa nel maggio 2011 con altri 250 dannati della terra e del mare. «Inquattro giorni di navigazione sono morti tre bambini e un giovane », racconta. «Avevo già provato nel 2009 ad approdare in Sicilia, sborsando sempre un migliaio di euro agli scafisti, ma, con gli altri, sono stato subito respinto in Libia su una nave italiana».
Da tre mesi e mezzo vivono lì, a due passi dalla stazione Termini. «Abbiamo un tetto, ora — dice Selam H. — ho dormito in strada per più di un anno». «Per mangiare andiamo alla mensa della Caritas, in via Marsala, vicino Termini o in via degli Astal-li, dalle parti di piazza Venezia». «All’inizio — racconta don Mosè Zerai, il sacerdote eritreo presidente di Habeshia, l’agenzia che si occupa di assistenza ai rifugiati africani — l’immobile è stato occupato da un gruppo consistente di eritrei insieme al Coordinamento di lotta per la casa. Poi i migranti, con i movimenti per il diritto all’abitare, hanno sollecitato un incontro con il Comune e avviato un confronto con la prefettura». Giorni fa è arrivata la rassicurazione: «Restate lì in attesa di una sistemazione idonea».
Qualche ora dopo lo stabile è rimasto al buio. Un blackout per l’intero quadrante urbano c’era già stato. «È intervenuta l’Acea che ha riparato il guasto», ancora don Zerai, «ma nel palazzo di via Curtatone la luce non è più tornata». «Spero», dice, «che si trovi presto una sistemazione dignitosa e sicura per quelle famiglie ». «Anche questo insediamento », aggiunge Emilio Drudi, collaboratore dell’Agenzia Habeshia, «è il risultato degli ultimi vent’anni di disinteresse: mancano una legge sul diritto di asilo e un sistema di accoglienza adeguato».
Già, l’accoglienza. Osservarli lì che, a decine, con buste stracolme di cenci, mano nella mano dei piccoli, arrancano per le scale buie già nel primo pomeriggio di una domenica uggiosa, richiama le immagini che sottole feste il Tg2 ha trasmesso dal Centro di identificazione ed espulsione di Lampedusa. «Si sono dimenticati di noi», si sfoga un ventenne. È un sopravvissuto al naufragio del 3 ottobre, alla strage di quasi 400 vite. È spaesato e impaurito. Per parlare esce e, sotto i fari della banca vicina all’ingresso del palazzo, confida: «Sarebbe stato bello avere ancora luce e acqua, ma stiamo meglio qui che nel nostro Paese perché non abbiamo perso la speranza di una vita migliore».

Repubblica 13.1.14
L’emergenza
Gli sbarchi non si fermano, già 1.500 da inizio anno


ROMA — Nonostante il freddo e il maltempo, continua l’ondata di sbarchi di migranti provenienti dalle coste africane. Dall’inizio dell’anno sono già 1500 gli stranieri arrivati nel nostro Paese. Sabato ne sono stati soccorsi 236 su un barcone, mentre un’altra imbarcazione con 200 clandestini a bordo è stata avvistata ieri a sud di Lampedusa. Ma c’è anche chi cerca di raggiungere le nostre coste in barca a vela. Come i 12 migranti (sette siriani e 5 pachistani, tra cui anche una ragazza in avanzato stato di gravidanza), soccorsi ieri dalla Guardia costiera a sud di Gallipoli. Per far fronte all’emergenza, il Viminale ha fatto partire una circolare indirizzata a tutti i prefetti per individuare nuove strutture per l’accoglienza temporanea e il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha istituito una task force che ispezionerà i vari centri per valutarne le condizioni.

l’Unità 13.1.14
Sempre più matrimoni misti. Spesso finiscono male
di Nicola Luci


il Fatto 13.1.14
Il silenzio delle istituzioni
L’abbraccio di Palermo al pm Di Matteo
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza


Palermo. Tra il 9 e l’11 novembre del ’93, nel pieno della stagione della trattativa Stato-mafia, pochi giorni dopo la mancata proroga dei 334 provvedimenti di 41 bis da parte del Guardasigilli Giovanni Conso, sul territorio italiano venne disposta un’esercitazione militare del Comando Nato. Chi la autorizzò? Se lo è chiesto il procuratore generale Roberto Scarpinato, ricostruendo i buchi neri della stagione stragista dal ’91 al ’94, nel corso del suo intervento sul palco del teatro Golden di Palermo, dove ieri il Fatto Quotidiano ha organizzato una manifestazione in segno di solidarietà a Nino Di Matteo e ai pm della trattativa Stato-mafia. All’appello del Fatto, i palermitani hanno risposto con un abbraccio caloroso: numerose le persone rimaste fuori dal cine-teatro dove gli applausi ai magistrati e agli uomini delle scorte hanno introdotto il saluto del direttore Antonio Padellaro. “Dopo le minacce di Riina – ha detto – abbiamo aspettato la solidarietà delle istituzioni, ma questa non è mai arrivata. Oggi non c’è la volontà di fare i primi della classe, ma un giornale è anche qualcosa che si muove sulla base di sentimenti’’. Introducendo il dibattito sul tema “A che punto sono la mafia e l’antimafia”, Padellaro ha poi aggiunto: “C’è un silenzio strano, che ci ha allarmato, e il silenzio non ha mai portato bene. La trattativa riguarda il nostro presente”. In platea, in prima fila, il pm minacciato Di Matteo, il procuratore aggiunto Vittorio Teresi, i pm del pool della trattativa Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. E anche lo scrittore Aldo Busi.
DAVANTI ad un pubblico appassionato che nel corso della serata più di una volta è scattato in piedi nel rito della standing ovation, è intervenuta subito dopo Barbara Spinelli, editorialista di Repubblica, secondo cui Riina manda messaggi ad un solo “vero interlocutore, che è lo Stato”. Il boss, ha detto Spinelli, “rischia di rimanere con il cerino acceso in mano, e qui parte la sua chiamata di correo: attenzione, è come se dicesse, qui ci stanno attaccando, attaccano un sistema criminale fatto di massoneria, servizi deviati e antistato’”. E dopo aver citato le parole del cancelliere tedesco Helmut Kohl che nel ‘90 aveva subordinato la permanenza italiana nell’Unione europea al ridimensionamento dell’emergenza mafia, la giornalista ha parlato di complicità tra le analisi dell’agenzia J. P. Morgan e chi in Italia “continua a mal digerire la Costituzione del ‘48”, per poi aggiungere che oggi, nelle linee economiche suggerite dalla Morgan, nel caso Italia, “riecheggia il piano di Rinascita Democratica di Licio Gelli”, perché “si vuole una resa incondizionata ai potentati economici”. Infine, Spinelli ha concluso: “Vogliamo anche oggi un clima costituente per far luce sui patti stretti tra Italia, P2 e antistato”. Temi che il pg Roberto Scarpinato ha analizzato nel suo intervento, dopo avere premesso che la sua attività in questi giorni è assorbita in modo crescente dalla sicurezza dei magistrati del distretto. Il Pg ha riproposto i principali interrogativi irrisolti della stagione delle stragi e ha parlato dell’esistenza di due pericoli: uno che viene dalla crisi economica del presente e l’altro, che viene dal passato. “La crisi – ha spiegato - ha stretto Cosa nostra nell’angolo, restringendo la predazione dei fondi pubblici e delle estorsioni: questo ha provocato insofferenza da parte del popolo mafioso anche nei confronti di alcuni capi”. Ma dal passato arriva forse il pericolo più grave: “La preoccupazione, da parte di Riina che dal processo sulla trattativa possano emergere, grazie a bocche che potrebbero cominciare a parlare, nuovi elementi”.
DI “PERSONAGGI anfibi, uomini dello Stato dalla cintola in su e della mafia dalla cintola in giù”, ha parlato Marco Travaglio, che si è chiesto in apertura del suo intervento “perche’ al Quirinale si è trovato lo spazio per citare i due marò detenuti in India e mai i magistrati antimafia, minacciati da Riina”. Alla fine, tra gli applausi, Di Matteo è salito sul palco del Golden per ringraziare i palermitani accorsi ad esprimere la solidarietà nei suoi confronti. “Manifestazioni come queste sono per noi antidoto e scudo efficace -ha detto– contribuiscono ad annullare quell’aria mefitica che si crea quando il minacciato viene quasi accusato di essere complice del minacciante”.

Repubblica 13.1.14
L’intervista
Alessandro Rosina: così si spiega il boom di bambini in Francia
“Da noi niente aiuti alla famiglia più figli se il welfare funziona”
Se non arrivano le politiche di sostegno alle coppie, il declino in atto non potrà che continuare
di Maria Novella De Luca


Eppure la voglia di fare figli ci sarebbe. Basta chiederlo ai giovani. A vent’anni affermano sicuri che avranno una famiglia, a trenta iniziano a rinviare, a trentacinque senza lavoro e senza welfare scatta l’addio al desiderio: si fa un unico figlio o si rinuncia a diventare genitori». Alessandro Rosina, docente di Demografia all’università Cattolica di Milano, ha dedicato saggi e studi al grande tema delle “culle vuote” in Italia, a quel calo progressivo di natalità che oggi sembra aver raggiunto l’apice nel nostro Paese, l’anno zero della fecondità. Un declino che ha radici lontane, già sintetizzato da Rosina nel saggio “Famiglie sole” , ma che oggi con la crisi economica sembra aver congelato la voglia di futuro delle giovani coppie italiane.
Professor Rosina, i dati Istat sono drammatici.
«Se non si rivedono le politiche di sostegno alla famiglia il declino non può che continuare. Perché le difficoltà di oggi si sommano a tutto quello che non è stato fatto ieri, quando già l’allarme demografico era alto: dalla conciliazione ai sostegni ai giovani, dagli asili nido ai part time, dalla flessibilità ai supporti alla maternità».
Però la voglia di famiglia c’è.
«C’è ed è forte, questo è il paradosso. Sono poche le coppie childfree in Italia, quelle che dichiarano davvero di non volere bambini. Basterebbe cominciare ad investire sul welfare e i figli tornerebbero a nascere».
L’intera Europa è attraversata da una forte crisi della natalità. Ma noi siamo agli ultimi posti.
«Le radici di tutto questo risalgono agli anni Settanta, e all’entrata massiccia delle donne nel mondo del lavoro. Mentre in Francia ad esempio per sostenere la demografia si è puntato su asili, scuole, congedi, sgravi fiscali per le famiglie, l’Italia è rimasta immobile».
Con il risultato che in Francia la demografia ha continuato a crescere.
«Infatti. E la stessa Germania che ha vissuto un invecchiamento simile a quello italiano, prima ha puntato fortemente sulla formazione dei propri giovani, poi è diventata una nazione attrattiva per l’immigrazione non solo di basso ma anche di alto livello. E negli ultimi anni ha radicalmente modificato il proprio sistema di ausili alla natalità. E lì dunque i bambini torneranno a nascere».
Da noi invece...
«In Italia dopo il baby boom, quando la società è cambiata, c’è stata una reazione conservatrice. L’entrata nel mercato del lavoro delle donne è stata boicottata in tutti i modi. A cominciare dalla mancata creazione di sostegni per la maternità, che ha messo le coppie, e soprattutto le madri, di fronte alla necessità di scegliere tra i figli e il lavoro».
Si voleva difendere il modello patriarcale?
«Ci sono più ragioni. La prima è storica: quando è iniziato il calo demografico evocare la natalità voleva dire evocare il fascismo e il “dare figli alla patria”. La morale comune ha poi condannato il lavoro delle donne considerandolo un elemento di instabilità coniugale, e di perdita di autorevolezza del maschio».
Con quale risultato?
«Senza supporti la famiglia si è indebolita, il lavoro femminile non ha avuto l’apporto del welfare e la demografia è crollata. Nel 1965 nascevano un milione di bambini l’anno, oggi soltanto cinquecentomila. Ci stiamo avvicinando al minimo storico di culle vuote del 1995, quando il tasso di fertilità era di 1,2 figli per donna. Oggi siamo fermi all’1,4, ma potremmo scendere di nuovo».
Perché non si è fatto nulla per invertire la tendenza?
«Si è sempre colpevolmente pensato che il modello di famiglia italiana potesse bastare a se stesso, la rete parentale al posto dello Stato. Un comodo modo per non investire risorse».
Così oggi sono sempre di più i giovani che emigrano per riuscire a lavorare, e poi scoprono che all’estero è anche possibile formarsi una famiglia.
«E la perdita per il nostro paese è doppia: se ne vanno i giovani, fuggono i cervelli, e i bambini nascono altrove».
Il grande esodo dei “millennials”.
«Che invece avrebbero una gran voglia di restare qui, di costruire e di cambiare le cose. Emerge da tutti gli studi, da tutte le statistiche. Ma la politica, purtroppo, sembra cieca e sorda a tutto questo».

Repubblica 13.1.14
Europa al tracollo demografico
In Italia 70 mila bambini in meno l’anno
Se la crisi svuota le culle
di Federico Fubini

Europa al tracollo demografico, in Italia 70 mila bambini in meno l’anno
E l’Asia nel 2025 avrà mezzo miliardo di abitanti in più
Dopo un decennio di ripresa del tasso di natalità, l’Italia torna alla semiparalisi demografica
Ogni anno 70 mila bebè in meno, e così l’apporto degli stranieri sarà sempre più necessario.
Ma se le qualifiche dei lavoratori immigrati si mantengono basse, scarso sarà il loro contributo alla crescita.
E mentre l’Italia e l’Europa resteranno al palo, la popolazione asiatica salirà in 15 anni di mezzo miliardo

Era forse l’unica grande “riforma strutturale”, per usare un cliché della troika, riuscita all’Italia e all’Europa nell’ultimo decennio. Per lo più, in silenzio. I rapporti della Commissione di Bruxelles, della Banca centrale europea o del Fondo monetario in proposito tacciono. I politici non l’hanno neanche vista arrivare. Eppure era una svolta più importante per la prosperità del parametro deficit-Pil o dello stesso dato sulla crescita. Semplicemente, facevamo qualche bambino in più. Il tasso di fertilità, il numero di figli per donna, era cresciuto nell’ultimo decennio un po’ ovunque in Europa. In Italia era passato da 1,2 a 1,4. Ancora insufficiente, ma stavamo pian piano diventando una nazione e un continente meno vecchi di come rischiamo di essere.
Ci provavamo, almeno. Il problema è che Lehman, la Grecia, lo spread e la recessione più profonda della storia dell’Italia unita in tempo di pace, hanno riportato indietro le pagine del calendario. Lo spread ora sarà sì tornato dov’era due anni e mezzo fa, ma la natalità nel frattempo è arretrata di decenni. I nuovi nati in Italia erano 576 mila nel 2008 ma sono scesi di 42 mila unità nel 2012 e, sostiene il demografo Gianpiero Della Zuanna
Cinque anni dopo l’inizio della grande crisi, nascono 70 mila bebè in meno. E poiché gli esperti sostengono che la demografia è destino, cioè innesca onde lunghe poi difficili da arrestare o anche solo da deviare, sia l’Italia che l’Europa oggi hanno davanti a sé una trasformazione radicale. È la crisi silenziosa di cui i bollettini per i mercati finanziari non danno conto, ma dovrebbero. Perché ciò che accade riguarda anche loro, e soprattutto ogni cittadino d’Europa: i cicli delle nascite e dell’invecchiamento da oggi al 2045 daranno forma a un mondo nel quale alcune delle potenze economiche di questo inizio secolo riveleranno piedi d’argilla e fra i Paesi avanzati si scatenerà una competizione senza sconti per attrarre i migranti migliori: quelli istruiti, capaci di produrre le tecnologie necessarie a una popolazione occidentale sempre più anziana.
Qualche dato dà la dimensione del cambiamento alle porte. Secondo il McKinsey Global Institute, che lavora su dati Onu, fra il 2010 e il 2025 l’Asia aumenta fino a 4,3 miliardi di persone, crescendo di mezzo miliardo: in soli 15 anni, è un balzo pari circa all’intera popolazione dell’Unione europea. La Nigeria, dove quasi metà degli abitanti oggi sono bambini, tra poco più di trent’anni raggiungerà gli Stati Uniti e diventerà il terzo Paese più popoloso al mondo dopo India e Cina, con quasi 400 milioni di abitanti. In base alle proiezioni dell’Onu, i nigeriani cresceranno a 900 milioni entro fine secolo: tutto in un Paese grande poco più del Texas e indebolito dal collasso delle istituzioni, dal terrorismo islamico di Boko Haram e dall’incapacità di creare occupazione per i quasi tre milioni di adulti che ogni anno entrano in età da lavoro.
Anche in Europa le gerarchie fra Paesi e le strutture sociali al loro interno diventeranno quasi irriconoscibili in poco più di una generazione. L’Italia è solo un esempio di questa metamorfosi. Secondo il Vienna Institute of Demography, senza l’apporto degli stranieri la popolazione nel Paese scenderebbe da 60,5 a 53milioni entro metà secolo. La Fondazione Leone Moressa di Mestre calcola (su dati Istat) che l’apporto dei migranti in Italia è sempre più essenziale: le nascite di figli di stranieri sono salite di un quarto negli ultimi sei anni (mentre gli italiani calavano), oggi rappresentano più del 15% del totale e in futuro il loro peso non può che salire costantemente. Sono già e diventeranno sempre più indispensabili per la tenuta del debito e del sistema previdenziale italiano, oltre che per garantire energie giovani in un mondo del lavoro che invecchia. Nella semi-paralisi demografica,sviluppi di questo tipo sono destinati a porre ben presto nuove domande su chi avrà diritto al voto e allo status di cittadino italiano.
Anche il rango relativo dei vari Paesi europei è destinato a cambiare per la diversa fertilità delle donne francesi, tedesche, britanniche e italiane. Oggi la Germania è il Paese più popoloso della parte Ovest del continente (circa 82 milioni di abitanti), seguito da un gruppo con Francia (63 milioni), Gran Bretagna (62) e Italia. Tra trent’anni invece, la proiezione Onu a tassi di fertilità costante presenta un quadro stravolto: primi Francia e Regno Unito a circa 72 milioni di abitanti, terza la Germania a 71, quarta e staccata l’Italia a 57. Non che le graduatorie abbiano importanza in sé, però sono una spia del dinamismo economico perché le tendenze demografiche rivelano molto della quota di persone in età da lavoro in ciascun Paese. È qui che alcune delle nazioni più produttive di inizio secolo tradiscono la loro fragilità. Fra i sistemi vulnerabili c’è certo l’Italia, che resta ancora la seconda economia manifatturiera d’Europa e la quinta al mondo (con la Corea). Per una volta però il caso più preoccupante non è a Sud delle Alpi. È in Giappone, dove il collasso della natalità e la chiusura agli immigrati (1% dei residenti) sta producendo una catastrofe silenziosa. Tra il 2010 e il 2025 l’Arcipelago perde appena tre milioni di abitanti — stima McKinsey — ma ogni anno la popolazione in età da lavoro si riduce di oltre 700 mila persone, semplicemente perché il Paese invecchia. È la più grande emorragia di manodopera — gli adulti fra i 15 e i 65 anni — mai vista in tempo di pace. Simili le dinamiche per la Germania, dove ogni anno fra il 2010 e il 2025 si consuma una riduzione di oltre 350 mila persone nella fascia 15-65. E in Italia? L’erosione di abitanti nel pieno delle forze è di 93 mila individui l’anno. Nel frattempo, una natalità oggi più elevata permette alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti di veder crescere i suoi abitanti potenzialmente più produttivi rispettivamente di 50 mila e 700 mila persone l’anno.
È il “dividendo demografico”, nella definizione di Robert Gordon della Northwestern University. Esso è davvero tale e aiuta un Paese a crescere in modo quasi automatico quando la popolazione attiva aumenta. È successo anche all’Italia, passata da 45 a 60 milioni di abitanti nella seconda metà del ‘900. Poi però il dividendo si rovescia e diventa freno allo sviluppo quando la popolazione attiva inizia a calare.
Sono queste tendenze a preannunciare la nuova gara del ventunesimo secolo fra le nazioni dell’Occidente: quella per i talenti stranieri, da conquistare con il fascino delle università e le prospettive di lavoro. Molti Paesi in cui ingegneri, medici, insegnanti, ricercatori, informatici, artigiani o operai specializzati andranno in pensione dovranno (anche) importarli per non impoverirsi. Il rischio, in alternativa, è mandare decine di migliaia di specialisti ai giardinetti ogni anno e attrarre solo manovali o badanti. L’intera società diverrebbe più povera, in reddito e conoscenze. Poco prima di morire, Steve Jobs disse a Barack Obama: «Dovremmo spillare una carta verde al diploma di ogni studente straniero che si laurea in scienza o ingegneria in America». Il presidente Usa annuì, poi non fece nulla. Neanche in Italia il visto di studio di un immigrato con un master al massimo livello dà diritto al lavoro. Massimo Livi Bacci, il più autorevole demografo italiano, pensa che la capacità del Paese di accogliere migranti di qualità sia vitale, ma per questo servono università, imprese e un sistema di regole che premino di chi lavora meglio e di più.
Non che l’Italia abbia esaurito il suo “dividendo demografico” autoctono, al contrario. Gianni Toniolo, economista della Luiss e della Duke University, osserva come la capacità dei settantenni di generare reddito oggi sia molto maggiore rispetto a una generazione fa. “Questa è una buona notizia”, ricorda. Anch’essa però comporterà alcune trasformazioni nella vita di tutti i giorni: gli anziani attivi dei prossimi decenni richiederanno strumenti adatti a loro, ad esempio automazione in casa, in ufficio o in fabbrica per muovere più oggetti con un telecomando e non a forza di braccia. È possibile che i Paesi con i capelli bianchi saranno meno consumisti e finiscano in deflazione cronica dei prezzi come già oggi accade al Giappone. Ma è certo che avranno bisogno di politiche, competenze e prodotti nuovi. Vince, come sempre, chi lo capisce per primo.
RTV-LAEFFE Alle 13.45 su RNews (canale 50 dt) l’analisi di Fubini sui dati demografici

Corriere 13.1.14
Dopo la legge anti aborto socialisti primo partito


MADRID — Dopo la pesante sconfitta elettorale del novembre 2011, il Partito socialista spagnolo torna favorito nei sondaggi rispetto al Partito popolare. È quanto emerge dai risultati di un’indagine pubblicata dal quotidiano El Pais , che attribuisce ai socialisti il 33,5 per cento delle intenzioni di voto, contro il 32 per cento dei popolari, oggi maggioranza assoluta nel Parlamento. Secondo il giornale spagnolo, all’origine della perdita di consensi del partito di Rajoy vi sarebbe anche la nuova, più rigida legge sull’aborto, che consente l’interruzione di gravidanza solo in caso di stupro o di rischi per la salute della donna. Stando sempre ai dati del sondaggio, alla legge si oppone l’80 per cento degli spagnoli.

l’Unità 13.1.14
Germania, paura dei migranti
La Baviera contro migranti bulgari e rumeni
di Paolo Soldini


Bilbao

La Stampa 13.1.14
Sharon più guerriero che eroe
di Abraham B. Yehoshua


I giornali e i mezzi di comunicazione israeliani (e in parte anche stranieri) sono impegnati in  resoconti, per lo più elogiativi, della complessa  personalità di Ariel Sharon, della sua altalenante  carriera militare e politica dai contorni quasi mitici e della sua variopinta  figura. Considerato il fatto che Sharon è rimasto  in uno stato di coma negli  ultimi otto anni e la sua fine era prevista, tutti hanno avuto il tempo di prepararsi alla sua morte, di  spulciare negli archivi e  di raccogliere aneddoti  sulla sua vita.
Nessun leader, dopo le dimissioni da primo ministro di David Ben-Gurion, può vantare una presenza tanto forte e contradditoria nella vita politica israeliana come quella di Ariel Sharon.
I numerosi alti e bassi della sua esistenza lo hanno reso, ancora in vita, protagonista di un dramma quasi hollywoodiano. Da reietto, dopo l’umiliante fallimento della Prima guerra del Libano nel 1982 da lui intrapresa e condotta in veste di Ministro della Difesa, Sharon è arrivato ai massimi vertici dello stato quando è stato eletto Primo Ministro nel 2001. E prima che un ictus lo fermasse ha fondato un nuovo partito, ha evacuato insediamenti e ha ritirato l’esercito dalla Striscia di Gaza.
Siccome sono sempre stato un oppositore di Sharon, sia su un piano ideologico che politico, e non avendo mai subito il fascino della sua personalità, non mi ritengo la persona più adatta a fornire una sintesi completa e obiettiva della sua attività politica. Ma, vista l’ondata di sentimentalismo che sommerge i media israeliani, e in un certo senso anche quelli globali, è d’uopo che anch’io cerchi di dare una valutazione a quest’uomo speciale e affascinante.
La principale e più evidente qualità di Ariel Sharon è stata quella di essere un guerriero e soprattutto un comandante. In campo militare ha dimostrato intraprendenza, determinazione e capacità di leadership. Va comunque precisato che, nonostante i suoi successi, Sharon ha intrapreso di propria iniziativa alcune inutili battaglie (sia nella Campagna di Suez del 1956 che nella guerra dello Yom Kippur del 1973) che hanno aumentato il numero delle vittime. Quando, durante la Campagna di Suez, io ero un giovane soldato della Brigata Paracadutisti sotto il suo comando, ho visto con i miei occhi Sharon inviare una compagnia di paracadutisti a uno scontro al passo Mitla durante il quale 42 paracadutisti persero inutilmente la vita. E questo nonostante il cessate il fuoco fosse ormai imminente. Al termine della guerra il Primo Ministro David BenGurion e il Capo di stato maggiore dell’esercito Moshe Dayan presero in considerazione un anticipato congedo di Sharon dall’esercito ma alla fine decisero per una punizione più leggera, limitandosi a fermare il suo avanzamento e stabilendo che, nonostante il suo talento militare, Sharon non avrebbe potuto essere nominato Capo di stato maggiore dell’esercito.
L’avventurismo militare di Sharon riemerse, su scala infinitamente più grande, nel 1982 quando, in veste di Ministro della Difesa del governo Begin, intraprese la Prima guerra del Libano: un disgraziato conflitto che non portò alcun risultato positivo, causò la morte di soldati israeliani, di palestinesi, di libanesi e nel corso del quale avvenne il terribile massacro di civili palestinesi nei campi profughi di Sabra e Shatila, vicino a Beirut. È vero che il massacro fu commesso da falangisti cristiani ma con la completa e criminale indifferenza dell’esercito israeliano che aveva il controllo della zona. Il Primo Ministro Begin, perseguitato dai sensi di colpa, si dimise dal suo incarico e si rinchiuse in casa fino alla morte, mentre Sharon, riconosciuto in parte responsabile della strage da una commissione investigativa governativa e costretto a dare le dimissioni da Ministro della Difesa, non sembrò mostrare alcun senso di colpa per la sciagurata guerra da lui voluta e condotta.
Ariel Sharon non era un ideologo e non gli importava di fare dichiarazioni nazionaliste un giorno e di parlare di dolorose concessioni una settimana dopo. Era cinico, bugiardo, aggressivo e privo di profondità intellettuale. Tuttavia riusciva a compensare questi difetti con il calore umano, la lealtà e la dedizione che mostrava verso i suoi subordinati e con una rara capacità di leadership.
Nel complesso considero Sharon un personaggio che ha fatto più danni a Israele di quanto abbia portato benefici. La parziale legittimità che i sostenitori della pace gli hanno concesso per il disimpegno e il ritiro dalla Striscia di Gaza, avvenuta senza che si scatenasse una guerra civile grazie alla sua autorità nazionalista, non lo esime a mio giudizio dalla responsabilità dell’enorme danno causato a Israele dalle decine di insediamenti da lui voluti nei territori palestinesi, che creano una base (forse irreversibile) per un futuro stato bi-nazionale: una possibilità disastrosa per israeliani e palestinesi.
Io non sono un ammiratore di leader forti e astuti che, dopo aver creato inutili crisi riescono a venirne fuori e per questo vengono elogiati. Io rispetto i leader che vedono in anticipo la strada giusta e morale da seguire e convincono il popolo a unirsi a loro. Ariel Sharon non era uno di questi leader.

La Stampa 13.1.14
“In carcere abbiamo visto l’inferno. Ti tolgono tutto, sei solo un corpo”
Le Pussy Riot Nadia e Maria raccontano i loro 22 mesi nelle prigioni russe
Cucivamo uniformi per 16 ore al giorno
Quelle che non reggevano i ritmi erano costrette a lavorare nude
Chi si mostrava amica veniva punita. Il capo del carcere spingeva le detenute a odiarci, a farci sbagliare
Non posso più dormire. Penso alle prigioniere che ho lasciato là, sospese fra la vita e la morte
di Mark Franchetti

qui
 

Repubblica 13.1.14
Al via l’accordo sul nucleare iraniano
Obama: “Diamo una chance alla pace”


WASHINGTON - L’attuazione dell’accordo di Ginevra sul nucleare iraniano scatterà, come previsto, il 20 gennaio. Lo ha confermato l’agenzia iraniana Irna citando “fonti ufficiali”. Anche il presidente Obama conferma: in una nota dove ha ribadito ancora una volta la soddisfazione per l’accordo raggiunto. “È la prima volta in decenni - ha detto - che l’Iran è d’accordo su specifiche azioni per fermare il progresso del proprio programma nucleare”. Poi si è cautelato dalle accuse dei falchi: “le sanzioni saranno alleggerite solo fin quando Teheran dimostrerà di rispettare l’intesa”. Poi il presidente ha aggiunto: “si tratta di un modesto sollievo e in caso di violazione dei termini saranno adottate nuove misure punitive”. Il “modesto sollievo” è stato anche quantificato: 4,2 miliardi di dollari che però finirebbero nelle mani degli iraniani solo alla fine dei sei mesi di prova, ovvero il prossimo 20 luglio. Fino ad allora - e su questo punto Obama è stato chiarissimo - il presidente porrà il veto su qualsiasi provvedimento del Congresso che prevede nuove sanzioni. “Non ho illusioni su quanto sarà difficile raggiungere l’obiettivo, ma per il bene della pace è il tempo di dare una possibilità alla democrazia”

Corriere 13.1.14
Il rischio dell’indebitamento cinese l’altra faccia della globalizzazione
di Guido Santevecchi


Sembra uno scherzo parlare di crisi di liquidità in un Paese come la Cina che ha riserve di valuta straniera per oltre 3.660 miliardi di dollari e un fondo sovrano, il Cic (China Investment Corporation) nella cui cassaforte il governo ha infilato 575 miliardi di dollari. Ma per due volte, l’anno scorso, prima a giugno e poi a fine dicembre, le banche della Repubblica popolare hanno quasi smesso di prestarsi soldi tra di loro, facendo schizzare i tassi interbancari a sette giorni quasi al 9%. È intervenuta la banca centrale con una bella iniezione di svariati miliardi e il mercato si è stabilizzato tornando sul 5%. Ora suona il gong per un altro round di turbolenza: non riguarda le banche (in Europa sappiamo bene che di solito «sono troppo grandi per fallire») ma il sistema di prestiti P2P, che vuol dire «peer-to-peer». E, secondo i dati raccolti dal Financial Times , sta saltando.
Non è un caso che tutti questi sistemi innovativi per muovere denaro abbiano nomi in inglese, la lingua della deregulation. Ma stanno mettendo radici anche in Oriente. Il metodo P2P è composto da siti web che, per una commissione bassa, mettono in contatto privati che vogliono investire con altra gente che ha necessità di prendere in prestito piccole somme: «peer-to-peer», più o meno da pari a pari. Nell’economia di mercato «con caratteristiche cinesi», che impone grandi restrizioni al sistema finanziario, il P2P ha avuto un boom: i mediatori online si sono lanciati nel business di trovare creditori disposti a fare prestiti ai piccoli e piccolissimi imprenditori. Questi ultimi felici di trovare finanziamenti e i primi soddisfatti di ottenere tassi che le banche non possono dare.
Il mercato «peer-to-peer» valeva solo 30 milioni di dollari quando è sbarcato in Cina nel 2009. Si è moltiplicato per trenta e nel 2012 ha mosso 940 milioni di dollari. Le previsioni sono (erano?) per quasi otto miliardi di dollari nel 2015. Ma a quanto pare il nuovo giocattolo si è rotto. Dei circa mille P2P sbocciati in Cina 58 sono falliti nell’ultimo trimestre del 2013. E gli esperti del settore credono che il 90 per cento delle agenzie online farà la stessa fine. La moria del «peer-to-peer» è cominciata proprio con la crisi di liquidità nel grande sistema bancario cinese.
Il P2P con il suo microcredito è una goccia nel mare del debito cinese. Ma nel mare sembra prepararsi una tempesta. Anche perché la Cina non era abituata storicamente all’economia del debito. Pechino l’ha abbracciata con la crisi finanziaria globale del 2008, per mantenere il ritmo di crescita nonostante la frenata del resto del mondo, il suo grande mercato. Il sistema bancario ha finanziato con estrema generosità progetti per infrastrutture pubbliche, piani edilizi e industrie.
Da allora il debito complessivo (Stato, imprese e famiglie) è stato appesantito di un 70 per cento almeno, arrivando al 200 per cento del Prodotto interno lordo. Il governo è consapevole del pericolo, promette di intervenire; ma l’economia cinese ormai è cambiata dopo aver assaggiato la droga dell’indebitamento facile.
E non sono solo le grandi industrie che continuano a sfornare acciaio e cemento nonostante un evidente eccesso di produzione, o i palazzinari che costruiscono grattacieli e shopping mall destinati a restare vuoti ad essersi assuefatti a ricevere un credito insostenibile. Anche le famiglie, tradizionalmente risparmiatrici, hanno cambiato abitudini.
Delle tre categorie del debito — Stato, imprese e famiglie — l’ultima è valutata in duemilacinquecento miliardi di dollari. È ancora solo un terzo circa del Pil della Cina, metà dell’indebitamento pubblico e un quarto di quello delle imprese. Ma se si guarda alla progressione del debito delle famiglie ci si deve preoccupare. In cinque anni è triplicato. Nel 2008 il nucleo familiare medio in Cina doveva il 30% del suo reddito disponibile, mentre nel 2011 era già arrivato al 50%. Certo, i livelli occidentali, dove si supera il 100%, sembrano ancora lontani, ma i cinesi hanno dimostrato di saper correre nel campo dell’economia, sia nel bene sia nel male.
Sono i giovani tra i 30 e i 35 anni, che hanno fatto irruzione in una classe media di oltre 500 milioni di anime, il gruppo più a rischio di «default». Mentre i loro genitori erano nati risparmiatori, loro spendono. Anzitutto per avere una casa: questa classe media emergente vive nelle grandi città dove gli appartamenti continuano a salire di prezzo (tra il 113 e il 250% in dieci anni) e in città non ci si sposa se non si ha una casa. Nove cinesi su dieci sono proprietari dei loro alloggi, ma i mutui mangiano i redditi. La legge vuole che almeno il 30% della somma per l’acquisto sia pagata in contanti e se non si hanno ci si rivolge al prestito «peer-to-peer» che può praticare tassi fino al 15%. Ma poi ci sono le spese variabili di una classe media che vuole correre. Per riconvertire l’economia cinese troppo dipendente dalle esportazioni il governo del presidente Xi Jinping vuole spingere i consumi interni. I giovani in carriera non si fanno pregare: ecco perché la Cina è la nuova frontiera dei marchi automobilistici, del lusso, dell’abbigliamento, dei tour operator. È la globalizzazione. Anche dell’indebitamento.

Repubblica 13.1.14
Guardando ad est e alla Cina
Torna a Bologna “Artefiera”


BOLOGNA. Per la prima volta anche le opere della seconda metà dell’Ottocento, una nuova sezione dedicata alla fotografia e un focus sui paesi dell’Europa dell’est e soprattutto sulla Cina. È l’edizione 2014 di Artefiera che torna all’expo di Bologna dal 24 al 27 gennaio, con 172 gallerie in mostra. Una partecipazione in crescita del 75 per cento rispetto allo scorso anno. Fuori dai padiglioni di piazza Costituzione, torna anche il programma “Art city” con i percorsi culturali di mostre e iniziative e la loro apertura straordinaria, durante la notte bianca del 25 gennaio. Alle gallerie si aggiungono inoltre più di trenta fra case editrici, librerie specializzate in arte e istituzioni museali.

l’Unità 13.1.14
Il bambino che rideva
La storia di Eliseo, baby dislessico negli anni 70
di Pasquale De Caria


il Fatto 13.1.14
Depressione
17 milioni soffrono in silenzio
Come uscire dal male oscuro
di Elisabetta Ambrosi


17 milioni di italiani soffrono di disagi mentali, un disturbo trasversale e taciuto, mentre il consumo di anti-depressivi aumenta del 400% e le terapie non sono alla portata di tutti. Il racconto di manager, calciatori, musicisti, gente comune che ha conosciuto il dolore di depressione, esaurimento e panico. Ma vincerlo si può, gli esperti ci spiegano come fare.

Lavoravo alla Fiat, ero un pezzo grosso. Viaggiavo spessissimo. Poi un giorno, su un Boeing 747, ho cominciato ad ansimare, un terrore impossibile da descrivere. Mi sono aggrappato alla hostess dicendole con voce strozzata: “Muoio”. Dopo quell’episodio F. si è dovuto fermare. Tornare al suo posto era impossibile, “non riuscivo più neanche ad attraversare la strada, era come se un diagramma mi separasse dal mondo”. Poi le dimissioni, le cure per una diagnosi di depressione, un altro lavoro e un’altra vita.
C., invece, era una promessa del calcio, giocava in serie B. Fino a quando arrivò la notizia che un talent scout del Milan sarebbe venuto a vedere la partita. “Crollai e fui sostituito, smisi di giocare. Per anni ho sofferto di gravi sintomi, mi sembrava che la mia vita fosse finita. Più tardi ho capito, grazie a uno psicoanalista, che avevo paura della libertà di scelta. Oggi vivo in campagna con mia moglie, sono un’altra persona”.
Ancora oggi, sia F. che C., che pure si definiscono “più felici di prima”, non osano dire il loro vero nome, per il timore di essere additati come persone disturbate, malate, mal funzionanti. Eppure, come ha scritto Tahar Ben Jelloun in L’albergo dei poveri, “la depressione colpisce a caso: si tratta di una malattia, non di uno stato d'animo”. Di più, è una “malattia democratica”, per ricordare l’espressione di un grande depresso come Montanelli, trasversale al ceto sociale, nonostante la crisi l’abbia resa più insostenibile, trasversale al genere (anche i numeri sono a svantaggio delle donne: sia per la maggiore pressione sociale subita sia, però, per la maggiore facilità ad ammettere il malessere).
La malattia “democratica”
Il disagio psichico, allora, è piuttosto qualcosa che ci accomuna: secondo una recente ricerca della Società Italiana di Psichiatria, sono circa diciassette milioni gli italiani con problemi di salute mentale: disturbi d’ansia, depressione, insonnia, disturbo post traumatico da stress. Problemi ai quali, come ha denunciato più volte lo stesso presidente della Sip Claudio Mencacci, non corrisponde un’offerta di cure adatte, visto che solo l’8-16% incontra professionista, e solo il 2-9% ha un trattamento adeguato, fatto di psicoterapia e farmaci. Quelli giusti, però. Perché l’altro tema che la questione della sofferenza mentale porta con sé è il grande abuso di psicofarmaci, cui gli italiani fanno sempre più ricorso: benzodiazepine, ansiolitici e ipnotici, ma anche antidepressivi, il cui uso, nell’anno in cui il Prozac compie 25 anni, è quadruplicato in dieci anni, secondo i dati del Rapporto Osservasalute 2012. Per maggiore consapevolezza, certo, ma anche a causa di prescrizioni troppo disinvolte (talvolta persino agli adolescenti, come ha segnalato un’allarmante indagine dell’Università di Torino), magari del medico di base.
E poi c’è, anche, la difficoltà a trovare lo psichiatra o il terapeuta giusto. Chi si rivolge al privato, ad esempio, si trova di fronte a un professionista – in Italia ci sono circa 40.000 psicoterapeuti, e quasi altrettanti psicologi “semplici” - che di fatto viene monitorato, quando ciò accade, solo dai supervisori della scuola di appartenenza (circa 340 in Italia).
Tanta sofferenza e cure fai da te
E non sempre il primo esperto trovato è quello giusto, come testimonia la vicenda di Sara, quarant’anni e due figli piccoli. Reduce da un lungo trattamento psicoanalitico fallito, dopo il quale le è stata imposta una cura di antidepressivi sbagliata per un disturbo bipolare, ha affrontato un angosciante calvario, dal quale è uscita trovando il coraggio di cambiare specialista. “Gli errori sanitari esistono anche in questo ambito”, dice. “Ma questo non vuole dire che non sia fondamentale chiedere aiuto, anzi”. Anche per Francesca, giovanissima musicista, uscire dalla sofferenza è stato “un percorso fatto di tentativi ed errori”. Lei, un talento in crescita, racconta del momento in cui tutto si è bloccato. “La cosa peggiore è sentirsi incompresa, emarginata: nel mondo dello spettacolo devi avere un’immagine invincibile. Mi ha aiutato un medico illuminato”.
L’ultimo capitolo riguarda il rapporto tra la crisi e la salute mentale dei cittadini. Perché se il tema della sofferenza psichica è dimenticato dal dibattito pubblico (salvo essere riportato in vita da casi drammatici come quello dell’uccisione a Bari della psichiatra Paola Labriola), tg e giornali da mesi raccontano la cronaca di suicidi e omicidi in maniera spesso distorta. Etichettando come suicidi da crisi tutte le morti di persone in difficoltà economica (o, viceversa, dimenticando che ci sono condizioni ambientali e sociali insostenibili, come nel caso di immigrati o carcerati). Che esista un rapporto diretto tra disoccupazione e tagli allo stato sociale e aumento del rischio di depressione, comportamenti a rischio e suicidi è ormai assodato, come mostra ad esempio l’ultimo rapporto dell’Oms Europa sulle diseguaglianze (esemplare il caso Grecia, che prima della crisi aveva il tasso di suicidi più basso d’Europa, 3 ogni 100.000 abitanti).
La patologia e la crisi
“Uno stato che taglia su tutto”, sottolinea la psicoanalista Marta Tibaldi, “è simile a un genitore che perseguita invece di prendersi cura, e può riattivare vissuti traumatici infantili o aggravare modalità già fragili di rapporto con il mondo esterno”. Ma se è vero, come racconta il libro di Elena Marisol Brandolini, Morire di non lavoro (Ediesse), che la disoccupazione può uccidere, difficilmente potremo sapere cosa davvero ha spinto le circa quattromila persone che, nel 2013, in Italia, si sono tolte la vita (con casi particolarmente strazianti, come quelli dei coniugi di Civitanova Marche). Che sia un vissuto dell’infanzia o un licenziamento, di sicuro chi si uccide, come ha scritto Forster Wallace in Infinite Jest, non lo fa per motivi astratti o “perché la morte comincia a sembrare attraente”, ma nello stesso modo in cui “una persona intrappolata si butterebbe da un palazzo in fiamme”. Ed è questo che andrebbe tenuto presente. Insieme all’altro, fondamentale messaggio: che dalla depressione, e dalla sofferenza mentale, si può uscire, anzi guarire. La strada è sempre la stessa, ieri come oggi: accettare di star male e chiedere aiuto. Per trasformare l'assoluto cieco del dolore comprendendo le ragioni - antiche e nuove, biologiche, emotive e sociali - che lo hanno generato.

il Fatto 13.1.14
Vittorino Andreoli (psichiatra)
“Guarire si può, ma con cure mirate"
intervista di Chiara Daina


LA PAROLA “depressione” è abusata. Un conto è “essere tristi” per un evento, come un lutto, la perdita del lavoro, la fine di un matrimonio. Ed è una cosa normale. Un altro, è soffrire di depressione, cioè una patologia. Vittorino Andreoli, luminare della psichiatria contemporanea, ex direttore del Dipartimento di psichiatria di Verona e membro della New York Academy of Sciences, parla di tre sintomi clinici: “L’incapacità a svolgere attività che prima erano normali, il senso di colpa per non saperlo fare, paura o desiderio della morte. Ma il paziente non sa il perché. Invece attacchi di panico e tachicardia sono disturbi dell’ansia spesso associati alla depressione”.
Quali sono le sue cause?
Dipende da tre fattori: un’anomalia genetica, le esperienze vissute fin da piccoli, per esempio con una madre depressa o un padre autoritario, e l’ambiente relazionale, cioè luoghi e persone che si frequentano.
Incide la crisi?
Certo. Ti fa credere che non c’è più posto per te. La società di oggi non mi piace, lo scriva! È stressante, colpevolizza chi non è bello o senza soldi. Vai avanti se hai potere, se sei timido devi nasconderlo. È la fragilità la nostra condizione esistenziale: ci dà il senso del limite, l’onnipotenza invece è distruttiva. L’uomo non è solo un uomo produttivo, ha tanti altri bisogni, come amare ed essere gratificato.
Come si cura la depressione?
Integrando la psicoterapia con l’uso di antidepressivi e la sociologia. In alcuni casi bisogna dare importanza solo a una terapia: chi è a rischio suicidio non collabora e va aiutato con psicofarmaci.
I farmaci creano dipendenza?
Sì, se si assumono alte dosi giornaliere per lunghi periodi. A volte basta interrompere la terapia per una settimana per non crearla.
Alla fine si guarisce?
Sì, come tutti i disturbi della mente, perché si collocano nella parte plastica del cervello, nella zona frontale e temporale, che si riorganizza a seguito di nuove esperienze. Ma ci servono strumenti di cura più rapidi: la psicanalisi dura anni, a volte fallisce. E lo psicofarmaco da solo non basta.
Se trascurata, qual è il rischio più grande?
Il suicidio o l’autolesionismo, cioè la morte lenta.

il Fatto 13.1.14
Marina Valcarenghi (psicanalista)
“Il disagio mentale non è più un tabù”
intervista di Ch. Da.


LA DEPRESSIONE scaturisce da un determinato trauma, ma non vale il contrario: lo stesso trauma in altre persone non porta per forza alla depressione. In pratica, “non c’è una regola che vale per tutti - spiega Marina Valcarenghi, psicanalista junghiana di Milano, dove ha fondato una scuola di specializzazione in psicoterapia -. La reazione a uno choc dipende dal nostro temperamento: un abuso sessuale può generare la depressione in una persona, in un’altra no”.
Qual è il compito dello psicanalista?
Di fronte al paziente che dice ‘io non ho voglia di vivere e non so il motivo’, lo psicanalista deve trovare le cause, che solo apparentemente non esistono, in realtà sono inconsce o parzialmente consce. L’istinto di conservazione è insito nella natura umana, se non funziona ci deve essere una ragione.
Per esempio?
Un incidente non elaborato, la relazione con una madre isterica, un padre autoritario.
In che cosa consiste il metodo psicanalitico?
Si analizzano sogni, fantasie, manifestazioni del corpo, e la storia familiare del paziente. Capite e rielaborate le cause, il paziente si riprende. In media una terapia dura tre anni.
È previsto il fallimento?
Sì, non dipende però dalla patologia, ma se la persona è motivata o meno.
Solo il medico può prescrivere gli psicofarmaci. Lei crede che siano efficaci?
In certe situazioni sì, per esempio quando una persona vuole ammazzarsi. Troppo spesso però ‘una medicina spensierata’ li consiglia per combattere un semplice calo di umore. La sofferenza invece fa parte della vita e si assorbe col tempo.
La depressione è ancora un tabù?
Rispetto a 30 anni fa non c’è la stessa vergogna. Oggi vengono in analisi anche medici, manager, ingegneri, che prima non sarebbero mai venuti. Poi sono aumentati gli uomini, soprattutto quarantenni e cinquantenni.
Lo stile di vita influisce sulla psiche?
Eccome. Dovrebbe essere più sobrio e legato ai bisogni umani, soprattutto la curiosità e la bellezza. La società non ci lascia spazio di crescita, siamo stati abituati a far girare l’economia ma oggi il meccanismo si è inceppato e ci sentiamo traditi e arrabbiati.

il Fatto 13.1.14
Anselm Grun (monaco benedettino)
“La psicoterapia come via di salvezza”
intervista di Ch. Da.


LA FEDE IN DIO è un altro modo di affrontare il disturbo depressivo. Anselm Grün, monaco benedettino tedesco, è convinto che un dialogo tra teologia e psicologia sia possibile. Ma precisa: “Alla Chiesa non spetta valutare la depressione. Prende atto che esiste e aiuta come può”. Per quello che scrive nei suoi libri (300 all’attivo) e quello che insegna nei corsi di meditazione (35 all’anno), giura di non sentirsi un rivoluzionario o un eretico: “Cerco di trasmettere la tradizione spirituale del cattolicesimo all’uomo moderno. Tra le cause della depressione, oltre alle false aspettative dalla vita, come il successo a tutti i costi al di là dei limiti, c’è una mancanza di radici e di fede che invece sono importanti”.
In che senso?
La fede in Dio ci regala fiducia nella vita e ci fa vedere che la vita può avere un senso, che è una benedizione per me e gli altri.
Perché Gesù è un terapeuta dell’anima?
Riconoscere Gesù come maestro di salvezza è un modo per vivere liberi dalle paure e da ogni condizionamento. Io consegno il mio dolore a Dio e così lo condivido con il suo amore.
Cosa c’entra la preghiera con la depressione? Spesso si ha la sensazione che ripetendo formule sempre uguali le parole siano vuote, non vengano rivolte a nessuno e non risolvano il male d’esistere.
Recitare formule è una forma superficiale di preghiera. Quella vera consiste nel confidare a Dio le mie emozioni. Molti però hanno paura di rimanere in silenzio perché temono di sentire che hanno fallito.
Ma allora la psicoterapia non conta niente?
No, però è fondamentale associarla alla spiritualità. Quello che rivela la psicoterapia deve essere portato nella preghiera, perché l’ultimo a salvarci è Dio. La psicoterapia è una via alla salvezza.
Lei è un istruttore di meditazione: è una via d’uscita dalla depressione?
Non è il massimo per un depresso, che al contrario ha bisogno di fare delle passeggiate, di sentirsi nel corpo e sentire il suo corpo.

il Fatto 13.1.14
Quel dolore che non ammette nessun outing
Guarire è possibile, se non si viene bollati e lasciati soli
di Ferruccio Sansa


Si può fare outing di tutto (fortunatamente) nella nostra società. Ma di una cosa no: il malessere psichico. Depressione, esaurimento, panico non sono perdonati. Ci condannano colleghi, amici, addirittura la famiglia. Quanti di noi hanno liquidato conoscenti colpiti dal male oscuro con un’odiosa parola (che andrebbe bandita): pazzo. Quanti si sono sentiti a loro volta definire “malati”. Parole che scavano un confine e condannano alla solitudine. Milioni di italiani vivono con questi terribili compagni accanto. Si aggrappano, come a un salvagente, ad antidepressivi e ansiolitici, nel terrore di perdere lavoro e affetti. Incapaci di vivere. Di essere.
Accade magari all’improvviso: una mattina ti accorgi che un diaframma ti separa dal mondo, dalla vita. É una crisi di panico che ti toglie l’aria, un malessere che cerchi nel corpo, ma non trovi. Dove allora, dove? Nella testa, la sede più profonda di te. Sì, allora è vero, sei pazzo, se d’un tratto non riesci più a uscire, ad attraversare la strada. A vivere. Difficile immaginare sofferenza più acuta, ma invisibile, impossibile da esprimere perché non possediamo più le parole per farlo. Ce l’hai dentro, ma non sai dove, non capisci cosa sia. Sei tu, è la risposta che ti suggeriscono gli altri. E ti ritrovi disperatamente solo. “Tutto fa gorgo”, diceva il poeta Adriano Guerrini. Sei “nella selva oscura” scriveva Dante. Infinite le citazioni possibili - a cominciare dal “Male Oscuro” di Giuseppe Berto - non per sfoggio, ma per accorgerci che tanti sono soli insieme con noi. É il primo passo per uscirne: condividere la sofferenza. Evitando la tentazione del senso di colpa. No, il disagio non è una colpa. É inutile puntare il dito contro se stessi, ma anche contro genitori o coniugi. Cause, però, ce ne sono, come dice Caterina Bonvicini: “La depressione è quel groviglio di errori (di questioni non risolte, aggiungiamo noi) che a un certo punto ti crolla addosso intero”. É un male oscuro che richiede di essere chiarito. Non c’è altra via di uscita: uno sforzo sovrumano per ricomporre la propria esistenza. Si può trovare un primo sollievo nei farmaci, nell’attività fisica che ci rimette in sintonia con il corpo, il nostro legame con il mondo. Ma occorre affrontare quei nodi, per ritrovare in se stessi un compagno, non un nemico. Solo chi ci è passato sa quanto sia doloroso. Ma il male può diventare un’occasione irripetibile.
Se ne esce da soli, ma con il conforto degli altri. E qui sì che ci sono colpe, della nostra società che ignora questo male per timore di esserne contaminata o di dover riconoscere le proprie mancanze. Dello Stato che non fornisce cure adeguate e accessibili a tutti.
Ma se ne esce, magari all’improvviso come vi si era sprofondati. Racconta Hubert Selby Jr nel“Canto della neve silenziosa”: un giorno esci di casa, cammini nel bosco coperto di neve. E sei di nuovo vivo.

il Fatto 13.1.14
Luogo di sofferenza
L’insostenibile pesantezza del lavoro
di Paola Porciello


Stress da lavoro. L’ufficio che diventa prigione. É una delle forme di disagio più frequenti. Sofferenze troppo spesso sottovalutate, mobbing, vessazioni e competizione esasperata possono diventare anticamera di ansia, depressione, aritmie, asma, panico.
SECONDO Paolo Campanini, psicologo del lavoro e dottore di ricerca dell'Università di Milano, non esistono lavori più stressanti di altri. Ciò che può trasformare in un vero incubo la propria attività lavorativa è il verificarsi di alcune condizioni: “Il lavoro notturno, la turnazione, la mancanza di una formazione specifica, la pressione da parte dei superiori, cattivi rapporti con i colleghi, richieste eccessive e irrealizzabili”. Risulta inoltre determinante il modo in cui ciascuno di noi affronta il lavoro: “I più esposti sono quelli che presentano un iper coinvolgimento e che finiscono per identificarsi completamente con il proprio ruolo professionale”. Quando poi le cose non vanno per il verso giusto, tutta la costruzione comincia a vacillare. La fragilità del nostro sistema affettivo, sviluppatosi nella prima infanzia e nell'adolescenza, è direttamente collegato con i circuiti dello stress, e diventa fattore di rischio.
Una delle fonti più insidiose di stress è il mobbing. “In Lombardia – spiega Campanini – abbiamo riscontrato che circa il 7% dei lavoratori si trova in questa condizione”. Le conseguenze possono essere anche gravi: condizioni di lavoro insostenibili, perdita del posto, una causa giudiziaria, la malattia. C'è anche chi decide di intraprendere un percorso di psicoterapia.
“L'APPROCCIO cognitivo-comportamentale è molto efficace in questi casi grazie a tecniche concrete, finalizzate a una ristrutturazione cognitiva dei pensieri che ci danneggiano e a una loro sostituzione con altri più adatti alla situazione”.
Alcuni consigli pratici per chi cerca una via d'uscita: “É fondamentale differenziare il più possibile le proprie attività”. Secondo lo psicologo del lavoro bisogna infatti cercare di utilizzare il tempo libero per dedicarsi ad altro: sport, hobby, volontariato, la famiglia o la coppia. É importante capire cosa è nel lavoro che produce tensione (gli orari, i rapporti interpersonali, l'eccessivo carico di responsabilità) e ragionare con i propri superiori e colleghi per cercare una soluzione all'interno dell'azienda. La psiconeuroimmunologia è una disciplina medica che si occupa dello stress e di come questo incide sul nostro organismo. Sabrina Ulivi, specialista in Psicologia clinica e presidente dell'Associazione nazionale stress e salute (Anses), afferma: “Dopo ventotto giorni lo stress diventa cronico. Il risultato è una variazione dei livelli di serotonina, direttamente implicati con l'insorgenza della depressione”. L'Anses mette a disposizione un servizio specialistico gratuito sul territorio, presso gli “sportelli-stress”.
Un recente studio (anche italiano) pubblicato dal Journal of Neuroscience permette di confermare sempre più che la soluzione allo stress è dentro di noi. É stata infatti individuata una molecola anti-stress prodotta dal cervello, detta “nocicettina” che avrebbe un effetto calmante e protettivo.

il Fatto 13.1.14
La terapia diventa un lusso
di P. P.


UNA SEDUTA di psicoterapia deve costare, per legge, tra i 40 e i 140 euro. Le cure psicologiche e psichiatriche possono raggiungere costi molto elevati, specie se prolungate nel tempo, e molti non possono permettersele. L’Unità operativa di Psicologia Clinica del Fatebenefratelli di Roma, coordinata dalla dott.ssa De Berardinis, ha fatto una scelta precisa: offrire servizi professionali al costo del ticket ospedaliero regionale (35 euro circa) proponendo un’accoglienza nel rispetto dei reali bisogni della persona. “Chiunque può rivolgersi al centro per un primo orientamento gratuito senza liste d’attesa. L’obiettivo è offrire un servizio di promozione della salute generale, tenendo conto del rapporto dell’individuo con il suo ambiente. Perché la salute è un fatto psicosociale”. Su il  fattoquotidiano.it   l’intervista completa.

il Fatto 13.1.14
Pan(ico) quotidiano
La piazza virtuale come fuga
di Emiliano Liuzzi


Prima della psicologia ci arrivò la filosofia antica. Aristotele secondo il quale il singolo non basta a se stesso. L’uomo è un ingranaggio di una macchina sociale, che se isolato smette di funzionare. E allora forse è proprio qui che va ricercata la paura di stare soli. Di non avere nulla di cui prendersi cura o, viceversa, di non poter contare su alcuno quando si ha bisogno di aiuto. La paura della solitudine è la paura di non poter mostrare ciò che siamo o siamo diventati. Perché se non c'è chi ci riconosce è quasi come se non esistessimo. E’ anche così che nascono i social come strumento terapeutico. E secondo gli psicologi, Twitter in particolare, sono la sensazione di restare in comunicazione col mondo. Non importa se anche solo in maniera virtuale. Così finisce che si traducano in pochi caratteri anche delle sciocchezze, scene di vita quotidiana che nessuno potrebbe (o dovrebbe) conoscere. Pensieri e, talvolta, retropensieri. “Viene usato spesso come antidoto alla solitudine”, dicono i medici, “e così diventa compulsivo. Se può la paura della solitudine essere considerata un disturbo patologico? Forse è il disturbo più diffuso e ne origina un’altra serie e di più intensa gravità. Come l’autostima”. Antonio Lo Iacono, nel libro Psicologia della solitudine, sostiene che sia paradossale “negare la propria solitudine” e che in fondo equivale a negare se stessi: per cercare di non soffrire si può entrare in uno strano spaesamento, un non-luogo che rappresenta l’immagine più affascinante, ma anche più drammatica della solitudine”. Maria Gabriella Scuderi, psicologa e psicoterapeuta, spiega che “stare da soli ci obbliga a fare i conti con i nostri limiti. Per imparare a stare da soli bisogna prima di tutto avere un buon rapporto con la propria persona, conoscere le proprie risorse, perché sono i nostri punti di forza più che le nostre fragilità che ci permettono di stare bene in solitudine”.

il Fatto 13.1.14
Fino in fondo, e ritorno
Quella gioia furiosa tornando in superficie
di Caterina Bonvicini


Sono famosa per il mio sorriso. L’ho ereditato da mio nonno, anche lui era famoso per il suo sorriso. Mi dicono che mette allegria. Non so. So solo che il mio sorriso metteva allegria persino quando ero depressa. Magari il giorno prima non riuscivo ad alzarmi dal letto, ma se sorridevo (quando lo facevo) nessuno sospettava niente. Anzi, portavo buon umore. Insomma, ho attraversato sorridendo i miei anni bui. Che sono stati cinque.
Certo, non mi è mai mancata l’autoironia. Spesso non avevo forze per altro, ma per prendermi in giro trovavo sempre un po’ di energia. Ricordo un capodanno trionfante, dicevo: Dai, nel 2010 sono riuscita a non suicidarmi neanche una volta. E giù a ridere. Tenevo comunque all’eleganza, e forse anche alla dignità.
Tutto è cominciato con una serie di attacchi di panico. La prima volta non ho riso per niente, credevo di avere un ictus. Era una giornata tranquilla, una domenica pomeriggio, la mattina ero andata anche a vedere una mostra. Di colpo, non mi muovevo più. Braccia e gambe completamente paralizzate. Riuscivo solo a usare le dita della mano e con grande sforzo ho schiacciato un tasto sul cellulare, l’ultima chiamata fatta, a un amico. Ambulanza, pronto soccorso, mi hanno caricata su una sedia a rotelle e mi hanno portata d’urgenza a fare una risonanza. Addio, mi è partito qualcosa nel cervello, pensavo. Infatti qualcosa era partito, ma i vasi sanguigni non c’entravano. Era l’anima in sciopero. Forse si rifiutava di seguirmi nelle mie disavventure.
Purtroppo, quel giorno, nessuno mi ha detto che gli attacchi di panico sono l’anticamera della depressione. Mi hanno dimessa dopo una flebo di ansiolitici, e tanti saluti. Finché non sono tornata lì, un anno dopo, con un paio di boccette di sonniferi in corpo. La mia vicina di casa, che aveva le chiavi, era entrata perché sentiva il cane abbaiare. Ero ancora poco esperta di dosaggi, per fortuna. In ogni caso non era destino. E nemmeno le volte successive, quando ho aumentato le dosi tanto da svenire prima di finire le pillole che avevo in mano. Mi sono fatta solo un po’ di coma. Poi, fresca come prima.
Ho pure scritto due romanzi, fra un suicidio e l’altro. Certo, non esattamente allegri come il mio famoso sorriso (uno, L’equilibrio degli squali, sulla depressione e l’altro, Il sorriso lento, sul cancro), ma densi e corposi. I romanzi sono roba per animali da soma, ancora mi chiedo come ho fatto. Mistero.
Il vero mistero però è stato un altro: l’uscita dalla depressione. Una procedura da manuale, però al contrario. Qualunque psichiatra mi avrebbe fucilata. Consiglio ai lettori di evitare questo metodo, altamente rischioso. A me è andata bene, ma era l’ennesimo suicidio scampato. Una sera, al culmine della crisi, mentre l’uomo con cui convivevo mi lasciava per un’altra, ho buttato tutte le medicine dalla finestra. Un gesto inquinante, pazienza. Del resto, è abbasta raro che uno, durante un raptus, esca a cercare un bidone per la raccolta differenziata di farmaci scaduti. Le mie amiche si sono messe le mani nei capelli. Oddio. Senza scalare gradualmente, intossicata da anni e anni di antidepressivi, sonniferi e stabilizzatori dell’umore, in dose da cavalli, non potevo che buttarmi dalla finestra io, altroché farmaci. Quindi sono stata salvata ancora. Si sono date i turni, mettendosi d’accordo fra di loro a mia insaputa, per non lasciarmi sola mai. Guarda caso, a fine serata c’era sempre qualcuno che si sentiva un po’ stanco e mi chiedeva di restare a dormire. Poi, colpo di scena: mi sono innamorata .
Le endorfine dell’amore sono più potenti di qualsiasi farmaco, sono naturali e non pesano nemmeno sul fegato. Poteva essere una reazione fisica, lo ammetto: la ricerca di sostanze. Ma sono stata di nuovo fortunata. Non era una bisogno chimico, era l’uomo della mia vita.
Comunque ricordo una gioia furiosa. E prima dell’innamoramento. Persino nella massima disperazione. Anche se smettere di colpo con le medicine mi provocava tremori, attacchi di panico continui e notti insonni, era come respirare dopo aver vissuto per cinque anni sott’acqua. Risalire veloce, rischiando un embolo, e aprire affannosamente la bocca. Niente a che vedere con quell’erogatore che stringevo fra i denti. Era aria vera, improvvisamente. Mi stordiva persino, il troppo ossigeno. Ero abituata a percezioni ovattate dai farmaci, mica a sentire la vita addosso come si sente l’acqua fredda o il sole che si riflette in faccia, rimbalzando su un’onda. Avevo la testa fuori, finalmente. E lo sapevo. Vedevo il cielo, per esempio. Allora esiste, pensavo, e sorridevo – in tutto il mio famoso sorriso. Pieno, intenso, addirittura rabbioso nella sua luminosità.
Per mesi sono andata avanti per autocombustione. Non mangiavo, non dormivo, non stavo mai ferma. Ero così stufa di essere sedata. Poi, piano piano, mi sono calmata. Le endorfine dell’amore sono dolci, e non intossicano. Un corpo a cui qualcuno vuole bene comincia a volersi bene da solo e a riprendere i suoi ritmi, armoniosamente. E’ il confine affascinante fra un miracolo e la fisiologia.
La depressione, ufficialmente, viene definita endogena o esogena. Sono semplificazioni. Preferisco una semplificazione ancora maggiore allora, talmente semplice da essere inestricabile: la depressione è quel groviglio di errori che a un certo punto della vita ti crolla addosso intero. Era tutta colpa mia, insomma. Perché non ero capace di guardarli (o guadarli) con saggezza, i miei errori, con tolleranza. Un po’ da fuori, un po’ dall’alto, un po’ da lontano. Quindi li ho pagati. Succede.
L’incognita sono le proprie forze: non sempre se ne hanno abbastanza. La saggezza e la tolleranza richiedono molta energia. Allora adesso sto attenta. Guardinga, è la parola giusta. Tendo a mettere l’anima in tutto ma l’anima mia è una sola e si esaurisce, quindi quando la vedo un po’ stanca, faccio subito un passo indietro. Io sott’acqua non ci ritorno più, mi dispiace. Me la riprendo prima. Piuttosto la lascio vegetare davanti a qualcosa di stupido e riposante, se serve. Sono disposta a tutto, purché la sua sensibilità non me la consumi. Il resto non mi interessa.
La porto a sciare, l’anima. La butto in mare. La sdraio sul divano davanti a un thriller in tv, non importa. La porto via dal mondo, adesso. Perché finalmente la difendo. Quando è riposata, la mia anima digerisce molto meglio i suoi errori e quelli degli altri. E gli errori ci sono sempre, li facciamo tutti, sono la vita nella sua indelebile quotidianità. Tocca attrezzarsi, credo.

il Fatto 13.1.14
Armati e precari, l’esercito privato di 47mila vigilantes
É il sesto corpo armato in Italia
La formazione quasi non esiste: basta essere incensurati e ottenere il porto d’armi
Lo stipendio è da fame: 1020 euro al mese. Se perdi il posto ti resta l’arma
In un anno 30 morti per le pistole delle guardie giurate
di Alessio Schiesari


Le armi da fuoco delle guardie giurate hanno ucciso più di trenta persone negli ultimi dodici mesi. Non rapinatori o vigilantes morti in servizio, ma mogli separate, vicini di casa litigiosi, bambini che giocano con l’arma di papà e, soprattutto, tantissimi suicidi. L’ultimo episodio risale al 21 dicembre, quando una guardia giurata disoccupata di Latina ha ucciso la moglie, una donna rumena e ha ferito altre due persone. Tre giorni prima, a Novara, un 55enne aveva preso la pistola d’ordinanza alla moglie, l’ha uccisa e si è suicidato. A novembre, vicino a Trieste, un vigilante si è sparato alla tempia. Ad agosto, ad Avellino un ex vigilante è entrato nella casa del vicino, l’ha ucciso e ha ferito gravemente figlio, convivente e nuora incinta. A febbraio, a Firenze un metronotte disoccupato da un anno si è tolto la vita: era il terzo nel giro di pochi giorni. L’elenco è destinato ad allungarsi ancora. Negli ultimi trent’anni sono ottanta i vigilantes uccisi in servizio, lo stesso numero di morti che le armi di ordinanza fanno dentro le mura domestiche in appena 36 mesi.
Contratti da miseria
Trasporto valori, piantonamenti, ronde notturne: i compiti delle guardie giurate sono simili a quelli della polizia tradizionale. Con 47 mila effettivi sono la sesta forza armata del Paese. Quasi sempre sono arruolate con contratti precari e stipendi da fame: 1.020 euro lordi al mese. L’ultimo rinnovo del contratto nazionale prevede un aumento di 60 euro spalmati su sette anni. La formazione praticamente non esiste: per diventare vigilante basta essere incensurati e ottenere il porto d’armi. Non è previsto alcun test attitudinale, sull’uso di stupefacenti o psico-fisico, solo un corso di quattro ore dentro a un poligono di tiro, al termine del quale si diventa automaticamente guardia giurata. È lo stesso vigilante a dovere acquistare la pistola, che rimane in suo possesso anche in caso di perdita del lavoro. I sindacati da anni chiedono invano che le armi siano a carico dagli istituti di vigilanza e che questi le custodiscano in caso di licenziamento. Così, in rete si trovano perfino forum in cui le guardie giurate che hanno perso il posto offrono le loro pistole. “Lo Stato sta armando un esercito di disperati”, spiega Roberto Pau, segretario nazionale dell’associazione di categoria Anggi. “Purtroppo non c’è da stupirsi se uno, dopo il lavoro, perde anche la testa e comincia a sparare”, gli fa eco la collega Sabrina Cioli.
Ma è tutto il settore ad essere un ginepraio. A ottobre la Gdf ha scoperto un ammanco di 29 milioni di euro in un caveau di Silea, nel trevigiano. A gestirlo era la North East Services di Luigi Compiano, uno dei più importanti imprenditori della sicurezza a livello nazionale. Secondo gli inquirenti, Compiano svuotava i caveau per riempire di auto quattro magazzini di Villorba, dove le fiamme gialle hanno trovato 400 veicoli, oltre a 70 imbarcazioni ormeggiate in giro per l’Italia. Per i 671 lavoratori è stata avviata la procedura di mobilità. Quello di Nes è un caso limite, ma non l’unico. A novembre, Banca d’Italia ha chiesto il blocco di tutte le attività della Ipervigile di Nocera Inferiore perché durante una verifica ha riscontrato un ammanco di 400 mila euro in uno dei caveau gestiti dalla Bsk Service, una controllata del gruppo. Poste Italiane e le altre banche che si affidavano a Ipervigile hanno svuotato i caveau e i 157 lavoratori, che non vedono lo stipendio da sei mesi, sono a un passo dal licenziamento.
Anche Palazzo Koch ha capito che la situazione è fuori controllo quando, durante l’ultima ispezione su un terzo delle società di contazione (cioè quelle autorizzate a custodire il contante delle banche), ha riscontrato irregolarità nel 75% dei casi. “Il fatto che chi gestisce il vostro contante abbia l’autorizzazione di pubblica sicurezza non significa che sia a posto con le regole. Approfondite, fate verifiche anche voi”, ha detto, rivolto alle banche, Vincenzo Acunzo, coordinatore dell’Unità organizzativa per la vigilanza privata presso il ministero dell’Interno. In altre parole è lo stesso Viminale ad ammettere che è meglio non fidarsi dei controlli, perché non valgono nulla.
L’autorizzazione è compito del prefetto. Il titolare della licenza (in Italia sono circa 900) deve essere incensurato e avere cinque anni di esperienza nel settore o avere frequentato un master. “Il problema è che dietro al titolare della licenza c’è quasi sempre qualcun altro che comanda”, spiega Cioli.
Nei mesi scorsi si è conclusa la vicenda degli istituti di vigilanza Nuova Città di Roma società cooperativa e Metronotte città di Roma, assegnatari di molti appalti della Regione Lazio nella capitale, tra cui vari ospedali e il 118. Consulente esterno dei due istituti è Fabrizio Montali, figlio dell'ex sottosegretario socialista Sebastiano, poi passato in Forza Italia.
Montali (come ha confermato al Fatto il suo legale) è appena uscito da un processo in cui risultava coimputato assieme all’ex tesoriere della banda della Magliana Enrico Nicoletti, il Secco di Romanzo Criminale. Tra i dodici capi d'accusa contestati c'erano il riciclaggio di denaro e l'intestazione fittizia di beni. Varie accuse sono cadute, ma l’8 novembre Montali è stato condannato in primo grado a 18 mesi di reclusione per usura. La società replica: “I fatti per cui Montali è stato condannato sono precedenti alla nascita del rapporto di consulenza e non vi è alcun legame tra le due cose”.
Talvolta si è arrivati alla revoca della licenza. È il caso della International Security Service dei fratelli Buglione che per oltre vent’anni hanno gestito l’impero della vigilanza campana.
Se anche la revoca è inutile
Anche quando arriva, la revoca è spesso inutile: le stesse persone riaprono con una ragione sociale diversa, magari dopo avere coperto di debiti la vecchia società. Un meccanismo conosciuto perfettamente dal gruppo Union Delta: a settembre un blitz della Gdf ha portato all’arresto di dieci dirigenti del network di sicurezza, cui fanno capo 14 istituti di vigilanza che davano lavoro a mille guardie. L’accusa è di associazione a delinquere finalizzata alla frode tributaria: le società del gruppo, che avrebbero sottratto al fisco 38 milioni, venivano caricate di debiti e fatte fallire, cedendo gli appalti ad altri istituti gemelli.
La stessa tecnica utilizzata, secondo gli inquirenti, dalla napoletana Civin Vigilanza: i proprietari - secondo l’accusa - avrebbero caricato di debiti con il fisco l’Istituto Nuova Lince e avrebbero trasferito immobili, dipendenti e appalti alla neonata Civin, vendendo la vecchia Lince a una società di Hong Kong, con lo scopo, secondo gli investigatori, di depistare il fisco.

il Fatto 13.1.14
Due certificati e hai il revolver nella fondina
di Al. Sc.


Sono quasi 54 mila le licenze di porto d’armi rilasciate dai prefetti alle guardie giurate in Italia. La maggior parte (53.316) permettono la detenzione e il trasporto di armi corte, cioè le pistole, cui si aggiungano altri 474 permessi per i fucili (usati solo dai vigilantes impegnati nel trasporto valori). Il dato, fornito dalla Polizia di Stato, fa impressione se raffrontato al numero di porto d’armi rilasciati per difesa personale: 23mila, meno della metà rispetto a quelli rilasciati alle guardie giurate. Il porto d’armi per guardie giurate dura sei anni (mentre quello per difesa personale va rinnovato ogni 12 mesi) e per ottenerlo è sufficiente presentare il certificato penale dei carichi pendenti e sottoporsi a una visita medica in cui si accerta che il richiedente abbia una vista di almeno 7/10 e si attesta la sana costituzione fisica.
In pizzeria, al centro commerciale, perfino in ferie: le guardie giurate possono girare armate anche quando fuori dall'orario di servizio e sono autorizzate a custodire in casa fino a tre pistole. Nel 2007, dopo che un ex ufficiale dell’esercito di Guidonia uccise un passante e ne ferì altri otto sparando all’impazzata dal balcone di casa con un fucile da cecchino, l’allora ministro dell’Interno Giuliano Amato provò a modificare i requisiti per l’ottenimento del porto d’armi, inserendo anche degli accertamenti sull’idoneità psichica. Il Parlamento però non ha mai convertito la proposta in legge. Nemmeno una successiva proposta che prevedeva la sospensione del porto d’armi per le persone affette da malattie psichiatriche è mai stato convertito in legge. Quando una guardia giurata riceve un’offerta di lavoro, deve richiedere la licenza per le armi, il decreto di autorizzazione a svolgere la professione e procurarsi una pistola. Il costo totale tra documenti e arma va dagli 800 ai 1000 euro, tutti a carico del vigilante. In caso di licenziamento o cessazione del rapporto, porto d’armi e decreto (l’abilitazione alla professione) vengono sospesi, ma l’arma resta in possesso della guardia giurata. “Ci sono migliaia di ragazzi che fanno questo lavoro per pochi mesi, magari per sostituire i colleghi in ferie. Alla fine del contratto non trovano lavoro e si mettono a fare qualcos’altro. L’arma che hanno acquistato rimane però nelle loro case”, spiega Roberto Pau dell’associazione Anggi. Le licenze per il possesso e il trasporto di armi da fuoco sono 1.114 mila, di cui 697 mila per caccia e 373 mila per il tiro al volo. Le armi regolarmente denunciate però sono molte di più: secondo le stime Eurispes intorno ai 10 milioni, una ogni sei cittadini. Questo perché per detenere una pistola non è necessario il porto d’armi (che consente l’uso e il trasporto), ma è sufficiente una licenza per la detenzione. Ogni titolare della licenza può custodire 3 pistole, 6 armi sportive, 8 armi antiche e un numero illimitato di fucili da caccia. Nonostante la diffusione di armi da fuoco sia in aumento, nel 2012 il numero di omicidi è stato il più basso degli ultimi 40 anni. La metà sono stati commessi con armi da fuoco (+ 7% rispetto al 2011). Più alto il numero di suicidi: 3.000 (dati Istat), di cui 500 con armi da fuoco.

il Fatto 13.1.14
Turno di pattuglia
Notte e giorno col colpo in canna per mille euro
di Giulia Zaccariello


Il caffè scende lentamente, mentre l'orologio della piccola stanza in via della Barca segna quasi le 10 di sera. È questo l'ultimo angolo di luce, prima di salire in auto e iniziare il turno. Il prossimo arriverà solo all'alba, a pochi minuti dal ritorno a casa. In mezzo ci saranno strade deserte, saracinesche abbassate, ombre sospette e qualche sussulto, mentre tutt'intorno l'intera città tace. È l'inizio di una giornata lavorativa qualunque di una delle guardie giurate, che ogni notte pattugliano Bologna con la divisa de La Patria. Sono 21, distribuiti su tutta la provincia. “Ci si trova alla sede, si prende la valigetta con le chiavi, i tabulati, le codifiche della zona di competenza e si parte”. Il nome è quello di uno degli istituti di vigilanza privata più antichi e noti della città. Un po' per i 50 anni di storia che si porta dietro, un po' per un passato segnato da diversi casi di cronaca. Il primo episodio a finire sui giornali risale al 19 febbraio del 1988. Quella sera Carlo Beccari, guardia giurata di 26 anni in servizio a La Patria, è incaricato, insieme ad altri colleghi, di ritirare l'incasso di un supermercato a Casalecchio di Reno. Finirà assassinato in un assalto firmato dalla banda della Uno bianca. Il secondo invece è più recente. È del 2009 e racconta di quattro vigilantes (con cui l'agenzia ha poi rotto ogni rapporto) finiti in manette per aver pestato e rapinato due marocchini.
Oggi i numeri de La Patria sono quelli di un colosso del settore: due centrali operative attive 24 ore su 24, oltre 300 dipendenti, tra guardie giurate, operatori, addetti al portierato o al controllo degli accessi, e 32 pattuglie in collegamento radiosatellitare. Insieme alla Coopservice, altro gigante della sicurezza privata in emilia, è tra coloro che più collaborano con il 113 per la prevenzione di furti e rapine, e copre tutta la provincia di Bologna e da alcuni anni anche quella di Modena. In totale tre fasce orarie, tutti i giorni, 365 giorni all'anno. Anche se è il turno di notte quello più importante, dove si concentra il maggior numero di forze: 8 ore, dalle 22 alle 6, da quell' ultimo caffè preso alla macchinetta fino alle prime luci del mattino. Sempre in strada, al volante di un'auto scura con la striscia rossa, tanto familiare per chi abita sulla via Emilia. “Dobbiamo fare controlli regolari per tutta la notte. Ogni 2 o 3 ore, a seconda delle richieste del cliente. Il lavoro è tanto, ma in genere non viene mai lasciato indietro niente”. La routine della guardia giurata la racconta Salvo Arnoni, 53 anni, di cui quasi 15 con la divisa scura del vigilantes. “Prima facevo un mestiere completamente diverso: avevo un'azienda di confezioni a Napoli, dove sono nato, ma gli affari andavano male. Così nel 1999 sono venuto al nord, ho fatto domanda e sono stato subito assunto come guardia giurata”. Dalle ville arrampicate colli, alle profumerie sotto le due torri, dai negozi della bolognina, ai cantieri della stazione. Piccole aziende ma anche clienti di peso: Bartolini, Astaldi, Segafredo, Bulgari, Montenegro. Per 7 anni, tutte le notti, ha fatto tappa su ogni saracinesca e cancello di Bologna e provincia. Per una busta paga che, con le indennità, ora sfiora i 1700 euro mensili. “Ogni auto ha dietro una cassaforte, con le diverse chiavi d'accesso delle aziende e delle abitazioni da controllare. E a ciascuna pattuglia, identificata con un nome (Alfa5 ad esempio) è affidata una precisa zona di competenza”. Non c'è mossa o spostamento che non siano registratati in sede. “La pattuglia è sempre a disposizione della centrale. Questo vuol dire che quando scatta un allarme, l'auto va sul posto. E lì se c'è un emergenza o notiamo un cancello o una saracinesca forzata, si chiama la pattuglia confinante che viene a dare una mano. Mentre la centrale si mette in contatto con la polizia”. E se certe notti scorrono in silenzio, senza intoppi, altre invece rivelano rumori e ombre, che spingono la mano fino alla fondina della pistola. “Le situazioni di pericolo ci sono, ovvio, e sono tante. E se non si ha la serenità e la sicurezza di saperle affrontare è meglio stare a casa. A volte sono stato costretto a sparare in aria, per spaventare i rapinatori. A volte invece li abbiamo dovuti bloccare in attesa che arrivasse la polizia. So quali sono le mie responsabilità avendo in mano un'arma, e mentirei se dicessi che la tiro fuori a cuor leggero”. Anche perché la pistola è di sua proprietà e per questo lo accompagna fino a casa. Qui l'ultimo gesto prima di togliersi la divisa è quello di metterla in cassaforte. “Anche quello è diventato routine”.

il Fatto 13.1.14
Le cinque forze di polizia


I CARABINIERI PRIMA FORZA Le forze di polizia operative in Italia sono cinque: Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza, Polizia Penitenziaria e Corpo Forestale. Il corpo più numeroso è l’Arma dei Carabinieri, che dipende dai ministeri della Difesa e dell’Interno. L’arma conta su 190 mila unità ma, a causa della spending review, nei prossimi anni il loro numero dovrebbe ridursi di 20 mila effettivi e scendere a 170 mila effettivi. I carabinieri inoltre possono contare su una diffusione capillare sul territorio, fino a comuni con poche migliaia di abitanti, che gli altri corpi non hanno.
Gli agenti della Polizia di Stato sono 101 mila, in calo di 5mila unità rispetto al 2008. La Polizia è diffusa soprattutto in comuni di dimensioni medie e grandi e nelle città.
Al terzo posto c’è la Guardia di Finanza, che si occupa prevalentemente dell’accertamento di reati economici e tributari. Dipende dal ministero dell’Economia e, a seconda delle stime, il numero di agenti oscilla tra i 51 mila e i 47 mila effettivi.
Anche il numero degli agenti di Polizia Penitenziaria è in calo costante, tra gli 800 e 1000 ogni anno, secondo il premier Letta. Dipende dal ministero di Giustizia e conta su circa 40 mila unità. La cenerentola tra le forze armate è il Corpo Forestale che dipende dal ministero delle Politiche agricole e può contare su 8.500 effettivi. L’insieme delle polizie private, quindi, conta un numero di effettivi paragonabile a quello della Guardia di Finanza. E ben superiori alla Polizia Penitenziaria e alla Forestale. Tra le forze di polizia dello Stato non vengono contati i vigili urbani che sono organizzati su base regionale e comunale.

il Fatto 13.1.14
Resisterà la lingua italiana o servirà solo a vendere patate?
a cura di Silvano Rubino


Fabrizio De André, sulla scorta di Pasolini, diceva - presentando il suo Creuza de ma in genovese - che l’italiano, senza il continuo apporto delle frasi idiomatiche provenienti dai mille dialetti, sarebbe diventato “un linguaggio adatto solo a vendere patate o a litigare nei tribunali”. La straordinaria ricchezza di idiomi che affondano le loro radici nei millenni è uno dei beni immateriali più preziosi del nostro Paese, perché porta con sé storie, tradizioni, espressioni artistiche. Difendere tutto questo è lo scopo della Giornata Nazionale del Dialetto e delle Lingue Locali istituita dall’Unione Nazionale delle Pro Loco (Unpli) per il 17 gennaio di ogni anno: “Ogni 14 giorni nel mondo scompare un dialetto”, spiega il presidente Claudio Nardocci, “per questo le Pro Loco di tutta Italia lanciano l’allarme, per non lasciare che i processi di mondializzazione cancellino la carta d’identità dei luoghi e dei territori. Il ‘locale’ può e deve vivere e sopravvivere nel ‘globale’”. Anticipata dalla consegna, il 16 in Campidoglio a Roma, del Premio letterario Salva la tua lingua locale, la Giornata è una costellazione di eventi che rispecchia la costellazione delle nostre lingue locali: dal dialetto tesino in Trentino a quello pietrino di Enna., dal bellunese delle montagne venete alle binidizioni e gastigni (poesie e proverbi) dell’entroterra calabrese. Saranno rappresentazioni teatrali, letture pubbliche di poesie o proverbi, incontri con studenti, raccolta di testimonianze video, audio ( www.unpliproloco.it  ). Molto di questo materiale, tra l’altro, andrà ad arricchire l’archivio online che le Pro Loco stanno costruendo attraverso un apposito canale youtube: la modernità al servizio di un passato a rischio di estinzione (www.you tube.com/user/ProgettiUNPLI ) .

Corriere 13.1.14
La strage di Brescia sepolta dal silenzio
di Antonio Ferrari


Quello di Manlio Mi- lani, l’ex operaio diventato presidente dell’Associazione dei famigliari dei caduti nella strage di Brescia, è un pensiero laconico, ma non è un’invenzione letteraria. È una lapide sulla tomba della verità: «Il vero segreto di Stato, oggi, è il silenzio».
Sì, è proprio un silenzio assordante, che veste compromissioni, complicità, responsabilità limitata, vigliaccherie, ambizioni sfrenate e feroce cinismo, quello che avvolge tanti recenti misteri della storia d’Italia, almeno a partire dal 12 dicembre 1969 quando, in piazza Fontana, una tremenda strage e la trama mefitica che la seguì decisero di ammorbare la nostra vita. Ma se la bomba depositata nel cuore di Milano segnò l’inizio della «strategia della tensione», quella esplosa cinque anni dopo in piazza della Loggia, a Brescia, segnalò la gravità di una svolta o di una «ricomposizione eversiva», con evidenti implicazioni politiche. L’ordigno esplose infatti il 28 maggio 1974 durante una manifestazione sindacale.
Obiettivo degli esecutori della strage, apparentemente, erano quindi i comunisti, i «rossi», perché così si voleva vendicare la morte di un estremista nero, Silvio Ferrari. Il quale, per la verità, pochi giorni prima era saltato in aria con l’esplosivo che portava sulla sua motoretta e che era destinato a un attentato. Sostanzialmente, la strage, otto morti e oltre cento feriti, indicava, nello sbigottimento generale del Paese, una specie di resa dei conti fra poteri dello Stato, alcuni dei quali erano compromessi con l’eversione neofascista e forse anche con quella di segno opposto che si stava formando.
Ha avuto molto coraggio, Benedetta Tobagi, figlia del nostro collega Walter, che fu ammazzato a Milano nel 1980 da un commando di terroristi di sinistra, ad avvicinarsi ai mefitici segreti della strage di Brescia. In quell’anno, appunto il 1974, lei non era ancora nata, ma la data dell’assassinio di suo padre (il 28 maggio) coincide appunto con quella del massacro. Benedetta, storica, puntigliosa ricercatrice di notevole valore, giornalista e scrittrice, è una donna assetata di verità o almeno è armata con la volontà di comprendere che cosa nascondono le pagine più buie della storia della Repubblica. Non avendo pregiudizi e frequentando con assiduità il dubbio, ha deciso di navigare nei meandri più oscuri dell’eversione nera assieme a un compagno di viaggio, appunto Manlio Milani, marito di Livia, una delle 8 vittime dell’eccidio di piazza della Loggia.
Milani, che Benedetta chiama «zio Manlio, lo zio comunista che non ho mai avuto», è un uomo forte, determinato e schivo. Accanto a lui, la scrittrice ha seguito le udienze dell’ultimo processo per la strage, concluso con la solita collettiva «assoluzione per non aver commesso il fatto». Processo che l’ha spinta a scrivere un libro, Una stella incoronata di buio. Storia di una strage impunita (Einaudi, pagine 472, e 20). Un libro che trasuda impegno e maturità: indubbiamente il più intenso che sia stato pubblicato sulla strage di Brescia. Benedetta Tobagi, con la sua penna colta e profonda, avvicina quel livello, che odora di silenzi, di convenienze, di ricatti, di loggia P2, di golpe: eventi e passaggi sui quali si è detto tutto e il contrario di tutto. Eppure è laggiù nella melmosa complicità di apparati che non hanno bisogno di eserciti di esecutori, ma operano attraverso mediazioni successive e spesso informali, che sono sepolti brandelli di verità. L’autrice racconta gli errori, i depistaggi e la frettolosa volontà di trovare subito dei «colpevoli» già durante il primo processo di Brescia, dove fu assemblato un improbabile gruppo di imputati, composto da delinquenti comuni ed estremisti neri.
Tuttavia non si scoraggia. Al contrario, dimostra — salendo di livello e osservando dall’alto — come il quadro complessivo appaia chiaro.
Un bel libro, davvero. Ricco di storia e intriso di umanità e passione. Benedetta non ha paura di mettersi in gioco e di scrivere a cuore aperto.
Come dovrebbe fare sempre chi coltiva con onestà intellettuale il culto della memoria.

Repubblica 13.1.14
La storia
Vent’anni fa spariva la Dc mezzo secolo di potere e la diaspora non è finita
Gennaio ’94: Martinazzoli fonda i Popolari
di Sebastiano Messina


ROMA — Sono passati vent’anni dalla fine della Democrazia cristiana. Fu infatti alle 16,10 del 18 gennaio 1994 che Mino Martinazzoli fondò – rifondò, avrebbe preferito lui – il Partito popolare. Fu l’uscita di scena dopo mezzo secolo del partito che aveva governato l’Italia e impersonato, nel bene e nel male, il potere italiano. Eppure, vent’anni dopo, gli ex democristiani non sono d’accordo nemmeno sulla data del trapasso, della dipartita, insomma della morte della Dc. C’è chi dice che era già avvenuta prima, c’è chi dice che sarebbe arrivata solo dopo, anche se tutti riconoscono che quel giorno del 1994 cambiò la storia.
Martedì 18 gennaio, santa Liberata, la politica è in gran fermento. Due giorni prima Oscar Luigi Scalfaro ha sciolto le Camere, e indetto le elezioni per il 27 marzo. Si voterà con una nuova legge elettorale, firmata dal democristiano Sergio Mattarella, e nessuno sa prevedere come funzionerà. O meglio: tutti sono convinti del proprio trionfo. Alle Botteghe Oscure, Achille Occhetto è sicuro che vincerà la sua «gioiosa macchina da guerra». Silvio Berlusconi, che sarà il vincitore, non è ancora sceso in campo. A piazza del Gesù, Mino Martinazzoli coltiva il sogno di restare in sella, rimanendo al centro, anche nell’Italia del maggioritario. Ma sa che il nome della Dc ormai è macchiato per sempre dalle inchieste di Mani Pulite. Sogna un ritorno alle origini: vuol ripartire da don Sturzo. Così ha scelto accuratamente quella data, perché il 18 gennaio di 75 anni prima il prete di Caltagirone aveva lanciato il suo appello “ai liberi e forti”. E con lo stesso criterio Martinazzoli ha scelto il luogo dell’evento: palazzo Baldassini, la sede dell’istituto intitolato a Sturzo. A cinquecento metri dall’Albergo Santa Chiara, dove nel 1919 era stato lanciato quell’appello entrato nella storia.
La giornata però è cominciata male, per lui. All’hotel Minerva – l’albergo più vicino al Santa Chiara – Pier Ferdinando Casini, Clemente Mastella e Francesco D’Onofrio hanno radunato quelli che non ci stanno, una ventina di parlamentari, e hanno scelto come simbolo una vela e un piccolo scudo crociato. Si chiameranno Centro Cristiano Democratico, Ccd, rovesciando il nome che Martinazzoli vuole archiviare, e nella nuova Italia del bipolarismo vogliono scegliere subito da che parte stare: contro Occhetto, con Berlusconi. «La disperazione ti dà una grande forza interiore – spiega oggi Casini – e noi sentivamo che era inesorabilmente finita una fase della nostra vita. Questo ci dava tristezza, ma anche fiducia ed entusiasmo per la nuova avventura. Sostanzialmente accettammo subito il bipolarismo, anche se sognavamo un bipolarismo diverso, nel quale gli avversari si legittimano a vicenda, mentre le cose non andarono poi così».
Un pezzo del partito dunque se ne sta andando, ma il segretario della Dc non se ne cura. E sorride, quando legge che nella basilica di Santa Maria sopra Minerva, cioè accanto a Casini e Mastella, il cardinale Palassini ha detto nell’omelia che in politica «le divisioni sono opera del diavolo».
«Tutto era stato preparato con cura » ricorda Pierluigi Castagnetti, allora capo della segreteria politica. «Martinazzoli voleva chiudere la storia della Dc ripartendo con un nuovo progetto: un ricominciamento, come amava dire lui. C’era una sofferenza anche personale in tutti noi. Sentivamo che stavamo facendo una scelta ineluttabile ma storica: Tangentopoli aveva avuto un effetto esplosivo, mostrando all’Italia un’insopportabile divaricazione tra i valori enunciati e i comportamenti. Anche la Chiesa aveva dato via libera: il segretario si era segretamente incontrato in Laterano con il cardinale Ruini, che appoggiava il suo tentativo».
Così, alle 15,30 Martinazzoli arriva all’Istituto Sturzo. Lo aspettano Rosa Russo Jervolino, presidente del partito, i capigruppo Gerardo Bianco e Gabriele De Rosa e i venti coordinatori regionali, capitanati da Rosy Bindi che il 27 novembre ha anticipato i tempi fondando il Partito Po-polare del Veneto. Ci sono anche un certo numero di notabili democristiani, che hanno deciso di non mancare. Racconta Rocco Buttiglione: «Io avevo una grande speranza, la stessa che Aldo Moro mi aveva confidato vent’anni prima. Lui pensava a una Dc alternativa a se stessa, che nascesse dalle sue radici culturali. Quindi per me, e non solo per me, quel giorno si celebrava un battesimo. Per i vecchi democristiani che stavano attorno a me, quello era piuttosto un funerale. Ricordo che Martinazzoli guardava noi e guardava loro, oscillando tra una posizione e l’altra senza riuscire a impersonare fino in fondo né l’una né l’altra».
Eppure Martinazzoli stacca la spina alla Dc. «Dobbiamo riscattare lanostra decadenza e rivendicare la nostra funzione», dice. «Il nuovo partito vuole essere il custode, fedele e coraggioso», aggiunge, del seme da cui è nata la Dc. E conclude: «Non ricominciamo dal niente, non abbiamo alle spalle un deserto». Poi, alle 16,10, firma per primo il suo appello «a quanti hanno passione civile». Nasce il Partito Popolare.
E’ quello, il momento esatto in cui muore la Dc? Rosy Bindi non è d’accordo. «La vera fine della Dc era avvenuta il 26 luglio del 1993». Quel giorno, sei mesi prima, al palazzo dei Congressi dell’Eur si era conclusa l’assemblea costituente alla quale Martinazzoli aveva invitato, insieme a 250 democristiani, altrettante personalità esterne. E quell’assemblea deciso «di dar vita al nuovo soggetto politico di ispirazione cristiana e popolare, destinato ad aprire la terza fase della presenza dei cattolici democratici nella storia d'Italia ». Fu in quel momento, sostiene la Bindi, che finì la Democrazia cristiana: «Ricordo ancora l’emozione dell’istante in cui Rosa Jervolino proclamò di fatto la nascita della nuova forza politica. Un clima assai diverso da quello del 18 gennaio, che fu una cerimonia simbolica ma fredda, e con poca gente. Saremo stati in 150, contando anche quelli in piedi. Firmammo l’appello, poi ci fu il convegno e via. Mancava l’emozione dell’assemblea di luglio e l’adrenalina che ci avrebbe dato la rottura con Buttiglione, con cui accettammo la sfida del bipolarismo e scegliemmo di stare con la sinistra. Quella scelta avrebbe fatto nascere davvero il Ppi».
Dunque, secondo Rosy Bindi, nel 1994 lo scudocrociato era già stato sepolto da un pezzo. Secondo Franco Marini, invece, la data della sepoltura non va anticipata ma posticipata. «Il 18 gennaio – racconta - eravamo certi di star facendo la cosa giusta: la Dc era alla fine di un tramontotormentato e tragico, nessuno pensava di continuare rifondandola. Il nostro era stato un grande partito, capace di guidare l’Italia nella modernità e nella democrazia, ma la sua stagione era finita. Ed era giusto che finisse. Martinazzoli era molto deciso, e la riconquista di quel nome storico, Partito popolare, doveva dare un nuovo entusiasmo, lanciare quel rinnovamento di cui la Dc non era stata capace. Poi però arrivò la bruciante sconfitta del 27 marzo, dal 29,6 della Dc del 1992 si passò all’11 per cento del Ppi. E lui non resse a quel risultato. Mandò un telegramma da Brescia alla Jervolino e non tornò più a Roma. Fu quello il momento in cui morì davvero, con l’ultimo sogno centrista, la Democrazia cristiana».
Sono passati vent’anni, dunque, e per gli ex democristiani neanche la morte può essere stabilita con assoluta certezza. Ma Casini non ha dubbi: «La fine della Dc avvenne in modo incontrovertibile quel 18 gennaio: l’indomani un atto notarile ufficializzò la fondazione del Ppi, e contemporaneamente nasceva il nostro Ccd. Non so se quel giorno sia nata o no la Seconda Repubblica, ma la Prima è morta certamente quel giorno. Con la Democrazia cristiana».

Repubblica 13.1.14
La sfiducia digitale che ci rende infelici
di Ilvo Diamanti


LA FIDUCIA, in Italia, è divenuta un bene scarso. Lo ha messo in evidenza, di recente, l’indagine di Demos dedicata al rapporto fra “Gli italiani e lo Stato”.
Un problema che non affligge “solo” (si fa per dire…) la politica, le politiche, i politici e le istituzioni di governo. Ma riguarda anche noi e gli altri. Noi in rapporto agli altri. Gli stranieri, anzitutto. Gli immigrati. Tanto più quelli che non accettano di restare stranieri. Gli extra-italiani. Gli stranieri che hanno ottenuto la cittadinanza. I figli di immigrati nati in Italia. È difficile accettarli. Soprattutto per le forze politiche che sulla paura degli altri hanno costruito il consenso. La Lega, in primo luogo. A cui fa comodo la presenza al governo del ministro Kyenge, per esercitare la propria professione di imprenditore politico della paura — degli altri. Cambiando bersaglio, rispetto al passato, quando, negli slogan di piazza e nelle scritte sui muri, proclamava:«Meglio negri che terroni » . Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, d’altronde, nei mesi scorsi, hanno sconfessato l’emendamento che aboliva il reato di clandestinità, proposto da due senatori del M5S. Perché non previsto nel programma. Ma, soprattutto, per non ridursi «a percentuali da prefisso telefonico». Visto che il M5S ha svuotato la Lega nei territori padani. La sfiducia negli altri, dunque, non ha perduto colore politico. Ma, soprattutto, non ha più un nome, né un volto definito. Alita dovunque, intorno a noi. La sfiducia nei politici, nelle istituzioni pubbliche, negli stranieri, negli immigrati, insomma, è ben impiantata nella nostra vita quotidiana, nelle nostre azioni e relazioni di ogni giorno. Oltre 6 persone su 10 (nel campione intervistato da Demos, dicembre 2013) ritengono, infatti, che «gli altri, se si presentasse l’occasione, approfitterebbero della mia buona fede». Dunque, meglio diffidare. Per cautela. Per autodifesa.
La sfiducia verso gli altri alimenta l’incertezza nel futuro e le paure. Ma non appare particolarmente diffusa nei settori sociali tradizionalmente più incerti e impauriti: le persone anziane e meno istruite. Esterne ai circuiti dell’impegno edella partecipazione. È, invece, un atteggiamento trasversale. Pervade, con singolare intensità, i giovani, in particolare i giovani-adulti (fra 25 e 34 anni): 75%. Oltre 10 punti di più rispetto a dieci anni fa, quando apparivano meno diffidenti rispetto al resto della popolazione.
Ora non è più così. Non solo, ma questo atteggiamento coinvolge le persone che partecipano. In particolare, il “popolo della rete”. Oltre i due terzi tra coloro che conducono, con frequenza, discussioni e iniziative politiche su Internet, mostrano diffidenza verso gli altri. Ciò suggerisce che, negli ultimi anni, si sia creata una relazione più stretta fra la diffidenza e la partecipazione. In generale, a causa del sentimento di distacco verso gli attori politici e verso le istituzioni rappresentative. Per primi, il Parlamento, i partiti e i loro leader. Così, la partecipazione e la mobilitazione politica si è venata, sempre più, di sentimenti antipolitici. È divenuta, cioè, partecipazione anti-politica. Un orientamento che la Rete non ha scoraggiato. Semmai, è vero il contrario. Perché la Rete favorisce la dis-intermediazione. Bypassa la mediazione degli attori tradizionali. Per primi e soprattutto, i partiti. Ma anche le organizzazioni di rappresentanza.
La Rete, così, diventa un “medium” antitetico agli altri media. Mezzo, ma anche Simbolo di democrazia diretta. Di “contro-democrazia”, democrazia della sorveglianza (come la definisce Pierre Rosanvallon). Anche per questo la sfiducia negli altri non si riduce fra i nativi digitali e, in generale, fra quelli che Luigi Ceccarini e Martina Di Pierdomenico chiamano i “Cives. net”. I “cittadini digitali”, per citare Rosanna De Rosa (titolo di un recente saggio pubblicato da Maggioli, dove l’autrice analizza, fra l’altro, il caso del «M5S e l’organizzazione tecnologica della sfiducia »). Perché Internet è divenuto un terreno di lotta politica contro la politica — tradizionale. Perché, inoltre, sulla Rete e nei social-Network la comunicazione è immediata. Senza mediazioni. Diretta, appunto. E, quindi, più aspra. Cruda. Nel linguaggio e nell’espressione. In quanto nella Rete, dunque, si instaurano relazioni dirette, ma non empatiche. Cioè, si agisce e reagisce lontano dagli altri. Perché gli altri non sono lì, insieme a te, davanti a te. Non sempre ti conoscono e tu non sempre li conosci. Spesso, si riducono a un’immagine — non sempre chiara — sul pc, sul tablet o sullo smartphone.
Da ciò l’origine della nostra diffidenza. Tanto più diffusa quanto più gli altri si allontanano da noi. Appaiono e sono lontani da noi. Anche fisicamente. Come la politica e i partiti, al tempo della Democrazia del pubblico (come la definisce Bernard Manin). Mentre un tempo, neppure tanto tempo fa, la politica e i partiti erano presenti nella società e sul territorio in modo visibile. In fondo, anche l’atteggiamento verso gli immigrati è cambiato. Per le stesse ragioni, ma in senso contrario. Le paure si sono, infatti, stemperate (come mostra l’Osservatorio sulla Sicurezza curato da Demos, Osservatorio di Pavia e Fondazione Unipolis) via via che hanno smesso di essere Altri senza nome. E sono divenuti compagni di lavoro, collaboratori e collaboratrici delle nostre famiglie. Mentre i loro figli affollano le scuole, insieme ai nostri figli.
Perché la diffidenza è figlia della distanza. Della solitudine. Noi perdiamo la fiducia quando siamo e ci sentiamo soli. Quando la politica e le istituzioni ci appaiono e sono più lontane. Allora diventiamo un Paese di Forconi. Dove la protesta di alcuni gruppi, veicolata dai media, incontra e moltiplica la s-fiducia di molti. Dove la s-fiducia si propaga perché fa spettacolo. Dove i talk politici in tv rappresentano la s-fiducia per alzare l’audience. E intanto alzano la s-fiducia.
Dove la Rete illude di restare sempre connessi, sempre attivi e reattivi. Sempre insieme. Ciascuno da solo. Per conto proprio. Lontano dagli altri. Dove la partecipazione in Rete, spesso, genera sfiducia. Una sfiducia digitale.
Per questo “esercitare” la sfiducia — in politica, ma anche nella società e nella vita quotidiana — è facile, talora vantaggioso. Ma non risolve i nostri problemi. Anzi li complica. Perché la sfiducia genera sfiducia. E, insieme, abbassa il rendimento delle istituzioni, dell’economia. Infine, ci deprime. Infatti, tra coloro che “diffidano degli altri”, 8 su 10 ammettono di sentirsi “per niente felici”. Almeno per questo, praticare e coltivare la fiducia conviene. Se non per il bene pubblico e per gli altri, almeno per noi stessi. Per essere meno infelici.

Corriere 13.1.14
Carlo Arata
L’uomo in debito cerca la libertà
La vita come riscatto, tra aspirazione a Dio e lotta contro il male
di Emanuele Severino


Un altro amico, e fraterno, se ne è andato. Dove? Ognuno di noi abita una «casa», chiamiamola così. Attorno, a perdita d’occhio, la brughiera. Il fuoco è acceso, la tavola imbandita. Ma capita, guardando verso la finestra, che il vento ci faccia credere di trovarci là fuori — e ci si dimentichi di dove siamo davvero. Si è «a casa». Sin da prima dell’inizio dei tempi. Ci rimarremo in eterno; la casa sarà sempre più accogliente. E invece crediamo di vivere nella terra inospitale che ci ha ghermito col vento. Stando là fuori diciamo: «Ecco il mondo; questa è la vita che ci è toccata». Ci crediamo mortali. Ma quando si muore non si va da qualche parte. Ci si risveglia accanto al fuoco. Non più ingannati dal vento. Né intimoriti delle ombre e dal gelo della brughiera. Una povera favola? Non direi; ma una metafora sì: dello Spettacolo che da gran tempo tento di indicare. (Il tentativo è delle parole, non di ciò che esse indicano). E Carlo Arata conosceva a fondo i miei scritti, sin dai primi. Dopodomani, 15 gennaio, è il trigesimo della sua morte. Una delle figure più importanti, la sua, della filosofia italiana dal dopoguerra ai nostri giorni. Ma estremamente schivo, nemico dei compromessi sul piano culturale, accademico (ma professore emerito dell’Università di Genova), politico (famiglia socialista e antifascista, sorella deportata a Dachau).
Nato nel 1924, cattolico, si era voluto laureare con Antonio Banfi, il maestro laico e antimetafisico della Statale di Milano.
Tuttavia il suo cattolicesimo è andato configurandosi in modo sempre più originale e autonomo. Si era fatto sempre più centrale per lui il principio che di Dio non si può parlare «in terza persona», riducendolo a un «Egli», sia pure con la lettera maiuscola. Invece lo si deve lasciar parlare come parla nell’Esodo: «Ego sum qui sum». In prima persona. Messo dinanzi come oggetto, lo si snatura: non è più Dio. Solo Dio può parlare di Dio. Ma, di qui, il crescente rovello di Arata, troppo filosofo per non sapere che, d’altra parte, siamo pur sempre noi a lasciar parlare Dio: proprio perché ci tiriamo da parte per fargli spazio, questo nostro sforzo finisce addirittura con l’identificare noi, che, per quanto rarefatti e ridotti, continuiamo a pensare Dio, a lui che parla.
La bestemmia più grave per chi pone Dio nel più alto dei cieli. La nostra discussione era incominciata sin dai primi anni Sessanta ed è durata fino in fondo. Pochi giorni prima di morire, aveva consegnato all’editrice Morcelliana il suo ultimo lavoro, da poco pubblicato, e anche lì la nostra discussione continua, all’in- terno del problema — sempre più complesso e di cui Arata è pienamente consapevole — del rapporto tra uomo e Dio.
Questo libro s’intitola Reditio.
Un’espressione allusiva, ma anche enigmatica. Significa «ritorno». Ritorno a un suo iniziale atteggiamento problematico («banfiano», come egli scrive), provvisoriamente accantonato dalla intermedia parabola metafisico-teologica, ma che incomincia a riaffacciarsi con la tematica a cui ho accennato qui sopra? Sembra di sì, stando alle prime parole del saggio: «Nulla è ovvio, nulla è scontato, tutto è problema, enigma, al limite mistero. Questa la premessa essenziale (…) della presente Reditio».
Eppure la metafisica continua ad esser presente anche in queste sue ultime pagine. Per le quali l’uomo non è autore di alcunché, nemmeno di quello che scrive (e qui Arata è d’accordo con me); ma non è autore perché non si è «posto», non ha prodotto se stesso, non è «causa» di sé, ma è «indebitato». E tipicamente metafisica, appunto, è la domanda da dove provenga ciò che noi siamo e verso «Chi» o «che cosa» noi si sia in debito. Per Arata il problema si complica ulteriormente, perché, pur essendo in debito, l’uomo «aspira alla libertà», a riscattare il debito e farsi signore di sé ed esser dunque Dio. Libertas ut Deus. E il problema si aggrava per la presenza del male e della sofferenza universale. Ricevuti anch’essi da «Chi», da «che cosa»? Perfino il male patito rende l’uomo debitore verso la fonte da cui lo riceve.
(Ma si tratta di implicazioni tutte dovute al residuo metafisico che, nonostante le intenzioni, si è detto, rimane vivo nel discorso di Arata).
Respinta ogni forma di pensiero che, volendo affermare Dio, finisce col porre se stesso come Dio, ad Arata resta la fede, del tutto consapevole della propria insuperabile problematicità. La vicinanza alla prospettiva luterana diventa notevole; nemmeno della propria fede l’uomo può essere autore. Anch’essa è un dono della «grazia»; come la speranza e la preghiera che accompagnano la fede.
Anche la preghiera del credente proviene da «altro» — e rimane enigmatico per Arata che l’«altro» sia l’«Altro». Come rimane un enigma la promessa della fede per la quale la morte conduce nell’altra vita. L’altra vita che comunque non potrà mai essere la casa di cui narravo all’inizio e dalla quale Carlo si è sempre sentito «sommamente provocato».

Repubblica 13.1.14
Hannah Arendt
I volti del male
di Antonio Gnoli


È trascorso mezzo secolo da La banalità del male. Frutto di un reportage per ilNew Yorker, il pamphlet divise l’opinione pubblica. Hannah Arendt seguì a Gerusalemme il processo Heichmann e descrisse l’insignificanza di quell’ometto funzionario di morte nei campi di sterminio. Fu la parola “banalità” a irritare le comunità ebraiche (Scholem e Jonas ruppero con lei). Possibile che il male fosse frutto di una decisione anonima, insignificante, mediocre? Ho il sospetto che quella temeraria osservazione provenisse da un viaggio lontano. Nella mente di Hannah si affacciò, per poi essere ricacciata, l’idea che un altro ometto era stato, molti anni prima, altrettanto banale. Un maestro che le aveva giurato amore eterno, in maniera arcaica e sfrontata. Per poi battere in ritirata, in un lirico e convenzionale tumulto biedermeier. Hannah prese altre strade ma conservò la compassione, la gratitudine e una foto ricordo di quell’ometto, autore di pregnanti testi filosofici. Margarethe von Trotta ha dedicato un film alla Arendt, in particolare agli anni vissuti durante il processo. Uscirà alla fine del mese. Colpisce una frase di Hannah: nessuno di coloro che criticòLa banalità del maleaveva letto bene quel libro. Se non altro un invito a tornarci sopra.

Repubblica 13.1.14
L’esilio della metafisica
Quando Corbin raccontava al caffè che l’Oriente è il centro dell’Occidente
Ritratto del grande studioso francese di mistica islamica e filosofia persiana mentre esce una raccolta di suoi scritti. Una vita alla ricerca della sapienza
di Pietrangelo Buttafuoco


Parigi, 1932. Seduto al tavolo del caffè d’Harcourt, all’angolo di place de la Sorbonne e boulevard Saint-Michel, Henry Corbin contempla l’affollarsi di angeli discesi apposta per accendere “occhi di fuoco” in lui. C’è un volto oltre la maschera. C’è un senso interiore nelle cose. La realtà non si esaurisce nell’esteriorità e Henry Corbin – seduto al tavolo con Raymond Quenau e Jacques Lacan, anche loro reduci dal seminario di Alexandre Kojève su Hegel – ha una natura particolare: è uomo solo a metà. Per l’altra metà, è angelo. Carne per la carne, cielo per il cielo. «Siamo esiliati rispetto al luogo di ogni luogo e alla conoscenza vera». Questo è ciò che Corbin dice ai due amici, con i quali coltiva un sodalizio simile al legame dello Stift, quello che a Tubinga aveva visto insieme Hegel, Hölderlin e Schelling.
Corbin è un ragazzo di Parigi. Louis Massignon, il suo maestro all’università, gli ha dato da leggere Shihab al-Din Yahya Sohravardi. È un filosofo persiano del XII secolo, e lui ne è stato rapito. È grazie alla numinosa filosofia persiana che Corbin, adesso, parla di angeli presenti tra i tavoli del caffè; e nessuno, nella città di Cartesio, scambia Corbin per uno scombiccherato. Conosce alla perfezione il sanscrito, il farsi, l’arabo. Agli occhi dei due amici (Kojève impegnato ad affrontare laFenomenologia dello Spirito, Lacan in perenne corpo a corpo con Freud) quello di Corbin è un platonismo tradotto con i termini dell’angelologia zoroastriana.
Studioso delmundus imaginalis, regione intermedia tra corpo e spirito, Corbin – che non dimenticherà le giornate di discussioni al caffè con Georges Bataille – descrive una dimensione terza tra res cogitans e res extensa, dove le ombre del mondo sensibile si trasformano in simboli evocativi.
Le trame dell’immaginale sono inimmaginabili. In quel caffè, tra le nuvole di assenzio e anice, c’è il presagio di uno charme: l’ondeggiare dei veli, il troneggiare dei turbanti, il fruscio delle schiere angeliche. È un sovrapporsi di spazio e tempo, nel quale risulta, come in una vena segreta, il cuore remoto e però pulsante dell’Iran. La Persia è una fonte metafisica mai esaurita, in cui oggi Corbin (al quale è dedicata un’importante strada a Teheran, presso l’ambasciata francese) è considerato alla stregua dei santi sapienti. La sua opera, l’intero suo corpus filosofico e teologico, è fondante dell’identità iranica. «Ebbe come manto l’alta conoscenza», dicono di lui a Qom, la città degli studi.
Il polo, attualmente occulto, senza il quale il mondo non potrebbe esistere, è l’Oriente. L’Occidente, secondo Corbin, è solo un esilio per la metafisica. Progettiamo, in virtù di logos, edifici sontuosi «per poi vivere in catapecchie fatiscenti».
La presenza del sacro, in questa parte di mondo, è nella sua stessa assenza. “La clavis hermeneutica degli antichi pensatori orientali è in grado di dare una risposta alle vicissitudini dell’uomo contemporaneo talmente immerso nell’oscurità da non riuscire ad avvertire il proprio stato, l’esilio dell’esilio”. Così si legge in Tempo ciclico e Gnosi ismailita,edito da Mimesis, a cura di Roberto Revello, introduzione di Bernardo Nante.
C’è un senso trans-storico nella vita. Il senso della profezia – l’avvento di Muhammad, l’ultimo dei profeti – non è legato alla contingenza ma ha sempre una sua prolungazione ciclica. Corbin è il filosofo che più di ogni altro, nell’epoca contemporanea, ha svelato agli stessi musulmani la necessità di distinguere un islam “legalitario”, fondato sull’elencazione statica di regole, da un islam metafisico in cui la Shi’ia è “il santuario” tutto da venire.
Ci sono un segno e una guida per ogni uomo e per ogni comunità futura: «Forse che una volta morti coloro a proposito dei qua-li era stato rivelato un certo versetto, questo versetto è anch’esso morto?».
Corbin introduce nella teologia un capovolgimento “copernicano”, che però è realizzato a salvaguardia dell’essenza metafisica. Il tempo lineare – ieri, oggi, domani – è il tempo limitato; e Corbin, che scorge nell’Occidente la catastrofe metafisica dove resta dispersa l’origine del tempo e dello spazio, sventa la trappola storicista e “percorre la strada con l’angelo”. Il cristianesimo ha soppresso il mondo di mezzo, l’altrove, per restare nell’al di qua e rinunciare così alla trascendenza.
Di fronte all’annuncio di una Legge divina, una shari’at, Corbin – forte della dottrina dell’Imamato, cioè i successori, gli apostoli derivati da Muhammad – s’immerge nel Libro dove il senso spirituale postula un’iniziazione, «la perenne fluttuazione con i cicli e i periodi del mondo». L’uomo deve reintegrare il pleroma, ossia la pienezza di Dio. E la presenza di Dio nell’uomo è immune da eventi catalogabili, documentabili e narrabili.
Il compito fondamentale della Shi’a è la salvaguardia del senso. L’esoterico nel ministero sciita, per Corbin, è un’energia divina non soggetta al divenire. È «un luogo situativo più che situato». Come il sole, nel fenomeno proprio del sorgere, rivela il mondo. E l’immaginale non può che situare il sensibile e l’intelligibile. La coerenza speculativa è una qualità superiore rispetto alla coerenza cronologica.
Una conoscenza che, conoscendo la realtà, la crea. «Henry non credeva solo in Dio, lo pregava anche», dirà Seyyed Hossein Nasr, il filosofo iraniano con cui Corbin animerà l’Ecole pratique des Hautes Etudes della Sorbonne e poi ancora a Teheran.
Metà europeo, metà persiano. Così è Corbin: «Era contemporaneamente un pio sciita e un intellettuale parigino», spiegherà ancora Nasr. Nei pellegrinaggi nei santuari iraniani, Corbin, che pure avrà un funerale cristiano, si rivolge a Nasr con «nous shi’ites», “noi sciiti”.
L’immaginazione è più potente della logica, e Corbin, il primo ad applicare la fenomenologia all’orientalismo, non legge i trattati di Sohravardi come un filologo o come uno storico, piuttosto come un filosofo, dunque con “occhi di fuoco”. Egli introduce la distinzione tra fantasia e immaginazione produttiva, e in questa designa il luogo della metafisica pura. Il suo dialogo con Allamah Sayyid Husayn Tabatabai, un sapiente della città di Qom, pubblicato in persiano, è considerato tra le massime prove di ermeneutica, pari alle vertigini linguistiche di Martin Heidegger, di cui Corbin, non a caso, sarà il traduttore in lingua francese; e non è appunto un caso, poiché proprio con l’autore diEssere e tempo, riconoscendogli il merito di una primogenitura, Corbin consuma non tanto una rottura quanto un oltrepassamento. In nome dell’agnosticismo scientifico, l’Occidente sì è privato dei presupposti metafisici sui quali, originariamente, ha fondato se stesso.
È l’essere presente dell’uomo a esprimere quel che per Corbin è la cognitio matutina: dunque non l’essere per la morte del dasein heideggeriano ma l’essere per l’al di là della morte. Nel Concilio di Nicea del 325 sorge la dottrina del Verbo unito alla carne. Il credo secondo cui il Cristo, dopo la resurrezione, soffia simbolicamente l’anima degli apostoli è marchiato nell’eresia. Il simbolo, invece, secondo Corbin – così come nella dottrina dell’Imamato – è il luogo dell’anima.
I corpi si spiritualizzano, gli spiriti si corporalizzano. Trovare ilmundus imaginalis significa spogliarsi del cogito cartesiano, incamminarsi infine con l’anghelos che può disvelarsi solo a chi intensamente lo desidera accogliendo in sé il volto di Dio.Spiega Corbin: «Face de Dieu, face de l’homme».
L’esistenza è una visione: tutto si svolge nell’anima; e l’ultimo Imam, l’occulto, il Mahdi atteso nel suo disvelamento, è il segreto dell’avvenire. Solo il caffè d’Harcourt non c’è più. In suo luogo, c’è un grande magazzino: l’unica forma di magistero ecclesiale concessa all’Occidente.
Post scriptum
Il lettore italiano può trovare i libri di Corbin nei cataloghi di Boringhieri, Adelphi e Mimesis che, oltre l’interessante saggio di Glauco Giuliano L’immagine del tempo in Henry Corbin, ha già avviato la pubblicazione deIl Paradosso del monoteismo e del primo tomo diNell’islam iranico.
Henry Corbin (1903-1978), Tempo ciclico e gnosi ismailita, Mimesis a cura di Roberto Revello pagg. 260 euro 20

Bruno Pontecorvo
Corriere 13.1.14
Vita di Bruno Maximovich, lo scienziato che scelse l’Urss
risponde Sergio Romano


Negli ultimi giorni di agosto è caduto il centenario della nascita del fisico Bruno Pontecorvo. La fuga dello scienziato nel 1950 in Unione Sovietica è ancora oggi un episodio celato da mistero. Qualche esponente del Partito comunista italiano aiutò il fisico nella fuga dall’Italia? La fuga rientra nella classica «fuga di cervelli» o è mossa da ragioni politiche? È vero che lo scienziato in tarda età si pentì della scelta fatta?
Andrea Sillioni

Caro Sillioni,
Le consiglio la lettura di un bel libro di Miriam Mafai, pubblicato da Mondadori nel 1992. S’intitola Il lungo freddo. Storia di Bruno Pontecorvo, lo scienziato che scelse l’Urss , ed è in buona parte l’autoritratto di una generazione. Mafai, morta nel 2012 all’età di 86 anni, era stata comunista, aveva fatto con il marito (Giancarlo Pajetta) tutte le battaglie politiche del suo partito, aveva creduto nell’Urss e nel suo indispensabile ruolo per la costruzione di un mondo migliore. Quando incontrò Pontecorvo a Fregene nel 1990 (cinque anni dopo l’avvento di Gorbaciov al potere, un anno dopo la caduta del muro di Berlino), ebbe con lui la prima di una serie di conversazioni. Era una eccellente giornalista, quindi naturalmente interessata alla vita di uno scienziato che era stato diversamente giudicato dalla comunità scientifica internazionale per il suo passaggio all’Urss nel 1950. Ma credo che dietro le sue domande a Pontecorvo vi fossero anche quelle che Mafai faceva a se stessa.
Sulle ragioni della scelta di Pontecorvo non vi sono misteri. Era attratto dal comunismo, ammirava la forza morale con cui il popolo sovietico aveva reagito all’invasione tedesca ed era indignato dalla «caccia alle streghe» che il senatore McCarthy aveva scatenato negli Stati Uniti in una delle fasi più calde della Guerra fredda. Nelle sue valutazioni politiche vi erano molto candore e una certa propensione a prendere per buone alcune tesi della propaganda sovietica, come quella sulla responsabilità occidentale nello scoppio della guerra di Corea. Ma le sue motivazioni erano certamente ideali.
Secondo Oleg Gordievsky, l’agente del Kgb fuggito a Londra nel 1985, la collaborazione di Pontecorvo con l’Unione Sovietica risalirebbe al 1943, quando lo scienziato italiano era a Montreal, in Canada, per una ricerca sui raggi cosmici. Ma la decisione di lasciare l’Europa occidentale sarebbe collegata al caso di Klaus Fuchs, lo scienziato inglese di origine tedesca che fu arrestato nel febbraio del 1950, processato un mese dopo e condannato a 14 anni di detenzione (ne scontò sette). A una domanda di Miriam Mafai sull’organizzazione della fuga, Pontecorvo rispose di avere chiesto l’aiuto di un dirigente comunista italiano al quale era molto legato. Rifiutò sempre di fare il suo nome, ma potrebbe essere, secondo Mafai, «Emilio Sereni, suo cugino ed educatore politico». Quando giunse a Mosca nel 1950, l’Urss era già una potenza atomica e Pontecorvo, secondo Enrico Fermi (suo maestro in via Panisperna), avrebbe collaborato con la scienza sovietica soltanto nei settori in cui aveva un specifica competenza, come quello dei neutrini.
Aggiungo, caro Sillioni, per quanto mi riguarda, che ho conosciuto e frequentato Bruno Maximovich (come era chiamato dai suoi colleghi sovietici) a Mosca nella seconda metà degli anni Ottanta e che debbo a lui una visita alle installazioni nucleari della città «atomica» di Dubna. Un giorno, mentre un altro grande fisico italiano, Edoardo Amaldi, era nella capitale sovietica per un convegno scientifico, decisi di invitarli entrambi in ambasciata. Si erano visti a un congresso mondiale della Società di fisica organizzato a Kiev nel 1959, ma Amaldi, in quella occasione, aveva fatto a Pontecorvo soltanto un breve, freddo cenno di saluto. A Mosca, quasi trent’anni dopo, l’incontro fu molto cordiale. Prima dell’arrivo di Amaldi in ambasciata, Pontecorvo, che aveva da tempo il morbo di Parkinson, tremava più del solito. Mi disse, ironicamente: «Un giorno ho cercato di calcolare la quantità di energia che consumo, tremando, nell’arco di una giornata. Teoricamente dovrei essere già morto». È morto a Dubna il 24 settembre 1993, all’età di ottant’anni.

Repubblica 13.1.14
Il frutto delle numerose scappatelle di Vittorio Emanuele III durante le vacanze in un paesino del Canton Ticino Ma il sovrano impose un patto: una provvigione di 10 mila franchi l’anno in cambio del silenzio assoluto
Il segreto alpino dei figli illegittimi del Re d’Italia
di Franco Zantonelli


ZURIGO Inaspettatamente la dinastia dei Savoia si arricchisce di nuovi membri, grazie alla scoperta di un nugolo di figli illegittimi avuti da Vittorio Emanuele III durante le sue vacanze estive sulle Alpi del Canton Ticino. Cinque bambini, nati tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, che il “re sciaboletta” (così fu chiamato per la sua bassa statura) concepì con donne della Leventina, una regione situata a ridosso del versante meridionale del massiccio del San Gottardo. Vittorio Emanuele, il penultimo sovrano d’Italia, quello che dopo aver subito Mussolini per un ventennio lo fece arrestare, soggiornò, per un certo periodo, nella località di Chiggiogna, a Villa Dell’Era, una splendida dimora, oggi di proprietà di una ricca famiglia milanese. Da lì, a quanto risulta, partiva per le sue battute di caccia ma, pure, per le sue scorribande amorose.
Vicende su cui, in quella valle, nessuno ama soffermarsi neanche oggi, a oltre un secolodi distanza dai fatti. Anche se, nel 2008, il principe Emanuele Filiberto, pronipote di Vittorio Emanuele III, oggi noto soprattutto per le sue comparsate televisive, si prese la briga di incontrare i discendenti di quei montanari del suo stesso sangue. «Ricevetti una telefonata da un avvocato di Ginevra, il quale mi disse che c’era un mio parente che voleva conoscermi », racconta Giuliano Giulini, oggi 83enne, rimasto sorpreso da quella chiamata, visto che non sapeva di avere dei parenti a Ginevra. Poi, quando comparve Filiberto, tutto gli tornò. «Sospettavo — spiega — che mio padre, nato nel 1895, fosse uno di quei cinque figli illegittimi del re. Ne avevo avuto sentore grazie alle confidenze di un ex segretario comunale che giocava a carte con lui. Inoltre, tenga presente che il mio vero nome di battesimo è Vittorio Emanuele Giuliano, mentre quello di mio padre, come è scritto sulla lapide della sua tomba, è Luigi Emanuele Vittorio».
Va detto che il sovrano non si è mai dimenticato, almeno dal punto di vista finanziario, di quei suoi figli svizzeri. «Tramite la Banca dello Stato del Canton Ticino — dice ancora il signor Giulini — faceva pervenire a ognuno di loro 10 mila franchi svizzeri l’anno. A condizione, però, che non facessero domande sulla provenienza di quei soldi». «Mio nonno — ha raccontato un’altra persona, al settimanale Il Caffè di Locarno — cercò di saperne di più e l’accredito dei 10 mila franchi cessò immediatamente». Questo testimone si rifiutò, tuttavia, di incontrare Emanuele Filiberto, spiegando che la sua famiglia ha sempre preferito non parlare di quel passato, come se le creasse imbarazzo. «Mio nonno lo ha sempre vissuto male. Si sentiva un po’ come Oliver Twist ». Il signor Giulini, invece, manifesta una certa riconoscenza, nei confronti di Vittorio Emanuele. «Anche se — ci tiene a precisare — mio padre nacque con lo spirito del vagabondo, tanto che il matrimonio con mia madre durò pochissimo». E poi c’è la storia di quell’abito decisamente particolare, almeno per un panorama alpino svizzero, che gli fu fatto indossare il giorno della cresima. «Un vestito da marinaretto del Regno d’Italia: eravamo in due ad averlo uguale, l’altro bambino era il figlio di un dentista».

Corriere 13.1.14
«Al piano ho compreso gioia e fatica per seguire il pensiero di Beethoven»
Barenboim: nell’800 le sue composizioni erano impossibili da eseguire
intervista di Enrico Girardi


«La caratteristica dell’arte di Beethoven che sento rimarcare più spesso è l’universalità, la capacità cioè di parlare all’umanità intera, quale che sia il tono dei contenuti musicali. Certo, non sta a me negare ciò. Aggiungo solo, però, che questa qualità non la possiede solo Beethoven. È anche di Bach, di Mozart e altri. Anche un Notturno di Chopin parla a tutti. Quello che è unico nella musica di Beethoven è che dà il sentimento di essere in contatto con qualcosa di essenziale. C’è tutto, in Beethoven: il lirismo, la drammaticità, il senso del tragico, i contrasti. Tutto meno la superficialità. Perciò lascia sempre l’impressione di essere di fronte a qualcosa di importante». In Spagna per un paio di giorni di vacanza, cosa più unica che rara nella sua vita frenetica, Daniel Barenboim è un fiume in piena nel parlare di Beethoven. Lo suona e lo dirige da quando è bambino. Fin dagli esordi, a sette anni, le Sonate per pianoforte fanno parte dei suoi programmi da concerto. E il ciclo integrale delle 32 Sonate lo ha inciso quattro volte: le prime tre in cd, negli anni Sessanta, Settanta-Ottanta e Novanta, l’ultima in dvd nei Duemila.
Ed è proprio la prima di questa serie di Sonate e di Concerti (con Otto Klemperer e la New Philharmonia Orchestra) che risale alla fine degli anni Sessanta a Londra che il Corriere pubblica, un cd alla settimana a soli 6,99 euro oltre al prezzo del quotidiano, a partire da oggi.
«Verdi e Wagner si sono interessati quasi esclusivamente al teatro ma tutti i compositori che si sono dedicati a più generi — aggiunge il musicista argentino — ne hanno eletto uno che rappresenta il loro diario personale, il giornale intimo. Per Mozart erano i Concerti, per Schubert i Lieder. Quando dici Beethoven tutti pensano alle Sinfonie, ma questo diario intimo per lui era la Sonata per pianoforte, infatti non passano mai più di un paio di anni senza che ne scrivesse almeno una. Nel ciclo delle Sonate si può ripercorrere passo passo l’evoluzione del suo pensiero. In questo senso il pianoforte era davvero il “suo” strumento».
In che senso? «Nel senso che per lui il pianoforte era proprio uno “strumento”. Non gli interessava in quanto pianoforte. Non cercava la bellezza del suono pianistico. Ma gli serviva per dare forma al suo pensiero che andava oltre il pianoforte. Gli andava bene perché era più neutrale degli altri. Ha scelto il pianoforte e non, che ne so, un portacenere (che pure produce suono) perché gli garantiva l’orizzontalità delle melodie e dei contrappunti e la verticalità dell’armonia. Non era Chopin o Liszt, che scrivevano per il pianoforte. A lui serviva per dare forma ai suoi estremi. Si può dire che Beethoven era con il piano e contro il piano».
In altre parole, il pensiero musicale era più avanti. Perciò scriveva cose pressoché ineseguibili per i pianisti del suo tempo. «Infatti! E poiché scriveva cose ineseguibili ha costretto i pianisti a evolvere la tecnica per poter stare al passo con il suo pensiero».
Quando lei ha inciso il ciclo delle Sonate per la prima volta aveva 24 anni. Non dica anche lei, come fanno tanti, che non aveva dei modelli che ammirasse in modo particolare. «Certo che ne avevo. Per le Sonate per pianoforte adoravo, e amo tantissimo ancora oggi, il pianismo di Edwin Fischer e Claudio Arrau, che per me è stato il più importante pianista “tedesco” di sempre, anche se era nato in Cile. Ho avuto la fortuna di conoscerli entrambi, Arrau di più perché Fischer è morto quando avevo 18 anni ma ricordo l’emozione di suonare per lui nel ‘54 a Salisburgo e la gioia per i suoi elogi. Arrau lo conoscevo dai tempi di Buenos Aires. Quando penso a loro due mi ricordo sempre un aneddoto. Fischer aveva scritto un libro nel quale diceva a un certo punto che le prime tre note dell’ultimo tempo della Sonata in re maggiore op.10 n.3 , tre note che sembrano aprire un discorso che però vien subito troncato, sono una espressione di umorismo. Una sera Arrau viene a un mio concerto. In programma c’è quella Sonata. Alla fine viene a dirmi che gli è piaciuta molto, che ho fatto progressi enormi, che gli sono piaciuti molto i primi tre tempi ma peccato che nell’ultimo non si sentisse l’angoscia di quelle tre note subito troncate. Quella sera ho iniziato a capire che quando si parla di musica non si parla di musica ma della nostra reazione di fronte alla musica».
E che dire dei Concerti con la direzione di Klemperer? «Che suonare con lui, oltre che un onore è stata una fantastica opportunità. Attorno a Klemperer fiorisce sempre il luogo comune dei tempi troppo lenti. Ma, a parte che non era sempre così, nella sua lentezza c’era il sentimento della profondità. E in lui c’era un senso etico della musica che raramente ho visto altrove».
Quanto virtuosismo c’è nei Concerti di Beethoven? «Ce n’è abbastanza. Oggi la parola “virtuosismo” è considerata una parola “sporca” ma è un errore perché viene da virtù. Ed è la virtù di fare cose difficili senza che se ne veda lo sforzo. Virtuosismo non è affatto sinonimo di superficialità».

Corriere 13.1.14
Un’interpretazione neoclassica piena di malinconia
di E. Gir.


Esperto di cose pianistiche come pochi altri in Italia, Piero Rattalino parla del Beethoven di Daniel Barenboim come di un Beethoven neoclassico pieno di malinconia e di una qual certa vena di crepuscolarismo. E non manca di sottolineare l’approccio antifilologico di chi ha fatto i conti fin da bambino con beethoveniani del calibro di Edwin Fischer, Claudio Arrau, Wilhelm Furtwängler, Otto Klemperer. In altre parole, sottolinea l’estraneità di Barenboim a quel tipo di interpretazione modernista, elettrica, nervosa, non solo dei filologi da fortepiano come, per primi, Demus o Badura Skoda, ma anche di esecutori «tradizionali» che in qualche misura dai filologi si sono lasciati parzialmente influenzare come ad esempio, per parlare di direttori, Abbado e Rattle. Tutto vero. Va aggiunto però che questo senso notturno, anche in senso meramente timbrico, del pianismo di Barenboim è tutt’altro che privo di modernità. I tempi non sono incalzanti, il suono non è metallico, il senso della forma è scolpito, statuario. Ma tra queste coordinate molto solide e molto rispettose della tradizione tedesca vi è una mobilità, una tensione interna, queste sì modernissime. L’anima del Beethoven che Barenboim interpreta sia come pianista sia come direttore d’orchestra è data dal gusto, dalla sensibilità e dalla logica che governa il conio dei fraseggi. Se è vero che in Beethoven non c’è mai una nota di più o di meno dello stretto necessario, ogni frase che il musicista argentino-israeliano disegna sulla tastiera reca il senso della parte nel tutto. È bella in sé, quanto funzionale alla profondità e all’essenzialità del pensiero di Beethoven. Ecco perché è giusto parlare di tradizione ma di tradizione viva e perennemente attuale.

Repubblica 13.1.14
La rinuncia di Grass
“Ormai sono troppo vecchio, non scriverò più romanzi”
A 86 anni una confessione e un bilancio su politica, arte, vittorie e sconfitte In esclusiva in Italia per “Repubblica”
L’annuncio del premio Nobel per la letteratura in un’intervista al giornale tedesco “Passauer Neue Presse”
intervista di Edith Rabenstein


LUBECCA «Non scriverò più romanzi, ma disegnando e dipingendo acquerelli ho già prodotto testi ». Ce lo dice il premio Nobel Günter Grass, proprio mentre, a cinquant’anni dall’uscita diAnni di cani, sta lavorando a un’edizione con illustrazioni inedite. Abbiamo parlato con lui dell’epoca in cui scrisse quel romanzo, dell’epistolario con Willy Brandt, del rapporto con Israele, dello scandalo dello spionaggio della Nsa e degli altri grandi temi del momento, fino alla sua scelta di vivere senza un cellulare.
Che cosa l’ha spinta a tornare ai temi diAnni di cani, questa volta con illustrazioni?
«Dei miei primi tre libri di prosa –Il tamburo di latta, Gatto e topo e Anni di cani – è stato quest’ultimo a cui sono rimasto legato più a lungo, per il suo carattere frammentario. Mi ha sempre interessato, anche dal punto di vista visivo, perché è un romanzo ricco di immagini. Quando ho finitoLe parole dei Grimm per me è giunto il momento di illustrare Anni di cani. È anche una questione di tecnica: le mie dita ancora non tremano, dunque mi sono deciso a incidere. In un anno e mezzo ho prodotto 136 illustrazioni, quante il libro ne richiedeva. E rileggendolo ho riguardato indietro a cinquant’anni fa, ho riscoperto l’autore allora relativamente giovane. Mi sono divertito».
Come percepisce la distanza da quel giovane autore che era?
«Era un’epoca di risveglio, un tempo in cui riscoprii la lingua tedesca danneggiata dal periodo nazista e non volevo permettere che la si condannasse per la sua ricchezza e flessibilità. Così nacque laTrilogia di Danzica, che scrissi in sette anni e mezzo – fu un processo di scrittura continuo – e un risveglio, una svolta per me. Fu colto così anche nel Gruppo 47, specie da autori della mia generazione, come Martin Walser, Uwe Johnson, Hans Magnus Enzensberger e Peter Rühmkorf. Ci distinguevamo dagli autori dei primi anni del dopoguerra, che per buoni motivi usavano un linguaggio secco, parco, la “letteratura del colpo a freddo”. Noi volevamo usare tutti i registri della lingua. E ciò ha influito anche su Anni di cani».
Si è appena celebrato il centenario della nascita di Willy Brandt: lei fu suo compagno di strada, lo aiutò nelle elezioni, ha pubblicato il carteggio con lui. Cosa era lui per lei allora, e come lo giudica oggi?
«Per me fu allora l’esempio, il modello, e così è rimasto. Sono cresciuto sotto il nazismo e fino alla fine, ancora a 17 anni, credetti come un idiota nella vittoria finale. Willy Brandt già a 19 anni aveva capito la natura criminale del sistema nazista, traendone le conseguenze nel 1933. Dovette lasciare la Germania, si rifugiò in Norvegia. Già questo fu esemplare. Poi tornò in Germania, fu sindaco di Berlino e nel momento della costruzione del Muro si candidò per la prima volta a cancelliere. Adenauer lo diffamò come “figlio illegittimo”, una diffamazione orribile allora, e fu calunniato anche come emigrante e chiamato col suo nome di clandestinità, Herbert Frahm».
Nel carteggio leggiamo che Brandt, con gli auguri per il suo cinquantesimo compleanno, lo ringraziò per l’aiuto «per cui tu hai sacrificato i tuoi anni migliori». Fu sacrificio o anche ispirazione per il suo lavoro?
«Non è stato sacrificio, dal mio punto di vista. È stata una lezione, che io trassi dalla dolorosa esperienza con il passato tedesco. La mia generazione dovette chiedersi: “Come si poté arrivare a tali crimini? Come fece un uomo come Hitler ad arrivare al potere?”. Tutto questo rimanda ovviamente alle cause del crollo della Repubblica di Weimar. Uno dei motivi fu che i cittadini non la difesero, nemmeno gli intellettuali. Da ciò trassi le mie conseguenze. Non mi impegnai come scrittore, ma in prima linea come cittadino. Poi in anni di campagne elettorali per la socialdemocrazia ho conosciuto la Germania. Ho viaggiato nelle province più profonde dell’Ovest, politicamente molto democristiane, dove ho incontrato un pubblico variegato, che di solito non va né a comizi né a incontri letterari. Anche quelle sono state esperienze ricche d’insegnamenti. Noi scrittori tendiamo a porci grandi traguardi, e a volte dobbiamo anche farlo. Ma da Brandt ho imparato una cosa: chi vuole trasformare un’utopia in realtà, ed egli lo voleva, deve saper essere anche pragmatico».
Con una lettera aperta, 560scrittori di 83 paesi, tra cui lei, hanno protestato contro le intercettazioni e i controlli informatici nella vita dei cittadini. Perché l’iniziativa è importante?
«C’è un prologo. La scrittrice Juli Zeh, il suo collega Ilija Trojanov e altri hanno scritto una lettera alla Cancelliera, e volevano consegnargliela. La lettera parlava dello spionaggio angloamericano. Ma la signora Merkel ha ritenuto di non dover ricevere personalmente quella lettera, e non ha risposto. Trattare con tale disprezzo scrittori che si impegnano come cittadini non è mai successo, neanche sotto il cancelliere Ludwig Erhard. La signora Merkel si è comportata in modo vergognoso. Per questo abbiamo pubblicato la nota di protesta in tutto il mondo. Non so quali reazioni ci siano state, ma credo che la signora Merkel voglia ignorare il problema o affrontarlo con parole che non dicono nulla. Ma non avrà successo. Queste pratiche di spionaggio, che purtroppo partono da un Paese modello come l’America, mettono in pericolo la democrazia forse ancor più del terrorismo. Perché così la si svuota dall’interno, si passa allo Stato che sorveglia e sospetta tutti i cittadini ».
È perché teme la sorveglianza, lei vive senza cellulare?
«Io appartengo ai dinosauri che hanno vissuto una vita senza queste nuove tecnologie e non ne hanno bisogno nemmeno oggi. Non ho un cellulare perché non voglio essere sempre raggiungibile. E non vorrei accettare che intercettando il mio cellulare si sappia dove sono. Sono ingerenze nella mia vita privata che io disprezzo e respingo. Ancora oggi scrivo la prima versione dei miei testi a mano, la seconda e la terza con la mia vecchia Olivetti. Poi la mia segretaria riversa tutto in un computer. E io correggo il testo come un manoscritto».
Lei ha una grande biblioteca, cosa pensa del tramonto delle biblioteche e dell’avanzata vittoriosa dell’ebook?
«Mi dispiace. La vita con i libri mancherà alla gente. A ogni lettura in pubblico vivo l’esperienza dell’incontro con giovani che mi chiedono l’autografo sui miei libri. Chiedo: dove li avete avuti? “Da nonno”, mi rispondono spesso. È una gioia per l’autore quando i libri vengono tramandati tra generazioni, è elemento costitutivo della nostra cultura. L’ebook non è una tendenza da impedire. Se i diritti d’autore sono garantiti, ho poche obiezioni. Questo sviluppo però non caccerà via il libro cartaceo. Il libro prenderà altre forme, dovrà di nuovo essere di grande qualità, anche quanto a qualità di carta estampa. Sarà un oggetto di valore e attirerà un nuovo pubblico. Su questo sono ottimista».
Lei è uno scrittore impegnato e polemista. Prima delle ultime elezioni gli intellettuali tedeschi, a parte lei, sono rimasti in silenzio. Perché questo ritirarsi nel privato da parte degli ambienti della letteratura e dell’arte?
«Ho trovato questa tendenza orribile e la deploro, perché una tradizione nata con buoni motivi in Germania minaccia di addormentarsi tra i giovani autori. A volte sono anche intimiditi dalle pagine letterarie dei media, dove abbiamo letto: non fate come Grass, perdereste tempo, dedicatevi solo alla letteratura, viene predicata l’art pour l’art.Ora una nuova leva di giovani scrittori, da Ingo Schulze a Juli Zeh, ha capito che deve prendere posizione, che lo scrittore non è solo scrittore bensì anche cittadino e uomo del suo tempo, nel nostro paese. Posso solo sperare che il nostro lavoro di allora, che contribuì all’instaurazione della democrazia, sia portato avantidai colleghi giovani».
La sua poesia Ciò che deve essere detto, su Israele e l’Iran, ha causato una tempesta internazionale ma l’ha anche resa persona non gratain Israele. Quanto ci è rimasto male?
«Moltissimo. Sono stato spesso in Israele, sono un amico critico del paese. È stato doloroso che non abbiano voluto capire l’impulso decisivo dei contenuti della poesia, e invece che mi abbiano subito colpito con la clava dell’antisemitismo. Ancor più, ferisce il silenzio di molti. Ma ho anche avuto molto sostegno, nella circostanza. Specie all’estero. Per esempio, lo scrittore spagnolo Juan Goytisolo ha avuto un premio allora per il suo coraggioso impegno per i migranti e gli zingari in Spagna. Poi me lo ha dedicato, a causa degli attacchi contro la mia persona. In Germania ho avuto la sensazione di una caccia alle streghe da parte di una certa stampa. Io mi auguravo semplicemente che anche Israele, essendo una potenza atomica, sottoponesse il suo arsenale a controlli internazionali».
Il Pen club in maggio pubblicherà un rapporto sul tramonto dei quotidiani in Germania. Cosa si aspetta dal documento?
«Non vi ho contribuito, ma osservo da tempo che il pluralismo della stampa si sta riducendo. Una volta c’erano differenze riconoscibili traDie Zeit, la Frankfurter Allgemeine e la Süddeutsche Zeitung, o tra Spiegel e Bild. Tutto questo è cambiato, e in modo catastrofico. C’è una terribile tendenza a confezionare prodotti sempre più simili. È uno sviluppo pericoloso».
A che cosa sta lavorando ora? Dopo Le parole dei Grimm, la grande dichiarazione d’amore alla lingua tedesca, avremo di nuovo un romanzo?
«Ho 86 anni. Non credo che riuscirò ancora a scrivere un romanzo. Il mio stato di salute non è tale da poter programmare qualcosa che possa presupporre 5-6 anni di lavorazione, ossia il tempo di ricerca necessario per scrivere un romanzo. Ma dopo un periodo in cui sono stato più volte in ospedale, ho ritrovato l’attività creativa nel disegno e negli acquerelli, che tra l’altro in passato mi hanno ispirato a produrre testi. Sto lavorando a questo. Cosa ne verrà fuori, non lo so».
Cosa si aspetta dal 2014?
«Sono un pessimista che ama la vita. Non mi aspetto molto di buono. La Grosse Koalition, col Parlamento quasi tutto insieme, è un indebolimento della democrazia. E nel programma di governo non vedo segnali di riforme necessarie. Le differenze tra ricchi e poveri non saranno risolte. Sono tutti segnali negativi senza pari».
Che cosa si augura per se stesso?
«Vorrei che si riesca finalmente a trasformare il Parlamento europeo in un organo di controllo. L’Europa che desidero non è ancora realtà, il Parlamento non ha abbastanza poteri».
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Repubblica 13.1.14
Una vita con Montale passo dopo passo
L’imponente “Bibliografia” del poeta a cura di Castellano e D’Andrea
di Paolo Mauri


Quando nel 1985 Franco Contorbia pubblicò per la Librex Immagini di una vita,cioè una fotobiografia di Eugenio Montale, non mancò di citare due poesie tratte dalDiario del ‘71 e del ‘72.Nella prima, Montale condanna la moda di allestire iconografie dei massimi scrittori, andando a frugare persino tra le cartelle cliniche, i menù degli alberghi, le cambiali… Nella seconda, ormai divenuta proverbiale, il poeta raccomanda ai posteri di fare un bel falò di tutto quello che riguarda «la mia vita, i miei fatti, i miei non fatti», concludendo, «vissi al cinque per cento, non aumentate la dose». Gli ha disobbedito di recente Pier Giorgio Zunino, autore di un ampio saggio biografico intitolato“E più nessuno è incolpevole”: Eugenio Montale negli anni del fascismo, pubblicato da Aragno nel volumetto Lettori di Montale,così come su un altro piano gli hanno disobbedito ora Francesca Castellano e Sofia D’Andrea autrici di una imponente Bibliografia degli scritti su Eugenio Montale(Edizioni di Storia e Letteratura). Quando negli anni Settanta Laura Barile frequentava Montale per mettere a punto la suaBibliografia montaliana, cioè degli scritti firmati dalui (Mondadori, 1977) il poeta, «atterrito forse e incuriosito da questa mia attività sul suo conto, preferiva nei nostri incontri non accennare all’argomento, pur mettendomi a disposizione i materiali in suo possesso». A libro uscito, Montale confessava a Natalia Aspesi un certo suo disagio. A chi poteva servire tutta quella messe di dati? Certo a lui, per rammentargli che in quella tale occasione era andato a Parigi, e poi? Forse, insinuava, all’autrice per avere una cattedra… Franco Contorbia, nella premessa alla Bibliografia di Castellano e D’Andrea, ha ricordato l’intervista alla Aspesi, uscita su Repubblica il 30 settembre 1977 e non ha mancato di citare i versi sulle iconografie già ricordati in margine alla sua iconografia, tra l’altro introdotta da un saggio di Gianfranco Contini che ricordava come nel 1981 avesse ricevuto uno splendido volume curato da Maria José de Lancastre e dedicato a Fernando Pessoa, l’imprendibile autore che si moltiplicava nei suoi eteronimi.
Sono ben seimila le schede della Bibliografia (il volume è di settecento pagine) e muovono dal remoto 1925, anno di pubblicazione presso le edizioni di Piero Gobetti degliOssi di seppia, per giungere fino al 2008. È così possibile, per esempio, ricostruire, chiamiamola così, la prima accoglienza dell’esordio montaliano, di cui parlarono Carlo Linati, Adriano Grande, Emilio Cecchi, Giuseppe Prezzolini, Sergio Solmi e altri ancora. Verso il suo primo editore Montale aveva qualche riserva, come ha documentato Pier Giorgio Zunino nel saggio sopra citato. Non gli era piaciuto, per esempio, l’attacco sferrato da Gobetti contro il grande invalido fascista Carlo Delcroix cui andava la sua solidarietà di ex-combattente. Nominando Gobetti, Montale lo chiamava “l’uomo politico”. Poi, però, ci fu la tragica fine e certi dissapori per un articolo un po’ rimaneggiato in redazione svanirono, ovviamente. C’è un piccolo mistero nella collaborazione tra i due: Montale risulta aver scritto perIl Baretti un articolo su Giovanni Ansaldo che allora non era ancora diventato fascista e dirigeva Il Lavoro di Genova, giornale cui Montale desiderava collaborare. Bene quell’articolo non fu pubblicato e non è mai stato ritrovato. Ma i rapporti tra Montale e Ansaldo non furono mai facili. E se l’articolo, aggiungiamo noi, non fosse mai stato scritto?
Attraverso laBibliografia è possibile seguire Montale passo dopo passo, libro dopo libro, fino al Nobel e fino alla morte: siamo a circa un terzo del volume, intorno a duecento trenta pagine. Poi la critica, la memorialistica e anche la semplice curiosità verso un poeta che cresce con il tempo non si arrestano più, come testimoniano le oltre quattrocento pagine del volume che ci accompagnano fino agli anni più recenti e che non trascurano di certo l’episodio dei versi postumi lasciati in eredità ad Annalisa Cima. Uno scherzo? Un falso? Nel nome di Montale incrociarono le spade Maria Corti e Dante Isella, si crearono due schieramenti. Oggi forse, se un aldilà esiste, sapranno finalmente la verità.

Repubblica 13.1.14
Perché dagli egizi a Omero siamo figli del mondo classico
di Umberto Eco


Torniamo alle radici della saggezza classica, all’Iliade. Teti si rivolge a Efesto affinché nelle sue fucine appronti nuove armi per suo figlio Achille. Efesto si mette al lavoro e parte del XVIII canto del poema è dedicata alla descrizione dello scudo che egli prepara. Questo scudo è una “forma” perfetta, dove l’intero universo è contenuto e definito nei limiti del cerchio e delle sue zone concentriche, così che nei limiti di quella forma Efesto può rappresentare la Terra, il Mare, il Cielo, il Sole, la Luna, gli Astri, le Pleiadi, Orione e l’Orsa Maggiore, due popolose città con le loro feste e i loro riti civili, la guerra, i lavori agresti e la pastorizia, la vendemmia, la caccia, le danze campestri… Il grande fiume Oceano circonda, limita, termina ogni scena e separa lo scudo dal resto dell’universo.
Lo scudo non lascia supporre che altro ci sia al di fuori dei suoi bordi; esso è un mondo conchiuso, ed è appunto l’epifania della Forma, del modo in cui l’arte riesce a costruire rappresentazioni armoniche in cui viene istituito un ordine, una gerarchia, un rapporto figura-sfondo tra le cose rappresentate. [...] Esiste però un altro modo di rappresentazione artistica che si manifesta quando, di ciò che si vuole rappresentare, non si conoscono i confini, quando non si sa quante siano le cose di cui si parla e se ne presuppone un numero, se non infinito, astronomicamente grande; o quando ancora di qualcosa non si riesce a dare una definizione per essenza e quindi, per parlarne, per renderlo comprensibile, in qualche modo percepibile, se ne elencano confusamente le proprietà – e le proprietà accidentali di un qualcosa, dai Greci ai giorni nostri, sono ritenute infinite.
C’è un momento in cui Omero vuole dare il senso dell’immensità dell’esercito greco (nel canto II dell’Iliade [...]). Dapprima egli tenta un paragone: «Quella massa d’uomini, le cui armi riflettono la luce del sole, è come un fuoco che dilaga per una foresta, è come uno sciame d’oche o di gru che pare attraversare con un rombo il cielo» – ma nessuna metafora lo soccorre, e chiama a soccorso le Muse:«Ditemi, o Muse che abitate l’Olimpo, voi che tutto sapete… quali erano i capi e i guidatori dei Danai; la folla non chiamerò per nome, nemmeno se avessi dieci lingue e dieci bocche», e pertanto si dispone a nominare solo i capitani e le navi. Sembra una scorciatoia ma questa scorciatoia prende 350 versi del poema. Apparentemente l’elenco è finito [...], ma siccome non si può dire quanti uomini ci siano per ogni duce, il numero a cui si allude è per intanto indefinito.
Omero gioca al limite, perché la stessa matematica greca aveva il terrore dell’infinito, e i pitagorici, di fronte all’infinito e a ciò che non può essere ricondotto a un limite, avvertivano una sorta di sacro terrore e cercavano nel numero la regola capace di limitare la realtà, di darle ordine e comprensibilità. Ma in fondo tutti gli aspetti oscuri della civiltà classica [...], e che si oppongono alla idealizzazione neoclassica, rappresentano altrettanti modi di fare i conti (spesso senza riuscirci) con l’infinito,con l’irrazionale, col mondo delle pulsioni e delle passioni incontrollabili. Ed è per questo che noi ancora oggi viviamo all’ombra del modello classico, in tutte le sue contraddizioni.
Così, che si tratti di Apollo o di Dioniso, noi ricorriamo alla mitologia antica per individuarvi dei modelli di comportamento, al punto tale che persino i poeti cristiani (si veda tra tutti Dante) non esitano a invocare Apollo o le Muse, o a mettere in scena Cerbero. Noi viviamo usando ancora forme di ragionamento e dimostrazioni geometriche prodotte dal pensiero greco, e arrivate sino a noi dopo aver fecondato sia il pensiero arabo che quello dell’Occidente medievale. I non credenti si appellano ancora a un’etica che è stata proposta da Platone, da Aristotele e dagli stoici, né i credenti la trovano in complesso contraria ai principi dell’etica cristiana — senza contare che in greco scrivevano, e in parte pensavano, i primi Padri della Chiesa. Dalla Grecia abbiamo tratto il modello politico della democrazia, da Roma i principi del diritto, da entrambe le civiltà le tecniche retoriche che, anche quando non le riconosciamo come tali, usiamo ancor oggi nei parlamenti, nei tribunali, nella pubblicità. Noi coltiviamo ancora una visione eroica dello sport che ci proviene dalle Olimpiadi originarie, noi aspiriamo a una forma di educazione che pone le proprie radici nella paideia greca. [...] Ci premeva mostrare la complessità e la multiformità del modello classico, che continua a influenzarci anche in quei modi che rimanevano esclusi dalla sua versione edulcorata.