martedì 14 gennaio 2014

l’Unità 14.1.14
Comunicato del Cdr


Cari lettori, solo per un estremo atto di responsabilità abbiamo garantito l’uscita de l’Unità nei giorni in cui venivano alla luce fatti inquietanti per il vostro e nostro giornale. Dopo due settimane da quando abbiamo chiesto la sostituzione dell’amministratore delegato, Fabrizio Meli, e la riacquisizione delle quote che lo stesso a.d. aveva ceduto alla ex parlamentare di Forza Italia, dottoressa Maria Claudia Ioannucci, non abbiamo ancora ricevuto risposte soddisfacenti a quelle che la redazione continua a ritenere questioni ineludibili. Quella operazione, dai contorni tuttora poco chiari e avvenuta tenendone all’oscuro la rappresentanza sindacale, ha prodotto e continua a produrre un gravissimo danno a «l’Unità». In gioco, lo ribadiamo, ci sono principi e valori non negoziabili e con essi l’identità stessa del vostro e nostro giornale.
Per questo domani «l’Unità» non sarà in edicola e il sito web non verrà aggiornato. Difendere, anche ricorrendo allo sciopero, il patrimonio ideale di questa storica testata e chiedere che le venga garantito un futuro limpido, è per noi il modo migliore per celebrare, tra poche settimane, i 90 anni de «l’Unità». Ancora una volta, vi chiediamo di essere al nostro fianco.
Il Cdr

La Stampa 14.1.14
La Corte Costituzionale deposita la sentenza che azzera il Porcellum: distorsivo quel premio di maggioranza
“Legge elettorale anti democratica”
“Grave alterazione della rappresentanza, senza riforma resta il proporzionale”
di Antonella Rampino

qui

La Stampa 14.1.14
Dalla Consulta forzature in buona fede
di Ugo de Siervo


La lettura della sentenza n.1 del 2014, mediante la quale la Corte costituzionale ha fatto venir meno la legge elettorale del 2005 ed ha provvisoriamente introdotto un sistema proporzionale per l’elezione di Camera e Senato (un sistema certamente non voluto dal legislatore da almeno trent’anni!), conferma in sostanza i giudizi già espressi sulle luci e le ombre di questa importante decisione, quali si deducevano dal noto comunicato stampa.
Alcuni passaggi della sentenza cercano opportunamente di escludere letture catastrofiche dei suoi effetti: penso, in particolare, alla decisa ed opportuna riaffermazione che questa sentenza non mette in gioco né la legittimità dell’attuale composizione delle Camere né la legittimità degli organi e degli atti del nostro sistema istituzionale.
Non è certo dubbia la scelta di dichiarare illegittimi i premi di maggioranza per i partiti che conseguono più voti alla Camera o nei vari collegi elettorali per la designazione dei senatori: qui la Corte ha buon gioco a denunciare come assolutamente irragionevole l’attribuzione di premi eccessivi a liste di cui non si determina la soglia minima da conseguire.
Al tempo stesso, però, non solo emergono alcune forzature operate dalla Corte per giungere ad eliminare infine il pessimo sistema elettorale prima esistente, specie modificando in modo rilevante i criteri utilizzati per ammettere il giudizio di costituzionalità (ma è questione alquanto specialistica, che non si può trattare in questa sede), ma soprattutto si riconosce che la legislazione residuata dopo le demolizioni operate dalla Corte è applicabile, in quanto sistema decisamente proporzionalistico nel quale l’elettore dovrebbe poter esprimere una preferenza fra i diversi candidati, con qualche problema. La Corte, infatti, deve riconoscere che per far funzionare davvero il sistema prodotto dalla sentenza, occorrerebbe apportare alcune modificazioni alla legislazione rimasta in vigore, prevedendo, ad esempio, come e dove esprimere la preferenza o come prevedere la graduazione finale degli eletti. La Corte qui se la cava suggerendo di interpretare evolutivamente la legge residuata od addirittura utilizzando il potere regolamentare, ma certo questo suo evidente imbarazzo nel dare questi suggerimenti conferma l’opinabilità della sua decisione relativa al fatto che in sistemi con lunghe liste di candidati occorre restituire all’elettore il potere di esprimere una sola preferenza fra i diversi candidati.
Ma perché una e non due o tre, se le liste dei candidati sono davvero tanto lunghe, e se quindi l’espressione di una sola preferenza potrebbe essere sostanzialmente inefficace in tanti collegi elettorali ? Qui, in realtà, si ha la riprova pratica che la Corte, certo in buona fede, si è impropriamente avventurata nell’area delle scelte tipicamente politiche, che in quanto tali non possono che spettare al Parlamento.
C’è davvero da augurarsi che il Parlamento attuale, che non sembra incontrare in questa sentenza limiti particolari alla sua discrezionalità legislativa (purché la ricerca ad ogni costo di forti e sicure maggioranze non spinga a nuove esagerazioni ipermaggioritarie) riesca a vincere l’incredibile incapacità attuale dei gruppi parlamentari di varare una legge ragionevolmente maggioritaria. Altrimenti, il rischio effettivo è di trovarsi improvvisamente a votare in un sistema accentuatamente proporzionalistico e per di più neppure particolarmente funzionale.

Corriere 14.1.14
Schiaffo ai partiti
di Michele Ainis


Le carte, a questo punto, stanno tutte lì sul tavolo. Adesso tocca ai giocatori, dunque alla politica. Perché la Consulta ha messo nero su bianco le sue motivazioni, e senza risparmiare sull’inchiostro: 26 pagine. Una sentenza che ne richiama altre cento (perfino del Tribunale costituzionale tedesco), che insomma cerca d’appoggiarsi ai precedenti, pur essendo una decisione senza precedenti. Ma in ultimo la costruzione è persuasiva: non c’è più il Porcellum, pace all’anima sua. Non c’è però alcun vuoto normativo, giacché residua un sistema elettorale pronto all’uso. E tale sistema è finalmente in armonia con la Costituzione, benché il Parlamento possa modificarlo anche domani.
Quale? Un proporzionale con voto di preferenza. Questa sentenza è infatti un coltello con due lame: la prima recide il ramo da cui pendeva il premio di maggioranza senza soglia; la seconda intaglia il ramo delle liste bloccate, scolpendovi lo spazio per esprimere un voto, almeno uno. Sicché gli elettori recuperano la voce, però diventa afona la voce dei partiti. D’altronde, fin qui, avevano urlato pure troppo. C’è un passaggio, al punto 5 della motivazione, dove questi ultimi vengono apostrofati senza troppi giri di parole: «I partiti non possono sostituirsi al corpo elettorale», non possono espropriarne il voto attraverso lenzuolate di cognomi su cui è vietato apporre una crocetta, e infine sono gli elettori — non i partiti — a rivestire «attribuzioni costituzionali».
Una sonora bocciatura del passato, ma anche una lezione per il futuro. Significa che gli elettori vanno rispettati, perché la sovranità appartiene al popolo, non alle segreterie politiche. E significa, al contempo, che le esigenze della governabilità non devono andare a scapito della rappresentatività del Parlamento. Ne tengano conto, gli architetti del prossimo sistema. Poi, certo, il filo che collega il popolo votante al popolo votato si può annodare in varia guisa. Anche con le liste bloccate «corte», tipiche del modello spagnolo, sulle quali la Consulta accende il verde del semaforo. O con un maggioritario, che tuttavia non forzi oltre misura il principio dell’eguaglianza del voto, evocato a più riprese in questa decisione.
La correzione, dunque, tocca al Parlamento. E il Parlamento non ha affatto perso la sua legittimazione, come si disse a vanvera dopo la stroncatura del Porcellum . Anche su questo punto la sentenza usa parole chiare: c’è un principio di continuità degli organi costituzionali, sicché restano validi gli atti già compiuti, saranno validi quelli successivi. A cominciare, per l’appunto, dalla nuova legge elettorale. Sempre che il Parlamento sappia scriverla, sempre che non rimanga ostaggio dei veti incrociati. Perché allora sì, perderebbe ogni legittimazione.

Repubblica 14.1.14
La Consulta, il Porcellum e quella ferita da sanare
di Massimo Giannini


ORA è scritta nero su bianco, come una delle pagine nere della Storia politica italiana. La “porcata” di Calderoli, ideata dalla follia berlusconiana per impedire la vittoria elettorale dell’Unione di Prodi, ha determinato una profonda «alterazione del circuito democratico » basato sul principio fondamentale dell’uguaglianza del voto. Le motivazioni della Consulta fanno luce così su una delle notti più buie della Repubblica. Per quasi dieci anni la democrazia italiana è stata stravolta, e i diritti dei cittadini-elettori espropriati.
Insieme a molti altri disastri politici e istituzionali e ad altrettanti guasti economici e morali, questa è dunque la drammatica eredità che una destra populista e “sfascista” regala al Paese. La Corte costituzionale lo dice con assoluta chiarezza, spiegando le censure di illegittimità che riguardano i due vizi fondamentali di quella legge. L’abnorme premio di maggioranza , che in assenza di una ragionevole soglia minima di voti per competere all’assegnazione del premio stesso ha finito per «determinare un’alterazione del circuito democratico definito dalla Costituzione». Il meccanismo delle liste bloccate, che rimettendo la scelta esclusiva dei candidati ai partiti ha privato «l’elettore di ogni margine di scelta dei propri rappresentanti», e ha ferito «la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione».
Il Porcellum è stato un veleno scientificamente inoculato nelle vene della nazione. Ha intossicato il Parlamento, riempiendolo di “nominati” al servizio delle segreterie. Ha innescato una micidiale crisi di rigetto nella società civile, spingendo moltitudini di elettori a cercare l’antidoto nell’anti-politica. Il dramma è che con questo “mostro” concepito dalla resistibile armata del Cavaliere abbiamo già votato due volte, eleggendo due Parlamenti. È vero che la Consulta si premura di chiarire ora che il principio di «continuità dello Stato» è comunque assicurato, e che la sua pronuncia non inficia le ultime tornate elettorali né delegittima le Camere appena elette.
Ma questo non è balsamo. Semmai è altro sale sulla ferita. Dal 2005, grazie alla “cura” berlusconiana, l’Italia è una democrazia violata. La legge elettorale, cioè la “regola” fondamentale che disciplina l’esercizio di un diritto inalienabile dei cittadini, ha violato palesemente la Costituzione. Ci sono voluti quasi dieci anni per certificare quello che era già chiaro allora. Meglio tardi che mai. Ma il rammarico resta, insieme all’indignazione.
Le motivazioni della Corte erano importanti non solo per comprendere le ragioni dell’incostituzionalità del Porcellum. Ma anche e soprattutto per capire quali paletti avrebbe fissato, nella prospettiva della riforma elettorale. I giudici hanno adottato una soluzione “aperta”, che di fatto non preclude nessuno dei modelli possibili, né il proporzionale né il maggioritario, variamente corretti e integrati. Purché il premio di maggioranza abbia una soglia minima, e a condizione che l’elettore abbia il diritto di scegliere. Riaffermati questi principi irrinunciabili, le motivazioni della Corte non sbarrano la strada a nessuna delle ipotesi messe in campo da Matteo Renzi. Il modello spagnolo può funzionare (purché le liste prevedano circoscrizioni ridotte e con pochi candidati), così come il Mattarellum corretto (purché si gradui adeguatamente il premio della parte proporzionale) o il doppio turno di lista (ribattezzato impropriamente il “sindaco d’Italia”, e purché sia introdotto il voto di preferenza o il listino “corto”).
Questa exit strategy indicata dalla Consulta è da un lato un’opportunità. Ma dall’altro lato un problema. Chi pensava (o sperava) che la Corte togliesse le castagne dal fuoco alla politica rimane deluso. La palla torna interamente nella metà campo dei partiti. E questo costringe il leader del Pd ad accelerare i tempi, e a rompere gli indugi. Renzi deve portare a casa un risultato entro il 20 gennaio, quando il dibattito approderà in Commissione alla Camera, e poi una settimana dopo in aula. Il leader, da solo, non ha i voti per fare una qualunque riforma. Ha bisogno di alleati. E ferma restando l’indisponibilità di Grillo, ha solo due forni ai quali rivolgersi. Quello di Berlusconi e quello di Alfano. Ma l’uno, per ora, è alternativo all’altro. E l’uno e l’altro sono pericolosi.
Berlusconi può discutere forse solo di modello spagnolo, che è tendenzialmente bipartitico, ma non vuole né il Mattarellum corretto né il doppio turno di lista (gli elettori di destra storicamente non vanno a votare due volte in due settimane). Alfano può discutere del “sindaco d’Italia”, ma non vuole né il Mattarellum corretto (con i collegi uninominali sarebbe costretto a tornare nelle braccia del Cavaliere) né il modello spagnolo (con uno sbarramento al 15% rischierebbe di star fuori dal Parlamento). Renzi ha avuto il merito di forzare il modulo, e di mettere tutti di fronte alle proprie responsabilità, offrendo tre ipotesi di intesa possibile.
Ma ora, nell’indecisione altrui, è costretto a scegliere. Se tratta con Alfano, deve smettere di bastonare quotidianamente il Nuovo Centrodestra, e appiattirsi su un governo Letta dal quale invece si vuole sistematicamente e ostinatamente distinguere. Se tratta con Berlusconi, deve accettare l’idea dell’eventuale «patto col diavolo». Ma sapendo bene cosa l’aspetta. Non solo una probabile crisi di governo (eventualità cui Alfano sarebbe costretto per la rottura del patto di coalizione). Ma anche una possibile imboscata (“specialità” nella quale il Cavaliere è maestro indiscusso). Berlusconi potrebbe portare il sindaco di Firenze a un passo dall’accordo sul modello spagnolo, per poi far saltare il tavolo all’ultimo minuto, incassando in un colpo solo la caduta del governo delle Strette Intese e le elezioni anticipate con il proporzionale puro (cioè la morte politica di Renzi).
È un rischio concreto e non fantapolitica. Per convincersene, basta chiedere al D’Alema della Bicamerale e al Veltroni del 2008. Una “lezione” che non possiamo e non dobbiamo dimenticare.

il Fatto 14.1.14
La legge della Consulta: proporzionale e inciucio
Dopo le motivazioni della bocciatura del Porcellum, l’Italia torna alla prima Repubblica, preferenze e niente premio di maggioranza
di Marco Palombi


Da ieri sera l’Italia è di nuovo una Repubblica fondata sul proporzionale. Col deposito delle motivazioni con cui la Corte costituzionale ha bocciato il Porcellum sul premio di maggioranza senza soglia e l’assenza della possibilità di esprimere almeno “una preferenza”, il sistema elettorale italiano viene ridisegnato in profondità: da stamattina è in vigore la legge scritta dagli ermellini, il cui nome in filigrana è “larghe intese per sempre”.
COSA RESTA, infatti, della legge di Roberto Calderoli dopo il passaggio dei giuristi della Consulta? Solo la Prima Repubblica, cioè quella parte proporzionale della legge del 2005 scritta da Pier Ferdinando Casini e dall’Udc (il premio di maggioranza e le coalizioni le volle invece il Cavaliere). La nuova legge elettorale italiana è la seguente. I voti vengono ripartiti proporzionalmente: a livello nazionale alla Camera a tutte le liste che superino il 4 per cento e alle coalizioni che superino il 10; a livello regionale in Senato per le liste che vadano oltre l’8 per cento (il 20 per le coalizioni). Ovviamente l’elettore potrà esprimere una preferenza: per introdurle non serve nemmeno una legge, mette nero su bianco la Corte, ma basta un semplice regolamento o una circolare del Viminale, se si dovesse andare al voto senza che il Parlamento trovi l’accordo su una nuova legge.
Il sistema “Prima Repubblica” applicato ai risultati di febbraio, ad esempio, significherebbe immaginare un Pd senza quasi un terzo dei suoi eletti alla Camera e parecchi in meno anche in Senato, seggi che sarebbero finiti in larga parte al Movimento 5 Stelle e al Pdl. Il risultato più ovvio di questa situazione è che oggi Enrico Letta non sarebbe più a palazzo Chigi: la scissione del Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano, infatti, non sarebbe bastata a tenere in vita l’esecutivo. Anche coi sondaggi attuali, peraltro, se si votasse ora non ci sarebbe alcuna maggioranza dopo il voto. Non solo: anche ammesso che il centrosinistra s’avvicini al 40 per cento - come prevedono e sperano ai vertici del nuovo Pd
- Matteo Renzi non potrebbe formare il governo se non attraverso un accordo con qualche ex avversario. Motivo per cui il sindaco di Firenze si gioca molto nelle trattative sulla nuova legge elettorale: la sua immagine di leader giovane e dinamico al limite della frettolosità si sposerebbe poco con i minuetti necessari a un governo di coalizione in cui ogni voto parlamentare finirebbe per pesare.
FORSE ANCHE per questo la Consulta - con uno dei suoi tradizionali giudizi giocati sul filo sottilissimo tra il magistero giuridica e il realismo politico - ha lasciato graziosamente aperta la via alle due principali opzioni sul tappeto: il sistema spagnolo e il Mattarellum. Entrambi, infatti, prevedendo le liste bloccate potevano essere considerati incostituzionali. La Corte s’è preoccupata di far capire a Renzi, Verdini, Alfano e chiunque altro giochi questa partita che possono mantenere la mente aperta: le liste del Porcellum con enormi circoscrizioni, a volte regionali, sono una cosa “non comparabile né con altri sistemi caratterizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi (Mattarellum, ndr), né con altri caratterizzati da circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte (lo spagnolo, ndr) ”. Altrimenti, sembrano dire in un inciso gli ermellini, dovremmo considerare incostituzionale “il collegio uninominale”.
Dunque i giochi sono ancora tutti aperti. Come abbiamo scritto nei giorni scorsi, Silvio Berlusconi predilige il modello adottato in Spagna: si tratta in sostanza di un finto proporzionale, o meglio di un proporzionale che grazie a circoscrizioni molto piccole ha effetti maggioritari fortissimi.
LO SPAGNOLO è un sistema che piace, ovviamente, ai partiti più grandi (non escluso il M5S, che aveva presentato una bozza di questo tenore anche se poi derubricata ad iniziativa individuale) e anche a quelli radicati territorialmente com’era un tempo la Lega e sono ancora la SVP sudtirolese e l’UV valdostana. Sel, l’attuale Carroccio, alfaniani, dipietristi e quant’altro non conterebbero niente e probabilmente non entrerebbero in Parlamento (a meno di non lasciare per legge un po’ di seggi al cosiddetto “diritto di tribuna”).
IL MATTARELLUM è, d’altra parte, il sistema che potrebbe mettere tutti d’accordo (più della legge dei sindaci col doppio turno, che ha il grosso problema di applicarsi ad un sistema che non è un premierato, non prevede cioè elezione diretta). Il vecchio sistema - in vigore per le politiche del 1994, 1996 e 2001 - ha due grandi vantaggi: può entrare in funzione con una leggina di due righe che si limita ad abolire il Porcellum e piace anche ai piccoli e medi partiti perché costringe quelli grandi a coalizzarsi per forza. Il rapporto eletto ed elettore sarebbe salvo, ma riavremmo governi sostenuti da maggioranze parecchio eterogenee.

il Fatto 14.1.14
La decisione
“Parlamento legittimo, votare subito si può”
di Antonella Mascali


Deputati e senatori possono stare attaccati alle loro poltrone. La Corte costituzionale, nel motivare l’incostituzionalità della legge elettorale, il Porcellum, ha specificato che questo Parlamento è comunque legittimo: “É evidente che la decisione che si assume di annullamento delle norme censurate, avendo modificato in parte la normativa che disciplina le elezioni per la Camera e per il Senato, produrrà i suoi effetti esclusivamente in occasione di una nuova consultazione elettorale”. Ma il Porcellum “ha coartato la libertà” dei cittadini; i meccanismi del premio di maggioranza sia alla Camera che al Senato hanno determinato una “compressione” della volontà popolare.
ALLO STESSO TEMPO LA CORTE ha specificato che, ovviamente, non c’è alcun vuoto normativo, e che, volendo, si può andare a votare domani, con quello che si può definire un sistema proporzionale puro con le preferenze. “Resta fermo ovviamente, che lo stesso legislatore ordinario, ove lo ritenga, potrà correggere, modificare o integrare la disciplina residua”. Dunque, M5s non potrà più sostenere che la riforma elettorale non si può fare perché questo Parlamento è illegittimo I motivi della bocciatura del Porcellum sono stati depositati in cancelleria intorno alle 20.15 dopo una camera di consiglio di oltre tre ore che sono servite alle “rifiniture”, alle “limitature” di una sentenza decisa il 4 dicembre scorso. L’ufficialità, dopo un’altra ora e mezza di rilettura in cancelleria. Segno di quanto la Corte sentisse il peso addosso. Durante la sospensione di Natale il relatore ed estensore, Giuseppe Tesauro, si è messo al lavoro e si è confrontato con il presidente Gaetano Silvestri, che anche da “semplice” giudice costituzionale aveva molto a cuore il problema del Porcellum.
Approfondendo il suo no al premio di maggioranza, la Corte spiega che il Porcellum pregiudica i principi della democrazia parlamentare perché premia una coalizione anche solo con un voto di scarto rispetto a un’altra, senza che ci sia un tetto minimo di consensi da raggiungere, per non parlare del voto per il Senato con il peso differenziato delle Regioni: “Risulta, pertanto, palese che (le disposizioni, ndr) consentono una illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare, incompatibile con i principi costituzionali… C’è una compressione della funzione rappresentativa dell’assemblea, nonché dell’eguale diritto di voto, eccessiva e tale da produrre un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente”.
QUANTO ALL’IMPOSSIBILITÀ per i cittadini di esprimere le preferenze, la Corte dice in sostanza che le ultime tre elezioni hanno determinato un Parlamento di nominati: “Le condizioni stabilite dalle norme censurate sono tali da alterare per l’intero complesso dei parlamentari il rapporto di rappresentanza fra elettori ed eletti. Anzi, impedendo che esso si costituisca correttamente e direttamente, coartano la libertà di scelta degli elettori nell’elezione dei propri rappresentanti in Parlamento, che costituisce una delle principali espressioni della sovranità popolare, e pertanto contraddicono il principio democratico, incidendo sulla stessa libertà del voto di cui all’art. 48 Cost. ”. La Consulta spiega che non ci sono eguali in altre normative, inoltre apre alle cosiddette liste bloccate corte: “Simili condizioni di voto, che impongono al cittadino, scegliendo una lista, di scegliere in blocco anche tutti i numerosi candidati in essa elencati, che non ha avuto modo di conoscere e valutare e che sono automaticamente destinati, in ragione della posizione in lista, a diventare deputati o senatori, rendono la disciplina in esame non comparabile né con altri sistemi caratterizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi, né con altri caratterizzati da circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto (al pari di quanto accade nel caso dei collegi uninominali) ”.
Dopo vari avvertimenti al Parlamento, ricordati nelle motivazioni, la Consulta, in mancanza di una riforma elettorale della politica, si è dovuta pronunciare solo grazie a un ricorso presentato da 25 cittadini capitanati dagli avvocati Aldo e Giuseppe Bozzi, Claudio Tani e Felice Besostri: a maggio avevano ottenuto dalla Cassazione la possibilità di rivolgersi agli alti giudici. E la Corte costituzionale ha dato loro ragione.

il Fatto 14.1.14
Dal rottamatore al doroteo
Renzi sui atti spinosi parla solo a microfoni spenti: “Nunzia cadrà da sola, Letta è salvo”
di Fabrizio d’Esposito


I vecchi democristiani facevano così. Anzi, i dorotei, per essere più precisi. Obliqui o trasversali, dissimulavano, eludevano, depistavano, ti sorridevano ma ti accoltellavano alle spalle. Tutto per diventare o rimanere centrali nel Sistema. Tattica, quasi mai strategia. Il doroteismo, come anche il realismo togliattiano (Napolitano) e il gestionismo andreottiano (Enrico Letta), è ormai un carattere antropologico dell’italico potere. A guardare i fatti, Matteo Renzi si sta guadagnando i galloni del perfetto Rottamatore doroteo, un ossimoro dal gusto gattopardesco.
Zero parole su Nunzia
Il doroteismo renziano è esploso con il caso De Girolamo. Lui, il segretario del Pd, continua a non dire una parola sul ministro dell’Agricoltura, moglie del lettian-renziano Francesco Boccia. Silenzio. Anche quando il Corriere della Sera, domenica scorsa, gli dedica un’intera pagina di intervista. Allo stesso tempo, però, il sindaco di Firenze manda i suoi avanti a minacciare: “De Girolamo deve chiarire”. Almeno, sull’affaire Cancellieri-Ligresti, Renzi si pronunciò a scoppio ritardato. Adesso, niente. Una farsa, meglio una sceneggiata per fare ammuina, senza richiesta di dimissioni o di mozione di sfiducia. Surreale l’apertura di domenica scorsa di Repubblica: “De Girolamo, Pd all’attacco”. Un titolone appeso alla frasetta di un renziano anonimo contro il ministro. Un po’ poco. Eppure il renzismo funziona così. Una, dieci, cento, mille facce dorotee.
Balletto di governo
Il Dissimulatore ha un altro cavallo di battaglia: il tormentone del rimpasto, che si collega anche allo scandalo De Girolamo. Questa la promessa fatta con discrezione (nemmeno tanta) ai fedelissimi: “Io della De Girolamo non parlo ma tra quindici giorni c’è il rimpasto e lei rimane fuori”. Poi però Renzi va da Napolitano e chiosa su Twitter: “Il rimpasto? Che noia”. Il giorno prima, il ministro renziano Delrio si era espresso in senso contrario: “Sì al rimpasto con un’agenda nuova di governo”. Questa storia va avanti da almeno tre settimane. Rimpasto in privato ma non in pubblico. È chiaro che MatteoilDoroteo vuole il voto in primavera, come Berlusconi, ma è costretto a battere anche altre strade, al limite del ridicolo nella definizione: rimpasto con o senza renziani. Un rompicapo da Prima Repubblica.
Inciucio con Denis
Terzo esempio del doroteismo renziano è la tattica sulla riforma della legge elettorale. È noto che il sindaco-segretario ha messo tre proposte sul tavolo. Con una postilla, sbandierata su tutti i media: “Faremo accordi alla luce del sole”. La presunta trasparenza è smentita dal mistero delle telefonate tra lui e Denis Verdini, uno dei peggiori berlusconiani rimasti in circolazione: banchiere quasi fallito, plurindagato e plurinquisito. Verdini è lo sherpa di B. che per mesi (insieme con il bersaniano Migliavacca) ha bloccato la riforma per votare nel febbraio 2013 con il Porcellum. Ora è l’interlocutore privilegiato di Renzi sul cosiddetto sistema spagnolo.
Scandali e indifferenza
Il disinvolto Rottamatore non è rimasto in silenzio solo sul caso De Girolamo. All’Aquila, la giunta di centrosinistra viene devastata dalle inchieste sulla ricostruzione e il segretario del Pd non parla. Così come sulla storia delle note spese del suo fedelissimo Ernesto Carbone, quando questi era ad di una società partecipata dal ministero dell’Agricoltura.
La monarchia del Colle
La liberazione del Pd dall’oppressione di Giorgio Napolitano è stata al centro della campagna renziana delle primarie. A dicembre, il sindaco di Firenze andò via da una cerimonia del Quirinale senza salutare il capo dello Stato. A distanza di un mese o poco più c’è il rischio che si passi da un asse Napolitano-Letta ad uno tra Napolitano e Renzi. Doroteismo puro. Sommato al togliattismo di Re Giorgio costituisce una miscela micidiale.

il Fatto 14.1.14
Renzi. È nata una nuova destra?
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, nell’ultimo editoriale Eugenio Scalfari auspica la nascita di una destra europea anche in Italia. A me pare che, con Renzi, la destra europea sia già nata. È anche per questo che il conflitto fra Alfano e Renzi si fa sempre più duro. Si contendono lo stesso elettorato. Il Pd di Renzi è certamente meno a sinistra della destra francese e tedesca. Speriamo che una sinistra europea nasca anche in Italia, magari intorno a Fabrizio Barca.
Benedetto

NON TUTTO È GIUSTO , nel senso di esattamente vero, nella lettera di oggi, ma condivido la sostanza. È vero che Renzi e Alfano si contendono gli stessi elettori (o almeno una parte di essi). Però Alfano nasconde sotto il tappeto e tiene pronta una destra antica e indecente, e anche una destra spregiudicata e pronta al saccheggio dello Stato. Renzi invece mostra tutta la sua merce. Da un lato è più onesto, dall’altro si vede subito che non tiene in serbo alcuna sinistra, da far balzare fiori all’ultimo istante. Anzi corre il rischio di avere molti elettori nuovi e pochi elettori come quelli di tutte le altre sinistre europee. Insomma, siamo di fronte a uno strano fenomeno. Tutto lascia pensare (compresa la quasi vittoria di Bersani e il crollo di voti dell’ex Berlusconi), che vi sia una notevole base elettorale di sinistra in Italia. Ma nessuno, neppure l’astuto Renzi, sembra curarsene. Il suo sole dell’avvenire sorge decisamente verso destra. E anche se è vero che c’è destra e destra, ciò che stupisce è che una vasta prateria di sinistra viene lasciata ormai da tempo, dai leader del Pds, dei Ds, del Pd, e dal nuovo segretario allo stato brado, senza che mai nessuno si azzardi a fare una visita a quella parte del popolatissimo mondo politico italiano. Tutto ciò si nota di più adesso, e fa pensare a un Renzi che vince (ma con un altro elettorato). Si deve al fatto che l’attuale leader Pd, il neosegretario Renzi, è attivo, vitale, rapido. E ciò che sembrava distrazione o abbandono per mancanza di determinazione o di forza dei leader che lo hanno preceduto, adesso appare progetto. Renzi non desidera l’imbarazzo di avere successo o di essere considerato “capo” a sinistra: come lo spiegherebbe ai nuovi di cui è in cerca? In questo senso il suo nemico è Alfano. Ma con una grande contraddizione: anche il suo miglior amico è Alfano, perché deve continuare a rassicurare di non essere di sinistra. Il lettore parla di Fabrizio Barca. Barca ha tutto per essere accettato da chi pensa ancora di essere di sinistra, e tutto per meritare un caloroso augurio. Ma resta immobile, il tempo passa e Renzi è veloce e in sintonia con un tempo che considera la sinistra colpevole del pauroso vuoto in cui viviamo. Però non nascerà per ora in Italia la destra europea. Il carro degli ex Berlusconi ingombra ancora la strada, carico di rottami. Renzi è più agile e potrebbe farcela, dal punto di vista elettorale. Non sarà la sinistra che avanza. Sarà Renzi che avanza, con il suo elettorato misto e poche coppie di fatto.

l’Unità 14.1.14
Rappresentanza
Landini scrive alla Cgil: il voto agli iscritti
di Massimo Franchi


ROMA Tornano le tensioni interne in Cgil. La firma di venerdì scorso sul regolamento attuativo dell’accordo sulla rappresentanza dello scorso 31 maggio viene contestata dalla Fiom. Che in una lettera chiede a Susanna Camusso «la sospensione della firma fino all’esito finale della consultazione» degli iscritti «vincolante» e «prevista dallo statuto della Cgil». La federazione guidata da Maurizio Landini chiede alla confederazione anche che «sia convocata con urgenza la riunione del comitato Direttivo della Cgil nazionale» e «la realizzazione di assemblee in tutti i luoghi di lavoro nel corso delle quali dovranno essere rappresentati e illustrati i contenuti e gli eventuali diversi giudizi sull’accordo»
«VENERDÌ IL DIRETTIVO»
L’oggetto del contendere sono le sanzioni previste in caso di mancato rispetto dell’esigibilità dei contratti nazionali e l’arbitrato confederale per deciderle. «Contenuti mai discussi in nessun organismo dirigente della nostra organizzazione», spiega la lettera, «che configurano una concezione proprietaria dei diritti sindacali, di fatto limitano le libertà sindacali anche in contrasto con la recente sentenza della Corte costituzionale sulla Fiat. Tutto ciò è avvenuto senza mettere le categorie nella condizione di conoscere, discutere e decidere prima della firma». La valutazione «definitiva» viene rimandata al Comitato centrale della Fiom in programma giovedì, al quale i metallurgici invitano Camusso.
Da parte sua la Cgil risponde convocando due riunioni: quella delle segreterie di categoria per domani e il Direttivo per venerdì. Nella segreteria fanno sapere da Corso Italia non c’è stata alcuna valutazione della lettera, mentre sul sito è stato pubblicato un documento che incrocia i contenuti del regolamento attuativo con l’accordo del 31 maggio (nel quale erano previste sanzioni, demandando all’accordo attuativo le regole applicative) e con quello del 28 giugno 2012 (che prevedeva l’arbitrato confederale in caso di controversie tra federazioni). «Il regolamento attuativo è coerente con questi accordi», spiega una nota.
Entrambe le misure sono contenute nelle pagine finali del testo. Sul rispetto dell’esigibilità «le sanzioni, anche con effetti pecuniari» possono comportare la temporenea sospensione dei diritti sindacali», ma non riguardano «i singoli lavoratori». I «collegi di conciliazione e arbitrato» che fissano le sanzioni sono in realtà due: il primo «in via transitoria in attesa dei rinnovi contrattuali» e una «Commissione interconfederale permanente» «per monitorare l’attuazione» e «garantirne l’esigibilità» dell’accordo.

il Fatto 14.1.14
Fiat-Chrysler, la nuova sede migra verso gli Usa
Marchionne punta sulla borsa di New York, ma l’Alfa resterà in Italia
L’Ad resta altri tre anni, ma parla già della successione
di Salvatore Cannavò


Sergio Marchionne guiderà la Fiat ancora per molto tempo. “Almeno tre anni” ha assicurato ieri il presidente dell’azienda John Elkann. Il tempo di portare a casa il nuovo piano che l’amministratore delegato presenterà ad aprile. Poi si vedrà. John Elkann gli conferma tutta la sua fiducia mentre l’interessato si limita a dire che “chi verrà dopo di me dovrà provenire dall’interno dell’azienda. E dovrà parlare inglese”.
IL PROFILO È CHIARO, si tratta di guidare la nuova Fiat-Chrysler a dimensione globale. A fine mese, infatti, si terrà il Consiglio di amministrazione del gruppo statunitense che deciderà sul nome del nuovo gruppo e sulla sede della quotazione borsistica. “New York potrebbe essere la sede primaria” ha confermato Marchionne in una conferenza stampa congiunta con John Elkann, tenuta al Salone dell’auto di Detroit. “Non decideremo in base al fisco ma alla liquidità del mercato”. Anche perché è convinto che la collocazione della sede sia solo “un problema emotivo”. In realtà, la collocazione della testa di un’azienda ha ricadute sulla progettazione e, come fa notare la Uil, sullo “sviluppo delle tecnologie”. Quanto ai tempi, l’ad ha ipotizzato la fine del 2014 per la quotazione che sarà della “sola capogruppo” e che, probabilmente, si chiamera Fiat-Chrysler visto che “è assolutamente garantito che ci sarà il nome Fiat e ci sarà il nome Chrysler”.
Il vertice della Fiat, così come si è presentato ieri al mercato Usa, conferma quanto illustrato da Marchionne nell’intervista a Repubblica. Grande sfoggio di marchi Chrysler, come la nuova 200 che punta a sfidare la Mercedes e la Bmw e che è stata presentata a Detroit ma non sarà esportata in Europa. Mentre nel “vecchio continente” la strategia si baserà sull’Alfa, “che potrebbe servirsi della tecnologia Ferrari”, e garantire alla Fiat l’uscita dal cosiddetto mass market, presidiato solo da 500 e Panda. “Fino a quando ci sarò io l’Alfa sarà prodotta in Italia” ha ribadito Marchionne. Prevista però la rarefazione del marchio Lancia, che dovrebbe essere limitato alla sola Y. Sulle strategie, comunque, Marchionne non ha smentito l’eventualità di ulteriori accordi con Suzuki e Peugeot: “Siamo aperti a qualsiasi tipo di collaborazione con altri partner. Esaminiamo le possibilità che si presenteranno”.
Il punto più delicato è che la Fiat non crede alla ripresa del mercato Ue nel 2014 e questo, sulla base delle convinzioni di Marchionne, significa che non ci saranno a breve nuovi modelli o rilanci produttivi. L’ad, invece, continua “a essere ottimista” sul mercato Usa”. In ogni caso, sia lui che Elkann hanno confermato la volontà di far “rientrare tutti i cassaintegrati” in produzione. Ma senza dire come e in che tempi. L’importanza, dice Marchionne, è che “non ci siano ostacoli” all’azione dell’azienda. Un riferimento velato ai problemi politici finora incontrati.
IL MANAGER FIAT, però, ne ha approfittato per far sapere al governo italiano che la normativa sul superbollo “è stata deludente” e non ha portato risultati ma ha anche precisato che la Fiat “non ha richieste da fare. È il governo che decide”.
Intanto viene riconvocato per il 31 gennaio il tavolo su Termini Imerese dove, secondo la Fiom, i piani di riconversione sono “falliti”. A distanza di due anni dalla chiusura, gli operai aspettano ancora di sapere dove andranno.

Corriere 14.1.14
Con Jeep e Alfa la sfida cinese nel top di gamma
di Bianca Carretto


John Elkann e Sergio Marchionne, orgogliosi di essere arrivati dopo dieci anni alle soglie della firma per l’acquisto di Chrysler. Ora guardano al futuro che, come il presidente della Fiat ha più volte sottolineato, per un lungo tratto di strada costruiranno ancora insieme. Preso atto che l’Europa, per almeno altri dodici mesi, vivrà nell’oblio, rimangono due le aree su cui investire concretamente. Nei prossimi anni Fiat Chrysler consoliderà la presenza negli Stati Uniti (nel 2013 ha venduto 1.800.368 auto, su un totale di 15,6 milioni, in crescita del 9%), ormai «mercato domestico» e probabile sede del gruppo post fusione. La vera sfida avverrà in Asia, il solo continente che ancora non è stato conquistato. Inutile oggi ipotizzare alleanze con Suzuki ( tuttora legata formalmente a Volkswagen) o con Mazda (è in atto la collaborazione industriale per la realizzazione di uno spider in comune) o con altri partner; i lavori in corso vedono solo l’allargamento della cooperazione con Gac, una joint venture attiva dal 2009. In Cina nel 2013 sono state prodotte e vendute 21milioni di vetture, per il quinto anno consecutivo è il mercato più importante del mondo, ma oggi nel paese «solo» 120 milioni di persone possiedono un’auto, ossia meno di 100 ogni mille persone, nel mondo sono più di 150. La crescita pare inarrestabile, quest’anno potrebbe chiudersi a quasi 25 milioni. Fiat produce in Cina, nello stabilimento di Changsha, Viaggio e Ottimo sviluppate sulla stessa piattaforma. In fabbrica attualmente si lavora su due turni e il miglioramento deve avvenire non solo a livello industriale ma anche commerciale. La rete dei concessionari(attualmente 120) deve almeno raddoppiare per permettere prima l’ingresso di Jeep, quasi sicuramente con Cherokee, del suv che sta per arrivare anche in Europa e poi dell’Alfa: questo è il traguardo di Marchionne. Rilanciare il marchio del Biscione non per «dominare il mercato del premium, solo per toglierne una fettina ai tedeschi». Quanto tempo servirà ancora? Il piano che verrà illustrato a fine aprile ha una durata di tre anni, troppo pochi per costruire un’intera gamma, produrla ed immetterla globalmente: la pensione di Sergio è ancora lontana

La Stampa 14.1.14
Immigrazione. Processo ai trafficanti
“Ci violentavano a turno in quel capannone nel deserto”
L’unica sopravvissuta al naufragio di Lampedusa accusa il suo scafista carceriere
di Laura Anello

qui

il Fatto 14.1.14
Clandestini, la base 5Stelle: “Il reato va abolito subito”
Consultazioni in rete
Si esprimono in 25 mila: 16 mila contraddicono Grillo e Casaleggio
di Paola Zanca


Il leader e il guru avevano bocciato l’emendamento dei senatori del Movimento che voleva depenalizzare le norme sugli immigrati, ieri il verdetto del web La soddisfazione dei parlamentari: “Abbiamo vinto, il nostro non è un regime”. Oggi la legge delega a Palazzo Madama

REATO DI CLANDESTINITÀ GRILLO E CASALEGGIO FINISCONO NELLA RETE
I DUE LEADER SI ERANO ESPRESSI CONTRO L’ABOLIZIONE MA IL SONDAGGIO ONLINE SCONFESSA LA LINEA DI DESTRA L’APPLAUSO DEI SENATORI AI 16 MILA SÌ: “ABBIAMO VINTO”

Maurizio Buccarella corre su per le scale, paonazzo. Fa irruzione nella sala al terzo piano di Palazzo Madama dove i suoi colleghi senatori sono in riunione, come tutti i lunedì. “Abbiamo vinto”, urla. E i 50 senatori Cinque Stelle si lasciano andare a un applauso liberatorio. Sono le 18:08. E ufficialmente, tutti loro, si sono appena presi la rivincita su Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. La Rete ha dato ragione a loro, all’emendamento che abolisce il reato di immigrazione clandestina. E loro possono tornare ad applaudire, come fecero il giorno in cui i due senatori illustrarono la loro idea in assemblea, un lunedì come ieri, tre mesi fa.
ORA SI FESTEGGIA: viva la democrazia dal basso, altro che regime, ecco da chi arrivano i “diktat”. Ma per capire la portata del risultato del sondaggio di ieri bisogna tornare a quei giorni di ottobre. È giovedì 3 quando 366 corpi di migranti in arrivo dal Nordafrica vengono recuperati al largo di Lampedusa. Uno dei peggiori naufragi del Mediterraneo, una strage che indigna il mondo intero. Ai senatori Cioffi e Buccarella (il secondo, avvocato leccese, prima di approdare in Parlamento si è occupato spesso di queste questioni) viene in mente un emendamento che hanno presentato prima dell’estate. È l’asso nella manica che può inchiodare i partiti che si sperticano in buoni propositi sul superamento della Bossi-Fini: via questo odioso reato di clandestinità, che intasa i tribunali e non serve a niente. Il lunedì lo illustrano ai colleghi M5S che lo approvano per acclamazione; il mercoledì è ai voti in commissione Giustizia: parere positivo del governo, sì dai democratici e da Scelta Civica, l’emendamento passa. Il mattino dopo, il blitz dei Cinque Stelle è l’apertura di tutti i giornali. Grillo e Casaleggio perdono la testa. E senza pensarci su, battono un comunicato durissimo sul blog, per la prima volta a doppia firma: sconfessano Cioffi e Buccarella (“la loro posizione è del tutto personale”, sono dei “dottor Stranamore senza controllo”), spiegano di non essere “d’accordo sia nel metodo che nel merito”: primo perché “un portavoce non può arrogarsi una decisione così importante senza consultarsi con nessuno”, secondo perché “se durante le elezioni politiche avessimo proposto l’abolizione del reato di clandestinità, il M5S avrebbe ottenuto percentuali da prefisso telefonico”. Imbarazzo generale, i due senatori costretti al dietrofront, lacrime e urla dei colleghi. Finisce con una decisione salva-tutti: ogni argomento che non sta nel programma, va discusso in Rete.
E FINALMENTE, ieri, è arrivato quel giorno. Votano in circa 25 mila iscritti al blog (su 80 mila aventi diritto). Quasi 16 mila stanno con Cioffi e Buccarella, solo in 9 mila sposano la linea Grillo-Casaleggio. Non se lo aspettava nessuno, diciamo la verità. Tant’è che ieri, prima che venissero diffusi i risultati, era già pronto a scoppiare il patatrac. Tre senatori (Francesco Campanella, Luis Orellana, Lorenzo Battista) si espongono pubblicamente contro le modalità del sondaggio: la mail che allerta gli iscritti è arrivata ieri mattina a urne già aperte, ci sono solo sette ore per votare, non c’è stata nessuna informazione preliminare, sono “dilettanti allo sbaraglio”, Casaleggio usa il blog “come una pistola”. Dallo staff li liquidano come i soliti dissidenti in cerca di pretesti per fare casino: non c’è stato tempo per fare prima, Cioffi e Buccarella hanno allertato Casaleggio solo giovedì, quando hanno visto che il calendario del Senato tornava a discutere di clandestini e reati proprio oggi. State tranquilli, assicurano, “la nostra gente è del 2014”, “sta al computer tutto il giorno”, “si è già fatta un’idea”, “voterà”.
Non va proprio così: clicca meno di un terzo dei certificati. Ma è scongiurato il rischio che oggi i banchi dei Cinque Stelle finissero falcidiati da “pipì tattiche” (copyright senatrice Michela Montevecchi), appelli ai “temi etici” (Elena Fattori) e altri escamotage per evitare di rispettare le volontà supposte della Rete. Defezioni che avrebbero mandato in tilt il gruppo e il principio movimentista del “portavoce”.
Evidentemente ha ragione Vito Crimi quando avverte i giornalisti: “Sottovalutate gli attivisti, vedrete che la nostra base ha una sensibilità un po’ diversa da quella che pensate”. E anche da quello che pensano Grillo e Casaleggio.

Repubblica 14.1.14
Luis Orellana, parlamentare cinquestelle a Palazzo Madama:
è tempo di aprire un dialogo con le altre forze politiche
“Abbiamo vinto nonostante i tempi ristretti ora mettiamo ai voti anche le alleanze”
di T. Ci.


ROMA — A sera Luis Orellana è scosso. Contento solo a metà. «Sì, abbiamo scelto di depenalizzare il reato di clandestinità. Bene, resta però il fatto che è sbagliato mettere ai voti un principio senza adeguato preavviso. Ci hanno dato solo sette ore per votare». In passato il senatore grillino ha sfidato Gianroberto Casaleggio sulla linea politica, reclamando un dialogo con il Pd. E adesso rilancia: «Non sono più così sicuro di essere in minoranza quando chiedo un’apertura di credito alle altre forze politiche».
Senatore, davvero l’hanno avvertita solo a scrutinio in corso?
«Si votava dalle 10. A me è arrivata comunicazione quando erano quasi le 11. E poi anche il modo in cui è stato presentato il problema...».
Cosa non andava?
«Non hanno spiegato bene che cosa si votava. Né hanno sottolineato che abrogare il reato significava evitare di ingolfare i Tribunali. E infatti il numero di votanti conferma l’analisi».
Pochi votanti? Ventimila sugli ottantamila aventi diritto.
«Beh, se dai sette ore per votare... Molti non l’hanno neanche saputo, altri erano a lavorare. Sa, la gente a quell’ora lavora. E poinon si capisce perché comunicarlo solo all’ultimo secondo».
A molti è sembrato un blitz.
«Soprattutto perché la cosa si sapeva da mesi. La settimana scorsa era emersa questa questione del sondaggio. Pensavamo sarebbe stato lanciato giovedì, per dare tutto il week-end per votare».
Senatore, resta un dato per voi “storico”: per la prima volta la Rete degli attivisti sconfessa la linea di Grillo e Casaleggio.
«Sì. Poi va riconosciuto anche di non aver taroccato i dati. In fondo, uno poteva pensare: i server sono miei, tarocco i numeri. Magari potevano alzare il numero dei votanti. E invece non l’hanno fatto. Non riesco comunque a darmi una spiegazione di tutta questa storia».
Una svolta, per voi che avete sempre chiesto di discutere la linea imposta dall’alto.
«Esatto. Gridarono al mio “scilipotismo”, ma ora devo dire che non sono più così sicuro di essere in minoranza quando chiedo un’apertura di credito alle altre forze politiche. Pensavo che gli iscritti fossero contrari, ma dopo questo voto non ne sono più così certo. Quando lo chiesi, comunque, ricevetti tanto supporto da chi si diceva attivista. Sia sul web che al telefono».
Finora non le hanno dato ascolto. Ora sarebbe giusto mettereai voti questa proposta?
«Sì, esatto».
Tracciamo un bilancio complessivo di questa giornata.
«Da una parte c’è un dato importante: per la prima volta si esprimono gli iscritti. Questo è il bicchiere mezzo pieno. Anzi, pieno per un quarto, visto i problemi sulla tempistica che le ho detto. E poi c’è il bicchiere mezzo vuoto».
Cioè?
«Siamo in mano a uno staff che non è adeguato. Non so chi lo componga, ho chiesto di saperlo. Credo siano ragazzi scelti per altri tipi di mansione, poi messi da Casaleggio a seguire il Movimento. E così si improvvisano. Ne discendono scelte raffazzonate. Dilettanti allo sbaraglio».
Parole dure.
«Guardi, è per questo che io chiedo i loro nomi. Per incontrarli, ragionarci. Andiamo noi a Milano, oppure vengano loro a Roma: potremmo spiegargli come funziona qui, in Parlamento».

il Fatto 14.1.14
La rete e i leader
Scelta di sinistra per il Movimento
di Andrea Scanzi


Il Movimento 5 Stelle, ieri, ha votato due volte: contro il reato di clandestinità e, per la prima volta, contro Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Il referendum online di ieri è discutibile sotto vari punti di vista. Non c’è stato preavviso, gli iscritti hanno dovuto scegliere in poche ore e senza preavviso. Alcuni parlamentari, tra cui il senatore Buccarella (colui che aveva presentato l’emendamento contro il reato di clandestinità assieme a Cioffi), hanno lamentato la poca informazione fornita dal blog. L’esito delle consultazioni online rimane poi gestito interamente da Casaleggio: il liquid feedback, di cui si parla da mesi, garantirebbe trasparenza totale. A fronte di tali perplessità, il Movimento 5 Stelle ha salvato la “forma”, che nel suo caso è anche sostanza: Buccarella e Cioffi avevano sbagliato nel metodo, più che nel merito. Se il parlamentare è solo un “cittadino portavoce”, non può arrogarsi il diritto di scegliere senza consultare gli elettori. In questo modo, attraverso la consultazione si è salvato un caposaldo del M5S: “È la Rete che decide”, e dunque il parlamentare non fa che eseguire l’ordine (che arriva dagli elettori, non dai due “leader”). Anche qui ci sarebbe da discutere. Grillo e Casaleggio sanno bene che la politica vive di decisioni da prendere sul momento.
LA POLITICA, persino in Italia, ha tempi più rapidi del blog di Grillo: i due senatori “dissidenti” non solo non sbagliarono, ma seppero interpretare il presente con una lungimiranza che ovviamente il governo non ebbe. E seppero dar vita al desiderio della maggioranza degli elettori, come attestato dal voto di ieri. Un voto che continua a riguardare troppe poche persone: una forza politica che aveva a febbraio quasi 9 milioni di voti non può dipendere dalla scelta (giusta o sbagliata che sia) di 25 mila militanti della prima ora. Grillo e Casaleggio scrissero un post livoroso, attaccato da quasi tutti e difeso teneramente da due yesman e tre o quattro troll. I motivi del loro astio erano molteplici: il non aver rispettato il protocollo e il temere che quella decisione “di sinistra” potesse erodere il consenso tra i delusi di destra. Grillo, guardando i sondaggi, si preoccupò. E Casaleggio, che certo di sinistra non è, temette che il “suo” movimento subisse svolte ideologiche indesiderate. Il risultato di ieri costituisce un successo anche per loro: non solo hanno fatto sì che le regole interne fossero rispettate, ma hanno anche dimostrato che “uno vale uno”, al punto tale che i due nomi più rilevanti di una forza politica vengano sbugiardati dal loro elettorato (di più: dalla base storica, fino ad oggi duropurista). Casaleggio, da ieri, potrà dire: “Visto? Il voto è libero e io ne prendo solo atto”. Non è poco. La giornata di ieri dice però anche un’altra cosa: Grillo, e più ancora Casaleggio, non sempre – e non necessariamente – rappresentano la maggioranza degli elettori M5S. Sulla cacciata di Mastrangeli e Gambaro avevano vinto. Anche la scelta di Rodotà, per quanto non “grillino”, era stata accettata da entrambi con piacere. Ora il no al reato di clandestinità è anche un no (circoscritto, ma innegabile) a Grillo e Casaleggio. Non tanto a loro, quanto al loro dominio. Alla loro onnipresenza. Alla loro supposta pretesa di ipercontrollo (il controllo ci sta, l’iper no). Il voto di ieri certifica l’eterogeneità degli elettori 5 Stelle, a maggioranza palese di sinistra, ed esemplifica la discrasia tra “gruppo dirigente” e base elettorale. Grillo e Casaleggio, non si sa quanto serenamente, prima o poi dovranno prenderne atto.

Repubblica 14.1.14
L’amaca
di Michele Serra


Al di là delle bizzarre modalità di voto (un ristretto stuolo di militanti iperconnessi che si autoconfigura come “democrazia dei cittadini”), la questione del reato di clandestinità, e dell'immigrazione in generale, è per il Movimento 5 Stelle un test durissimo. Nel senso che mette a confronto due anime politiche — quella iperdemocratica, che ha radici a sinistra, e quella forconista e isolazionista, di destra — fino ad oggi confuse nel comodo e indistinto calderone dell'insofferenza al sistema; ma, su un tema come questo, destinate a non capirsi, perché troppo differente è il loro sguardo sulla società. Più in generale, fino a che si tratta di valutare quanto costa un maritozzo al bar di Montecitorio, o quanto ruba “la casta” su ogni metro di pista ciclabile, vale per tutti quel piglio ragionieristico, valoroso ma un tantino gretto, che ha fatto la fortuna di quel Movimento. Ma quando si tratta di diritti e di accoglienza — se posso azzardare: di generosità — la questione si fa ben più rischiosa politicamente, e controversa. Nel voto online ha vinto, abbastanza nettamente, lo sguardo “generoso”, ed è una bella notizia. Sarà interessante vedere quanti degli elettori provenienti da Lega e centrodestra si riconosceranno in quella linea così manifestamente “di sinistra”.

il Fatto 14.1.14
Da Ancona. Lettera al Colle
Cialente: “La Curia vuol fare affari”
“Il disegno governativo vedrebbe la Curia, la più grande immobiliarista della città, diventare soggetto attuatore per la ricostruzione di tutti i suoi edifici, compresi i luoghi di culto”
di Antonio Massari


L’Aquila. Case e Chiesa. Gli investigatori sono alla ricerca di altre “mazzette” e puntano a livelli superiori al “cerchio marcio” che circondava l’ex sindaco Massimo Cialente.
La procura aquilana ora mette nel mirino la Mancini srl, per esempio, che a L’Aquila ha ottenuto lavori per almeno 8 milioni di euro: è una società di caratura internazionale. E non solo. Gli inquirenti stanno monitorando da tempo la Curia e la ricostruzione delle chiese. Una questione di rilevanza nazionale, considerato che proprio Cialente, in una lettera al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, l’11 dicembre scrive: “Qui a L’Aquila siamo convinti che il dottor Fabrizio Magani (direttore regionale del ministero dei Beni culturali, recentemente spostato da L’Aquila a Pompei, ndr) venga rimosso in quanto ostacolo a un disegno che si è tentato, e si sta tentando di inserire, come norma di legge”.
Qual è il disegno? Quello che “vedrebbe la Curia, la più grande immobiliarista della città, diventare soggetto attuatore per la ricostruzione di tutti i suoi edifici, compresi i luoghi di culto”.
NON È DETTAGLIO INDIFFERENTE: la ricostruzione delle chiese “storiche” dovrebbe essere affidata al ministero dei Beni culturali ma, secondo Cialente, la Curia aquilana sta tentando di modificare la legge per trattare, in autonomia, la gestione degli appalti. E proprio sulle modalità di gestione degli appalti per la ricostruzione delle chiese sta indagando la procura aquilana: la squadra mobile e la Guardia di finanza, alcuni mesi fa, hanno già eseguito delle perquisizioni.
Gli inquirenti vogliono far luce sul ruolo del vescovato, guidato da Giovanni d’Ercole, nella gestione dei fondi del terremoto. E proprio la curia vescovile ieri ha risposto a Cialente: “Spiace dover riconoscere che nella lettera al presidente Napolitano non ci siano corrette informazioni. Si tratta di una richiesta fatta da tutti i vescovi della Conferenza di Abruzzo e Molise, che quindi non interessa solo L’Aquila, perché anche in Abruzzo si possa seguire la stessa procedura adottata, per le chiese e gli edifici ecclesiastici, nei terremoti avvenuti in Umbria, nelle Marche e recentemente in Emilia e Lombardia”.
Insomma, la “trattativa ” tra Stato e Chiesa, sulla ricostruzione, c’è. Il punto, però, è che lo snodo politico segnalato da Cialente non appare indifferente sotto il profilo giudiziario: da un lato la partita della ricostruzione per il patrimonio artistico della Chiesa è tra le più imponenti sotto il profilo finanziario; dall’altro la Curia è già da tempo nel mirino della procura.
E non solo la Curia. Ieri è stato interrogato, come persona informata sui fatti, Massimo Mancini, della Mancini srl: la sua società s’è aggiudicata lavori per almeno 8 milioni di euro. L’imprenditore – che non è indagato – ha avuto numerosi contatti con Pierluigi Tancredi, il politico del Pdl agli arresti domiciliari, dall’8 gennaio, con l’accusa di corruzione. Nel solo 2013 la società Mancini versa a Tancredi 37 mila euro. Per quale motivo? È questa la nuova pista d’indagine avviata, con gli interrogatori di ieri, dalla procura guidata da Fausto Cardella.
Tancredi ha infatti un ruolo chiave, secondo l’accusa, nel giro di mazzette dell’estate 2010. Mazzette travestite, secondo i pm David Mancini e Antonietta Picardi, da veri e propri contratti stipulati con la società Dama srl. È l’imprenditore Daniele Lago a confermare di aver sottoscritto dei contratti con la società riconducibile a Tancredi, come consulente commerciale. Ma la procura non crede alla versione di una semplice consulenza. Per l’accusa Tancredi è un catalizzatore di denaro poco lecito: raccoglie compensi dalle imprese, che intendono lavorare sul cratere aquilano, promettendo di interferire a loro vantaggio, consentendo l’elargizione di lavori.
UNA “OPERATIVITÀ sconvolgente” secondo l’accusa. E una relazione della Banca d’Italia – datata novembre 2013 – segnala che proprio la Mancini srl, titolare di lavori milionari, versa a Tancredi ben 37 mila euro. Non soltanto Lago quindi – che denuncia di non aver mai ricevuto appalti per il tramite di Tancredi – ma anche la Mancini. Un dettaglio importante se consideriamo che la ricostruzione di palazzo – per il quale Lago, secondo l’accusa, aveva già versato dei soldi – viene affidata proprio alla Mancini srl. Parliamo di un’azienda che lavora con il ministero di Giustizia e vanta appalti in tutta Italia: perché, un’azienda di queste dimensioni, paga 37 mila euro a un consigliere comunale?

Corriere 14.1.14
«L’orrore dei bimbi vittime di aborto»

Papa Francesco, nell’incontro di ieri con gli ambasciatori presso la Santa Sede, ha detto che «desta orrore il pensiero che vi siano bimbi che non potranno vedere la luce, vittime dell’aborto» (foto Ap)

Repubblica 14.1.14
L’ex prefetto conferma nella deposizione ai pm quanto rivelato a Repubblica il 9 gennaio
Shalabayeva, Procaccini in procura: “Alfano avviò operazione Ablyazov”
Giovedì 9 gennaio Procaccini smentiva in due circostanze la versione fornita da Alfano sul caso Shalabayeva


CARLO BONINIROMA — Liquidato in Parlamento sette mesi fa in forza della minaccia del centro-destra di far saltare il banco delle larghe intese, il caso Shalabayeva resta questione aperta. E intatte si ripropongono dunque le omissioni e le responsabilità politiche di Angelino Alfano, che da ministro dell’Interno e vicepremier di quell’affaire è stato il motore primo. Accade infatti che, dopo l’intervista aRepubblicadel 9 gennaio, l’ex prefettoGiuseppe Procaccini, capo di gabinetto di Alfano fino al 17 luglio (giorno delle sue dimissioni) ma soprattutto capro espiatorio della vicenda, venga ascoltato per due ore come teste dal pm Eugenio Albamonte. E che la sua deposizione, nel ribadire i contenuti di quell’intervista, consegni all’accertamento dellamagistratura una verità che suona così: Alfano battezzò, dandole legittimità politica e istituzionale, l’operazione Ablyazov. Pose le condizioni perché gli apparati della nostra pubblica sicurezza si mettessero a disposizione dell’ambasciatore kazako a Roma Andrian Yelemessov e del suo variopinto seguito (il consigliere per gli affari politici, Nurlan Khassen, e l'addetto agli affari consolari, Yerzhan Yessirkepov), tutti indagati dalla procura di Roma per «sequestro di persona in danno di Alma Shalabayeva » e della sua bambina di 6 anni. Quindi, quando il 2 giugno le cose si misero male e «un’espulsione di routine» si rivelò l’illegale consegna straordinaria che era stata, il ministro decise di giocare la parte dell’uomo di Stato “tradito” dal suo apparato. Ignaro non solo dell’esistenza e del destino di una madre e di una figlia. Ma persino dell’origine della loro disgrazia: l’operazione di caccia al latitante cui proprio il ministro aveva dato il là.
Con il pm Albamonte, Procaccini è tornato dunque a ripercorrere i momenti chiave della vicenda. Ha ricordato l’incontro con Alfano la sera del 28 maggio a Palazzo Chigi, «tra le 21.15 e le 21.20», quando cioè apprende dalla voce del ministro che è urgente mettersi in contatto con l’ambasciatore kazako a Roma, perché il diplomatico ha notizie da riferire che prefigurano una «grave minaccia alla pubblica sicurezza». Quando si convince che non solo esista una notizia di cui è bene entrare rapidamente in possesso perché i nostri apparati possano mettervi mano. Ma apprende anche che quella “notizia” ha già avuto una valutazione politica di massimo livello.
Il resto, è noto. Tra la notte del 28 e il pomeriggio del 31 maggio (quando la Shalabayeva e sua figlia salgono sull’aereo che le trasferisce ad Astana), i diplomatici kazaki si possono accampare al Viminale e farla da padroni con i vertici del Dipartimento di pubblica sicurezza e con l’Ufficio stranieri della Questura proprio perché forti della benedizione di Alfano. Il ministro cui Procaccini riferirà già il 29 maggio mattina, ma che per un mese e mezzo mentirà al Parlamento e all’opinione pubblica sostenendo il contrario («Ablyazov? Non sapevo. Nessuno mi riferì nulla»). Una menzogna di cui ora il Pd sembra voler tornare a chiedere conto. «Alfano devechiarimenti veri».

Il Sole 24 Ore 14.1.14
Il giallo kazako. Il prefetto Procaccini ribadisce ai Pm le accuse nei confronti del titolare dell'Interno
Caso Ablyazov: «Alfano sapeva»
di Ivan Cimmarusti


La Procura di Roma fa luce sul ruolo del vice presidente del Consiglio, e ministro dell'Interno, nell'affaire Ablyazov. È durata due ore l'audizione dell'ex capo di gabinetto al Viminale, Giuseppe Procaccini: «Angelino Alfano sapeva della necessità per i kazaki di rintracciare Mukhtar Ablyazov ma non sapeva che la vicenda avrebbe potuto coinvolgere la moglie Alma Shalabayeva e la figlia di 6 anni», entrambe rimpatriate lo scorso 31 maggio.
L'inchiesta del sostituto procuratore Eugenio Albamonte si arricchisce di un nuovo dettaglio, che va a inserirsi in una ricostruzione che sta cercando di chiarire i fatti. Ad oggi gli accertamenti riguardano due diversi filoni investigativi: da una parte l'iscrizione nel registro degli indagati della Shalabayeva, accusata di falso e ricettazione (in riferimento a un passaporto falso), dall'altra sono indagati tre alti diplomatici kazaki: l'ambasciatore in Italia Adriana Yelemessov, il consigliere per affari politici Nurlan Khassen e l'addetto agli affari consolari Yerzhan Yessirkepov. Per loro le accuse sono di concorso in sequestro di persona aggravato e ricettazione, così come emerge da una dettagliata denuncia presentata all'Autorità giudiziaria dalla figlia maggiore di Ablyazov, Madina, difesa dal professor Astolfo Di Amato. Secondo quanto esposto ai magistrati, ci sarebbe stata una sorta di «accordo sotto banco» per rimpatriare la Shalabayeva con lo scopo di un supposto ricatto delle autorità kazake ad Ablyazov. In tutto questo, dunque, ci sarebbe stato il concorso nel reato anche di funzionari del ministero dell'Interno e della Questura di Roma. Tuttavia c'è da dire che se pur l'intera vicenda presenta delle zona d'ombra sulle operazioni compiute dalle autorità – come tra l'altro emerge da una informativa agli atti dell'inchiesta datata 3 giugno – su impulso dei diplomatici kazaki, Ablyazov risulta essere un soggetto abbastanza enigmatico. L'uomo è in carcere in Francia, e presto sarà estradato per reati finanziari compiuti in Ucraina. Secondo quanto accertato anche dalle autorità britanniche, ha compiuto illeciti nella gestione della Banca Turan Alem, nota come Bta. Le accuse si basano su una ipotizzata sottrazione di 5 miliardi di dollari, che Ablyazov ritiene essere false. Dalla denuncia della figlia, infatti, emerge che «il mandato di cattura emesso dalla Repubblica dell'Ucraina» ed eseguito in Francia «ha carattere politico atteso lo stretto collegamento oggi esistente tra l'Ucraina ed il Kazakhstan». L'Italia, sempre a detta dei denuncianti, avrebbe prestato il fianco a queste operazioni «di carattere politico». Il pm Albamonte, comunque, ha già ascoltato diversi alti funzionari del Viminale e, per fine mese, raccoglierà la testimonianza della Shalabayeva.

il Fatto 14.1.14
Shalabayeva, Procaccini salva ancora Alfano
Caso Abyazov. L’ex prefetto ai Pm


È durato due ore l’interrogatorio di Giuseppe Procaccini, l’ex capo di gabinetto del ministro dell’Interno Angelino Alfano, che ieri è stato sentito dai pm come persona informata sui fatti. Procaccini è anche l’unico che, dopo lo scoppio di quello che è stato definito il “caso kazako”, ha rassegnato le proprie dimissioni. Come aveva anche anticipato in un’intervista a Il Fatto del 28 dicembre scorso (seguita da un’altra intervista a Repubblica), Procaccini anche al pm Eugenio Albamonte ha riferito che “Alfano sapeva che i kazaki erano alla ricerca del dissidente Mukhtar Ablyazov (oggi detenuto in Francia), ma non conosceva le vicende della moglie Alma Shalabayeva e della figlia Alua”. Si riferisce al blitz effettuato nella casa di Casal Palocco nel giugno scorso. Quella notte alcuni agenti entrarono nell’appartamento e prelevarono la donna con la figlia per poi farle rimpatriare in Kazakistan. Procaccini racconta di aver ricevuto, alle 9:30 di sera, l’ambasciatore kazako nei propri uffici. “È sicuramente un’anomalia – aveva detto l’ex prefetto al Fatto – Ma è un’anomalia relativa perché prima era stato negli uffici della Polizia”. La visita dell’ambasciatore però quel giorno è stata preceduta dalla telefonata del ministro dell’interno al capo di gabinetto che “mi disse ‘io non so come fare, c’è l'ambasciatore kazako che mi vuole vedere per una vicenda che può interessare, per la sua pericolosità, la pubblica sicurezza’. Il ministro mi disse di riceverlo ma non mi parlò di Ablyazov”. Oltre a Procaccini, anche altri funzionari e dirigenti che hanno ricostruito il giorno del blitz sono stati sentiti in procura.

Il Sole 24 Ore 14.1.14
Le maggiorazioni per insegnanti e Ata finanziate riducendo il fondo per l'offerta formativa
Scatti «pagati» dagli studenti
Un decreto legge annullerà la richiesta di restituire gli arretrati
di Claudio Tucci


ROMA. Il governo conferma che le buste paga di gennaio dei circa 43mila docenti e Ata (il personale amministrativo) che nel 2013 hanno ricevuto in media 700 euro di aumento legati agli "scatti d'anzianità" non subiranno decurtazioni.
In pratica, nel cedolino che arriverà nei prossimi giorni, ci sarà la trattenuta fino a un massimo di 150 euro lordi (come chiesto da una nota del Mef di fine dicembre in ossequio al Dpr 122 del 2013). Ma dopo l'accordo politico siglato a palazzo Chigi lo scorso 8 gennaio, davanti al premier, Enrico Letta, sono arrivate le istruzioni operative concordate tra Mef e Miur. L'attività di recupero delle somme "indebitamente percepite" è stata sospesa e l'importo sottratto verrà rimborsato (probabilmente direttamente nello stesso cedolino) e in ogni caso, spiega una nota diffusa ieri da palazzo Chigi, «con esigibilità contestuale a quella dello stipendio ordinario in pagamento nel mese di gennaio 2014». In questo modo, le buste paga non subiranno tagli. Ma sarà necessario anche un intervento normativo per sterilizzare la richiesta di restituzione (fino a un massimo di 150 euro mensili) effettuata dal Mef in forza del Dpr 122.
Di questo si occuperà il prossimo consiglio dei ministri, sul cui tavolo arriverà un decreto legge che renderà da subito utile lo scatto 2012 che andrà a compensare il mancato prelievo effettuato sulle buste paga di docenti e Ata "scattati" nel 2013. Considerato che chi ha percepito lo scatto nel 2013 lo ha fatto con un anno di ritardo visto il blocco degli scatti d'anzianità 2012.
La procedura per lo sblocco degli scatti è contenuta nel Dl 78 del 2010 (sono già stati recuperati gli anni 2010 e 2011), e ora il decreto legge allo studio del governo definirà quella per il 2012 individuando le risorse che andranno a finanziare l'operazione. Che in prevalenza arriveranno dal «Mof», il fondo per il miglioramento dell'offerta formativa a vantaggio degli studenti.
L'utilità 2012, spiegano fonti del Miur, costa circa 120 milioni di euro nel solo 2012, e dal 2013 circa 380 milioni, con una curva poi decrescente con il passare degli anni. Per pagare i 120 milioni del solo 2012 il Miur utilizzerà le risorse del fondo per la valorizzazione della scuola, nel quale sono confluiti i risparmi (30%) derivanti dai tagli alla scuola inaugurati dagli ex ministri, Gelmini-Tremonti. Mentre gli altri 380 milioni saranno coperti, come detto, da un nuovo taglio al «Mof», non riuscendosi a trovare nell'immediato, all'interno del bilancio del Miur, altre risorse da utilizzare. Spetterà poi a un atto di indirizzo (che Maria Chiara Carrozza ha già inviato a Mef e Funzione pubblica), e alla successiva contrattazione all'Aran con i sindacati, indicare nel dettaglio le singole voci del «Mof» da decurtare.
La strada di ridurre il «Mof», a danno quindi delle attività per gli studenti per pagare gli scatti d'anzianità al personale, è stata già "battuta" per recuperare lo scatto 2011. Anche lì si decisero di tagliare 380 milioni.

Corriere 14.1.14
Di Girolamo-Boccia
Amore, carriere e gaffe della coppia di larghe intese Nunzia e Francesco, due vite di successo fino agli ultimi mesi, per entrambi difficili
di Fabrizio Roncone


Sembra ieri (primavera 2009).
L’economista mite ed elegante infilzò con la forchetta due ziti di Gragnano (simili a bucatini, ma più corti e con un diametro maggiore) e rimase a bocca aperta, letteralmente.
«Ma... Ma quanto peperoncino ci hai messo?».
Lei, già nota su Dagospia come «nostra regina del Sannio», deputata del Pdl con ambizioni sfrenate, aprì un sorriso carnoso dei suoi. «E su... ué, come fai...». L’aveva conquistato. Ora non restava che passare alla fase due: avvertire il capo, Silvio Berlusconi.
Davvero, sembra ieri.
Il Cavaliere, sulle prime, si infuriò. «Come sarebbe che vuoi fidanzarti con Boccia? E poi, Nunzia, scusa: chi sarebbe questo Boccia?» (è opportuno ricordare che il Cavaliere a lei, Nunzia De Girolamo, e a un’altra giovane parlamentare, Gabriella Giammanco, spediva biglietti galanti durante le sedute parlamentari).
La De Girolamo spiegò che questo Boccia era un deputato del Pd molto in carriera, con un storia d’amore appena finita e già padre di due figli, un tipo comunque molto serio, un ex democristiano poi prodiano, quindi lettiano, il rampollo d’una famiglia di Bisceglie che aveva girato il mondo, master alla Bocconi e quadriennio alla London School, soggiorno negli Usa e poi sì, certo, pure due tragiche tornate elettorali in Puglia (2005 e 2010), sempre sconfitto da Nichi Vendola nelle urne delle primarie ma non nello spirito rampante: infatti l’aveva conosciuto a VeDrò, una specie di club fondato da Enrico Letta per far amalgamare le giovani speranze della politica italiana.
Si erano piaciuti. Poi lei gli aveva preparato quel piatto di ziti. Baci segreti, in Transatlantico giochi di sguardi, l’annuncio ufficiale affidato al settimanale Chi . Si sposarono, in municipio, il 23 dicembre del 2011. Il 9 giugno dell’anno successivo nacque Gea.
Un amore veloce, subito nell’immaginario collettivo proprio perché così perfettamente meticcio, se le larghe intese potevano funzionare in amore, figuriamoci a Palazzo Chigi. Dove però alla fine arriva lei: le affidano il dicastero delle Politiche agricole, mentre lui resta a Montecitorio, presidente della Commissione Bilancio.
Una coppia di successo. Per un po’. Poi succedono un sacco di cose.
Lui, che alla tivù appare pacato, misurato, su Twitter si trasforma. Se gli interlocutori osano criticarlo, va fuori come un balcone. «Se non sei d’accordo con me, fatti eleggere e poi ne riparliamo», «Vai... vai a lavorare», «Fai ridere... coniglio». Nel giugno scorso, il capolavoro. Mentre si discute sull’acquisto degli F35 — che lui, Boccia, caldeggia — risponde a qualche cinguettìo pacifista scrivendo: «In sostanza non si tratta di fare guerre, con gli elicotteri si spengono incendi, trasportano malati, salvano vite umane #F35». Per capirci: Boccia è convinto che gli F35 siano elicotteri e non cacciabombardieri.
Non basta: politicamente sembra subire il fascino di Renzi; e così ammicca, dichiara, e tutto questo non piace a Enrico Letta, che i suoi, di solito, li preferisce allineati e prudenti.
Un certo tormento politico, contemporaneamente, assale anche lei, la moglie Nunzia. Che, dopo essere stata a lungo una fedele berluscones (la leggenda racconta che conobbe il Cavaliere a Napoli, durante un comizio, dopo avergli lanciato sul palco un orsacchiotto) decide di uscire dal cerchio magico di palazzo Grazioli (Francesca Pascale l’aveva ammessa) e di seguire Angelino Alfano, mantenendo così la poltrona di ministro (nonostante gli animalisti non perdano occasione per ricordare che la responsabile del dicastero delle Politiche forestali, una volta, ospite di Michele Santoro, sostenne che le lontre sono uccelli).
Meno male che, a un certo punto, arriva il Natale. La famigliola decide di andarlo a trascorrere alle Maldive. Al diavolo il tragico momento economico che vivono milioni di italiani: certe volte una bella vacanza è proprio quello che ci vuole. Sole a picco e tuffi, le squisite grigliate di un magnifico resort, le partite di pallavolo, Boccia che smette di twittare con il mondo ostile, la De Girolamo che s’abbronza, la piccola Gea che gioca sulla spiaggia bianca.
Speriamo, pensano Nunzia e Francesco, che il nuovo anno sia un buon anno. Ma sì, certo, bisogna essere ottimisti: auguri, cin cin!
Tornano.
Purtroppo un cronista del Fatto non è andato in vacanza. Ha lavorato. Ha trovato quelle che, in gergo, chiamiamo «carte». Il racconto di intercettazioni carpite a casa del padre di lei, della De Girolamo, a Benevento. Riunioni per decidere affari e appalti della locale Asl e del 118. Lei usa toni forti, volgari. Al Corriere dichiara: «Quanto perbenismo... a casa mia, io faccio quello che mi pare».
Lui, il Boccia, adesso, in un lancio dell’agenzia Ansa , non la chiama più Nunzia, non chiama per nome sua moglie. Dice solo: «Il ministro spiegherà» (secondo alcune fonti, sarebbe furibondo anche perché avrebbe appreso solo dai giornali che lo storico fidanzato di Nunzia, Antonio Tozzi, è stato da poco nominato direttore generale della Sian — il sistema informativo usato da Stato e Regioni in materia di agricoltura — con uno stipendio di 175 mila euro l’anno, più benefit).

La Stampa 14.1.14
Marijuana libera
Torino è la prima in Italia a dire sì
L’ordine del giorno passa per due voti, astenuto Fassino
di Emanuela Minucci, Andrea Rossi

qui

Corriere 14.1.14
Giappone e Italia
La pacificazione nazionale dopo la fine di una guerra civile
risponde Sergio Romano


A PACIFICAZIONE NAZIONALE DOPO LA FINE DI UNA GUERRA CIVILE Il 31 dicembre 2013 un lettore e ha scritto circa il Santuario di Yasukumi ma anche lamentando che «in Italia a più di 60 anni dalla fine dell’ultima guerra mondiale ancora distinguiamo fra morti di serie A e quelli dalla parte sbagliata». Lei ha esaurientemente commentato il caso dei caduti giapponesi senza però far manco cenno alla discriminazione dei nostri: lo ritiene forse un soggetto tabù?
Luciano Manara

Caro Manara,
Se lei pensa ai caduti della Repubblica sociale fra il settembre del 1943 e la fine della guerra, l’argomento merita una risposta separata. Per trattare il tema della pacificazione nazionale dopo una guerra civile, vale forse la pena di dare un’occhiata alla Spagna dove il sangue versato e l’orrore delle vendette furono incomparabilmente maggiori. La soluzione proposta da Francisco Franco, dopo la sua vittoria, fu la costruzione di un grande sacrario accanto a un’abbazia benedettina sulle colline della Sierra di Guadarrama, non lontano dall’Escorial e dalla capitale. Il luogo si sarebbe chiamato la Valle de los Caidos (valle dei caduti) e la sua costruzione sarebbe stata un atto nazionale di pentimento e riconciliazione.
I lavori cominciarono nel 1940, terminarono alla fine degli anni Cinquanta e l’intera area, dove sono sepolte 40.000 persone, è tuttora uno dei luoghi più visitati della Spagna. Ma non piacque mai all’opinione pubblica repubblicana e non ebbe quindi l’effetto annunciato da Franco. Per molte ragioni. In primo luogo i costruttori impiegarono un certo numero di prigionieri repubblicani che ottenevano in tal modo la riduzione della pena: un impiego che a molti sembrò rientrare nella categoria dei «lavori forzati». In secondo luogo le sole persone sepolte all’interno della basilica sono Francisco Franco e José Antonio Primo de Rivera, fondatore della Falange. In terzo luogo è divenuto sin dagli inizi, ed è tuttora, un tradizionale luogo d’incontro per i nostalgici del regime franchista. In quarto luogo è un edificio religioso affidato alla cura dei benedettini e poco gradito quindi alla componente laica e anti-clericale della società spagnola.
All’epoca del governo socialista di José Luiz Rodriguez Zapatero vi furono parecchi tentativi per chiudere la Basilica o trasferire altrove la tomba di Franco. Con il ritorno al potere del Partito popolare e la formazione del governo di Mariano Rajoy, il pendolo è tornato a oscillare nell’altra direzione. In ultima analisi la Valle de los Caidos ha avuto il paradossale effetto di mantenere in vita le divisioni della guerra civile. Aggiungo, caro Manara, che l’era dei grandi sacrari, come quelli di Asiago e Redipuglia dopo la fine della Grande guerra, mi sembra finita. Forse il miglior modo per affrontare il tema della guerra civile italiana è quello di lasciarlo a quegli storici che sanno raccontare la vicenda con maggiore distacco, senza partigianerie emotive e simpatie ideologiche.

il Fatto 14.1.14
Sepolto Sharon con raid su Gaza resta il massacro di Sabra e Shatila
Due razzi dai territori palestinesi. Risposta dell’esercito nel giorno dell’addio
di Roberta Zunini


La terra polverosa del deserto del Negev copre da ieri le spoglie di Ariel Sharon, ma non la sua macchia. Quella resterà indelebile, perché non risiedeva nel corpo ma nell’anima del contadino-generale-statista. E pertanto continuerà ad aleggiare come un cupo spettro sulla coscienza collettiva e a provocare incubi nelle notti spezzate dei sopravvissuti al massacro di Sabra e Shatila. Oltre a turbare quegli ebrei israeliani che, subito dopo la strage, nel settembre del 1982, scesero in piazza per chiedere le dimissioni del generale, allora ministro della Difesa. Se l’inevitabile ritiro da Gaza e otto anni di coma hanno cancellato la memoria a tanti, compresi i leader mondiali, non solo israeliani, questo non è accaduto al parlamento europeo dove ad Ariel è stato negato il minuto di silenzio.
IL PRESIDENTE Martin Schulz ha respinto la richiesta presentata – in apertura della sessione plenaria – dall’olandese Laurence Stassen, esponente del partito xenofobo, razzista e anti-islam Pvv, appoggiando invece l’obiezione del deputato ceco Richard Falbr. Il socialdemocratico ha contestato la richiesta della Stassen chiedendo: “Vogliamo davvero tenere un minuto di silenzio per Sharon, responsabile della morte di decine di migliaia di palestinesi? ”. Per quanto riguarda la strage nel campo profughi palestinese di Sabra e Shatila, a Beirut, la sua responsabilità non fu diretta ma indiretta. Che, in quel caso, però fu quasi peggio. Perché Sharon aveva il compito di tenere sotto controllo il campo, custodirlo, invece ha dato l’ordine ai suoi soldati, appostati su una collinetta confinante, di accendere tutte le luci affinché Sabra e Shatila (in realtà erano lo stesso campo, sebbene molto vasto), solitamente buie, fossero illuminate al meglio per consentire ai falangisti cristiani di entrare e uscire facilmente e trucidare quante più persone possibile. Molti avevano cercato rifugio negli anfratti più nascosti ma furono scovati grazie alla potente illuminazione. Le immagini insopportabili di donne incinte sventrate, bambini sgozzati e vecchi fatti a pezzi, diffuse dalla stampa, generarono anche in Israele un’ondata di critiche e manifestazioni per quel generale-ministro dai modi gentili ma dall’animo spietato, che non aveva fatto nulla per fermare il massacro, anzi l’aveva appoggiato. Tanto che nel 1983 fu costituita una commissione d’inchiesta (Kahan Commission) i cui atti sono disponibili sul sito del ministero degli Esteri israeliano.
NEL CAPITOLO che riguarda le responsabilità israeliane si legge che “nonostante il Mossad non avesse avvisato delle intenzioni dei falangisti... a nostro avviso, anche in assenza di tale avviso, è impossibile giustificare il ministro della Difesa (Sharon, ndr) per il disprezzo del pericolo di un massacro. Non ripeteremo qui ciò che abbiamo già detto circa la conoscenza diffusa ‘dell’etica di combattimento dei falangisti’, il loro odio nei confronti dei palestinesi (...) Oltre a saperlo, il ministro della Difesa ha avuto anche relazioni speciali e non trascurabili con i responsabili falangisti ancora prima dell’assassinio di Bashir (Gemayel, il presidente falangista assassinato, ndr). Dare ai falangisti - si legge ancora - la possibilità di entrare nei campi profughi senza prendere misure per la supervisione delle loro azioni avrebbe creato un grave pericolo per la popolazione civile nei campi (...) Nelle circostanze che hanno prevalso dopo l’assassinio di Bashir, si era tenuti a sapere che esisteva il pericolo concreto di atti di macellazione quando i falangisti sono stati lasciati liberi di entrare nei campi (...) il senso di un tale pericolo avrebbe dovuto essere ben presente nella coscienza di chi conosceva la situazione e certamente nella coscienza del ministro della Difesa, che ha preso parte attiva in tutto ciò che riguarda la guerra... ”. L’anno scorso Il Fatto si recò a Sabra e Shatila per la commemorazione del trentesimo anniversario. C’erano uomini che piangevano ricordando i padri sgozzati davanti a loro bambini, aggrappati a madri impazzite dal dolore. Il numero dei morti è stato calcolato intorno ai 3500, quasi tutti civili. Molti corpi furono fatti sparire per far sembrare meno enorme il massacro.

Corriere 14.1.14
L’India ha sradicato la polio
Da tre anni nessun malato
Anche i musulmani hanno promosso la vaccinazione
di Cecilia Zecchinelli


Rushkar Khatoon, 18 mesi di vita e una dei tanti abitanti degli slum di Calcutta, un giorno fu trovata malata di poliomielite. Era il 13 gennaio 2011. Ora è guarita, anche se zoppica un po’, ed è diventata celebre. È stata l’ultimo caso diagnosticato nel subcontinente che negli anni 70 ne contava 300 mila ogni anno, che ancora nel 2009 dichiarava metà dei nuovi malati di polio del pianeta, e dove oggi almeno 3 milioni di persone soffrono per le conseguenze di quel male. Un successo indiscutibile per il Paese, che in questi giorni — ieri erano passati esattamente tre anni — sta celebrando l’eradicazione della malattia. Il prossimo mese arriverà l’annuncio ufficiale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms): in India la polio è sparita.
Il governo di New Delhi ha presentato questo risultato come una «svolta fondamentale», una «pietra miliare nella storia dell’India e del mondo intero». E almeno per una volta tutti sono d’accordo con le autorità. «Dobbiamo dare loro un credito immenso per quanto hanno fatto, siamo fieri di aver potuto contribuire a raggiungere questo incredibile obiettivo», ha commentato Nata Menabde, capo dell’Oms nel Paese. Anche perché non era affatto scontato. Anzi, a lungo gli esperti erano stati convinti che in India sarebbe stato quasi impossibile debellare quel virus in pochi anni, viste l’immensità del territorio, l’enorme popolazione, e la diffusa miseria accompagnata da insufficienti condizioni igieniche soprattutto per l’acqua, con cui si trasmette in genere il contagio. «L’India — ha detto Bill Gates, aggiungendosi alle tante voci di entusiasmo sincero — era il posto da cui si pensava fosse più difficile eliminare la poliomielite, è fenomenale quello che hanno fatto».
Il fondatore di Microsoft, oggi 58enne, ha raccontato che negli anni Ottanta iniziò a frequentare «quell’antico e affascinante Paese per piacere personale e per business», scoprendone però anche i lati oscuri. Come le bidonville fuori Bangalore, il polo dell’information technology nei cui uffici moderni i colleghi indiani di Gates negavano l’esistenza dei quartieri-ghetto ma che lui andò a visitare. E quando con la moglie Melinda creò la sua fondazione benefica, la lotta alla poliomielite fu una delle principali battaglie in cui investì impegno e denaro. Insieme alla Gates Foundation, si sono mossi l’Unicef, il Rotary, Ong locali e internazionali, oltre che ovviamente il governo indiano. Quest’ultimo dal 1995 ha speso 2,5 miliardi di dollari nella campagna, che ha visto ogni anno un esercito di 2,3 milioni di persone impegnate a vaccinare 175 milioni di bambini.
«Un ruolo fondamentale», ha raccontato il capo del programma Polio Plus del Rotary, Deepak Kapur, «è stato quello dei leader religiosi musulmani, che una volta convinti della necessità del programma di vaccinazioni hanno vinto le resistenze delle famiglie. Ogni venerdì in moschea se ne parlava e da quella più scettica la nostra comunità musulmana, che conta 180 milioni di persone ovvero il 14% della popolazione, è diventata la più attiva per promuovere il cambiamento». Storia ben diversa dal Pakistan, dove le recenti campagne anti-polio del governo sono fallite anche per le fatwa di molti imam integralisti, costando perfino la vita a numerosi «vaccinatori» uccisi in attentati.
La stessa resistenza esiste in altri Paesi musulmani dove alla falsa convinzione che l’Islam vieti i vaccini si aggiunge spesso la teoria del complotto, ovvero l’idea che l’Occidente in questo modo miri a sterilizzare i musulmani per impedire loro di riprodursi. Voci che trovano credito nelle società più misere e ignoranti, e non è un caso che ormai i soli tre Paesi del mondo in cui la poliomielite resta endemica siano il Pakistan e l’Afghanistan, in gran parte preda della «cultura talebana», nonché la Nigeria, terra dei Boko Haram.In altri Stati dove la malattia era stata debellata, o era presente sporadicamente, sono stati poi segnalati nuovi casi. Come in Siria, Somalia, Etiopia e Tajikistan: soprattutto i primi sono Paesi sconvolti dalla violenza dove tutto è a rischio o in preda al caos, compresi i programmi sanitari.
L’India invece si muove, nonostante i tanti problemi sociali e politici acuiti dall’imminenza delle elezioni di maggio, come sa bene anche la diplomazia italiana alle prese con il caso dei due marò. Debellato già il vaiolo, ora la prossima tappa è sconfiggere il morbillo che tra il 2000 e il 2011 ha portato ogni anno alla morte tra le 160 e le 550 mila persone.

La Stampa 14.1.14
Sesso e potere in Francia
La storia insegna che re e presidenti senza amanti non hanno fascino
di Alberto Mattioli


Alla fine, niente di nuovo. Collocato in una prospettiva storica, tutto il pur ghiotto feuilleton che ci viene servito dall’Eliseo sembra più la regola che l’eccezione. Gli amori di Hollande, i malori di Valérie, il trionfo della première amante Julie sono un copione già visto e rivisto nella storia francese. Non è la prima volta che alla testa dello Stato c’è qualcuno che la perde per una donna: i francesi ci sono abituati e sono indulgenti sui peccatucci privati di chi ha responsabilità pubbliche.
Un Re senza favorita è difficilmente concepibile e il fatto che ne sia piena anche la storia repubblicana è l’ennesima dimostrazione che la République è in realtà l’unica (e ultima) monarchia assoluta del mondo. Le scappatelle diventano rilevanti solo se l’amante in carica assume un ruolo politico, tipo madame de Maintenon con il Re Sole, la Pompadour con Luigi XV o la contessa di Castiglione con Napoleone III. Ma che il sovrano sfarfalleggi è dato per scontato. A LuigiXVI e a Luigi Filippo non fu mai perdonato, a parte tutto il resto, di essere mariti e padri esemplari e, colmo del ridicolo, pure innamorati delle loro mogli. Con la Repubblica non è cambiato nulla. Per limitarsi alla Quinta, tutti hanno ben presenti le avventure di Giscard, la figlia illegittima di Mitterrand, le «sparizioni» di Chirac (poco male, il vero Presidente era sua moglie), le tumultuose vicende di Sarkò fra Cécilia e Carlà. Nessuno invece ricorda il povero Félix Faure, a oggi l’unico Président morto all’Eliseo. Spirò il 16 febbraio 1899 ricevendo l’amante, Marguerite Steinheil detta «Meg», moglie di un pittore di battaglie opportunamente sommerso di commissioni pubbliche. Si disse che l’infarto fatale colpì Faure mentre gli veniva praticato un «exercise de fellation» da madame. Crudele l’epitaffio di Clemenceau: «Voleva essere Cesare, non fu che Pompeo» (e poi, altra stoccata: «Entrando nel Nulla, ha dovuto sentirsi a casa»).
Però già allora la Francia spettegolò ma senza scandalizzarsi. Di fronte a questi vaudeville nelle stanze da letto del potere, la reazione è più divertita che indignata. Non siamo negli Stati Uniti: qui un paio di corna sono un dramma solo per chi le porta. Con il 70% dei francesi che ammette di averle messe almeno una volta al partner e il 77 che dice che l’«affaire» è solo un affare privato di Hollande, può anche darsi che tutta questa vicenda rafforzi il vivace Presidente invece di danneggiarlo. Anche perché, a differenza sua, su Valérie l’opinione pubblica è unanime: sta antipatica a tutti.

La Stampa 14.1.14
Ma come fa?
di Massimo Gramellini


Chiedo scusa per la futilità dell’argomento, ma i traffici sentimentali del presidente Hollande (pronuncia: Olaond, con bocca storpiata in una smorfia parigina di fastidio) suscitano in noi, maschi banali e insensibili alle grandi questioni geopolitiche, una vibrante e insopprimibile curiosità: come fa? Come fa, dico, un ometto dal viso di meringa occhialuta a saziare e straziare legioni di cuori femminili? E non si sta parlando di suffragette libro-repellenti, incantabili da una collana di lapislazzuli o dal miraggio di una scodinzolata in tv. Le donne che quel signore senza carisma – ogni volta che apre bocca sembra il vicepresidente di se stesso – è riuscito a sedurre vantano fascino e personalità da vendere, oltre che una dose ubriacante di puzza sotto il naso. Eppure la statista raffinata e la giornalista unghiuta hanno baccagliato come tigri al momento della sua incoronazione, una di loro è in ospedale a curare lo smacco del tradimento, mentre la favorita del momento – un’attrice, ma naturalmente un’attrice impegnata – si è battuta per lui in campagna elettorale. E questo per limitarsi alla lista di dominio pubblico.
Come fa? Le ipnotizza con il suo irresistibile sguardo da sogliola alla mugnaia? O le conquista con uno di quei comizi che hanno fatto russare davanti alla televisione milioni di francesi? Al confronto Sarkozy è Johnny Depp. A proposito, non è che anche madama Bruni ha incontrato Hollande davanti a una tisana e... No, impossibile, e comunque non lo voglio sapere.

Corriere 14.1.14
Tutto torna a Ségolène. Ha presentato a Hollande entrambe le amanti
Trierweiler pazza di gelosia per la grande ex
di Stefano Montefiori


PARIGI — Al cuore di tutto c’è sempre Ségolène Royal, la donna che rispose «vada al diavolo» a chi le riferiva la voglia di ricucire di François Hollande (era il 2007), e che da allora resta sulla scena: per passione politica, e magari per godersi qualche rivalsa. Come accade in questi giorni, quando i francesi scherzano: «Hai visto? C’è una donna pazza di gioia che da tre giorni salta, balla e fa le piroette ridendo davanti all’Eliseo». «Ah, sì, è Ségolène».
Il peso della ex compagna nella vita di François Hollande era e resta decisivo, non solo perché è la madre dei suoi quattro figli o perché lo batté sul tempo rubandogli il posto di candidato all’Eliseo, due elezioni fa.
È stata Ségolène Royal a conoscere per prima sia la première dame Valérie Trierweiler, sia l’amante Julie Gayet. E fu lei, la compagna storica, a fare entrare nella vita di François Hollande entrambe le donne che oggi turbano l’Eliseo, e costringono il presidente a spendere il grosso delle energie non a spiegare la nuova politica economica ma a eludere domande su motorino, casco, croissant e appartamento legato alla malavita còrsa.
La storia di come Trierweiler e Gayet arrivano — tramite Royal — al futuro presidente della Repubblica mostra tra l’altro che la distinzione tra pubblico e privato, in Francia più che altrove, vale a momenti alterni, quando fa comodo.
Nell’estate 1992 l’allora inviata politica di Paris Match che si chiama ancora Valérie Massonneau firma, con la collega Catherine Tabouis, un’intervista senza precedenti a Ségolène Royal, ministra dell’Ambiente del governo Bérégovoy, dalla maternità dell’ospedale Bégin de Saint-Mandé: da poche ore Ségolène ha dato alla luce Flora Hollande, la sua quarta figlia, e già si fa fotografare con il neonato in braccio. A quanti la accusano di rinunciare a un momento così intimo per un po’ di popolarità in più Royal risponde — senza convincere granché — che quell’intervista e quelle foto nascono dall’esigenza politica di conciliare maternità e carriera.
In quell’occasione comunque la giovane Valérie ha modo di conoscere la coppia Royal-Hollande, comincia a frequentarli assiduamente fino a diventare amica di entrambi e poi amante di lui. Ma è Royal infine a cacciare di casa Hollande, che non sapeva decidersi: resterà sempre una presenza ingombrante, perché Hollande in più occasioni mostra di non averla dimenticata.
È così che Valérie Trierweiler sviluppa una vera ossessione per Royal: in altre situazioni sarebbe un dato psicologico privato, ma ha conseguenze sulla condotta politica, pubblica, di Hollande. Per rassicurarla e placare la sua gelosia, nell’ottobre 2007 Hollande ufficializza la nuova relazione con Trierweiler rilasciando una sorprendente intervista al settimanale di gossip Gala , dal titolo «Valérie è la donna della mia vita». Un passo falso che risulterà poi fatale, oggi che il presidente finge di inorridire per la violazione della privacy commessa da Closer .
E poi il comizio di Nantes, quando mezzo apparato del partito agli ordini di Trierweiler sposta mille volte gli orari per non fare incontrare Hollande e Royal; l’ingiunzione di Trierweiler — «Adesso baciami sulla bocca» — vista da tutta la Francia in diretta tv a Hollande che ha appena baciato sulla guancia Royal, sul palco della festa per la vittoria, fino al famoso tweet di Trierweiler che un anno e mezzo fa è costato al presidente la prima figuraccia internazionale. Tutto per Ségolène.
Ora Valérie Trierweiler è in ospedale, dopo avere visto le foto della relazione tra Hollande e l’attrice Julie Gayet. Figlia del grande medico Brice Gayet, militante socialista, Julie si accosta al partito durante la campagna elettorale del 2007, quando Royal si fa sconfiggere — con onore — da Sarkozy. E chi introduce la ragazza nell’entourage di Hollande, segretario del partito e futuro presidente? Sempre lei, Ségolène. Che oggi dedica allo scandalo dell’Eliseo poche parole, di perfida eleganza: «È il momento di voltare pagina».

Corriere 14.1.14
Qual è stato il vero errore di Hollande
di Jean-Marie Colombani


I presidenti francesi non sono stati, e non sono mai voluti essere, modelli di virtù. Ma le loro storie di alcova costituiscono un handicap politico? No, perché in Francia non domina il puritanesimo all’anglosassone. Su Hollande, però, l’opposizione farà di tutto per sfruttare la vicenda.
Il «Love Affair» attribuito a François Hollande, la sua presunta relazione con Julie Gayet, attrice e produttrice di cinema, ci offrono una bella sintesi del livello zero raggiunto dal dibattito politico in Francia.
La Storia innanzitutto, subito invocata. Come hanno fatto notare tutti i giornali, a cominciare dal Financial Times , i presidenti francesi non sono stati, e non sono mai voluti essere, modelli di virtù. Il «Love Affair» va dunque letto nel rispetto della tradizione — il presidente Félix Faure, nella Terza Repubblica, era morto fra le braccia della sua amante e, prima di lui, la vita sessuale di Napoleone III non aveva nulla da invidiare a quella di Dominique Strauss-Kahn — o come una conseguenza del Maggio 1968 e della liberazione dei costumi che ha accompagnato tale movimento? Fatto sta che la serie (nel senso quasi televisivo del termine) comincia con Valéry Giscard d’Estaing. Colui che un giorno disse a François Mitterrand: «Non divorzi mai!» in effetti non divorziò mai. Ma è rimasto celebre per le sue relazioni extraconiugali, scoperte in occasione di un incidente stradale all’«ora delle consegne del lattaio». Stesso debole per le donne lo troviamo in Jacques Chirac, ma il segreto fu ben custodito. Finché ci è stato recentemente spiegato che, nell’atteggiamento della moglie Bernadette, covava una voglia di rivincita. François Mitterrand aveva oltrepassato tutti i limiti poiché, nel massimo segreto, manteneva contemporaneamente due famiglie: una ufficiale, con la première dame , Danielle Mitterrand, e l’altra clandestina, con la madre di sua figlia Mazarine.
Le fortune/sfortune di Nicolas Sarkozy, invece, furono svelate ai quattro venti. Certo non tutte, ma l’abbandono da parte della moglie Cécilia, il fatto che quest’ultima non avesse votato al secondo turno delle presidenziali, infine l’idillio e il matrimonio con Carla Bruni, sì. L’idea del matrimonio, secondo Nicolas Sarkozy, era indissociabile dalla funzione presidenziale. Così, quando passava in rassegna gli avversari che avrebbe potuto affrontare nel 2012, scartava Laurent Fabius perché questi, diceva, aveva divorziato e non si era risposato.
La concezione di François Hollande è all’opposto. Ha vissuto quasi trent’anni con Ségolène Royal, con la quale ha avuto quattro figli, senza porsi il problema del matrimonio, così come con Valérie Trierweiler. O con Julie Gayet, se dovesse diventare la sua nuova compagna. E’ una scelta di vita assunta giorno dopo giorno in modo libero.
Parliamo infine dell’impatto politico. Tutte queste storie di alcova costituiscono un handicap politico? No, perché siamo in Francia e il puritanesimo all’anglosassone non è cultura dominante. Tuttavia, in una certa misura, anche sì.
I francesi considerano che i loro presidenti hanno diritto a una vita privata. Come per Nicolas Sarkozy, circa otto francesi su dieci ritengono che la vita privata di François Hollande riguardi soltanto lui. A Sarkozy veniva rinfacciata una frase pronunciata durante una conferenza stampa: «Con Carla è una cosa seria». Il che non era apparso molto serio...
Con François Hollande, il male è più insidioso. Gli si rimprovera spesso di essere indeciso, di avere un atteggiamento «vago» (l’espressione è di Martine Aubry). Ed ecco che, nella sua vita privata, proprio la «vaghezza», l’indecisione prevarrebbero. Hollande potrebbe cioè mantenere per Valérie Trierweiler la posizione di première dame , pur non vivendo più con lei. Qui l’immagine privata può sovrapporsi all’immagine pubblica.
Possiamo esserne certi, da parte dell’opposizione come dei mass media, sarà fatto di tutto per sfruttare politicamente questa vicenda. La storia è cominciata parecchie settimane fa nei circoli sarkozisti che interpellavano i giornalisti per aver la certezza che le voci di tale relazione venissero diffuse. L’obiettivo politico è stato formulato da Jean-François Copé, segretario generale dell’Ump, che ha giudicato l’episodio «disastroso», adducendo a pretesto che la vicenda offrirebbe all’estero un’immagine negativa della Francia.
La stampa non è da meno: ai commenti molto misurati degli editorialisti e alla prudenza cui sono chiamati lettori, ascoltatori o telespettatori, bisogna opporre lo spazio che la stessa stampa accorda a quello che è ben presto diventato un feuilleton . Con l’entusiasmo di sempre. Per esempio: si è parlato, senza verifiche, di un appartamento, prestato a Julie Gayet per incontrare il presidente, che apparterrebbe a un membro della mafia còrsa. Di qui, l’equazione rapidamente promossa: Hollande = vicinanza alla mafia. Senza curarsi delle proteste sollevate dal vero proprietario dell’appartamento...
Si dirà, con ragione: è il mestiere della stampa scandalistica quello di cercare, di mettere in evidenza qualsiasi argomento un po’ piccante. Con una sfumatura: la direttrice di Closer si è giustificata spiegando che si trattava, da un anno almeno, di un «segreto di pulcinella». Ma allora, perché non averne parlato quando questa relazione non fosse stata più un segreto, secondo quella che dovrebbe essere la regola? Perché scegliere proprio i giorni precedenti la conferenza stampa di inizio anno del presidente?
La mia reazione è stata: se non resta che una faccenda come questa per attaccare Hollande, significa voler impedire un clima migliore per lui. Migliore? Un messaggio di auguri coerente e stavolta convincente: due francesi su tre hanno approvato la volontà del presidente di stringere con gli imprenditori un «patto di responsabilità». La ripresa, che Hollande era stato l’unico ad annunciare, fa ormai parte delle previsioni dell’Ocse come della Banca di Francia. La curva della disoccupazione? In effetti dovrebbe, se pur di poco, confermare un inizio di inversione con le cifre di dicembre 2013. L’opposizione? Da quando Nicolas Sarkozy ha deciso di impegnarsi di nuovo in prima persona, è sempre più presa nelle sue liti interne. Insomma, il momento è stato scelto bene!
Ma, più seriamente, le domande che occorre porsi riguardano la sicurezza del presidente. Come mai i poliziotti incaricati di proteggerlo non sono stati messi in guardia, o non l’hanno messo in guardia, sul pedinamento di cui era oggetto? Infatti, se al posto delle macchine fotografiche ci fossero stati fucili di precisione, cosa sarebbe successo? Nel Partito socialista c’è chi non è lontano dal condividere quanto scritto dal celebre giornale satirico Le Canard Enchainé , che qualche giorno fa spiegava fino a che punto il ministero dell’Interno e la polizia fossero ancora nelle mani di fedeli di Nicolas Sarkozy. Questo potrebbe spiegare perché François Hollande sia stato tenuto all’oscuro della caccia di cui era oggetto. François Mitterrand aveva come abitudine, ogni giorno o quasi, di camminare una o due ore per le strade di Parigi, accompagnato semplicemente da un amico. Ma mai, salvo alcune foto autorizzate, la sua protezione è stata colta in fallo. Comunque, questa situazione riflette l’imprudenza del presidente. Il quale, a dir la verità, commette lo stesso errore del suo predecessore: Nicolas Sarkozy ha voluto imprimere alla presidenza uno stile molto personale, là dove i francesi si aspettavano una maggiore solennità.
François Hollande vorrebbe essere un presidente «normale». Ma i francesi non vogliono questa normalità, che non rientra nella natura del suo ruolo. Dovrà quindi adattarsi meglio all’idea di essere, ad ogni ora del giorno e della notte, il presidente della Repubblica. Nello stesso tempo, difficile non vedere che, nel momento in cui certi media pretendono di esercitare una polizia del pensiero, l’informazione scandalistica minaccia i nostri dirigenti. E dunque un giorno potrebbe minacciare noi stessi con una polizia dei costumi che non sarebbe accettabile.
(traduzione di Daniela Maggioni)

Repubblica 14.1.14
Cina, Giappone e le due Coree scelgono leader nazionalisti. E riparte il riarmo che fa tremare l’Occidente
Si rischia una nuova “guerra dell’Asia”
Est contro Est
di Giampaolo Visetti


PECHINO A quasi settant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, sale l’allarme per un conflitto che può riaccendersi là dove si è tragicamente spento. L’Asia è sempre meno pacifica e cresce la preoccupazione per un accumulo senza precedenti di eserciti e di armi di ultima generazione nella regione del pianeta che registra la più sostenuta crescita economica. Mai come oggi si concentrano in Estremo Oriente scontri politici e commerciali, provocazioni tra Stati e contrapposte rivendicazioni territoriali. A moltiplicare il rischio di una nuova “guerra dell’Asia”, la concomitante ascesa al potere di quattro leader nelle potenze cruciali dell’area. In poco più di un anno, tra le fine del 2011 e il marzo 2013, Cina, Giappone, Corea del Sud e Corea del Nord hanno cambiato la propria guida, affidandosi a esponenti conservatori, espressi da forze di destra sempre più nazionaliste, militariste e costrette a fare leva su richiami patriottici e xenofobi. La tendenza, mentre in marzo sono attese cruciali elezioni in India, spaventa sia l’Occidente che gli altri Paesi del Pacifico: a Pechino, Tokyo, Seul e Pyongyang il potere si centralizza sempre di più, diventa ancora più personale, ponendo direttamente nelle mani di pochi leader il destino di poco meno della metà della popolazione e della ricchezza mondiali.
Gli istituti di ricerca hanno già delineato lo spettro del secolo: un pianeta in balìa dei «cattivi maestri dell’Asia», convertiti al neo-autoritarismo nazionalista ispirato al presidente russo Vladimir Putin. La tesi è semplice: mentre le democrazie di Usa ed Europa assistono al declino economico delle potenze che hanno dominato gli ultimi due secoli, gli autoritarismi asiatici favorirebbero la crescita delle nazioni che si apprestano a rivoluzionare gli equilibri globali.
Profeta dei nuovi regimi post-comunisti e delle democrazie sempre più leaderistiche, l’ex spia dei servizi segreti sovietici che ha conquistato il Cremlino, ricostruendo la Russia dopo il crollo dell’Urss. Cancellerie e diplomatici parlano apertamente di “neo-putinismo”, per indicare «il virus che sta contagiando l’intera Asia». I suoi esponenti più influenti sarebbero oggi proprio i quattro leader che negli ultimi mesi hanno seminato scontri e tensioni nel Pacifico: il presidente cinese Xi Jinping, il premier giapponese Shinzo Abe, la presidente sudcoreana Park Geun-hye e il dittatore nordcoreano Kim Jong-un. Solo un anno fa, nonostante le crescenti tensioni, un vertice tra le figure che dominano l’Asia, oltre che necessario, sembrava imminente. Oggi è semplicemente impossibile: Xi Jinping e Shinzo Abe hanno scavato un solco di incomunicabilità, Abe e Park Geun-hye rifiutano di parlarsi, Kim Jong-un si è autorecluso oltre il 38° parallelo a colpi di epurazioni, minacce e atrocità. A far temere che un’Asia meno pacifica possa precipitare in una serie di scontri regionali cronici, se non in una guerra convenzionale, la personalità dei nuovi leader, gli equilibri politici interni e l’esplosione di conflitti antichi e contemporanei.
Il cinese Xi Jinping, vicino all’armata di liberazione del popolo per tradizione famigliare, si trova a governare la riconversione economica e la riforma politica più ambiziose della storia nazionale, nel momento in cui Pechino si appresta a riconquistare la testa del pianeta. L’ascesa della Cina spaventa gli Stati Uniti, potenza egemone dal Novecento, spiazza l’Europa, padrona dei secoli precedenti, attrae Africa e America Latina, ma sta facendo scattare un vero e proprio allarme tra i vicini dell’Asia. L’erede “americanizzato” di MaoZedong, in pochi mesi, ha sorpreso anche i più pessimisti. Dietro lo slogan delle “riforme”, Pechino ha lanciato la corsa al riarmo dell’esercito più numeroso del pianeta, forte di 2,4 milioni di effettivi, ha varato la prima portaerei atomica e ha aperto conflitti territoriali con tutti i Paesi confinanti, istituendo una nuova “zona di identificazione per la difesa aerea”. Il più pericoloso è quello con il Giappone per il controllo dell’arcipelago delle Senkaku-Diaoyu, dove più volte si è sfiorato l’incidente navale e aereo, fino a costringere gli Usa a riorientare nel Pacifico le forze dispiegate in Europa, Medio Oriente e Asia centrale. Il nuovo espansionismo economico, finanziario e commerciale della Cina, il suo bisogno di materie prime e il preteso monopolio delle terre rare, hanno riaperto però i fronti congelati dal declino dell’impero cinese, alla fine dell’Ottocento. Pechino, nel nome del nazionalismo e del contrasto agli alleati degli Usa, si oppone oggi anche a Corea del Sud, Taiwan, Vietnam, Filippine, Indonesia e India, tracciando un lungo fronte di guerra che va dall’Himalaya al Mar cinese meridionale.
La svolta patriottica di Xi Jinping, costretto a ridimensionare i nostalgici della sinistra neo-maoista e gli interessi dei nuovi poteri privati, si scontra all’esterno con la destra nazionalista di Shinzo Abe, obbligato a ricostruire il Giappone sfibrato da deflazione, crollo demografico e addio al nucleare. Il premier di Tokyo, sostenuto da partiti di una destra sempre più xenofoba, per riaccendere la crescita pretende la revisione dei valori consolidati dalla fine della seconda guerra mondiale. Rallentamento dell’impoverimento nazionale in cambio di diritti: in pochi mesi ha fatto scoppiare lo scontro sulle isole con la Cina, ma pure con la Corea del Sud, ha fatto esplodere le spese militari, lanciato la revisione della Costituzione pacifista del 1945, sfrattato la base Usa di Okinawa e istituito un nuovo consiglio di sicurezza, sull’esempio di quello formato a novembre da Pechino, plasmato su quello ideato degli Stati Uniti nel 1947.
I neo-contrapposti Consigli di sicurezza di Giappone e Cina rispondono a un pericolo sempre meno escludibile: la possibilità dello scoppio improvviso, anche involontario, di incidenti armati tra la seconda e la terza economia del mondo, ormai obbligate a dare risposte in tempo reale ad ogni minima provocazione. Mentre in Cina spopolano i giochi elettronici rossi, in cui gli eroi buoni sono cinesi e i nemici cattivi sono giapponesi, Shinzo Abe il 26 dicembre ha ripetuto il pellegrinaggio nel santuario di Yasukuni, dove sono sepolti 14 criminali di guerra. I nazionalisti che appoggiano il premier, profeta dell’indebitamento pubblico senza fine per rilanciare l’economia privata, li considerano eroi della resistenza. Per Pechino e Seul sono invece carnefici del colonialismo giapponese del Novecento, copia asiatica dell’espansionismo della Germania nazista. La calcolata provocazione di Abe, campione della sindrome di un nuovo accerchiamento del SolLevante, ha fatto dimenticare ai giapponesi i primi fallimenti dell’Abenomics, aumentando il consenso verso l’addio al pacifismo di Stato. Il prezzo è però la rottura definitiva con la Cina, l’irrigidimento del gelo con la Corea del Sud e un’irritazione senza precedenti della Casa Bianca, spaventata dalla prospettiva di costi inutili nel Pacifico per arginare l’ascesa di Pechino.
La nuova leader di Seul, figlia dell’ex dittatore Park Chung-hee, assassinato nel 1979 su ordine di Pyongyang, si è vista così offrire l’opportunità di una nuova stretta autoritaria e militarista: in poche settimane, grazie alla minaccia ci-nese, alle provocazioni giapponesi per il possesso delle isole Dokdo-Takeshima e alla deriva del regime nordcoreano, ha ottenuto dal parlamento conservatore maggiori poteri, nuovi fondi per l’esercito, il via libera a una “zona di identificazione aerea” e altri 800 marines dagli Usa. Mai, da oltre un secolo, l’Asia è stata tanto forte economicamente, così forte militarmente, tanto scossa da scontri incrociati alimentati dal neo-nazionalismo e così spaventata dall’ascesa di una super-potenza come quella cinese.
E al centro dei conflitti, in un continente sprovvisto di istituzioni sovranazionali comuni, autorizzate a ricomporre le vertenze, resta la Corea del Nord del giovane Kim Jong-un. In un anno ha eliminato i consiglieri riformisti, assassinato avversari e parenti, umiliato Pechino e minacciato di bombardamenti atomici Tokyo, Seul e Washington. Pyongyang è dunque la cellula impazzita di un organismo in crisi, consapevole di dover un giorno affrontare diviso l’implosione del regime del Nord, eredità irrisolta della Guerra Fredda e nuova frontiera del confronto Cina-Usa. Mentre Barack Obama in aprile volerà a Tokyo, Pechino e Seul, il mondo teme così che l’Asia 2014 riproduca l’Europa 1914: analogie tra leader, economie, radicalismi, crisi, rivincite, tramonti, nazionalismi, corse alle armi, rancori alimentati dalle propagande. La speranza è di non trovarsi alla vigilia della nuova «grande guerra del secolo»: certo è che in Oriente la pace non guadagna terreno e che anche l’Occidente ormai pare rassegnato al massimo ad una «gestione sostenibile e presentabile di conflitti cronici e strategici».

Repubblica 14.1.14
“Nessuno vuole conflitti ma il pericolo è reale”
Parla Elizabeth Economy, esperta del Council on Foreign Relations
intervista di Paolo G. Brera


Il rischio è «un errore di calcolo dalle conseguenze disastrose ». Per Elizabeth C. Economy, direttore della sezione Asia delCouncil on foreign relations, prestigioso think-tank di politica estera, la tensione crescente in Asia sospinta dal nazionalismo e dall’aumento del budget militare è una minaccia aperta.
La situazione può degenerare?
«Nel Mar cinese orientale la tensione è sempre più elevata, e nessuna delle parti coinvolte è attualmente in grado di portare la Cina al tavolo negoziale. Il rischio di un errore di calcolo, di un incidente che porti a uno scontro è concreto, anche se non penso che possa derivarne una guerra. Nessuno dei protagonisti è realmente interessato a una guerra, semplicemente perché non avrebbe nulla da guadagnare».
La tensione sembra una strategia deliberata.
«Ritengo che non ci siano disegni di guerra dei leader coinvolti, ma persiste la possibilità di un incidente che esasperi la tensione crescente. In ogni caso non credo si arriverebbe a una vera guerra».
La disputa è territoriale, commerciale o politica?
«In questo momento è soprattutto territoriale, accesa dal nazionalismo contro cui nessuna delle due porti sta facendo abbastanza. La leadership giapponese ha fatto semmai un tentativo di portare la Cina al tavolo negoziale, ma l’elemento più pericoloso resta il militarismo esasperato. Con le navi cinesi che manovrano in acque rivendicate dal Giappone si crea una pericolosa opportunità di incidente».
Che tipo di ripercussioni avrebbe?
«Nel Mar cinese orientale la Russia, gli Usa e altre potenze sono attivamente impegnate a riportare la questione a un livello negoziale, e a far sì che non possa esplodere una crisi globale. Basta pensare al volume di traffici che attraversa quel mare, è chiaro che non rimarrebbe una questione locale o regionale».
Tra Corea del Nord e Corea del Sud lo scenario cambia.
«Sì, la situazione è molto diversa. La leadership in Corea del Nord è imprevedibile, la comunicazione e il dialogo internazionale sono quasi inesistenti, e non ci sono interlocutori in grado di conoscere e capire la situazione reale. Giapponesi e cinesi non si accusano di lanciarsi missili e distruggersi reciprocamente, come invece ha fatto ripetutamente la Corea del Nord legittimando le preoccupazioni di un conflitto devastante».
Cosa ci sarebbe, in gioco?
«Dipende dalla natura del conflitto, e i temi non mancano. Il fatto è che non ne sappiamo abbastanza per fare previsioni. Se tra Cina e Giappone sappiamo che nessuno ha interesse ad avviare un conflitto, non possiamo dire lo stesso per le due Coree. E non sappiamo neppure se Pyongyang farebbe un passo indietro e accetterebbe una trattativa, di fronte a un incidente: non conosciamo che tipo di leader sia realmente».
Forse possiamo prevederne le conseguenze.
«Sarebbero serissime. Sono alcune delle maggiori economie al mondo, e la Corea del Sud è alleato degli Usa: ci sarebbero conseguenze globali. Il vero pericolo è l’imprevedibilità».
Cosa si può fare per eliminare il rischio?
«Cinesi, mongoli e australiani hanno un coinvolgimento diretto e dovrebbero fare di più, creando una maggiore integrazione».
Ma lei, di fronte a una super offerta di lavoro in Corea del Sud, ci andrebbe?
«L’unico Paese in cui potrei trasferirmi è la Cina, di cui conosco alcune lingue, ma rinuncerei: la ragione però è l’inquinamento».

Repubblica 14.1.14
La sfida di Kabul ai Taliban così rinascono i tesori dell’arte
Dopo anni di distruzioni e di razzie, grazie al lavoro degli esperti risorge il museo della capitale afgana
Centinaia di oggetti sono stati recuperati, altre decine restaurati: i più importanti inviati all’estero per fare cassa
di Rob Norland


KABUL Ogni oggetto antico che viene restituito alle sale del Museo nazionale afgano, un tempo bombardato e saccheggiato ed oggi ricostruito, è un messaggio di sfida e di riscossa. Sono messaggi destinati ai Taliban che nel 2001 avevano distrutto tutti gli oggetti presenti nel museo riproducenti esseri umani o animali. Ma gli studenti coranici non sono gli unici destinatari: ci sono anche i signori della guerra che hanno depredato il museo, alcuni dei quali, ancora oggi, occupano posizioni di potere, e i custodi corrotti del passato, che rimasero a guardare mentre 70.000 oggetti venivano trafugati.
Solo qualche anno fa, del Museo nazionale afgano si elencava quanto era andato perduto: circa il 70% delle collezioni distrutte o rubate, oggetti che testimoniano una delle più misteriose culture dell’antichità. Oggi del museo si parla per ciò che ha riconquistato: negli ultimi anni, 300 oggetti dei 2.500 distrutti dai Taliban sono stati scrupolosamente ricostruiti, ed altri si trovano ancora negli scatoloni in attesa che venga il loro turno. Anche molti pezzi trafugati hanno fatto ritorno: negli ultimi anni, l’Interpol e l’Unesco hanno collaborato con i governi di tutto il mondo per sequestrare e restituire non meno di 857 oggetti, alcuni dei quali dal valore inestimabile. Altri 11.000 reperti sono stati restituiti dopo essere stati sequestrati dalle autorità doganali alle frontiere afgane.
Di recente gli Stati Uniti hanno finanziato un rafforzamento delle misure di sicurezza del museo e una squadra di archeologi dell’Istituto orientale dell’Università di Chicago sta completando un programma triennale per inventariare tutti i reperti del museo e creare un database digitale. Il progetto, che ha per obiettivo quello di proteggere le opere da futuri tentativi di furto, costituirà anche una risorsa per gli studiosi di tutto il mondo. «Se non sai cosa possiedi non puoi proteggerlo», spiega Michael T. Fisher, l’archeologo che guida la squadra di Chicago.
Il museo oggi è diretto da Omara Khan Masoudi, che non ha una laurea in archeologia ma le cui credenziali sono tra le più impeccabili: è uno dei custodi delle chiavi, gli uomini cioè che avevano le chiavi delle camere blindate in cui erano state nascoste alcune delle opere più preziose del museo, come il tesoro Battriano, una raccolta di raffinati manufatti in argento e oro risalenti ad oltre 2000 anni fa.
Ricorrendo all’inganno e alla reticenza, Masoudi e i suoi colleghi sono riusciti a proteggere gran parte di questi oggetti durante glianni della guerra civile e del successivo periodo di dominazione Taliban, nascondendo alcune delle statue più belle nelle sale del ministero della Cultura o nei depositi disseminati in tutto il museo, preservandole così dalla furia del marzo del 2001, quando i combattenti islamici fecero a gara per distruggere le immagini che riproducevano uomini e animali, considerate sacrileghe. Subito dopo, gente come Abdullah Hakimzada, un restauratore che ha trascorso 33 anni nel museo, si è occupata di raccogliere i frammenti degli oggetti distrutti dai Taliban, stivandone molti frettolosamente in sacchi e scatole. Nel 2004, data della sua riapertura, dopo anni di vandalismi da parte dei Taliban e dei signori della guerra, il museo versava in condizioni critiche. I suoi depositi erano ricolmi di scatole e sacchi di frammenti e persino gli oggetti rimasti intatti si erano deteriorati: anche il tetto del museo era per lo più crollato.
Da allora, una serie di squadre di archeologi hanno contribuito a rimettere in sesto la struttura. Durante questo percorso sono state fatte scoperte di grande rilievo, molte delle quali non esposte al pubblico per mancanza di spazi e di risorse. È in programma la creazione di una nuova sede museale, ma si cercano ancora i finanziamenti.
Una tavoletta di argilla con caratteri di scrittura cuneiforme di Kandahar, ritenuta per molto tempo smarrita, è riapparsa in un deposito sotterraneo. Il reperto prova che la civiltà persiana di Ciro il Grande, risalente al VI secolo a. C., aveva raggiunto questa area. Sono stati recuperati gli avori intarsiati di Begram, che si credevano rubati durante un saccheggio. Alcuni erano tra le collezioni del museo, altri confiscati dalla polizia di frontiera. I successi maggiori sono stati i restauri di oggetti distrutti dai Taliban. Ma i gioielli della corona della collezione del museo sono costituti dagli oggetti del Tesoro Battriano, recuperati nel 1978 in un antico tumulo funerario nell’Afghanistan settentrionale da alcuni archeologi russi: dal 2007 la collezione è stata esposta in Europa, Nord America ed Australia e ha procurato al museo 3,5 milioni di dollari. Ma mentre la lotta contro i Taliban è ancora in corso, c’è chi ha un altro buon motivo per non far rientrare in patria i gioielli. «Almeno ora sappiamo che sono al sicuro», osservaHakimzada.
(Copyright New York Times -La Repubblica. Traduzione di Antonella Cesarini)

l’Unità 14.1.14
Prigionieri dentro i muri
Quei muri che nascono dentro, dov’è più difficile abbatterli
L’altro esiste come mezzo come nemico, come servo E così la solitudine ti incattivisce, ti dispera
di Paolo Di Paolo


Per pescare del buono dal clima di sfiducia, ci eravamo illusi che le difficoltà portassero a sentirsi più vicini. Accade nelle calamità, di fronte a tragedie improvvise, di veder accendersi una solidarietà immediata. Accade ancora: le emergenze spesso tirano fuori il meglio dagli esseri umani. Si è visto l’estate scorsa sulle spiagge siciliane, per esempio, di fronte a uno dei tanti, tragici sbarchi di immigrati.
In un istante possono venire giù e sbriciolarsi muri molto solidi, paure e diffidenze remote. È commovente, ma come la commozione non è detto che duri. Allora i muri si rialzano, tornano a difendere noi stessi, quel piccolo spazio di giardino e di relazioni che chiamiamo la nostra vita. L’elaborazione sui dati Istat pubblicata ieri dall’Unità mostra un calo vertiginoso della fiducia negli altri. Non si tratta di registrare la generosità con cui si va incontro a chi è in pericolo, a chi sta male. Si tratta di registrare l’istintiva capacità di sentire il prossimo come uno di cui fidarsi. I numeri sono chiari. Se a ritrovare il vostro portafoglio perso è un perfetto sconosciuto, credete che lo restituirà? Solo l’11 per cento risponde sì. Il dato più basso di fiducia è tra i 35-44enni. Vale la pena di interrogarsi. Da quanto abbiamo cominciato a sentire nemiche le persone che ci vivono accanto? Da quando abbiamo cominciato a
provare sfiducia non solo verso una serie di categorie, in apparenza precise (in realtà generiche) come la classe politica o gli extracomunitari, e abbiamo cominciato a provarla anche verso il vicino di casa? L’impressione raccolta anche da alcuni romanzi e film degli ultimi anni è di un’Italia sempre più sull’orlo di un «tutti contro tutti». Dove ciascuno è armato fino ai denti pur di difendere il proprio: che sia l’incolumità, una convinzione, un’abitudine. Il dirimpettaio non si occupa come dovrebbe dell’immondizia? Dopo le urla, si passa ai fatti: acido muriatico, per esempio. È successo a San Giovanni Valdarno solo qualche mese fa. Un anonimo commentatore di blog parla della bellezza di Roma, a proposito del film di Sorrentino premiato ai Golden Globes? C’è subito qualcuno che risponde definendo i romani pericolosi e nullafacenti. «Quando crepi?» è la replica immediata. Sempre per un film, “Il capitale umano” di Paolo Virzì, si sono scatenate furibonde invettive. Virzì parla di gretti immobiliaristi brianzoli? È una buona occasione, dalle parti di Ornate, per insultare non tanto il regista, quanto il resto d’Italia, tutti i terroni che non hanno mai lavorato. Nella baraonda, difficile capire che Virzì non stava puntando il dito contro una provincia geografica, ma contro ciò quella parte «provinciale» della nostra testa, del nostro modo di essere. Contro quella forma di grettezza che non ti fa vedere al di là del tuo naso. Sguardi che non si alzano mai verso altro che non sia un tornaconto. L’altro esiste come mezzo, come nemico, come servo. Nessuna complicità se non per fregare un terzo malcapitato, per farla franca, per farsi valere, per vendicarsi. La «social catena» è solo un impiccio.
Così prevale la diffidenza, il pregiudizio negativo, e «i sospetti come scriveva Edmund Wilson nel 45 cadono a turno su tutti», «nessuno pare innocente, nessuno è sicuro». Il colpo d occhio è triste, a volte sconfortante. Il pronome «noi» sta lì ad appassire in cantina, mentre quelli dominanti «io», «tu», «voi» delimitano soltanto confini. E la rabbia, la frustrazione, a volte la paura non fanno che marcarli, alimentando le distanze e le ingiustizie. Così la mattina ti alzi e non riesci più a vedere l’altro, chiunque esso sia, come un compagno di strada. Il datore di lavoro? Un nemico. Il collega? Un avversario. L’insegnante di tuo figlio? Un incapace. Il vicino sull autobus? Un pericolo. Il vicino di casa? Un fastidio. Quel tipo che passa? Un ladro. Così non ti senti parte di niente, e la solitudine anziché rafforzarti ti incattivisce, ti riempie di frustrazione, ti dispera. Gli sconosciuti sono invisibili o gente da cui stare alla larga. Non esiste più la comunità. E quei muri che pensavi fossero fuori non te ne sei accorto sono cresciuti dentro, dove è più difficile abbatterli.

l’Unità 14.1.14
27 gennaio, Anna Frank a tre dimensioni
di Maria Serena Palieri


LA FAZ (FRANKFURTER ALLGEMEINE ZEITUNG) ALL’USCITA L’HA SALUTATO COME UN LIBRO che «trasforma il destino della famiglia Frank in un avvincente romanzo». Ma I Frank di Mirjam Pressler è anche qualcosa di diverso e di più. È uno studio che col «destino» lavora in altro modo: strappa infatti Anna Frank, col suo diario diventata icona adolescente della Shoah, a ciò che per lei aveva deciso il nazismo, ridurla a un numero e poi a cenere dissolta nell’aria. Perché questo libro è nato dal ritrovamento di seimila «pezzi», tra documenti cartacei di ogni sorta e fotografie, avvenuto per opera di Gerti Elias, moglie del cugino Buddy amatissimo da Anna e membro del Cda della Fondazione a lei intitolata. Un archivio di famiglia che accampa testimonianze lungo più di un secolo di storia, dalla fotografia di Cornelia, bisnonna di Anna, datata 1844, alle lettere che i sopravvissuti a guerra e Shoah si scambiarono nel 1946. Ed è così che Anna ci si consegna, oltre che col suo diario dal nascondiglio segreto, con la sua esperienza di bambina ebrea borghese, le lezioni di francese trisettimanali e l’amatissimo pattinaggio su ghiaccio, gli auguri in versi ricevuti dalla nonna paterna Alice e lo sciorinìo di doni per il compleanno. Per non parlare di certe fotografie in cui è sempre la più piccola, pulcino avvolto in un accappatoio a righe accanto alla fiorente sorella Margot sulla spiaggia, bambinetta accovacciata su un marciapiede di Amsterdam a fianco dell’amica spilungona Hannah.
Siamo alla vigilia della Giornata della Memoria. I Frank è stato edito da Einaudi per quella del 2013. Ma è candidabile come «il» libro per questa ricorrenza, di nuovo nel 2014 e negli anni a venire. Perché restituendoci la storia familiare dell’icona della Shoah, ridando ricchezza tridimensionale ad Anna, agisce esattamente in senso opposto lì dove il nazismo mirava.

Corriere 14.1.14
Si spengono le luci in Germania: dietro l’idillio, l’orrore nazista
Tradotti i racconti di Erika Mann, figlia di Thomas, pubblicati in inglese nel ’40
di Paola Capriolo


I n una chiara notte d’ottobre, uno straniero passeggia per le strade di una quieta, pittoresca cittadina della Baviera, «amabile e piena d’incanto» come tutte le antiche città tedesche. È piacevolmente colpito dalla sua «grazia assonnata», dal lindore e dalla gaia operosità che si indovinano dietro le facciate dipinte delle case; e le rosse bandiere con la croce uncinata che sventolano qua e là dalle finestre non gli sembrano così minacciose da poter incrinare l’atmosfera di idillio. Anzi, le trova addirittura belle, come trova che «questo Hitler» in fondo stia facendo grandi cose per il suo Paese. Curioso, però, che i rari abitanti in cui si imbatte si mostrino più spaventati che entusiasti...
Lo straniero ha la vaga impressione che i conti non tornino del tutto e vorrebbe possedere uno di quei berretti magici dei quali i personaggi delle fiabe si servono per diventare invisibili: allora potrebbe introdursi nelle case, osservare la vita della gente, capire, insomma, che cosa stia succedendo davvero in questa sconcertante Germania del 1938.
Munita idealmente di un simile berretto, Erika Mann, figlia primogenita di Thomas e figura di spicco dell’emigrazione intellettuale tedesca durante il Terzo Reich, conduce il lettore a esplorare gli orrori palesi e segreti della vita quotidiana sotto il regime nazista nella raccolta di racconti Quando si spengono le luci , apparsa in inglese a New York e Londra nel 1940 e ora tradotta in italiano a cura di Agnese Grieco (Il Saggiatore).
Si tratta, come dichiara l’autrice, di storie nelle quali «nulla è inventato», basate su testimonianze reali, trasposte nello scenario «idealtipico» della piccola città bavarese; storie il cui intento è, prima che letterario, politico: scuotere le coscienze in un’America ancora combattuta tra neutralità e interventismo; storie che non narrano di individui o avvenimenti straordinari, ma «si collocano nell’ambito della vita comune», tra «gente qualsiasi», registrando «l’atmosfera della vita civile della classe media in Germania» alla vigilia della guerra. Così i personaggi, che ricorrono nei vari racconti comparendo ora sullo sfondo, ora in primo piano, sono il commerciante e il sacerdote, il contadino e il professore, l’industriale e la donna di casa, a illustrare la brutale distorsione operata dal nazismo in tutte le pieghe della società.
Colpisce, nei dieci racconti di Quando si spengono le luci , la capacità di questa donna altoborghese, eccentrica, figlia del «Mago» e di quella Katia Pringsheim cui è ispirata la fiabesca figura dell’ereditiera nel romanzo Altezza reale di Thomas Mann, di immergersi nei destini medi o addirittura mediocri dei suoi personaggi e di restituirne con naturalezza la verità psicologica. Da attrice, ancor più che da scrittrice: e Agnese Grieco, con la sua duplice sensibilità di germanista e drammaturga, nella limpida postfazione che chiude il volume sottolinea con efficacia la continuità tra la «vocazione teatrale» di Erika Mann e la sua produzione narrativa.
Scrittrice pura, senza aggettivi, forse non fu mai e non poteva essere, schiacciata com’era dalla gigantesca ombra paterna; per quanto facesse, non poteva che rimanere Erikind, «Erikabimba», beneficiaria e vittima di un olimpico vezzeggiativo, chiamata a tradurre nel linguaggio del Kabarett o della «letteratura impegnata» l’alto, infinito contenzioso di Mann padre con il germanesimo. Eppure almeno due di questi racconti, «L’ultimo viaggio» e «Su indicazione medica», imperniati sulla morte di un giovane marinaio ucciso dalle SA, sulla disperazione della madre e del fratello nell’apprendere la notizia, sulla rivoluzione morale che la vicenda provoca nel primario dell’ospedale cittadino, possiedono una forza letteraria che ne fa ben di più che semplici exempla ad uso di una sia pur nobilissima propaganda e non figurano indegnamente nemmeno su uno scaffale di famiglia così affollato di capolavori come quello dei Mann.
Il libro: Erika Mann, «Quando si spengono le luci», Il Saggiatore, pagine 268, e 19,50

Repubblica 14.1.14
Maledetto Céline
Nelle lettere dall’esilio l’urlo disperato dello scrittore
Esce in Francia il carteggio inedito dell’autore del “Voyage” Che tra provocazione e vittimismo chiede di essere riabilitato dopo i suoi scritti antisemiti
di Fabio Gambaro


PARIGI Eccessivo, paranoico, rancoroso, apocalittico. Louis-Ferdianand Céline, l’autore maledetto delle lettere francesi, torna a far parlare di sé. Sono infatti appena giunte in libreria quarantuno lettere inedite che il romanziere scrisse a Henri Mondor, tra il 1950, quando si trovava ancora in esilio in Danimarca, e il 1961, anno della sua scomparsa. In queste epistole pubblicate oggi per la prima volta – Lettres à Henri Mondor (Gallimard, pagg. 167, 18,50 euro) – l’autore di Viaggio al termine della notte si rivolge a quello che all’epoca è un uomo colto e influente, un medico e scrittore molto apprezzato, nella speranza di essere aiutato a rientrare in patria ed essere riabilitato nel mondo culturale francese. E per conquistarsene l’appoggio insiste molto sulla similitudine dei loro percorsi, tra medicina e scrittura. Tuttavia, come sottolinea la curatrice del volume Cécile Leblanc, l’intesa tra i due all’inizio non era assolutamente scontata. Mondor – autorevole membro dell’Académie de Médecine e dell’Académie Française – nell’immediato dopoguerra aveva infatti partecipato al ComitatoNazionale degli Scrittori all’origine di una lista nera di autori collaborazionisti nella quale figurava evidentemente anche il nome di Céline.
Qualche anno dopo però, in occasione del processo in cui l’autore antisemita di Bagatelle per un massacro fu condannato in contumacia a un anno di prigione, Mondor iniziò ad interessarsi più da vicino al percorso di Céline, sostenendo che il suo grande valore letterario dovesse essere distinto dai comportamenti privati e dalle dichiarazioni politiche. È in questo senso che scrisse al presidente della Corte di Giustizia che si occupava del caso dello scrittore. Céline lo ringrazierà calorosamente il 7 marzo 1950, con una lettera che segnerà l’avvio di una corrispondenza durata oltre un decennio, in cui a poco a poco i legami tra i due diventeranno sempre più stretti. Tanto che, quando Céline chiederà a Mondor di scrivere la prefazione per la pubblicazione di Viaggio al termine della notte e Morte a credito nella celebre collana della Pléiade, questi, dopo una prima esitazione, accetterà, contribuendo così a quella consacrazione a cui il romanziere aspirava da sempre.
In queste lettere cariche d’invettive e di lirismo, di trovate linguistiche e di provocazioni burlesche, Céline spinge a fondo sul registro del vittimismo, dicendosi perseguitato e insultato dai suoi concittadini: «Questa frenesia di farmi soffrire è cosmica, è atomica!», scrive fin dalla prima lettera, aggiungendo in quella successiva: «Da molti anni sono così tanto infangato, oltraggiato, perseguitato, cacciato, stritolato». Per lui, «la caccia allo scrittore è lo sport nazionale della Francia». A perseguitarlo sarebbe un «branco di sciacalli », in particolare gli intellettuali vicini a Sartre, tanto che, con il suo stile iperbolico, scrive senza mezzi termini: «Attualmente, il nazional-sartrismo sostituisce dappertutto – e con foga – il nazionalsocialismo appena liquidato».
Céline, che non esita a definirsi «un medico fallito, un poeta fallito, un musicista fallito», in realtà desidera più di ogni altra cosa il riconoscimento letterario. La sua è un’ambizione divorante. Vorrebbe vincere dei premi letterari, ottenere la stima dei critici e soprattutto pubblicare le sue opere nella collana della Pléiade, ma l’editore Gaston Gallimard tergiversa. È il motivo per cui lo tratta da «imbecille», definendolo un «disastroso droghiere». E quando finalmente il progetto inizia a prendere corpo e Mondor accetta di scrivere la prefazione, Céline contribuisce direttamente alla costruzione della propria leggenda, fornendo numerose informazioni e indicazioni al medico intento a lavorare sui suoi testi.
Gli ricorda, per esempio, l’infanzia difficile, la partecipazione alla Prima guerra mondiale, le ferite subite, le difficoltà economiche, l’assenza di vocazione letteraria e la decisione di lanciarsi nella scrittura esclusivamente per motivi economici. Un’affermazione che tuttavia non gli impedisce di vantare l’originalità del suo stile: «Secondo la tradizione “all’inizio era il verbo”: io dico di no! “all’inizio era l’emozione”. L’ameba appena sfiorata non parla, si ritrae, s’emoziona... La piccolissima novità del Viaggio è forse questa capacità di ritrovare l’emozione del linguaggio parlato attraverso la scrittura... In fondo, la sto- conta poco, io non sono che uno stilista, o almeno ho cercato d’esserlo».
Insomma, in queste epistole sorprendenti il romanziere francese, che non esita ad avvicinare la propria scrittura a quella di Rabelais, un altro medico passato alla scrittura, esibisce senza remore le proprie ossessioni e le proprie frustrazioni, ma anche il suo genio e il suo straordinario talento di scrittore. Motivo per cui leggerle oggi è un modo per inoltrarsi nella personalità complessa di uno dei più grandi scrittori del XX secolo.

I documenti
“Sono un fallito, ma fatemi tornare”

COPENAGHEN, 29/4/[1951]
Grazie mio caro per il suo articolo pieno di grande coraggio – e credo anche di grande giustizia. Lei ha messo la penna sulla piaga, la più orrenda piaga dei francesi, la maldicenza, la denigrazione dei loro... non c’è niente da fare. In questo sono veramente gli eredi dei loro padri. L’invidia delirante a qualsiasi prezzo! Ho provato, con mezzi inadatti, l’ammetto, a guarire un po’ la loro vista, a renderli sensibili, più sensibili al canto di casa loro... guardi un po’ a che punto sono arrivato. Il più lebbroso, il più odiato, il più triste e incellulato dei cani. [...] Ah l’odio! Il francese odia il francese; s’interessa veramente a lui solo quando può mandarlo alla ghigliottina o metterlo al muro. Che sollievo! Il vero patriottismo gli manca del tutto. Il patriottismo della creazione, dell’ammirazione, altri ne faranno l’abominevole esperienza! la storia di Francia e la storia della caccia allo scrittore francese, della sua persecuzione e del suo esilio – divertitevi a farne la lista. In un’epoca in cui si fanno tante “liste”. Quanti scrittori francesi sono stati costretti a fuggire la Francia? L’albo è sconfortante. Il francese ha nei confronti dei suoi un solo riflesso: la parzialità, l’odio, il disprezzo, l’oltraggio. Tutto ciò è stato però perfezionato. L’esilio non basta più. Vi si aggiunge la prigione. In fondo, è un odio inconfessato tra i combattenti (i veri combattenti) del 14-18 e quelli del casino del 39. Dobbiamo pagare anche questo. L’animosità inconfessata. A chi si farà mai credere che un reduce di 2 guerre mutilato al 75% sia un venduto alla Germania? Nessuno può crederlo. Ma si vuole crederlo. Per detestare, odiare, torturare le persone, il pretesto è troppo bello!
Cordialmente vostro,
LF Céline
***
MEUDON, 28/12/1959
Mio caro Maestro, [...] Non avevo, non ho mai avuto la vocazione letteraria... ma avevo e fortissima la vocazione medica... Da bambino... essere scrittore mi sembrava stupido e fatuo... fui scrittore mio malgrado, se così si può dire! [...] Alle prese con un’umile clientela a Clichy, in rotta con mia moglie e la sua famiglia, facevo veramente fatica a pagare le rate... in quel periodo andavano di moda i “populisti” tra cui Dabit che conoscevo un po’... arrangiarsi con ogni mezzo! 1932... ho preso il nome di mia madre: Céline per non essere scoperto... senza alcuna vocazione lo giuro, con paura e vergogna, fu scritto “Il Viaggio”... Denoël lo accettò... (n’è morto 22 anni più tardi)... pensavo che al momento della pubblicazione dietro il nome-cognome di mia madre non sarei stato scoperto... che avrei potuto pagare l’affitto e basta! Chissà, comprami un locale! Diamine! Il branco si è scagliato subito contro la bestia! E tutto si è accelerato ! i miei tre difensori al Goncourt furono Ajalbert, Descaves e Daudet... non restava che essere fatto a pezzi, farsi massacrare... nessuna vocazione! A quel punto la medicina era diventata impossibile! La scritturaccia pure! cacciato come sono dai medici-scrittori! Piccolissimo dolore!
L’antisemitismo fu un pretesto all’hallalì... La persecuzioneviene da un’altra parte, viene dal Viaggio, dallo stile... [...] Mille auguri e rispetti, Destouches***
12/1/[1960]
Ammirazioni letterarie? Voglio vedere... si può solo apprezzare da molto lontano... m’interesso solo allo stile, frega nulla delle storie! Sono sicuro solo di La Fontaine... Malherbe... Voltaire dei piccoli versi... i romanzieri sono diventati noiosi... Si può imparare il medico di campagna da Balzac? L’adulterio da Flaubert? L’informazione e la ciarlataneria non ci lasciano alcuna curiosità. Restano gli stilisti, ma troppo vicini: Mallarmé, Rimbaud, Baudelaire...
© Gallimard 2013 (Traduzione di Fabio Gambaro)

Repubblica 14.1.14
Alle radici culturali della civiltà dell’orrore
“Razzismo e noismo”, il saggio di Luigi Luca Cavalli-Sforza e Daniela Padoan
di Maurizio Ferraris


Trapochi giorni, il 27 gennaio, si celebrerà il giorno della memoria, e si ripresenterà un classico interrogativo: come è possibile che, nel cuore dell’Europa, una popolazione altamente civilizzata abbia compiuto uno sterminio su base razziale, ideando e allestendo su scala industriale quei lager che costituiscono una cesura nella nostra storia? E che significato dobbiamo dare a tutto questo, oltre a quello, ovvio e doveroso, del monito affinché ciò non abbia più luogo? InRazzismo e Noismo (Einaudi) un’umanista, Daniela Padoan, e uno scienziato, Luigi Luca Cavalli-Sforza, appartenenti a generazioni diverse e con idee spesso in contrasto, tentano e riescono a pensare fuori dagli specialismi proponendo una illuminante chiave di lettura. Quello che si è manifestato nei campi di sterminio non è semplicemente l’aberrazione di una ideologia, né meno che mai (come talvolta si suggerisce, non senza razzismo) lo spirito tenebroso di un popolo, ma piuttosto l’inconscio a cielo aperto dell’umanità.
I dati sono semplici. 200 milioni di anni fa ci siamo separati dagli uccelli, 65 milioni di anni fa dai cavalli, e solo da 7 o 5 milioni di anni ci siamo separati dagli scimpanzé, con i quali condividiamo il 98% del Dna. Ma è centomila anni fa che Homo sapiens sapiens è uscito dall’Africa per espandersi e colonizzare l’intero pianeta, ed è solo 12mila anni fa che i nostri progenitori si sono via via trasformati, da cacciatori nomadi, in agricoltori sedentari. Si tratta di un passaggio che, nell’argomentazione dei due autori, assume una grande rilevanza, soprattutto nel ricordare come la nostra storia culturale sia iniziata con quei cacciatori-raccoglitori che dall’Africa colonizzarono ogni continente, senza avvertire alcuna necessità di dominio. L’istituzione della proprietà privata, dello schiavismo e della guerra inizia con il passaggio all’economia di agricoltura e allevamento. Che sono d’altra parte un passo in avanti verso quello che noi chiamiamo, e a buon diritto, visto che ha reso la nostra vita meno breve e brutale, “civiltà”.
Il passaggio dai cacciatori-raccoglitori all’agricoltura e all’allevamento non era necessario, ma ha avuto luogo, e si è trasformato in un destino, almeno nel senso che costituisce ancora il nostro presente. È indiscutibile che non solo in una azione militare, ma in una competizione sportiva, in un litigio su Facebook, sino a un battibecco tra accademici abbiamo l’azione di quella remota trasformazione della natura umana. Una natura che è indubbiamente più dinamica di quella dei cacciatori-raccoglitori; una natura che è bravissima a culturalizzarsi, e che si rivela come intrinsecamente incline a creare valori, norme, descrizioni e classificazioni. Il “noismo” è questo: l’immedesimazione negli altri fino a negare ogni forma di razzismo. Ciò che purtroppo non sempre si considera è che questo dispiegamento culturale non è immune dal male o dall’orrore. Il tentativo di Padoan, come umanista, è di sottoporre a uno scienziato come Cavalli-Sforza la permanenza nel pensiero scientifico (e filosofico) di quella “gerarchia del disprezzo” il cui precipizio abbiamo visto in Auschwitz.
Ed è da questo confronto che emerge il tema ricorrente del dialogo, l’orrore, appunto, la ricerca delle radici culturali dell’orrore, proprio come inCuore di tenebra di Conrad. L’orrore di ciò che hanno fatto i nostri antenati lontani e vicini, e assunti come modelli di civiltà (si consideri lo statuto delle donne e degli schiavi nella Grecia classica). L’orrore di civiltà che conosciamo appena. E ovviamente l’orrore che ha avuto luogo nel cuore della nostra civiltà, come appunto dimostrano i campi di sterminio. Alla cui origine non c’è la follia o la barbarie, ma la propensione a catalogare l’umano e il vivente secondo tassonomie e gerarchie, in un continuo slittamento di soglia tra uomo e animale. Non dimentichiamolo: il Kurtz di Conrad non è solo colui che orna la propria capanna di teschi umani, ma anzitutto colui che, su richiesta della “Associazione Internazionale per la Soppressione dei Costumi Selvaggi” scrive una relazione che «Iniziava asserendo che noi bianchi, per via del livello di sviluppo che abbiamo raggiunto, “dobbiamo per forza sembrare a loro [ai selvaggi] come esseri soprannaturali – li avviciniamo con il potere di una divinità”».

IL LIBRO Razzismo e noismo di Luigi Luca Cavalli-Sforza e Daniela Padoan (Einaudi pagg. 341 euro 19)

Corriere 14.1.14
Carta e web, i dati Ads: il «Corriere» primo con 464 mila copie
di G. Str.


MILANO — Il «Corriere della Sera» si conferma ancora una volta il quotidiano più diffuso in Italia, con una media di 464 mila copie giornaliere. Sono i nuovi dati Ads per il mese di novembre basati sulle statistiche degli editori. Il risultato è la somma delle copie cartacee e digitali, in una classifica che vede al secondo posto la «Repubblica» a quota 382 mila copie e in terza posizione il «Sole 24 Ore» con 315 mila copie medie diffuse giornalmente. Le statistiche proseguono con la «Gazzetta dello Sport» (257 mila copie il lunedì e 224 mila copie gli altri giorni), la «Stampa» (221 mila copie), il «Messaggero» (142 mila copie), l’edizione del lunedì del «Corriere dello Sport-Stadio» (140 mila copie), Qn-Il Resto del Carlino (123 mila copie) e l’edizione dal martedì alla domenica del «Corriere dello Sport-Stadio» (122 mila copie medie). I numeri valgono come diffusione totale, includendo — per esempio — la distribuzione in edicola, gli abbonamenti, le vendite dirette e le copie digitali, con dati per singolo canale diversi a seconda della testata. Per quanto riguarda le singole vendite di copie digitali, il «Sole 24 Ore» è in testa a quota 115 mila, seguito da «Corriere» (95 mila) e «Repubblica» (58 mila).

il Sole 24 Ore 14.1.14
I dati Ads su diffusione e vendite: Corriere primo quotidiano (+4,5% per carta-tablet), seguito da Repubblica (+0,1%) e Sole (+5,2%)
Il Sole consolida il primato digitale
Superata quota 115mila copie: a novembre su ottobre +11,8% (+4% la media nazionale)
di Andrea Biondi


Meno appeal per la carta, ancora meno per le edicole, mentre il digitale continua la sua corsa, pur conservando ancora ampi margini di miglioramento se si considera che pesa ancora solo l'11% della totale pagata.
Volendo dare un'immagine riassuntiva della situazione così come si evince dai dati Ads, anche a novembre i quotidiani italiani non si sono discostati da una tendenza che ormai appare consolidata da mesi. Non che ci sia da brindare visto che nel complesso i numeri sembrano volgere verso il basso. Prendendo un mese qualsiasi dello scorso anno – ad esempio maggio – e confrontando il tutto con i dati di novembre bisogna fare i conti con una flessione sia nel totale delle vendite (cartacea più digitale) sia, in misura anche maggiore, sul fronte delle sole copie cartacee vendute in edicola a tramite abbonamento. Nel primo caso i 4,12 milioni di copie medie vendute giornalmente fra carta e digitale sono il 6% in meno rispetto a maggio. Nel secondo caso ai 3,8 milioni scarsi di copie cartacee mediamente vendute mancano quasi 350mila unità rispetto alla scorsa primavera (-8,4%). E anche in edicola si è passati da 3,47 a 3,2 milioni (-8,1%).
Insomma, la richiesta delle copie cartacee – che pure resta preponderante – è erosa in maniera carsica dal digitale. Nel solo ultimo mese preso a esame le copie «2.0» sono aumentate del 4 per cento. Le rilevazioni Ads qualificano come copia digitale «una replica esatta e non riformattata dell'edizione cartacea». Gli editori poi, per policy condivisa hanno suddiviso il dato totale delle copie digitali in "vendite singole" («vendute ad un prezzo qualificante pari almeno al 30% del prezzo di vendita dell'edizione cartacea»), "vendite multiple" («ai grandi clienti») e "vendite in abbinata carta digitale" («ad un prezzo non inferiore al 50% del prezzo dell'edizione cartacea»). Tariffe più invitanti e strategie commerciali che si stanno facendo via via più aggressive (ma sempre nei limiti del 30 e del 50% del prezzo di copertina) stanno ora premiando soprattutto i tre principali player: Rcs, Gruppo L'Espresso e Gruppo 24 Ore. Per quanto riguarda Il Sole 24 Ore novembre si è rivelato un mese decisamente favorevole. Riguardo alle copie digitali il quotidiano del Gruppo 24 Ore continua a posizionarsi in testa con 115.366 copie, in aumento dell'11,8% rispetto a ottobre. E così per il Sole 24 Ore al primato nel numero di copie digitali giornalmente vendute (anche in abbonamento) si unisce la maggiore crescita percentuale rispetto agli altri competitor. Il Corriere della Sera segue infatti a quota 95.447, in crescita dell'1,7% mentre Repubblica, con 58.709 copie «2.0», è al terzo gradino del podio, ma con una crescita del 6,3% che ha iniziato a mettere alle spalle qualche segno meno dei mesi passati. La Gazzetta dello Sport ha chiuso novembre con 21.042 copie digitali, in calo del 2,5% e alla quarta posizione.
Anche complessivamente Il Sole 24 Ore ha chiuso novembre con un aumento – il più alto nella top ten dei quotidiani italiani – nella diffusione carta-digitale: +5,2%, salendo a quota 315.521. Bene anche il Corriere della Sera (+4,5%) che si conferma il primo quotidiano italiano con 464.428 copie diffuse in totale, seguito da Repubblica, sostanzialmente stabile a 382.233 copie. Guardando ai primi dieci è andata bene anche al Resto del Carlino (+3%) che ha scalzato dal settimo posto Il Corriere dello Sport (-1,7%). Per il resto, dopo lo 0,1% della Stampa (221.659 copie) è una sfilza di segni meno: -3% per il Messaggero (142.188); -3,5% il Giornale (105.773); -2,1% Avvenire, 200 copie sotto il quotidiano diretto da Alessandro Sallusti. Segni meno anche per alcuni fra gli altri principali giornali italiani: -8,2% il Fatto Quotidiano (64.385); -3,4% Libero (76.187); -1,6% Italia Oggi (72.323) che nei mesi scorsi è salito al quinto posto fra i giornali con più copie digitali (18.157) ma che anche su questo versante a novembre non è andato oltre un -0,3 per cento. Ultima notazione sulla totale pagata (la carta quindi). Il Corriere della Sera è quello che ha guadagnato di più (+5,8%) a quota 343.638. Seguono il Resto del Carlino (+3%) e Il Sole 24 Ore che ha guadagnato mese su mese il 2% (a 195.363 copie). Stabile La Stampa (+0,1%) mentre perdono Repubblica (-0,9%), la Gazzetta dello Sport (-2,5%), Il Messaggero (-3,1%), Corriere dello Sport (-1,6%), Il Giornale (-3,5%), Avvenire (-2,4%), Il Fatto Quotidiano (-7,7%), Libero (-4,4%), Italia Oggi (-2,5%).