l’Unità 14.1.14
Comunicato del Cdr
Cari
lettori, solo per un estremo atto di responsabilità abbiamo garantito
l’uscita de l’Unità nei giorni in cui venivano alla luce fatti
inquietanti per il vostro e nostro giornale. Dopo due settimane da
quando abbiamo chiesto la sostituzione dell’amministratore delegato,
Fabrizio Meli, e la riacquisizione delle quote che lo stesso a.d. aveva
ceduto alla ex parlamentare di Forza Italia, dottoressa Maria Claudia
Ioannucci, non abbiamo ancora ricevuto risposte soddisfacenti a quelle
che la redazione continua a ritenere questioni ineludibili. Quella
operazione, dai contorni tuttora poco chiari e avvenuta tenendone
all’oscuro la rappresentanza sindacale, ha prodotto e continua a
produrre un gravissimo danno a «l’Unità». In gioco, lo ribadiamo, ci
sono principi e valori non negoziabili e con essi l’identità stessa del
vostro e nostro giornale.
Per questo domani «l’Unità» non sarà in
edicola e il sito web non verrà aggiornato. Difendere, anche ricorrendo
allo sciopero, il patrimonio ideale di questa storica testata e chiedere
che le venga garantito un futuro limpido, è per noi il modo migliore
per celebrare, tra poche settimane, i 90 anni de «l’Unità». Ancora una
volta, vi chiediamo di essere al nostro fianco.
Il Cdr
La Stampa 14.1.14
La Corte Costituzionale deposita la sentenza che azzera il Porcellum: distorsivo quel premio di maggioranza
“Legge elettorale anti democratica”
“Grave alterazione della rappresentanza, senza riforma resta il proporzionale”
di Antonella Rampino
qui
La Stampa 14.1.14
Dalla Consulta forzature in buona fede
di Ugo de Siervo
La
lettura della sentenza n.1 del 2014, mediante la quale la Corte
costituzionale ha fatto venir meno la legge elettorale del 2005 ed ha
provvisoriamente introdotto un sistema proporzionale per l’elezione di
Camera e Senato (un sistema certamente non voluto dal legislatore da
almeno trent’anni!), conferma in sostanza i giudizi già espressi sulle
luci e le ombre di questa importante decisione, quali si deducevano dal
noto comunicato stampa.
Alcuni passaggi della sentenza cercano
opportunamente di escludere letture catastrofiche dei suoi effetti:
penso, in particolare, alla decisa ed opportuna riaffermazione che
questa sentenza non mette in gioco né la legittimità dell’attuale
composizione delle Camere né la legittimità degli organi e degli atti
del nostro sistema istituzionale.
Non è certo dubbia la scelta di
dichiarare illegittimi i premi di maggioranza per i partiti che
conseguono più voti alla Camera o nei vari collegi elettorali per la
designazione dei senatori: qui la Corte ha buon gioco a denunciare come
assolutamente irragionevole l’attribuzione di premi eccessivi a liste di
cui non si determina la soglia minima da conseguire.
Al tempo
stesso, però, non solo emergono alcune forzature operate dalla Corte per
giungere ad eliminare infine il pessimo sistema elettorale prima
esistente, specie modificando in modo rilevante i criteri utilizzati per
ammettere il giudizio di costituzionalità (ma è questione alquanto
specialistica, che non si può trattare in questa sede), ma soprattutto
si riconosce che la legislazione residuata dopo le demolizioni operate
dalla Corte è applicabile, in quanto sistema decisamente
proporzionalistico nel quale l’elettore dovrebbe poter esprimere una
preferenza fra i diversi candidati, con qualche problema. La Corte,
infatti, deve riconoscere che per far funzionare davvero il sistema
prodotto dalla sentenza, occorrerebbe apportare alcune modificazioni
alla legislazione rimasta in vigore, prevedendo, ad esempio, come e dove
esprimere la preferenza o come prevedere la graduazione finale degli
eletti. La Corte qui se la cava suggerendo di interpretare
evolutivamente la legge residuata od addirittura utilizzando il potere
regolamentare, ma certo questo suo evidente imbarazzo nel dare questi
suggerimenti conferma l’opinabilità della sua decisione relativa al
fatto che in sistemi con lunghe liste di candidati occorre restituire
all’elettore il potere di esprimere una sola preferenza fra i diversi
candidati.
Ma perché una e non due o tre, se le liste dei
candidati sono davvero tanto lunghe, e se quindi l’espressione di una
sola preferenza potrebbe essere sostanzialmente inefficace in tanti
collegi elettorali ? Qui, in realtà, si ha la riprova pratica che la
Corte, certo in buona fede, si è impropriamente avventurata nell’area
delle scelte tipicamente politiche, che in quanto tali non possono che
spettare al Parlamento.
C’è davvero da augurarsi che il Parlamento
attuale, che non sembra incontrare in questa sentenza limiti
particolari alla sua discrezionalità legislativa (purché la ricerca ad
ogni costo di forti e sicure maggioranze non spinga a nuove esagerazioni
ipermaggioritarie) riesca a vincere l’incredibile incapacità attuale
dei gruppi parlamentari di varare una legge ragionevolmente
maggioritaria. Altrimenti, il rischio effettivo è di trovarsi
improvvisamente a votare in un sistema accentuatamente
proporzionalistico e per di più neppure particolarmente funzionale.
Corriere 14.1.14
Schiaffo ai partiti
di Michele Ainis
Le
carte, a questo punto, stanno tutte lì sul tavolo. Adesso tocca ai
giocatori, dunque alla politica. Perché la Consulta ha messo nero su
bianco le sue motivazioni, e senza risparmiare sull’inchiostro: 26
pagine. Una sentenza che ne richiama altre cento (perfino del Tribunale
costituzionale tedesco), che insomma cerca d’appoggiarsi ai precedenti,
pur essendo una decisione senza precedenti. Ma in ultimo la costruzione è
persuasiva: non c’è più il Porcellum, pace all’anima sua. Non c’è però
alcun vuoto normativo, giacché residua un sistema elettorale pronto
all’uso. E tale sistema è finalmente in armonia con la Costituzione,
benché il Parlamento possa modificarlo anche domani.
Quale? Un
proporzionale con voto di preferenza. Questa sentenza è infatti un
coltello con due lame: la prima recide il ramo da cui pendeva il premio
di maggioranza senza soglia; la seconda intaglia il ramo delle liste
bloccate, scolpendovi lo spazio per esprimere un voto, almeno uno.
Sicché gli elettori recuperano la voce, però diventa afona la voce dei
partiti. D’altronde, fin qui, avevano urlato pure troppo. C’è un
passaggio, al punto 5 della motivazione, dove questi ultimi vengono
apostrofati senza troppi giri di parole: «I partiti non possono
sostituirsi al corpo elettorale», non possono espropriarne il voto
attraverso lenzuolate di cognomi su cui è vietato apporre una crocetta, e
infine sono gli elettori — non i partiti — a rivestire «attribuzioni
costituzionali».
Una sonora bocciatura del passato, ma anche una
lezione per il futuro. Significa che gli elettori vanno rispettati,
perché la sovranità appartiene al popolo, non alle segreterie politiche.
E significa, al contempo, che le esigenze della governabilità non
devono andare a scapito della rappresentatività del Parlamento. Ne
tengano conto, gli architetti del prossimo sistema. Poi, certo, il filo
che collega il popolo votante al popolo votato si può annodare in varia
guisa. Anche con le liste bloccate «corte», tipiche del modello
spagnolo, sulle quali la Consulta accende il verde del semaforo. O con
un maggioritario, che tuttavia non forzi oltre misura il principio
dell’eguaglianza del voto, evocato a più riprese in questa decisione.
La
correzione, dunque, tocca al Parlamento. E il Parlamento non ha affatto
perso la sua legittimazione, come si disse a vanvera dopo la
stroncatura del Porcellum . Anche su questo punto la sentenza usa parole
chiare: c’è un principio di continuità degli organi costituzionali,
sicché restano validi gli atti già compiuti, saranno validi quelli
successivi. A cominciare, per l’appunto, dalla nuova legge elettorale.
Sempre che il Parlamento sappia scriverla, sempre che non rimanga
ostaggio dei veti incrociati. Perché allora sì, perderebbe ogni
legittimazione.
Repubblica 14.1.14
La Consulta, il Porcellum e quella ferita da sanare
di Massimo Giannini
ORA
è scritta nero su bianco, come una delle pagine nere della Storia
politica italiana. La “porcata” di Calderoli, ideata dalla follia
berlusconiana per impedire la vittoria elettorale dell’Unione di Prodi,
ha determinato una profonda «alterazione del circuito democratico »
basato sul principio fondamentale dell’uguaglianza del voto. Le
motivazioni della Consulta fanno luce così su una delle notti più buie
della Repubblica. Per quasi dieci anni la democrazia italiana è stata
stravolta, e i diritti dei cittadini-elettori espropriati.
Insieme
a molti altri disastri politici e istituzionali e ad altrettanti guasti
economici e morali, questa è dunque la drammatica eredità che una
destra populista e “sfascista” regala al Paese. La Corte costituzionale
lo dice con assoluta chiarezza, spiegando le censure di illegittimità
che riguardano i due vizi fondamentali di quella legge. L’abnorme premio
di maggioranza , che in assenza di una ragionevole soglia minima di
voti per competere all’assegnazione del premio stesso ha finito per
«determinare un’alterazione del circuito democratico definito dalla
Costituzione». Il meccanismo delle liste bloccate, che rimettendo la
scelta esclusiva dei candidati ai partiti ha privato «l’elettore di ogni
margine di scelta dei propri rappresentanti», e ha ferito «la logica
della rappresentanza consegnata nella Costituzione».
Il Porcellum è
stato un veleno scientificamente inoculato nelle vene della nazione. Ha
intossicato il Parlamento, riempiendolo di “nominati” al servizio delle
segreterie. Ha innescato una micidiale crisi di rigetto nella società
civile, spingendo moltitudini di elettori a cercare l’antidoto
nell’anti-politica. Il dramma è che con questo “mostro” concepito dalla
resistibile armata del Cavaliere abbiamo già votato due volte, eleggendo
due Parlamenti. È vero che la Consulta si premura di chiarire ora che
il principio di «continuità dello Stato» è comunque assicurato, e che la
sua pronuncia non inficia le ultime tornate elettorali né delegittima
le Camere appena elette.
Ma questo non è balsamo. Semmai è altro
sale sulla ferita. Dal 2005, grazie alla “cura” berlusconiana, l’Italia è
una democrazia violata. La legge elettorale, cioè la “regola”
fondamentale che disciplina l’esercizio di un diritto inalienabile dei
cittadini, ha violato palesemente la Costituzione. Ci sono voluti quasi
dieci anni per certificare quello che era già chiaro allora. Meglio
tardi che mai. Ma il rammarico resta, insieme all’indignazione.
Le
motivazioni della Corte erano importanti non solo per comprendere le
ragioni dell’incostituzionalità del Porcellum. Ma anche e soprattutto
per capire quali paletti avrebbe fissato, nella prospettiva della
riforma elettorale. I giudici hanno adottato una soluzione “aperta”, che
di fatto non preclude nessuno dei modelli possibili, né il
proporzionale né il maggioritario, variamente corretti e integrati.
Purché il premio di maggioranza abbia una soglia minima, e a condizione
che l’elettore abbia il diritto di scegliere. Riaffermati questi
principi irrinunciabili, le motivazioni della Corte non sbarrano la
strada a nessuna delle ipotesi messe in campo da Matteo Renzi. Il
modello spagnolo può funzionare (purché le liste prevedano
circoscrizioni ridotte e con pochi candidati), così come il Mattarellum
corretto (purché si gradui adeguatamente il premio della parte
proporzionale) o il doppio turno di lista (ribattezzato impropriamente
il “sindaco d’Italia”, e purché sia introdotto il voto di preferenza o
il listino “corto”).
Questa exit strategy indicata dalla Consulta è
da un lato un’opportunità. Ma dall’altro lato un problema. Chi pensava
(o sperava) che la Corte togliesse le castagne dal fuoco alla politica
rimane deluso. La palla torna interamente nella metà campo dei partiti. E
questo costringe il leader del Pd ad accelerare i tempi, e a rompere
gli indugi. Renzi deve portare a casa un risultato entro il 20 gennaio,
quando il dibattito approderà in Commissione alla Camera, e poi una
settimana dopo in aula. Il leader, da solo, non ha i voti per fare una
qualunque riforma. Ha bisogno di alleati. E ferma restando
l’indisponibilità di Grillo, ha solo due forni ai quali rivolgersi.
Quello di Berlusconi e quello di Alfano. Ma l’uno, per ora, è
alternativo all’altro. E l’uno e l’altro sono pericolosi.
Berlusconi
può discutere forse solo di modello spagnolo, che è tendenzialmente
bipartitico, ma non vuole né il Mattarellum corretto né il doppio turno
di lista (gli elettori di destra storicamente non vanno a votare due
volte in due settimane). Alfano può discutere del “sindaco d’Italia”, ma
non vuole né il Mattarellum corretto (con i collegi uninominali sarebbe
costretto a tornare nelle braccia del Cavaliere) né il modello spagnolo
(con uno sbarramento al 15% rischierebbe di star fuori dal Parlamento).
Renzi ha avuto il merito di forzare il modulo, e di mettere tutti di
fronte alle proprie responsabilità, offrendo tre ipotesi di intesa
possibile.
Ma ora, nell’indecisione altrui, è costretto a
scegliere. Se tratta con Alfano, deve smettere di bastonare
quotidianamente il Nuovo Centrodestra, e appiattirsi su un governo Letta
dal quale invece si vuole sistematicamente e ostinatamente distinguere.
Se tratta con Berlusconi, deve accettare l’idea dell’eventuale «patto
col diavolo». Ma sapendo bene cosa l’aspetta. Non solo una probabile
crisi di governo (eventualità cui Alfano sarebbe costretto per la
rottura del patto di coalizione). Ma anche una possibile imboscata
(“specialità” nella quale il Cavaliere è maestro indiscusso). Berlusconi
potrebbe portare il sindaco di Firenze a un passo dall’accordo sul
modello spagnolo, per poi far saltare il tavolo all’ultimo minuto,
incassando in un colpo solo la caduta del governo delle Strette Intese e
le elezioni anticipate con il proporzionale puro (cioè la morte
politica di Renzi).
È un rischio concreto e non fantapolitica. Per
convincersene, basta chiedere al D’Alema della Bicamerale e al Veltroni
del 2008. Una “lezione” che non possiamo e non dobbiamo dimenticare.
il Fatto 14.1.14
La legge della Consulta: proporzionale e inciucio
Dopo
le motivazioni della bocciatura del Porcellum, l’Italia torna alla
prima Repubblica, preferenze e niente premio di maggioranza
di Marco Palombi
Da
ieri sera l’Italia è di nuovo una Repubblica fondata sul proporzionale.
Col deposito delle motivazioni con cui la Corte costituzionale ha
bocciato il Porcellum sul premio di maggioranza senza soglia e l’assenza
della possibilità di esprimere almeno “una preferenza”, il sistema
elettorale italiano viene ridisegnato in profondità: da stamattina è in
vigore la legge scritta dagli ermellini, il cui nome in filigrana è
“larghe intese per sempre”.
COSA RESTA, infatti, della legge di
Roberto Calderoli dopo il passaggio dei giuristi della Consulta? Solo la
Prima Repubblica, cioè quella parte proporzionale della legge del 2005
scritta da Pier Ferdinando Casini e dall’Udc (il premio di maggioranza e
le coalizioni le volle invece il Cavaliere). La nuova legge elettorale
italiana è la seguente. I voti vengono ripartiti proporzionalmente: a
livello nazionale alla Camera a tutte le liste che superino il 4 per
cento e alle coalizioni che superino il 10; a livello regionale in
Senato per le liste che vadano oltre l’8 per cento (il 20 per le
coalizioni). Ovviamente l’elettore potrà esprimere una preferenza: per
introdurle non serve nemmeno una legge, mette nero su bianco la Corte,
ma basta un semplice regolamento o una circolare del Viminale, se si
dovesse andare al voto senza che il Parlamento trovi l’accordo su una
nuova legge.
Il sistema “Prima Repubblica” applicato ai risultati
di febbraio, ad esempio, significherebbe immaginare un Pd senza quasi un
terzo dei suoi eletti alla Camera e parecchi in meno anche in Senato,
seggi che sarebbero finiti in larga parte al Movimento 5 Stelle e al
Pdl. Il risultato più ovvio di questa situazione è che oggi Enrico Letta
non sarebbe più a palazzo Chigi: la scissione del Nuovo Centrodestra di
Angelino Alfano, infatti, non sarebbe bastata a tenere in vita
l’esecutivo. Anche coi sondaggi attuali, peraltro, se si votasse ora non
ci sarebbe alcuna maggioranza dopo il voto. Non solo: anche ammesso che
il centrosinistra s’avvicini al 40 per cento - come prevedono e sperano
ai vertici del nuovo Pd
- Matteo Renzi non potrebbe formare il
governo se non attraverso un accordo con qualche ex avversario. Motivo
per cui il sindaco di Firenze si gioca molto nelle trattative sulla
nuova legge elettorale: la sua immagine di leader giovane e dinamico al
limite della frettolosità si sposerebbe poco con i minuetti necessari a
un governo di coalizione in cui ogni voto parlamentare finirebbe per
pesare.
FORSE ANCHE per questo la Consulta - con uno dei suoi
tradizionali giudizi giocati sul filo sottilissimo tra il magistero
giuridica e il realismo politico - ha lasciato graziosamente aperta la
via alle due principali opzioni sul tappeto: il sistema spagnolo e il
Mattarellum. Entrambi, infatti, prevedendo le liste bloccate potevano
essere considerati incostituzionali. La Corte s’è preoccupata di far
capire a Renzi, Verdini, Alfano e chiunque altro giochi questa partita
che possono mantenere la mente aperta: le liste del Porcellum con enormi
circoscrizioni, a volte regionali, sono una cosa “non comparabile né
con altri sistemi caratterizzati da liste bloccate solo per una parte
dei seggi (Mattarellum, ndr), né con altri caratterizzati da
circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte (lo
spagnolo, ndr) ”. Altrimenti, sembrano dire in un inciso gli ermellini,
dovremmo considerare incostituzionale “il collegio uninominale”.
Dunque
i giochi sono ancora tutti aperti. Come abbiamo scritto nei giorni
scorsi, Silvio Berlusconi predilige il modello adottato in Spagna: si
tratta in sostanza di un finto proporzionale, o meglio di un
proporzionale che grazie a circoscrizioni molto piccole ha effetti
maggioritari fortissimi.
LO SPAGNOLO è un sistema che piace,
ovviamente, ai partiti più grandi (non escluso il M5S, che aveva
presentato una bozza di questo tenore anche se poi derubricata ad
iniziativa individuale) e anche a quelli radicati territorialmente
com’era un tempo la Lega e sono ancora la SVP sudtirolese e l’UV
valdostana. Sel, l’attuale Carroccio, alfaniani, dipietristi e
quant’altro non conterebbero niente e probabilmente non entrerebbero in
Parlamento (a meno di non lasciare per legge un po’ di seggi al
cosiddetto “diritto di tribuna”).
IL MATTARELLUM è, d’altra parte,
il sistema che potrebbe mettere tutti d’accordo (più della legge dei
sindaci col doppio turno, che ha il grosso problema di applicarsi ad un
sistema che non è un premierato, non prevede cioè elezione diretta). Il
vecchio sistema - in vigore per le politiche del 1994, 1996 e 2001 - ha
due grandi vantaggi: può entrare in funzione con una leggina di due
righe che si limita ad abolire il Porcellum e piace anche ai piccoli e
medi partiti perché costringe quelli grandi a coalizzarsi per forza. Il
rapporto eletto ed elettore sarebbe salvo, ma riavremmo governi
sostenuti da maggioranze parecchio eterogenee.
il Fatto 14.1.14
La decisione
“Parlamento legittimo, votare subito si può”
di Antonella Mascali
Deputati
e senatori possono stare attaccati alle loro poltrone. La Corte
costituzionale, nel motivare l’incostituzionalità della legge
elettorale, il Porcellum, ha specificato che questo Parlamento è
comunque legittimo: “É evidente che la decisione che si assume di
annullamento delle norme censurate, avendo modificato in parte la
normativa che disciplina le elezioni per la Camera e per il Senato,
produrrà i suoi effetti esclusivamente in occasione di una nuova
consultazione elettorale”. Ma il Porcellum “ha coartato la libertà” dei
cittadini; i meccanismi del premio di maggioranza sia alla Camera che al
Senato hanno determinato una “compressione” della volontà popolare.
ALLO
STESSO TEMPO LA CORTE ha specificato che, ovviamente, non c’è alcun
vuoto normativo, e che, volendo, si può andare a votare domani, con
quello che si può definire un sistema proporzionale puro con le
preferenze. “Resta fermo ovviamente, che lo stesso legislatore
ordinario, ove lo ritenga, potrà correggere, modificare o integrare la
disciplina residua”. Dunque, M5s non potrà più sostenere che la riforma
elettorale non si può fare perché questo Parlamento è illegittimo I
motivi della bocciatura del Porcellum sono stati depositati in
cancelleria intorno alle 20.15 dopo una camera di consiglio di oltre tre
ore che sono servite alle “rifiniture”, alle “limitature” di una
sentenza decisa il 4 dicembre scorso. L’ufficialità, dopo un’altra ora e
mezza di rilettura in cancelleria. Segno di quanto la Corte sentisse il
peso addosso. Durante la sospensione di Natale il relatore ed
estensore, Giuseppe Tesauro, si è messo al lavoro e si è confrontato con
il presidente Gaetano Silvestri, che anche da “semplice” giudice
costituzionale aveva molto a cuore il problema del Porcellum.
Approfondendo
il suo no al premio di maggioranza, la Corte spiega che il Porcellum
pregiudica i principi della democrazia parlamentare perché premia una
coalizione anche solo con un voto di scarto rispetto a un’altra, senza
che ci sia un tetto minimo di consensi da raggiungere, per non parlare
del voto per il Senato con il peso differenziato delle Regioni:
“Risulta, pertanto, palese che (le disposizioni, ndr) consentono una
illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea
parlamentare, incompatibile con i principi costituzionali… C’è una
compressione della funzione rappresentativa dell’assemblea, nonché
dell’eguale diritto di voto, eccessiva e tale da produrre un’alterazione
profonda della composizione della rappresentanza democratica, sulla
quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale
vigente”.
QUANTO ALL’IMPOSSIBILITÀ per i cittadini di esprimere le
preferenze, la Corte dice in sostanza che le ultime tre elezioni hanno
determinato un Parlamento di nominati: “Le condizioni stabilite dalle
norme censurate sono tali da alterare per l’intero complesso dei
parlamentari il rapporto di rappresentanza fra elettori ed eletti. Anzi,
impedendo che esso si costituisca correttamente e direttamente,
coartano la libertà di scelta degli elettori nell’elezione dei propri
rappresentanti in Parlamento, che costituisce una delle principali
espressioni della sovranità popolare, e pertanto contraddicono il
principio democratico, incidendo sulla stessa libertà del voto di cui
all’art. 48 Cost. ”. La Consulta spiega che non ci sono eguali in altre
normative, inoltre apre alle cosiddette liste bloccate corte: “Simili
condizioni di voto, che impongono al cittadino, scegliendo una lista, di
scegliere in blocco anche tutti i numerosi candidati in essa elencati,
che non ha avuto modo di conoscere e valutare e che sono automaticamente
destinati, in ragione della posizione in lista, a diventare deputati o
senatori, rendono la disciplina in esame non comparabile né con altri
sistemi caratterizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi,
né con altri caratterizzati da circoscrizioni elettorali di dimensioni
territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da
eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità
degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto
(al pari di quanto accade nel caso dei collegi uninominali) ”.
Dopo
vari avvertimenti al Parlamento, ricordati nelle motivazioni, la
Consulta, in mancanza di una riforma elettorale della politica, si è
dovuta pronunciare solo grazie a un ricorso presentato da 25 cittadini
capitanati dagli avvocati Aldo e Giuseppe Bozzi, Claudio Tani e Felice
Besostri: a maggio avevano ottenuto dalla Cassazione la possibilità di
rivolgersi agli alti giudici. E la Corte costituzionale ha dato loro
ragione.
il Fatto 14.1.14
Dal rottamatore al doroteo
Renzi sui atti spinosi parla solo a microfoni spenti: “Nunzia cadrà da sola, Letta è salvo”
di Fabrizio d’Esposito
I
vecchi democristiani facevano così. Anzi, i dorotei, per essere più
precisi. Obliqui o trasversali, dissimulavano, eludevano, depistavano,
ti sorridevano ma ti accoltellavano alle spalle. Tutto per diventare o
rimanere centrali nel Sistema. Tattica, quasi mai strategia. Il
doroteismo, come anche il realismo togliattiano (Napolitano) e il
gestionismo andreottiano (Enrico Letta), è ormai un carattere
antropologico dell’italico potere. A guardare i fatti, Matteo Renzi si
sta guadagnando i galloni del perfetto Rottamatore doroteo, un ossimoro
dal gusto gattopardesco.
Zero parole su Nunzia
Il doroteismo
renziano è esploso con il caso De Girolamo. Lui, il segretario del Pd,
continua a non dire una parola sul ministro dell’Agricoltura, moglie del
lettian-renziano Francesco Boccia. Silenzio. Anche quando il Corriere
della Sera, domenica scorsa, gli dedica un’intera pagina di intervista.
Allo stesso tempo, però, il sindaco di Firenze manda i suoi avanti a
minacciare: “De Girolamo deve chiarire”. Almeno, sull’affaire
Cancellieri-Ligresti, Renzi si pronunciò a scoppio ritardato. Adesso,
niente. Una farsa, meglio una sceneggiata per fare ammuina, senza
richiesta di dimissioni o di mozione di sfiducia. Surreale l’apertura di
domenica scorsa di Repubblica: “De Girolamo, Pd all’attacco”. Un
titolone appeso alla frasetta di un renziano anonimo contro il ministro.
Un po’ poco. Eppure il renzismo funziona così. Una, dieci, cento, mille
facce dorotee.
Balletto di governo
Il Dissimulatore ha un
altro cavallo di battaglia: il tormentone del rimpasto, che si collega
anche allo scandalo De Girolamo. Questa la promessa fatta con
discrezione (nemmeno tanta) ai fedelissimi: “Io della De Girolamo non
parlo ma tra quindici giorni c’è il rimpasto e lei rimane fuori”. Poi
però Renzi va da Napolitano e chiosa su Twitter: “Il rimpasto? Che
noia”. Il giorno prima, il ministro renziano Delrio si era espresso in
senso contrario: “Sì al rimpasto con un’agenda nuova di governo”. Questa
storia va avanti da almeno tre settimane. Rimpasto in privato ma non in
pubblico. È chiaro che MatteoilDoroteo vuole il voto in primavera, come
Berlusconi, ma è costretto a battere anche altre strade, al limite del
ridicolo nella definizione: rimpasto con o senza renziani. Un rompicapo
da Prima Repubblica.
Inciucio con Denis
Terzo esempio del
doroteismo renziano è la tattica sulla riforma della legge elettorale. È
noto che il sindaco-segretario ha messo tre proposte sul tavolo. Con
una postilla, sbandierata su tutti i media: “Faremo accordi alla luce
del sole”. La presunta trasparenza è smentita dal mistero delle
telefonate tra lui e Denis Verdini, uno dei peggiori berlusconiani
rimasti in circolazione: banchiere quasi fallito, plurindagato e
plurinquisito. Verdini è lo sherpa di B. che per mesi (insieme con il
bersaniano Migliavacca) ha bloccato la riforma per votare nel febbraio
2013 con il Porcellum. Ora è l’interlocutore privilegiato di Renzi sul
cosiddetto sistema spagnolo.
Scandali e indifferenza
Il
disinvolto Rottamatore non è rimasto in silenzio solo sul caso De
Girolamo. All’Aquila, la giunta di centrosinistra viene devastata dalle
inchieste sulla ricostruzione e il segretario del Pd non parla. Così
come sulla storia delle note spese del suo fedelissimo Ernesto Carbone,
quando questi era ad di una società partecipata dal ministero
dell’Agricoltura.
La monarchia del Colle
La liberazione del
Pd dall’oppressione di Giorgio Napolitano è stata al centro della
campagna renziana delle primarie. A dicembre, il sindaco di Firenze andò
via da una cerimonia del Quirinale senza salutare il capo dello Stato. A
distanza di un mese o poco più c’è il rischio che si passi da un asse
Napolitano-Letta ad uno tra Napolitano e Renzi. Doroteismo puro. Sommato
al togliattismo di Re Giorgio costituisce una miscela micidiale.
il Fatto 14.1.14
Renzi. È nata una nuova destra?
risponde Furio Colombo
CARO
COLOMBO, nell’ultimo editoriale Eugenio Scalfari auspica la nascita di
una destra europea anche in Italia. A me pare che, con Renzi, la destra
europea sia già nata. È anche per questo che il conflitto fra Alfano e
Renzi si fa sempre più duro. Si contendono lo stesso elettorato. Il Pd
di Renzi è certamente meno a sinistra della destra francese e tedesca.
Speriamo che una sinistra europea nasca anche in Italia, magari intorno a
Fabrizio Barca.
Benedetto
NON TUTTO È GIUSTO ,
nel senso di esattamente vero, nella lettera di oggi, ma condivido la
sostanza. È vero che Renzi e Alfano si contendono gli stessi elettori (o
almeno una parte di essi). Però Alfano nasconde sotto il tappeto e
tiene pronta una destra antica e indecente, e anche una destra
spregiudicata e pronta al saccheggio dello Stato. Renzi invece mostra
tutta la sua merce. Da un lato è più onesto, dall’altro si vede subito
che non tiene in serbo alcuna sinistra, da far balzare fiori all’ultimo
istante. Anzi corre il rischio di avere molti elettori nuovi e pochi
elettori come quelli di tutte le altre sinistre europee. Insomma, siamo
di fronte a uno strano fenomeno. Tutto lascia pensare (compresa la quasi
vittoria di Bersani e il crollo di voti dell’ex Berlusconi), che vi sia
una notevole base elettorale di sinistra in Italia. Ma nessuno, neppure
l’astuto Renzi, sembra curarsene. Il suo sole dell’avvenire sorge
decisamente verso destra. E anche se è vero che c’è destra e destra, ciò
che stupisce è che una vasta prateria di sinistra viene lasciata ormai
da tempo, dai leader del Pds, dei Ds, del Pd, e dal nuovo segretario
allo stato brado, senza che mai nessuno si azzardi a fare una visita a
quella parte del popolatissimo mondo politico italiano. Tutto ciò si
nota di più adesso, e fa pensare a un Renzi che vince (ma con un altro
elettorato). Si deve al fatto che l’attuale leader Pd, il neosegretario
Renzi, è attivo, vitale, rapido. E ciò che sembrava distrazione o
abbandono per mancanza di determinazione o di forza dei leader che lo
hanno preceduto, adesso appare progetto. Renzi non desidera l’imbarazzo
di avere successo o di essere considerato “capo” a sinistra: come lo
spiegherebbe ai nuovi di cui è in cerca? In questo senso il suo nemico è
Alfano. Ma con una grande contraddizione: anche il suo miglior amico è
Alfano, perché deve continuare a rassicurare di non essere di sinistra.
Il lettore parla di Fabrizio Barca. Barca ha tutto per essere accettato
da chi pensa ancora di essere di sinistra, e tutto per meritare un
caloroso augurio. Ma resta immobile, il tempo passa e Renzi è veloce e
in sintonia con un tempo che considera la sinistra colpevole del pauroso
vuoto in cui viviamo. Però non nascerà per ora in Italia la destra
europea. Il carro degli ex Berlusconi ingombra ancora la strada, carico
di rottami. Renzi è più agile e potrebbe farcela, dal punto di vista
elettorale. Non sarà la sinistra che avanza. Sarà Renzi che avanza, con
il suo elettorato misto e poche coppie di fatto.
l’Unità 14.1.14
Rappresentanza
Landini scrive alla Cgil: il voto agli iscritti
di Massimo Franchi
ROMA
Tornano le tensioni interne in Cgil. La firma di venerdì scorso sul
regolamento attuativo dell’accordo sulla rappresentanza dello scorso 31
maggio viene contestata dalla Fiom. Che in una lettera chiede a Susanna
Camusso «la sospensione della firma fino all’esito finale della
consultazione» degli iscritti «vincolante» e «prevista dallo statuto
della Cgil». La federazione guidata da Maurizio Landini chiede alla
confederazione anche che «sia convocata con urgenza la riunione del
comitato Direttivo della Cgil nazionale» e «la realizzazione di
assemblee in tutti i luoghi di lavoro nel corso delle quali dovranno
essere rappresentati e illustrati i contenuti e gli eventuali diversi
giudizi sull’accordo»
«VENERDÌ IL DIRETTIVO»
L’oggetto del
contendere sono le sanzioni previste in caso di mancato rispetto
dell’esigibilità dei contratti nazionali e l’arbitrato confederale per
deciderle. «Contenuti mai discussi in nessun organismo dirigente della
nostra organizzazione», spiega la lettera, «che configurano una
concezione proprietaria dei diritti sindacali, di fatto limitano le
libertà sindacali anche in contrasto con la recente sentenza della Corte
costituzionale sulla Fiat. Tutto ciò è avvenuto senza mettere le
categorie nella condizione di conoscere, discutere e decidere prima
della firma». La valutazione «definitiva» viene rimandata al Comitato
centrale della Fiom in programma giovedì, al quale i metallurgici
invitano Camusso.
Da parte sua la Cgil risponde convocando due
riunioni: quella delle segreterie di categoria per domani e il Direttivo
per venerdì. Nella segreteria fanno sapere da Corso Italia non c’è
stata alcuna valutazione della lettera, mentre sul sito è stato
pubblicato un documento che incrocia i contenuti del regolamento
attuativo con l’accordo del 31 maggio (nel quale erano previste
sanzioni, demandando all’accordo attuativo le regole applicative) e con
quello del 28 giugno 2012 (che prevedeva l’arbitrato confederale in caso
di controversie tra federazioni). «Il regolamento attuativo è coerente
con questi accordi», spiega una nota.
Entrambe le misure sono
contenute nelle pagine finali del testo. Sul rispetto dell’esigibilità
«le sanzioni, anche con effetti pecuniari» possono comportare la
temporenea sospensione dei diritti sindacali», ma non riguardano «i
singoli lavoratori». I «collegi di conciliazione e arbitrato» che
fissano le sanzioni sono in realtà due: il primo «in via transitoria in
attesa dei rinnovi contrattuali» e una «Commissione interconfederale
permanente» «per monitorare l’attuazione» e «garantirne l’esigibilità»
dell’accordo.
il Fatto 14.1.14
Fiat-Chrysler, la nuova sede migra verso gli Usa
Marchionne punta sulla borsa di New York, ma l’Alfa resterà in Italia
L’Ad resta altri tre anni, ma parla già della successione
di Salvatore Cannavò
Sergio
Marchionne guiderà la Fiat ancora per molto tempo. “Almeno tre anni” ha
assicurato ieri il presidente dell’azienda John Elkann. Il tempo di
portare a casa il nuovo piano che l’amministratore delegato presenterà
ad aprile. Poi si vedrà. John Elkann gli conferma tutta la sua fiducia
mentre l’interessato si limita a dire che “chi verrà dopo di me dovrà
provenire dall’interno dell’azienda. E dovrà parlare inglese”.
IL
PROFILO È CHIARO, si tratta di guidare la nuova Fiat-Chrysler a
dimensione globale. A fine mese, infatti, si terrà il Consiglio di
amministrazione del gruppo statunitense che deciderà sul nome del nuovo
gruppo e sulla sede della quotazione borsistica. “New York potrebbe
essere la sede primaria” ha confermato Marchionne in una conferenza
stampa congiunta con John Elkann, tenuta al Salone dell’auto di Detroit.
“Non decideremo in base al fisco ma alla liquidità del mercato”. Anche
perché è convinto che la collocazione della sede sia solo “un problema
emotivo”. In realtà, la collocazione della testa di un’azienda ha
ricadute sulla progettazione e, come fa notare la Uil, sullo “sviluppo
delle tecnologie”. Quanto ai tempi, l’ad ha ipotizzato la fine del 2014
per la quotazione che sarà della “sola capogruppo” e che, probabilmente,
si chiamera Fiat-Chrysler visto che “è assolutamente garantito che ci
sarà il nome Fiat e ci sarà il nome Chrysler”.
Il vertice della
Fiat, così come si è presentato ieri al mercato Usa, conferma quanto
illustrato da Marchionne nell’intervista a Repubblica. Grande sfoggio di
marchi Chrysler, come la nuova 200 che punta a sfidare la Mercedes e la
Bmw e che è stata presentata a Detroit ma non sarà esportata in Europa.
Mentre nel “vecchio continente” la strategia si baserà sull’Alfa, “che
potrebbe servirsi della tecnologia Ferrari”, e garantire alla Fiat
l’uscita dal cosiddetto mass market, presidiato solo da 500 e Panda.
“Fino a quando ci sarò io l’Alfa sarà prodotta in Italia” ha ribadito
Marchionne. Prevista però la rarefazione del marchio Lancia, che
dovrebbe essere limitato alla sola Y. Sulle strategie, comunque,
Marchionne non ha smentito l’eventualità di ulteriori accordi con Suzuki
e Peugeot: “Siamo aperti a qualsiasi tipo di collaborazione con altri
partner. Esaminiamo le possibilità che si presenteranno”.
Il punto
più delicato è che la Fiat non crede alla ripresa del mercato Ue nel
2014 e questo, sulla base delle convinzioni di Marchionne, significa che
non ci saranno a breve nuovi modelli o rilanci produttivi. L’ad,
invece, continua “a essere ottimista” sul mercato Usa”. In ogni caso,
sia lui che Elkann hanno confermato la volontà di far “rientrare tutti i
cassaintegrati” in produzione. Ma senza dire come e in che tempi.
L’importanza, dice Marchionne, è che “non ci siano ostacoli” all’azione
dell’azienda. Un riferimento velato ai problemi politici finora
incontrati.
IL MANAGER FIAT, però, ne ha approfittato per far
sapere al governo italiano che la normativa sul superbollo “è stata
deludente” e non ha portato risultati ma ha anche precisato che la Fiat
“non ha richieste da fare. È il governo che decide”.
Intanto viene
riconvocato per il 31 gennaio il tavolo su Termini Imerese dove,
secondo la Fiom, i piani di riconversione sono “falliti”. A distanza di
due anni dalla chiusura, gli operai aspettano ancora di sapere dove
andranno.
Corriere 14.1.14
Con Jeep e Alfa la sfida cinese nel top di gamma
di Bianca Carretto
John
Elkann e Sergio Marchionne, orgogliosi di essere arrivati dopo dieci
anni alle soglie della firma per l’acquisto di Chrysler. Ora guardano al
futuro che, come il presidente della Fiat ha più volte sottolineato,
per un lungo tratto di strada costruiranno ancora insieme. Preso atto
che l’Europa, per almeno altri dodici mesi, vivrà nell’oblio, rimangono
due le aree su cui investire concretamente. Nei prossimi anni Fiat
Chrysler consoliderà la presenza negli Stati Uniti (nel 2013 ha venduto
1.800.368 auto, su un totale di 15,6 milioni, in crescita del 9%), ormai
«mercato domestico» e probabile sede del gruppo post fusione. La vera
sfida avverrà in Asia, il solo continente che ancora non è stato
conquistato. Inutile oggi ipotizzare alleanze con Suzuki ( tuttora
legata formalmente a Volkswagen) o con Mazda (è in atto la
collaborazione industriale per la realizzazione di uno spider in comune)
o con altri partner; i lavori in corso vedono solo l’allargamento della
cooperazione con Gac, una joint venture attiva dal 2009. In Cina nel
2013 sono state prodotte e vendute 21milioni di vetture, per il quinto
anno consecutivo è il mercato più importante del mondo, ma oggi nel
paese «solo» 120 milioni di persone possiedono un’auto, ossia meno di
100 ogni mille persone, nel mondo sono più di 150. La crescita pare
inarrestabile, quest’anno potrebbe chiudersi a quasi 25 milioni. Fiat
produce in Cina, nello stabilimento di Changsha, Viaggio e Ottimo
sviluppate sulla stessa piattaforma. In fabbrica attualmente si lavora
su due turni e il miglioramento deve avvenire non solo a livello
industriale ma anche commerciale. La rete dei concessionari(attualmente
120) deve almeno raddoppiare per permettere prima l’ingresso di Jeep,
quasi sicuramente con Cherokee, del suv che sta per arrivare anche in
Europa e poi dell’Alfa: questo è il traguardo di Marchionne. Rilanciare
il marchio del Biscione non per «dominare il mercato del premium, solo
per toglierne una fettina ai tedeschi». Quanto tempo servirà ancora? Il
piano che verrà illustrato a fine aprile ha una durata di tre anni,
troppo pochi per costruire un’intera gamma, produrla ed immetterla
globalmente: la pensione di Sergio è ancora lontana
La Stampa 14.1.14
Immigrazione. Processo ai trafficanti
“Ci violentavano a turno in quel capannone nel deserto”
L’unica sopravvissuta al naufragio di Lampedusa accusa il suo scafista carceriere
di Laura Anello
qui
il Fatto 14.1.14
Clandestini, la base 5Stelle: “Il reato va abolito subito”
Consultazioni in rete
Si esprimono in 25 mila: 16 mila contraddicono Grillo e Casaleggio
di Paola Zanca
Il
leader e il guru avevano bocciato l’emendamento dei senatori del
Movimento che voleva depenalizzare le norme sugli immigrati, ieri il
verdetto del web La soddisfazione dei parlamentari: “Abbiamo vinto, il
nostro non è un regime”. Oggi la legge delega a Palazzo Madama
REATO DI CLANDESTINITÀ GRILLO E CASALEGGIO FINISCONO NELLA RETE
I
DUE LEADER SI ERANO ESPRESSI CONTRO L’ABOLIZIONE MA IL SONDAGGIO ONLINE
SCONFESSA LA LINEA DI DESTRA L’APPLAUSO DEI SENATORI AI 16 MILA SÌ:
“ABBIAMO VINTO”
Maurizio Buccarella corre su per le
scale, paonazzo. Fa irruzione nella sala al terzo piano di Palazzo
Madama dove i suoi colleghi senatori sono in riunione, come tutti i
lunedì. “Abbiamo vinto”, urla. E i 50 senatori Cinque Stelle si lasciano
andare a un applauso liberatorio. Sono le 18:08. E ufficialmente, tutti
loro, si sono appena presi la rivincita su Beppe Grillo e Gianroberto
Casaleggio. La Rete ha dato ragione a loro, all’emendamento che abolisce
il reato di immigrazione clandestina. E loro possono tornare ad
applaudire, come fecero il giorno in cui i due senatori illustrarono la
loro idea in assemblea, un lunedì come ieri, tre mesi fa.
ORA SI
FESTEGGIA: viva la democrazia dal basso, altro che regime, ecco da chi
arrivano i “diktat”. Ma per capire la portata del risultato del
sondaggio di ieri bisogna tornare a quei giorni di ottobre. È giovedì 3
quando 366 corpi di migranti in arrivo dal Nordafrica vengono recuperati
al largo di Lampedusa. Uno dei peggiori naufragi del Mediterraneo, una
strage che indigna il mondo intero. Ai senatori Cioffi e Buccarella (il
secondo, avvocato leccese, prima di approdare in Parlamento si è
occupato spesso di queste questioni) viene in mente un emendamento che
hanno presentato prima dell’estate. È l’asso nella manica che può
inchiodare i partiti che si sperticano in buoni propositi sul
superamento della Bossi-Fini: via questo odioso reato di clandestinità,
che intasa i tribunali e non serve a niente. Il lunedì lo illustrano ai
colleghi M5S che lo approvano per acclamazione; il mercoledì è ai voti
in commissione Giustizia: parere positivo del governo, sì dai
democratici e da Scelta Civica, l’emendamento passa. Il mattino dopo, il
blitz dei Cinque Stelle è l’apertura di tutti i giornali. Grillo e
Casaleggio perdono la testa. E senza pensarci su, battono un comunicato
durissimo sul blog, per la prima volta a doppia firma: sconfessano
Cioffi e Buccarella (“la loro posizione è del tutto personale”, sono dei
“dottor Stranamore senza controllo”), spiegano di non essere “d’accordo
sia nel metodo che nel merito”: primo perché “un portavoce non può
arrogarsi una decisione così importante senza consultarsi con nessuno”,
secondo perché “se durante le elezioni politiche avessimo proposto
l’abolizione del reato di clandestinità, il M5S avrebbe ottenuto
percentuali da prefisso telefonico”. Imbarazzo generale, i due senatori
costretti al dietrofront, lacrime e urla dei colleghi. Finisce con una
decisione salva-tutti: ogni argomento che non sta nel programma, va
discusso in Rete.
E FINALMENTE, ieri, è arrivato quel giorno.
Votano in circa 25 mila iscritti al blog (su 80 mila aventi diritto).
Quasi 16 mila stanno con Cioffi e Buccarella, solo in 9 mila sposano la
linea Grillo-Casaleggio. Non se lo aspettava nessuno, diciamo la verità.
Tant’è che ieri, prima che venissero diffusi i risultati, era già
pronto a scoppiare il patatrac. Tre senatori (Francesco Campanella, Luis
Orellana, Lorenzo Battista) si espongono pubblicamente contro le
modalità del sondaggio: la mail che allerta gli iscritti è arrivata ieri
mattina a urne già aperte, ci sono solo sette ore per votare, non c’è
stata nessuna informazione preliminare, sono “dilettanti allo
sbaraglio”, Casaleggio usa il blog “come una pistola”. Dallo staff li
liquidano come i soliti dissidenti in cerca di pretesti per fare casino:
non c’è stato tempo per fare prima, Cioffi e Buccarella hanno allertato
Casaleggio solo giovedì, quando hanno visto che il calendario del
Senato tornava a discutere di clandestini e reati proprio oggi. State
tranquilli, assicurano, “la nostra gente è del 2014”, “sta al computer
tutto il giorno”, “si è già fatta un’idea”, “voterà”.
Non va
proprio così: clicca meno di un terzo dei certificati. Ma è scongiurato
il rischio che oggi i banchi dei Cinque Stelle finissero falcidiati da
“pipì tattiche” (copyright senatrice Michela Montevecchi), appelli ai
“temi etici” (Elena Fattori) e altri escamotage per evitare di
rispettare le volontà supposte della Rete. Defezioni che avrebbero
mandato in tilt il gruppo e il principio movimentista del “portavoce”.
Evidentemente
ha ragione Vito Crimi quando avverte i giornalisti: “Sottovalutate gli
attivisti, vedrete che la nostra base ha una sensibilità un po’ diversa
da quella che pensate”. E anche da quello che pensano Grillo e
Casaleggio.
Repubblica 14.1.14
Luis Orellana, parlamentare cinquestelle a Palazzo Madama:
è tempo di aprire un dialogo con le altre forze politiche
“Abbiamo vinto nonostante i tempi ristretti ora mettiamo ai voti anche le alleanze”
di T. Ci.
ROMA
— A sera Luis Orellana è scosso. Contento solo a metà. «Sì, abbiamo
scelto di depenalizzare il reato di clandestinità. Bene, resta però il
fatto che è sbagliato mettere ai voti un principio senza adeguato
preavviso. Ci hanno dato solo sette ore per votare». In passato il
senatore grillino ha sfidato Gianroberto Casaleggio sulla linea
politica, reclamando un dialogo con il Pd. E adesso rilancia: «Non sono
più così sicuro di essere in minoranza quando chiedo un’apertura di
credito alle altre forze politiche».
Senatore, davvero l’hanno avvertita solo a scrutinio in corso?
«Si
votava dalle 10. A me è arrivata comunicazione quando erano quasi le
11. E poi anche il modo in cui è stato presentato il problema...».
Cosa non andava?
«Non
hanno spiegato bene che cosa si votava. Né hanno sottolineato che
abrogare il reato significava evitare di ingolfare i Tribunali. E
infatti il numero di votanti conferma l’analisi».
Pochi votanti? Ventimila sugli ottantamila aventi diritto.
«Beh,
se dai sette ore per votare... Molti non l’hanno neanche saputo, altri
erano a lavorare. Sa, la gente a quell’ora lavora. E poinon si capisce
perché comunicarlo solo all’ultimo secondo».
A molti è sembrato un blitz.
«Soprattutto
perché la cosa si sapeva da mesi. La settimana scorsa era emersa questa
questione del sondaggio. Pensavamo sarebbe stato lanciato giovedì, per
dare tutto il week-end per votare».
Senatore, resta un dato per voi “storico”: per la prima volta la Rete degli attivisti sconfessa la linea di Grillo e Casaleggio.
«Sì.
Poi va riconosciuto anche di non aver taroccato i dati. In fondo, uno
poteva pensare: i server sono miei, tarocco i numeri. Magari potevano
alzare il numero dei votanti. E invece non l’hanno fatto. Non riesco
comunque a darmi una spiegazione di tutta questa storia».
Una svolta, per voi che avete sempre chiesto di discutere la linea imposta dall’alto.
«Esatto.
Gridarono al mio “scilipotismo”, ma ora devo dire che non sono più così
sicuro di essere in minoranza quando chiedo un’apertura di credito alle
altre forze politiche. Pensavo che gli iscritti fossero contrari, ma
dopo questo voto non ne sono più così certo. Quando lo chiesi, comunque,
ricevetti tanto supporto da chi si diceva attivista. Sia sul web che al
telefono».
Finora non le hanno dato ascolto. Ora sarebbe giusto mettereai voti questa proposta?
«Sì, esatto».
Tracciamo un bilancio complessivo di questa giornata.
«Da
una parte c’è un dato importante: per la prima volta si esprimono gli
iscritti. Questo è il bicchiere mezzo pieno. Anzi, pieno per un quarto,
visto i problemi sulla tempistica che le ho detto. E poi c’è il
bicchiere mezzo vuoto».
Cioè?
«Siamo in mano a uno staff che
non è adeguato. Non so chi lo componga, ho chiesto di saperlo. Credo
siano ragazzi scelti per altri tipi di mansione, poi messi da Casaleggio
a seguire il Movimento. E così si improvvisano. Ne discendono scelte
raffazzonate. Dilettanti allo sbaraglio».
Parole dure.
«Guardi,
è per questo che io chiedo i loro nomi. Per incontrarli, ragionarci.
Andiamo noi a Milano, oppure vengano loro a Roma: potremmo spiegargli
come funziona qui, in Parlamento».
il Fatto 14.1.14
La rete e i leader
Scelta di sinistra per il Movimento
di Andrea Scanzi
Il
Movimento 5 Stelle, ieri, ha votato due volte: contro il reato di
clandestinità e, per la prima volta, contro Beppe Grillo e Gianroberto
Casaleggio. Il referendum online di ieri è discutibile sotto vari punti
di vista. Non c’è stato preavviso, gli iscritti hanno dovuto scegliere
in poche ore e senza preavviso. Alcuni parlamentari, tra cui il senatore
Buccarella (colui che aveva presentato l’emendamento contro il reato di
clandestinità assieme a Cioffi), hanno lamentato la poca informazione
fornita dal blog. L’esito delle consultazioni online rimane poi gestito
interamente da Casaleggio: il liquid feedback, di cui si parla da mesi,
garantirebbe trasparenza totale. A fronte di tali perplessità, il
Movimento 5 Stelle ha salvato la “forma”, che nel suo caso è anche
sostanza: Buccarella e Cioffi avevano sbagliato nel metodo, più che nel
merito. Se il parlamentare è solo un “cittadino portavoce”, non può
arrogarsi il diritto di scegliere senza consultare gli elettori. In
questo modo, attraverso la consultazione si è salvato un caposaldo del
M5S: “È la Rete che decide”, e dunque il parlamentare non fa che
eseguire l’ordine (che arriva dagli elettori, non dai due “leader”).
Anche qui ci sarebbe da discutere. Grillo e Casaleggio sanno bene che la
politica vive di decisioni da prendere sul momento.
LA POLITICA,
persino in Italia, ha tempi più rapidi del blog di Grillo: i due
senatori “dissidenti” non solo non sbagliarono, ma seppero interpretare
il presente con una lungimiranza che ovviamente il governo non ebbe. E
seppero dar vita al desiderio della maggioranza degli elettori, come
attestato dal voto di ieri. Un voto che continua a riguardare troppe
poche persone: una forza politica che aveva a febbraio quasi 9 milioni
di voti non può dipendere dalla scelta (giusta o sbagliata che sia) di
25 mila militanti della prima ora. Grillo e Casaleggio scrissero un post
livoroso, attaccato da quasi tutti e difeso teneramente da due yesman e
tre o quattro troll. I motivi del loro astio erano molteplici: il non
aver rispettato il protocollo e il temere che quella decisione “di
sinistra” potesse erodere il consenso tra i delusi di destra. Grillo,
guardando i sondaggi, si preoccupò. E Casaleggio, che certo di sinistra
non è, temette che il “suo” movimento subisse svolte ideologiche
indesiderate. Il risultato di ieri costituisce un successo anche per
loro: non solo hanno fatto sì che le regole interne fossero rispettate,
ma hanno anche dimostrato che “uno vale uno”, al punto tale che i due
nomi più rilevanti di una forza politica vengano sbugiardati dal loro
elettorato (di più: dalla base storica, fino ad oggi duropurista).
Casaleggio, da ieri, potrà dire: “Visto? Il voto è libero e io ne prendo
solo atto”. Non è poco. La giornata di ieri dice però anche un’altra
cosa: Grillo, e più ancora Casaleggio, non sempre – e non
necessariamente – rappresentano la maggioranza degli elettori M5S. Sulla
cacciata di Mastrangeli e Gambaro avevano vinto. Anche la scelta di
Rodotà, per quanto non “grillino”, era stata accettata da entrambi con
piacere. Ora il no al reato di clandestinità è anche un no
(circoscritto, ma innegabile) a Grillo e Casaleggio. Non tanto a loro,
quanto al loro dominio. Alla loro onnipresenza. Alla loro supposta
pretesa di ipercontrollo (il controllo ci sta, l’iper no). Il voto di
ieri certifica l’eterogeneità degli elettori 5 Stelle, a maggioranza
palese di sinistra, ed esemplifica la discrasia tra “gruppo dirigente” e
base elettorale. Grillo e Casaleggio, non si sa quanto serenamente,
prima o poi dovranno prenderne atto.
Repubblica 14.1.14
L’amaca
di Michele Serra
Al
di là delle bizzarre modalità di voto (un ristretto stuolo di militanti
iperconnessi che si autoconfigura come “democrazia dei cittadini”), la
questione del reato di clandestinità, e dell'immigrazione in generale, è
per il Movimento 5 Stelle un test durissimo. Nel senso che mette a
confronto due anime politiche — quella iperdemocratica, che ha radici a
sinistra, e quella forconista e isolazionista, di destra — fino ad oggi
confuse nel comodo e indistinto calderone dell'insofferenza al sistema;
ma, su un tema come questo, destinate a non capirsi, perché troppo
differente è il loro sguardo sulla società. Più in generale, fino a che
si tratta di valutare quanto costa un maritozzo al bar di Montecitorio, o
quanto ruba “la casta” su ogni metro di pista ciclabile, vale per tutti
quel piglio ragionieristico, valoroso ma un tantino gretto, che ha
fatto la fortuna di quel Movimento. Ma quando si tratta di diritti e di
accoglienza — se posso azzardare: di generosità — la questione si fa ben
più rischiosa politicamente, e controversa. Nel voto online ha vinto,
abbastanza nettamente, lo sguardo “generoso”, ed è una bella notizia.
Sarà interessante vedere quanti degli elettori provenienti da Lega e
centrodestra si riconosceranno in quella linea così manifestamente “di
sinistra”.
il Fatto 14.1.14
Da Ancona. Lettera al Colle
Cialente: “La Curia vuol fare affari”
“Il
disegno governativo vedrebbe la Curia, la più grande immobiliarista
della città, diventare soggetto attuatore per la ricostruzione di tutti i
suoi edifici, compresi i luoghi di culto”
di Antonio Massari
L’Aquila.
Case e Chiesa. Gli investigatori sono alla ricerca di altre “mazzette” e
puntano a livelli superiori al “cerchio marcio” che circondava l’ex
sindaco Massimo Cialente.
La procura aquilana ora mette nel mirino
la Mancini srl, per esempio, che a L’Aquila ha ottenuto lavori per
almeno 8 milioni di euro: è una società di caratura internazionale. E
non solo. Gli inquirenti stanno monitorando da tempo la Curia e la
ricostruzione delle chiese. Una questione di rilevanza nazionale,
considerato che proprio Cialente, in una lettera al presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano, l’11 dicembre scrive: “Qui a L’Aquila
siamo convinti che il dottor Fabrizio Magani (direttore regionale del
ministero dei Beni culturali, recentemente spostato da L’Aquila a
Pompei, ndr) venga rimosso in quanto ostacolo a un disegno che si è
tentato, e si sta tentando di inserire, come norma di legge”.
Qual
è il disegno? Quello che “vedrebbe la Curia, la più grande
immobiliarista della città, diventare soggetto attuatore per la
ricostruzione di tutti i suoi edifici, compresi i luoghi di culto”.
NON
È DETTAGLIO INDIFFERENTE: la ricostruzione delle chiese “storiche”
dovrebbe essere affidata al ministero dei Beni culturali ma, secondo
Cialente, la Curia aquilana sta tentando di modificare la legge per
trattare, in autonomia, la gestione degli appalti. E proprio sulle
modalità di gestione degli appalti per la ricostruzione delle chiese sta
indagando la procura aquilana: la squadra mobile e la Guardia di
finanza, alcuni mesi fa, hanno già eseguito delle perquisizioni.
Gli
inquirenti vogliono far luce sul ruolo del vescovato, guidato da
Giovanni d’Ercole, nella gestione dei fondi del terremoto. E proprio la
curia vescovile ieri ha risposto a Cialente: “Spiace dover riconoscere
che nella lettera al presidente Napolitano non ci siano corrette
informazioni. Si tratta di una richiesta fatta da tutti i vescovi della
Conferenza di Abruzzo e Molise, che quindi non interessa solo L’Aquila,
perché anche in Abruzzo si possa seguire la stessa procedura adottata,
per le chiese e gli edifici ecclesiastici, nei terremoti avvenuti in
Umbria, nelle Marche e recentemente in Emilia e Lombardia”.
Insomma,
la “trattativa ” tra Stato e Chiesa, sulla ricostruzione, c’è. Il
punto, però, è che lo snodo politico segnalato da Cialente non appare
indifferente sotto il profilo giudiziario: da un lato la partita della
ricostruzione per il patrimonio artistico della Chiesa è tra le più
imponenti sotto il profilo finanziario; dall’altro la Curia è già da
tempo nel mirino della procura.
E non solo la Curia. Ieri è stato
interrogato, come persona informata sui fatti, Massimo Mancini, della
Mancini srl: la sua società s’è aggiudicata lavori per almeno 8 milioni
di euro. L’imprenditore – che non è indagato – ha avuto numerosi
contatti con Pierluigi Tancredi, il politico del Pdl agli arresti
domiciliari, dall’8 gennaio, con l’accusa di corruzione. Nel solo 2013
la società Mancini versa a Tancredi 37 mila euro. Per quale motivo? È
questa la nuova pista d’indagine avviata, con gli interrogatori di ieri,
dalla procura guidata da Fausto Cardella.
Tancredi ha infatti un
ruolo chiave, secondo l’accusa, nel giro di mazzette dell’estate 2010.
Mazzette travestite, secondo i pm David Mancini e Antonietta Picardi, da
veri e propri contratti stipulati con la società Dama srl. È
l’imprenditore Daniele Lago a confermare di aver sottoscritto dei
contratti con la società riconducibile a Tancredi, come consulente
commerciale. Ma la procura non crede alla versione di una semplice
consulenza. Per l’accusa Tancredi è un catalizzatore di denaro poco
lecito: raccoglie compensi dalle imprese, che intendono lavorare sul
cratere aquilano, promettendo di interferire a loro vantaggio,
consentendo l’elargizione di lavori.
UNA “OPERATIVITÀ
sconvolgente” secondo l’accusa. E una relazione della Banca d’Italia –
datata novembre 2013 – segnala che proprio la Mancini srl, titolare di
lavori milionari, versa a Tancredi ben 37 mila euro. Non soltanto Lago
quindi – che denuncia di non aver mai ricevuto appalti per il tramite di
Tancredi – ma anche la Mancini. Un dettaglio importante se consideriamo
che la ricostruzione di palazzo – per il quale Lago, secondo l’accusa,
aveva già versato dei soldi – viene affidata proprio alla Mancini srl.
Parliamo di un’azienda che lavora con il ministero di Giustizia e vanta
appalti in tutta Italia: perché, un’azienda di queste dimensioni, paga
37 mila euro a un consigliere comunale?
Corriere 14.1.14
«L’orrore dei bimbi vittime di aborto»
Papa
Francesco, nell’incontro di ieri con gli ambasciatori presso la Santa
Sede, ha detto che «desta orrore il pensiero che vi siano bimbi che non
potranno vedere la luce, vittime dell’aborto» (foto Ap)
Repubblica 14.1.14
L’ex prefetto conferma nella deposizione ai pm quanto rivelato a Repubblica il 9 gennaio
Shalabayeva, Procaccini in procura: “Alfano avviò operazione Ablyazov”
Giovedì 9 gennaio Procaccini smentiva in due circostanze la versione fornita da Alfano sul caso Shalabayeva
CARLO
BONINIROMA — Liquidato in Parlamento sette mesi fa in forza della
minaccia del centro-destra di far saltare il banco delle larghe intese,
il caso Shalabayeva resta questione aperta. E intatte si ripropongono
dunque le omissioni e le responsabilità politiche di Angelino Alfano,
che da ministro dell’Interno e vicepremier di quell’affaire è stato il
motore primo. Accade infatti che, dopo l’intervista aRepubblicadel 9
gennaio, l’ex prefettoGiuseppe Procaccini, capo di gabinetto di Alfano
fino al 17 luglio (giorno delle sue dimissioni) ma soprattutto capro
espiatorio della vicenda, venga ascoltato per due ore come teste dal pm
Eugenio Albamonte. E che la sua deposizione, nel ribadire i contenuti di
quell’intervista, consegni all’accertamento dellamagistratura una
verità che suona così: Alfano battezzò, dandole legittimità politica e
istituzionale, l’operazione Ablyazov. Pose le condizioni perché gli
apparati della nostra pubblica sicurezza si mettessero a disposizione
dell’ambasciatore kazako a Roma Andrian Yelemessov e del suo variopinto
seguito (il consigliere per gli affari politici, Nurlan Khassen, e
l'addetto agli affari consolari, Yerzhan Yessirkepov), tutti indagati
dalla procura di Roma per «sequestro di persona in danno di Alma
Shalabayeva » e della sua bambina di 6 anni. Quindi, quando il 2 giugno
le cose si misero male e «un’espulsione di routine» si rivelò l’illegale
consegna straordinaria che era stata, il ministro decise di giocare la
parte dell’uomo di Stato “tradito” dal suo apparato. Ignaro non solo
dell’esistenza e del destino di una madre e di una figlia. Ma persino
dell’origine della loro disgrazia: l’operazione di caccia al latitante
cui proprio il ministro aveva dato il là.
Con il pm Albamonte,
Procaccini è tornato dunque a ripercorrere i momenti chiave della
vicenda. Ha ricordato l’incontro con Alfano la sera del 28 maggio a
Palazzo Chigi, «tra le 21.15 e le 21.20», quando cioè apprende dalla
voce del ministro che è urgente mettersi in contatto con l’ambasciatore
kazako a Roma, perché il diplomatico ha notizie da riferire che
prefigurano una «grave minaccia alla pubblica sicurezza». Quando si
convince che non solo esista una notizia di cui è bene entrare
rapidamente in possesso perché i nostri apparati possano mettervi mano.
Ma apprende anche che quella “notizia” ha già avuto una valutazione
politica di massimo livello.
Il resto, è noto. Tra la notte del 28
e il pomeriggio del 31 maggio (quando la Shalabayeva e sua figlia
salgono sull’aereo che le trasferisce ad Astana), i diplomatici kazaki
si possono accampare al Viminale e farla da padroni con i vertici del
Dipartimento di pubblica sicurezza e con l’Ufficio stranieri della
Questura proprio perché forti della benedizione di Alfano. Il ministro
cui Procaccini riferirà già il 29 maggio mattina, ma che per un mese e
mezzo mentirà al Parlamento e all’opinione pubblica sostenendo il
contrario («Ablyazov? Non sapevo. Nessuno mi riferì nulla»). Una
menzogna di cui ora il Pd sembra voler tornare a chiedere conto. «Alfano
devechiarimenti veri».
Il Sole 24 Ore 14.1.14
Il giallo kazako. Il prefetto Procaccini ribadisce ai Pm le accuse nei confronti del titolare dell'Interno
Caso Ablyazov: «Alfano sapeva»
di Ivan Cimmarusti
La
Procura di Roma fa luce sul ruolo del vice presidente del Consiglio, e
ministro dell'Interno, nell'affaire Ablyazov. È durata due ore
l'audizione dell'ex capo di gabinetto al Viminale, Giuseppe Procaccini:
«Angelino Alfano sapeva della necessità per i kazaki di rintracciare
Mukhtar Ablyazov ma non sapeva che la vicenda avrebbe potuto coinvolgere
la moglie Alma Shalabayeva e la figlia di 6 anni», entrambe rimpatriate
lo scorso 31 maggio.
L'inchiesta del sostituto procuratore
Eugenio Albamonte si arricchisce di un nuovo dettaglio, che va a
inserirsi in una ricostruzione che sta cercando di chiarire i fatti. Ad
oggi gli accertamenti riguardano due diversi filoni investigativi: da
una parte l'iscrizione nel registro degli indagati della Shalabayeva,
accusata di falso e ricettazione (in riferimento a un passaporto falso),
dall'altra sono indagati tre alti diplomatici kazaki: l'ambasciatore in
Italia Adriana Yelemessov, il consigliere per affari politici Nurlan
Khassen e l'addetto agli affari consolari Yerzhan Yessirkepov. Per loro
le accuse sono di concorso in sequestro di persona aggravato e
ricettazione, così come emerge da una dettagliata denuncia presentata
all'Autorità giudiziaria dalla figlia maggiore di Ablyazov, Madina,
difesa dal professor Astolfo Di Amato. Secondo quanto esposto ai
magistrati, ci sarebbe stata una sorta di «accordo sotto banco» per
rimpatriare la Shalabayeva con lo scopo di un supposto ricatto delle
autorità kazake ad Ablyazov. In tutto questo, dunque, ci sarebbe stato
il concorso nel reato anche di funzionari del ministero dell'Interno e
della Questura di Roma. Tuttavia c'è da dire che se pur l'intera vicenda
presenta delle zona d'ombra sulle operazioni compiute dalle autorità –
come tra l'altro emerge da una informativa agli atti dell'inchiesta
datata 3 giugno – su impulso dei diplomatici kazaki, Ablyazov risulta
essere un soggetto abbastanza enigmatico. L'uomo è in carcere in
Francia, e presto sarà estradato per reati finanziari compiuti in
Ucraina. Secondo quanto accertato anche dalle autorità britanniche, ha
compiuto illeciti nella gestione della Banca Turan Alem, nota come Bta.
Le accuse si basano su una ipotizzata sottrazione di 5 miliardi di
dollari, che Ablyazov ritiene essere false. Dalla denuncia della figlia,
infatti, emerge che «il mandato di cattura emesso dalla Repubblica
dell'Ucraina» ed eseguito in Francia «ha carattere politico atteso lo
stretto collegamento oggi esistente tra l'Ucraina ed il Kazakhstan».
L'Italia, sempre a detta dei denuncianti, avrebbe prestato il fianco a
queste operazioni «di carattere politico». Il pm Albamonte, comunque, ha
già ascoltato diversi alti funzionari del Viminale e, per fine mese,
raccoglierà la testimonianza della Shalabayeva.
il Fatto 14.1.14
Shalabayeva, Procaccini salva ancora Alfano
Caso Abyazov. L’ex prefetto ai Pm
È
durato due ore l’interrogatorio di Giuseppe Procaccini, l’ex capo di
gabinetto del ministro dell’Interno Angelino Alfano, che ieri è stato
sentito dai pm come persona informata sui fatti. Procaccini è anche
l’unico che, dopo lo scoppio di quello che è stato definito il “caso
kazako”, ha rassegnato le proprie dimissioni. Come aveva anche
anticipato in un’intervista a Il Fatto del 28 dicembre scorso (seguita
da un’altra intervista a Repubblica), Procaccini anche al pm Eugenio
Albamonte ha riferito che “Alfano sapeva che i kazaki erano alla ricerca
del dissidente Mukhtar Ablyazov (oggi detenuto in Francia), ma non
conosceva le vicende della moglie Alma Shalabayeva e della figlia Alua”.
Si riferisce al blitz effettuato nella casa di Casal Palocco nel giugno
scorso. Quella notte alcuni agenti entrarono nell’appartamento e
prelevarono la donna con la figlia per poi farle rimpatriare in
Kazakistan. Procaccini racconta di aver ricevuto, alle 9:30 di sera,
l’ambasciatore kazako nei propri uffici. “È sicuramente un’anomalia –
aveva detto l’ex prefetto al Fatto – Ma è un’anomalia relativa perché
prima era stato negli uffici della Polizia”. La visita dell’ambasciatore
però quel giorno è stata preceduta dalla telefonata del ministro
dell’interno al capo di gabinetto che “mi disse ‘io non so come fare,
c’è l'ambasciatore kazako che mi vuole vedere per una vicenda che può
interessare, per la sua pericolosità, la pubblica sicurezza’. Il
ministro mi disse di riceverlo ma non mi parlò di Ablyazov”. Oltre a
Procaccini, anche altri funzionari e dirigenti che hanno ricostruito il
giorno del blitz sono stati sentiti in procura.
Il Sole 24 Ore 14.1.14
Le maggiorazioni per insegnanti e Ata finanziate riducendo il fondo per l'offerta formativa
Scatti «pagati» dagli studenti
Un decreto legge annullerà la richiesta di restituire gli arretrati
di Claudio Tucci
ROMA.
Il governo conferma che le buste paga di gennaio dei circa 43mila
docenti e Ata (il personale amministrativo) che nel 2013 hanno ricevuto
in media 700 euro di aumento legati agli "scatti d'anzianità" non
subiranno decurtazioni.
In pratica, nel cedolino che arriverà nei
prossimi giorni, ci sarà la trattenuta fino a un massimo di 150 euro
lordi (come chiesto da una nota del Mef di fine dicembre in ossequio al
Dpr 122 del 2013). Ma dopo l'accordo politico siglato a palazzo Chigi lo
scorso 8 gennaio, davanti al premier, Enrico Letta, sono arrivate le
istruzioni operative concordate tra Mef e Miur. L'attività di recupero
delle somme "indebitamente percepite" è stata sospesa e l'importo
sottratto verrà rimborsato (probabilmente direttamente nello stesso
cedolino) e in ogni caso, spiega una nota diffusa ieri da palazzo Chigi,
«con esigibilità contestuale a quella dello stipendio ordinario in
pagamento nel mese di gennaio 2014». In questo modo, le buste paga non
subiranno tagli. Ma sarà necessario anche un intervento normativo per
sterilizzare la richiesta di restituzione (fino a un massimo di 150 euro
mensili) effettuata dal Mef in forza del Dpr 122.
Di questo si
occuperà il prossimo consiglio dei ministri, sul cui tavolo arriverà un
decreto legge che renderà da subito utile lo scatto 2012 che andrà a
compensare il mancato prelievo effettuato sulle buste paga di docenti e
Ata "scattati" nel 2013. Considerato che chi ha percepito lo scatto nel
2013 lo ha fatto con un anno di ritardo visto il blocco degli scatti
d'anzianità 2012.
La procedura per lo sblocco degli scatti è
contenuta nel Dl 78 del 2010 (sono già stati recuperati gli anni 2010 e
2011), e ora il decreto legge allo studio del governo definirà quella
per il 2012 individuando le risorse che andranno a finanziare
l'operazione. Che in prevalenza arriveranno dal «Mof», il fondo per il
miglioramento dell'offerta formativa a vantaggio degli studenti.
L'utilità
2012, spiegano fonti del Miur, costa circa 120 milioni di euro nel solo
2012, e dal 2013 circa 380 milioni, con una curva poi decrescente con
il passare degli anni. Per pagare i 120 milioni del solo 2012 il Miur
utilizzerà le risorse del fondo per la valorizzazione della scuola, nel
quale sono confluiti i risparmi (30%) derivanti dai tagli alla scuola
inaugurati dagli ex ministri, Gelmini-Tremonti. Mentre gli altri 380
milioni saranno coperti, come detto, da un nuovo taglio al «Mof», non
riuscendosi a trovare nell'immediato, all'interno del bilancio del Miur,
altre risorse da utilizzare. Spetterà poi a un atto di indirizzo (che
Maria Chiara Carrozza ha già inviato a Mef e Funzione pubblica), e alla
successiva contrattazione all'Aran con i sindacati, indicare nel
dettaglio le singole voci del «Mof» da decurtare.
La strada di
ridurre il «Mof», a danno quindi delle attività per gli studenti per
pagare gli scatti d'anzianità al personale, è stata già "battuta" per
recuperare lo scatto 2011. Anche lì si decisero di tagliare 380 milioni.
Corriere 14.1.14
Di Girolamo-Boccia
Amore,
carriere e gaffe della coppia di larghe intese Nunzia e Francesco, due
vite di successo fino agli ultimi mesi, per entrambi difficili
di Fabrizio Roncone
Sembra ieri (primavera 2009).
L’economista
mite ed elegante infilzò con la forchetta due ziti di Gragnano (simili a
bucatini, ma più corti e con un diametro maggiore) e rimase a bocca
aperta, letteralmente.
«Ma... Ma quanto peperoncino ci hai messo?».
Lei,
già nota su Dagospia come «nostra regina del Sannio», deputata del Pdl
con ambizioni sfrenate, aprì un sorriso carnoso dei suoi. «E su... ué,
come fai...». L’aveva conquistato. Ora non restava che passare alla fase
due: avvertire il capo, Silvio Berlusconi.
Davvero, sembra ieri.
Il
Cavaliere, sulle prime, si infuriò. «Come sarebbe che vuoi fidanzarti
con Boccia? E poi, Nunzia, scusa: chi sarebbe questo Boccia?» (è
opportuno ricordare che il Cavaliere a lei, Nunzia De Girolamo, e a
un’altra giovane parlamentare, Gabriella Giammanco, spediva biglietti
galanti durante le sedute parlamentari).
La De Girolamo spiegò
che questo Boccia era un deputato del Pd molto in carriera, con un
storia d’amore appena finita e già padre di due figli, un tipo comunque
molto serio, un ex democristiano poi prodiano, quindi lettiano, il
rampollo d’una famiglia di Bisceglie che aveva girato il mondo, master
alla Bocconi e quadriennio alla London School, soggiorno negli Usa e poi
sì, certo, pure due tragiche tornate elettorali in Puglia (2005 e
2010), sempre sconfitto da Nichi Vendola nelle urne delle primarie ma
non nello spirito rampante: infatti l’aveva conosciuto a VeDrò, una
specie di club fondato da Enrico Letta per far amalgamare le giovani
speranze della politica italiana.
Si erano piaciuti. Poi lei gli
aveva preparato quel piatto di ziti. Baci segreti, in Transatlantico
giochi di sguardi, l’annuncio ufficiale affidato al settimanale Chi . Si
sposarono, in municipio, il 23 dicembre del 2011. Il 9 giugno dell’anno
successivo nacque Gea.
Un amore veloce, subito nell’immaginario
collettivo proprio perché così perfettamente meticcio, se le larghe
intese potevano funzionare in amore, figuriamoci a Palazzo Chigi. Dove
però alla fine arriva lei: le affidano il dicastero delle Politiche
agricole, mentre lui resta a Montecitorio, presidente della Commissione
Bilancio.
Una coppia di successo. Per un po’. Poi succedono un sacco di cose.
Lui,
che alla tivù appare pacato, misurato, su Twitter si trasforma. Se gli
interlocutori osano criticarlo, va fuori come un balcone. «Se non sei
d’accordo con me, fatti eleggere e poi ne riparliamo», «Vai... vai a
lavorare», «Fai ridere... coniglio». Nel giugno scorso, il capolavoro.
Mentre si discute sull’acquisto degli F35 — che lui, Boccia, caldeggia —
risponde a qualche cinguettìo pacifista scrivendo: «In sostanza non si
tratta di fare guerre, con gli elicotteri si spengono incendi,
trasportano malati, salvano vite umane #F35». Per capirci: Boccia è
convinto che gli F35 siano elicotteri e non cacciabombardieri.
Non
basta: politicamente sembra subire il fascino di Renzi; e così ammicca,
dichiara, e tutto questo non piace a Enrico Letta, che i suoi, di
solito, li preferisce allineati e prudenti.
Un certo tormento
politico, contemporaneamente, assale anche lei, la moglie Nunzia. Che,
dopo essere stata a lungo una fedele berluscones (la leggenda racconta
che conobbe il Cavaliere a Napoli, durante un comizio, dopo avergli
lanciato sul palco un orsacchiotto) decide di uscire dal cerchio magico
di palazzo Grazioli (Francesca Pascale l’aveva ammessa) e di seguire
Angelino Alfano, mantenendo così la poltrona di ministro (nonostante gli
animalisti non perdano occasione per ricordare che la responsabile del
dicastero delle Politiche forestali, una volta, ospite di Michele
Santoro, sostenne che le lontre sono uccelli).
Meno male che, a
un certo punto, arriva il Natale. La famigliola decide di andarlo a
trascorrere alle Maldive. Al diavolo il tragico momento economico che
vivono milioni di italiani: certe volte una bella vacanza è proprio
quello che ci vuole. Sole a picco e tuffi, le squisite grigliate di un
magnifico resort, le partite di pallavolo, Boccia che smette di twittare
con il mondo ostile, la De Girolamo che s’abbronza, la piccola Gea che
gioca sulla spiaggia bianca.
Speriamo, pensano Nunzia e
Francesco, che il nuovo anno sia un buon anno. Ma sì, certo, bisogna
essere ottimisti: auguri, cin cin!
Tornano.
Purtroppo un
cronista del Fatto non è andato in vacanza. Ha lavorato. Ha trovato
quelle che, in gergo, chiamiamo «carte». Il racconto di intercettazioni
carpite a casa del padre di lei, della De Girolamo, a Benevento.
Riunioni per decidere affari e appalti della locale Asl e del 118. Lei
usa toni forti, volgari. Al Corriere dichiara: «Quanto perbenismo... a
casa mia, io faccio quello che mi pare».
Lui, il Boccia, adesso,
in un lancio dell’agenzia Ansa , non la chiama più Nunzia, non chiama
per nome sua moglie. Dice solo: «Il ministro spiegherà» (secondo alcune
fonti, sarebbe furibondo anche perché avrebbe appreso solo dai giornali
che lo storico fidanzato di Nunzia, Antonio Tozzi, è stato da poco
nominato direttore generale della Sian — il sistema informativo usato da
Stato e Regioni in materia di agricoltura — con uno stipendio di 175
mila euro l’anno, più benefit).
La Stampa 14.1.14
Marijuana libera
Torino è la prima in Italia a dire sì
L’ordine del giorno passa per due voti, astenuto Fassino
di Emanuela Minucci, Andrea Rossi
qui
Corriere 14.1.14
Giappone e Italia
La pacificazione nazionale dopo la fine di una guerra civile
risponde Sergio Romano
A
PACIFICAZIONE NAZIONALE DOPO LA FINE DI UNA GUERRA CIVILE Il 31
dicembre 2013 un lettore e ha scritto circa il Santuario di Yasukumi ma
anche lamentando che «in Italia a più di 60 anni dalla fine dell’ultima
guerra mondiale ancora distinguiamo fra morti di serie A e quelli dalla
parte sbagliata». Lei ha esaurientemente commentato il caso dei caduti
giapponesi senza però far manco cenno alla discriminazione dei nostri:
lo ritiene forse un soggetto tabù?
Luciano Manara
Caro Manara,
Se
lei pensa ai caduti della Repubblica sociale fra il settembre del 1943 e
la fine della guerra, l’argomento merita una risposta separata. Per
trattare il tema della pacificazione nazionale dopo una guerra civile,
vale forse la pena di dare un’occhiata alla Spagna dove il sangue
versato e l’orrore delle vendette furono incomparabilmente maggiori. La
soluzione proposta da Francisco Franco, dopo la sua vittoria, fu la
costruzione di un grande sacrario accanto a un’abbazia benedettina sulle
colline della Sierra di Guadarrama, non lontano dall’Escorial e dalla
capitale. Il luogo si sarebbe chiamato la Valle de los Caidos (valle dei
caduti) e la sua costruzione sarebbe stata un atto nazionale di
pentimento e riconciliazione.
I lavori cominciarono nel 1940,
terminarono alla fine degli anni Cinquanta e l’intera area, dove sono
sepolte 40.000 persone, è tuttora uno dei luoghi più visitati della
Spagna. Ma non piacque mai all’opinione pubblica repubblicana e non ebbe
quindi l’effetto annunciato da Franco. Per molte ragioni. In primo
luogo i costruttori impiegarono un certo numero di prigionieri
repubblicani che ottenevano in tal modo la riduzione della pena: un
impiego che a molti sembrò rientrare nella categoria dei «lavori
forzati». In secondo luogo le sole persone sepolte all’interno della
basilica sono Francisco Franco e José Antonio Primo de Rivera, fondatore
della Falange. In terzo luogo è divenuto sin dagli inizi, ed è tuttora,
un tradizionale luogo d’incontro per i nostalgici del regime
franchista. In quarto luogo è un edificio religioso affidato alla cura
dei benedettini e poco gradito quindi alla componente laica e
anti-clericale della società spagnola.
All’epoca del governo
socialista di José Luiz Rodriguez Zapatero vi furono parecchi tentativi
per chiudere la Basilica o trasferire altrove la tomba di Franco. Con il
ritorno al potere del Partito popolare e la formazione del governo di
Mariano Rajoy, il pendolo è tornato a oscillare nell’altra direzione. In
ultima analisi la Valle de los Caidos ha avuto il paradossale effetto
di mantenere in vita le divisioni della guerra civile. Aggiungo, caro
Manara, che l’era dei grandi sacrari, come quelli di Asiago e Redipuglia
dopo la fine della Grande guerra, mi sembra finita. Forse il miglior
modo per affrontare il tema della guerra civile italiana è quello di
lasciarlo a quegli storici che sanno raccontare la vicenda con maggiore
distacco, senza partigianerie emotive e simpatie ideologiche.
il Fatto 14.1.14
Sepolto Sharon con raid su Gaza resta il massacro di Sabra e Shatila
Due razzi dai territori palestinesi. Risposta dell’esercito nel giorno dell’addio
di Roberta Zunini
La
terra polverosa del deserto del Negev copre da ieri le spoglie di Ariel
Sharon, ma non la sua macchia. Quella resterà indelebile, perché non
risiedeva nel corpo ma nell’anima del contadino-generale-statista. E
pertanto continuerà ad aleggiare come un cupo spettro sulla coscienza
collettiva e a provocare incubi nelle notti spezzate dei sopravvissuti
al massacro di Sabra e Shatila. Oltre a turbare quegli ebrei israeliani
che, subito dopo la strage, nel settembre del 1982, scesero in piazza
per chiedere le dimissioni del generale, allora ministro della Difesa.
Se l’inevitabile ritiro da Gaza e otto anni di coma hanno cancellato la
memoria a tanti, compresi i leader mondiali, non solo israeliani, questo
non è accaduto al parlamento europeo dove ad Ariel è stato negato il
minuto di silenzio.
IL PRESIDENTE Martin Schulz ha respinto la
richiesta presentata – in apertura della sessione plenaria –
dall’olandese Laurence Stassen, esponente del partito xenofobo, razzista
e anti-islam Pvv, appoggiando invece l’obiezione del deputato ceco
Richard Falbr. Il socialdemocratico ha contestato la richiesta della
Stassen chiedendo: “Vogliamo davvero tenere un minuto di silenzio per
Sharon, responsabile della morte di decine di migliaia di palestinesi?
”. Per quanto riguarda la strage nel campo profughi palestinese di Sabra
e Shatila, a Beirut, la sua responsabilità non fu diretta ma indiretta.
Che, in quel caso, però fu quasi peggio. Perché Sharon aveva il compito
di tenere sotto controllo il campo, custodirlo, invece ha dato l’ordine
ai suoi soldati, appostati su una collinetta confinante, di accendere
tutte le luci affinché Sabra e Shatila (in realtà erano lo stesso campo,
sebbene molto vasto), solitamente buie, fossero illuminate al meglio
per consentire ai falangisti cristiani di entrare e uscire facilmente e
trucidare quante più persone possibile. Molti avevano cercato rifugio
negli anfratti più nascosti ma furono scovati grazie alla potente
illuminazione. Le immagini insopportabili di donne incinte sventrate,
bambini sgozzati e vecchi fatti a pezzi, diffuse dalla stampa,
generarono anche in Israele un’ondata di critiche e manifestazioni per
quel generale-ministro dai modi gentili ma dall’animo spietato, che non
aveva fatto nulla per fermare il massacro, anzi l’aveva appoggiato.
Tanto che nel 1983 fu costituita una commissione d’inchiesta (Kahan
Commission) i cui atti sono disponibili sul sito del ministero degli
Esteri israeliano.
NEL CAPITOLO che riguarda le responsabilità
israeliane si legge che “nonostante il Mossad non avesse avvisato delle
intenzioni dei falangisti... a nostro avviso, anche in assenza di tale
avviso, è impossibile giustificare il ministro della Difesa (Sharon,
ndr) per il disprezzo del pericolo di un massacro. Non ripeteremo qui
ciò che abbiamo già detto circa la conoscenza diffusa ‘dell’etica di
combattimento dei falangisti’, il loro odio nei confronti dei
palestinesi (...) Oltre a saperlo, il ministro della Difesa ha avuto
anche relazioni speciali e non trascurabili con i responsabili
falangisti ancora prima dell’assassinio di Bashir (Gemayel, il
presidente falangista assassinato, ndr). Dare ai falangisti - si legge
ancora - la possibilità di entrare nei campi profughi senza prendere
misure per la supervisione delle loro azioni avrebbe creato un grave
pericolo per la popolazione civile nei campi (...) Nelle circostanze che
hanno prevalso dopo l’assassinio di Bashir, si era tenuti a sapere che
esisteva il pericolo concreto di atti di macellazione quando i
falangisti sono stati lasciati liberi di entrare nei campi (...) il
senso di un tale pericolo avrebbe dovuto essere ben presente nella
coscienza di chi conosceva la situazione e certamente nella coscienza
del ministro della Difesa, che ha preso parte attiva in tutto ciò che
riguarda la guerra... ”. L’anno scorso Il Fatto si recò a Sabra e
Shatila per la commemorazione del trentesimo anniversario. C’erano
uomini che piangevano ricordando i padri sgozzati davanti a loro
bambini, aggrappati a madri impazzite dal dolore. Il numero dei morti è
stato calcolato intorno ai 3500, quasi tutti civili. Molti corpi furono
fatti sparire per far sembrare meno enorme il massacro.
Corriere 14.1.14
L’India ha sradicato la polio
Da tre anni nessun malato
Anche i musulmani hanno promosso la vaccinazione
di Cecilia Zecchinelli
Rushkar
Khatoon, 18 mesi di vita e una dei tanti abitanti degli slum di
Calcutta, un giorno fu trovata malata di poliomielite. Era il 13 gennaio
2011. Ora è guarita, anche se zoppica un po’, ed è diventata celebre. È
stata l’ultimo caso diagnosticato nel subcontinente che negli anni 70
ne contava 300 mila ogni anno, che ancora nel 2009 dichiarava metà dei
nuovi malati di polio del pianeta, e dove oggi almeno 3 milioni di
persone soffrono per le conseguenze di quel male. Un successo
indiscutibile per il Paese, che in questi giorni — ieri erano passati
esattamente tre anni — sta celebrando l’eradicazione della malattia. Il
prossimo mese arriverà l’annuncio ufficiale dell’Organizzazione mondiale
della sanità (Oms): in India la polio è sparita.
Il governo di
New Delhi ha presentato questo risultato come una «svolta fondamentale»,
una «pietra miliare nella storia dell’India e del mondo intero». E
almeno per una volta tutti sono d’accordo con le autorità. «Dobbiamo
dare loro un credito immenso per quanto hanno fatto, siamo fieri di aver
potuto contribuire a raggiungere questo incredibile obiettivo», ha
commentato Nata Menabde, capo dell’Oms nel Paese. Anche perché non era
affatto scontato. Anzi, a lungo gli esperti erano stati convinti che in
India sarebbe stato quasi impossibile debellare quel virus in pochi
anni, viste l’immensità del territorio, l’enorme popolazione, e la
diffusa miseria accompagnata da insufficienti condizioni igieniche
soprattutto per l’acqua, con cui si trasmette in genere il contagio.
«L’India — ha detto Bill Gates, aggiungendosi alle tante voci di
entusiasmo sincero — era il posto da cui si pensava fosse più difficile
eliminare la poliomielite, è fenomenale quello che hanno fatto».
Il
fondatore di Microsoft, oggi 58enne, ha raccontato che negli anni
Ottanta iniziò a frequentare «quell’antico e affascinante Paese per
piacere personale e per business», scoprendone però anche i lati oscuri.
Come le bidonville fuori Bangalore, il polo dell’information technology
nei cui uffici moderni i colleghi indiani di Gates negavano l’esistenza
dei quartieri-ghetto ma che lui andò a visitare. E quando con la moglie
Melinda creò la sua fondazione benefica, la lotta alla poliomielite fu
una delle principali battaglie in cui investì impegno e denaro. Insieme
alla Gates Foundation, si sono mossi l’Unicef, il Rotary, Ong locali e
internazionali, oltre che ovviamente il governo indiano. Quest’ultimo
dal 1995 ha speso 2,5 miliardi di dollari nella campagna, che ha visto
ogni anno un esercito di 2,3 milioni di persone impegnate a vaccinare
175 milioni di bambini.
«Un ruolo fondamentale», ha raccontato il
capo del programma Polio Plus del Rotary, Deepak Kapur, «è stato quello
dei leader religiosi musulmani, che una volta convinti della necessità
del programma di vaccinazioni hanno vinto le resistenze delle famiglie.
Ogni venerdì in moschea se ne parlava e da quella più scettica la nostra
comunità musulmana, che conta 180 milioni di persone ovvero il 14%
della popolazione, è diventata la più attiva per promuovere il
cambiamento». Storia ben diversa dal Pakistan, dove le recenti campagne
anti-polio del governo sono fallite anche per le fatwa di molti imam
integralisti, costando perfino la vita a numerosi «vaccinatori» uccisi
in attentati.
La stessa resistenza esiste in altri Paesi
musulmani dove alla falsa convinzione che l’Islam vieti i vaccini si
aggiunge spesso la teoria del complotto, ovvero l’idea che l’Occidente
in questo modo miri a sterilizzare i musulmani per impedire loro di
riprodursi. Voci che trovano credito nelle società più misere e
ignoranti, e non è un caso che ormai i soli tre Paesi del mondo in cui
la poliomielite resta endemica siano il Pakistan e l’Afghanistan, in
gran parte preda della «cultura talebana», nonché la Nigeria, terra dei
Boko Haram.In altri Stati dove la malattia era stata debellata, o era
presente sporadicamente, sono stati poi segnalati nuovi casi. Come in
Siria, Somalia, Etiopia e Tajikistan: soprattutto i primi sono Paesi
sconvolti dalla violenza dove tutto è a rischio o in preda al caos,
compresi i programmi sanitari.
L’India invece si muove,
nonostante i tanti problemi sociali e politici acuiti dall’imminenza
delle elezioni di maggio, come sa bene anche la diplomazia italiana alle
prese con il caso dei due marò. Debellato già il vaiolo, ora la
prossima tappa è sconfiggere il morbillo che tra il 2000 e il 2011 ha
portato ogni anno alla morte tra le 160 e le 550 mila persone.
La Stampa 14.1.14
Sesso e potere in Francia
La storia insegna che re e presidenti senza amanti non hanno fascino
di Alberto Mattioli
Alla
fine, niente di nuovo. Collocato in una prospettiva storica, tutto il
pur ghiotto feuilleton che ci viene servito dall’Eliseo sembra più la
regola che l’eccezione. Gli amori di Hollande, i malori di Valérie, il
trionfo della première amante Julie sono un copione già visto e rivisto
nella storia francese. Non è la prima volta che alla testa dello Stato
c’è qualcuno che la perde per una donna: i francesi ci sono abituati e
sono indulgenti sui peccatucci privati di chi ha responsabilità
pubbliche.
Un Re senza favorita è difficilmente concepibile e il
fatto che ne sia piena anche la storia repubblicana è l’ennesima
dimostrazione che la République è in realtà l’unica (e ultima) monarchia
assoluta del mondo. Le scappatelle diventano rilevanti solo se l’amante
in carica assume un ruolo politico, tipo madame de Maintenon con il Re
Sole, la Pompadour con Luigi XV o la contessa di Castiglione con
Napoleone III. Ma che il sovrano sfarfalleggi è dato per scontato. A
LuigiXVI e a Luigi Filippo non fu mai perdonato, a parte tutto il resto,
di essere mariti e padri esemplari e, colmo del ridicolo, pure
innamorati delle loro mogli. Con la Repubblica non è cambiato nulla. Per
limitarsi alla Quinta, tutti hanno ben presenti le avventure di
Giscard, la figlia illegittima di Mitterrand, le «sparizioni» di Chirac
(poco male, il vero Presidente era sua moglie), le tumultuose vicende di
Sarkò fra Cécilia e Carlà. Nessuno invece ricorda il povero Félix
Faure, a oggi l’unico Président morto all’Eliseo. Spirò il 16 febbraio
1899 ricevendo l’amante, Marguerite Steinheil detta «Meg», moglie di un
pittore di battaglie opportunamente sommerso di commissioni pubbliche.
Si disse che l’infarto fatale colpì Faure mentre gli veniva praticato un
«exercise de fellation» da madame. Crudele l’epitaffio di Clemenceau:
«Voleva essere Cesare, non fu che Pompeo» (e poi, altra stoccata:
«Entrando nel Nulla, ha dovuto sentirsi a casa»).
Però già allora
la Francia spettegolò ma senza scandalizzarsi. Di fronte a questi
vaudeville nelle stanze da letto del potere, la reazione è più divertita
che indignata. Non siamo negli Stati Uniti: qui un paio di corna sono
un dramma solo per chi le porta. Con il 70% dei francesi che ammette di
averle messe almeno una volta al partner e il 77 che dice che
l’«affaire» è solo un affare privato di Hollande, può anche darsi che
tutta questa vicenda rafforzi il vivace Presidente invece di
danneggiarlo. Anche perché, a differenza sua, su Valérie l’opinione
pubblica è unanime: sta antipatica a tutti.
La Stampa 14.1.14
Ma come fa?
di Massimo Gramellini
Chiedo
scusa per la futilità dell’argomento, ma i traffici sentimentali del
presidente Hollande (pronuncia: Olaond, con bocca storpiata in una
smorfia parigina di fastidio) suscitano in noi, maschi banali e
insensibili alle grandi questioni geopolitiche, una vibrante e
insopprimibile curiosità: come fa? Come fa, dico, un ometto dal viso di
meringa occhialuta a saziare e straziare legioni di cuori femminili? E
non si sta parlando di suffragette libro-repellenti, incantabili da una
collana di lapislazzuli o dal miraggio di una scodinzolata in tv. Le
donne che quel signore senza carisma – ogni volta che apre bocca sembra
il vicepresidente di se stesso – è riuscito a sedurre vantano fascino e
personalità da vendere, oltre che una dose ubriacante di puzza sotto il
naso. Eppure la statista raffinata e la giornalista unghiuta hanno
baccagliato come tigri al momento della sua incoronazione, una di loro è
in ospedale a curare lo smacco del tradimento, mentre la favorita del
momento – un’attrice, ma naturalmente un’attrice impegnata – si è
battuta per lui in campagna elettorale. E questo per limitarsi alla
lista di dominio pubblico.
Come fa? Le ipnotizza con il suo
irresistibile sguardo da sogliola alla mugnaia? O le conquista con uno
di quei comizi che hanno fatto russare davanti alla televisione milioni
di francesi? Al confronto Sarkozy è Johnny Depp. A proposito, non è che
anche madama Bruni ha incontrato Hollande davanti a una tisana e... No,
impossibile, e comunque non lo voglio sapere.
Corriere 14.1.14
Tutto torna a Ségolène. Ha presentato a Hollande entrambe le amanti
Trierweiler pazza di gelosia per la grande ex
di Stefano Montefiori
PARIGI
— Al cuore di tutto c’è sempre Ségolène Royal, la donna che rispose
«vada al diavolo» a chi le riferiva la voglia di ricucire di François
Hollande (era il 2007), e che da allora resta sulla scena: per passione
politica, e magari per godersi qualche rivalsa. Come accade in questi
giorni, quando i francesi scherzano: «Hai visto? C’è una donna pazza di
gioia che da tre giorni salta, balla e fa le piroette ridendo davanti
all’Eliseo». «Ah, sì, è Ségolène».
Il peso della ex compagna
nella vita di François Hollande era e resta decisivo, non solo perché è
la madre dei suoi quattro figli o perché lo batté sul tempo rubandogli
il posto di candidato all’Eliseo, due elezioni fa.
È stata
Ségolène Royal a conoscere per prima sia la première dame Valérie
Trierweiler, sia l’amante Julie Gayet. E fu lei, la compagna storica, a
fare entrare nella vita di François Hollande entrambe le donne che oggi
turbano l’Eliseo, e costringono il presidente a spendere il grosso delle
energie non a spiegare la nuova politica economica ma a eludere domande
su motorino, casco, croissant e appartamento legato alla malavita
còrsa.
La storia di come Trierweiler e Gayet arrivano — tramite
Royal — al futuro presidente della Repubblica mostra tra l’altro che la
distinzione tra pubblico e privato, in Francia più che altrove, vale a
momenti alterni, quando fa comodo.
Nell’estate 1992 l’allora
inviata politica di Paris Match che si chiama ancora Valérie Massonneau
firma, con la collega Catherine Tabouis, un’intervista senza precedenti a
Ségolène Royal, ministra dell’Ambiente del governo Bérégovoy, dalla
maternità dell’ospedale Bégin de Saint-Mandé: da poche ore Ségolène ha
dato alla luce Flora Hollande, la sua quarta figlia, e già si fa
fotografare con il neonato in braccio. A quanti la accusano di
rinunciare a un momento così intimo per un po’ di popolarità in più
Royal risponde — senza convincere granché — che quell’intervista e
quelle foto nascono dall’esigenza politica di conciliare maternità e
carriera.
In quell’occasione comunque la giovane Valérie ha modo
di conoscere la coppia Royal-Hollande, comincia a frequentarli
assiduamente fino a diventare amica di entrambi e poi amante di lui. Ma è
Royal infine a cacciare di casa Hollande, che non sapeva decidersi:
resterà sempre una presenza ingombrante, perché Hollande in più
occasioni mostra di non averla dimenticata.
È così che Valérie
Trierweiler sviluppa una vera ossessione per Royal: in altre situazioni
sarebbe un dato psicologico privato, ma ha conseguenze sulla condotta
politica, pubblica, di Hollande. Per rassicurarla e placare la sua
gelosia, nell’ottobre 2007 Hollande ufficializza la nuova relazione con
Trierweiler rilasciando una sorprendente intervista al settimanale di
gossip Gala , dal titolo «Valérie è la donna della mia vita». Un passo
falso che risulterà poi fatale, oggi che il presidente finge di
inorridire per la violazione della privacy commessa da Closer .
E
poi il comizio di Nantes, quando mezzo apparato del partito agli ordini
di Trierweiler sposta mille volte gli orari per non fare incontrare
Hollande e Royal; l’ingiunzione di Trierweiler — «Adesso baciami sulla
bocca» — vista da tutta la Francia in diretta tv a Hollande che ha
appena baciato sulla guancia Royal, sul palco della festa per la
vittoria, fino al famoso tweet di Trierweiler che un anno e mezzo fa è
costato al presidente la prima figuraccia internazionale. Tutto per
Ségolène.
Ora Valérie Trierweiler è in ospedale, dopo avere visto
le foto della relazione tra Hollande e l’attrice Julie Gayet. Figlia
del grande medico Brice Gayet, militante socialista, Julie si accosta al
partito durante la campagna elettorale del 2007, quando Royal si fa
sconfiggere — con onore — da Sarkozy. E chi introduce la ragazza
nell’entourage di Hollande, segretario del partito e futuro presidente?
Sempre lei, Ségolène. Che oggi dedica allo scandalo dell’Eliseo poche
parole, di perfida eleganza: «È il momento di voltare pagina».
Corriere 14.1.14
Qual è stato il vero errore di Hollande
di Jean-Marie Colombani
I
presidenti francesi non sono stati, e non sono mai voluti essere,
modelli di virtù. Ma le loro storie di alcova costituiscono un handicap
politico? No, perché in Francia non domina il puritanesimo
all’anglosassone. Su Hollande, però, l’opposizione farà di tutto per
sfruttare la vicenda.
Il «Love Affair» attribuito a François
Hollande, la sua presunta relazione con Julie Gayet, attrice e
produttrice di cinema, ci offrono una bella sintesi del livello zero
raggiunto dal dibattito politico in Francia.
La Storia
innanzitutto, subito invocata. Come hanno fatto notare tutti i giornali,
a cominciare dal Financial Times , i presidenti francesi non sono
stati, e non sono mai voluti essere, modelli di virtù. Il «Love Affair»
va dunque letto nel rispetto della tradizione — il presidente Félix
Faure, nella Terza Repubblica, era morto fra le braccia della sua amante
e, prima di lui, la vita sessuale di Napoleone III non aveva nulla da
invidiare a quella di Dominique Strauss-Kahn — o come una conseguenza
del Maggio 1968 e della liberazione dei costumi che ha accompagnato tale
movimento? Fatto sta che la serie (nel senso quasi televisivo del
termine) comincia con Valéry Giscard d’Estaing. Colui che un giorno
disse a François Mitterrand: «Non divorzi mai!» in effetti non divorziò
mai. Ma è rimasto celebre per le sue relazioni extraconiugali, scoperte
in occasione di un incidente stradale all’«ora delle consegne del
lattaio». Stesso debole per le donne lo troviamo in Jacques Chirac, ma
il segreto fu ben custodito. Finché ci è stato recentemente spiegato
che, nell’atteggiamento della moglie Bernadette, covava una voglia di
rivincita. François Mitterrand aveva oltrepassato tutti i limiti poiché,
nel massimo segreto, manteneva contemporaneamente due famiglie: una
ufficiale, con la première dame , Danielle Mitterrand, e l’altra
clandestina, con la madre di sua figlia Mazarine.
Le
fortune/sfortune di Nicolas Sarkozy, invece, furono svelate ai quattro
venti. Certo non tutte, ma l’abbandono da parte della moglie Cécilia, il
fatto che quest’ultima non avesse votato al secondo turno delle
presidenziali, infine l’idillio e il matrimonio con Carla Bruni, sì.
L’idea del matrimonio, secondo Nicolas Sarkozy, era indissociabile dalla
funzione presidenziale. Così, quando passava in rassegna gli avversari
che avrebbe potuto affrontare nel 2012, scartava Laurent Fabius perché
questi, diceva, aveva divorziato e non si era risposato.
La
concezione di François Hollande è all’opposto. Ha vissuto quasi
trent’anni con Ségolène Royal, con la quale ha avuto quattro figli,
senza porsi il problema del matrimonio, così come con Valérie
Trierweiler. O con Julie Gayet, se dovesse diventare la sua nuova
compagna. E’ una scelta di vita assunta giorno dopo giorno in modo
libero.
Parliamo infine dell’impatto politico. Tutte queste
storie di alcova costituiscono un handicap politico? No, perché siamo in
Francia e il puritanesimo all’anglosassone non è cultura dominante.
Tuttavia, in una certa misura, anche sì.
I francesi considerano
che i loro presidenti hanno diritto a una vita privata. Come per Nicolas
Sarkozy, circa otto francesi su dieci ritengono che la vita privata di
François Hollande riguardi soltanto lui. A Sarkozy veniva rinfacciata
una frase pronunciata durante una conferenza stampa: «Con Carla è una
cosa seria». Il che non era apparso molto serio...
Con François
Hollande, il male è più insidioso. Gli si rimprovera spesso di essere
indeciso, di avere un atteggiamento «vago» (l’espressione è di Martine
Aubry). Ed ecco che, nella sua vita privata, proprio la «vaghezza»,
l’indecisione prevarrebbero. Hollande potrebbe cioè mantenere per
Valérie Trierweiler la posizione di première dame , pur non vivendo più
con lei. Qui l’immagine privata può sovrapporsi all’immagine pubblica.
Possiamo
esserne certi, da parte dell’opposizione come dei mass media, sarà
fatto di tutto per sfruttare politicamente questa vicenda. La storia è
cominciata parecchie settimane fa nei circoli sarkozisti che
interpellavano i giornalisti per aver la certezza che le voci di tale
relazione venissero diffuse. L’obiettivo politico è stato formulato da
Jean-François Copé, segretario generale dell’Ump, che ha giudicato
l’episodio «disastroso», adducendo a pretesto che la vicenda offrirebbe
all’estero un’immagine negativa della Francia.
La stampa non è da
meno: ai commenti molto misurati degli editorialisti e alla prudenza
cui sono chiamati lettori, ascoltatori o telespettatori, bisogna opporre
lo spazio che la stessa stampa accorda a quello che è ben presto
diventato un feuilleton . Con l’entusiasmo di sempre. Per esempio: si è
parlato, senza verifiche, di un appartamento, prestato a Julie Gayet per
incontrare il presidente, che apparterrebbe a un membro della mafia
còrsa. Di qui, l’equazione rapidamente promossa: Hollande = vicinanza
alla mafia. Senza curarsi delle proteste sollevate dal vero proprietario
dell’appartamento...
Si dirà, con ragione: è il mestiere della
stampa scandalistica quello di cercare, di mettere in evidenza qualsiasi
argomento un po’ piccante. Con una sfumatura: la direttrice di Closer
si è giustificata spiegando che si trattava, da un anno almeno, di un
«segreto di pulcinella». Ma allora, perché non averne parlato quando
questa relazione non fosse stata più un segreto, secondo quella che
dovrebbe essere la regola? Perché scegliere proprio i giorni precedenti
la conferenza stampa di inizio anno del presidente?
La mia
reazione è stata: se non resta che una faccenda come questa per
attaccare Hollande, significa voler impedire un clima migliore per lui.
Migliore? Un messaggio di auguri coerente e stavolta convincente: due
francesi su tre hanno approvato la volontà del presidente di stringere
con gli imprenditori un «patto di responsabilità». La ripresa, che
Hollande era stato l’unico ad annunciare, fa ormai parte delle
previsioni dell’Ocse come della Banca di Francia. La curva della
disoccupazione? In effetti dovrebbe, se pur di poco, confermare un
inizio di inversione con le cifre di dicembre 2013. L’opposizione? Da
quando Nicolas Sarkozy ha deciso di impegnarsi di nuovo in prima
persona, è sempre più presa nelle sue liti interne. Insomma, il momento è
stato scelto bene!
Ma, più seriamente, le domande che occorre
porsi riguardano la sicurezza del presidente. Come mai i poliziotti
incaricati di proteggerlo non sono stati messi in guardia, o non l’hanno
messo in guardia, sul pedinamento di cui era oggetto? Infatti, se al
posto delle macchine fotografiche ci fossero stati fucili di precisione,
cosa sarebbe successo? Nel Partito socialista c’è chi non è lontano dal
condividere quanto scritto dal celebre giornale satirico Le Canard
Enchainé , che qualche giorno fa spiegava fino a che punto il ministero
dell’Interno e la polizia fossero ancora nelle mani di fedeli di Nicolas
Sarkozy. Questo potrebbe spiegare perché François Hollande sia stato
tenuto all’oscuro della caccia di cui era oggetto. François Mitterrand
aveva come abitudine, ogni giorno o quasi, di camminare una o due ore
per le strade di Parigi, accompagnato semplicemente da un amico. Ma mai,
salvo alcune foto autorizzate, la sua protezione è stata colta in
fallo. Comunque, questa situazione riflette l’imprudenza del presidente.
Il quale, a dir la verità, commette lo stesso errore del suo
predecessore: Nicolas Sarkozy ha voluto imprimere alla presidenza uno
stile molto personale, là dove i francesi si aspettavano una maggiore
solennità.
François Hollande vorrebbe essere un presidente
«normale». Ma i francesi non vogliono questa normalità, che non rientra
nella natura del suo ruolo. Dovrà quindi adattarsi meglio all’idea di
essere, ad ogni ora del giorno e della notte, il presidente della
Repubblica. Nello stesso tempo, difficile non vedere che, nel momento in
cui certi media pretendono di esercitare una polizia del pensiero,
l’informazione scandalistica minaccia i nostri dirigenti. E dunque un
giorno potrebbe minacciare noi stessi con una polizia dei costumi che
non sarebbe accettabile.
(traduzione di Daniela Maggioni)
Repubblica 14.1.14
Cina, Giappone e le due Coree scelgono leader nazionalisti. E riparte il riarmo che fa tremare l’Occidente
Si rischia una nuova “guerra dell’Asia”
Est contro Est
di Giampaolo Visetti
PECHINO
A quasi settant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, sale
l’allarme per un conflitto che può riaccendersi là dove si è
tragicamente spento. L’Asia è sempre meno pacifica e cresce la
preoccupazione per un accumulo senza precedenti di eserciti e di armi di
ultima generazione nella regione del pianeta che registra la più
sostenuta crescita economica. Mai come oggi si concentrano in Estremo
Oriente scontri politici e commerciali, provocazioni tra Stati e
contrapposte rivendicazioni territoriali. A moltiplicare il rischio di
una nuova “guerra dell’Asia”, la concomitante ascesa al potere di
quattro leader nelle potenze cruciali dell’area. In poco più di un anno,
tra le fine del 2011 e il marzo 2013, Cina, Giappone, Corea del Sud e
Corea del Nord hanno cambiato la propria guida, affidandosi a esponenti
conservatori, espressi da forze di destra sempre più nazionaliste,
militariste e costrette a fare leva su richiami patriottici e xenofobi.
La tendenza, mentre in marzo sono attese cruciali elezioni in India,
spaventa sia l’Occidente che gli altri Paesi del Pacifico: a Pechino,
Tokyo, Seul e Pyongyang il potere si centralizza sempre di più, diventa
ancora più personale, ponendo direttamente nelle mani di pochi leader il
destino di poco meno della metà della popolazione e della ricchezza
mondiali.
Gli istituti di ricerca hanno già delineato lo spettro
del secolo: un pianeta in balìa dei «cattivi maestri dell’Asia»,
convertiti al neo-autoritarismo nazionalista ispirato al presidente
russo Vladimir Putin. La tesi è semplice: mentre le democrazie di Usa ed
Europa assistono al declino economico delle potenze che hanno dominato
gli ultimi due secoli, gli autoritarismi asiatici favorirebbero la
crescita delle nazioni che si apprestano a rivoluzionare gli equilibri
globali.
Profeta dei nuovi regimi post-comunisti e delle
democrazie sempre più leaderistiche, l’ex spia dei servizi segreti
sovietici che ha conquistato il Cremlino, ricostruendo la Russia dopo il
crollo dell’Urss. Cancellerie e diplomatici parlano apertamente di
“neo-putinismo”, per indicare «il virus che sta contagiando l’intera
Asia». I suoi esponenti più influenti sarebbero oggi proprio i quattro
leader che negli ultimi mesi hanno seminato scontri e tensioni nel
Pacifico: il presidente cinese Xi Jinping, il premier giapponese Shinzo
Abe, la presidente sudcoreana Park Geun-hye e il dittatore nordcoreano
Kim Jong-un. Solo un anno fa, nonostante le crescenti tensioni, un
vertice tra le figure che dominano l’Asia, oltre che necessario,
sembrava imminente. Oggi è semplicemente impossibile: Xi Jinping e
Shinzo Abe hanno scavato un solco di incomunicabilità, Abe e Park
Geun-hye rifiutano di parlarsi, Kim Jong-un si è autorecluso oltre il
38° parallelo a colpi di epurazioni, minacce e atrocità. A far temere
che un’Asia meno pacifica possa precipitare in una serie di scontri
regionali cronici, se non in una guerra convenzionale, la personalità
dei nuovi leader, gli equilibri politici interni e l’esplosione di
conflitti antichi e contemporanei.
Il cinese Xi Jinping, vicino
all’armata di liberazione del popolo per tradizione famigliare, si trova
a governare la riconversione economica e la riforma politica più
ambiziose della storia nazionale, nel momento in cui Pechino si appresta
a riconquistare la testa del pianeta. L’ascesa della Cina spaventa gli
Stati Uniti, potenza egemone dal Novecento, spiazza l’Europa, padrona
dei secoli precedenti, attrae Africa e America Latina, ma sta facendo
scattare un vero e proprio allarme tra i vicini dell’Asia. L’erede
“americanizzato” di MaoZedong, in pochi mesi, ha sorpreso anche i più
pessimisti. Dietro lo slogan delle “riforme”, Pechino ha lanciato la
corsa al riarmo dell’esercito più numeroso del pianeta, forte di 2,4
milioni di effettivi, ha varato la prima portaerei atomica e ha aperto
conflitti territoriali con tutti i Paesi confinanti, istituendo una
nuova “zona di identificazione per la difesa aerea”. Il più pericoloso è
quello con il Giappone per il controllo dell’arcipelago delle
Senkaku-Diaoyu, dove più volte si è sfiorato l’incidente navale e aereo,
fino a costringere gli Usa a riorientare nel Pacifico le forze
dispiegate in Europa, Medio Oriente e Asia centrale. Il nuovo
espansionismo economico, finanziario e commerciale della Cina, il suo
bisogno di materie prime e il preteso monopolio delle terre rare, hanno
riaperto però i fronti congelati dal declino dell’impero cinese, alla
fine dell’Ottocento. Pechino, nel nome del nazionalismo e del contrasto
agli alleati degli Usa, si oppone oggi anche a Corea del Sud, Taiwan,
Vietnam, Filippine, Indonesia e India, tracciando un lungo fronte di
guerra che va dall’Himalaya al Mar cinese meridionale.
La svolta
patriottica di Xi Jinping, costretto a ridimensionare i nostalgici della
sinistra neo-maoista e gli interessi dei nuovi poteri privati, si
scontra all’esterno con la destra nazionalista di Shinzo Abe, obbligato a
ricostruire il Giappone sfibrato da deflazione, crollo demografico e
addio al nucleare. Il premier di Tokyo, sostenuto da partiti di una
destra sempre più xenofoba, per riaccendere la crescita pretende la
revisione dei valori consolidati dalla fine della seconda guerra
mondiale. Rallentamento dell’impoverimento nazionale in cambio di
diritti: in pochi mesi ha fatto scoppiare lo scontro sulle isole con la
Cina, ma pure con la Corea del Sud, ha fatto esplodere le spese
militari, lanciato la revisione della Costituzione pacifista del 1945,
sfrattato la base Usa di Okinawa e istituito un nuovo consiglio di
sicurezza, sull’esempio di quello formato a novembre da Pechino,
plasmato su quello ideato degli Stati Uniti nel 1947.
I
neo-contrapposti Consigli di sicurezza di Giappone e Cina rispondono a
un pericolo sempre meno escludibile: la possibilità dello scoppio
improvviso, anche involontario, di incidenti armati tra la seconda e la
terza economia del mondo, ormai obbligate a dare risposte in tempo reale
ad ogni minima provocazione. Mentre in Cina spopolano i giochi
elettronici rossi, in cui gli eroi buoni sono cinesi e i nemici cattivi
sono giapponesi, Shinzo Abe il 26 dicembre ha ripetuto il pellegrinaggio
nel santuario di Yasukuni, dove sono sepolti 14 criminali di guerra. I
nazionalisti che appoggiano il premier, profeta dell’indebitamento
pubblico senza fine per rilanciare l’economia privata, li considerano
eroi della resistenza. Per Pechino e Seul sono invece carnefici del
colonialismo giapponese del Novecento, copia asiatica dell’espansionismo
della Germania nazista. La calcolata provocazione di Abe, campione
della sindrome di un nuovo accerchiamento del SolLevante, ha fatto
dimenticare ai giapponesi i primi fallimenti dell’Abenomics, aumentando
il consenso verso l’addio al pacifismo di Stato. Il prezzo è però la
rottura definitiva con la Cina, l’irrigidimento del gelo con la Corea
del Sud e un’irritazione senza precedenti della Casa Bianca, spaventata
dalla prospettiva di costi inutili nel Pacifico per arginare l’ascesa di
Pechino.
La nuova leader di Seul, figlia dell’ex dittatore Park
Chung-hee, assassinato nel 1979 su ordine di Pyongyang, si è vista così
offrire l’opportunità di una nuova stretta autoritaria e militarista: in
poche settimane, grazie alla minaccia ci-nese, alle provocazioni
giapponesi per il possesso delle isole Dokdo-Takeshima e alla deriva del
regime nordcoreano, ha ottenuto dal parlamento conservatore maggiori
poteri, nuovi fondi per l’esercito, il via libera a una “zona di
identificazione aerea” e altri 800 marines dagli Usa. Mai, da oltre un
secolo, l’Asia è stata tanto forte economicamente, così forte
militarmente, tanto scossa da scontri incrociati alimentati dal
neo-nazionalismo e così spaventata dall’ascesa di una super-potenza come
quella cinese.
E al centro dei conflitti, in un continente
sprovvisto di istituzioni sovranazionali comuni, autorizzate a
ricomporre le vertenze, resta la Corea del Nord del giovane Kim Jong-un.
In un anno ha eliminato i consiglieri riformisti, assassinato avversari
e parenti, umiliato Pechino e minacciato di bombardamenti atomici
Tokyo, Seul e Washington. Pyongyang è dunque la cellula impazzita di un
organismo in crisi, consapevole di dover un giorno affrontare diviso
l’implosione del regime del Nord, eredità irrisolta della Guerra Fredda e
nuova frontiera del confronto Cina-Usa. Mentre Barack Obama in aprile
volerà a Tokyo, Pechino e Seul, il mondo teme così che l’Asia 2014
riproduca l’Europa 1914: analogie tra leader, economie, radicalismi,
crisi, rivincite, tramonti, nazionalismi, corse alle armi, rancori
alimentati dalle propagande. La speranza è di non trovarsi alla vigilia
della nuova «grande guerra del secolo»: certo è che in Oriente la pace
non guadagna terreno e che anche l’Occidente ormai pare rassegnato al
massimo ad una «gestione sostenibile e presentabile di conflitti cronici
e strategici».
Repubblica 14.1.14
“Nessuno vuole conflitti ma il pericolo è reale”
Parla Elizabeth Economy, esperta del Council on Foreign Relations
intervista di Paolo G. Brera
Il
rischio è «un errore di calcolo dalle conseguenze disastrose ». Per
Elizabeth C. Economy, direttore della sezione Asia delCouncil on foreign
relations, prestigioso think-tank di politica estera, la tensione
crescente in Asia sospinta dal nazionalismo e dall’aumento del budget
militare è una minaccia aperta.
La situazione può degenerare?
«Nel
Mar cinese orientale la tensione è sempre più elevata, e nessuna delle
parti coinvolte è attualmente in grado di portare la Cina al tavolo
negoziale. Il rischio di un errore di calcolo, di un incidente che porti
a uno scontro è concreto, anche se non penso che possa derivarne una
guerra. Nessuno dei protagonisti è realmente interessato a una guerra,
semplicemente perché non avrebbe nulla da guadagnare».
La tensione sembra una strategia deliberata.
«Ritengo
che non ci siano disegni di guerra dei leader coinvolti, ma persiste la
possibilità di un incidente che esasperi la tensione crescente. In ogni
caso non credo si arriverebbe a una vera guerra».
La disputa è territoriale, commerciale o politica?
«In
questo momento è soprattutto territoriale, accesa dal nazionalismo
contro cui nessuna delle due porti sta facendo abbastanza. La leadership
giapponese ha fatto semmai un tentativo di portare la Cina al tavolo
negoziale, ma l’elemento più pericoloso resta il militarismo esasperato.
Con le navi cinesi che manovrano in acque rivendicate dal Giappone si
crea una pericolosa opportunità di incidente».
Che tipo di ripercussioni avrebbe?
«Nel
Mar cinese orientale la Russia, gli Usa e altre potenze sono
attivamente impegnate a riportare la questione a un livello negoziale, e
a far sì che non possa esplodere una crisi globale. Basta pensare al
volume di traffici che attraversa quel mare, è chiaro che non rimarrebbe
una questione locale o regionale».
Tra Corea del Nord e Corea del Sud lo scenario cambia.
«Sì,
la situazione è molto diversa. La leadership in Corea del Nord è
imprevedibile, la comunicazione e il dialogo internazionale sono quasi
inesistenti, e non ci sono interlocutori in grado di conoscere e capire
la situazione reale. Giapponesi e cinesi non si accusano di lanciarsi
missili e distruggersi reciprocamente, come invece ha fatto
ripetutamente la Corea del Nord legittimando le preoccupazioni di un
conflitto devastante».
Cosa ci sarebbe, in gioco?
«Dipende
dalla natura del conflitto, e i temi non mancano. Il fatto è che non ne
sappiamo abbastanza per fare previsioni. Se tra Cina e Giappone sappiamo
che nessuno ha interesse ad avviare un conflitto, non possiamo dire lo
stesso per le due Coree. E non sappiamo neppure se Pyongyang farebbe un
passo indietro e accetterebbe una trattativa, di fronte a un incidente:
non conosciamo che tipo di leader sia realmente».
Forse possiamo prevederne le conseguenze.
«Sarebbero
serissime. Sono alcune delle maggiori economie al mondo, e la Corea del
Sud è alleato degli Usa: ci sarebbero conseguenze globali. Il vero
pericolo è l’imprevedibilità».
Cosa si può fare per eliminare il rischio?
«Cinesi, mongoli e australiani hanno un coinvolgimento diretto e dovrebbero fare di più, creando una maggiore integrazione».
Ma lei, di fronte a una super offerta di lavoro in Corea del Sud, ci andrebbe?
«L’unico
Paese in cui potrei trasferirmi è la Cina, di cui conosco alcune
lingue, ma rinuncerei: la ragione però è l’inquinamento».
Repubblica 14.1.14
La sfida di Kabul ai Taliban così rinascono i tesori dell’arte
Dopo anni di distruzioni e di razzie, grazie al lavoro degli esperti risorge il museo della capitale afgana
Centinaia di oggetti sono stati recuperati, altre decine restaurati: i più importanti inviati all’estero per fare cassa
di Rob Norland
KABUL
Ogni oggetto antico che viene restituito alle sale del Museo nazionale
afgano, un tempo bombardato e saccheggiato ed oggi ricostruito, è un
messaggio di sfida e di riscossa. Sono messaggi destinati ai Taliban che
nel 2001 avevano distrutto tutti gli oggetti presenti nel museo
riproducenti esseri umani o animali. Ma gli studenti coranici non sono
gli unici destinatari: ci sono anche i signori della guerra che hanno
depredato il museo, alcuni dei quali, ancora oggi, occupano posizioni di
potere, e i custodi corrotti del passato, che rimasero a guardare
mentre 70.000 oggetti venivano trafugati.
Solo qualche anno fa,
del Museo nazionale afgano si elencava quanto era andato perduto: circa
il 70% delle collezioni distrutte o rubate, oggetti che testimoniano una
delle più misteriose culture dell’antichità. Oggi del museo si parla
per ciò che ha riconquistato: negli ultimi anni, 300 oggetti dei 2.500
distrutti dai Taliban sono stati scrupolosamente ricostruiti, ed altri
si trovano ancora negli scatoloni in attesa che venga il loro turno.
Anche molti pezzi trafugati hanno fatto ritorno: negli ultimi anni,
l’Interpol e l’Unesco hanno collaborato con i governi di tutto il mondo
per sequestrare e restituire non meno di 857 oggetti, alcuni dei quali
dal valore inestimabile. Altri 11.000 reperti sono stati restituiti dopo
essere stati sequestrati dalle autorità doganali alle frontiere afgane.
Di
recente gli Stati Uniti hanno finanziato un rafforzamento delle misure
di sicurezza del museo e una squadra di archeologi dell’Istituto
orientale dell’Università di Chicago sta completando un programma
triennale per inventariare tutti i reperti del museo e creare un
database digitale. Il progetto, che ha per obiettivo quello di
proteggere le opere da futuri tentativi di furto, costituirà anche una
risorsa per gli studiosi di tutto il mondo. «Se non sai cosa possiedi
non puoi proteggerlo», spiega Michael T. Fisher, l’archeologo che guida
la squadra di Chicago.
Il museo oggi è diretto da Omara Khan
Masoudi, che non ha una laurea in archeologia ma le cui credenziali sono
tra le più impeccabili: è uno dei custodi delle chiavi, gli uomini cioè
che avevano le chiavi delle camere blindate in cui erano state nascoste
alcune delle opere più preziose del museo, come il tesoro Battriano,
una raccolta di raffinati manufatti in argento e oro risalenti ad oltre
2000 anni fa.
Ricorrendo all’inganno e alla reticenza, Masoudi e i
suoi colleghi sono riusciti a proteggere gran parte di questi oggetti
durante glianni della guerra civile e del successivo periodo di
dominazione Taliban, nascondendo alcune delle statue più belle nelle
sale del ministero della Cultura o nei depositi disseminati in tutto il
museo, preservandole così dalla furia del marzo del 2001, quando i
combattenti islamici fecero a gara per distruggere le immagini che
riproducevano uomini e animali, considerate sacrileghe. Subito dopo,
gente come Abdullah Hakimzada, un restauratore che ha trascorso 33 anni
nel museo, si è occupata di raccogliere i frammenti degli oggetti
distrutti dai Taliban, stivandone molti frettolosamente in sacchi e
scatole. Nel 2004, data della sua riapertura, dopo anni di vandalismi da
parte dei Taliban e dei signori della guerra, il museo versava in
condizioni critiche. I suoi depositi erano ricolmi di scatole e sacchi
di frammenti e persino gli oggetti rimasti intatti si erano deteriorati:
anche il tetto del museo era per lo più crollato.
Da allora, una
serie di squadre di archeologi hanno contribuito a rimettere in sesto la
struttura. Durante questo percorso sono state fatte scoperte di grande
rilievo, molte delle quali non esposte al pubblico per mancanza di spazi
e di risorse. È in programma la creazione di una nuova sede museale, ma
si cercano ancora i finanziamenti.
Una tavoletta di argilla con
caratteri di scrittura cuneiforme di Kandahar, ritenuta per molto tempo
smarrita, è riapparsa in un deposito sotterraneo. Il reperto prova che
la civiltà persiana di Ciro il Grande, risalente al VI secolo a. C.,
aveva raggiunto questa area. Sono stati recuperati gli avori intarsiati
di Begram, che si credevano rubati durante un saccheggio. Alcuni erano
tra le collezioni del museo, altri confiscati dalla polizia di
frontiera. I successi maggiori sono stati i restauri di oggetti
distrutti dai Taliban. Ma i gioielli della corona della collezione del
museo sono costituti dagli oggetti del Tesoro Battriano, recuperati nel
1978 in un antico tumulo funerario nell’Afghanistan settentrionale da
alcuni archeologi russi: dal 2007 la collezione è stata esposta in
Europa, Nord America ed Australia e ha procurato al museo 3,5 milioni di
dollari. Ma mentre la lotta contro i Taliban è ancora in corso, c’è chi
ha un altro buon motivo per non far rientrare in patria i gioielli.
«Almeno ora sappiamo che sono al sicuro», osservaHakimzada.
(Copyright New York Times -La Repubblica. Traduzione di Antonella Cesarini)
l’Unità 14.1.14
Prigionieri dentro i muri
Quei muri che nascono dentro, dov’è più difficile abbatterli
L’altro esiste come mezzo come nemico, come servo E così la solitudine ti incattivisce, ti dispera
di Paolo Di Paolo
Per
pescare del buono dal clima di sfiducia, ci eravamo illusi che le
difficoltà portassero a sentirsi più vicini. Accade nelle calamità, di
fronte a tragedie improvvise, di veder accendersi una solidarietà
immediata. Accade ancora: le emergenze spesso tirano fuori il meglio
dagli esseri umani. Si è visto l’estate scorsa sulle spiagge siciliane,
per esempio, di fronte a uno dei tanti, tragici sbarchi di immigrati.
In
un istante possono venire giù e sbriciolarsi muri molto solidi, paure e
diffidenze remote. È commovente, ma come la commozione non è detto che
duri. Allora i muri si rialzano, tornano a difendere noi stessi, quel
piccolo spazio di giardino e di relazioni che chiamiamo la nostra vita.
L’elaborazione sui dati Istat pubblicata ieri dall’Unità mostra un calo
vertiginoso della fiducia negli altri. Non si tratta di registrare la
generosità con cui si va incontro a chi è in pericolo, a chi sta male.
Si tratta di registrare l’istintiva capacità di sentire il prossimo come
uno di cui fidarsi. I numeri sono chiari. Se a ritrovare il vostro
portafoglio perso è un perfetto sconosciuto, credete che lo restituirà?
Solo l’11 per cento risponde sì. Il dato più basso di fiducia è tra i
35-44enni. Vale la pena di interrogarsi. Da quanto abbiamo cominciato a
sentire nemiche le persone che ci vivono accanto? Da quando abbiamo
cominciato a
provare sfiducia non solo verso una serie di
categorie, in apparenza precise (in realtà generiche) come la classe
politica o gli extracomunitari, e abbiamo cominciato a provarla anche
verso il vicino di casa? L’impressione raccolta anche da alcuni romanzi e
film degli ultimi anni è di un’Italia sempre più sull’orlo di un «tutti
contro tutti». Dove ciascuno è armato fino ai denti pur di difendere il
proprio: che sia l’incolumità, una convinzione, un’abitudine. Il
dirimpettaio non si occupa come dovrebbe dell’immondizia? Dopo le urla,
si passa ai fatti: acido muriatico, per esempio. È successo a San
Giovanni Valdarno solo qualche mese fa. Un anonimo commentatore di blog
parla della bellezza di Roma, a proposito del film di Sorrentino
premiato ai Golden Globes? C’è subito qualcuno che risponde definendo i
romani pericolosi e nullafacenti. «Quando crepi?» è la replica
immediata. Sempre per un film, “Il capitale umano” di Paolo Virzì, si
sono scatenate furibonde invettive. Virzì parla di gretti immobiliaristi
brianzoli? È una buona occasione, dalle parti di Ornate, per insultare
non tanto il regista, quanto il resto d’Italia, tutti i terroni che non
hanno mai lavorato. Nella baraonda, difficile capire che Virzì non stava
puntando il dito contro una provincia geografica, ma contro ciò quella
parte «provinciale» della nostra testa, del nostro modo di essere.
Contro quella forma di grettezza che non ti fa vedere al di là del tuo
naso. Sguardi che non si alzano mai verso altro che non sia un
tornaconto. L’altro esiste come mezzo, come nemico, come servo. Nessuna
complicità se non per fregare un terzo malcapitato, per farla franca,
per farsi valere, per vendicarsi. La «social catena» è solo un impiccio.
Così
prevale la diffidenza, il pregiudizio negativo, e «i sospetti come
scriveva Edmund Wilson nel 45 cadono a turno su tutti», «nessuno pare
innocente, nessuno è sicuro». Il colpo d occhio è triste, a volte
sconfortante. Il pronome «noi» sta lì ad appassire in cantina, mentre
quelli dominanti «io», «tu», «voi» delimitano soltanto confini. E la
rabbia, la frustrazione, a volte la paura non fanno che marcarli,
alimentando le distanze e le ingiustizie. Così la mattina ti alzi e non
riesci più a vedere l’altro, chiunque esso sia, come un compagno di
strada. Il datore di lavoro? Un nemico. Il collega? Un avversario.
L’insegnante di tuo figlio? Un incapace. Il vicino sull autobus? Un
pericolo. Il vicino di casa? Un fastidio. Quel tipo che passa? Un ladro.
Così non ti senti parte di niente, e la solitudine anziché rafforzarti
ti incattivisce, ti riempie di frustrazione, ti dispera. Gli sconosciuti
sono invisibili o gente da cui stare alla larga. Non esiste più la
comunità. E quei muri che pensavi fossero fuori non te ne sei accorto
sono cresciuti dentro, dove è più difficile abbatterli.
l’Unità 14.1.14
27 gennaio, Anna Frank a tre dimensioni
di Maria Serena Palieri
LA
FAZ (FRANKFURTER ALLGEMEINE ZEITUNG) ALL’USCITA L’HA SALUTATO COME UN
LIBRO che «trasforma il destino della famiglia Frank in un avvincente
romanzo». Ma I Frank di Mirjam Pressler è anche qualcosa di diverso e di
più. È uno studio che col «destino» lavora in altro modo: strappa
infatti Anna Frank, col suo diario diventata icona adolescente della
Shoah, a ciò che per lei aveva deciso il nazismo, ridurla a un numero e
poi a cenere dissolta nell’aria. Perché questo libro è nato dal
ritrovamento di seimila «pezzi», tra documenti cartacei di ogni sorta e
fotografie, avvenuto per opera di Gerti Elias, moglie del cugino Buddy
amatissimo da Anna e membro del Cda della Fondazione a lei intitolata.
Un archivio di famiglia che accampa testimonianze lungo più di un secolo
di storia, dalla fotografia di Cornelia, bisnonna di Anna, datata 1844,
alle lettere che i sopravvissuti a guerra e Shoah si scambiarono nel
1946. Ed è così che Anna ci si consegna, oltre che col suo diario dal
nascondiglio segreto, con la sua esperienza di bambina ebrea borghese,
le lezioni di francese trisettimanali e l’amatissimo pattinaggio su
ghiaccio, gli auguri in versi ricevuti dalla nonna paterna Alice e lo
sciorinìo di doni per il compleanno. Per non parlare di certe fotografie
in cui è sempre la più piccola, pulcino avvolto in un accappatoio a
righe accanto alla fiorente sorella Margot sulla spiaggia, bambinetta
accovacciata su un marciapiede di Amsterdam a fianco dell’amica
spilungona Hannah.
Siamo alla vigilia della Giornata della
Memoria. I Frank è stato edito da Einaudi per quella del 2013. Ma è
candidabile come «il» libro per questa ricorrenza, di nuovo nel 2014 e
negli anni a venire. Perché restituendoci la storia familiare dell’icona
della Shoah, ridando ricchezza tridimensionale ad Anna, agisce
esattamente in senso opposto lì dove il nazismo mirava.
Corriere 14.1.14
Si spengono le luci in Germania: dietro l’idillio, l’orrore nazista
Tradotti i racconti di Erika Mann, figlia di Thomas, pubblicati in inglese nel ’40
di Paola Capriolo
I
n una chiara notte d’ottobre, uno straniero passeggia per le strade di
una quieta, pittoresca cittadina della Baviera, «amabile e piena
d’incanto» come tutte le antiche città tedesche. È piacevolmente colpito
dalla sua «grazia assonnata», dal lindore e dalla gaia operosità che si
indovinano dietro le facciate dipinte delle case; e le rosse bandiere
con la croce uncinata che sventolano qua e là dalle finestre non gli
sembrano così minacciose da poter incrinare l’atmosfera di idillio.
Anzi, le trova addirittura belle, come trova che «questo Hitler» in
fondo stia facendo grandi cose per il suo Paese. Curioso, però, che i
rari abitanti in cui si imbatte si mostrino più spaventati che
entusiasti...
Lo straniero ha la vaga impressione che i conti non
tornino del tutto e vorrebbe possedere uno di quei berretti magici dei
quali i personaggi delle fiabe si servono per diventare invisibili:
allora potrebbe introdursi nelle case, osservare la vita della gente,
capire, insomma, che cosa stia succedendo davvero in questa sconcertante
Germania del 1938.
Munita idealmente di un simile berretto,
Erika Mann, figlia primogenita di Thomas e figura di spicco
dell’emigrazione intellettuale tedesca durante il Terzo Reich, conduce
il lettore a esplorare gli orrori palesi e segreti della vita quotidiana
sotto il regime nazista nella raccolta di racconti Quando si spengono
le luci , apparsa in inglese a New York e Londra nel 1940 e ora tradotta
in italiano a cura di Agnese Grieco (Il Saggiatore).
Si tratta,
come dichiara l’autrice, di storie nelle quali «nulla è inventato»,
basate su testimonianze reali, trasposte nello scenario «idealtipico»
della piccola città bavarese; storie il cui intento è, prima che
letterario, politico: scuotere le coscienze in un’America ancora
combattuta tra neutralità e interventismo; storie che non narrano di
individui o avvenimenti straordinari, ma «si collocano nell’ambito della
vita comune», tra «gente qualsiasi», registrando «l’atmosfera della
vita civile della classe media in Germania» alla vigilia della guerra.
Così i personaggi, che ricorrono nei vari racconti comparendo ora sullo
sfondo, ora in primo piano, sono il commerciante e il sacerdote, il
contadino e il professore, l’industriale e la donna di casa, a
illustrare la brutale distorsione operata dal nazismo in tutte le pieghe
della società.
Colpisce, nei dieci racconti di Quando si
spengono le luci , la capacità di questa donna altoborghese, eccentrica,
figlia del «Mago» e di quella Katia Pringsheim cui è ispirata la
fiabesca figura dell’ereditiera nel romanzo Altezza reale di Thomas
Mann, di immergersi nei destini medi o addirittura mediocri dei suoi
personaggi e di restituirne con naturalezza la verità psicologica. Da
attrice, ancor più che da scrittrice: e Agnese Grieco, con la sua
duplice sensibilità di germanista e drammaturga, nella limpida
postfazione che chiude il volume sottolinea con efficacia la continuità
tra la «vocazione teatrale» di Erika Mann e la sua produzione narrativa.
Scrittrice pura, senza aggettivi, forse non fu mai e non poteva
essere, schiacciata com’era dalla gigantesca ombra paterna; per quanto
facesse, non poteva che rimanere Erikind, «Erikabimba», beneficiaria e
vittima di un olimpico vezzeggiativo, chiamata a tradurre nel linguaggio
del Kabarett o della «letteratura impegnata» l’alto, infinito
contenzioso di Mann padre con il germanesimo. Eppure almeno due di
questi racconti, «L’ultimo viaggio» e «Su indicazione medica»,
imperniati sulla morte di un giovane marinaio ucciso dalle SA, sulla
disperazione della madre e del fratello nell’apprendere la notizia,
sulla rivoluzione morale che la vicenda provoca nel primario
dell’ospedale cittadino, possiedono una forza letteraria che ne fa ben
di più che semplici exempla ad uso di una sia pur nobilissima propaganda
e non figurano indegnamente nemmeno su uno scaffale di famiglia così
affollato di capolavori come quello dei Mann.
Il libro: Erika Mann, «Quando si spengono le luci», Il Saggiatore, pagine 268, e 19,50
Repubblica 14.1.14
Maledetto Céline
Nelle lettere dall’esilio l’urlo disperato dello scrittore
Esce
in Francia il carteggio inedito dell’autore del “Voyage” Che tra
provocazione e vittimismo chiede di essere riabilitato dopo i suoi
scritti antisemiti
di Fabio Gambaro
PARIGI
Eccessivo, paranoico, rancoroso, apocalittico. Louis-Ferdianand Céline,
l’autore maledetto delle lettere francesi, torna a far parlare di sé.
Sono infatti appena giunte in libreria quarantuno lettere inedite che il
romanziere scrisse a Henri Mondor, tra il 1950, quando si trovava
ancora in esilio in Danimarca, e il 1961, anno della sua scomparsa. In
queste epistole pubblicate oggi per la prima volta – Lettres à Henri
Mondor (Gallimard, pagg. 167, 18,50 euro) – l’autore di Viaggio al
termine della notte si rivolge a quello che all’epoca è un uomo colto e
influente, un medico e scrittore molto apprezzato, nella speranza di
essere aiutato a rientrare in patria ed essere riabilitato nel mondo
culturale francese. E per conquistarsene l’appoggio insiste molto sulla
similitudine dei loro percorsi, tra medicina e scrittura. Tuttavia, come
sottolinea la curatrice del volume Cécile Leblanc, l’intesa tra i due
all’inizio non era assolutamente scontata. Mondor – autorevole membro
dell’Académie de Médecine e dell’Académie Française – nell’immediato
dopoguerra aveva infatti partecipato al ComitatoNazionale degli
Scrittori all’origine di una lista nera di autori collaborazionisti
nella quale figurava evidentemente anche il nome di Céline.
Qualche
anno dopo però, in occasione del processo in cui l’autore antisemita di
Bagatelle per un massacro fu condannato in contumacia a un anno di
prigione, Mondor iniziò ad interessarsi più da vicino al percorso di
Céline, sostenendo che il suo grande valore letterario dovesse essere
distinto dai comportamenti privati e dalle dichiarazioni politiche. È in
questo senso che scrisse al presidente della Corte di Giustizia che si
occupava del caso dello scrittore. Céline lo ringrazierà calorosamente
il 7 marzo 1950, con una lettera che segnerà l’avvio di una
corrispondenza durata oltre un decennio, in cui a poco a poco i legami
tra i due diventeranno sempre più stretti. Tanto che, quando Céline
chiederà a Mondor di scrivere la prefazione per la pubblicazione di
Viaggio al termine della notte e Morte a credito nella celebre collana
della Pléiade, questi, dopo una prima esitazione, accetterà,
contribuendo così a quella consacrazione a cui il romanziere aspirava da
sempre.
In queste lettere cariche d’invettive e di lirismo, di
trovate linguistiche e di provocazioni burlesche, Céline spinge a fondo
sul registro del vittimismo, dicendosi perseguitato e insultato dai suoi
concittadini: «Questa frenesia di farmi soffrire è cosmica, è
atomica!», scrive fin dalla prima lettera, aggiungendo in quella
successiva: «Da molti anni sono così tanto infangato, oltraggiato,
perseguitato, cacciato, stritolato». Per lui, «la caccia allo scrittore è
lo sport nazionale della Francia». A perseguitarlo sarebbe un «branco
di sciacalli », in particolare gli intellettuali vicini a Sartre, tanto
che, con il suo stile iperbolico, scrive senza mezzi termini:
«Attualmente, il nazional-sartrismo sostituisce dappertutto – e con foga
– il nazionalsocialismo appena liquidato».
Céline, che non esita a
definirsi «un medico fallito, un poeta fallito, un musicista fallito»,
in realtà desidera più di ogni altra cosa il riconoscimento letterario.
La sua è un’ambizione divorante. Vorrebbe vincere dei premi letterari,
ottenere la stima dei critici e soprattutto pubblicare le sue opere
nella collana della Pléiade, ma l’editore Gaston Gallimard tergiversa. È
il motivo per cui lo tratta da «imbecille», definendolo un «disastroso
droghiere». E quando finalmente il progetto inizia a prendere corpo e
Mondor accetta di scrivere la prefazione, Céline contribuisce
direttamente alla costruzione della propria leggenda, fornendo numerose
informazioni e indicazioni al medico intento a lavorare sui suoi testi.
Gli
ricorda, per esempio, l’infanzia difficile, la partecipazione alla
Prima guerra mondiale, le ferite subite, le difficoltà economiche,
l’assenza di vocazione letteraria e la decisione di lanciarsi nella
scrittura esclusivamente per motivi economici. Un’affermazione che
tuttavia non gli impedisce di vantare l’originalità del suo stile:
«Secondo la tradizione “all’inizio era il verbo”: io dico di no!
“all’inizio era l’emozione”. L’ameba appena sfiorata non parla, si
ritrae, s’emoziona... La piccolissima novità del Viaggio è forse questa
capacità di ritrovare l’emozione del linguaggio parlato attraverso la
scrittura... In fondo, la sto- conta poco, io non sono che uno stilista,
o almeno ho cercato d’esserlo».
Insomma, in queste epistole
sorprendenti il romanziere francese, che non esita ad avvicinare la
propria scrittura a quella di Rabelais, un altro medico passato alla
scrittura, esibisce senza remore le proprie ossessioni e le proprie
frustrazioni, ma anche il suo genio e il suo straordinario talento di
scrittore. Motivo per cui leggerle oggi è un modo per inoltrarsi nella
personalità complessa di uno dei più grandi scrittori del XX secolo.
I documenti
“Sono un fallito, ma fatemi tornare”
COPENAGHEN, 29/4/[1951]
Grazie
mio caro per il suo articolo pieno di grande coraggio – e credo anche
di grande giustizia. Lei ha messo la penna sulla piaga, la più orrenda
piaga dei francesi, la maldicenza, la denigrazione dei loro... non c’è
niente da fare. In questo sono veramente gli eredi dei loro padri.
L’invidia delirante a qualsiasi prezzo! Ho provato, con mezzi inadatti,
l’ammetto, a guarire un po’ la loro vista, a renderli sensibili, più
sensibili al canto di casa loro... guardi un po’ a che punto sono
arrivato. Il più lebbroso, il più odiato, il più triste e incellulato
dei cani. [...] Ah l’odio! Il francese odia il francese; s’interessa
veramente a lui solo quando può mandarlo alla ghigliottina o metterlo al
muro. Che sollievo! Il vero patriottismo gli manca del tutto. Il
patriottismo della creazione, dell’ammirazione, altri ne faranno
l’abominevole esperienza! la storia di Francia e la storia della caccia
allo scrittore francese, della sua persecuzione e del suo esilio –
divertitevi a farne la lista. In un’epoca in cui si fanno tante “liste”.
Quanti scrittori francesi sono stati costretti a fuggire la Francia?
L’albo è sconfortante. Il francese ha nei confronti dei suoi un solo
riflesso: la parzialità, l’odio, il disprezzo, l’oltraggio. Tutto ciò è
stato però perfezionato. L’esilio non basta più. Vi si aggiunge la
prigione. In fondo, è un odio inconfessato tra i combattenti (i veri
combattenti) del 14-18 e quelli del casino del 39. Dobbiamo pagare anche
questo. L’animosità inconfessata. A chi si farà mai credere che un
reduce di 2 guerre mutilato al 75% sia un venduto alla Germania? Nessuno
può crederlo. Ma si vuole crederlo. Per detestare, odiare, torturare le
persone, il pretesto è troppo bello!
Cordialmente vostro,
LF Céline
***
MEUDON, 28/12/1959
Mio
caro Maestro, [...] Non avevo, non ho mai avuto la vocazione
letteraria... ma avevo e fortissima la vocazione medica... Da bambino...
essere scrittore mi sembrava stupido e fatuo... fui scrittore mio
malgrado, se così si può dire! [...] Alle prese con un’umile clientela a
Clichy, in rotta con mia moglie e la sua famiglia, facevo veramente
fatica a pagare le rate... in quel periodo andavano di moda i
“populisti” tra cui Dabit che conoscevo un po’... arrangiarsi con ogni
mezzo! 1932... ho preso il nome di mia madre: Céline per non essere
scoperto... senza alcuna vocazione lo giuro, con paura e vergogna, fu
scritto “Il Viaggio”... Denoël lo accettò... (n’è morto 22 anni più
tardi)... pensavo che al momento della pubblicazione dietro il
nome-cognome di mia madre non sarei stato scoperto... che avrei potuto
pagare l’affitto e basta! Chissà, comprami un locale! Diamine! Il branco
si è scagliato subito contro la bestia! E tutto si è accelerato ! i
miei tre difensori al Goncourt furono Ajalbert, Descaves e Daudet... non
restava che essere fatto a pezzi, farsi massacrare... nessuna
vocazione! A quel punto la medicina era diventata impossibile! La
scritturaccia pure! cacciato come sono dai medici-scrittori!
Piccolissimo dolore!
L’antisemitismo fu un pretesto all’hallalì...
La persecuzioneviene da un’altra parte, viene dal Viaggio, dallo
stile... [...] Mille auguri e rispetti, Destouches***
12/1/[1960]
Ammirazioni
letterarie? Voglio vedere... si può solo apprezzare da molto lontano...
m’interesso solo allo stile, frega nulla delle storie! Sono sicuro solo
di La Fontaine... Malherbe... Voltaire dei piccoli versi... i
romanzieri sono diventati noiosi... Si può imparare il medico di
campagna da Balzac? L’adulterio da Flaubert? L’informazione e la
ciarlataneria non ci lasciano alcuna curiosità. Restano gli stilisti, ma
troppo vicini: Mallarmé, Rimbaud, Baudelaire...
© Gallimard 2013 (Traduzione di Fabio Gambaro)
Repubblica 14.1.14
Alle radici culturali della civiltà dell’orrore
“Razzismo e noismo”, il saggio di Luigi Luca Cavalli-Sforza e Daniela Padoan
di Maurizio Ferraris
Trapochi
giorni, il 27 gennaio, si celebrerà il giorno della memoria, e si
ripresenterà un classico interrogativo: come è possibile che, nel cuore
dell’Europa, una popolazione altamente civilizzata abbia compiuto uno
sterminio su base razziale, ideando e allestendo su scala industriale
quei lager che costituiscono una cesura nella nostra storia? E che
significato dobbiamo dare a tutto questo, oltre a quello, ovvio e
doveroso, del monito affinché ciò non abbia più luogo? InRazzismo e
Noismo (Einaudi) un’umanista, Daniela Padoan, e uno scienziato, Luigi
Luca Cavalli-Sforza, appartenenti a generazioni diverse e con idee
spesso in contrasto, tentano e riescono a pensare fuori dagli
specialismi proponendo una illuminante chiave di lettura. Quello che si è
manifestato nei campi di sterminio non è semplicemente l’aberrazione di
una ideologia, né meno che mai (come talvolta si suggerisce, non senza
razzismo) lo spirito tenebroso di un popolo, ma piuttosto l’inconscio a
cielo aperto dell’umanità.
I dati sono semplici. 200 milioni di
anni fa ci siamo separati dagli uccelli, 65 milioni di anni fa dai
cavalli, e solo da 7 o 5 milioni di anni ci siamo separati dagli
scimpanzé, con i quali condividiamo il 98% del Dna. Ma è centomila anni
fa che Homo sapiens sapiens è uscito dall’Africa per espandersi e
colonizzare l’intero pianeta, ed è solo 12mila anni fa che i nostri
progenitori si sono via via trasformati, da cacciatori nomadi, in
agricoltori sedentari. Si tratta di un passaggio che,
nell’argomentazione dei due autori, assume una grande rilevanza,
soprattutto nel ricordare come la nostra storia culturale sia iniziata
con quei cacciatori-raccoglitori che dall’Africa colonizzarono ogni
continente, senza avvertire alcuna necessità di dominio. L’istituzione
della proprietà privata, dello schiavismo e della guerra inizia con il
passaggio all’economia di agricoltura e allevamento. Che sono d’altra
parte un passo in avanti verso quello che noi chiamiamo, e a buon
diritto, visto che ha reso la nostra vita meno breve e brutale,
“civiltà”.
Il passaggio dai cacciatori-raccoglitori
all’agricoltura e all’allevamento non era necessario, ma ha avuto luogo,
e si è trasformato in un destino, almeno nel senso che costituisce
ancora il nostro presente. È indiscutibile che non solo in una azione
militare, ma in una competizione sportiva, in un litigio su Facebook,
sino a un battibecco tra accademici abbiamo l’azione di quella remota
trasformazione della natura umana. Una natura che è indubbiamente più
dinamica di quella dei cacciatori-raccoglitori; una natura che è
bravissima a culturalizzarsi, e che si rivela come intrinsecamente
incline a creare valori, norme, descrizioni e classificazioni. Il
“noismo” è questo: l’immedesimazione negli altri fino a negare ogni
forma di razzismo. Ciò che purtroppo non sempre si considera è che
questo dispiegamento culturale non è immune dal male o dall’orrore. Il
tentativo di Padoan, come umanista, è di sottoporre a uno scienziato
come Cavalli-Sforza la permanenza nel pensiero scientifico (e
filosofico) di quella “gerarchia del disprezzo” il cui precipizio
abbiamo visto in Auschwitz.
Ed è da questo confronto che emerge il
tema ricorrente del dialogo, l’orrore, appunto, la ricerca delle radici
culturali dell’orrore, proprio come inCuore di tenebra di Conrad.
L’orrore di ciò che hanno fatto i nostri antenati lontani e vicini, e
assunti come modelli di civiltà (si consideri lo statuto delle donne e
degli schiavi nella Grecia classica). L’orrore di civiltà che conosciamo
appena. E ovviamente l’orrore che ha avuto luogo nel cuore della nostra
civiltà, come appunto dimostrano i campi di sterminio. Alla cui origine
non c’è la follia o la barbarie, ma la propensione a catalogare l’umano
e il vivente secondo tassonomie e gerarchie, in un continuo slittamento
di soglia tra uomo e animale. Non dimentichiamolo: il Kurtz di Conrad
non è solo colui che orna la propria capanna di teschi umani, ma
anzitutto colui che, su richiesta della “Associazione Internazionale per
la Soppressione dei Costumi Selvaggi” scrive una relazione che
«Iniziava asserendo che noi bianchi, per via del livello di sviluppo che
abbiamo raggiunto, “dobbiamo per forza sembrare a loro [ai selvaggi]
come esseri soprannaturali – li avviciniamo con il potere di una
divinità”».
IL LIBRO Razzismo e noismo di Luigi Luca Cavalli-Sforza e Daniela Padoan (Einaudi pagg. 341 euro 19)
Corriere 14.1.14
Carta e web, i dati Ads: il «Corriere» primo con 464 mila copie
di G. Str.
MILANO
— Il «Corriere della Sera» si conferma ancora una volta il quotidiano
più diffuso in Italia, con una media di 464 mila copie giornaliere. Sono
i nuovi dati Ads per il mese di novembre basati sulle statistiche degli
editori. Il risultato è la somma delle copie cartacee e digitali, in
una classifica che vede al secondo posto la «Repubblica» a quota 382
mila copie e in terza posizione il «Sole 24 Ore» con 315 mila copie
medie diffuse giornalmente. Le statistiche proseguono con la «Gazzetta
dello Sport» (257 mila copie il lunedì e 224 mila copie gli altri
giorni), la «Stampa» (221 mila copie), il «Messaggero» (142 mila copie),
l’edizione del lunedì del «Corriere dello Sport-Stadio» (140 mila
copie), Qn-Il Resto del Carlino (123 mila copie) e l’edizione dal
martedì alla domenica del «Corriere dello Sport-Stadio» (122 mila copie
medie). I numeri valgono come diffusione totale, includendo — per
esempio — la distribuzione in edicola, gli abbonamenti, le vendite
dirette e le copie digitali, con dati per singolo canale diversi a
seconda della testata. Per quanto riguarda le singole vendite di copie
digitali, il «Sole 24 Ore» è in testa a quota 115 mila, seguito da
«Corriere» (95 mila) e «Repubblica» (58 mila).
il Sole 24 Ore 14.1.14
I
dati Ads su diffusione e vendite: Corriere primo quotidiano (+4,5% per
carta-tablet), seguito da Repubblica (+0,1%) e Sole (+5,2%)
Il Sole consolida il primato digitale
Superata quota 115mila copie: a novembre su ottobre +11,8% (+4% la media nazionale)
di Andrea Biondi
Meno
appeal per la carta, ancora meno per le edicole, mentre il digitale
continua la sua corsa, pur conservando ancora ampi margini di
miglioramento se si considera che pesa ancora solo l'11% della totale
pagata.
Volendo dare un'immagine riassuntiva della situazione
così come si evince dai dati Ads, anche a novembre i quotidiani italiani
non si sono discostati da una tendenza che ormai appare consolidata da
mesi. Non che ci sia da brindare visto che nel complesso i numeri
sembrano volgere verso il basso. Prendendo un mese qualsiasi dello
scorso anno – ad esempio maggio – e confrontando il tutto con i dati di
novembre bisogna fare i conti con una flessione sia nel totale delle
vendite (cartacea più digitale) sia, in misura anche maggiore, sul
fronte delle sole copie cartacee vendute in edicola a tramite
abbonamento. Nel primo caso i 4,12 milioni di copie medie vendute
giornalmente fra carta e digitale sono il 6% in meno rispetto a maggio.
Nel secondo caso ai 3,8 milioni scarsi di copie cartacee mediamente
vendute mancano quasi 350mila unità rispetto alla scorsa primavera
(-8,4%). E anche in edicola si è passati da 3,47 a 3,2 milioni (-8,1%).
Insomma,
la richiesta delle copie cartacee – che pure resta preponderante – è
erosa in maniera carsica dal digitale. Nel solo ultimo mese preso a
esame le copie «2.0» sono aumentate del 4 per cento. Le rilevazioni Ads
qualificano come copia digitale «una replica esatta e non riformattata
dell'edizione cartacea». Gli editori poi, per policy condivisa hanno
suddiviso il dato totale delle copie digitali in "vendite singole"
(«vendute ad un prezzo qualificante pari almeno al 30% del prezzo di
vendita dell'edizione cartacea»), "vendite multiple" («ai grandi
clienti») e "vendite in abbinata carta digitale" («ad un prezzo non
inferiore al 50% del prezzo dell'edizione cartacea»). Tariffe più
invitanti e strategie commerciali che si stanno facendo via via più
aggressive (ma sempre nei limiti del 30 e del 50% del prezzo di
copertina) stanno ora premiando soprattutto i tre principali player:
Rcs, Gruppo L'Espresso e Gruppo 24 Ore. Per quanto riguarda Il Sole 24
Ore novembre si è rivelato un mese decisamente favorevole. Riguardo alle
copie digitali il quotidiano del Gruppo 24 Ore continua a posizionarsi
in testa con 115.366 copie, in aumento dell'11,8% rispetto a ottobre. E
così per il Sole 24 Ore al primato nel numero di copie digitali
giornalmente vendute (anche in abbonamento) si unisce la maggiore
crescita percentuale rispetto agli altri competitor. Il Corriere della
Sera segue infatti a quota 95.447, in crescita dell'1,7% mentre
Repubblica, con 58.709 copie «2.0», è al terzo gradino del podio, ma con
una crescita del 6,3% che ha iniziato a mettere alle spalle qualche
segno meno dei mesi passati. La Gazzetta dello Sport ha chiuso novembre
con 21.042 copie digitali, in calo del 2,5% e alla quarta posizione.
Anche
complessivamente Il Sole 24 Ore ha chiuso novembre con un aumento – il
più alto nella top ten dei quotidiani italiani – nella diffusione
carta-digitale: +5,2%, salendo a quota 315.521. Bene anche il Corriere
della Sera (+4,5%) che si conferma il primo quotidiano italiano con
464.428 copie diffuse in totale, seguito da Repubblica, sostanzialmente
stabile a 382.233 copie. Guardando ai primi dieci è andata bene anche al
Resto del Carlino (+3%) che ha scalzato dal settimo posto Il Corriere
dello Sport (-1,7%). Per il resto, dopo lo 0,1% della Stampa (221.659
copie) è una sfilza di segni meno: -3% per il Messaggero (142.188);
-3,5% il Giornale (105.773); -2,1% Avvenire, 200 copie sotto il
quotidiano diretto da Alessandro Sallusti. Segni meno anche per alcuni
fra gli altri principali giornali italiani: -8,2% il Fatto Quotidiano
(64.385); -3,4% Libero (76.187); -1,6% Italia Oggi (72.323) che nei mesi
scorsi è salito al quinto posto fra i giornali con più copie digitali
(18.157) ma che anche su questo versante a novembre non è andato oltre
un -0,3 per cento. Ultima notazione sulla totale pagata (la carta
quindi). Il Corriere della Sera è quello che ha guadagnato di più
(+5,8%) a quota 343.638. Seguono il Resto del Carlino (+3%) e Il Sole 24
Ore che ha guadagnato mese su mese il 2% (a 195.363 copie). Stabile La
Stampa (+0,1%) mentre perdono Repubblica (-0,9%), la Gazzetta dello
Sport (-2,5%), Il Messaggero (-3,1%), Corriere dello Sport (-1,6%), Il
Giornale (-3,5%), Avvenire (-2,4%), Il Fatto Quotidiano (-7,7%), Libero
(-4,4%), Italia Oggi (-2,5%).