mercoledì 15 gennaio 2014

La Stampa 15.1.14
Dopo la Consulta
Il pantano della legge elettorale
di Ugo Magri

La Corte costringe gli strateghi politici a riscrivere i piani. Non perché faccia pendere il piatto della bilancia a vantaggio di questa o quella riforma elettorale (per sostenerlo occorre una bella faccia tosta), ma perché la Consulta chiarisce che potremmo tornare alle urne anche subito, con lo stesso sistema della prima Repubblica. Per i proporzionalisti è un assist insperato. E la matassa della legge elettorale si ingarbuglia vieppiù.
il seguito qui

Il Sole 15.1.14
La Consulta e il richiamo all'urgenza della riforma
di Francesco Clementi


Quando, il 4 dicembre scorso, la Corte costituzionale ha deciso di decidere – superando i moltissimi dubbi intorno all'irritualità processuale nell'accettare un ricorso senza reali filtri, cioè sostanzialmente di tipo diretto – in tanti si ebbe il pensiero che volesse scrivere direttamente lei la legge elettorale, in una rupture veramente inusitata e sorprendente riportando le lancette a ventitré anni fa, al 1991; sebbene, va anche detto, siano anni che ci si trova di fronte a un interessato immobilismo da parte delle forze politiche intorno alla riforma della legge elettorale. Insomma, la lettura del semplice comunicato, tante preoccupazioni – e a ragione – non poteva non destare. Invece, con la pubblicazione delle motivazioni della sentenza n. 1 del 2014 uscite l'altro ieri, possiamo ben dire – e con più chiarezza e meno timori, compresi quelli di esser chiamati ad esercitarsi in "note a comunicato" piuttosto che a sentenza – che il suo obiettivo sia stato, come appunto la Corte scrive, quello di «non andare al di là di quanto ipotizzato e richiesto dal giudice rimettente fermo restando che lo stesso legislatore ordinario, ove lo ritenga potrà correggere, modificare o integrare la disciplina residua».
Dunque, si può ben dire che questa sentenza, che si presenta come storica per tanti aspetti e naturalmente autoapplicativa nella residualità che lascia del cosiddetto Porcellum perché ciò non potrebbe non essere, a maggior ragione nelle sue motivazioni, mostra l'intenzione della Corte di non voler andare al di là del particolare petitum, eccezion fatta, se si vuole, nell'indicazione utile che emerge nei confronti del Parlamento di un'urgenza del decidere di riformare la legge elettorale, che non è più eludibile.
Nel merito, ci sono almeno tre punti chiave che devono essere segnalati.
Il primo. La Corte ricorda (ai non pochi, ahinoi, che si sono esercitati su questo) che il Parlamento da un lato è pienamente legittimo negli atti già posti in essere perché, come noto, tempus regit actum e i rapporti esauriti, cioè conclusi, «rimangono regolati dalla legge dichiarata invalida», ai sensi peraltro della sua stessa giurisprudenza (sent. 139 del 1984); dall'altro, che è a maggior ragione legittimato ad operare perché «il principio fondamentale della continuità dello Stato non è una astrazione e si realizza in concreto attraverso la continuità dei suoi organi costituzionali, a cominciare dal Parlamento». Tanto basta, insomma, per chiarire definitivamente quanto invece valutazioni sbagliate nel merito giuridico, e affermazioni populiste, in quello politico, avevano lasciato intendere a troppi.
Il secondo riguarda il cosiddetto "premio". Qui la Corte fa un ragionamento assai chiaro: se si utilizza un sistema elettorale di impianto proporzionale, il "premio di governabilità" deve essere definito perché altrimenti si comprime senza limiti il principio di uguaglianza (articolo 3 della Costituzione) e il diritto di voto (articolo 48). Solo così, infatti, questo meccanismo di riequilibrio è accettabile, e tollerabile in ragione di esigenze della governabilità, sempre più rilevanti nel tempo della modernità.
Il terzo: le liste bloccate. Queste, come le esperienze di altri ordinamenti dimostrano, sono pienamente costituzionali a patto che, come rileva appunto la Corte, consentano all'elettore di non essere privato della possibilità di conoscere, di identificare cioè gli eletti, perché "affogati" in listoni illeggibili. Se l'elettore non è privato di ciò, tutto è lecito costituzionalmente. D'altronde, la libertà di scelta, cioè di voto, per l'elettore, identificando chiaramente l'eleggibile, viene prima.
A latere, sinteticamente, vi sono altri tre aspetti che, in una prima lettura, possono essere evidenziati. In primis, che la via di accesso diretto, preclusa ai sensi dell'art. 134 Costituzione, sembra rimanere tale, costituendo così questo ricorso un unicum su cui riflettere. Inoltre, la bella conferma dell'uso della giurisprudenza straniera – in questo caso, quella del Tribunale costituzionale tedesco – come strumento e parametro di cross-fertilization tra ordinamenti non più rimuovibile. A cui si lega la scelta di voler utilizzare il cosiddetto test di proporzionalità (non il sistema proporzionale, si badi bene), insieme con quello di ragionevolezza, che sono strumenti propri della Corte europea di giustizia, ormai sempre di più pure di quella italiana. Bei segnali, insomma. Ora, davvero: parola al Parlamento.

La Stampa 15.1.14
Sartori: ma non dev’essere un ballottaggio di coalizione


Lo spalancarsi di un ritorno al futuro, cioè di un proporzionale alla vecchia maniera, fa letteralmente rabbrividire il professor Giovanni Sartori. L’anziano politologo, combattente indomito, non ci sta a questo eterna rincorsa indietro dell’Italia. Tutto il dibattito sulle preferenze, per dire, lo fa arrabbiare. «Come ci si dimentica presto dice che abbiamo votato non uno, ma due referendum contro le preferenze. C’è stato prima un referendum di Pannella che ci fece passare da 3 a 1 preferenza (era il 1991, quando ci fu il famoso appello di Craxi agli elettori ad andare al mare, ndr). Poi ci fu il referendum di Segni (era il famoso 1993, ndr) e passammo dal proporzionale al maggioritario. Si badi bene che io ho combattuto contro tutti e due, non ero affatto d’accordo. Ma è vero o non è vero che la volontà del popolo è sovrana? I referendum ci sono stati, solo che se li vogliono dimenticare».
La sentenza ci restituisce a una dimensione da Prima Repubblica, salvo che i partiti ritrovino lo sprint. Ma Sartori, pessimista inesorabile, non si fa illusioni: «Da sempre mi batto per un doppio turno, ma che non dev’essere di coalizione. I partiti si devono presentare tutti alla lista di partenza. Gli elettori devono poter scegliere tra 300 candidati e solo 4 o 5 devono poter passare al secondo turno. A quel punto i partiti sarebbero costretti a selezionare bene i candidati, e a proporre persone eccellenti, per giocarsi sul serio la partita. E quando sarebbero 4 o 5 i candidati che passano al secondo turno, l’elettore farebbe in tempo a conoscerli e decidere con cognizione».
Le tre ipotesi di Renzi non contemplano il sistema caldeggiato dal professor Sartori. «E perciò vanno tutte male. E poi, s’è mai visto che uno non ha una sua proposta e non la sa argomentare? Gli vanno bene come se fossero interscambiabili? Boh».

il Fatto 15.1.14
Nella sentenza della Consulta
L’avvocato Gianluigi Pellegrino. “È scritto: 148 deputati illegittimi”
di Luca De Carolis


Dopo la sentenza della Consulta sulla legge elettorale, i 148 deputati eletti con il premio di maggioranza sono illegittimi. E quindi vanno sostituiti con altri parlamentari, in base al proporzionale”. Sul tema l’avvocato Gianluigi Pellegrino ha presentato un ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera, su mandato del Movimento per la difesa del cittadino, pochi giorni dopo le elezioni.
Nelle motivazioni, la Corte costituzionale scrive che questo Parlamento è legittimo.
Perché i 148 sarebbero abusivi?
La Consulta precisa che questo parlamento può operare legittimamente in base al principio di continuità: ossia, essendo un organo costituzionale necessario, deve rimanere in essere anche se illegittimo, fino a nuove elezioni politiche. Ma il tema è un altro.
Ossia?
Come sa anche uno studente al primo anno di Giurisprudenza, le sentenze della Corte hanno valore retroattivo, ossia si applicano anche a vicenda precedenti la loro emissione. Con un’eccezione: i rapporti “già esauriti”, ossia le questioni già definite. Ebbene, sull’elezione di quei 148 deputati pendono il mio e altri ricorsi, davanti alla giunta delle elezioni della Camera. Quindi, quei rapporti non si sono esauriti. E la Giunta deve applicare la sentenza della Consulta.
In termini pratici che vuol dire?
I 148 vanno dichiarati illegittimi, e quei seggi vanno ripartiti tra i partiti secondo il criterio proporzionale.
I deputati eletti con il premio sono di Pd, Sel e Centro Democratico. Applicando la sentenza...
I posti verrebbero redistribuiti anche tra altri partiti, come Cinque Stelle e Forza Italia.
Di fatto, l’attuale maggioranza alla Camera non esisterebbe più.
Non lo so. Io mi preoccupo dei principi dello stato di diritto, non degli aspetti politici. E comunque, me lo lasci dire da elettore del Pd: su questo punto, il nuovo Partito democratico deve dare un segnale. Se i 148 deputati fossero di Berlusconi, saremmo già scesi in piazza.
E i senatori?
La Giunta delle elezioni di Palazzo Madama ha già respinto i ricorsi sui senatori eletti con il premio di maggioranza. Quello sì che è un caso definito: quindi la sentenza non si può più applicare.

il Fatto 15.1.14
Sul sistema spagnolo Renzi ha un ostacolo: i parlamentari Pd
Gli eletti dell’era Bersani temono, con liste bloccate, che il segretario li faccia fuori per nominare i suoi
di Marco Palombi


Il tema sul tappeto ora è uno solo. Matteo Renzi deve fare un accordo sulla legge elettorale su cui convergano gli altri partiti e, soprattutto, il gruppo del Pd. Il tema non è nuovo, ma ieri grazie alla sentenza della Consulta che ha riportato l’Italia nella Prima Repubblica nel Transatlantico di Montecitorio è esploso con incredibile potenza in conversazioni allarmate e confidenze preoccupate tra compagni di partito e di sventura. A leggere la sentenza, infatti, se la Corte non ostacola il ritorno al Matterellum, pure non risparmia critiche al rapporto tra governabilità e rappresentanza nel sistema in vigore per le politiche del 1994, 1996 e 2001. Insomma, la preferenza degli ermellini sembra andare al cosiddetto sistema spagnolo: un proporzionale con pesanti effetti maggioritari, frutto di piccole circoscrizioni con brevi liste bloccate, che consentono cioè agli elettori secondo le parole della Consulta di conoscere chi si candida a rappresentarli.
QUESTO SISTEMA, come si sa, va bene tanto a Matteo Renzi (è uno dei tre proposti agli altri partiti) che a Silvio Berlusconi, mentre è assai malvisto dal Ncd di Angelino Alfano, dai montiani e pure dai neodemocristiani. Non solo. Spiega Roberto D’Alimonte, politologo spesso ed erroneamente presentato come voce del sindaco di Firenze: “Il modello spagnolo non garantisce, neanche con il 15 per cento di premio, la maggioranza assoluta a una delle due maggiori formazioni”, mentre “il modello Mattarellum, con il doppio turno di lista (proposto ieri da Scelta civica, ndr), potrebbe essere politicamente più fattibile e più costruttivo sul piano di una maggioranza di governo”. E soprattutto, aggiungiamo noi, ha più chance di ottenere i voti democratici in Parlamento: i gruppi del Pd sono infatti quelli usciti dalla vittoria di Bersani alle primarie del 2012 e ora se restassero le liste bloccate, pur in salsa iberica il timore degli interessati è di essere fatti fuori in favore di persone più vicine a Matteo Renzi. E pure in fretta: se l’intesa è sullo spagnolo, si può fare solo con Silvio Berlusconi e il M5S. Il risultato più probabile, dunque, sarebbe il voto.
Anche per sminare una certa ansia da elezioni diffusasi ieri tra le sue truppe nel palazzo, il segretario del Pd ha gettato una ciambella di salvataggio al presidente del Consiglio: “Un patto” che tenga insieme legge elettorale, riforme e modifica del Titolo V della Costituzione. Con questo, “anche le preoccupazioni di Letta verrebbero meno perché a farlo ci mettiamo almeno un anno”, ha detto ieri pomeriggio rispondendo alle domande che gli arrivano via Twitter sul sito del partito.
MAZZATE, INVECE, per il Nuovo centrodestra, oramai ufficialmente lo sparring partner preferito del sindaco di Firenze: “Sono veramente colpito dalla loro posizione sul Senato: mi sembra un clamoroso passo indietro. Se non vogliono più fare le riforme costituzionali ce lo dicano ma sarebbe veramente una sorpresa”. Il partito di Alfano, infatti, ieri ha presentato un suo progetto sulla Camera alta: non più sostanziale cancellazione, ma una riduzione dei senatori da 316 a 210, eletti coi consigli regionali. La ripassata ad Alfano, peraltro, non s’è fermata qui: resteremo al governo con loro, ha risposto ironico Renzi a una domanda sul tema, “il tempo necessario a fare approvare anche a loro lo ius soli e la civil partnership alla tedesca”. Due punti su cui il vicepremier ha tentato in questi giorni di mantenere un suo profilo da destra tradizionale.
COME AL SOLITO, infine, allergia esibita per la parola “rimpasto” da parte del segretario Pd: “Piacerebbe al M5S che il Pd si mettesse in una grande lotta di poltrone. Spiacente, vi è andata male. Se però un governo pensa che alcuni ministri non vadano bene, li deve cambiare”. E infatti Renzi non vede l’ora che Enrico Letta gli risolva il problema togliendo di mezzo tutti i casi spinosi, da Nunzia De Girolamo e Fabrizio Saccomanni in giù. Qui si potrebbe creare un problema: Letta, dal Messico, ha fatto sapere che non intende passare per le dimissioni. Gli interessati, insomma, dovrebbero andarsene spontaneamente. La chiusura, in serata, è ancora di Renzi: “Il governo ha fatto poco? È un eufemismo”.

Il Sole 15.1.14
La legge elettorale
Renzi vuole l'intesa con Berlusconi
di Emilia Patta


Verso l'incontro venerdì o sabato nella sede Pd - Scontro con Alfano su Senato, unioni civili e ius soli

L'evento dovrebbe esserci o venerdì o sabato, e con molta probabilità a Largo del Nazareno. Subito dopo la direzione del Pd, alla quale Matteo Renzi chiederà mandato pieno a trattare sulla legge elettorale, Silvio Berlusconi potrebbe varcare la sede del Pd. Il luogo dell'incontro non è ancora certo (l'alternativa è la Camera), ma è lo stesso leader Pd a voler ricevere l'eterno avversario del centrosinistra nella sede del partito – un fatto di per sé storico – per dare all'evento tutto il significato politico che ha: un faccia a faccia decisivo per arrivare a una riforma elettorale il più ampiamente condivisa, quindi con il sì del secondo partito italiano. Le diplomazie sono al lavoro da giorni per preparare l'incontro, che deve avvenire – nello schema di Renzi – ad accordo già concluso e non al buio. Ieri pomeriggio c'è stato un colloquio tra lo stesso Renzi e Denis Verdini, mentre a tenere i contatti giornalieri con il capogruppo Fi alla Camera Renato Brunetta è il braccio destro di Renzi in Parlamento Dario Nardella.
Anche se le motivazioni della Consulta, dichiarando legittime le liste bloccate di pochi nomi, hanno lasciato in campo il modello spagnolo caro a Fi, sia Renzi sia Berlusconi sanno che lo spagnolo resterà sulla carta: il leader Pd non può e non vuole permettersi di chiudere un accordo solo con Fi lasciando fuori non solo Angelino Alfano e il suo Ncd ma anche Scelta civica e Sel. La trattativa vera di queste ore è dunque sul Mattarellum corretto (75% di collegi uninominali, 10% di proporzionale e 15% di premio di maggioranza) o, in alternativa, sul cosiddetto modello dei sindaci voluto da Alfano, ma con una variante importantissima per attirare nella rete anche Berlusconi: resta la base proporzionale con sbarramento al 5% e resta il doppio turno nazionale di coalizione se nessuno raggiunge il 40%, ma al posto delle preferenze da sempre invise al Cavaliere ci sono le piccole liste bloccate di pochi nomi rese possibili dalla Consulta. In questo caso le circoscrizioni sarebbero sì piccole per permettere la presentazione di liste di pochi nomi, ma a differenza del sistema spagnolo il riparto dei seggi avverrebbe su base proporzionale nazionale permettendo così anche ai piccoli partiti di contare e di contarsi. Potrebbe essere questa soluzione l'uovo di colombo per tenere tutto assieme, anche se Berlusconi dovrebbe dire di sì all'odiato doppio turno. D'altra parte il Mattarellum ha i collegi uninominali, anch'essi da sempre invisi al Cavaliere. Che dunque in queste ore deve scegliere, tra quelli che per lui sono due mali (doppio turno e collegi uninominali), qual è quello minore.
Da parte sua Renzi, al quale invece i collegi uninominali piacciono per la possibilità di controllare meglio le candidature e avere così gruppi parlamentari omogenei, sembra preferire il Mattarellum corretto. Ma se Berlusconi dovesse convergere, Renzi avrebbe il serio problema di Alfano. Vero che a quel punto il Ncd resterebbe isolato in Parlamento (per il Mattarellum più o meno corretto si sono schierati Scelta civica, Sel e in teoria anche il M5S) e che lo stesso premier Enrico Letta potrebbe fare opera di persuasione nei confronti del suo alleato-amico. Ma la verità è che se Alfano dovesse impuntarsi – magari con la tentazione di andare al voto col proporzionale puro che esce dalla sentenza della Consulta – Renzi non se la sentirebbe di andare avanti sulla strada dell'accordo con Berlusconi a tutti i costi. Il leader del Pd ha detto chiaramente a chi in questi giorni ci ha parlato che non vuole mettere in pericolo il governo per andare al voto subito: «L'opinione pubblica non capirebbe e il Pd si spaccherebbe». Come ha detto anche nel suo colloquio con Giorgio Napolitano di giovedì, Renzi ha in realtà tutto l'interesse a lavorare fino alla primavera 2015 alle riforme costituzionali in cantiere: abolizione del Senato e delle Province e riforma del Titolo V. E a maggior prova che lui non vuole tornare alle urne subito, parlando in serata ai senatori del Pd Renzi ha evocato anche la successione di Napolitano: «Deve essere questo Parlamento – ha detto – a eleggere il nuovo Capo dello Stato dopo aver fatto le riforme». È stato lo stesso Napolitano – precisano dallo staff di Renzi – a far capire chiaramente che riterrà il suo compito concluso una volta approvate le riforme «e siccome per noi la legislatura va avanti...».
La giornata di ieri ha visto anche un duro scontro con il Ncd sulla questione dell'abolizione del Senato. Il partito di Alfano ha presentato una proposta di revisione costituzionale che prevede una Camera delle Regioni ridimensionata nei numeri ma sempre elettiva, mentre è noto che Renzi vuole un Senato formato dai rappresentanti locali e non elettivo anche per incidere sui costi della politica. Nella sua diretta twitter il leader Pd boccia come «clamorosa retromarcia» la proposta del Ncd e rilacia sullo ius soli e sulle unioni civili. Ma l'impressione è che questi temi, da una parte e dall'altra, siano usati per alzare la posta sulla partita principe della legge elettorale.

Repubblica 15.1.14
Incontro segreto di Matteo con Verdini “Dovete dirmi se reggete un patto”
I dubbi di Napolitano sul rimpasto e sul Letta bis
di Francesco Bei e Carmelo Lopapa


ROMA — I giochi sono finiti, adesso si fa sul serio, e Matteo Renzi mette la freccia per sorpassare. La Corte costituzionale ha parlato, lunedì alla Camera inizierà la discussione sulla legge elettorale ed è tempo di stringere. Così, dopo una settimana di attesa inconcludente, il segretario del Pd ha deciso che fosse arrivato il momento di capire qual è la risposta forzista alle sue tre proposte. Per questo, in gran segreto, ieri pomeriggio ha deciso di incontrare a quattr’occhi il plenipotenziario del Cavaliere, Denis Verdini.
Un faccia a faccia organizzato lontano da occhi indiscreti. I due parlano a lungo del modello spagnolo che in fondo piacerebbe a entrambi. Ma ci sono tante incognite ancora. E il nodo preliminare è politico: il leader Pd vuole garanzie. Non si fida del Cavaliere. «Leggo del vostro partito in rivolta, quelli che attaccano Berlusconi per la scelta di Toti, Fitto che minaccia, cosa sta accadendo? » chiede incuriosito. «Ma nulla, problemi interni, che il presidente risolverà a breve», taglia corto Verdini. Renzi lo incalza: «Sicuro? E se io poi chiudo l’accordo con lui e questi qui non lo seguono? Non voglio scherzi». L’ex coordinatore forzista tampona: «Tutto è in via di soluzione, noi abbiamo una sola parola, quella di Berlusconi, te lo garantisco ». E il sindaco di Firenze: «Le garanzie le voglio da lui, voglio parlare con lui». Forza Italia infatti è lungi dall’essere un monolite sulla legge elettorale. Se ne è accorto Dario Nardella, che ieri ha incontrato a Montecitorio Renato Brunetta, il capogruppo che si spende per il Mattarellum. I distinguo non mancano. «Non condivido la posizione espressa dal mio capogruppo — ha messo subito a verbale il “lealista” Saverio Romano — e auspico che, su un tema cosi importante come la riforma elettorale, venga convocata una riunione di gruppo».
Per questo, viste le due linee dentro Forza Italia, Renzi si è deciso a incontrare di persona il “titolare” della ditta. Il vero faccia a faccia, quello che pesa, avverrà molto presto, dopo la direzione Pd di domani.
È in agenda per sabato, forse nella sede democratica di Largo del Nazareno. Dove il Cavaliere non ha mai messopiede. È convinto, nel momento storico di maggior discredito personale, di conquistare in questo modo la resurrezione politica.
Nel frattempo Renzi e i suoi iniziano a vedere con una certa apprensione il formarsi di un fronte trasversale favorevole al mantenimento del proporzionale puro con una preferenza, così come lasciato in piedi dalla Consulta. Anche nel Pd non mancano i favorevoli, come Beppe Fioroni: «La Consulta ci consegna un sistema proporzionale e la preferenza. Guardo con preoccupazione a come si lavorerà per togliere ai cittadini il loro diritto di scelta e di democrazia piena». La nostalgia del proporzionale starebbe contagiando anche molti della mozione Cuperlo, spaventati dall’idea di un sistema elettorale — spagnolo o Mattarellum — che metterebbe le candidature alla mercé del segretario. Tra i sostenitori del proporzionale ci sarebbero anche Grillo e Casaleggio.Forse non è un caso se ieri, quando il vicepresidente M5S della Camera, Luigi Di Maio, ha chiesto il ripristino del Mattarellum, una nota firmata da tutti i componenti grillini della commissione affari costituzionali l’abbia apertamente sconfessato con una benedizione del sistema proporzionale puro: «Non sarà un granché, ma almeno è legittimo». In fondo anche a Berlusconi il proporzionale non dispiacerebbe: nessun vincitore e il Pd sarebbe costretto di nuovo a rivolgersi a lui. Rischi che sono ben presenti ai renziani. «La legge elettorale - spiega Maria Elena Boschi - va cambiata subito. Altrimenti, se prevalessero le tentazioni proporzionaliste, andremmo dritti alla prima Repubblica e addio governabilità».
Se Renzi teme questa nuova nostalgia proporzionalista, sul tema del rimpasto sembra diventato invece indifferente. Un cambiamento che è stato apprezzato da Napolitano nel lungo colloquio dell’altro ieri. Anche perché il capo dello Stato resta contrario sia al rimpasto — difficile non aprire una crisi con 4-5 ministri da sostituire — sia all’ipotesi di un Letta-bis. Troppi i rischi legati a questa operazione, troppo tempo perso inutilmente. Un altro aspetto che Napolitano ha valutato positivamente del faccia a faccia con il segretario democratico è stata la chiusura ufficiale del capitolo elezioni anticipate. «Renzi — è la convinzione del presidente della Repubblica — ha capito che bisogna arrivare alla primavera del 2015. Con Letta a palazzo Chigi a gestire il semestre europeo».

Corriere 15.1.14
Il leader attacca a tutto campo: «Subito ius soli e unioni civili»
Il segretario incalza il governo: basta figuracce come sull’Imu
di Monica Guerzoni


ROMA — Matteo Renzi torna in diretta su Twitter, si scusa per la mezz’ora di ritardo e poi tira giù un burrascoso torrente di parole che rischiano di sommergere Palazzo Chigi. «È il nostro governo e dobbiamo incalzarlo, ma basta figuracce come quella dell’Imu». Per lui affermare che l’esecutivo «ha fatto poco è un eufemismo» e per chiarire il concetto lancia l’hashtag «no marchette». E Nunzia De Girolamo? Per lui deve lasciare: «La Idem si è dimessa...».
La tregua (armata) con Enrico Letta è a rischio, tanto che domani il premier potrebbe non andare alla Direzione nazionale. A sera il leader prova a placare le acque, giura che lui con Letta non ha «mai litigato» e definisce «stucchevole il giochino del chi logora chi». Il problema è che adesso il segretario prende di mira Alfano: «Quanto staremo al governo con Ncd? Il tempo necessario a fare approvare anche a loro lo ius soli e le unioni civili alla tedesca». Incalza, avverte, mette il vicepremier bruscamente alla prova: «Se non vogliono più fare le riforme costituzionali ce lo dicano, ma sarebbe una sorpresa».
L’attacco è a tutto campo. Investe la squadra, minaccia l’accordo di maggioranza, riaccende i dissidi interni ai democratici. «Proponiamo agli altri un patto che tenga insieme legge elettorale, revisione del Senato e Titolo V» risponde sul social network, legando la riforma del sistema di voto alla riscrittura della Carta. E se a Palazzo Chigi temono che il segretario voglia il voto, lui tranquillizza Letta: «Ci mettiamo almeno un anno...». Ma subito torna all’attacco e si dice «veramente colpito» dal «clamoroso passo indietro» di Alfano: «Se Ncd dice no a una delle nostre tre proposte, apre un problema». A farlo arrabbiare è stata l’idea di tagliare da 315 a 210 il numero dei senatori: «Non condividiamo la proposta di Ncd. Per noi va tolta ogni funzione elettiva». E ancora, con un aggettivo non proprio affettuoso agli alleati di Ncd: «Per me il Senato non deve rimanere in piedi... Questi che dicono sì, eliminano le cose e poi le tengono lì, non pensino di far finta che noi non ce ne accorgiamo». Renzi ancora non sceglie fra i tre modelli di legge elettorale che ha indicato, ma si dilunga in difesa di quell’«ispanicum» che piace a Berlusconi: «A noi vanno bene tutti e tre, ma lo spagnolo garantisce governabilità e impedisce le larghe intese». E quando un oppositore lo provoca chiedendogli se manderebbe sua figlia ad Arcore e come pensi di fare una legge elettorale con il Cavaliere, lui si irrigidisce: «Spero per lei che le abbiano spiegato la differenza, ma non credo».
È un nuovo, insidiosissimo fronte. Ancor più del rimpasto, «vecchio e stantio». Renzi spazza via sospetti ed elucubrazioni: «Piacerebbe ai grillini che il Pd si mettesse in una sorta di compro-baratto-vendo di poltrone... Ma non ci caschiamo. Il premier può chiedere opinioni ai partiti, ma la scelta sui propri collaboratori spetta al capo. Se pensa che alcuni ministri non stiano andando bene, fa benissimo a cambiarli». Il leader aspetta di sentire come, nell’aula della Camera, De Girolamo spiegherà i fatti della Asl di Benevento e, su quella base, i democratici prenderanno una posizione unitaria: «Niente processi in contumacia». Ma il punto che gli sta cuore è questo, è prendere distanze da un problema che non ritiene suo: «La domanda va fatta a Letta, che non mancherà di prendere posizione in modo rapido». Come a dire che tocca al premier decidere, al premier assumersi la responsabilità di chiedere al ministro un passo indietro. E Cancellieri? «Per me doveva lasciare e non ho cambiato idea». Gli chiedono se non tema la «trappola» del Letta bis e lui, sferzante: «Il mio obiettivo non è stare col fiato sul collo a quelli del governo, c’è di meglio per me». Dove il «quelli» è rivolto a Letta e ai suoi ministri. Ma quando gli chiedono di Napolitano lui prontamente lo difende: «Non si tocca». Tagliente, battagliero, a tratti ironico risponde ad oltre cinquanta domande, senza schivare le più antipatizzanti e spesso cavalcando l’onda dell’anti-politica: «Perché i sottosegretari devono viaggiare in auto blu? Vadano a piedi».
Nel Pd il clima è tesissimo. A sera, mentre il leader incontra i senatori, Gianni Cuperlo riunisce i suoi deputati. Ci sono i dalemiani, i bersaniani, i «giovani turchi» di Orfini e c’è anche Stefano Fassina. Che fare? Dialogare con i renziani o dar vita a una corrente di minoranza? La riunione è stata nervosa, complessa e non ha sciolto il nodo.

Il Sole 15.1.4
Marco Carrai, l’America e l’Opus Dei
Chi è l'uomo-ombra del renzismo
di Claudio Gatti


Per Matteo Renzi, e per gli altri amici è Marchino, un vezzeggiativo amichevole dovuto anche alla sua gracilità. Ma il peso specifico di Marco Carrai è inversamente proporzionale alla sua statura, perché da sempre è il collaboratore di maggior fiducia del nuovo segretario del Partito democratico.
Eppure di questo 38enne di Greve in Chianti si sa piuttosto poco. Schivo di natura, Carrai tende a evitare i contatti con i media. Solo con notevole sforzo, Il Sole 24 Ore è riuscito a convincerlo non solo a parlarci di sé ma anche di scrivere quello che ci avrebbe detto.
Abbiamo così saputo che da ragazzo ha trascorso ben otto anni in un letto d'ospedale. E che in quel periodo ha sviluppato un fortissimo senso di lealtà per alcune persone, che gli sono state vicine e lo hanno sostenuto negli anni di malattia. A partire da Matteo Renzi. «La sua amicizia mi ha salvato la vita», dice.
Ma veniamo alle sue attività pubbliche. Negli anni della presidenza della Provincia di Firenze Carrai è stato capo della segreteria di Renzi e consigliere della Florence Multimedia, la società di comunicazione che gli ha fatto da trampolino di lancio mediatico (secondo la Corte dei Conti anche a spese dei contribuenti fiorentini), poi responsabile della campagna elettorale, fondatore del think tank del renzismo, la "Fondazione Big Bang", e consigliere comunale. Con il tempo sono arrivate le cariche più pesanti: consigliere dell'Ente Cassa di Risparmio di Firenze, amministratore delegato di Firenze Parcheggi, presidente di Aeroporto di Firenze Spa. Oltre a quelle di membro del Cda della Banca di Credito Cooperativo di Impruneta e della Banca di Credito Cooperativo del Chianti fiorentino.
Fin qui le cariche publiche. Ma Carrai non è solo il consigliori del politico su cui poggiano le speranze di molti italiani, è anche un imprenditore. Quindi conduce affari per se stesso. E ha accumulato varie cariche private: consigliere di Cki Srl, presidente di Cambridge Management Consulting Srl, direttore generale di Your Future Srl e socio di quest'ultima, della menzionata Cambridge, di D&C Srl, Panta Rei Srl, ItalianRoom Srl, Imedia Srl, Car.Im Srl e indirettamente anche di C&T Crossmedia Srl. Fin qui in Italia.
All'estero è socio di Wadi Ventures Management Company Sarl, società registrata in Lussemburgo comproprietaria di Wadi Ventures Sca, altro veicolo lussemburghese al quale Carrai partecipa come membro del Consiglio di sorveglianza, e a sua volta omonimo di un fondo di investimento israeliano lanciato da un suo socio.
In termini puramente quantitativi - di accumulazione di cariche o, se si preferisce, di sovrapposizione di ruoli - il suo metodo sembra insomma quello tradizionale del melius abundare quam deficere.
Passiamo ai comportamenti. «Quando venne la prima volta all'assemblea dei soci dell'Ente Cassa di Risparmio, Carrai si presentò dicendo che Renzi era come un fratello per lui», ricorda un socio. «Il discorso non fu accolto bene. Anzi, fu considerato un passo falso. Perché all'Ente Cassa abbiamo almeno la pretesa di essere indipendenti e quella frase fu interpretata, forse a torto, come il preavviso di una maggiore politicizzazione. Non si deve infatti dimenticare che l'Ente dispensa circa 25/30 milioni all'anno che, in una realtà piccola come la nostra, non è poco».
L'Ente Cassa non è solo un dispensatore di fondi. È anche un importante azionista di Banca Intesa Sanpaolo. E qui gli intrecci non mancano. Perché Jacopo Mazzei è stato nominato nel Consiglio di Sorveglianza di Intesa. Così come Francesco Bianchi, ex dirigente di banca e consulente, che assieme al fratello Alberto è amico sia di Carrai sia di Renzi. Mentre nella sua veste di imprenditore privato, Carrai è diventato socio in Italia e/o in Lussemburgo di due ex alti dirigenti di Intesa.
Tra i soci del trentottenne di Greve ci sono anche due persone vicinissime a Franco Bernabé, manager di Stato per eccellenza, oggi senza poltrona eccellente. Ci riferiamo al socio di Carrai in C&T Crossmedia, Chicco Testa, ex presidente dell'Enel da anni legato da amicizia e affari a Bernabé. E a Marco Norberto Bernabé, figlio di Franco, che con il veicolo di famiglia FB Group ha investito in Cambridge Management Consulting, in YourFuture e nel fondo israeliano Wadi Ventures (di cui è socio fondatore un veterano dell'Unità 8200, il servizio di signal intelligence delle forze armate israeliane, l'equivalente della Nsa americana).
Che anche su questo fronte, i rapporti di affari si intreccino con quelli "politici" lo dimostra l'elenco dei finanziatori della Fondazione Bing Bang, il think tank renziano costituito dallo stesso Carrai nel febbraio 2012. Oltre ai 10mila euro di Jacopo Mazzei, spuntano infatti i 10mila di E.Va. Energie, società di cui Chicco Testa è presidente e FB Group azionista (al 18,60%), e altrettanti della Telit, anch'essa gestita da Testa, storicamente partecipata da FB Group attraverso il veicolo Boostt BV e, attraverso altri veicoli, anche da Massimo Testa, fratello di Chicco.
Insomma, nella vasta rete di contatti che Carrai ha costruito in questi ultimi anni, distinguere quelli attribuibili alla politica da quelli attribuibili agli affari personali non pare facile.
Abbiamo dunque chiesto lumi.
Quando si tratta con lei, come si fa a capire se si sta trattando con il più stretto collaboratore del candidato alla guida del Paese, con un manager pubblico, oppure con un imprenditore privato?
«Non ho capito di cosa sta parlando, scusi?»
Quando si ha lei come interlocutore, come si fa a capire in quale veste lei interloquisce?
«Quando io parlo dell'aeroporto di Firenze interloquisco come presidente dell'Aeroporto di Firenze, quando parlo dei miei business privati interloquisco come imprenditore. Non voglio conflitti di interessi nemmeno a diecimila miglia: nessuna delle mie aziende ha mai lavorato per il Comune o per l'Aeroporto di Firenze. Mi attengo alle leggi italiane, a quello che dovrebbero fare tanti italiani e a quella che è la mentalità americana».
Parlando di mentalità americana sul conflitto d'interesse, non trova inopportuno ricevere denaro con la mano destra in quanto socio-fondatore della Fondazione Big Bang e con la mano sinistra in quanto socio-fondatore di Cambridge Management e YourFutures. Magari dalle stesse persone?
«Che? Scusi, ma cosa dice? Da chi avrei ricevuto soldi io?»
Dai finanziatori di Fondazione Bing Bang e dagli investitori di Cambridge e YourFuture.
«Ma che dice? Cambridge Consulting e YourFuture sono società di consulenza… non ricevo soldi».
Sono entrati dei soci, che hanno investito dei soldi. E le stesse persone hanno messo dei soldi nella Fondazione.
«Io non vado a vedere le visure camerali… non mi competono queste cose. A me compete assicurarmi che tra i miei soci non ci siano dei delinquenti... E' un reato quello che sto facendo? No».
Noi parlavamo di potenziali conflitti di interesse, non di reati. E su quello, in America, vige un motto: better safe then sorry - traducibile in meglio circospetti che pentiti.
A parte la politica, l'amministrazione pubblica e gli affari, c'è la sfera religiosa. Marco Carrai appartiene a una famiglia profondamente cattolica, nella quale è consuetudine andare a Lourdes o farsi il segno della croce prima di mangiare. Profondamente cattolico anche lui, oltre all'Azione cattolica, è da sempre vicino a organizzazioni spesso associate al potere temporale. Ci riferiamo alla Compagnia delle Opere, braccio economico di Comunione e Liberazione (che in Toscana ha avuto suo cugino Paolo tra i fondatori) e all'Opus Dei.
Sulla scena politica italiana l'Opera si è affacciata in vari modi. Il contributo che probabilmente ha avuto l'impatto più significativo l'ha dato favorendo l'incontro tra Marcello Dell'Utri e Silvio Berlusconi. «La mia formazione è legata all'Opera, che lascia un'impronta indelebile sugli uomini che ha formato», ha spiegato il senatore co-fondatore di Forza Italia in un'intervista a La Stampa. «Cominciai a frequentare la loro residenza universitaria. Direttore era (…) un sacerdote dell'Opera (…) che aveva fatto l'università con un giovane di cui mi parlò molto bene, Silvio Berlusconi. Mi diede il suo numero e mi disse: "Se vai a Milano chiamalo, è un ragazzo in gamba"». Il resto è storia. Politica e non.
Vari articoli di giornale hanno associato Carrai all'Opera. Gli abbiamo perciò chiesto se ne è membro.
«No!», ha risposto pronto.
Che rapporti ha con l'Opus Dei?
«Che rapporti ho con l'Opus Dei??? Zero!».
Nella sua pagina personale del sito LinkedIn, oltre alle cariche pubbliche, viene citata solo Artes, un'associazione dell'Opus Dei. Come mai?
«Artes è una bella cosa, io conosco il direttore… come conosco tante altre persone».
In occasione dell'uscita del film tratto dal bestseller di Dan Brown Il Codice da Vinci, Carrai ha sentito l'urgenza di intervenire a difesa di un'istituzione che riteneva ingiustamente bistrattata. Da un romanzo. E dopo aver ingaggiato due studiosi italiani e un sacerdote dell'Opus Dei, ha curato la pubblicazione di un libello di rettifica intitolato Codice da Vinci: bugie e falsi storici. Gli abbiamo chiesto il motivo.
«In ospedale ho letto tanti libri. Incluso quello di Brown», ha risposto. «E ho trovato che diceva una marea di cazzate».
Che sapeva lei dell'Opus Dei per arrivare a questa conclusione?
«C'erano scritte cose talmente strane che mi sembravano cavolate… sembravano il peggio del peggio che c'era al mondo… Io alcune persone dell'Opus Dei le conoscevo… il mio professore… uno dei miei professori di economia era dell'Opus Dei, e le assicuro che era una delle persone più buone che abbia mai incontrato in vita… che più mi ha aiutato quando ero in ospedale. E quindi pensai di fare un libretto contro. Punto. Io non sono mai stato dell'Opus Dei. E probabilmente non lo sarò mai».
cgatti@ilsole24ore.us

Il Sole 15.1.14
Tra diplomazia e intelligence. Chi sono Browne e Ledeen
I due consiglieri atlantici (e opposti) del sindaco
di C. G.


Matteo Renzi e il suo collaboratore Marco Carrai amano molto l'America. E nella vasta rete di contatti che vi hanno costruito spiccano due figure quasi opposte: Matt Browne e Michael Ledeen.
Browne ha 41 anni, è stato uno dei più stretti collaboratori di Tony Blair in Gran Bretagna e ora fa parte del più vivace think tank neo-progressista americano assieme a John Podesta, l'ex braccio destro di Bill Clinton recentemente ingaggiato da Barack Obama come consigliere.
Attraverso il filtro di Carrai, Browne ha introdotto Renzi a Blair, al fratello dell'attuale leader del partito Labour britannico David Miliband e a molti democratici americani.
Michael Ledeen invece ha 73 anni e ha lavorato nelle Amministrazioni di Ronald Reagan e di George W. Bush distinguendosi in entrambi i casi per le sue iniziative da freelance dell'intelligence. La prima è consistita nello scambio tra missili e ostaggi con l'Iran di Khomeini, un'operazione clandestina passata alla storia con il nome di Irangate. Una commissione di inchiesta parlamentare la definirà "episodio imbarazzante" ed "esemplare dei rischi di iniziative fuori dai canoni". Anche perché che l'iraniano individuato e patrocinato da Ledeen come perno dell'intera operazione, Manucher Ghorbanifar, era risultato un inaffidabile faccendiere e acclarato bugiardo.
Quindici anni dopo, il nome di Ledeen è riemerso in un'altra inchiesta parlamentare su un'altra operazione da lui escogitata. Parliamo di un "summit" segreto organizzato a Roma nell'ottobre del 2011 tra due funzionari del Pentagono e i vertici del Sismi per valutare un'operazione di spionaggio in Iran. E chi era il perno di quell'operazione? Ghorbanifar. Ça va sans dire che quell'iniziativa aveva un costo - 25 milioni di dollari. E che è finita nell'elenco degli "episodi imbarazzanti".
Insomma, a Ledeen la serenità della torre d'avorio non è sembrata mai bastare. E ha sempre dimostrato una particolare attrazione per il mondo dei servizi segreti. Incluso quelli italiani. Nel 1980 è stato anche al servizio di Giuseppe Santovito, il generale pidduista all'epoca capo del Sismi. Negli stessi anni, ha inoltre coltivato altre due amicizie di peso. Con Bettino Craxi e Francesco Cossiga.
Non resistiamo alla tentazione e chiediamo allo stesso Ledeen: «Che senso ha per qualcuno che dice di voler cambiare tutto nella politica italiana chiedere consigli a chi, come lei, li scambiava 30 anni fa con Craxi e Cossiga? Scusi, ma lei è il vecchio, non il nuovo».
«È vero», ammette prontamente Ledeen con quella punta di autoironia che lo contraddistingue.
Chiediamo poi a Browne cosa pensa del fatto che quando è a Washington Renzi passi da un progressista come lui a un neocon come Ledeen. «Quando un politico straniero con grandi ambizioni visita Washington è giusto che stabilisca rapporti con tutte e due le parti politiche. Ma gli incontri di quel genere sono diversi da quelli in cui si scambiano idee, valori e modi di far politica. Dubito che discuta di queste cose con conservatori».
Chiediamo allora a Ledeen di che cosa parla con Renzi. «Delle cose che forse mi illudo di conoscere - Medio Oriente, Russia, chi sale e chi scende nella scena politica americana».
E Renzi cosa le dice?
«Quando siamo insieme per lo più mi fa domande… Ma se continuiamo a parlare vuol dire che le mie risposte gli vanno bene».
Abbiamo chiesto chiarimenti anche a Carrai. «A me piace andare a capire l'intelletto delle persone. Ledeen è una persona intellettualmente viva… come ce ne sono altre diecimila».
Il punto è quello: Perché proprio Ledeen?
«Penso di saper scegliere le persone…»
Sapeva di Michael Ledeen e del generale Santovito?
«Chi è il generale Santovito?»
L'ex capo del Sismi.
«Non so chi sia… e questo è a riprova del fatto che con Michael Ledeen non ci sono rapporti oscuri, come qualcuno vuole insinuare».
Veramente questo prova soltanto che lei non sa chi è Michael Ledeen.
«Quando viene in Italia e mi chiama, lo saluto volentieri (…) è un rapporto di natura amicale e intellettuale».
Carrai parla di pura curiosità intellettuale. Ma il Sole 24 Ore ha trovato un episodio in cui, di fatto, la condivisione di idee c'è stata.
Agli inizi del 2011, con Bengasi in subbuglio ma Gheddafi ancora saldo al potere a Tripoli, in un suo blog del 19 febbraio Ledeen scrisse: "Dal Medio Oriente al Sud America il popolo sta chiedendo un cambiamento rivoluzionario... Sentiamo la voce dell'insurrezione democratica. Se riuscisse a prevalere, potrebbe essere l'inizio di una rivoluzione democratica su scala globale". Il 23 febbraio si espresse più chiaramente intitolando il suo pezzo "Bomb Libya".
Il giorno successivo Carrai inviò una lettera aperta a La Repubblica nella quale formalmente si invitavano i lettori a sottoscrivere un "fondo di solidarietà" a favore dei rivoltosi libici, ma che di fatto invocava un intervento europeo: "Siamo di fronte a una rivoluzione planetaria (…) l'Europa non può in nome di una realpolitik fingere una diplomatica neutralità abbandonando alla morte coloro che combattono per la libertà". E con entusiasmo molto ledeeniano, o forse garibaldino, ma certamente poco cattolico, concludeva: "Se nel Risorgimento ci fossero stati attendismi e non la gioiosa e irruenta forza di giovani liberi oggi non ci sarebbe l'Italia".
Il problema è che adesso non c'è più la Libia, e che il primo fornitore di petrolio dell'Italia e il terzo di gas naturale non riesce più ad estrarre petrolio e pompare gas come prima.
Per Ledeen conta poco. Lui sta in America, dove grazie al metodo estrattivo del fracking c'è un nuovo boom gas-petrolifero. E dove si tiene occupato cercando di mandare a monte l'accordo di Ginevra con l'Iran. Affinché, come ha scritto, «l'Occidente dimostri di essere veramente pronto a sfidare il regime di Teheran». Magari con una forza armata. Gioiosa e irruenta, ovviamente.

La Stampa 15.1.14
E a Palermo l’uomo di Renzi indagato per le spese pazze
Il nome di Faraone nell’inchiesta della Procura sui conti dei gruppi consigliari
Borse Vuitton, Diabolik e iPad senza neanche uno scontrino
di Antonio Pitoni

qui

il Fatto 15.1.14
Regione Sicilia
Palermo, 97 inquisiti per 10 milioni di spese personali a carico dei contribuenti
Il primo renziano indagato: Faraone, peculato sui rimborsi
Al responsabile Welfare dei Democratici viene contestata una spesa di 3.380,6 euro. I Cinque Stelle attaccano. Lui: “Sono serenissimo”
di Giuseppe Lo Bianco


Palermo Cravatte e borse firmate Louis Vuitton, ma anche biancheria intima griffata, soggiorni in alberghi a cinque stelle, gioielli, argenteria e persino l’acquisto di un’auto con trasferimenti di denaro nei conti correnti personali: c’è il campionario un po’ abusato del lusso più sfrenato nelle spese pazze dei gruppi parlamentari dell’Assemblea regionale siciliana costate un avviso di garanzia per peculato inviato a 13 capigruppo della scorsa legislatura e un’iscrizione nell’elenco degli indagati per 83 deputati delle ultime tre legislature. Tra questi anche Davide Faraone. Al deputato a Montecitorio e responsabile del Welfare nella segreteria di Renzi sono contestate spese per 3.380 euro. “Sono serenissimo, se c’è qualche ladro deve pagare”, dice il renziano. I Cinque Stelle se la prendono con il segretario Pd: “Cosa dice di Faraone? Perché non parla?”. L’indagine del gruppo tutela spesa pubblica del nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Palermo guidato dal colonnello Fabio Ranieri, ha portato a galla l’uso disinvolto e sganciato da qualsiasi interesse pubblico di quasi dieci milioni di euro affidati ai gruppi parlamentari di tutti i partiti, che avrebbero dovuto essere utilizzati per pagare portaborse, impiegati e costi di segreteria.
IL DENARO è finito, invece, in numerosissimi rivoli che l’indagine coordinata dal procuratore aggiunto Leonardo Agueci e condotta dai pm Sergio De Montis e Maurizio Agnello sta ricostruendo anche con l’interrogatorio,nei prossimi giorni, dei tredici destinatari degli avvisi di garanzia. Gli indagati per peculato sono in tutto 97 e tra loro anche l’ex presidente della Regione Raffaele Lombardo, l’ex presidente dell’Ars Francesco Cascio, e, tra gli altri, i deputati Nino Dina, Salvatore Cordaro, Gaspare Vitrano, MassimoFerrara, Franco Mineo, il segretario regionale del Pd Giuseppe Lupo, Bernardo Mattarella, Cateno De Luca, Riccardo Savona, Lino Leanza, Paolo Ruggirello, Salvino Pantuso, Carmelo Curenti e Alessandro Aricò. A rivelare nell’aula di palazzo dei Normanni di avere ricevuto un avviso di garanzia è stato l’ex capogruppo del Pd Antonello Cracolici, oggi presidente della commissione Affari istituzionali, che ha convocato per stamane una conferenza stampa per difendersi dalle accuse: “Ogni contestazione riguarda la mia attività di capogruppo – ha dichiarato – non mi viene contestato di aver messo un euro in tasca”. Avrebbe utilizzato il denaro, secondo l’accusa, per acquistare cialde per la macchinetta del caffè, acqua minerale e pubblicare necrologi sul quotidiano cittadino a differenza del sindaco di Marsala, Giulia Adamo, ex Forza Italia e Udc, accusata di avere acquistato un regalo di nozze in gioielleria spendendo 1690 euro. Di più, 2500 euro, sempre per un regalo di nozze a un’impiegata del gruppo, ha speso il Pd. E 24 bonifici, per un totale di 51 mila euro, sono stati scoperti nei conti dell’on. Rudy Maira (ex Pid) che li ha usati per l’acquisto di un’auto, utilizzata, secondo le fiamme gialle, per fini privati. Avviata nell’ottobre del 2012 con il sequestro di una copiosa documentazione a palazzo dei Normanni, l’inchiesta ha subito una svolta nei giorni scorsi con il deposito in procura di una dettagliata informativa dalla quale sono scaturiti gli avvisi di garanzia e le iscrizioni nel registro degli indagati.
IL TERREMOTO giudiziario ha scosso ulteriormente l’assemblea regionale popolata da oltre cento nuovi portaborse assunti per tre anni e già attraversata da tensioni e contrapposizioni con il governo guidato da Rosario Crocetta. Proprio ieri, per reagire all’inserimento di 39 milioni di euro di spese dell’Ars tra i fondi “senza copertura certa” che la Regione dovrà trattare con lo Stato, i commessi, eseguendo nuove direttive, hanno imposto agli assessori di scendere dall’auto all’ingresso di piazza Indipendenza: “Mi dispiace, non potete entrare con l’auto, dovete andare a piedi così come prevede il regolamento”. Da ieri fatto applicare alla lettera, senza eccezioni.

Insieme ai Pm
Qui di seguito il discorso integrale pronunciato da Barbara Spinelli domenica sera, durante la manifestazione organizzata a Palermo dal Fatto Quotidiano in segno di solidarietà a Nino Di Matteo e i pm della trattativa Stato-mafia
Dopo di lei hanno parlato l procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, a Marco Travaglio e Nino Di Matteo
il Fatto 15.1.14
Restiamo le sentinelle contro l’omertà di Stato
I magistrati di Palermo non sono minacciati solo dai messaggi violenti di Totò Riina dal carcere, ma dalla diffidedenza di chi parla con disprezzo dei “professionisti dell’Antimafia”
Siamo al fianco di chi lotta per sciogliere i nodi della storia d’Italia
di Barbara Spinelli


Vorrei provare a riflettere su quel che sta accadendo nella lotta antimafia alla luce della crisi che viviamo, perché ogni crisi è un rivelatore. Nel nostro caso, fa vedere come si costruiscono e si modificano i soggetti del quartetto insostenibile composto da mafia, antimafia, cui aggiungerei i co-protagonisti che sono lo Stato, e l’antistato. Cosa ci rivela la crisi? E visto che come titolo del nostro incontro è stata scelta la domanda rivolta alla sentinella nel deserto, nel profeta Isaia: a che punto della notte sono i quattro soggetti? Non ho risposte chiare (è ancora notte infatti) ; quindi propongo una meditazione su alcuni punti che mi paiono cruciali. Che sono i nodi – come direbbe Solzenicyn – della nostra storia presente e anche passata.
La crisi e la scomparsa della questione mafia
Primo nodo. La questione mafia viene sostituita dalla questione antimafia, ed è quest’ultima a creare problemi, a essere invisa non solo a Cosa Nostra o alla ‘ndrangheta o alla Sacra Corona ma a una porzione non irrilevante dell’establishment. Il rimedio al male, in altre parole, diventa parte del male, perde legittimità. Abbiamo già conosciuto questo capovolgimento nei primi anni 90, e anche allora esso coincise con una grande crisi: la fine della Guerra fredda. L’interesse primario di chi diffida dell’antimafia è, come allora, quello di preservare una certa immagine dello Stato, scosso dalla crisi e dunque desideroso di apparire omogeneo, non esplorabile perché ogni esplorazione vien vista come destabilizzazione. Siamo in guerra (la crisi è una guerra, economica e politica) e siccome in guerra le verità son scomode vale il motto: “Right or wrong, my State”. Nel torto o nella ragione difendo questo Stato (il motto dice questo Paese), quali che siano le sue corruzioni e i suoi inconfessati sottosuoli, presenti e passati.
È un’autodifesa che si irrigidisce, nel momento in cui si comincia a far luce sull’esistenza di questi sottosuoli, che più volte hanno tentato di sovvertire o aggirare lo Stato dando vita, appunto al quartetto insostenibile. Questa verità non s’ha da dire. Non s’ha da dire che lo Stato è stato ricattato da forze eversive interne o terroriste o criminali, con le quali si è patteggiato e forse si continua a farlo. Non s’ha da dire che in Italia un politico pregiudicato, interdetto dai pubblici uffici, incandidabile, può tranquillamente presentarsi alle elezioni... e infatti nessuno lo dice, questa è l’Italia dell’illegalità e della truffa: siamo fatti così, colpevoli la natura o la psicologia. Di qui l’offensiva contro i magistrati di Palermo e contro il processo su Stato-mafia. Il loro isolamento avviene in due modi: o screditandoli professionalmente o tacendo sul loro operato, fino a ignorare le condanne a morte emesse da Riina o altri. Condanne nominative, cui si risponde con una solidarietà generica e con eufemismi che edulcorano i fatti (meglio dire minaccia a Di Matteo che condanna: il pericolo s’annebbia).
I messaggi del boss: un avvertimento allo Stato
Il secondo nodo è Riina stesso, che il 14 novembre manda messaggi dal carcere di Opera in cui si trova. Mi è difficile credere che una persona come lui non sospetti di essere intercettato, mentre parla con il boss Alberto Lorusso. Vorrei provare quindi a tradurre in chiaro l’avvertimento che lancia ai magistrati certamente (anche se per esperienza egli sa che più annuncia stragi, più essi s’incaponiranno nella ricerca della verità), ma soprattutto al suo vero interlocutore che è lo Stato. Ed ecco cosa gli dice, sempre secondo la mia ricostruzione: “Attenzione, caro Stato, qui ti stanno attaccando e svelando per come sei: niente affatto compatto e omogeneo ma in parte inabissato, in parte coinvolto in trattative con noi che tu lo sai, ci sono state. Stanno attaccando non un’organizzazione malavitosa ma un sistema criminale, che comprende Cosa Nostra, ma che ha inglobato a più riprese massoneria, servizi deviati, destre eversive, e quell’antistato su cui si vuol fare silenzio. È a te, Stato, che si sta intentando un processo – anche se i magistrati pretendono di rappresentare un’idea superiore e migliore di Stato: cosa che non ti puoi permettere oggi come non potevi durante il caso Moro e ancor meno negli anni 90, perché Kohl in Germania lo disse espressamente: l’Italia se non abbatte la mafia diventa un rischio per l’Unione allargata a Est. Lo stesso Kohl che in due vertici europei, nel maggio e giugno 1990, chiese che la mafia italiana venisse messa all’ordine del giorno (il presidente del Consiglio Andreotti e il ministro degli Esteri De Michelis insorsero contro questa parola. Loro preferivano “criminalità organizzata”: “mafia” rimanda a qualcosa di più vasto, non circoscritto ai “picciotti”). Naturalmente questi retropensieri li immagino, ma non credo siano del tutto inventati. Come mi pare plausibile un altro messaggio sottinteso: “Neanch’io, Riina, voglio questo processo allo Stato, perché alla fine rischio di rimanere col cerino in mano: gabbato, di fronte a voi che mi avete usato e che coi vostri silenzi e le vostre rimozioni mi chiepatto che propongo. Non sto addossandomele proprio in questo momento, occultando la trattativa e raccontando come tutto da solo ho fatto fare la fine del tonno a Falcone, ho fatto volare in aria Chinnici? ”.
Stabilità e larghe intese
Terzo nodo: la stabilità come dogma e la Costituzione come intralcio. Se la crisi è una guerra, non si tollerano alternative al presente rapporto di forze. Cioè: tutt’attorno alle larghe intese è baratro. Di qui l’attacco alla Costituzione del ’48, alla Repubblica che deve farsi presidenziale. Sappiamo che questo era l’obiettivo della P2, del “Piano di rinascita democratica”. Oggi, più che mai, la crisi sembra esigere la sua attuazione: un po’ come in Francia, ma dete di addossarmi tutte le colpe”. Di qui l’attacco al processo sulla trattativa, una sorta di chiamata di correo: “Quei magistrati di Palermo portano addirittura Napolitano”, dice Riina, “e questo tirare in ballo il Quirinale, anche solo per ascoltarne la testimonianza, non mi piace per niente perché a questo punto io appaio come comprimario di un gioco più grande, che la mafia non controlla veramente”. E qui parte il pizzino: “State bene attenti dunque e serbate memoria di cosa sono stato capace di fare: ho fatto fuori Chinnici, poi Falcone e Borsellino con le loro scorte. Tutto il pool di Palermo insomma. Posso rifarlo con i loro successori. E perché lo rifarei? Perché Di Matteo, e tanti magistrati come lui, sono convinti che lo Stato dura ma l’antistato può perire, proprio come Falcone quando disse, il 30 agosto ’91 a Rai3: ‘Certamente c’è speranza. La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine’. Quest’idea non deve passare, perché noi siamo il frutto del ventre vostro, non possiamo morire. E magari per salvare il sistema criminale me le addosso davvero, le colpe: è l’ennesimo nascostamente, il capo dello Stato già presiede il Consiglio dei ministri, e l’esecutivo si fa potere accentratore, insofferente di contrappesi suscettibili di scalfirne il predominio, la supposta efficienza. Tutti dicono che lo Stato ha perso sovranità in Europa? Tanto più deve fingere sovranità ferree. Il che vuol dire: una stabilità che si fa dogma (“stabilità dei cimiteri”, la chiama il Wall Street Journal), e un potere politico che definisca l’iter della lotta alla criminalità come più gli conviene. È all’ombra di tale stabilità che i governi fanno corpo col volere dei mercati. Rivelatore da questo punto di vista il rapporto presentato il 28 maggio scorso da JP Morgan: le costituzioni, nei paesi più marcati dalla resistenza antifascista, sono un intralcio per le oligarchie che gestiscono la crisi, non un punto di forza: troppi diritti individuali e collettivi, troppe garanzie sociali, troppa check and balance.
Se leggete quel rapporto, avrete un’impressione, netta: chi parla non è solo JP Morgan, ma JP Morgan recepisce e rispecchia i desiderata di buona parte della classe dirigente, e nel caso italiano, riecheggia il Piano di Gelli. L’orizzonte simbolico non è un 25 aprile – la liberazione dalle mafie – ma l’8 settembre del generale Badoglio. Quel che si vuole è una resa incondizionata (non più all’esercito di Eisenhower ma ai potentati economico-finanziari), senza rompere però con l’alleato di ieri, che nel ’43 era Hitler e oggi è il sistema criminale con tutti i suoi rami. L’Italia allo sbando non era un danno collaterale della strategia di Badoglio e del re. Era l’obiettivo dell’8 settembre.
La resistenza: ricreare un clima “costituente”
Il quarto nodo è la resistenza a questi doppi giochi. Sappiamo che lo stesso giorno in cui Badoglio e il re fuggivano da Roma, consegnandola alle truppe tedesche, i resistenti crearono il Comitato di Liberazione nazionale e promisero un’Assemblea costituente appena cessate le ostilità. Ecco, io credo che siamo qui per dire che questo vogliamo, difendendo i magistrati: un clima “costituente”.
Il che vuol dire: la verità sui patti stretti tra mafia, P2, servizi deviati, antiStato. Un’Italia che resiste, dove sovrano è il popolo con la sua Carta. E non solo è sovrano: può resistere, se minacciato da occulte reti criminali (in Germania è un diritto riconosciuto: lo dice l’articolo 20 della sua Costituzione).
“Noi giudici, da soli, con ce la faremo mai”
Il quinto nodo è l’offensiva contro la cultura dell’antimafia. Anche qui gli anni 90 si ripetono, solo che a coniare l’epiteto “professionisti della legalità” non è Sciascia, che nell’87 attaccò i “professionisti dell’antimafia”, ma persone di grado ben minore che lo mimano, pur sapendo che Sciascia scrisse prima di Capaci e di Via D’Amelio, e cambiò idea dopo aver parlato con Borsellino. L’offensiva è contro quel che fa la scuola per educare a una cultura della legalità, e contro riunioni come questa di Palermo.
Vorrei citare Galli della Loggia, sul Corriere: l’antimafia “si sostanzia in nient’altro che in convegni, tavole rotonde, oceani di chiacchiere di Autorità varie (...), in scolaresche precettate d’imperio ad ascoltare gli sproloqui di sindaci e assessori”. Nando dalla Chiesa gli ha risposto bene, ricordando le parole di Borsellino sull’importanza di un’opinione pubblica che sostenga l’antimafia giudiziaria. Anche Rocco Chinnici disse (e lo seguirono poi Caselli, Ingroia): “Parlare ai giovani, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi, fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai”.
Le inquietanti somiglianze con la Grecia dei militari
Sesto e ultimo nodo: la crisi e il caso Grecia. È paese cerniera, nella crisi: in questi anni è stato trattato come cavia e memento, per i paesi in difficoltà. Atene ha una storia diversa dalla nostra, la resistenza comunista fu estromessa dall’arco costituzionale, e la guerra lì continuò fino al ’49. Doveva essere uno Stato anticomunista modello, una piattaforma militare dell’Occidente nella Guerra fredda, e lo diventò non in maniera subdola come da noi, ma palese. La dittatura dei colonnelli nacque da un patto fra Stati uniti e élite militari. Le storie sono diverse dunque, ma certe somiglianze fanno impressione.
Il rapporto dei greci con lo Stato è turbato in profondità. Tanto più ora, che i governi di Atene si sottomettono alle troike europee senza mai discuterne con i cittadini e senza affrontare il nodo decisivo della corruzione: per i greci, une replica umiliante. Così in Italia: il rapporto dei cittadini con lo Stato è un groviglio, troppe sono state le offese che i veri servitori dello Stato hanno subìto da parte dello Stato.
Se esiste un anti-Stato, e se i poteri politici non lo ammettono e denunciano lo strapotere delle procure, come risvegliare nel cittadino uno spirito pubblico? Altro punto in comune: quello che Tsipras, capo dell’opposizione greca, chiama “l’alleanza fra cleptocrazia statale ed élite europee che hanno piegato la Grecia”. La storia italiana è piena di patti simili. Abbiamo già visto come esista una complicità, fra le analisi della JP Morgan e quelle di chi – sulle orme della P2 – continua a mal digerire la Costituzione del ’48. Questi ultimi sono gli eredi di Badoglio: l’equivalente dei colonnelli greci.
Un ringraziamento ai pm che lavorano per la verità
Le mie parole conclusive vogliono essere un grande grazie, a Nino Di Matteo e ai tanti che lavorano a suo fianco. Alle condanne nominative, la nostra risposta è nominativa: siamo con Di Matteo, e con Teresa Principato, Domenico Gozzo, Mirella Agliastro, i magistrati di Trapani. Siamo le loro sentinelle. Li presidiamo. Cosa fanno infatti i magistrati? Guardano nel groviglio per capire come s’è formato: con la complicità di chi, di quali forze esterne alla malavita. Cercano di dire l’indicibile, perché davvero non possiamo, non vogliamo continuare a usare quest’aggettivo: indicibile. Lo ha adoperato Loris D’Ambrosio, nella lettera a Napolitano del 18 giugno 2012, chiedendosi se non fosse stato, negli anni ‘90, “un ingenuo e inutile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”. Siamo stanchi di parole che occultano i reati. Chi vuole che le cose restino indicibili per forza è attratto dal silenzio, parla per allusioni (“Lei sa l’indicibile che sospetto”, scrive tra le righe D’Ambrosio, facendo capire che al Quirinale si sanno cose che non vanno dette). Per forza sceglie il mutismo, che non è segreto di Stato, ma mutismo omertoso. Penso sia l’ora di congedarsi anche dalla parola Italia dei misteri: la storia mostra che dire l’indicibile è possibile. Che gli oceani di chiacchiere vengono da chi mal sopporta riunioni come questa. E che se qualcuno sa l’indicibile, non può metterlo in un cassetto aspettando che la bufera passi e dire, come Pilato: “Che cosa sarà mai, la verità? ”.

il Fatto 15.1.14
Università, l’abilitazione
Caos docenti “Truccato il test nato per evitare concorsi truccati”
di Carlo Di Foggia


Risultati conosciuti in anticipo dagli abilitati, che si congratulano a vicenda; commissari con profili peggiori dei candidati, che truccano i curricula; studiosi di profilo internazionale con decine di pubblicazioni bocciati e modesti concorrenti promossi. La lotta ai baronati universitari, sbandierata dall'ex ministro Mariastella Gelmini, si arena sotto il peso di una valanga di segnalazioni di irregolarità, brogli, parentele e favoritismi. Materia per i giudici amministrativi (e in alcuni casi penali) che nei prossimi mesi potrebbero assestare un duro colpo al pezzo più corposo della riforma introdotta con la legge 240 del 2010.
I guai per il nuovo sistema di reclutamento delle carriere arrivano dalla Valutazione scientifica nazionale (Asn). Il sistema mastodontico due bandi (nel 2012 e nel 2013), migliaia di candidati, 180 commissioni (5 esaminatori) per altrettanti settori ideato dalla Gelmini per archiviare lo scandalo dei concorsi universitari truccati, dove passava chi aveva il cognome giusto, e i migliori spesso restavano fuori. Con il nuovo sistema, per entrare all’università si deve fare un concorso locale, bandito dall'Ateneo, e per partecipare a questo concorso si deve prima superare un vaglio nazionale, l'Asn appunto. Soltanto chi da questa procedura di verifica del curriculum e dei risultati scientifici otterrà l’abilitazione nel settore di riferimento potrà aspirare all’ingresso in una delle due fasce stabilizzate – ordinario (I) o associato (II) – dell’insegnamento universitario. Un sistema pensato per rendere più trasparenti i concorsi e arginare il nepotismo, che però si sta inceppando, assediato dallo spettro dei ricorsi.
Risultati molto poco segreti
I primi dubbi riguardano la segretezza dei risultati. Il 30 novembre le commissioni hanno consegnato i lavori della tornata 2012 al Ministero dell'Istruzione, la pubblicazione va a rilento (siamo al 40 per cento), eppure in molti casi gli abilitati e i bocciati sanno tutto in anticipo. Secondo quanto segnalato al Fatto , ad esempio, durante un convegno a Lecce lo scorso settembre sono stati anticipati i risultati del settore 13 B3, “Organizzazione aziendale”, che ad oggi ancora non compaiono sul sito del ministero. Se confermati, sarebbe una violazione clamorosa del “segreto d’ufficio”. Anomalie anche in “Storia antica” (10 D1): una lettera spedita da un gruppo di candidati al ministro Maria Chiara Carrozza e al direttore amministrativo del ministero dell’Istruzione racconta di risultati conosciuti in anticipo, con gli abilitati che si scambiano i complimenti, e dubbi sull'imparzialità dei commissari (quello esterno era allievo del presidente della commissione): “Intensi sono stati i contatti tra commissari e loro sostenitori. È avvenuto così che studiosi con un curriculum ricco e di profilo internazionale sono stati esclusi, pur rispondendo pienamente ai criteri adottati dal Miur e dalla stessa commissione; mentre altri, di produttività scientifica anche più modesta e di profilo (a malapena) nazionale, hanno conseguito l’abilitazione”, si legge nella lettera. Anche qui i risultati non sono ancora stati pubblicati, segno che il ministero sta verificando le accuse. Dagli uffici di viale Trastevere non si fa mistero di aver ereditato un pasticcio frutto della gestione Gelmini. L’approccio per il momento è di vagliare le segnalazioni caso per caso, studiando un nuovo meccanismo per il futuro, il terzo in 4 anni.
I dubbi sull’Asn erano noti da tempo, e si concentrano soprattutto sulle commissioni e sulle mediane, i parametri fissati settore per settore per ottenere l’idoneità. La loro scientificità è stata contestata da parte del mondo accademico, e dubbi sull’intero sistema erano stati avanzati anche dal Consiglio di Stato. A gennaio 2013 interviene l’allora ministro Francesco Profumo con una nota ministeriale che è una toppa peggiore del buco. La circolare specifica che anche i candidati privi di indicatori bibliometrici superiori alle mediane possano ottenere l’abilitazione e, viceversa, non conseguirla candidati che le superano. Il rischio è che i brogli si spostino da valle a monte, con una selezione prefissata degli abilitati, condizionando i concorsi locali fino a renderli in alcuni casi irrilevanti, come i concorsi interni in atenei dove ci sia un unico abilitato per settore. I risultati sono pubblicati su Internet, e valgono per i successivi 4 anni. Sulla circolare Profumo pesa un’interrogazione parlamentare presentata alla Camera da Sel. Nel testo, che verrà discusso oggi durante il question time alla Camera con il ministro Carrozza, si parla di altre anomalie, come quelle avvenute nel settore 6 E1, “Chirurgia cardio-toraco-vascolare”, dove “il 43 per cento dei bocciati in prima fascia e il 30 per cento di quelli in seconda fascia” avrebbe invece superato le mediane. Di contro il 14 per cento dei promossi in seconda fascia non le ha superate.
Curricula falsificati e pubblicazioni gonfiate
Alla camera pende anche un’interrogazione, del M5S sulla denuncia inviata al ministro da 38 studiosi candidati nel settore di “Storia medievale” (11 A1). Accuse ai commissari, che devono essere sorteggiati da un elenco di candidati che hanno superato gli stessi parametri. Questi avrebbero ottenuto l’incarico grazie a curricula falsificati, attribuendosi pubblicazioni scritte a più mani o inserendo più volte le stesse opere, in alcuni casi non attinenti alla materia. Stessa presunta irregolarità segnalata da un’altra interrogazione del senatore Paolo Corsini (Pd), riguardante il settore 11 A4, “Scienze del libro e del documento e Scienze storico-religiose”, dove “nei curricula dei commissari compaiono pubblicazioni che nulla hanno a che vedere con il settore concorsuale, come libri di poesia, romanzi, saggi di critica letteraria e cinematografica e nessuno aveva competenze nell’ambito di scienze storico-religiose. I commissari hanno proceduto lo stesso, utilizzando solo in alcuni casi un consulente esterno. Un trattamento palesemente differenziato”.
Il Miur ha già azzerato i risultati di “Diritto costituzionale” (12 C1), dopo lo scoop del Fatto sulla lettera di dimissioni del commissario esterno Francisco Balaguer Callejon, che denunciava l'esistenza di una “commissione fantasma” che condizionava le valutazioni. Nell’area di Sociologia (14 C1 e D1) diversi studiosi stanno verificando, con un supporto legale, i risultati e denunciano anomalie nei giudizi e nei tempi utilizzati per l’analisi della documentazione. L’elenco si allunga giorno dopo giorno, e getta un’ombra sul primo test del nuovo sistema, in un contesto dove da sei anni regna il blocco della programmazione. Il rischio è quello descritto in una relazione sul “Sistema dell'università e della ricerca” del giudice della Corte Costituzionale, Sabino Cassese: “In un mondo iperregolato, il decisore ultimo sarà il giudice amministrativo”.

La Stampa 15.1.14
Kyenge: “Questo razzismo uccide la democrazia».
di Grazia Longo

qui

Repubblica 15.1.14
“Non riusciranno a cambiarmi ma ora devono essere fermati”
“Sono nera e sto al governo: è una sfida ai peggiori stereotipi”
I partiti, le istituzioni italiane ma anche l’Onu devono fare di più contro l’intolleranza che uccide la democrazia
intervista di Vladimiro Polchi


ROMA — «La verità? Stiamo andando verso l’uccisione della democrazia. Nessuna forza politica può più tollerare questo razzismo strisciante». Cécile Kyenge è appena uscita da palazzo Marini a Roma. Ad aspettarla, come sempre, i sei uomini della sua scorta. Ha assistito alla presentazione del libro “I giorni della vergogna”, che raccoglie tutti gli insulti che le sono stati rivolti da quando è in carica. Il ministro per l’Integrazione è un fiume in piena. Messa da parte la solita cadenza lenta e calma, tuona e si sfoga: «Sono una donna nera, che ha studiato e fa il ministro. Purtroppo la mia stessa esistenza pare oggi una sfida ai peggiori stereotipi ea tutti gli intolleranti di casa nostra».
Dopo i tafferugli di sabato scorso a Brescia, il quotidiano leghista “La Padania” ha inaugurato una rubrica fissa dove dà conto di tutti i suoi appuntamenti pubblici. La considera un’intimidazione?
«La mia agenda è pubblica, tutti possono sapere i miei impegni parlamentari e sul territorio. Io vado avanti. Una cosa è certa: non disdico nessun incontro e non salterò nessun appuntamento. Non cambierò la mia linea d’azione, che resta ancorata ai valori della non violenza e del dialogo. Dall’inizio del mio mandato ho tenuto saldi i contatti col territorio e la società civile. Continuerò a farlo.Ce lo chiede anche il Consiglio d’Europa: favorire sempre più la partecipazione dal basso».
Mentre oggi lei incassa gli attacchi della Lega Nord, si sente sufficientemente sostenuta dalle altre forze politiche?
«Ci sono momenti in cui diventa urgente recuperare l’orgoglio e la dignità delle istituzioni. Tutti i partiti devono fare di più. La politica si deve alzare tutta per condannare questi attacchi, altrimenti il razzismo può diventare un’arma pericolosa. Perché la democrazia può essere uccisa anche da continui atti striscianti. Per questo il mio appello è ancora più ampio».
A chi si rivolge?
«Alle istituzioni italiane, ma anche europee e delle Nazioni Unite: bisogna rafforzare urgentemente tutti i programmi contro il razzismo. Chiunque ha cariche pubbliche, attraverso il suo comportamento e le sue parole, ha la responsabilità di dare messaggi positivi e soprattutto ridare speranza ai nostri ragazzi e bambini. Serve un percorso culturale, certo, ma anche nuovi strumenti giuridici per combattere il moltiplicarsi dei fenomeni di razzismo».
In questi giorni si è sentita col presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano?
«Col presidente ho da tempoun confronto prezioso e da lui ho sempre avuto un atteggiamento di forte sostegno. Non ho nulla di più da chiedergli».
A Brescia lei è stata contestata anche dall’assessore regionale lombardo di Fratelli d’Italia, Viviana Beccalossi. Il Pd bresciano ne chiede le dimissioni. Che ne pensa?
«Sta a lei giudicare cosa ritenga più opportuno. La discussione può essere accesa e ben venga, purché si svolga nei luoghi preposti. Un assessore deve sempre ricordarsi di non rappresentare solo un colore, ma l’intera comunità e se la pensa diversamente da un ministro, deve avere il coraggio di confrontarsi con civiltà».
Nei momenti più difficili, ha mai pensato a rassegnare le sue dimissioni?
«No, sarebbe una vittoria di chi mi ha sempre attaccato. E questa è una battaglia che riguarda tutti, non solo la mia persona».
Ha mai paura?
«Io devo andare avanti. E mi sento sicura. Per questo devo ringraziare la mia scorta: sei persone con cui passo molto tempo assieme, che sento molto vicine e che sono molto attente a me».
Al Senato si discute se abolire il reato di clandestinità. Qual è la sua posizione?
«È un reato inutile: non ha senso intasare i tribunali di fascicoli e processi che invece di colpire i responsabili della tratta, puniscono le vittime».
Qualche giorno fa Repubblica ha raccontato di centinaia di profughi disperati e accampati in un palazzo al centro di Roma. Cosa farete?
«Il governo ha recepito tutte le direttive europee in materia e presto arriverà a un testo unico sull’asilo. Ma è vero: molta strada c’è ancora da fare, per migliorare il sistema d’accoglienza del nostro Paese».

Repubblica 15.1.14
L’ossessione dei nuovi barbari
di Francesco Merlo


NON credo che la legge consenta il sequestro preventivo di un giornale che commette ogni giorno istigazione al razzismo. E sospetto che ai disperati della Padania questo farebbe piacere. So che sicuramente bisognerà ricordarsi la data di ieri. La pubblicazione sul quotidiano leghista della rubrica razzista “Qui Cécile Kyenge” segna infatti il superamento di un’altra soglia di civiltà.
Il superamento di un altro punto di non ritorno della barbarie italiana, che rimanda più ad atmosfere di dissoluzione antropologica che al putsch fallito della birreria di Monaco.
Con la loro nota furbizia pavida, il leader Matteo Salvini e la direttrice responsabile del giornale Aurora Lussana, capi di una gagliofferia ridotta ormai a minoranza di violenti, dicono che è «solo informazione sull’attività del governo» elencare ogni giorno tutti gli appuntamenti della signora che, sempre ieri, al Senato è stata definita ministra «della negritudine» e accusata di «demenza» dal capogruppo Massimo Bitonci.
Eh, già: non è mica colpa di Salvini e della direttrice se ormai, dovunque vada, la ministra viene oltraggiata dai razzisti di una Lega sempre più in calo di consensi, un partito corroso dagli scandali e ridotto al nocciolo duro della xenofobia, agli ultras che non riescono a riempire le piazze ma le incendiano: a Torino a sostenere il governatore Roberto Cota e la sue mutande verdi erano meno di mille.
Costretti per la verità a misurarsi con le rumorose organizzazioni della peggiore marginalità di estrema destra, i capetti di questa Lega si compiacciono, con risatine da osteria, nell’esibire l’elenco delle mascalzonate contro la Kyenge, dal lancio di banane all’esposizione di manichini insanguinati, ai cori “fuori dai coglioni”.
E ora accentuano l’allusione intimidatoria dicendo ammiccanti che «gli spostamenti della Kyenge stanno già sul sito del ministero» quasi fosse anche il loro giornale, come quel sito, uno strumento di consultazione e non un laboratorio di militanza. Aggravano insomma il significato persecutorio dell’iniziativa parlando di «un servizio ai lettori della Padania che sono curiosi e vogliono andare ad ascoltare il ministro». Ci fosse qualche omissione nella rubrica c’è dunque il self service: i lanciatori di banane possono informarsi da soli e preparare alla signora l’accoglienza che merita «un orango», «un’esponente del governo bongo bongo» , «una degna di essere stuprata», «una straniera seguace della poligamia»… Tutto questo pasticcio paranoico è stato bene espresso dal solito Mario Borghezio, che ieri sera si è precipitato alla
Zanzara, il suo fondaco abituale, la trasmissione di grande successo di Radio 24, microfono aperto degli urlatori, che svela l’Italia più dei sondaggi e più dell’Istat: «Buona caccia ai cacciatori padani. È una rubrica dedicata ai cacciatori padani per cercare il leprotto Kyenge... ». A Borghezio l’idea pare «brillante, salviniana e futurista». Ecco: sembrano deliri alcolici con Salvini, Bitonci, Lussana e Borghezio che si muovono in combriccola. È una gang di bulli squinternati, un sostenersi reciprocamente nel buio.
Come si vede, non è solo un ritorno alle origini del movimento, che per più di venti anni è stato importante nel Paese: qui c’è la consapevolezza di avere perso la partita e dunque la necessità di buttare in aria il tavolo. La Lega ha bisogno di provocare la rissa dentro cui legittimare lo scacco. E il razzismo, che si eccita davanti al colore della pelle della Kyenge, è la riserva aurea di chi non ha più nulla, l’ultimo dente del forcone. Perciò fa bene la Kyenge a smontarli ora con l’indifferenza e ora con l’ironia: «La Padania chi?». E non è uno sberleffo ribaldo come il famoso «Fassina chi?» di Renzi, ma è un banale certificato di inesistenza geografica e storica, una stanchezza personale che non è sottovalutazione perché la Kyenge sa che il razzismo rimane una brutta bestia anche quando non è accompagnato da studi genetici, teorie moebiusiane, e neppure delle dotte corbellerie d’antan del professore Miglio sul popolo lombardo.
È vero che non è questo il primo naufragio professionale del giornalismo usato come manganello. Abbiamo infatti visto altri tentativi di mettere in piedi le gogne. Recentemente il blog di Grillo è stato attrezzato come plotone d’esecuzione con il giornalista Travaglio nel ruolo qui interpretato dalla direttrice dellaPadania, la picchiatrice onesta che istiga e nega, perseguita e fa finta di informare, impagina e sbianchetta: «Non c’è mica scritto andate a picchiare la Kyenge. Noi siamo contro la violenza». Perbacco. Che cos’è questo giornalismo? Di sicuro non è più il mestiere di informare, neppure i lettori di un partito; non c’entrano nulla le notizie, i commenti e le opinioni che, per quanto fegatose ed espresse con linguaggio maleducato o smodato, sono comunque lecite e qualche volta necessarie.
E qui c’è in più il razzismo che da patologia sociale è diventato l’ossessione come unica linea politica. Lo spasmo bilioso che alimentò il mito fondativo della Lega è la sua ultima trincea. Si spiegano così l’invito allo stalking e la proposta, non esplicita ma chiara, della punizione collettiva. In questa istigazione agli atti persecutori aggravati dalla discriminazione razziale c’è ovviamente l’insidia dell’agguato, il presagio dello scontro fisico: «Venga al nord, ministro, la aspettiamo e la accogliamo molto volentieri con delle belle sorprese. D’altra parte lei è un oracolo, tutti i giorni ci dà delle lezioni» ha aggiunto quel diavolo goffo di Borghezio.
In Italia c’è purtroppo una sacca di marciume e c’è un nesso tra le minacce orribili dei No Tav al senatore del Pd Stefano Esposito e al cronista dellaStampa Massimo Numa, l’incitamento alla lapidazione degli avversari e dei giornalisti, la voglia di colpire le singole persone, le minacce degli animalisti ai ricercatori scientifici, sino agli insulti a Caterina Simonsen, affetta da una malattia genetica: «Puoi morire anche domani». In questo senso la rubrica razzista di un giornale contro la ministra nera rimanda ai metodi della guerra civile, alimenta un rumore crescente che nel Paese sovrasta l’intelligenza, simula e surroga il temibile passo cadenzato.

La Stampa 15.1.14
Rappresentanza, Fiom contro Cgil
Le tute blu chiedono una consultazione
La segretaria: basta il giudizio del direttivo
di Roberto Giovannini

qui

il Sole 15.1.14
Regolamento. In Cgil sì delle categorie all'intesa
Sulla rappresentanza il no Fiom resta isolato
di Giorgio Pogliotti


ROMA Con il "no" al Regolamento sulla rappresentanza sindacale Landini resta isolato all'interno della Cgil. Alla maggioranza della Fiom che chiede una consultazione tra gli iscritti sul testo firmato da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria, risponde la leader del sindacato di Corso Italia: «Il tema della democrazia è risolto dall'applicazione delle regole confederali», spiega Susanna Camusso, «il giudizio che darà il direttivo è quello che varrà per l'organizzazione», richiamando tutti al «rispetto delle regole e dei luoghi dove si discute». La Cgil riunirà il direttivo venerdì, domani si terrà il comitato centrale della Fiom per decidere sul testo che secondo Landini «limita le libertà sindacali ed il ruolo della contrattazione». Al contrario, per la Camusso con il Regolamento attuativo delle intese dello scorso 31 maggio e del 28 giugno 2011 «già validate» dalla Cgil, «si è aperta una nuova stagione» nelle relazioni industriali, «non c'é più per imprese e governo la libertà di decidere con chi fare gli accordi perché c'è un doppio vincolo, la maggioranza dei sindacati e il voto dei lavoratori» per l'efficacia dei contratti. Si sono già espressi a favore i numeri uno di Fillea (edili) Walter Schiavella, della Filctem (tessili e chimici) Emilio Miceli, della Slc (comunicazioni) Massimo Cestaro, della Filcams (commercio) Franco Martini, della Fp (Funzione pubblica) Rossana Dettori, e della Lombardia Nino Baseotto.

il Fatto 15.1.14
La tassa occulta dei sindacati sulla pelle dei lavoratori
In molti credono che i sindacati siano finanziati dalle quote dei propri iscritti. Nelle pieghe di bilanci, almeno di quelli consultabili, si possono scoprire invece altre voci sorprendenti
di Salvatore Cannavò


Al ministero la definiscono una “royalty” pagata ai sindacati col “silenzio assenso” dei lavoratori per i rinnovi di categoria Per Cgil, Cisl e Uil serve a far quadrare i bilanci

In molti credono che i sindacati siano finanziati dalle quote dei propri iscritti. Nelle pieghe di bilanci – che per quanto riguarda le categorie o i comitati regionali non sono consultabili – si possono scoprire invece altre voci, diverse da quelle relative alle tessere degli iscritti. Voci complicate, poco conosciute, come le “quote di assistenza contrattuale” o i “gettoni di presenza” presso Enti bilaterali o altri istituti analoghi.
Prendiamo il bilancio del più grande sindacato di categoria della Cgil, dopo i pensionati, la Filcams, che organizza i lavoratori del Commercio del Terziario e del Turismo. Nel 2010, anno cui si riferisce il bilancio in nostro possesso, i ricavi per contributi sindacali, le tessere, ammontavano a 1,7 milioni di euro mentre quelli per le “quote di assistenza contrattuale” erano molto più alti, 2,15 milioni e 685 mila euro provenivano da “gettoni di presenza”. Solo il 37 per cento delle entrate, quindi, proveniva dalle tessere degli iscritti, meno della metà del totale.
MA COSA SONO LE “QUOTE di assistenza contrattuale”? La cifra è presente in molti degli oltre 400 contratti stipulati dai sindacati nazionali (l’elenco completo è consultabile sul sito del Cnel) e rappresenta una quota straordinaria che i sindacati e i datori di lavoro prelevano dalle buste paga dei lavoratori per aver concluso il contratto. Un premio per il lavoro fatto. Nell’ultimo Ccnl (contratto nazionale) dei metalmeccanici, ad esempio, Fim e Uilm hanno richiesto un contributo “una tantum di 30 euro per ogni lavoratore non iscritto al sindacato da trattenere sulla retribuzione”. Sul contratto, poi, era indicato il conto corrente bancario (presso il Credito cooperativo di Roma) su cui effettuare il versamento. Parlando di circa un milione di lavoratori è facile fare i conti. Per quanto riguarda i contratti del Commercio e del Terziario, la sola Filcams ha iscritto in bilancio 2,15 milioni che vanno moltiplicati per tre (cioè anche per Cisl e Uil) e poi per due (la parte datoriale). Il totale, quindi, è di circa 15 milioni di euro che rimpolpa bilanci spesso piuttosto magri. Un fiume di denaro assicurato dalla pratica del “silenzio-assenso”, per cui sono i lavoratori a dover mettere per iscritto il proprio rifiuto a versare la “tassa occulta”. Ma sono in pochi a saperlo. Quella quota, poi, spesso è mescolata all’altra contribuzione poco nota, quella relativa agli Enti bilaterali.
Questi organismi, governati alla pari da sindacati e imprese, sono stati istituiti nel 2003 dalla legge 30 e vengono regolamentati dai contratti nazionali e/o territoriali. Servono a offrire prestazioni e servizi ai lavoratori sul piano della formazione professionale o del sostegno al reddito. Solo nel settore del Commercio e dei Servizi, la Filcams ne ha conteggiati circa 200 tra i 20 nazionali e i 194 provinciali e regionali. Ma ormai sono presenti in ogni categoria contrattuale e, come spiega al Fatto il segretario generale del ministero del Lavoro, Paolo Pennesi, “svolgono un ruolo di supporto all’attività pubblicistica” ma sono comunque regolati dal diritto privato. Quindi, di fatto, non sono soggetti a particolari controlli “se non quelli relativi alla loro affidabilità basata sul fatto di essere emanazione di sindacati rappresentativi”. Il problema è che anche questi Enti ricevono un contributo dai lavoratori: generalmente dello 0,3-0,5 per cento che però, in alcuni casi, sale all’1 per cento della retribuzione. Circa 50 euro l’anno a lavoratore per qualche milione di addetti. Una mole di denaro non rendicontato e non sottoposto ad alcun controllo.
Uno studio della Filcams del 2011, relativo al proprio comparto, notava che le risorse “a favore dei lavoratori e delle imprese non superano quasi mai il 50 per cento dei contributi incassati dai singoli enti” oppure che, per quanto riguarda i compensi, si possono “raggiungere indennità elevatissime fino a 70 mila euro annui per una presidenza”. Un particolare Ente bilaterale, come l’Enasarco che gestisce il fondo pensioni per gli Agenti di commercio, spende ogni anno, per retribuire i suoi 18 amministratori (Cda e Collegio sindacale) 1,3 milioni di euro, oltre 72 mila euro a testa. Ma il presidente, Brunetto Boco, percepisce molto di più. E Boco è anche il segretario generale della UilTucs, il sindacato del Commercio, Turismo e Servizi. Lo stesso dottor Pennesi ricorda che il ministero del Lavoro ha già chiarito “che gli accordi in materia di bilateralità impegnano soltanto le parti aderenti”. In questo spirito, dunque, fa notare, anche le quote di assistenza contrattuale, definite alla stregua di “royalties”, dovrebbero poter essere imposte “solo a chi è iscritto” ai sindacati, dei lavoratori o delle aziende.
“In realtà i nostri contributi derivano principalmente dalle tessere”, spiegano sia in Cgil che in Cisl anche se, ammettono, le quote di assistenza sono un modo in cui “soprattutto le categorie più deboli” compensano iscrizioni basate su stipendi bassi (la tessera al sindacato mediamente è l’1 per cento della retribuzione). “Si tratta di un metodo utilizzato dal sindacato anglosassone” spiegano in Cisl dove in molti dichiarano conclusa “l’epoca del sindacalismo gratuito”.
IL FENOMENO DELLE ENTRATE aggiuntive alle iscrizioni è molto più ampio, e opaco, se si considerano i contributi indiretti provenienti dal settore pubblico. La tanto decantata, e assolutamente priva di risultati, “relazione Amato sul finanziamento diretto e indiretto del sindacato” indicava in 113 milioni di euro il costo dei circa 2mila distacchi sindacali; in 330 milioni il trasferimento dagli Istituti di previdenza ai Patronati nazionali; in 170 milioni le convenzioni dei Caf, i centri di assistenza fiscale che, in più, ricevono dallo Stato 14 euro per ogni singola dichiarazione dei redditi e 26 euro per quelle in forma congiunta. Formalmente questi soldi non vanno a Cgil, Cisl e Uil che però gestiscono quegli istituti con tutti i vantaggi del caso. Come si può vedere, le vie del finanziamento al sindacato sono infinite.

il Fatto 15.1.14
L’irresistibile ascesa di “Nunzia la belva” dal consorzio agrario di papà al governo
di Fabrizio d’Esposito ed Enrico Fierro


Il grido fu dolente e arrabbiato, da uomo tradito. Piazza Roma, Benevento. Chiusura della campagna elettorale alle ultime comunali della città delle streghe. Maggio 2011. Clemente Mastella si sporge dal palco e paonazzo in volto accusa: “La fanciulla è diventata deputato a più di trent’anni, io a ventotto. Lei, per ragioni orizzontali, è stata nominata. Io, per ragioni verticali, sono stato eletto con le preferenze”. La fanciulla in questione si chiama Nunzia De Girolamo detta Nunziatina, che subito s’indigna e querela. Ma perde. Archiviazione. Scena completamente opposta un anno prima, in Liguria. A Loano si sposa un rampollo della famiglia Mastella, Elio. Nunzia De Girolamo è tra gli invitati, con Diego Della Valle e Carlo Rossella. Caciotta di Ceppaloni e trenette al pesto.
IN UNA CITTÀ e in una provincia come quella di Benevento, l’ascesa di “Nunzia la Belva”, questo il suo nomignolo, è stata un terremoto per i vecchi ras locali. Non solo Mastella. Ecco Cosimo Izzo, avvocato di antica scuola democristiana, poi fulminato sulla via miracolosa di Arcore ed eletto senatore nella Seconda Repubblica. Izzo ha vegliato come un padre sulla prima, sfortunata candidatura di “Nunzia” in politica. Consiglio comunale di Benevento, anno 2006. Meno di duecento voti, 178 per la precisione. Un flop che indurrà De Girolamo, da coordinatrice provinciale del Pdl, a fare l’ennesimo parricidio. Nel 2013, Izzo è fuori dal Senato. La colpa? Di “Nunzia”. L’avvocato non ha dubbi e attacca: “È una nominata, in pieno delirio di onniscienza e onnipotenza”. Stessa scena, anzi più violenta, con Pasquale Viespoli, altro nome di rango della destra sannita. I due non si sono mai amati. Un giorno passeggiano lungo corso Garibaldi, nel centro di Benevento e finiscono quasi alle mani. Qualcuno, sulla base di telecamere a circuito chiuso, giura che si sono picchiati. Ora Ndg, acronimo della Belva, che fa il paio con quello del suo nuovo partito, Ncd, non ha più avversari a Benevento. È sola. Sola contro tutti.
Il Sistema “Nunzia” nasce così, grazie soprattutto al link diretto con Silvio Berlusconi, conosciuto nel giro di Sandro Bondi e Denis Verdini. Tosta sin dall’inizio. Sin da quando fa la responsabile delle hostess della rassegna Città Spettacolo voluta da Sandra Lonardo in Mastella e diretta da Maurizio Costanzo. De Girolamo si insinua nella ragnatela di “Clemente” e comincia la sua scalata.
SONO ANNI di formazione, puntellati dal fidanzamento in casa, come usa al Sud, con Antonio Tozzi, altro anello del suo cerchio magico beneficiato (con l’incarico di direttore generale del Sian, sistema informatico del ministero) dall’ascesa di “Nunzia” alle Politiche agricole. L’agricoltura, la terra. Materia lontana dai suoi studi di Legge, culminati con un dottorato di ricerca all’Università del Molise, ma da sempre tra gli interessi principali della sua famiglia. Perché il caso De Girolamo, al di là della polemica politica, è uno spaccato esemplare, come ce ne saranno altri cento o mille, di quel “familismo amorale” del Mezzogiorno analizzato senza pietà dal sociologo americano Banfield. Un sistema assoluto. “Direi spietato, Mastella lasciava qualche spazio di libertà ai suoi, con la De Girolamo invece bisogna solo obbedire”, chiarisce Carmine Nardone, già deputato del Pds e presidente della provincia. Il familismo di “Nunzia” ha il suo vertice nel papà Nicola, che regna sul consorzio agrario di Benevento, in liquidazione coatta e oggi sotto la sorveglianza di due ministeri, tra cui quello della figlia. Nicola De Girolamo è molto amico di Pasqualino Lombardi, il geometra al centro delle trame della P3 di Denis Verdini, messa su per risolvere i guai giudiziari del Caro Condannato. Anche qui nulla di penalmente rilevante. Una telefonata tra Ndg e il faccendiere Lombardi: “Caro Pasqualino, ho parlato con il presidente si è fatto ripetere più volte il tuo nome, aspetta che gli porti qualche dettaglio. Vuole sapere tutto di questa cosa”. Il presidente, of course, è Berlusconi. “Pasqualino”, grato, ricambia: suo figlio Gianfranco è amministratore unico di Ivg, Istituto per vendite giudiziarie, e nella sede beneventana trova lavoro una sorella di “Nunzia”, Francesca. L’intreccio di rapporti cresce in modo proporzionale alla scalata di De Girolamo. Deputata nel 2008, ministro cinque anni dopo per volontà del Cavaliere. La scissione del Nuovo centrodestra ha provocato la rottura tra Ndg e un altro suo storico pigmalione: Luca Colasanto, giornalista e consigliere regionale nonché editore dell’influente Sannio quotidiano. Colasanto non la segue nel partito alfaniano ma con “Nunzia” rimane Luigi Barone, ex vicedirettore del quotidiano e attuale capo della sua segreteria politica.
A BENEVENTO, Barone è considerato l’uomo dei segreti di Ndg, quelli inconfessabili. In città circolano varie voci sulle intercettazioni abusive di Pisapia e in una il protagonista è proprio Barone. Sospetti pesantissimi. O solo veleni? Quando Francesco Boccia, lettian-renziano del Pd e marito di “Nunzia”, allude al complotto contro la moglie punta il dito contro i ras fautori della santa alleanza anti-De Girolamo alle ultime comunali, quelle del 2011. Ossia Clemente Mastella e Umberto Del Basso De Caro. Così come da circa tre mesi, da novembre, un sito di informazione locale, vicino a Cosentino, allude alle famigerate bobine di Pisapia che hanno inguaiato “Nunzia la Belva”. “La politica è sangue e merda” ammoniva il socialista Rino Formica. In questa storia è soprattutto “merda”, come dimostrano gli sms di insulti di Ndg a Mastella per le interviste di questi giorni. Vite e coppie parallele. “Clemente e Sandra”. “Francesco e Nunzia”. Prodi cadde per Mastella. Letta cadrà per De Girolamo?

Repubblica 15.1.14
Nell’inchiesta Premafin un colloquio del maggio 2011, ancora non era nota l’indagine sul costruttore
Spunta una telefonata Alfano-Ligresti “Il mio amico aspetta da lei quella casa”
di Sandro De Riccardis


MILANO — Una telefonata. Con la richiesta di un appartamento, uno di quelli che già Salvatore Ligresti aveva dato a lui e a tanti altri potenti della politica e dell’economia italiana. Questa volta — è il 28 maggio 2011 — Angelino Alfano, già inquilino in un appartamento ai Parioli di Fondiaria Sai, la casa non la chiede per sé, ma per i suoi «amici», quelli che «ancora a Milano sono. Se lei non gli dà casa — chiede velatamente l’attuale vicepremier all’ingegnere — non possono venire qua».
La telefonata tra l’allora ministro della Giustizia e Salvatore Ligresti, nel frattempo indagato dalla procura di Milano e arrestato da quella di Torino, dura due minuti e 27 secondi. Dopo un primo tentativo andato a vuoto, Alfano richiama l’immobiliarista, e i due parlano di una cena all’hotel Villa Pamphili, a Roma. Alfano chiede all’anziano imprenditore chi sarà presente. «C’è mio figlio, mia figlia, mia moglie non c’è perché è dovuta rimanere a Milano» dice l’ingegnere. «Se vuole che io venga da solo, se no io sono con mia moglie e con un amico» risponde il politico. L’immobiliarista assicura di aver «fatto fare un tavolo grande, quindi più siete, meglio è». «Suo figlio non doveva uscire con la Geronzi, con Mezzaroma e tutti gli altri?» chiede Alfano.
L’intercettazione è depositata agli atti dell’inchiesta del pm di Milano, Luigi Orsi, che indaga sui trust esteri che detenevano pacchetti azionari di Premafin, e nella quale l’ingegnere è indagato per manipolazione del mercato,insieme a Giancarlo De Filippo (trusteedel fondo Heritage che per la Consob era azionista di Premafin) e a Niccolò Lucchini che avrebbe avuto mandato a operare sul titolo. La telefonata non ha rilievo penale, ma conferma i rapporti tra i Ligresti e Alfano, già inquilino in una casa da 220 metri quadrati di Fondiaria in via delle Tre Madonne, ai Parioli. Un palazzo dove avevano trovato casa anche l’ex ministro Renato Brunetta, le due figlie del banchiere Cesare Geronzi, l’ex direttore generale della Rai Mauro Masi, fino a Marco Cardia, avvocato consulente dei Ligresti e figlio dell’ex presidente della Consob, Lamberto.
Le indagini del Nucleo di Polizia tributaria della Gdf costano invece una nuova ipotesi di reato per i figli del costruttore, Paolo e Giulia. Segnalate al pm Orsi nella loro qualità di consiglieri di Starlife, società che ha sede in Lussemburgo, ma che sarebbe stata gestita dall’Italia. Stessa contestazione per Salvatore Rubino, amministratore di due società lussemburghesi e direttore generale di Sinergia. Rubino parla anche con l’allora manager di Unicredit, Piergiorgio Peluso, figlio del ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, già finita nella bufera per le telefonate estive coi Ligresti, dopo l’arresto di Giulia. Agli atti anche chiamate tra il costruttore e l’ex prefetto di Milano Gian Valerio Lombardi. E con «una donna (presumibilmente tale Annamaria, parente di Peluso) » che «contatta l’Ing. per dirgli che è stata in ospedale dove si trova un parente».

Repubblica 15.1.14
“Diceva che quando sarei diventata maggiorenne avrebbe voluto un figlio da me. Ero fragile e lui ne ha approfittato“
“La donna con la quale mi confidai per prima mi fece parlare col capo della diocesi e poi mi portò dall’esorcista”
“Ma in paese difendono quell’uomo. E io sogno di fuggire”
“Io, violentata a 13 anni così ho trovato il coraggio di denunciare quel prete”
di Luigi Nocenti


«UNA sera, dopo le prove del coro, don Marino mi ha chiamata in sagrestia: ha chiuso la porta a chiave e ha iniziato ad abbracciarmi forte e a toccarmi. Sono rimasta senza fiato e non ho avuto la forza di evitare quei contatti». È solo l’inizio di un racconto dell’orrore, di un’adolescenza rubata a una ragazzina di 13 anni.

Il dramma di Francesca inizia da ragazzina in una parrocchia in Molise, quando don Marino la abbraccia per la prima volta in sagrestia. Seguono quattro anni di rapporti e di silenzi, poi la decisione di rivolgersi al vescovo, che sospende il sacerdote, e ai magistrati.

PORTOCANNONE (Campobasso) FRANCESCA (il nome è di fantasia), oggi maggiorenne, è cresciuta a pochi chilometri da Termoli, nel comune molisano di Portocannone. Quattro anni di silenzio fino alla querela per ipotesi di abuso sessuale su minore di anni 14, due tentati suicidi e il suo presunto carnefice, don Marino Genova, 58 anni, sospeso in via cautelativa a divinis dal vescovo della diocesi Termoli-Larino. Una vicenda inquietante dove alberga l’ombra della pedofilia, ma anche la storia del coraggio di Francesca nell’esporsi in prima linea e uscire dal silenzio.
È vero che don Marino voleva un figlio da lei?
«Sì, mi diceva che ai miei 18 anni avrebbe voluto un rapporto completo. Io non volevo rimanere incinta, ma lui insisteva. Non ha mai preso precauzioni durante i nostri rapporti sessuali».
Come si sente oggi?
«Aver raccontato tutto mi fa sentire sollevata, soprattutto dallo scorso 3 aprile, quando ho denunciato don Marino. Non lo faccio per soldi, ma per il male che mi è stato fatto. Oggi provo tanto schifo: per lui, per ciò che mi ha fatto, ma anche disprezzo verso me stessa, per non essere stata capace di difendermi. Spero almeno che la mia storia dia il coraggio di ribellarsi a chi vive vicende simili, in particolare eventuali altre vittime di don Marino: potrei non essere stata l’unica ad aver ricevuto le sue attenzioni sessuali».
Come ha conosciuto don Marino Genova?
«Sono orfana di padre dall’età di 3 anni, mi hanno cresciuto miamadre e la nonna paterna. Fu lei a regalarmi un pianoforte quando ero bambina, ed è così che è nata la mia passione per la musica. Ho iniziato il conservatorio a 7 anni e a 12 mi fu chiesto di suonare l’organo per il coro della chiesa del paese. È qui che ho conosciuto don Marino».
Come sono nati i vostri incontri privati?
«Mi mandava messaggi chiedendomi di andare in chiesa per aiutarlo. La prima volta che ha approfittato di me era da poco morta mia nonna ed ero molto fragile. Da quel momento è stato un susseguirsi di incontri intimi in sagrestia e anche a casa sua. Ci vedevamo un paio di volte a settimana».
Lei aveva 13 anni, lui 53 ed era pure un prete: non le sembrava strano?
«Ciò che oggi non riesco a perdonarmi è proprio questo: non essermi resa conto di ciò che stava succedendo. Oggi è come se mi voltassi indietro e vedessi una bambina impaurita e sperduta che si fida del lupo cattivo, che confonde le lusinghe lussuriose di un prete di mezza età per dichiarazioni di vero amore».
Come è riuscita a porre fine a questa storia?
«Una corista del gruppo parrocchiale aveva notato qualcosa di strano e un giorno sono crollata con questa signora. Avevo 17 anni e fino ad allora nessuno sapeva ciò che stava accadendo da quattro anni. Perfino mia madre: pensava che i miei disagi fisici — vomito, isteria, insonnia — fossero dovuti all’ansia per i troppi impegni tra il liceo, il conservatorio e il coro. Con questa signora sono anche andata dal vescovo Gianfranco De Luca».
E cosa accadde?
«Era il novembre del 2012: don Marino è stato mandato in una comunità vicino a Roma. Poi sono entrata in contatto con Rete l’abuso e con il supporto legale di questa associazione ho deciso di querelarlo. A quel punto don Marino è stato sospeso: non può amministrare i sacramenti, celebrare messa né confessare. Ora sono in corso le indagini: spero si apra il processo e vengano appurate le sue responsabilità. In ogni caso, lui oggi può contare sul supporto della comunità in cui vive, a differenza di me».
Come mai?
«Dopo che ho presentato la denuncia, mi sono ritrovata abbandonata a me stessa, anche economicamente. Il vescovo, che in passato mi aveva aiutato, dopo il mio diciottesimo compleanno ha dichiarato che stava diventando troppo costoso. L’ho scritto anche a Papa Francesco in una lettera in cui gli ho raccontato la mia storia e ciò che sto vivendo, il profondo disagio interiore in cui vivo: il malessere è esploso, tanto che ho pensato di farla finita».
E ha tentato il suicidio due volte.
«Sì, per tutta l’estate sono stata ricoverata. Da allora mi segue uno psichiatra, assumo psicofarmaci, ma sto male. Ripensarmi in quegli atti sessuali è un incubo ad occhi aperti. Rivedo la bambina che ero e vorrei gridarle: fuggi, urla, ribellati. Ma nei ricordi non c’è una sola volta in cui sia riuscita a farlo, rimanevo lì, pietrificata, asubire di tutto. Ho ancora viva la sensazione di profondo stordimento dopo le sue carezze e i suoi baci, e il sentirmi mancare dopo il primo rapporto sessuale, senza neanche capire cosa fosse davvero accaduto. Mi chiedo a volte se si è reso conto di quanto male mi ha fatto».
E non è stato l’unico…
«A ferirmi oggi sono anche tutte quelle persone che in qualche modo lo difendono o sostengono che in fondo non sono una vittima anche se avevo solo 13 anni e lui oltre quattro volte la mia età. In paese capita che mi ridano dietro o che su Facebook si formi un gruppo in suo favore. È incredibile, chissà se uscirò mai da questo tunnel di violenza psicologica. Persino la donna che all’inizio mi aiutò, mi portò dal prete esorcista del paese».
Cosa sogna per il suo futuro?
«Dopo quello che è successo, ho lasciato il coro, la scuola, il conservatorio. Qui in paese sto davvero male. Sogno di andarmene, se qualcuno mi offrisse un lavoro, qualsiasi lavoro, fuggirei anche domani. A questo posto mi legano solo terribili, incancellabili ricordi».

il Fatto 15.1.14
Milano
Arrestato per pedofilia educatore parrocchiale


Andrà ai domiciliari e dovrà tenere il braccialetto elettronico l’educatore parrocchiale arrestato ieri dalla Squadra mobile di Milano. Gli investigatori, che mantengono il massimo riserbo per tutelare le vittime, hanno spiegato che è la prima volta che utilizzano lo strumento . L’uomo frequentava da anni la parrocchia, era cresciuto all’interno della cerchia dei frequentatori e “naturalmente”, a dire degli agenti, era rimasto legato al luogo assumendo nel tempo il ruolo di educatore. Le quattro violenze, ai danni di ragazzini dai 13 ai 16 anni, si sarebbero consumate all’esterno della struttura, in altri luoghi dove il 40enne ha attirato le giovani vittime. L’educatore, da quanto si è appreso, non è sposato e non ha precedenti. Importanti ai fini dell’ordinanza di custodia le dichiarazioni dei ragazzi e dei conoscenti, incrociate con le intercettazioni. Secondo indiscrezioni, l’uomo ha detto di aver agito così per “fare una penitenza”.

Repubblica 15.1.14
Il dubbio inglese
di Silvia Fumarola


La stampa inglese s’interroga: è giusto premiare Woody Allen? Mentre il regista veniva celebrato da Diane Keaton ai Golden Globes, il figlio Ronan Farrow con un tweet polverizzava il padre: “Hanno messo prima o dopo Io e Annie la parte in cui una donna ha pubblicamente confermato che l’ha molestata quando aveva sette anni?”, alludendo alla sorella Dylan che accusò Allen di abusi sessuali. La denuncia di pedofilia, respinta dal regista, fu al centro della battaglia legale con Mia Farrow dopo che lui la lasciò per la figlia adottiva, Soon Yi. Rabbia, dolore e quell’accusa tornano in prima pagina, il premio alla carriera «al regista che conosce le donne», divide, la solidarietà conta diecimila retweet per Ronan; Mia denuncia «il disprezzo per le vittime degli abusi». Allen, Chaplin, Polanski: un’ombra oscura i geni. I film restano capolavori, per la vita reale ci sono i tribunali.

il Fatto 15.1.14
La storia dei marò, parte seconda
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, le scrivo sulla questione dei nostri militari in India: i militari imbarcati su navi battenti bandiera italiana sono lì per proteggere non le merci ma gli equipaggi, per impedire che diventino ostaggio dei pirati. Per questo il Parlamento ha varato una legge nell’agosto del 2011 che autorizzava la protezione delle nostre navi...
Agostino

SPERO CHE IL LETTORE mi perdoni la drastica riduzione del suo testo, che intende rispondere a tre domande che facevo su questa pagina (9 gennaio): chi ha autorizzato la presenza di fucilieri di Marina su una nave privata italiana, con quali regole d’ingaggio e agli ordini di chi (considerato che il capitano della nave è un civile) in caso di attacco. Credo che vi siano due equivoci nelle obiezioni del lettore. Il punto non è se i marò proteggevano merci o persone (certo, ha ragione, persone), ma in base a quale normativa e in osservanza di quali regole di ingaggio. Per esempio, è immaginabile che i due fucilieri abbiano aperto il fuoco di propria iniziativa? Se no, per ordine di chi? Per esempio, una volta verificatosi il tragico scontro in acque internazionali, perché, o per ordine di chi, il comandante civile della nave ha deciso di entrare nel porto indiano, permettendo l’arresto di due militari italiani da parte dei militari di un altro Stato che in quel momento si ritiene attaccato e aggredito? Come può o potrà quello Stato essere parte terza in un giudizio impossibile? Il lettore risponde indicandomi una legge del 2011 (militari italiani a bordo di navi civili per contrastare la pirateria) che spiegherebbe tutto e risponderebbe alle domande che ponevo. Provo ad argomentare con ordine. 1) La legge votata dal Parlamento è la 107 del luglio 2011, “in materia di missioni militari italiane nel mondo, e cooperazione”, ovvero il rifinanziamento annuale di quelle missioni. A questa legge, che il Parlamento approva ogni anno con testo e motivazioni quasi uguali, nel luglio 2011 è stato aggiunto un comma che autorizza il ministro della Difesa a stipulare convenzioni con armatori privati, stabilendo che le spese sono a carico dell’armatore che decide di imbarcare militari per la sua protezione. Nel caso che stiamo discutendo, il ministro della Difesa La Russa ha stipulato, in data 11 ottobre 2011, una convenzione con l’armatore D’Amico, offrendo, come da legge, difesa a spese dell’armatore. È la convenzione che ha portato i nostri due militari a trovarsi a bordo della nave da carico Enrica Lexie il 15 febbraio 2012, il giorno della tragedia. La lettura della convenzione suggerisce che le regole d’ingaggio sarebbero state stabilite dall’autorità militare diretta dei fucilieri imbarcati. Ma nessuno ci ha detto niente di quelle regole. 2) La convenzione fa riferimento a un comandante militare per ogni gruppo di fucilieri imbarcato in ogni nave. Chi era il comandante quando i due giovani militari hanno sparato? Ed è stato quel comandante a dare l’ordine? È pensabile, dato il grado di sottufficiali, che i due militari lo abbiano fatto di propria iniziativa se c’era un ufficiale a bordo? 3) Si è consultato con qualcuno – e con chi – il capitano del cargo commerciale. quando ha deciso di consegnare due militari italiani ai militari indiani che li ritenevano assassini? O ha offerto i due militari in cambio di una pacifica e proficua “consegna merci”? Tutto ciò dimostra che la responsabilità “a monte”, cioè molto prima che il caso diventasse un nodo difficilissimo da sciogliere, sono tante e gravi. Diciamo spesso che siamo in attesa di risposte indiane che non arrivano mai e tengono col fiato sospeso sulla sorte dei due militari. Ma è certo che alcune essenziali risposte italiane non sono ancora disponibili.

Il Sole 15.1.14
Segreto di Stato. Accolti i ricorsi del governo
Abu Omar, annullate le condanne degli 007
di Donatella Stasio


ROMA E sul segreto di Stato nella vicenda Abu Omar, calato come un asso da quattro governi (di centrodestra e centrosinistra), la Consulta "bastona" la Cassazione, annullando la sentenza che, nel settembre 2012, fece da apripista alle condanne di Niccolò Pollari e Marco Mancini, rispettivamente, a 10 e 9 anni di carcere (annullate anche queste). Tutto azzerato. Ora il nastro si riavvolge e si torna alla prima sentenza della Corte d'appello che, a causa del segreto di Stato, aveva dichiarato il «non luogo a procedere» nei confronti dei numero uno e due del Sismi (oggi Aise) per l'extraordinary rendition dell'ex imam di Milano eseguita dalla Cia il 17 febbraio 2003. Da lì ripartirà la Cassazione, che dovrà però attenersi al diktat della Consulta sul segreto di Stato, evitando «l'errore» commesso in precedenza e censurato ieri dai 15 giudici costituzionali. Anzi, 14, perché Giuliano Amato non ha partecipato né all'udienza né alla decisione: assenza determinata da ragioni di opportunità poiché Amato è stato ministro dell'Interno quando il governo Prodi sollevò, nel 2007, il primo conflitto contro la magistratura milanese, a tutela del segreto di Stato (poi seguirono quelli dei governi Berlusconi, Monti e Letta).
La notizia dell'annullamento (e della vittoria del governo) esce alle 19.08 di ieri, battuta dall'Ansa quando i giudici sono ancora con un piede dentro e uno fuori la camera di consiglio. L'idea di un comunicato stampa è sfumata e sulla decisione non c'è stata unanimità (dicono 10 a 4). Ma l'indiscrezione non viene smentita. È la pietra tombale sulle responsabilità degli ex uomini Sismi, che lascia in piedi solo quelle della Cia (anche se dei 26 americani, tutti latitanti, uno è stato graziato dal Capo dello Stato, e per altri tre la Cassazione si pronuncerà il 29 gennaio).
Pollari, Mancini e altri tre agenti ex Sismi erano stati prosciolti in primo e secondo grado grazie al segreto di Stato. Ma a settembre 2012 la Cassazione restringe i margini del segreto, annulla il proscioglimento e rinvia a una nuova Corte d'appello, che a febbraio 2013 condannerà tutti, per complicità nel sequestro, a pene da 6 a 10 anni. Il ricorso in Cassazione degli imputati andrebbe deciso il 24 febbraio. Ma - sempre che prima arrivi la sentenza della Consulta - la Corte dovrà prendere atto che la sua precedente sentenza e le condanne inflitte dalla Corte d'appello sono state annullate. Quindi si tornerà al 2012, cioè al ricorso del Procuratore generale contro il «non luogo a procedere» di Pollari e compagni. Un po' contorto. Ma come fanno notare a palazzo della Consulta, è il primo caso in Italia di questo genere.

Repubblica 15.1.14
La lezione americana sulla crisi dell’auto
di Barbara Spinelli


QUANDO le crisi sono devastanti non si può fare a meno dello Stato, perché solo quest’ultimo è in grado di metter fine alla devastazione, solo il pubblico sa scommettere sul futuro senza pretendere l’immediato profitto cercato da cerchie sempre più ristrette di privati. Parlando con Ezio Mauro, nell’intervista del 10 gennaio, Sergio Marchionne dice questo, in sostanza, e l’ammissione è importante. Lo dice raccontando una storia di successo — la fusione tra Fiat e Chrysler — e tutte le fiabe sul mercato che guarisce senza Stato si
sbriciolano.
Senza quasi accorgersene, l’amministratore delegato ridipinge anche l’immagine di se stesso: la figura thatcheriana dell’imprenditore che sfianca i sindacati più resistenti, promettendo un capitalismo che distruggendo crea, e poco importa se la società si disintegra. Si sbriciola anche quest’illusione, se c’è stata. Le Grandi Depressioni non sono redentrici; laFabbrica Italia su cui giurò nell’estate 2012 è fallita.
La frase chiave nella narrazione di Marchionne mi è parsa la seguente: «La nostra fortuna è stata di poter trattare direttamente con il Tesoro (americano), con latask forcedel Presidente Obama: non con i creditori di Chrysler, come voleva la vecchia logica. Se no, oggi non saremmo qui». L’idea era di far rinascere Fiat «in forma completamente diversa », e solo lo Stato federale Usa poteva fronteggiare — mettendoci la faccia, e i soldi — una crisi depressiva che Marchionne definisce «spaventosa » («I manager uscivano per strada con gli scatoloni perché le aziende chiudevano (...) non so se mi spiego»). In ogni grande svolta, specialmente quando spavento e cupidigia divorano i mercati, solo la forza pubblica possiede lo sguardo lungo, il dovere solidale, la temerarietà, di cui son sprovviste levecchie logiche.
L’amministratore delegato non lo dice espressamente ma la vecchia logica è quella, tuttora spadroneggiante, del mercato che crolla e si rialza come Lazzaro, senza però che nessuno lo richiami in vita. Si rialza spontaneamente, come Marchionne forse immaginò per un certo tempo: tagliando i costi del lavoro, secernendo guerre tra poveri, e tra poveri e sindacati. La redenzione è mancata: non poteva venire dagli investitori, né dal «sistema digestivo delle banche che si era bloccato».
La crisi iniziata nel 2007-2008 ha mostrato quel che pure era evidente, dopo i disastri degli ultimi secoli e in particolare dopo la Depressione del ’29. Il dogma dellaissez-faire,dell’economia lasciata libera di farsi e disfarsi senza obblighi speciali, dello Stato che deve sottomettersi a questa benevola legge naturale e restringere al massimo la sua presenza, regolarmente s’è infranto contro il muro, smentito dai fatti. Obama ha «creduto» al progetto Fiat, e a un certo punto ha scavalcato gli spiriti animali del mercato (creditori, banche), incapaci di credere e digerire alcunché. Dice Marchionne che gli americani, a differenza degli europei e degli italiani, hanno una propensione, «quasi naturale », a incoraggiare i cambiamenti, la voglia di ripartire: ad «aprirsi al mondo e non chiudersi in casa, soprattutto quando intorno c’è tempesta ».
Proprio la sua narrazione tuttavia cela una verità più profonda: questa propensione non è affatto naturale. Si richionnesveglia quando la forza pubblica programma le mutazioni, dedica loro risorse. Quel che Baudelaire scrive a proposito del bello e della ragione vale anche per l’economia: tutte le azioni e i desideri del
puro uomo naturale sono mortifere; tutto quel che è nobile e bello nasce dalla ragione e dal calcolo, dalla filosofia, dalle religioni e dall’artificio. Dalmaquillage: da trucchi e belletti.
Così avvenne dopo la Grande Depressione, quando Roosevelt lanciò il suoNew Deal, il patto contro la paura e la povertà. Il vecchio continente non fu da meno, e in fondo è ingiusto dire che noi europei, per cultura e storia, «siamo condizionati dal passato, e l’idea di chiuderlo per far nascere una cosa nuova ci spaventa ». Fu cosa nuova pensare, nel mezzo dell’ultima guerra, due cose simultaneamente: l’unità economica e politica dell’Europa, e lo scudo contro povertà e depressioni che è il Welfare. William Beveridge,che del Welfare fu l’artefice, si batté per ambedue gli obiettivi.
L’Europa non è geneticamente meno innovativa degli Stati Uniti. Se ha perso questa capacità, se come un Politburo s’aggrappa alla linea dell’austerità quasi fosse una linea di partito, se lo Stato italiano è un motore che ingoia le ricette recessive senza muoversi, non vuol dire che ereditariamente siamo inadatti. Significa che non possediamo l’ambizione politica — dunque la corporatura geografica — su cui può contare Obama, che non a caso si richiama più volte a Roosevelt. Non dimentichiamo che l’assistenza sanitaria universale è invenzione europea. Che Obama non sa come imporla a una destra enormemente sospettosa verso lo Stato. Chiudere il passato è difficile per lui come per noi. Anche lì capita che «porti un’idea nuova e trovi subito dieci obiezioni», come Marchionne dice dell’Italia.
Non so cosa pensi Mar- della crisi nata nel 2007, ma qui importa il suo racconto e il racconto conferma che all’origine del male c’è l’assoggettamento dei poteri pubblici alle forze spontanee del mercato, al «puro uomo naturale». Un assoggettamento che continua a dispetto dei traumi subiti, come se il rimedio all’intossicazione fosse il veleno stesso che l’ha causata.
Questo perché l’economia dellaissez-faireresta un’ideologia, proprio come ai tempi in cui John Maynard Keynes ne denunciò le insidie, le menzogne. Il suo saggio del 1926 sulla «Fine del laissezfaire » andrebbe riletto ogni giorno dai Politburo europei e nazionali. Il liberismo del lasciar- fare è a suo parere un
idolo appannato, un mostro letargico: sopravvive grazie all’inclinazione — perversa, comoda — a semplificare le complessità, a occultare le smentite. È una teoria darwinista, che seleziona il più forte e distrugge tutto quel che sta intorno: società, persone, Stati, democrazia. Chi vince, scrive Keynes, sono solo le giraffe col loro collo lunghissimo, che riescono a mangiare le ultime foglie rimaste in cima all’albero: gli animali col collo corto muoiono di fame. Il mercato lasciato a se stesso è quell’albero. Produce misantropia diffusa e diseguaglianze esiziali.
L’intervista di Marchionne è significativa perché avvalora la triste parabola delle giraffe: la recessione è alle spalle, ci dicono, la cima dell’albero è di nuovo piena di foglie, ma il prezzo è la sopravvivenza del più adatto. Anche la disuguaglianza èspaventosa, e spiega certe convergenze fra ideologi delusi del laissez-faire e i loro contestatori. Non è raro, ad esempio che il liberista Brunetta si dica d’accordo con Landini della Fiom, ancor ieri un eretico.
Non è detto che la svolta sia vicina. Non sappiamo se Marchionne ambisca sul serio a «dare forma e significato alla società del futuro». Se abbia ricordo del Piano Marshall da lui invocato nel giugno 2013: che creò coesione nazionale e stabilità,ma grazie a immensi investimenti pubblici in Europa. Se il «sogno di cooperazione industriale a livello mondiale» favorirà davvero la reintegrazione («sempre che il mercato non crolli un’altra volta») di tutti i cassaintegrati Fiat.
Quel che resta, leggendo l’intervista, è l’amarezza per l’incapacità europea e italiana di attivarsi come Washington. L’Unione è divenuta una setta che riconosce i fatti solo se combaciano con le sue profezie e ideologie, scrive l’economista greco Yanis Varoufakis. Logica vorrebbe che fosse lei, per prima, a scommettere sulla «società del futuro ». Dovrebbe metterci la faccia e i soldi, come Obama. Dovrebbe divenire una Federazione. Con la storia che ha potrebbe perfino riuscire meglio di Obama, prigioniero spesso delle destre antistataliste.

Repubblica 15.1.14
Il presidente di Mps: abbiamo le energie e le strategie per rilanciarlo in modo definitivo
Profumo: “Se salta l’operazione non rischia solo il Monte ma tutto il sistema bancario”
intervista di Massimo Giannini


«ABBIAMO chiuso un capitolo. Ora si volta pagina. Dobbiamo mettere in sicurezza il Monte, e rilanciarlo in modo definitivo. Abbiamo le energie e le strategie per farlo. Pancia a terra per l’aumento di capitale. Perché se salta l’aumento, non rischia solo il Monte, ma l’intero sistema bancario italiano». Appena rientrato nel suo ufficio di Rocca Salimbeni, Alessandro Profumo commenta così l’esito del cda, che ha preso atto del rinvio della ricapitalizzazione. Un esito sofferto, preceduto da veleni e voci su una possibile uscita di scena dello stesso Profumo e dell’ad Fabrizio Viola.
Presidente, perché alla fine ci avete ripensato? Cosa vi ha convinto a restare, pur avendo perso la vostra partita?
«Ecco, ci tengo subito a dire che Viola ed io non abbiamo giocato o perso nessuna “partita”. Ho deciso di restare, e lui con me, per una ragione molto semplice: se ce ne fossimo andati, il traguardo della ricapitalizzazione e quindi del pieno rilancio della banca, che oggi resta molto difficile, sarebbe diventato impossibile».
Non sia immodesto: mi sta dicendo che senza di lei e Viola l’aumento a maggio non si farebbe e il Monte salterebbe per aria?
«Non è questione di immodestia. È la realtà dei fatti. Viola ed io conosciamo bene le difficoltà che ci aspettano. Abbiamodeciso di affrontarle perché l’alternativa, e mi deve credere perché ho fatto alcune personali verifiche “sul campo”, sarebbe stata molto più traumatica. Per Mps, non certo per noi. Anche per questo avevo insistito sulla ricapitalizzazione immediata. Il nostro sogno era poter procedere all’aumento, rimborsare i 3 miliardi di Monti bond, e poter dire “finalmente non siamo più sotto la tutela dello Stato”. Se l’avessimo fatto subito, avremmo avuto una certezza. Rinviare tutto a maggio rende la prospettiva più incerta, e il percorso più accidentato».
Si dice che vi ha convinti a restare il ministro del Tesoro. Che rapporti ha con Saccomanni?
«Molto buoni. Anche se, devo dire, mi aspettavo un’incisività maggiore nei confronti della Fondazione».
Ma a questo punto lei non si sente un manager dimezzato?
«Se fosse così non resterei un solo minuto al mio posto. In questi mesi Viola ed io abbiamo gestito la banca in piena libertà. Se abbiamo fatto errori, li abbiamo fatti in totale autonomia. All’ultima assemblea siamo stati seduti sei ore, a prenderci i pesci faccia. Le assicuro che non è piacevole. Siamo consapevoli di quanto è e sarà dura. E siamo consapevoli che alla fine, comunque vada, quelli che hanno sbagliato saremo noi. Se l’aumento di capitale fallirà ci diranno che non siamo stati capaci di portarlo a termine. Se riuscirà ci diranno “perché mai avete fatto tantocasino, per un rinvio di pochi mesi?”. Abbiamo messo nel conto anche questo, e restiamo qui perché crediamo nel progetto Mps».
L’aumento di capitale posposto a maggio avrà i suoi costi. C’è un costo «politico »: la Fondazione vuole tenere i piedi piantati dentro la banca. È il solito «socialismo municipale», che resiste. Questo non è un gigantesco problema?
«Senta, qui non si tratta di impedire alla politica di tenere i piedi dentro la banca, ma di impedirgli di rimetterceli. E non solo alla politica, ma anche a un pezzo di sindacato, che esprime il sindaco della città. Se vuole, uno dei motivi per cui ho deciso di restare è anche questo. Difendere l’autonomia della banca. Finora ci sono riuscito. Dalle sponsorizzazioni ai fidi, in questi mesi non c’è stata una sola decisione che sia stata ispirata dalla politica. Continueràcosì».
C’è un costo economico del rinvio. Aumenterà l’onere degli interessi sui Monti Bond. Quanto peserà sui conti?
«Dipende da quando partirà effettivamente l’aumento. Se sarà a maggio, come previsto, i maggiori oneri sui Monti Bond saranno pari a 120 milioni, considerato che paghiamo un interesse del 9,5% l’anno. Lo fronteggeremo, ma anche per questo avremmo preferito partire subito».
Nel frattempo bisognerà ricostituire il consorzio di garanzia, e la Fondazione dovrà trovare i nuovi soci ai quali cedere parte del suo 33,5%. Si parla di altre Fondazioni, guidate da Cariplo. Lei che ne pensa?
«Mi auguro che la Fondazione trovi gli interlocutori giusti. E mi auguro soprattutto che i tempi siano molto brevi e rispettati. Perché voglio dirle una cosa, con la massima chiarezza. Se non riusciamo a fare l’aumento di capitale, non è a rischio solo il Monte, ma l’intero sistema bancario italiano ».
Sta dicendo che se a maggio la vostra operazione fallisce si rischia un effetto domino?
«Sto dicendo che un’eventualità del genere avrebbe un impatto fortissimo, sia in Italia che all’estero. Sarebbe un segnale pessimo, anche per banche come Carige e Popolare di Milano, che hanno bisogno di aumenti analoghi. Insomma, mai come stavolta non possiamo permetterci di fallire ».
Sia sincero: com’è il reale stato di salute di Mps, a questo punto?
«Mi faccia ricordare da dove siamo partiti. Ci siamo insediati il 27 aprile dell’anno scorso, e a metà maggio avevamo 150 finanzieri che bussavano alla porta. C’era un deficit patrimoniale molto consistente, che tra i 3,4 miliardi di esercizio Eba, gli 1,9 miliardi di Tremonti bond da rimborsare e tutto il resto, ammontava a circa 6miliardi. Oggi posso dire che la banca è solida. Se facciamo la ricapitalizzazione a maggio siamo a posto sul piano del patrimonio. Sul piano della redditività siamo in netto miglioramento, e in 18 mesi abbiamo ridotto i costi del 15% contro una media di sistema del 6%. La rete è stata totalmente ridisegnata, Viola ha messo in piedi una squadra di manager davvero eccellente».
Ma avete ancora perdite su crediti molto rilevanti...
«Questo è vero, ma dipende dal ciclo economico del Paese, che non aiuta. Ora, come direbbe Obelix, se il cielo non ci crolla sulla testa, nel 2014 rivedremo il segno più alla voce Pil. Questo significa che la banca, che abbiamo rimesso in carreggiata, ha ottime possibilità di ritornare a correre ».
Lei ripete che al Monte serve un «socio forte». Un socio industriale, cioè un’altra grande banca, o un socio finanziario?
«Al Montepaschi servono investitori solidi che ci facciano crescere, più che una banca con la quale fondersi. Dal mio punto di vista personale l’opzione è indifferente, ma dal punto di vista dell’istituto io reputo migliore la soluzione di uno o più soci finanziari».
Lo dice perché se arriva un’altra banca e si fonde con Mps la prima cosa che fa è cacciare i manager...
«Si sbaglia. La mia unica ambizione è che il Monte sia a posto. E per essere a posto, penso sia meglio un socio finanziario che mette i soldi, migliora le potenzialità della banca nel rispetto dei suoi legami con la città e con il territorio. Viceversa, se arriva un’altra banca, compra, incorpora e addio Siena».
Una «pratica» in cui lei è un maestro, fin dai tempi di Unicredit, quando comprava tutto e comprava troppo...
«In generale, le confesso che preferisco comprare che essere comprato. Quanto alla mia stagione a Unicredit, certo, ho commesso i miei errori, ma mi pare che il saldo finale sia straordinariamente positivo. Unicredit oggi è un colosso globale, fortissimo all’estero. Durante la mia gestione abbiamo investito in Germania, Austria, Polonia, Russia e Turchia, che guarda caso sono i Paesi che crescono di più. E se ripenso all’operazione Unicredit- Hvb, vedo parecchie analogia con la fusione Fiat-Chrysler fatta da Marchionne, per i pesi relativi tra le entità fuse. Dunque, ho ben poco di cui rammaricarmi».
Anche perché le hanno dato una montagna di soldi. Quel bonus da 40 milioni fa ancora discutere: una perizia chiesta dalla Procura di Roma dice che il suo compenso è stato il doppio del dovuto e ha «depauperato» la società. Che risponde?
«Ho letto questa relazione di Stefano Loconte, un fiscalista di Bari che sostiene che da contratto avrei avuto diritto a una buonuscita inferiore. Sono punti di vista. Io resto convinto che quel bonus fosse nei miei diritti, tanto che me lo hanno dato. E mi faccia dire che se avessi letto allora le intercettazioni telefoniche tra alcuni componenti del cda Unicredit e alcuni soggetti esterni alla banca, uscite sui giornali solo alcuni mesi dopo, sarei stato anche più rigido nella negoziazione sulla buonuscita».
Via, non si lamenti, non le è andata poi così male...
«Non mi lamento. Infatti oggi sono qui a Siena, a lavorare quasi gratis, perché lo ritengo giusto e perché non voglio pesare sui conti della banca, proprio in una fase in cui purtroppo siamo costretti a ridurre gli organici».
Ma per i banchieri resta un enorme problema reputazionale. Siete considerati un «potere forte» che si arricchisce mentre il resto d’Italia impoverisce. E non avete fatto molto, in questi anni, per migliorare le cose...
«È vero. Abbiamo commesso molti errori. E non siamo stati capaci di spiegare alla gente cose positive che oggi ci si ritorcono contro. Per esempio, Mps ha un rapporto depositi/impieghi del 125%, cioè squilibrato: prestiamo più soldi di quanti ne incassiamo. Questo vale per tutto il sistema bancario. Eppure ci accusano di non finanziare abbastanza l’economia reale, e noi finiamo per essere cornuti e mazziati. Il problema è che il nostro è unsistema troppo banco-centrico...».
Il problema è che avete finanziato gente che non se lo meritava, tipo Zunino o Zalesky?
«Anche quello, certo. Ma tagliare gli impieghi di quel tipo ci porterebbe a ridurre il rapporto con i depositi al 115%, non di più. Il nodo è strutturale, dovremmo creare un vero mercato alternativo del debito, ed uscire così dal banco-centrismo di questi anni. E dovremmo cambiare radicalmente il nostro modo di fare comunicazioneal cliente».
«Vaste programme», le direbbe De Gaulle.
«Sì. Ma ironie a parte, questo è il vantaggio del Montepaschi di oggi. Per noi il 2013 è stato l’anno zero. Siamo ripartiti da un punto così basso, che ora possiamo essere davvero in prima fila nel cambiamento. Non abbiamo nulla da nascondere, e nulla da difendere. Se la Fondazione rispetta gli impegni, e se ci lasciano gestire l’istituto in piena autonomia, Mps può diventare il modello di un nuovo modo di fare banca».

La Stampa 15.1.14
In Francia
Stragi naziste. Inchiesta su un’italiana uccisa con i figli


La Procura militare di Roma ha aperto un’inchiesta sul massacro di Oradour Sur Glane, in Francia, nel quale il 10 giugno 1944 morirono 642 persone tra cui l’italiana Lucia Zoccarato e sette dei suoi nove figli. La strage fu compiuta come rappresaglia per l’uccisione del comandante del terzo battaglione della divisione «Das Reich».Al termine di un rastrellamento da parte dei nazisti, gli abitanti del piccolo centro francese furono divisi, i maschi da una parte, le donne e i bambini dall’altra, e trucidati.
La Procura militare ha già inviato alla procura di Dortmund, che da tempo indaga sul massacro, «le richieste di rogatoria internazionale» sui nominativi già iscritti nel registro degli indagati.

Corriere 15.1.14
Cinismo e amori hollywoodiani Anche il «budino» si scopre spietato
Soddisfatto di sé, mostra poco interesse per le sorti della compagna Valérie
di Aldo Cazzullo


PARIGI — Eccolo qui, il «budino», il presidente «moscio», il leader la cui normalità confina con la mediocrità: roseo, truccato, i capelli tinti, in preda a un’«indignazione totale» per la fuga di notizie sul suo amore segreto; eppure ringalluzzito, quasi compiaciuto di sé, confortato dalla risalita nei sondaggi e dal rivelarsi al mondo nella sua vera natura di uomo fascinoso, spiritoso, se necessario predatorio e spietato.
Non una parola sulla salute della sua compagna, portata all’Eliseo e tradita nella garçonnière di fronte. Non una parola sul futuro del loro legame. Non una parola, figurarsi, sulla nuova storia. Valérie Trierweiler sarà ancora la première dame ? Non si sa, bisogna ancora discuterne, ma in privato. Il capogruppo socialista al Senato Rebsamen propone di abolire la figura della première dame ? La première dame non esiste, non è prevista dalla Costituzione; è «un uso», «una pratica» che «varia a seconda dei periodi e delle personalità», e in ogni caso le sue spese devono essere «conosciute, pubblicate e le meno elevate possibile» (oggi sono 19 mila euro al mese). Ma Valérie è ancora in ospedale: come sta? «Si riposa».
La surreale conferenza stampa era stata convocata per annunciare la nuova stagione socialdemocratica. E’ diventata l’attesa da teatro dell’assurdo di una parola sullo scandalo. Bloccato per tutto il pomeriggio, il governo al completo assiste tra sorrisetti imbarazzati: il premier Ayrault, il ministro degli Esteri Fabius il cui riporto è ormai ridotto a un simbolico ciuffo, il ministro degli Interni Valls (un Sarkozy più bello e meno nervoso). Il presidente si dice consapevole della necessità di «difendere la serietà della Repubblica»; fremito in sala; ma sta parlando di Dieudonné, il comico. Ora esalta «la dignità della persona»; ma si riferisce alla nuova legge sul fine vita. «Ci sono persone maggiorenni che vivono una grave sofferenza psicologica...»: qui siamo alle cure palliative. La parola «relazione» fa sobbalzare l’uditorio: ma intende la partnership franco-tedesca. Quando poi evoca «la responsabilità del capo dello Stato», tutti pensano: finalmente ci siamo. Invece si discetta dell’intervento in Mali e nella Repubblica centrafricana. E’ la domanda — palesemente concordata — del presidente della stampa presidenziale ad alzargli la palla: il triangolo con Valérie e Julie è «un fatto privato», che sarà risolto prima del viaggio a Washington, fissato per l’11 febbraio.
L’opinione pubblica avrà un mese per interrogarsi su quel che le élites francesi già sapevano: dietro la maschera da omino di burro, la pappagorgia, la bonomia, Hollande nasconde una personalità tormentata e un grande interesse, ricambiato, per le donne. Lo spiegava la madre dei suoi quattro figli, Ségolène Royal, nelle varie interviste, comprese quelle rilasciate alla rivale Valérie, allora giornalista di Paris Match : «François ha un grande humour. Sa ascoltare. Con lui non ci si annoia mai». E Thomas, il primogenito: «Papà è più arrendevole, mamma più autoritaria. Papà la domenica va a fare la spesa, è bravo a fare la costoletta di vitello. Mamma sparecchia». Il rapporto tra i due era stato descritto in un saggio intitolato «La Madone et le culbuto»: lei rappresentata come la Vergine, lui come un pupazzo. Nessuno però è riuscito a persuaderlo a sposarsi. Oscar Temaru, presidente della Polinesia francese, tentò di organizzare una cerimonia esotica, con le corone di fiori e tutto; Hollande si tirò indietro, con lo stesso sorriso imbarazzato di ieri.
La Royal, mai nominata, è uno dei personaggi-chiave della storia. Rebsamen, l’unico socialista ad aver criticato il presidente, nel 2007 guidava la campagna della prima donna candidata all’Eliseo. Molti francesi hanno visto nella Trierweiler un’usurpatrice, a maggior ragione dopo il tweet a sostegno dello sfidante che ha battuto la Royal nel suo collegio e l’ha esclusa dal Parlamento. Da allora Valérie, che si era insediata nell’«aile madame» dell’Eliseo, con un consigliere, un segretario, una segretaria, un autista e una guardia del corpo, è stata relegata ai margini della vita pubblica. Julie Gayet, l’attrice di sette anni più giovane, l’ha allontanata anche dall’intimità del presidente. In campagna elettorale, Hollande mostrava ai giornalisti il cellulare su cui arrivavano le telefonate della Trierweiler, rubricata come «Mon Amour» e definita «donna della mia vita»; purché non si parlasse di matrimonio. Ieri ha fatto mostra di essere poco interessato al suo destino. Ha tenuto però a precisare che la persona del capo dello Stato non è mai stata in pericolo, voltandosi verso il ministro dell’Interno, che annuiva enfaticamente.
Valls è l’altro personaggio-chiave. «Non poteva non sapere» è l’accusa. Valérie non l’amava. Si era espressa contro l’espulsione della giovane rom Leonarda, decisa dal ministro. Di sicuro Valls, che sta maturando con il presidente un rapporto di competizione analogo a quello che oppose Sarkozy a Chirac, non ha dato una mano. Domande su di lui non se ne sono sentite. Rigorosamente tagliata fuori la stampa anglosassone: quando alla fine l’inviato dell’Associated Press tenta l’affondo, Hollande risponde che «in Francia ci sono dei valori. La libertà di stampa è tra questi. Ma lo è anche il rispetto della vita privata».
L’orgoglio nazionale ritrovato doveva essere al centro della svolta. La Francia oggi «si denigra, si inquieta, non ha fiducia in se stessa»; ma «all’estero la considerano la nazione più fortunata della terra, che ha i migliori uomini di cultura, che possiede l’arte di vivere»; deve «ritrovare un orizzonte, tornare padrona del proprio destino». Un compito al di sopra delle forze di un presidente che oggi svela una vita erotico-sentimentale da divo di Hollywood e un cinismo da politico consumato. Una sorta di maledizione: la caduta di Strauss-Kahn per uno scandalo sessuale accaduto non a caso all’estero, la fuga dall’Eliseo di Cécilia Sarkozy prontamente rimpiazzata da Carla Bruni, la pazienza di Bernadette Chirac amatissima dalla destra. E le donne di Mitterrand: Danielle che trovava pace solo nel Chiapas ribelle, la figlia segreta Mazarine oggi romanziera, sua madre Anne Pingeot conservatrice delle sculture del Musée d’Orsay, comprese le statue dei simboli della nazione: Giovanna d’Arco a cavallo, di cui Marine Le Pen si considera la reincarnazione, e Marianne con il berretto frigio, ora adottato dai ribelli che manifestano contro Hollande.

La Stampa 15.1.14
È il primo caso
È ateo, l’Inghilterra dà asilo a un afghano
di Monica Perosino


Per la prima volta non è la fede a essere protetta, ma la scelta di non avere fede. La Gran Bretagna ha concesso asilo a un giovane afghano perché ateo. In patria sarebbe stato perseguitato, imprigionato e avrebbe rischiato la vita, visto che la Sharia poco tollera la conversione, ma non ha pietà per l’apostasia, che in Afghanistan viene punita con la pena di morte. Per questo il 23enne, cresciuto in una famiglia musulmana fuggita in Gran Bretagna nel 2007, potrà restare nel Kent fino a quando vorrà.
Il suo caso è stato seguito dalla Law Clinic, un servizio gratuito fornito da studenti di Giurisprudenza dell’Università del Kent, sotto la supervisione di avvocati qualificati. Determinante, nella richiesta di asilo, è stato il caso di Abdul Rahman, un afghano processato e condannato a morte per la sua conversione al cristianesimo. Gli avvocati hanno sostenuto che l’Islam permea ogni aspetto della vita quotidiana: sarebbe stato impossibile per il giovane esercitare il suo diritto all’ateismo. Fondamentale, spiega il «Guardian», è stata anche una sentenza della Corte Suprema del 2010 che definisce irragionevole spedire un gay in Camerun o in Iran sul presupposto che, per non incappare in condanne e persecuzioni, potrebbero essere gay in un «modo discreto» o nascondere la propria sessualità.
Claire Splawn, studentessa di legge del secondo anno, ha preparato il caso sotto la supervisione del procuratore legale della Kent Law Clinic. Dice al «Guardian»: «Abbiamo sostenuto che un ateo dovrebbe avere il diritto di essere protetto dalla persecuzione allo stesso modo con cui lo è una persona religiosa. Questa decisione è l’importante riconoscimento che l’assenza di fede è di per sé una posizione spirituale seria e da difendere».

il Fatto 15.1.14
Anshluss
Una storia passata e l’Europa a venire
di M. Pa.


Questo libro è sorprendente per il lettore italiano. Vladimiro Giacché, economista, marxista non pentito, dirigente del fondo di investimenti Sator di Matteo Arpe per mestiere, col suo Anschluss, l’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa (Imprimatur) si dedica a smontare – con impressionante mole di dati e dichiarazioni dei protagonisti – uno dei luoghi comuni più radicati nel discorso pubblico europeo: l’unificazione della Germania come storia di successo e di solidarietà. Si diceva delle molte sorprese del libro. La prima, per chi non ha vissuto quegli anni o lo ha fatto senza eccessivo interesse, sarà il piglio “coloniale” con cui l’allora Germania Ovest affrontò il problema dei suoi rapporti con l’Est (la Repubblica democratica tedesca, Rdt) dopo il crollo del Muro di Berlino. Non unificazione, ma Anschluss appunto, annessione, termine che in Germania rimanda all’atto di forza con cui Hitler nel 1938 fece dell’Austria una provincia tedesca: nessuna trattativa, discreto uso di menzogne, imposizione della legge, del modello economico e della moneta occidentale. Il tutto condito da un repulisti di funzionari, accademici, intellettuali, tecnici che non ha eguali nemmeno dopo il nazismo.
Il risultato è la distruzione di un tessuto industriale a suo modo florido e di una economia autosufficiente: “Già nella prima metà del 1991 – scrive Giacché – la produzione industriale era crollata del 67 per cento rispetto al 1989. Ma con punte del 70 per cento nel settore dei macchinari, del 75 per cento nell’elettronica e addirittura dell’86 per cento nella meccanica di precisione”. Il corollario di questa desertificazione del manifatturiero è la disoccupazione: “Dalla fine dell’89 alla primavera del 1992 furono distrutti 3,7 milioni di posti di lavoro” su una popolazione di neanche venti milioni. L’emigrazione verso Ovest, che si voleva fermare, esplose. La privatizzazione dell’intera economia della Rdt avvenne con metodi talmente poco funzionanti, discriminatori e, spesso, criminali da incrinare per sempre, pure nel lettore più filotedesco, il mito dell’efficienza teutonica. Il mezzo con cui tutto questo fu imposto ai Lander dell’Est – oggi una sorta di Mezzogiorno tedesco – fu la moneta unica, realizzata in tutta fretta e a prezzi insostenibili per la Germania comunista. Capito perché nel sottotitolo si parla di “futuro dell’Europa”?.
ANSCHLUSS, L’ANNESSIONE. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa di Vladimiro Giacché Imprimatur, 352 pag, 18

Corriere 14.1.14
Americani «oltraggiati» dalle accuse israeliane
di Davide Frattini


GERUSALEMME — «Che gli diano il premio Nobel e ci lasci tranquilli». Le dieci apparizioni di John Kerry a Gerusalemme in meno di un anno, l’ultima settimana scorsa, hanno esasperato chi come Moshe Yaalon, il ministro della Difesa israeliano, non crede in un accordo di pace. Lo ha detto in un incontro con gli studenti di Ofakim, piccola città nel deserto del Negev. Quelle parole sono finite su Yedioth Ahronoth , il quotidiano più venduto, e hanno acceso la reazione degli americani.
Yaalon critica il segretario di Stato sul piano personale, lo definisce motivato da «un’ossessione fuori luogo», spinto da «un fervore messianico». Straccia il piano per la sicurezza presentato a israeliani e palestinesi («non vale la carta su cui sta scritto»), smonta il dialogo con l’Autorità di Ramallah («Abu Mazen resta trincerato nelle sue posizioni»).
Il Dipartimento di Stato bolla le frasi come «oltraggiose»: «Kerry sta lavorando giorno e notte alle trattative con grande attenzione al futuro di Israele. Distorcere le sue motivazioni non è quello che ci aspettiamo da uno stretto alleato». Non è quello che si aspettano neppure i colleghi di governo. Perfino l’oltranzista Avigdor Lieberman, il ministro degli Esteri, lo rintuzza: «I suoi commenti sono dannosi». Ancora più imbarazzato Benjamin Netanyahu che fatica a mantenere un rapporto non conflittuale con il presidente americano Barack Obama. Nella notte il premier israeliano ha costretto Yaalon a scusarsi per gli attacchi a Washington. Prima di entrare in politica con il Likud, Yaalon è stato anche capo di Stato maggiore (con Ariel Sharon premier) durante la seconda intifada. Assieme ad altri ministri preme perché un’eventuale intesa con i palestinesi garantisca la presenza dell’esercito israeliano nella valle del Giordano.

Repubblica 15.1.14
Campione del mondo e bronzo olimpico “Voglio insegnare alle donne a difendersi”
Il “fight club” rosa della pugile Mary per mettere ko la violenza in India
di Enrico Franceschini


LONDRA Minuta, piccolina, con un sorriso timido, Mary Kom non sembra il tipo che mette soggezione. Ma poi batte un pugno sul palmo della mano, proclama «una donna può fare quello che fa un uomo» e un lampo di rabbia le passa negli occhi: di colpo, fa quasi paura. Anche perché, a differenza di un uomo qualsiasi che la incontri per strada, io so chi è: sei volte campione del mondo di boxe femminile, medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Londra 2012. Pesi mosca, d’accordo, ma scommetterei che qualsiasi macho, bruto o malintenzionato, se guardasse un video dei suoi combattimenti, ci penserebbe due volte prima di importunarla. Ora il messaggio di quei video sta per diventare un’iniziativa di massa: la 30enne campionessa di pugilato ha aperto in India il primo “female fight club”, un fight club femminile, con il sogno di trasformarlo in una catena di palestre d’autodifesa per donne nel suo sterminato paese. Un paese tristemente noto, nell’ultimo anno, per stupri, violenze e abusi che hanno conquistato le prime pagine dei giornali di tutto il pianeta, scatenando proteste di massa, indignazione e un acceso
dibattito in India. Sebbene l’India non sia certo la sola nazione dove le donne hanno bisogno di essere difese, o di difendersi, dai maschi.
La sua storia, raccontata da lei stessa in un’autobiografia pubblicata il mese scorso a Bangalore (titolo: Unbreakable, “Indistruttibile”) e in procinto di essere tradotta in una ventina di lingue, pare un film. Presto lo diventerà grazie a una mega produzione di Bollywood, come viene chiamata l’Hollywood indiana, con una nota attrice locale, ex-Miss Mondo, Pryanka Chopra, a interpretare la sua parte. Mary è venuta a Londra per presentare la sua iniziativa, parte diFirsts,il nuovo programma della Vodafone che mira a dare a persone di talento l’opportunità di realizzare qualcosa per la prima volta. Il gigante mondiale della telefonia mobile l’ha aiutata a costruire il primo fight clubvicino a casa sua, ha filmato le sue lezioni, le ha messe su un sito Internet, sta progettando un’application per smartphone che conterrà il suo manuale di autodifesa femminile e, per le molte donne indiane che non hanno un «telefonino intelligente », sta creando un servizio gratuito di messaggini con accesso a una linea di soccorso telefonico e a consigli di sicurezza e autodifesa.
Questa piccola grande donnaè nata nello Stato nord-orientale indiano di Maripur, all’interno della comunità tribale dei Kom: una zona vicina alla Cina e infatti la sua gente ha un aspetto che ricorda più i cinesi degli indiani. Come mai, invece di giocare con le bambole, da piccola si infilava i guantoni? «Perché i soli film che guardavo erano quelli di Bruce Lee e Jackie Chan», racconta. «Fin da bambina mi sono interessata alle arti marziali. Poi ho scoperto la boxe. Per lungo tempo ho dovuto allenarmi soltanto con i maschi, perché non c’erano altre ragazze iscritte ai corsi di pugilato». Ma le è servito a non avere paura di nessuno. «Ho conosciuto gli abusi maschili anche sulla mia pelle», confida. «Avevo 18 anni e un giorno, mentre camminavo da sola per strada, un uomo si è avvicinato e ha cominciato a toccarmi. Indossavo la nostra veste tradizionale, per cui non era facile tirargli un calcio, ma dopo che gli ho fatto sanguinare il naso con un pugno e l’ho steso a terra con un pugno qui», fa il gesto di colpire nelle costole, «non era più in grado di darmi fastidio».
Poi si è sposata, ha avuto due bambini, ha vinto praticamente tutto quello che poteva vincerenella boxe femminile dilettanti, inclusa una medaglia alle ultime Olimpiadi. Ora spera di qualificarsi alle prossime, quelle di Rio 2016: «Ce la metterò tutta e spero di farcela», dice, «con l’aiuto di Dio», visto che sin da bambina ha fatto scuole cattoliche. I recenti stupri in India, in cui due donne hanno perso la vita dopo avere subito una violenza di gruppo, l’hanno fatta inorridire: «È a quel punto che mi sono messa a pensare a un Fight Club femminile, per dare a tutte le donne, al maggior numero possibile di donne, nel mio paese e un giorno spero grazie al nostro esempio anche in ogni parte del mondo, il coraggio e la capacità di difendersi». Mary riconosce che la violenza non si può combattere solo con l’autodifesa, sa che servono l’istruzione, leggi severe, l’impegno delle autorità e di tutti. Però nel frattempo, afferma, un po’ di autodifesa non può che fare bene alle donne. «Quello che può fare un uomo, può farlo anche una donna», soggiunge, e tira un pugno sul palmo della mano con un lampo negli occhi. Facendo passare a chiunque la voglia di contraddire una donna minuta, timida e indistruttibile.

Il Sole 15.1.14
Patto sulle regole tra Italia e Cina
Il ministro: vogliamo spingere le imprese a radicarsi ulteriormente nell'area
di Rita Fatiguso


PECHINO. Non è semplice parlare di regole del gioco quando si ha di fronte, ben schierato, lo stato maggiore della prima potenza commerciale mondiale, con in testa i protagonisti delle ultime trade wars planetarie, Gao Hucheng, ministro cinese del commercio estero e il suo vice Zhong Shan, delega ai negoziati Wto e grande capacità di districarsi tra i meandri dei palazzi di Bruxelles.
Eppure, la firma ieri, nella sede del Mofcom nell'ambito del Forum italiano per un nuovo modello di cooperazione economico-commerciale, del Memorandum Of Understanding per la nascita del Business council Italia-Cina (nel promeriggio è stato siglato un altro Mou con il ministro Miao Wei sulle politiche industriali) ha rappresentato un'occasione unica per mettere in fila (e in chiaro) una serie di aspetti che toccano le aziende italiane in Cina e per stigmatizzare certe asimmetrie nei rapporti tra Italia e Cina.
Cosa che il ministro per lo Sviluppo economico Flavio Zanonato, a capo della nutrita delegazione italiana, ha fatto presentando una serie di richieste ai partner cinesi.
«Perché con la Cina - ha detto Flavio Zanonato - abbiamo ottimi rapporti economici e politici, ma ora è il momento di fare un balzo in avanti, cercando di mettere le nostre imprese in condizione di sfruttare al meglio il nuovo corso del governo di Pechino per radicare ulteriormente la nostra presenza in un mercato ancora in forte espansione. Questa è un'occasione da non perdere e noi non la perderemo».
Ma è anche ora di mettere mano alle regole del gioco e di farle valere. Il ministro ha parlato del monitoraggio sul vino italiano che proprio in questi ultimi mesi ha iniziato a sondare in maniera sistematica il mercato cinese, alla politica governativa di contrasto alle emissioni delle auto di una certa cilindrata che rischia di abbattersi su gioielli come Ferrari e Maserati.
Soprattutto Zanonato ha consegnato un dossier con una sfilza di casi, almeno quattordici storie di imprese deluse dalla Cina, rimaste in mezzo al guado, impegnate in feroci battaglie giudiziarie che sembrano non avere mai fine.
Mentre l'Europa proprio oggi sta per lanciare nella capitale il nuovo programma di collaborazione con la Cina in tema di proprietà intellettuale, ci sono aziende che si sono rifugiate sotto il cappello della Camera nazionale della moda italiana tenute insieme dalla comune "offesa" circa l'usurpazione dei marchi, ci sono anche campioni della moda e del design, del manifatturiero di alta qualità che stanno difendendo con le unghie e con i denti i loro brevetti regolarmente registrati in Cina.
Il vice ministro Zhong Shan si è detto disponibile a consegnare subito questo dossier ai suoi tecnici perché attivino tutte le procedure del caso e valutino le soluzioni indicate a piè di pagina insieme allo stato di avanzamento delle singole liti.
Del resto anche in Cina giganti del calibro di Baidu e Tencent stanno regolando in tribunale questioni legate allo sfruttamento illegale di contenuti diffusi su Internet, con accuse reciproche e richieste di risarcimento milionarie.
Quanto allo sbilancio tra importazione ed esportazioni, Zhong Shan ha detto che si può risolvere solo in due modi: esportando in Cina prodotti italiani di sempre maggiore qualità e valore oppure importando meno dalla Cina. «Lascio a voi la scelta - ha detto - evidentemente la prima soluzione è la più indicata».
Per gli investimenti la Cina appena ne ha avuto la disponibilità lo sta facendo, sta investendo, l'anno scorso 80 miliardi di dollari, di cui nove in Gran Bretagna. «Anche in Italia siamo disposti a fare la nostra parte», ha aggiunto.
Per il ministro Flavio Zanonato, «è possibile anche trovare aree terze in cui procedere insieme, dai Balcani, alla Romania all'Iran».
Anche per questo, i patti vanno, letteralmente, osservati e i problemi risolti, a cominciare dalle tematiche del dossier.

Repubblica 15.1.14
Di giorno accumuliamo “spazzatura”, con l’oscurità ce ne liberiamo: lo rivelano due studi americani Ecco perché riposare poco o male non solo provoca stress, ma può causare anche Alzheimer o Parkinson
Sonno Così il cervello fa pulizia dormendo ci depuriamo
di Federico Rampini


NEW YORK L’80% degli adulti soffre per un deficit di sonno. Che paghiamo non solo sotto forma di stress. Dormire meno del necessario può causare demenza, Alzheimer, Parkinson. La “scienza del sonno” diventa cruciale per la prevenzione di molte malattie degenerative del cervello. Lo rivelano due studi americani pubblicati rispettivamente sulle riviste Science e The Journal of Neuroscience. Insieme aprono nuove strade nella conoscenza del funzionamento del nostro cervello, e il ruolo che il sonno svolge per la sua “manutenzione”. La prima ricerca ha come autrice Maiken Nedergaard, biologa danese che dirige un gruppo di scienziati alla University of Rochester nello Stato di New York.
Il punto di partenza degli esperimenti condotti da questo team, è stata la ricerca di una “spiegazione evolutiva” del sonno. Dormire, in effetti, almeno a prima vista è un’attività inefficiente, improduttiva, perfino pericolosa: i nostri antenati cavernicoli rischiavano di farsi divorare dalle belve, durante il sonno. La Nedergaard ha trovato conferma per un’ipotesi che da molti decenni circolava tra gli scienziati. E cioè che il sonno sia il momento in cui il nostro cervello “fa le pulizie” al proprio interno, elimina spazzatura, scorie. È un po’ l’equivalente di quello che il sistema linfatico fa con i nostri muscoli, eliminando l’acido lattico creato dagli sforzi. Per analogia, la scienziata danese ha battezzato sistema “glinfatico” quello che agisce nel cervello. E soprattutto, ne ha dimostrato l’esistenza e il funzionamento, con numerosi esperimenti di laboratorio. Per ora limitati a topi, scimmie, cani e capre.
Il verdetto è comunque chiaro. Proprio come i muscoli sotto sforzo producono tossine, anche il cervello nell’attività diurna accumula “spazzatura”. Quando siamo svegli, il lavaggio automatico del sistema glinfatico procede a rilento, un modesto 5% rispetto al lavoro che svolge quando dormiamo. Durante il sonno, l’area occupata dal sistema glinfatico, dove scorrono i fluidi del lavaggio cerebrale, arriva a occupare il 20% del volume del nostro cervello. Questi “detersivi” sono essenziali per eliminare le proteine dette beta-amiloidi e tau, associate proprio con l’Alzheimer.
Da una parte è rassicurante sapere che esiste un’impresa delle pulizie che entra in azione ogni notte, e occupa le ore del nostro sonno svolgendo un mestiere così prezioso. D’altro lato questo rende ancora più allarmante il deficit di sonno che ci affligge più o meno tutti, e che va peggiorando. SigridVeasey del Center for Sleep and Circadian Neurobiology (University of Pennsylvania) col suo gruppo di ricercatori ha dimostrato che se il deficit di sonno è cronico, il metabolismo cerebrale subisce danni gravi, i neuroni degenerano. IlNew York Times riporta un dato elaborato dalla National Sleep Foundation: un adulto ha bisogno di dormire dalle sette alle nove ore per notte, ma negli ultimi 50 anni abbiamo ridotto il nostro sonno, in media tra una e due ore a notte. Solo nell’ultimo decennio abbiamo perso in media 38 minuti di sonno per notte. Negli Stati Uniti dai 50 a 70 milioni di persone soffrono disturbi cronici del sonno. Questa potrebbe essere la causa scatenante per una futura epidemia di Alzheimer, demenza e Parkinson, malattie neurodegenerative nelle quali appaiono proprio quelle proteine che noi eliminiamo nel sonno. Purtroppo la risposta non può venire dall’uso massiccio di sonniferi: il sistema glinfatico lavora meno bene quando il sonno è “artificiale”. Semmai, una sfida per la scienza sarà trovare il farmaco che fa da surrogato per il sistema glinfatico, ripulendo il nostro cervello dalle tossine e da ogni scoria. Allora potremmo realizzare l’antico sogno di tanti bambini: non andare mai più a dormire.

Repubblica 15.1.14
Intervista a Luigi Cancrini
“E ora nessuno pensi a inventare una medicina per stare svegli”
di Alessandra Baduel


«Dormire significa rientrare in contatto con la parte più ricca e tumultuosa di noi, quella meno logica e regolare. Servirà anche a pulire, diciamo così, il cervello — e le ricerche in tal senso sono più che benvenute, se aiuteranno a combattere le malattie neurodegenerative, ma il bisogno di sonno non è solo bisogno di “rimettere in funzione” la macchina». Lo psichiatra Luigi Cancrini accoglie le nuove ricerche sulle funzioni cerebralifacendo scattare un campanello d’allarme.
Professore, che effetto le fa la certificazione di una vera e propria funzionalità, la “pulizia” dei metaboliti, del dormire?
«Sappiamo bene che uno dei modi più efficaci per far impazzire una persona, portandola ad alterazioni anche gravi, èquello di non farla dormire. Ora, parlare di pulizia mi sembra un modo di dire fin troppo semplice, come sempre troppo semplice mi è sembrato il voler trasferire scoperte fatte sugli animali all’uomo: abbiamo differenze individuali, fisiologiche e psicologiche, molto superiori a quelle che ci sono fra i singoli topi».
Si ipotizza anche di trovare un farmaco che “pulisca” il cervello mentre siamo svegli, rendendo superfluo il sonno.
«Mi sembra un’idea assurda. Come spiega Freud, nel sonno l’attività cerebrale continua ma non è governata dai centri superiori di controllo dell’Io. I filtri critici si abbassano e c’è libera circolazione delle emozioni allontanate nella veglia. Le persone rientrano in contatto con una parte di sé, quella spesso anche più creativa, che ognuno di noi ha dentro. È una condizione non solo felice, ma proprio indispensabile all’equilibrio umano».

Repubblica 15.1.14
Alice nel paese della matematica
Lewis Carroll e il senso del nonsense
Tra paradossi logici e questioni della fisica, le sue storie riprendono spesso problemi che da sempre hanno interrogato gli scienziati
di Piergiorgio Odifreddi


Nell’assolato pomeriggio di venerdì 4 luglio 1862 due reverendi che insegnavano a Oxford portarono tre bambine a fare una gita in barca sul Tamigi. Non era la prima volta, ma fu diversa da tutte. Le sorelline erano particolarmente irrequiete, e pretesero che venisse loro raccontata una storia insensata. Il reverendo Charles Dodgson improvvisò, come era solito fare, e la favola fu tanto attraente che una delle bambine gli chiese di metterla per iscritto. Nacque cosìAlice nel paese delle meraviglie, uno dei libri più singolari che sia mai stato scritto. Il reverendo lo pubblicò sotto lo pseudonimo di Lewis Carroll, una doppia inversione sui suoi due nomi: Charles Lutwidge. Il gioco dell’inversione continuò nel tempo, e culminò pochi anni dopo in un seguito al primo libro:Attraverso lo specchio.
Queste non sono le uniche opere di Lewis Carroll, che scrisse anche un secondo e deludente romanzo in due volumi, Silvia e Bruno,oltre a uno strano e quasi intraducibile poema, La caccia al lumalo. Da parte sua, Charles Dodgson produsse una ventina di libri, tutti di matematica e di logica, e tutti da dimenticare. L’innovativo letterato dilettante Carroll era infatti anche il retrogrado matematico professionista Dodgson, che combatteva battaglie contro i mulini a vento delle nuove geometrie che erano state scoperte nell’Ottocento.
In una di queste opere, Euclide e i suoi moderni rivali,Dodgson spedisce addirittura nell’Inferno della Matematica coloro che dubitano dell’assioma delle parallele. Un’altra di queste opere finì addirittura sul tavolo della regina Vittoria: si narra infatti che ella, dopo aver letto e apprezzato Alice nel paese delle meraviglie,
chiese di avere il successivo libro dell’autore, e si vide recapitare unSunto dei determinanti.
Anche nella vita Carroll-Dodgson incarnava dunque la tensione paradossale che anima le storie di Alice, sulle quali conviene soffermarsi. Naturalmente, le fantasie di un reverendo che amava le bambine in maniera decisamente sospetta, divertendosi fra l’altro a fotografarle nude, inciterebbero a una caccia al tesoro psicoanalitica: soprattutto dopo un secolo come il Novecento, che ha squarciato il velo dell’inconscio e scoperto gli altarini sessuali del clero.
Noi preferiamo rivolgerci invece alle trame che un logico matematico dotato di un inusuale talento ha consciamente intessuto, e scendere a slalom fra le trappole linguistiche, filosofiche e scientifiche che sono state profuse sui percorsi di Alice. Leggere
Alicee Attraverso lo specchio con gli occhi diversi da quelli del letterato è dunque non soltanto una possibilità, ma una necessità, e aiuta a svelare l’ordine reale che si nasconde dietro il caos apparente: il che, detto di passaggio, è il vero scopo della scienza.
I due libri di Alice sono strutturati come ilClavicembalo Ben Temperato di Bach: due serie di dodici capitoli, incentrati rispettivamente sui due giochi delle carte e degli scacchi. E le sue avventure iniziano con un’interminabile caduta nella tana del Coniglio, durante la quale la bambina si domanda curiosa se raggiungerà il centro della terra, o addirittura quegli “Antipotici” che stanno dall’altra parte.
La domanda, tutt’altro che insensata, l’aveva già posta Plutarco. La risposta, tutt’altro che ovvia, l’aveva già data Galileo nel
Dialogo sopra i due massimi sistemi: ignorando l’attrito dell’aria e la rotazione terrestre (ad esempio, supponendo che il buco colleghi i due poli), Alice dovrebbe cadere con velocità crescente fino al centro della terra, e poi con velocità decrescente fino agli antipodi, dove si fermerebbe per un istante, per riprendere poi a cadere “all’insù” fino al punto da dove era partita, e così via all’infinito. In presenza di attrito l’altalena di Alice si smorzerebbe invece gradualmente, fino a depositarla immobile al centro della terra.
Dopo la caduta Alice passa attraverso una serie di repentine espansioni e contrazioni, e le subisce senza apparente disagio fisiologico. Sempre Galileo ha notato, questa volta neiDiscorsi intorno a due nuove scienze, che se un cane aumentasse anche solo di tre volte le sue dimensioni, le sue ossa dovrebbero essere completamente riprogettate, e non potrebbero soltanto aumentare proporzional mente al resto del corpo. La povera Alice avrebbe dunque dovuto collassare sotto il suo peso, e sarebbe uscita malconcia dalle sue avventure. O, più semplicemente, avrebbe potuto dedurre che stava solo sognando.
Nella seconda parte della storia Alice passa Attraverso lo specchio, e si ritrova in un mondo alla rovescia in cui non avrebbe potuto sopravvivere. Benché, infatti, ogni molecola esista in due forme speculari (ad esempio, il destrosio e il levulosio per lo zucchero), la vita privilegia molecole, aminoacidi e Dna sinistrorsi. Alice dubita, prima di passare attraverso lo specchio, che «forse il latte speculare non sarebbe buono da bere», e ha ragione: non solo avrebbe un gusto diverso, ma probabilmente non sarebbe neppure assimilabile. In un mondo biologicamente di destra, insomma, si morirebbe presto di fame.
Le stranezze fisiche del paese delle meraviglie hanno un corrispettivo logico nel nonsense:cioè, nell’uso apparentemente sensato di parole insensate, e apparentemente insensato di parole sensate. Uno dei procedimenti inventati da Carroll è la cosiddetta parola-cerniera, che si ottiene mescolando la prima metà di una parola con la seconda metà di un’altra. Ad esempio, prendendo “lumaca” e “squalo” si ottiene una nuova specie animale: il “lumalo”, di cui Carroll andò a caccia nell’intraducibile poesia già citata. Altre volte Carroll conia dei veri e propri koan,secondo la terminologia zen: il più noto è certamente il ghigno del Gatto del Cheshire, che rimane ancora aleggiante nell’aria, quando tutto il suo corpo è ormai svanito.
Spesso, poi, Carroll lancia vere e proprie provocazioni. Ad esempio, quando fa cantare al Cavaliere Bianco la canzone Sedendo sul cancello, che ha per nome Un vecchio molto vecchio, che ha per nome Occhi del merluzzo,distinguendo così la cosa, il nome della cosa, e il nome del nome. O quando fa enunciare alla Regina Bianca la regola: «Marmellata domani e ieri, ma mai oggi. Marmellata a giorni alterni, e oggi non è un giorno alterno». Se proprio nei gomitoli di senso e nonsenso risiede l’essenza della comunicazione, tentare di dipanarli può essere un utile addestramento alla vita.
Durante una lettura logica delle opere di Carroll cercheremo inutilmente di dipanare consigli diabolici quali: «Non credetevi mai di essere altro che ciò che potrebbe sembrare ad altri che ciò che eravate o avreste potuto essere non fosse altro che ciò che siete stati che sarebbe sembrato loro essere altro». Presteremo attenzione a maestri del nonsense (che è negazione, ma non mancanza di senso): dal Bruco al Gatto del Cheshire, dal Cappellaio Matto alla Regina di Cuori. Scopriremo in anteprima i procedimenti della letteratura d’avanguardia, come i poemi in forma di coda. Ci porremo domande fondamentali della filosofia, chiedendoci quale sia la differenza tra sogno e realtà, o l’essenza del nulla. Giocheremo a carte cercando di salvare la testa, o a scacchi scortando Alice a regina. Ma, soprattutto, sentiremo un leggero rimpianto per quei tempi, ormai dimenticati, in cui erano i bambini a leggere libri per adulti, e non viceversa.

La Stampa TuttoScienze 15.1.14
Tante Terre aliene ricoperte da oceani e continenti
La nuova teoria sugli esopianeti della Via Lattea
di Gabriele Beccaria

qui

Corriere 15.1.14
Il Risorgimento degli scienziati patrioti in lotta per l’Italia unita
Ma la politica non valorizzò Brioschi, Cremona e gli altri matematici
di Giulio Giorello


«Una rivoluzione è una febbre», diceva Carlo Cattaneo del 1848 in Italia. Nella notte del 5 agosto Carlo Alberto di Savoia aveva lasciato Milano, e qualcuno aveva sparato un colpo, mancandolo, al sovrano che fuggiva. Quando si era presentato tra i volontari per l’ultima resistenza, Francesco Brioschi, rampollo di una dinastia milanese d’ingegneri e animato dalla passione per la matematica, così veniva salutato da Garibaldi: «Ecco un giovane che vuol morire con noi». Dopo alcune peripezie, Francesco sarebbe ritornato in una Milano «protetta» dalle baionette austriache. L’ultimo focolaio della «febbre» italiana, Venezia, si sarebbe arreso il 19 agosto 1849. Tra quelli che si ritiravano dalla Laguna, c’era un altro matematico appassionato, Luigi Cremona, che sarebbe tornato in quella stessa Pavia dove Brioschi si era formato.
Il 22 novembre 1860, ormai laureato e professore di fresca nomina, in una prolusione all’Università di Bologna, Cremona avrebbe invocato la luce della «vastissima scienza che chiamasi geometria superiore» contro gli «irosi pregiudizi» di tutti gli apostoli delle tenebre. L’audacia intellettuale della matematica, il rigore delle dimostrazioni, la duttilità nelle applicazioni, ne fanno la disciplina che sopra tutte è capace di coinvolgere in grandi progetti le risorse intellettuali dei cittadini della nuova Italia. E Francesco Brioschi avrebbe poi dichiarato: «Qui si è compiuta una grande rivoluzione politica, amministrativa, economica». Meno di quarant’anni prima Gabrio Piola, che di Brioschi era stato maestro, aveva ammonito che le scienze non rappresentano un pericolo per la religione o per lo Stato; in particolare, «le matematiche sono innocenti». Però, «tali non sono tutti quelli che le professano»!
Umberto Bottazzini e Pietro Nastasi ci raccontano allora, nel loro recentissimo La patria ci vuole eroi (Zanichelli, pp. 432, e 27), la perdita dell’innocenza, grazie al coraggio e alla tenacia di un «pugno di ricercatori». La vicenda si snoda per tutto il lungo Risorgimento, per concludersi coll’Unità. Un mondo nuovo ha bisogno di nuove scuole. Le parole di Brioschi sopra riportate fanno parte della prolusione per la fondazione, a Milano, del Regio Istituto Tecnico superiore che avrebbe diretto fino alla morte (1897). È il nostro Politecnico, primo ateneo nella città di Milano (l’Università degli Studi, infatti, è del 1923).
Ma il rinnovamento doveva scontrarsi con le ambiguità e i ritardi della politica. Per esempio, lo stesso Brioschi era passato dalle simpatie repubblicane per «Pippo» Mazzini al punto di vista monarchico; e Cremona, in un momento critico dell’ateneo bolognese, avrebbe stigmatizzato come sovversivi i professori mazziniani. Sarebbero state le lungaggini parlamentari e la miopia degli «umanisti» a vanificare le speranze della fase eroica. All’inizio del Novecento Giovan Battista Guccia (creatore del prestigioso Circolo matematico di Palermo, 1884) se la prendeva con la politica, «il microbo che in Italia entra da per tutto e uccide tutto, in particolar modo la scienza». Così scriveva a quello che era uno dei più eminenti matematici d’Italia, Vito Volterra, il quale invece auspicava la collaborazione fra tutte le «energie volonterose» del Paese: se il Politecnico di Brioschi aveva costituito, nel contesto della pubblica istruzione, il corrispondente della rivoluzione politica, a mezzo secolo di distanza Volterra coglieva la portata delle trasformazioni socioeconomiche dovute alla «fonte di ricchezza» scaturita dall’industrializzazione.
Bottazzini e Nastasi sottolineano la contraddizione dei matematici-patrioti. La politica era stata la forza della loro comunità; ora perfino la capacità di integrarsi con la ricerca europea (emblematico è il viaggio intrapreso già nell’autunno del 1858 da Brioschi, insieme con Felice Casorati e Enrico Betti, per contattare i più insigni matematici francesi e tedeschi) diventava una colpa: l’Italia unita rivendicava una sua peculiarità nazionale, contraria a qualsiasi forma di «esterofilia», mentre l’idea che le svolte del pensiero matematico avrebbero dovuto rinnovare l’intera cultura doveva venir cancellata dalla reazione contro il pensiero tecnico-scientifico, che culminerà nell’opposizione di Croce e Gentile alla fusione fra scienza e filosofia proposta generosamente da un grandissimo matematico come Federigo Enriques. E temo che anche oggi la paura dei «filosofi» nei confronti degli scienziati e dei matematici in particolare non sia affatto venuta meno. Come diceva Cremona: «O giovani felici, svegliatevi e sorgete!». Sarebbe ora.

Corriere 15.1.14
Boris Pahor, cent’anni da patriarca lungo le vie della sua Trieste
di Marisa Fumagalli


«Non c’è nulla di duraturo: l’uomo è allegro per sconfiggere la tosse e la tisi. L’uomo pianterà di nuovo il coraggio nei campi postbellici, troverà il verde dentro di sé e si circonderà di verde. Così è. Egli crea da se stesso, egli ha devastato i campi ed egli li rigenererà». Il pensiero di Boris Pahor, sloveno-triestino, cent’anni compiuti il 26 agosto 2013, è disseminato nei suoi scritti — romanzi, articoli, note — con venature di stupori infantili. Scevro di granitiche certezze e di verità rivelate.
Intendiamoci, Pahor ha tempra, non soltanto fisica, che gli ha permesso di superare gli orrori dei campi di concentramento nazisti, gli stenti, le malattie; ma anche tempra spirituale. Forgiata durante il lungo vagabondare (è lui a definirsi «vagabondo») alla ricerca di un’identità. Gliela strappano, infatti, da bambino, quando, sulle ceneri dell’impero asburgico disgregato, a Trieste i fascisti cominciano a perseguitare metodicamente la comunità slovena («noi, cimici da schiacciare»), imponendo altresì l’italianizzazione forzata. L’annientamento dell’uomo si compie nei lager, da cui esce fortunatamente vivo.
Viene quindi il momento di ricominciare: il matrimonio, i figli, e soprattutto l’impegno civile. E la storia personale continua a intrecciarsi, non senza altri tormenti e delusioni, con la Storia.
Ora, il compendio dell’esperienza di uno dei grandi autori sloveni viventi è raccolto nell’ultima opera, Così ho vissuto. Biografia di un secolo (Bompiani), coautrice Tatjana Rojc, studiosa di lettere slovene e letterature comparate. A lei il compito di contestualizzare il racconto, redatto in prima persona da Pahor. Che, in parte, utilizza testi presi da precedenti pubblicazioni; altre pagine, invece, sono inedite.
Per molto tempo ignorato dall’editoria nostrana (i primi a scoprire l’importanza di Necropoli , il suo libro più famoso, furono i francesi), Pahor è stato finalmente risarcito. In Italia si traducono e si pubblicano i suoi libri. I media lo cercano, le manifestazioni letterarie si onorano della sua presenza, mentre il grande vecchio persevera nel tenere alta la bandiera identitaria, nel ripassare i crimini commessi dai fascisti verso il popolo sloveno.
Il personaggio, certo, può essere scomodo e attirare anche critiche. Qualcuno gli rimprovera di raccontare la Storia con parzialità, minimizzando, per esempio, lo scempio delle foibe. Ma Pahor è tutt’altro che manicheo. Basta scorrere Così ho vissuto , entrare nella narrazione del suo impegno di intellettuale che si avvicina alla politica, per scoprirne l’autentica autonomia di pensiero.
Dagli anni Cinquanta, Boris Pahor comincia a esprimersi, oltre che con i libri, attraverso le riviste culturali slovene movimentiste, che egli stesso dirige. Ha una visione della società liberale e pluralista. Dunque, non sopporta che il Fronte di liberazione sloveno sia ben presto predominato dai comunisti. Rifiuta la concezione dello Stato «come una sorta di convento laico». Ciò gli costerà l’isolamento, le perquisizioni, la censura.
Ma non si lascia scalfire. «Il peggior nemico latente del socialismo sono le persone che non possono muoversi liberamente in società», scrive, caparbio, l’uomo di cent’anni.

Il libro: Boris Pahor e Tatjana Rojc «Così ho vissuto. Biografia di un secolo» (Bompiani, pp. 490, e 21). Pahor incontrerà i lettori alla Feltrinelli della Galleria Sordi di Roma venerdì 17 alle 18. Sarà presente per un saluto l’ambasciatore della Slovenia, Iztok Mirosic