giovedì 16 gennaio 2014

Repubblica 16.1.14
Interrogazione pd
“Sulla Shalabayeva Alfano chiarisca”
ROMA — Il ministro Alfano chiarisca se era stato informato dell’espulsione poi rivelatasi illegittima della Shalabayeva. Lo chiedono con un’interrogazione urgente alcuni senatori Pd. «Alfano — scrivono i parlamentari democratici — disse che “non era mai stato informato”. Ma il suo ex capo di gabinetto Procaccini in procura ha fornito una ricostruzione diversa. Alfano valuti se aggiornare la sua versione dei fatti».

La Stampa 16.1.14
Riforme, asse Renzi-Berlusconi
Protestano i bersaniani. Il segretario Pd: se lo incontro è per chiudere
Legge elettorale con sistema spagnolo in cambio dell’addio al Senato

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La Stampa 16.1.14
Prime spine nel partito “Matteo non può incontrare un pregiudicato”
di Francesca Schianchi

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La Stampa 16.1.14
L’incredibile ritorno del Cavaliere
di Marcello Sorgi


Qualche anno fa, parlando di ben altri personaggi come Fanfani e Andreotti, si sarebbe detto: rieccolo! La grande sorpresa del nuovo anno appena cominciato, infatti, è il ritorno di Berlusconi. Condannato definitivamente ad agosto 2013 dalla Cassazione, espulso dal Senato a novembre per effetto della decadenza prevista dalla legge Severino, e in attesa di sapere se dovrà scontare la pena agli arresti domiciliari o ai servizi sociali, il Cavaliere è stato riportato in scena, nientemeno, da Renzi, che ieri ha reso esplicito, alla sua maniera spiccia, quel che da giorni era nell’aria: l’intenzione, cioè, di chiudere con il leader di Forza Italia un accordo sulla nuova legge elettorale.
Certo, ci vuole coraggio. Chi si ricorda come andò a finire 16 anni fa, all’epoca della Bicamerale, la lunga trattativa tra D’Alema e Berlusconi – conclusa con il famoso «patto della crostata» siglato a casa di Gianni Letta e smentito il giorno dopo in Parlamento dallo stesso Cavaliere –, non può non vedere un azzardo eccessivo nel percorso scelto dal giovane segretario del Pd.
La minoranza del partito, tra l’altro con in testa dalemiani e bersaniani, è in subbuglio. L’antiberlusconismo, sopito per la progressiva emarginazione del Cavaliere, improvvisamente s’è risvegliato. La direzione di oggi, convocata ad appena un mese dalle primarie che hanno incoronato il sindaco di Firenze, potrebbe riservare qualche sorpresa, con il Pd pronto a dividersi come ha fatto in tutti i frangenti importanti di questa tormentata legislatura, a cominciare dall’assalto dei franchi tiratori nelle votazioni per la Presidenza della Repubblica.
Ma Renzi non sembra affatto turbato dai mugugni interni del suo partito, né disposto a cambiare idea, privilegiando prima un accordo interno alla maggioranza che sostiene il governo, e solo successivamente la trattativa con Forza Italia. A suo giudizio non basta mettersi d’accordo con Alfano, che in caso contrario minaccia la crisi di governo, e dopo di lui con Monti e Casini. Conti alla mano, il sindaco di Firenze spiega che la maggioranza di governo, al Senato, può contare solo su sette voti di vantaggio: otto senatori dissidenti basterebbero ad affossarla. Di qui l’insistenza sulla necessità di assicurarsi anche l’appoggio del Cavaliere.
Ma le ragioni vere che spingono Renzi ad accelerare, anche a rischio di ritrovarsi con un pugno di mosche in mano, come capitò a suo tempo a D’Alema, sono due. La prima, sembra incredibile, è che il segretario sente più aria di fregatura dalle parti di Palazzo Chigi, che non da quelle di Palazzo Grazioli. Lo ha detto chiaramente che lui e Letta non si prendono e il presidente del Consiglio non si fida. Inoltre, avendo scommesso sulla sua capacità di realizzare le riforme, a partire proprio da quella elettorale, non può permettersi di fallire al primo esordio.
La seconda è che il Berlusconi di oggi non è quello di ieri, e nei panni in cui si trova dovrebbe pensarci quattro volte prima di portare in giro Renzi, per buttarlo fuori strada all’ultima curva. Ridotto com’è ridotto, il Cavaliere in sostanza ha davanti l’ultima vera occasione di rientrare al centro del gioco, persa la quale, il suo destino politico e quello giudiziario non potrebbero che coincidere.
Resta da capire se una strategia come questa, specie se messa in pratica con il metodo e alla velocità di Renzi, porterà alla crisi di governo, perché Alfano e gli altri partners di Letta non accetteranno di farsi scavalcare, o se invece alla fine produrrà una nuova legge maggioritaria e bipolare e un riordino delle forze politiche, magari con la riunificazione dei due tronconi separati del centrodestra e con l’archiviazione conclusiva di ogni ipotesi centrista. Nell’un caso e nell’altro, va detto, il rischio di elezioni anticipate torna ad essere alto. Anche per questo nei prossimi giorni sarebbe utile, necessario, forse perfino indispensabile capire cosa davvero passa per la testa di Berlusconi. In altre parole: Cavaliere, se ci sei, batti un colpo!

Corriere 16.1.14
Una trattativa a due condizioni
Abolizione del Senato e riforma del titolo V della Costituzione: queste le condizioni che Renzi pone a Berlusconi per una trattativa.
di Maria Teresa Meli


ROMA — La condizione che Renzi ha posto ad Alfano è la stessa posta a Berlusconi. Di più. Al Cavaliere per un incontro il segretario del Pd chiede delle condizioni vincolanti.
«Ho incontrato tutti — spiega il leader ai suoi — tranne Lega e grillini, che si sono rifiutati. E sono disposto a incontrare pure Berlusconi, nonostante le polemiche interne al partito. Ma a una sola condizione, che gli ho fatto sapere: lui deve dire di sì all’abolizione del Senato e alla riforma del titolo quinto della Costituzione. Se ci sono questi due via libera io non ho problemi a chiudere con lui anche un patto sulla riforma elettorale. D’altra parte, è quello che chiede, e non da ora, Napolitano. E voglio vedere di fronte all’ipotesi di un accordo su una grande riforma, chi, in casa mia o anche altrove, potrebbe obiettare. Sarebbe un traguardo importante».
Renzi non vuole l’accordo con Berlusconi per farlo resuscitare o per convenienza. Anche se il leader di Forza Italia è convinto che di lì passi la sua resurrezione: «Renzi mi veda ufficialmente e io gli dirò di sì su tutto, perché le riforme che propone sono quelle giuste».
Il segretario del Pd non abbocca all’amo e attende: «Berlusconi potrebbe scartare: quindi o c’è la sua sigla sotto il patto per le grandi riforme oppure non lo posso incontrare».
Nel frattempo, il leader del Pd deve risolvere i problemi in casa sua. È vero, come ribadisce lui stesso ai fedelissimi, che ha «la maggioranza della direzione anche senza i franceschiniani». Un modo elegante per dire: se volessi potrei andare avanti, a prescindere da quello che dice il governo. Ma è anche vero che c’è il rischio del fuoco amico. Di cui, però, Renzi sembra non avere troppa paura. Almeno questa è l’impressione che dà ai suoi: «So che Franceschini e anche Alfano in questi giorni stanno insistendo sul doppio turno. Ma, ragazzi, il ballottaggio non è così importante per la governabilità. Quello che conta è il premio di maggioranza, che si può avere al primo turno».
Quindi, il segretario, finalmente lontano dalle telecamere, si sbottona un po’ e spiega: «Secondo me il buon Alfano e tutti gli altri non hanno capito come funziona il meccanismo del primo turno». Certo, lui, ossia Renzi, ha dalla sua un esperto come D’Alimonte, che sta seguendo la vicenda. E su quello va avanti: «Capisco che c’è chi vuole intorbidare le acque perché non tocca palla, visto che siamo noi del Pd a dominare il campo». E a sperare di mettere insieme Vendola e Berlusconi. Renzi è inarrestabile e prima della Direzione vuole avere tutto sotto controllo. Racconta ai suoi: «Alfie vorrebbe il doppio turno con circoscrizioni enormi e preferenze. Un ritorno alla prima Repubblica che non permetterò mai». Dopodiché, fa il punto degli incontri passati e futuri: «Il Mattarellum va bene, ma vanno bene anche le liste brevi bloccate. Basta il primo turno per decidere, per cui si potrebbe fare un turno unico, però se c’è chi pensa al ballottaggio, io non ho problemi. Certo, con le liste brevi bloccate noi avremmo una vittoria e, soprattutto, Berlusconi non potrebbe dire di no...».
Certo, in quel caso «si ribellerebbero i partiti piccoli» e, anche il partito di Alfano, ma questo non sembra turbare troppo i sonni del segretario: «Stiamo per chiudere sul serio, ed è per questo che c’è tanta agitazione in giro». Ma soprattutto c’è agitazione perché, come confessa il segretario, c’è tanta gente «che non tocca palla». Nel governo e nel Pd. Cosa che non turba più di tanto Renzi.
In realtà è un altro il motivo che lo spinge ad andare avanti: il mandato che in qualche modo gli ha conferito Napolitano per tentare la strada della «Grande riforma». Perciò Renzi, dice ai suoi: «Voglio vedere chi dirà che questa strada è sbagliata». Soprattutto dopo che oggi, in direzione, grazie all’esperienza e alla memoria di Giachetti, ripeterà le dichiarazioni che Fassino e Franceschini fecero all’epoca del Porcellum. Parole di fuoco contro la legge elettorale fatta a maggioranza. Parole che non si capisce per quale motivo «non si potrebbero ripetere ora se i partiti della maggioranza decidessero di fare da soli la riforma».
Già, e Renzi non sembra temere nemmeno i possibili franchi tiratori sulla legge elettorale: «Non avrebbe senso, perché significherebbe decretare la morte del governo», spiega ai suoi, annunciando anche che oggi, salvo sorprese dell’ultim’ora, proporrà in direzione le «cento proposte di governo» del Pd. Tanto per ribadire che l’esecutivo , come sostiene un renziano della prima ora, «è un ectoplasma che deve solo seguire l’agenda dal Partito democratico».

Corriere 16.1.14
Renzi-Verdini
Un’affannosa corsa a trovare l’intesa tra leader lacerati
di Massimo Franco


L’asse fiorentino tra Matteo Renzi e il coordinatore di FI, Denis Verdini, sta cercando di stringere i tempi di un accordo sulla riforma elettorale. Il segretario del Pd vuole il «placet» delle opposizioni, perché altrimenti teme di trovarsi costretto ad affidarsi a quello della sola maggioranza di governo; e dunque a dare ragione al premier Enrico Letta, che intravede gli effetti destabilizzanti di una trattativa tesa a scavalcare gli alleati. Il problema è che il Movimento 5 Stelle ha già affossato le proposte renziane attraverso Gianroberto Casaleggio, il cosiddetto guru di Beppe Grillo. E il «sì» di Silvio Berlusconi è legato sia al tipo di riforma che il leader del Pd è in grado di garantirgli, sia alle possibilità di un voto anticipato difficile da ottenere. Oltretutto, non esiste ancora un testo scritto presentato da Renzi, e se si interrompesse la legislatura senza riforma, si andrebbe alle urne col proporzionale: esito paradossale, per lui.
Ieri Verdini ha ricevuto la visita del professor Roberto D’Alimonte, il tecnico renziano dei sistemi elettorali. E oggi il segretario avrà altri incontri, dopo quello di ieri col vicepremier Angelino Alfano. Ma questa girandola, almeno finora, sta facendo aumentare un clima di confusione e affanno. E crescono le perplessità su un successo a breve della mediazione. Tra l’altro, quando si è sparsa la voce che Renzi potrebbe incontrare Berlusconi nella sede del Pd, l’opposizione interna legata all’ex segretario, Pierluigi Bersani, è insorta. La sola idea di vedere entrare al partito il nemico storico della sinistra, «un pregiudicato», come lo definiscono i bersaniani, per siglare un patto storico, risveglia un tabù che la vittoria alle primarie non basta a cancellare.
Il segretario del Pd assicura che vedrà Berlusconi «solo per provare a chiudere» l’accordo. E replica piccato che ad accusarlo sono quanti col Cavaliere «hanno fatto un governo». Peraltro, è difficile dargli torto quando sostiene che «sulle regole discuto ogni giorno anche con Forza Italia», secondo partito italiano. Cambiare legge elettorale nel recinto dell’esecutivo non sarebbe un bel risultato. Il problema è se il compromesso farebbe salvo il governo Letta, o finirebbe per affossarlo e mandare all’aria tutto, favorendo la strategia dello sfascio di Beppe Grillo.
La cosa sorprendente è che il Pd sembra non accorgersi, o curarsi dell’immagine lacerata offerta dai suoi leader di partito e di governo; né del rischio di apparire una forza che scarica sull’Italia i suoi contrasti interni. Renzi ha già messo le mani avanti, scrivendo che se il governo si logora è colpa del premier Enrico Letta, non sua. Ma la tesi non è così pacifica, anzi. Il vicepremier Angelino Alfano chiede di non destabilizzare l’Italia per le «competizioni interne del Pd». E intima al vertice dei Democratici di dire esplicitamente se Letta è davvero il «presidente del Consiglio riconosciuto». Soprattutto, gli avversari interni che fanno capo al presidente Gianni Cuperlo non condividono le accuse quotidiane di immobilismo contro Palazzo Chigi in arrivo dall’entourage di Renzi e da lui personalmente.
Ritengono che questo atteggiamento non pungoli ma logori Letta, così come le sue parole liquidatorie a commento di qualunque ipotesi di rimpasto. E cominciano a pensare che il segretario si stia fidando un po’ troppo di Berlusconi. «Matteo sta aspettando una parola da FI, che non arriva», dicono anonimamente. Il presidente del Consiglio incassa i complimenti del predecessore, Mario Monti, che lo ritiene «il migliore tra i possibili premier nell’Italia di oggi». E sale al Quirinale da Giorgio Napolitano per illustrare «il patto di coalizione», come se intorno al suo governo non volassero veleni e pugnali. Può darsi che alla fine abbia ragione Renzi, e che per magia si chiuda un cerchio virtuoso. Ma se non accade, a logorarsi saranno tutti.

Corriere 16.1.14
Il no del sindaco sulle preferenze nel duello serrato con il vicepremier
Alfano: il tuo Pd entri nel governo. Renzi: non riconosco poteri di veto
di Francesco Verderami


ROMA — C’erano una volta vertici dove i leader di partito annegavano minacciosi avvertimenti e offerte di patti dentro lunghe prolusioni politiche, che toccava all’interlocutore interpretare. Ieri invece Renzi e Alfano si sono visti ma è come se abbiano twittato, scambiandosi frasi brevi, con un linguaggio diretto e a tratti ruvido, quasi fosse un incontro di ping pong. Se sia l’alba della Terza Repubblica o l’epilogo della Seconda si vedrà, di sicuro ieri il segretario del Pd — che si è intestato la partita della riforma elettorale e che finora ha tenuto coperto il proprio gioco — ha dovuto iniziare a scoprire la prima carta. Ed è stato subito scontro.
Certo, il primo colloquio non poteva che essere interlocutorio, ma il nodo delle preferenze su cui si è incentrato parte dell’incontro segna una distanza che il leader del Nuovo centrodestra non intende colmare. Lo si era capito da come si era presentato all’appuntamento, con un’intervista a Radio Anch’io in cui per la prima volta aveva risposto alle «provocazioni» di Renzi: «L’arroganza non paga». E giusto per non dar segni di cedimento, il capo democrat gli ha offerto il suo biglietto da visita: «Ci tengo a tener salda la maggioranza e a ricercare l’intesa sulla riforma, ma non riconosco poteri di veto».
Alfano però è convinto che la sentenza della Consulta abbia cambiato verso alla sfida, scaricando l’arma del rivale-alleato, e rendendo «meno forti i ricatti politici». Perciò ha tenuto il punto. E appena Renzi ha provato a spiegare la sua «preventiva» contrarietà al sistema delle preferenze, ha replicato che «noi non accettiamo l’idea di avere di nuovo dei parlamentari nominati o paracadutati», con esplicito riferimento al modello spagnolo delle liste bloccate e al Mattarellum dei collegi scelti per i candidati dalle segreterie dei partiti.
La divergenza cela differenti interessi: mentre Renzi punta sulla propria leadership e non intende perdere il controllo dei gruppi con le preferenze, Alfano ne ha bisogno per garantire e affermare l’identità del suo Ncd quando si dovrà coalizzare alle elezioni. Sul «metodo» da adottare nella trattativa si è infatti trovato d’accordo con il leader del Pd, che sottolineava come «non si possono rifare le regole del gioco estromettendo a priori qualcuno». «E infatti sono favorevolissimo a coinvolgere Forza Italia, figurarsi», ha replicato il vicepremier: «Ma non posso accettare che l’intesa sancisca la nostra fine». Perciò «se si va sul sistema spagnolo salta tutto». «Beh, se saltasse tutto — ha controbattuto Renzi — avremmo il tempo di mettere a posto il testo scritto dalla Consulta per poi andare al voto».
Ma davvero il sindaco di Firenze è disposto a rischiare la lotteria di un modello elettorale che lo penalizzerebbe? E davvero il vicepremier è pronto a far saltare il governo su cui ha sancito la divisione dal Cavaliere? Nel primo incontro andava consumato il rito dei reciproci avvertimenti, e così è stato. Ma in questa fase tattica, Renzi marca una difficoltà rispetto ad Alfano. Non solo la velocità impressa alla trattativa si è trasformata in fretta, visto che il Parlamento attende un testo di legge che ancora non c’è. In più lo scudo berlusconiano con cui sta cercando di imporsi nella maggioranza, si è trasformato in un boomerang.
La tribuna concessa all’ex premier ha fatto emergere il dissenso nel suo partito che finora si era limitato al pissi-pissi di Palazzo. Ce n’è la prova, se è vero che dirigenti di Forza Italia e di Ncd si sono sentiti dire da autorevoli esponenti democratici di «lasciar perdere quello che dice Renzi». E non è un caso se oggi in direzione il segretario chiederà la delega a «trattare personalmente» sulle riforme e la legge elettorale. Sì, ma a quali condizioni? Perché il Pd si è trasformato in una polveriera e — così come Berlusconi fa con Renzi — i «governativi» democrat stanno offrendo una sponda alle mosse di Alfano, che ieri ha provato a stringere l’interlocutore su un altro tema: «Il Pd si deve assumere la responsabilità di entrare nell’esecutivo».
Il concetto sembra un paradosso, ma il vicepremier non può accettare un Renzi di lotta e di governo che lo logorerebbe. Per tutta risposta Renzi si è rimesso al patto di programma, e sgusciante come una saponetta ha rimesso a Letta il tema di eventuali cambi nella squadra di Palazzo Chigi: «Valuti lui, decida lui». Sarà, ma sul rimpasto c’è la prudenza di Napolitano, che ieri il premier è andato a sondare giustappunto. Un conto sarebbe la sostituzione di un paio di ministri, altra cosa un profondo riassetto. Il «precedente Andreotti» — che cambiò cinque ministri in una notte senza passare per un cambio di governo — non lo convince né lo avallerebbe. E di un Letta-bis non vuol sentire parlare, vista la fragilità del quadro politico.
Ecco lo stallo, in cui la fine delle «piccole intese» incrocerebbe il fallimento di Renzi sulla legge elettorale: chi potrebbe permettersi una simile crisi di sistema? Finita la partita di ping pong i due si sono ripromessi di vedersi ancora: i primi giorni della prossima settimana saranno decisivi per scrivere il testo base del nuovo sistema di voto. Coincidenza: per quei giorni Letta conta di aver redatto il programma di governo...

il Fatto 16.1.14
“Vedo B. al Nazareno”. Renzi vuole chiudere e spaventa Letta
Legge elettorale quasi pronta. I bersaniani: “Mai col pregiudicato”
La replica: “Ci avete fatto un governo”
Renzi ha trovato il modo di pranzare pure con Nichi Vendola e garantirgli qualche strapuntino quando sarà
di Marco Palombi


Quella di ieri è stata la giornata dei due gemelli terrorizzati. Angelino Alfano esce sconvolto dall’incontro con Matteo Renzi, Enrico Letta da quello con Giorgio Napolitano. Il coro greco del lato perdente del Pd, terrorizzato anch’esso, aggiunge pathos alla scena. Cominciamo col leader degli scissionisti berlusconiani. Il vicepremier, ieri mattina, s’è ritrovato davanti alla sua nemesi: il sindaco di Firenze, infatti, gli ha servito come antipasto il possibile patto sulla legge elettorale con Silvio Berlusconi. Legge che, ovviamente, non sarebbe granché favorevole ai piccoli partiti come Ncd. Tanto, ha candidamente spiegato Renzi all’interlocutore, “voi nascete per fare una battaglia per l’egemonia all’interno del centrodestra, no? ”.
NON SOLO. Il sindaco ha confermato ad Alfano che si appresta a incontrare il Cavaliere: lo farà al Nazareno, sede del Pd, seduto alla sua scrivania, davanti a telecamere e taccuini. Nessun segreto. A Denis Verdini - che ieri sera, secondo le agenzie, ha avuto una riunione tecnica col politologo Roberto D’Alimonte - ha spiegato che l’offerta è per un pacchetto unico: legge elettorale, abolizione del Senato, riforma del Titolo V e riduzione dei compensi ai consiglieri regionali al livello dei sindaci. Berlusconi ha detto sì a tutto, ma Renzi - con ottime ragioni - continua a non fidarsi molto: “Se ci vediamo è per chiudere”, ha insistito ieri.
Questa faccenda del Cavaliere, peraltro, ha innescato una polemica all’interno dello stesso Pd che oggi tiene la prima direzione post-primarie: “Sento dire di incontri con Silvio Berlusconi al Nazareno - ha spiegato Alfredo D’Attorre, deputato assai vicino a Pierluigi Bersani - Immagino che Renzi sarà cauto su mosse che possano resuscitare politicamente Berlusconi”. E, comunque, il segretario non può incontrare “un pregiudicato alla sede del Pd”. La risposta vera del sindaco è quella di Paolo Gentiloni su Twitter: “Chi ha perso le elezioni e con Berlusconi ha fatto un governo ora dice a Renzi che non deve parlarci di legge elettorale #dachepulpito”.
IN REALTÀ Berlusconi e la sua condanna c’entrano poco: il problema sono le liste bloccate del modello spagnolo o il collegio unico del Mattarellum, con cui Renzi si troverebbe a scegliere quasi tutti i candidati, mentre gli sconfitti del congresso - oggi in maggioranza nei gruppi parlamentari - guarderebbero le elezioni da casa. Alla fine trova il modo di ammetterlo anche il bersaniano D’Attorre (“Berlusconi e Renzi non possono nominare l’intero Parlamento”), che si scopre addirittura proporzionalista dopo una vita passata a sognare il doppio turno: “Il proporzionale disegnato dalla Consulta va migliorato, certo, ma ora c’è ed è giusto che la discussione ne tenga conto”. Tutto qui: se la legge elettorale non terrà conto della voglia di sopravvivere di un ceto politico ancora in sella, il Pd perderà dei pezzi durante il voto parlamentare e il governo rimarrà sotto le macerie.
In serata - dopo che Renzi ha trovato il modo di pranzare pure con Nichi Vendola e garantirgli qualche strapuntino quando sarà - Enrico Letta arriva al Quirinale. Ufficialmente il premier, appena tornato dal Messico, ha illustrato a Napolitano “alcuni elementi del prossimo patto di coalizione”, ufficiosamente il capo dello Stato gli ha raccontato del suo incontro con Renzi di lunedì: è andato malissimo, il riassunto, e la partita del governo ora è bloccata.
L’INQUILINO del Colle ha invitato il sindaco a promuovere Graziano Delrio, solo che Renzi - raccontano fonti parlamentari - ha risposto che se si mette mano al rimpasto lui, più che promuovere uno dei suoi, proporrà l’azzeramento del governo: De Girolamo, Cancellieri, Trigilia, Lupi, Alfano... La lista non finiva più e comportava, chiaramente, la fine dell’esecutivo più che la sua rifondazione. Letta, invece, è disponibile solo a un’operazione di facciata: un giro di valzer, qualche generoso passo indietro per il bene del paese, niente dimissioni, tutto tra amici. Insomma la situazione è nera e infatti Letta ha preferito restare in silenzio per tutto il giorno. Assente dal dibattito, di nuovo, il Movimento 5 Stelle: ieri Gianroberto Casaleggio è arrivato a Roma per discutere coi parlamentari - tra le altre cose - proprio di legge elettorale. Ne viene fuori che il cofondatore del movimento considera “astratte e incostituzionali” tutte e tre le proposte di Renzi, che sul ddl dei 5 Stelle deciderà la rete coi suoi tempi (cioè verso fine febbraio al più presto), che alla fine a Grillo e soci non dispiace il proporzionale puro venuto fuori dalla sentenza della Consulta. “Questo Parlamento è illegittimo e non può scrivere la legge elettorale. Andiamo a votare con la legge attuale”. Lo scrive su Facebook Danilo Toninelli, curiosamente lo stesso deputato che ha firmato la proposta di legge del M5S, una sorta di modello spagnolo corretto.

l’Unità 16.1.14
Governo, liste bloccate e Cavaliere: la minoranza contro il segretario
L’attacco di Civati a Cuperlo: «Non può fare insieme il presidente del Pd e il capocorrente»
Il bersaniano D’Attorre: «Non si può incontrare un pregiudicato nella sede del partito»
Ma Orfini si smarca: «Deriva grillina, posizione strumentale»
di Andrea Carugati


Il rapporto tra il Pd e il governo e la nuova legge elettorale. Sono questi i due punti su cui la minoranza dem intende incalzare Renzi oggi alla prima riunione della direzione dopo le primarie di dicembre.
Martedì sera si sono riuniti alla Camera gli oltre 120 deputati che avevano sostenuto la mozione Cuperlo. Per mettere in fila le priorità in vista della direzione di oggi. E ieri la linea è stata resa esplicita. In prima fila i bersaniani, da D’Attorre a Zoggia fino a Fassina: «Questo non può essere il governo sostenuto solo dalla minoranza del partito». Spiega D’Attorre: «Occorre un chiarimento vero tra Renzi e Letta per capire se si può andare avanti. Ma o è il segretario a indicarci la rotta e a diventare protagonista del sostegno al governo, o è evidente che l’esperienza è destinata a finire rapidamente». «Non si può dire ogni giorno che si vuole arrivare al 2015 e poi andare avanti con questo stillicidio polemico», dice Zoggia. «Un conto è fare il pungolo, altro è quello che vediamo da alcune settimane». E D’Attorre rincara: «Con questo balletto non si va avanti. Ci sono parlamentari non più disposti a farsi carico di votare provvedimenti del governo, non certo entusiasmanti, in questa situazione di ipocrisia». Fassina la spiega così: «Quando mi sono dimesso ho posto una questione sul rapporto tra Pd e governo che è ancora sul tavolo, inevasa. Speriamo che la direzione serva ad affrontarla».
Tra i cuperliani, prioritario è anche che la nuova legge elettorale non sia partorita da un asse Pd-Berlusconi. Quasi tutti i deputati sono per il doppio turno di coalizione e per le preferenze, mentre l’ipotesi di un accordo col Cavaliere su un sistema di tipo spagnolo con le liste bloccate non convince. «È necessario partire dalla maggioranza, e anche riconoscere lo sforzo fatto da Alfano per costruire un nuovo tipo di centrodestra», dice Zoggia. Così come non piace l’idea di un vertice tra il neoleader Pd e Berlusconi nella sede del Nazareno. Ancora D’Attorre: «Occorre evitare mosse che possano resuscitare politicamente Berlusconi. E non si può fare un incontro con un pregiudicato nella sede del Pd, mentre le riunioni della segreteria si fanno nei comitati Renzi...». L’attacco non convince i renziani: «Da che pulpito», commenta Paolo Gentiloni. «Chi ha perso le elezioni e con Berlusconi ha fatto un governo ora dice a Renzi che non deve parlarci di legge elettorale...».
Quanto al merito della trattativa, D’Attorre aggiunge a proposito del modello spagnolo: «Non ci può essere un accordo in cui Renzi e il Cavaliere, grazie alle liste bloccate, determinano la totalità del Parlamento». Ora, spiega, una legge c’è. «È il proporzionale disegnato dalla Consulta. Certo va migliorato, nel senso della governabilità. Non si possono prevedere meccanismi con premi di maggioranza talmente abnormi da poter andare contro la sentenza della Corte, né si può sottrarre ai cittadini la libertà di scegliere i parlamentari. Sono convinto che anche Renzi convergerà su questa posizione».
Nella riunione di mercoledì sera, Cuperlo ha ribadito di voler gestire in prima persona l’organizzazione della minoranza. Cercando una sintesi tra la posizione dei bersaniani, più dura verso Renzi, e i Giovani Turchi che invece sono più disponibili al dialogo con il segretario. «È stata una riunione molto unitaria, c’è una grande voglia di riprendere il lavoro, per far sì che la nostra piattaforma per il congresso sia proiettata verso il futuro del Pd con un contributo di idee e proposte», spiega Cuperlo a l’Unità. Sarà lo stesso presidente del Pd a mettere su una squadra per la gestione operativa dell’area: il 24 una prima riunione con tutti i coordinatori regionali.
Restano però le spine. Le opinioni dure di D’Attorre sul caso Berlusconi non sono condivise fuori dall’area strettamente bersaniana: «Una deriva grillina, una posizione strumentale», dice Matteo Orfini. «Chi ha voluto il governo col Cavaliere ora non può dire che va escluso dalla discussione sulle regole il capo di una forza che raccoglie milioni di voti». Orfini è scettico anche sul futuro dell’area: «Cuperlo è un punto di sintesi per tutti, ma un’area esiste se condivide un impianto politico. E ogni giorno registriamo quanto sia difficile questa condivisione...». Civati, dal canto suo, polemizza con Cuperlo: «Non si può fare contemporaneamente il rpesidente del Pd e il capocorrente». E ancora: «Chi si autodefinisce sinistra del Pd mi fa un po’ sorridere: sono gli stessi che si sono già accordati su tutto con il segretario».

Corriere 16.1.14
«Renzi non incontri Berlusconi»
La sinistra pd attacca. Ma lui va avanti
La replica: le regole si fanno con tutti, voi ci avete fatto il governo
Il sindaco vede Alfano e Vendola. Casaleggio: no alle sue proposte
di Alessandro Trocino


ROMA — La minoranza del Pd avverte Matteo Renzi: «Non incontri Silvio Berlusconi nella sede del Pd, è un pregiudicato». La Direzione di oggi pomeriggio dirà se è guerra, ma intanto il segretario del Pd risponde a muso duro e tira dritto per la sua strada. Che prevede incontri a vasto raggio sulle tre proposte di legge elettorale lanciate nei giorni scorsi. Uno dei possibili interlocutori, il Movimento 5 Stelle, si è però già chiamato fuori. Gianroberto Casaleggio, in visita ieri a Roma, dice ai suoi tre no ai modelli renziani e fa capire che non c’è bisogno di una nuova legge elettorale: andrebbe bene anche il Porcellum, come depurato dalla Corte costituzionale.
A lanciare l’attacco contro qualunque ipotesi di «inciucio» con il «pregiudicato» Berlusconi è Alfredo D’Attorre. Al quale risponde Renzi su twitter: «Le regole si scrivono tutti insieme, se possibile. Farle a colpi di maggioranza è uno stile che abbiamo sempre contestato». E al Tg1 rincara la dose: «Ma come si fa a contestare chi discute delle regole anche con Forza Italia? È impossibile non considerare quello che dice il secondo partito italiano sulle regole. Poi sul governo, sulla politica e alle elezioni ce le diamo di santa ragione. Anzi facciamo delle regole che impediscano l’inciucio e le larghe intese per il futuro». Che il clima interno non sia positivo lo dicono i punzecchiamenti continui. Renzi al Tg1 aggiunge: «Si dice contrario all’incontro chi con Berlusconi ci ha fatto il governo». E Paolo Gentiloni: «Chi ha perso le elezioni e con Berlusconi ha fatto un governo ora dice a Renzi che non deve parlarci di legge elettorale. Da che pulpito». Ma oggi in Direzione, la minoranza è pronta a contestare ancora il segretario, chiedendo che da tre proposte si passi a una: il doppio turno.
La strategia di Renzi è però quella di accelerare sul suo percorso e di trovare un’intesa di massima già dalle prossime ore. Ieri ha visto il leader di Sel Nichi Vendola e Angelino Alfano. Il segretario del Nuovo centrodestra, nelle stesse ore, veniva contestato da alcuni senatori renziani del Pd, con un’interrogazione urgente sul caso Shalabayeva. Presto, invece, potrebbe esserci l’incontro con Berlusconi: «Se ci vediamo — dice il segretario pd al Tg1 — è per provare a chiudere».
Quanto ai 5 Stelle, la posizione è ormai chiara. Lo ha detto Casaleggio ai «suoi» parlamentari, ma lo ha scritto anche ieri sul blog di Beppe Grillo Aldo Giannuli: «Dopo la sentenza della Consulta, non è affatto indispensabile una riforma, perché non c’è alcuna vacanza normativa da colmare». Di più: «Questo Parlamento non ha i titoli morali e politici per mettere mano ad una riforma del genere». Danilo Toninelli, padre della prima proposta a 5 Stelle (modello ispano-elvetico, ormai archiviato), lo dice apertamente: «La Corte ha licenziato una legge elettorale legittima che va rispettata e che è applicabile sin da subito. Quindi si sciolgano le Camere e si vada a votare con questa legge».
Sul tappeto ci sono anche le riforme istituzionali. E Renzi lancia un invito a Forza Italia: «Se deciderà di accettare un modello di legge elettorale, non si limiti a quello, ma accetti anche il superamento del Senato».

Repubblica 16.1.14
L’intervista
Orfini, leader dei Giovani Turchi, dissente dai bersaniani:
“Noi protestammo quando il centrodestra approvò a maggioranza il Porcellum, ora serve coerenza”
“Giusto dialogare con Silvio, fino a ieri ci stavamo al governo”
di Francesco Bei


ROMA — Attento Renzi, non si può incontrare Berlusconi nella sede del Pd: Alfredo D’Attorre, area Cuperlo, mette in guardia il segretario sul rischio di “baciare il rospo”. Ma il leader dei Giovani turchi, Matteo Orfini, dissente.
Giusto incontrare Berlusconi?
«Certo, se riconosciamo che la legge elettorale è una priorità del paese, è ragionevole che il nostro segretario dialoghi a 360 gradi con tutte le forze politiche. A partire da quelle di maggioranza, ma cercando un rapporto anche con le opposizioni ».
Eppure Renzi venne messo in croce quando andò ad Arcore...
«Una situazione del tutto differente. Noi del Pd protestammo molto quando il Porcellum fu approvato a maggioranza dal centrodestra e ora bisogna essere coerenti ».
Proprio lei, uno dei leader della sinistra del Pd, spezza una lancia a favore del dialogo con il Cavaliere?
«Quando in direzione votammo le larghe intese io mi espressi per il no, ma poi con Berlusconi ci abbiamo fatto un governo insieme, che si è interrotto solo al momento della decadenza e solo perché Forza Italia è uscita dalla maggioranza. Mi sembra un po’ più che un semplice colloquio ».
Tuttavia Berlusconi non era stato ancora condannato...
«Sono contrario ad alimentare questa deriva grillina tra di noi. Finché Berlusconi, ci piaccia o no, rappresenta un pezzo importante del parlamento, bisogna parlarci ».
E la questione “estetica” di un condannato che varca il portone del Pd?
«Proprio perché è stato condannato abbiamo votato la sua decadenza da senatore e sancito la sua ineleggibilità. Ma la funzione politica — io dico purtroppo — ancora gliela riconoscono milioni di elettori e i parlamentari del suo partito. Incontrarlo non significa comunque far decidere la nostra posizione da Berlusconi. Siamo noi che dobbiamo stabilire quale legge elettorale sia più utile per il paese».
Oggi c’è la direzione del Pd, cosa proporrà?
«Tra i sistemi offerti alla discussione da Renzi a mio avviso possiamo valutare il doppio turno e un sistema spagnolo corretto, diverso però da quello enunciato dal segretario. Io sarei per il modello ispano- tedesco, che mitiga i difetti dello spagnolo, come quello immaginato da Salvatore Vassallo».
Nel menù di Renzi il sistema peggiore qual è?
«Per me è il Mattarellum, perché obbliga a mettere in piedi coalizioni per vincere ma che poi non riescono a governare. Senza contare che il Mattarellum ti impedisce di presentare il simbolo del Pd costringendoti a inventarti delle ammucchiate tipo l’Unione. Ma, intrecciata alla legge elettorale, c’è un’altra questione che la direzione dovrà chiarire».
Quale?
«Quella del rapporto fra il partito e il governo. Figuriamoci se non condivido la necessità che il governo faccia un salto di qualità, molte cose non funzionano, ma il Pd deve dimostrare di saper aiutare il governo, non solo metterlo in difficoltà. Il paese ne ha bisogno: non possiamo continuare con questa ambiguità giocando due parti in commedia».

Il Sole 16.1.14
La prossima sfida di Renzi. Un «outsider» di governo
L'ascesa di Renzi al ruolo di segretario nazionale del Pd testimonia che il ricambio delle leadership politiche riesce ad avvenire, in Italia, solamente attraverso vere e proprie fratture
di Sergio Fabbrini


Naturalmente, ogni ricambio (in particolare se generazionale) è foriero di discontinuità. L'affermazione di nuovi leader porta con sé nuovi stili politici, diversi modi di pensare, differenti sensibilità culturali. Tuttavia, nelle democrazie liberali, i nuovi leader si affermano generalmente dopo una socializzazione all'interno del sistema istituzionale e politico che vogliono governare. Tony Blair, prima di diventare primo ministro nel 1997, era stato ministro del governo-ombra nel 1993 per poi diventare segretario del suo partito nel 1994. Angela Merkel, prima di diventare cancelliere nel 2005, aveva potuto acquisire una lunga esperienza istituzionale nel parlamento del suo Land e quindi in quello federale, oltre che nel governo, per divenire quindi il capo dell'opposizione tra il 1998 e il 2005. Entrambi sono emersi attraverso una lotta aspra con i loro rivali (in cui non sono mancati anche i colpi bassi). Tuttavia, pur agendo come outsider, una volta al governo, sia l'uno che l'altra hanno potuto beneficiare della rete di collaborazioni tecniche e istituzionali costruite precedentemente. Ancora più da outsider si comportano i nuovi leader che ascendono al potere negli Stati Uniti. In quel Paese i partiti (e in particolare quello democratico) sono strutture decentrate, prive di apparati, espressione di gruppi organizzati e di interessi territoriali. Lì, generalmente, la socializzazione avviene negli Stati, vere e proprie scuole di politica. Bill Clinton si era messo alla prova in Arkansas e Barack Obama nella principale città dell'Illinois. Attraverso quell'esperienza politica entrambi hanno costruito una rete di rapporti e di collaborazioni su cui hanno poi basato la loro azione a Washinton D.C. Insomma, le democrazie solide hanno istituzionalizzato modalità, seppure diverse, per consentire sia il ricambio delle leadership politiche che la loro successiva integrazione nel sistema istituzionale.
Tali modalità sono assenti in Italia. Solo l'abilità e il coraggio personali dimostrati da Renzi hanno consentito il ricambio nel partito, ma rimane aperto il problema di come costruire una squadra e un assetto per governare il Paese.
I partiti strutturati del passato avevano funzionato sulla base del principio della preservazione atemporale dei loro gruppi dirigenti. Principio fatto proprio dall'unico erede di quei partiti, il Pd. Quest'ultimo si è ben presto configurato come una organizzazione oligarchica al cui interno gli equilibri hanno potuto cambiare, a condizione però che inalterata rimasse la composizione del cosiddetto gruppo dirigente. In un partito così, nessuno ha mai vinto pienamente, tanto meno qualcuno ha mai perso veramente. Non c'è bisogno di leggere Max Weber per sapere che l'oligarchia teme la competizione politica. In tutte le democrazie liberali i leader che perdono si ritirano (o si adeguano al vincitore, come è stato il caso di Hillary Clinton). In Italia, invece, il leader che vince in una competizione aperta è contrastato il giorno dopo la vittoria da coloro che sono stati sconfitti. Ma le cose non vanno meglio nei partiti de-strutturati e personali di destra o populisti. Per loro natura, i partiti personali non possono istituzionalizzare modalità per il ricambio delle leadership.
Matteo Renzi ha vinto la sua prima sfida: battere le oligarchie dall'interno del loro stesso partito. E c'è riuscito rivolgendosi, con le primarie, all'elettorato di quest'ultimo. Per fare ciò ha dovuto radicalizzare la sua diversità, se non estraneità, dallo stesso Pd. La strategia ha funzionato per conquistare il partito, ma non può essere replicata per governare il Paese. Qui c'é la seconda sfida che Renzi dovrà affrontare: come costruire una rete di competenze senza poter fare affidamento su un partito oligarchico o su un'esperienza nelle istituzioni nazionali (va da sé, infatti, che il governo di una media città italiana non può essere equiparato a quello della politica statale negli Stati Uniti).
È comprensibile che Renzi si sia costruito il proprio comitato elettorale (l'attuale segreteria del Pd) con persone amiche e coetanee. Ma un comitato elettorale non è una squadra di governo. Una squadra di governo richiede un leader che faccia la "politics", che proponga una visione del Paese, ma anche persone competenti che sappiano trasformare quella visione in "policies" coerenti. Credo sia interesse del Paese che Renzi abbia successo anche nell'affrontare questa seconda e più cruciale sfida.
sfabbrini@luiss.it

Il Sole 16.1.14
Il punto
Renzi. Il logoramento in agguato
di Stefano Folli


Mancano solo undici giorni al fatidico 27 gennaio, quando tutte le ciambelle politiche dovrebbero avere il loro buco. Nel senso che per quella data gli ottimisti si attendono che siano messi in chiaro due risultati concreti.
Primo, la piena definizione del nuovo «patto di coalizione» a sostegno del governo Letta. Secondo, il testo nero su bianco della riforma elettorale che dovrà essere portato davanti alle Camere. Undici giorni in cui Renzi dovrà dimostrare di essere all'altezza dell'immagine mediatica da lui stesso coltivata con sapienza. Ma il compito, come tutti hanno capito, è improbo.
Per vari aspetti è più semplice scrivere l'agenda programmatica, compresa la riforma del lavoro e i correttivi istituzionali. Si tratta di impegni che hanno un risvolto di merito e uno politico, ma pur sempre impegni da realizzare in Parlamento con tempi non troppo stretti. Viceversa la legge elettorale ha una sua urgenza e quindi è questione da risolvere subito: quanto meno per quanto riguarda il documento da presentare alle Camere, visto che è ormai fissato il giorno "ad hoc" del 27.
Si capisce allora che la vera minaccia alla credibilità del neosegretario è la riforma del voto. C'è bisogno di un colpo d'ala entro una settimana al più. Ma la sensazione invece è che il giovane e dinamico leader stia scivolando nelle sabbie mobili. In particolare perché un sistema elettorale già esiste: è il proporzionale e piace a tanti.
Ieri Renzi, rispondendo sulla "Stampa" alle critiche di Luca Ricolfi, ha scritto che «il governo Letta si logora in base a quello che fa o non fa». Come dire che non dipendono da lui le difficoltà del premier. Il principio è giusto, ma il segretario del Pd dovrebbe applicarlo anche a se stesso. Poiché egli si espone agli stessi pericoli di logoramento in base a quello che riesce o non riesce a realizzare. E oggi il tema è proprio questo: senza risultati convincenti (a cominciare dalla riforma elettorale), il logorìo della nuova "leadership" potrebbe essere assai più rapido e inquietante di quanto si poteva prevedere.
Si creerebbe una situazione malsana e persino pericolosa, visto che Renzi ha saputo suscitare straordinarie attese e ha ricevuto la spinta del voto popolare con le "primarie". Eppure le avvisaglie del logoramento, inutile negarlo, si avvertono già. Invischiato in una serie infinita di colloqui in nome del principio - anch'esso giusto sulla carta - che la riforma si fa con un accordo allargato, il segretario sta scalando la sua prima, vera montagna. E nessuno lo aiuta. Lo dimostra la polemica improvvisa e anche pretestuosa che si è aperta all'interno del Pd.
L'attacco al segretario, ammonito a non ricevere Berlusconi nella sede del partito perché «non si può riabilitare un pregiudicato», la dice lunga sul clima che accompagna la complicata tessitura renziana. È presto per dire che il leader è isolato, ma certo in molti vorrebbero ridimensionarne le ambizioni, anche e soprattutto nel Pd.
Nulla è compromesso, ma il tempo stringe. Forse il limite della strategia di Renzi coincide con le ragioni del suo successo. Il sindaco di Firenze è molto bravo a raccogliere il consenso popolare, ma questa attitudine si sposa male con la mediazione politica e ancor meno con le fatiche del governo. Deve essere per questo che l'uomo non ha alcuna voglia di fare l'unico passo davvero coraggioso: chiedere di assumere lui stesso la guida del governo in quanto capo del partito di maggioranza. Viceversa, egli insegue il sogno del trionfo elettorale. Ma l'appuntamento con le urne è lontano.

il Fatto 16.1.14
L’Aquila. L’emendamento al decreto ricostruzione
Il favore del governo alla Curia e l’appalto da 500 milioni
La trattativa per trasferire alle Diocesi la gestione degli appalti sulle chiese
Pronto un decreto. Tutto fermo dopo lo scandalo mazzette
di Antonio Massari


Sul tavolo di Palazzo Chigi la disposizione perché sia direttamente la Diocesi a scegliere le aziende che dovranno fare i lavori del post-terremoto Ora tutto in stand-by dopo lo scandalo delle mazzette e le denunce del sindaco dimissionario Cialente

Questa è la storia di una “trattativa”, tra lo Stato e la Chiesa, sulla ricostruzione post terremoto. Una storia che parte dal Duomo de L’Aquila e – almeno per ora – finisce in un cassetto. Un cassetto molto delicato: quello dell’ufficio legislativo di Palazzo Chigi. La vicenda riguarda un affare da 500 milioni di euro per i prossimi 9 anni: la ricostruzione delle chiese danneggiate o distrutte dal sisma del 2009. Parliamo di 195 strutture tra L’Aquila e l’intero cratere del sisma. L’attuale “soggetto attuatore” dell’intervento – ovvero chi gestisce la ricostruzione – è il ministero per i Beni culturali.
Il ribaltone: le chiavi alla Chiesa
Il Fatto Quotidiano è in grado di rivelare che la Presidenza del Consiglio, negli ultimi due mesi, ha provato a ribaltare la situazione con un decreto che, all’articolo 2 bis, prescrive: “Il soggetto attuatore degli interventi e il beneficiario del contributo è individuato nella diocesi competente”. In sostanza, con questa norma, la gestione dei 500 milioni passerebbe dallo Stato alla Curia e, in questo modo, le diocesi potrebbero scegliere direttamente a chi affidare i lavori. Il documento è però rimasto una bozza. La norma s’è incagliata nell’ufficio legislativo di Palazzo Chigi che, nonostante la benedizione del presidente Enrico Letta, non ha ancora espresso un parere positivo. Sarà un caso ma, proprio mentre la norma veniva valutata dall’ufficio legislativo, L’Aquila è stata travolta dagli scandali sulla ricostruzione: la procura aquilana, a fine dicembre, ha disposto delle perquisizioni in un’indagine sulla ristrutturazione di alcuni beni ecclesiastici. Da fonti politiche, al Fatto Quotidiano risulta che l’emendamento al decreto è di fatto stato “stoppato” e - nonostante le insistenze della Curia – l’operazione sembra tramontata.
I documenti in possesso de Il Fatto Quotidiano consentono di ricostruire la vicenda che ha scatenato poi l’ira dell’ex sindaco Massimo Cialente. A dicembre, il primo cittadino aquilano, scrive direttamente al presidente Giorgio Napolitano: “Si è tentato e si sta tentando”, scrive Cialente, “d’inserire una norma di legge che vedrebbe la Curia, la più grande immobiliarista della città, diventare soggetto attuatore per la ricostruzione di tutti i suoi edifici, compresi i luoghi di culto. Abbiamo il sospetto che il disegno, non considerato pienamente nelle conseguenze, potrebbe comportare addirittura che i fondi per la ricostruzione privata delle case andranno a ricostruire le chiese”. La curia risponde per voce di monsignor Tommaso Valentini, presidente della Conferenza episcopale abruzzese e molisana, che spiega: “In situazioni analoghe, ovvero nella ricostruzione di Umbria, Marche ed Emilia Romagna, le diocesi sono state già riconosciute come enti attuatori”. Niente di strano, ribadisce quindi Va-lentini, ma resta un fatto: la norma è rimasta lettera morta. Eppure la trattativa è iniziata ben quattro mesi fa.
È il 3 settembre 2013 quando, nella residenza arcivescovile de L’Aquila, prende la parola l’Arcivescovo Giuseppe Petrocchi: l’obiettivo della riunione – spiega – è risolvere il problema che riguarda la ricostruzione degli edifici di culto e delle strutture ecclesiali. “Bisogna arrivare a una strategia condivisa – dice Petrocchi – che coinvolga tutte le competenze qui presenti”. Sono presenti sette funzionari di Stato impegnati nella ricostruzione. È monsignor Giovanni d’Ercole, vicario dell’Arcivescovo, che mette sul tavolo le domande principali: “Come si procederà per la ricostruzione? Con quali fondi? Con quali tempi? ”. In realtà, la legge è chiara. L’ex ministro Fabrizio Barca ha disposto che, nell’arco di 9 anni, siano stanziati circa 500 milioni. Se non bastasse - mentre funzionari e prelati discutono - sono già stati stanziati 70,5 milioni per ben 27 chiese. E quindi: qual è il problema? Il Duomo, per esempio. Accanto alla chiesa vi sono le canoniche, le pertinenze, le abitazioni civili: tutto nello stesso aggregato. Insomma: c’è una parte pubblica e una privata. La Chiesa è “pubblica”: gli appalti sono gestiti e controllati dallo Stato. Il resto è privato: può essere ricostruito con affidamenti diretti. E per l’aggregato del Duomo, dove la Curia, ha già affidato la questione al “Consorzio sant’Emidio”, che si fa? Si usano i soldi stanziati dal ministro Barca? O quelli destinati alla ricostruzione delle abitazioni? E i progettisti del Consorzio - che hanno già lavorato - chi li paga?
Libertà di scelta, cambio di strategia
Il punto è che l’affidamento diretto consente di scegliere direttamente i committenti. E la “trattativa” inizia male. L’assessore aquilano alla Ricostruzione, Pietro Di Stefano, è netto: per le chiese esistono i 500 milioni stanziati da Barca punto e basta. E la Curia cambia strategia. Il 30 settembre scrive una nota al Governo. Il 4 novembre, a Palazzo Chigi, vengono convocati gli esponenti della Curia, del Comune de L’Aquila, della Direzione regionale per i beni culturali e l’Ufficio speciale per la ricostruzione. Il testo della convocazione è chiaro: la Curia – si legge - ha proposto di inserire una norma per nominare le Diocesi come “soggetti attuatori” del recupero dei beni ecclesiastici. Il governo vuole discuterne con Comuni e funzionari. Nel frattempo l’esecutivo scrive la bozza della norma che finisce all’ufficio legislativo di Palazzo Chigi. V’è scritto: “Il soggetto attuatore degli interventi e il beneficiario del contributo è individuato nella diocesi competente”. E ancora: “La conferenza episcopale d’Abruzzo predispone ogni anno, in collaborazione con gli enti locali e gli uffici per la ricostruzione, il suo piano d’intervento per la ricostruzione degli edifici, di proprietà della Chiesa, distrutti o danneggiati dal sisma del 2009”. La Diocesi può “delegare” la realizzazione degli interventi alla Direzione regionale per i beni culturali dell’Abruzzo che, nel caso, otterrebbe “il trasferimento del contributo”. Ma la norma resta nel cassetto.

il Fatto 16.1.14
Sindaco e ministro, duello sulle macerie
L’ex primo cittadino contro Triglia (coesione territoriale)
“Dimissionato da lui”. Replica: “Via per inchiesta”
di Luca De Carolis


I duellanti si scambiano accuse su numeri e responsabilità. Ma il loro corpo a corpo è solo lo specchio di una vergogna, quella dell’eterna ricostruzione de L’Aquila. È questo il filo rosso dietro allo scontro tra il sindaco aquilano Massimo Cialente, dimessosi l’11gennaio, e il ministro della Coesione territoriale, Carlo Trigilia. Con il primo a ringhiare: “Il governo mi ha abbandonato, ora lasci anche Trigilia”. E il secondo, rimasto dov’è, a replicare: “Il governo non è il bancomat del sindaco”. Tutti e due sono del Pd, e anche questo racconta qualcosa: di un partito e della politica tutta. Cialente ha lasciato cinque giorni fa, dopo l’esplodere dell’inchiesta su un possibile giro di tangenti sulla ricostruzione. Difficile rimanere in Comune, dopo le dimissioni del vicesindaco, Roberto Riga, indagato per una presunta mazzetta da 30 mila euro. Ancora più complicato, davanti all’intercettazione in cui un suo ex assessore (Ermanno Lisi) nel 2010 definiva il terremoto “un colpo di culo”. Cialente ha lasciato. Ma del suo addio dava e dà la colpa soprattutto al governo che lo avrebbe lasciato solo, tagliandogli i fondi.
IMPUTATO NUMERO UNO, Trigilia: “Mi ha dimesso lui quando, in un’intervista del 9 gennaio, ha detto ‘il Comune non chieda più soldi’ e, nello stesso giorno, in una riunione con il rettore dell’università aquilana, ha parlato di piano di rilancio dell’ateneo e di piano regolatore della città, senza il sindaco”. Il ministro, sociologo e professore universitario di area dalemiana, gli ha risposto con un’intervista alla Stampa: “Se Cialente decide di dimettersi, è solo a seguito di un’indagine della magistratura. È inutile chiedere miliardi, quando la capacità di spenderli è sui 500 milioni all’anno. Parlare di abbandono da parte del governo è strumentale e inaccettabile”. Parole (reciproche) da scontro irricucibile. “Noi siamo molto tranquilli” assicuravano ieri da ambienti del ministero. Cialente invece ha rincarato la dose: “Ogni giorno di più mi convinco che devo andare via perché sono stato licenziato dal governo. Licenziato perché ho chiesto regole che non sono mai arrivate”. E l’inchiesta? “Non esiste un ‘sistema L’Aquila’ ma un ‘sistema sull’Aquila’, interessi enormi e nessuna regola. E io ho pagato la mia fermezza con attacchi mediatici immotivati”. In diversi sussurrano che Cialente potrebbe fare marcia indietro (ci sono 20 giorni di tempo dopo le dimissioni). Per domani il centrosinistra ha organizzato una manifestazione di solidarietà per il suo ex primo cittadino. Il nuovo vicesindaco, Betty Leone (Sel), invoca: “Mi auguro che il governo sappia aprirsi alle nostre richieste”. Chiedono più soldi, dalla città ferita. Al di là dei duelli, sullo sfondo delle macerie

il Fatto 16.1.14
Vaticano. Oggi udienza all’Onu sulla pedofilia

Il Vaticano oggi davanti all’Onu sullo scandalo dei preti pedofili dopo il rifiuto di rispondere a un questionario sulla pedofilia del Comitato Onu sui diritti dell’infanzia (Crc): dovrà rispondere sull’attuazione della Convenzione sui diritti del fanciullo, che ha ratificato. LaPresse

Corriere 16.1.14
Il mago Otelma ottiene la lode per la sua tesi sul «De Civitate Dei»

GENOVA — È abituato a stupire il Divino Otelma (foto) e così chi si aspettava di vederlo comparire nell’atrio dell’università di Genova vestito con i paramenti del teurgo c’è rimasto male. Stretta al petto aveva solo la sua tesi sull’interpretazione che il vescovo Agostino d’Ippona fa di dei e demoni nel «De Civitate Dei». Dopo mezz’ora di discussione l’esito: 110 e lode. Il Divino, adesso è anche dottore in Filosofia, oltre che di Storia, Antropologia, Etnoantropologia e Scienze politiche.

Corriere 16.1.14
Un destino parallelo
di Ernesto Galli della Loggia


Il segnale venuto dalle nomine cardinalizie annunciate domenica scorsa dal Papa non poteva essere più chiaro: all’interno della Chiesa cattolica l’Italia da oggi conta meno e conterà sempre meno. Non c’è bisogno di sottolineare che si tratta di una cesura storica profonda e di grandissimo significato. La Chiesa di Roma, infatti, non solo rappresenta la più antica istituzione dell’Occidente, ma fino ad oggi era anche l’unica nella quale la presenza italiana è stata sempre centralissima se non egemone, a cominciare dalla lingua che in essa veniva usata come lingua di comunicazione abituale. Sarà sempre meno così. Come nell’Unione Europea, come in tanti altri ambiti, anche in questo la dimensione italiana, ciò che comunque porta il nome italiano, appare destinato a un declino.
E naturalmente è difficile non pensare che alla fine tutto si tenga. Ma perché è accaduto un tale fenomeno nel caso della Chiesa? Innanzitutto per una forma di sclerotizzazione. Alimentata da una tradizione culturale sempre alquanto scarsa; estranea ormai o lontana dalla vivificante atmosfera di conflitti sociali veri e veramente vissuti; illusa dalla finta sicurezza di un consenso pubblico apparentemente e tradizionalmente ultramaggioritario; oggetto continuo dell’ossequio ufficiale e al tempo stesso dotata grazie all’8 per mille di mezzi finanziari più che cospicui, la Chiesa italiana è venuta sempre più irrigidendosi in un organismo inteso all’amministrazione puramente burocratica del sacro. Si pensi alla sorte delle «Settimane sociali», un tempo occasione per la vivace messa a fuoco di aspetti cruciali della realtà del Paese e del ruolo dei cattolici, ma divenute con il tempo sede di dibattiti sempre più vuoti e stanchi. Forse superate in vuotaggine e stanchezza solo dalle relazioni mensili della presidenza della Conferenza episcopale.
Prime conseguenze di tutto ciò, da un lato lo scadimento qualitativo di una parte non indifferente del personale ecclesiastico medio-alto, dall’altro, per logica connessione, la crescita di casi di carrierismo, di camarillismo, di corruzione.
Si sono aggiunti i fenomeni tipici che fioriscono all’ombra della sclerotizzazione burocratica delle istituzioni: la crescita della protesta silenziosa dal basso con i «movimenti» e la loro autonomizzazione (anche perversa: si pensi al triste precipizio nel sottogoverno di Comunione e Liberazione), un marcato sentimento di non identificazione rispetto alle gerarchie di una parte del clero, specie di rango inferiore, la crescita delle divisioni e della spinta alla divisività tra i fedeli. Qui si tocca un punto cruciale: la questione della politica, dal 1861 banco di prova scomodissimo ma ineluttabile dell’istituzione ecclesiastica nazionale. Nel marasma del nostro bipolarismo la Chiesa italiana si è trovata da una parte strattonata da settori politicizzati di laicato di sinistra, e dall’altra corteggiata spregiudicatamente dai vertici politici di destra. Anche se silenziosamente si è di fatto divisa, senza riuscire a costruirsi un ruolo spirituale e politicoculturale proprio. Un ruolo di peso, che si imponesse come tale ai contendenti, che riuscisse a offrirsi a tutto il corpo sociale come uno spazio di riflessione alta e vera, di interlocuzione non formale o «convegnistica».
Le è mancata in questi anni una leadership realmente all’altezza della situazione. Ed è per questo che tutto lascia credere che per la Chiesa italiana proprio da qui stia per aprirsi un capitolo nuovo.

Repubblica 16.1.14
Il razzismo in Parlamento
di Gad Lerner


UNA duplice, speciale vigliaccheria contraddistingue la campagna orchestrata dalla Lega contro Cécile Kyenge.
Vigliaccheria numero uno: prima ancora che la linea politica, viene presa di mira la persona in quanto tale, accusata perfino di «favorire la negritudine ». Così ieri a Montecitorio il deputato Gianluca Buonanno è giunto a tingersi il volto per insinuare che per ottenere vantaggi in Italia bisognerebbe farsi «un po’ più scuri». Vigliaccheria numero due: i leghisti agiscono surrettiziamente, pubblicando l’agenda della Kyenge sul giornale di partito senza neanche avere il coraggio di scrivere a che scopo lo fanno. Dico e non dico, lancio il sasso e ritiro la mano. Vigliacchi, appunto.
Un’ipocrisia evidenziata dal segretario Salvini che sogghigna rifugiandosi dietro al diritto alla libertà d’informazione: che male c’è a divulgare degli appuntamenti pubblici? Mentre Roberto Maroni, che pure sarebbe il presidente di una grande regione europea come la Lombardia, finge di cascare dalle nuvole: «Non capisco perché contestare il ministro Kyenge sia un atto di razzismo». Non capisce, poverino?
Per carità, la Lega non è razzista. Con gli africani è dispostissima a stringere affari. Lo ha rivelato un’inchiesta di Claudio Gatti su “Il Sole 24 Ore”: subito dopo l’accordo italo-libico del 2008 per il respingimento in mare dei migranti, il suo tesoriere Belsito — che guarda caso la Lega aveva inserito nel cda della Fincantieri — si diede da fare per vendere al regime di Gheddafi pattugliatori e corvette sulle cui commesse tentò di lucrare col meccanismo dei retropagamenti. Un po’ a te e un po’ a me. La magistratura sta ancora indagando. Se invece una cittadina italiana nata in Congo viene incaricata dal governo di operare per l’integrazione degli immigrati, allora si grida allo scandalo. La si addita al pubblico ludibrio.
La Lega si protende nel disperato tentativo di recuperare uno spazio elettorale all’estrema destra. Ieri Salvini ha stretto alleanza a Strasburgo con Marine Le Pen, leader ultranazionalista d’oltralpe, e chi se ne importa della coerenza federalista. Le stesse camicie verdi che un mese fa al Lingotto di Torino scandivano in coro “Italia vaffa…” non esitano a scendere in piazza coi Forconi che sventolano il tricolore. E quando si fa la posta alla Kyenge gli va benissimo di ritrovarsi fianco a fianco coi fascisti di Forza Nuova.
Resta da chiedersi quale possa essere l’esito di questa offensiva razzista. L’intenzione è evidentemente quella di far dimenticare l’onta del partito arraffapoltrone, funestato dalle ruberie, marginalizzato a Roma ma tuttora bene inserito in tutte le postazioni di sottogoverno nel Nord. Salvini confida nella memoria corta degli esasperati e degli incattiviti dalla crisi che morde. Intuisce che a destra oggi c’è il vuoto e che l’Italia impoverita rimane territorio aperto per le scorrerie dell’antipolitica.
Si tratta di un’operazione non solo cinica, ma pericolosissima. Il classico caso dell’apprendista stregone. Perché è molto improbabile che l’agitazione delle tematiche xenofobe e antieuropee possa resuscitare un movimento screditato innanzitutto fra la gente che per un quarto di secolo aveva illuso, traendone un potere esercitato maldestramente. Assai più probabile, purtroppo, è che la crisi del forzaleghismo su cui s’innesta una tale velenosa campagna di diseducazione di massa, favorisca l’avvento di una nuova destra estrema in grado di rivendicare la sua verginità politica. Fa paura anche solo evocarla, perché il suo biglietto da visita è una violenza che da verbale, “futurista”, fa in fretta a diventare squadrismo.
L’odio diffuso contro Cécile Kyenge — se non verrà rintuzzato al più presto — piuttosto che beneficiare i suoi propalatori leghisti è più facile che generi fenomeni marginali ma devastanti di militarizzazione. L’exploit greco di Alba Dorata sta lì a dimostrarlo.
Il ritornello che già si sente ripetere perfino dai megafoni televisivi, è un’accusa dal sapore beffardo: l’aver nominato ministro una donna con la pelle nera viene additato come episodio di un non meglio precisato «razzismo all’incontrario ». Anche Buonanno, il deputato che si è tinto la faccia a Montecitorio, ha adoperato questa espressione che non significa nulla, «razzismo all’incontrario». Quasi che la ovvia parità di diritti naturalmente assegnata dalla cittadinanza italiana fosse un privilegio insopportabile, un torto inflitto alla maggioranza dei “bianchi”.
Il razzismo ipocrita della Lega non è dissimile, nelle sue modalità espressive, dall’antisemitismo del comico francese Dieudonné. Fermiamoli finché siamo in tempo.

il Fatto 16.1.14
Posti al sole. Eterogenesi dei fini
La questione da politica si fa psicanalitica
La Lega è il miglior alleato dell’anonima Kyenge
di Antonello Caporale


La questione da politica si fa psicanalitica, e ci sarebbe bisogno di un approfondimento diagnostico per conoscere le cause che stanno spingendo i leghisti al contrassegno barbarico del corpo di Cécile Kyenge, del colore della sua pelle in luogo delle sue idee. È evidente la regressione spaventosa da movimento del Nord, voce alterata ma credibile di un vasto umore popolare, a sparuto conservatorio della cafoneria razzista, espositore dei più antichi e scoraggianti cliché su noi bianchi e loro neri, anzi negri. Noi civili e loro no, noi dolci e loro sgraziati, noi puliti e loro sporchi. Noi belli e loro? “Quando la vedo penso a un orango” disse lo statista Roberto Calderoli, aprendo le danze antropologiche e consegnando questa donna allo sputo collettivo, alla denigrazione personale. E così - di volgarità in volgarità - si è giunti al calendario delle apparizioni pubbliche della Kyenge sulla Padania, forse per tener viva la sputacchiera. Per non farci mancare niente ieri la deputata Iole Santelli, che leghista non è ma calabrese di Forza Italia, dunque teoricamente in grado di conoscere le sofferenze di chi emigra e anche le violenze e le umiliazioni a cui è sottoposto, ha amabilmente ricordato che le donne nere (o negre?) hanno la fortuna di non doversi truccare, e Cécile, che è nera (o negra?) pure naturalmente.
E COSÌ il ministro per l’Integrazione è conosciuto in Italia solo per essere costantemente vittima della folata razzista. La sua foto troneggia sui giornali solo per quel che riceve non per quel che dà, soltanto per le parole di odio e non per le sue azioni di buongoverno. Siamo chiaramente in presenza di un sequestro dell’intelligenza perché l’effetto che si produce è opposto alle presunte intenzioni.
Cosa ha fatto in questi mesi il ministro e cosa non ha fatto? È una domanda che rimarrà inevasa, come pure sconosciuta sarà la risposta a un quesito semplice: le azioni che ha messo in campo per promuovere forme di integrazione dignitose per i migranti, iniziando a liberare la parte più afflitta e diseredata dagli orribili centri di internamento dove sono costretti, sono risultate efficaci oppure no?
Ecco: non sapremmo rispondere a questa domanda perché, al netto delle urla e delle offese, poco e niente si sa dell’operato della Kyenge. Non è parsa titolare di performances di governo invidiabili, non risulta che la sua strategia di integrazione sia divenuta patrimonio comune del Parlamento e nemmeno dello stesso esecutivo. Mostra buona volontà e basta.
La strategia dell’attacco animalesco, la continua proposizione dell’insulto o del rilievo intimamente razzista come critica politica rende inarrivabile il capolavoro cafone di blindare ciò che si vuol abbattere.

il Fatto 16.1.14
L’identità padana a caccia di orango
di Pino Corrias


INVECE di andare a nascondersi per la vergogna rosicchiando i panini al salame padano che si sono rubacchiati in conto spese, i leghisti del dopo Trota hanno deciso di ammazzare il tempo molestando la ministra Cécile Kyenge. La quale, a differenza del loro stato maggiore, appartiene alla vasta tribù degli umani evoluti, parla un paio di lingue, si è laureata in una università italiana, veste con eleganza, ha un sorriso gentile, è orgogliosa delle sue radici. Tutte cose che i capi leghisti, quando si riuniscono a cerchio in via Bellerio per annusare le antiche canottiere che il loro Bossi Umberto, elettrotecnico, si faceva comprare con i soldi del Movimento, non riescono proprio a digerire. “È una negra”. Anzi: “È un orango”, ci hanno fatto sapere i più avvenenti tra loro: Borghezio e Calderoli. Illusi che il circo di questi incredibili vent’anni non sia ancora finito. E perciò convinti di poter riacquistare con questi pochi spiccioli gutturali quella “identità padana” con cui hanno coronato ogni loro fallimento politico. Prima declinandola in una cosmogonia di draghi, druidi, sacri fiumi e sacra rivolta fiscale. Per poi svenderla in cambio di un paio di miserabili mutande verdi.

Corriere 16.1.14
Stallo sull’abolizione del reato di clandestinità
Il partito di Alfano fa muro: non c’è accordo
La mediazione del Pd: cancellarlo a condizione che non venga reiterato
di Virginia Piccolillo


ROMA — Afonia provvidenziale per Felice Casson. Relatore del provvedimento sull’abolizione del reato di clandestinità, con il quale la maggioranza parlava a troppe voci, ha perso la sua. E ottenuto un rinvio. Tattico.
Il leghista Massimo Bitonci, pur esprimendo solidarietà a Casson, ha provato a dirlo in Aula: «La maggioranza è in difficoltà per merito della Lega». Subito redarguito, con una battuta, da Maurizio Gasparri: «Non si prenda il merito del malessere di Casson o si fa una cattiva fama».
Ma è lo stesso Maurizio Sacconi, presidente dei senatori del Nuovo centrodestra, ad ammettere con il Corriere , in serata: «L’intesa ancora non c’è. Noi siamo favorevoli a un intervento sulla Bossi-Fini ma solo per andare nella direzione di rendere più efficace e veloce l’espulsione coatta. Attualmente la norma prevede il nulla osta del magistrato, noi siamo anche interessati a ragionare sul modo in cui si può rendere più tempestiva la pratica di espulsione. Ma il rigore deve restare nei confronti di chi scappa e chi si sottrae».
Idea molto diversa da quella espressa nell’emendamento al provvedimento sulle pene alternative al carcere presentato in commissione Giustizia dal Movimento 5 Stelle, e passato con il via libera del governo (il sì espresso dal sottosegretario alla giustizia Cosimo Ferri) e della maggioranza.
Il Pd è ancora su quella linea. Spiega Luigi Zanda: «Il testo varato dalla commissione Giustizia, che prevede la depenalizzazione del reato di clandestinità, è buono e ora va approvato dall’aula. Il reato di immigrazione clandestina non ha prodotto alcun beneficio, né al nostro Paese, né agli immigrati. È quindi sufficiente garantire la sanzione amministrativa». Gli alfaniani no: «Serve un intervento del governo perché questa materia deve far parte del pacchetto immigrazione», dice Sacconi.
La Lega intanto suona la grancassa della protesta. Dopo essere intervenuti in aula per 20 minuti ciascuno bollando il testo come «pericoloso», «vantaggioso per i delinquenti» e «indulto mascherato», tutti i senatori del Carroccio hanno sventolato la Padania . E alla fine hanno rivendicato l’afonia di Casson. Contraria anche Forza Italia.
Il Pd per tutto il giorno ha cercato una mediazione con l’Ncd. Individuandola in un «lodo» che prevedeva l’eliminazione del reato di clandestinità a condizione che non venisse reiterato. Ma a tarda sera le posizioni erano ancora distanti. E non solo su questo. Con il Pd interessato ad aprire di più i flussi di ingresso e rendere più facile la cittadinanza. E gli alfaniani a difendere il rigore sui flussi regolari e ad osteggiare ogni automatismo sullo «ius soli»: il diritto di cittadinanza per chi nasce in Italia.
Come se ne uscirà? Ieri a Palazzo Madama circolava la voce di richieste di voto segreto in arrivo. «Lo chiederanno di certo. Perché i colleghi della maggioranza non hanno il coraggio di scegliere», assicurava ieri Alessio Cioffi del Movimento 5 Stelle, molto fiero del fatto che l’emendamento, inizialmente criticato da Beppe Grillo, fosse alla fine stato approvato dal referendum online («Visto che la democrazia interna nel nostro movimento esiste?»). «Il nostro emendamento — fa notare Cioffi — non fa altro che levare un pezzettino della Bossi-Fini. Quella bandierina che era stata sventolata dalla Lega per far leva sulla paura dell’immigrato. Ma che non ha effetti. Introduce solo fascicoli che si aprono, ingolfamenti dei tribunali, spese per i giudici di pace e gli avvocati d’ufficio per i clandestini che devono pagare gli italiani. Allora, diciamo noi, interveniamo in maniera razionale e invece di cercare indulti depenalizziamo».

Repubblica 16.1.14
Dalle auto blu al nuovo Ku Klux Klan la svolta oltranzista di Salvini e il sodalizio con gli xenofobi europei
Il ritorno di Borghezio, i rapporti con la destra russa
di Paolo Berizzi


MILANO — Dalla corsa alle auto blu al pedinamento del ministro «orango» (copyright Calderoli). Dai vecchi fucili spuntati di Bossi — agitati per mungere poltrone e privilegi statali — al nuovo asse con gli ultranazionalisti europei che marciano in camicia bruna e vomitano odio contro immigrati, islamici, «invasori»: i diversamente etnici. Quelli da ricacciare nelle «riserve indiane» o da «impallinare » mentre attraversano il Mediterraneo sui barconi. Quelli come Kyenge: e i leghisti 3.0 gliel’avevano giurata dall’inizio. In mezzo, la battaglia un po’ pretestuosa contro l’euro e l’Europa «nemica dei popoli».
Che cosa si nasconde dietro la svolta “oltranzista” impressa allaLega dal neosegretario Salvini? Qual è la nuova faccia del movimento che, in crisi di voti e di identità, torna a gridare, a insultare e a minacciare («chi ci tocca inizi ad avere paura», segretario federale dixit) e salda il Sole delle Alpi coi simboli delle formazioni più xenofobe in circolazione in Europa? Il Partito nazionale slovacco, i Democratici svedesi, i bulgari di Ataka e i belgi fiamminghi del Vlamms Belang, l’Udc svizzero che vuole cacciare i lavoratori italiani e i liberal nazionalisti austriaci del Fpo, per finire o iniziare con il Front dei Le Pen, sodalizio confermato anche ieri. Per capirlo si può partire da un convegno. Un convegno saltato all’ultimo per «problemi tecnici», secondo la versione ufficiale. Venerdì 17 gennaio in un’aula dell’Universita Statale di Milano,Mario Borghezio, europarlamentare ex leghista, espulso obtorto collo dai vertici del partito (ma mai rinnegato) e confluito nel Gruppo misto, ex Ordine Nuovo e sedicente secessionista, avrebbe dovuto essere la guest star di un incontro dal titolo «Il Mondo verso un futuro multipolare». Il seminario, temuto dalla Digos per le proteste dei collettivi studenteschi, era organizzato dal Gruppo Alpha, una formazione vicina a Lealtà e Azione che a Milano vuole dire Hammerskin, la falange nata da una costola del Ku Klux Klan, presente in tutto il mondo e famosa per pestaggi contro immigrati e inni alla superiorità della razza bianca.
Assieme al prodigo zio Borghezio — rientrato nella casa e entusiasta per il nuovo corso della Lega salviniana alleata con l’estrema destra europea — a Milano avrebbe dato il suo contributo anche un ospite russo: Andrew Kovalenko, assistente deputato di Yevgeny Fyodorov (scienziato politico) presso la Duma di Stato della Federazione Russa, e rappresentante del Movimento Eurasiatista Russo. Chi sono gli amici postsovietici degli Hammerskin e di Borghezio? Due parole: «Marcia Russa». Quattro novembre 2013, 30mila persone, 100 città coinvolte. Sono i numeri della più importante manifestazione dei movimenti di estrema destra nello Stato governato da Putin. La giornata dell’unità nazionale celebra l’espulsione degli invasori stranieri da Mosca nell’autunno del 1612. Passo indietro: congresso della Lega al Lingotto di Torino, quello che acclama Salvini segretario. Assieme al gotha leghista ci sono i nuovi «amici» del Carroccio. Ospiti internazionali. Rappresentanti di partiti xenofobi, anti europeisti e a forte trazione nazionalista. I russi, certo. «Noi e i leghisti abbiamo importanti valori in comune» chiosa il parlamentare Viktor Zubarev di Russia Unita, il partito di Putin. Erano giorni in cui la crociata contro il ministro Kyenge sembrava essersi un po’ attenuata. Solo una falsa tregua. Mentre le menti della propaganda leghista pensavano alle prossime iniziative contro il ministro, «che deve tornare in mezzo agli africani», gli ambasciatori di Salvini rinforzavano i rapporti coi nuovi compagni di viaggio oltre i confini padani. I liberal nazionalisti austriaci del Fpo fino alla scissione del 23 aprile 2005 erano guidati da Jorg Haider. La figura di spicco oggi è Heinz Christian Strache, nipote di un soldato delle SS, ex odontotecnico. I punti fermi degli austriaci? Lotta contro turchi e africani, omosessuali, badanti straniere, islamici, stato sociale solo per gli autoctoni. Al grido di «Vienna non deve diventare Istanbul», alimentano l’incubo dell’islamizzazione. Tutta roba già vista tra Lombardia Piemonte e Veneto. Gli stessi programmi dei Democratici svedesi, 5,7% alle ultime elezioni e una lotta aperta contro gli stranieri, che in Svezia hanno una percentuale record (14%). O del Partito nazionale slovacco che — ricordano Saverio Ferrari e Gennaro Gatto, Osservatorio democratico sulle nuove destre — per combattere i Rom li ha sbattuti sui cartelloni seminudi al grido di «non diamo da mangiare a chi non vuole lavorare ». Camicie verdi e camicie brune. Qualche anno fa l’Fpo austriaco, neo alleato della Lega, ha organizzato a Vienna una conferenza tra i partiti di destra europei che si è conclusa con la «Dichiarazione di Vienna”. Si chiedeva l’abbandono della politica dell’immigrazione in Ue e tante altre cose che la Lega in questi anni ha propinato al suo elettorato. Hanno firmato la dichiarazione, tra gli altri, il Front national di Le Pen, Alessandra Mussolini per Azione Sociale, Alternativa Espanola, Grande Roumanie, Ataka, il Vlamms Belang belga. La Lega non ha partecipato — altri tempi — ma ha aderito all’iniziativa. Poi l’euromatrimonio si è compiuto.

il Fatto 16.1.14
Scuola gratuita? Le famiglie pagano 335 milioni l’an n o
La denuncia della Cgil: I genitori hanno sborsato cifre altissime per pagare dalla carta igenica ai progetti didattici
Spese che dovrebbe sostenere lo Stato
di Alex Corlazzoli


L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”. Così secondo la Carta Costituzionale ma nei fatti nell’anno scolastico 2012/2013 le famiglie hanno versato milioni di euro nelle casse degli istituti. Secondo un monitoraggio, presentato nei giorni scorsi dalla Flc – Cgil (Federazione lavoratori della conoscenza), su 407 scuole di tutte le regioni e di ottantotto province, il contributo dei genitori al funzionamento della scuola pubblica statale è di ben 335.593.153 euro. Soldi usati per spese che dovrebbe sostenere lo Stato: dall’acquisto della carta igienica ai progetti didattici. Un dato parziale che conferma un trend negativo dal momento che tale cifra resta invariata rispetto all’anno precedente. “Questi contributi – spiega Domenico Pantaleo, segretario nazionale della Flc Cgil - finiscono per sostituire ciò che lo Stato dovrebbe fornire alle scuole. Spesso non sono integrativi ma da qualche anno sono fondamentalmente legati alla riduzione dei trasferimenti. In questo modo si viola un principio costituzionale. È del tutto evidente che tutto ciò non si può scaricare sui dirigenti scolastici: se il ministero garantisse alle scuole i fondi non accadrebbe tutto ciò. C’è poi la necessità di assicurare la trasparenza dei bilanci nelle scuole: queste cifre devono essere contabilizzate con chiarezza”.
Un tema caldo in questi giorni in cui si è tornati a parlare di tagli con il rischio che le famiglie debbano continuare a supplire lo Stato: “La Flc non ha firmato l’accordo sugli scatti – continua Pantaleo - perché è del tutto evidente che se vai a tagliare i fondi Mof (Miglioramento offerta formativa) significa penalizzare gli studenti e l’autonomia scolastica”.
SULLA QUESTIONE era già intervenuta la Legge 296/2006 che non consentiva di imporre tasse o “richiedere contributi obbligatori alle famiglie di qualsiasi genere o natura per l’espletamento delle attività curricolari. Eventuali contributi per l’arricchimento dell’offerta culturale o formativa possono essere versati solo ed esclusivamente su base volontaria”.
Un principio totalmente disatteso visto che secondo il monitoraggio della Cgil tutte le scuole del secondo ciclo chiedono contributi in un intervallo d’importi che va da un minimo di 15 euro a un massimo di 230 euro. Lo sa bene Mario Rusconi, vice presidente dell’Associazione nazionale presidi: “Dall’epoca della Gelmini noi dirigenti siamo stati attaccati. Il contributo volontario è legittimo ma non può essere legato ad alcuna contromisura. Ci sono presidi che fino all’anno scorso hanno minacciato di non distribuire le schede di valutazione senza l’apporto delle famiglie. Non ci dev’essere alcuna forma di ricatto. I contributi devono essere evidenziati nel bilancio della scuola e dev’essere specificato con una delibera del consiglio d’istituto come sono spesi. Bisogna evitare che siano usati per la fiscalità generale”.
Soldi che, grazie alla Legge 40/2007, possono essere detraibili nella misura del 19%: un particolare che spesso i genitori non conoscono e che pochi dirigenti scolastici mettono in evidenza. Durissimo il presidente dell’Age (Associazione Genitori) Fabrizio Azzolini, particolarmente attento alla questione in questa fase d’iscrizioni in cui spesso si chiedono contributi con bollettini: “Questa è un’imposta occulta che grava sulle famiglie. Se anni fa il contributo non incideva sui bilanci famigliari, oggi è necessario prendere una posizione per fermare questa tassa. Spesso i genitori che non versano sono additati dalla scuola”.
INTANTO, secondo i dati dell’ agenzia Eurydice sugli investimenti sull’istruzione, l’Italia sarebbe tra i pochi Stati ad aver disinvestito sulla scuola rispetto al 2012: - 1,2%. Mentre in Romania (+ 6%), Turchia (+ 19%), Islanda (+9%) e Belgio (+27%) si aumentano i bilanci, nel Bel Paese ci si affida alle famiglie.

Repubblica 16.1.14
Welfare in tempo di crisi
di Massimo L. Salvadori


Contro la proposta di Renzi di attribuire un “assegno universale” a chi rimane senza lavoro e la proposta, rinnovata dalla Camusso, di introdurre una tassa sui patrimoni si è prontamente levato un corso di voci negative. Alla prima si obietta che è bella moralmente, ma che la questione è sempre la solita: la mancanza di soldi; alla seconda, che per parte sua indica dove trovare dei soldi, che siamo in un Paese democratico e civile, in cui non si può mica dare l’assalto alle vistose diligenze in cui viaggiano i ricchi. Il coro di coloro che invitano alla moderazione e alla ragionevolezza in tema di politiche sociali dirette a togliere a chi ha troppo e a dare qualcosa a chi ha troppo poco è che per poter promuovere una maggiore equità bisogna aspettare una consolidata ripresa economica, rendendo tutti contenti senza far torto a nessuno, neanche a chi probabilmente domani avrà ancora di più. Senza quel presupposto oggettivo, le nobili intenzioni restano chiacchiere. Ma è vero che per varare politiche sociali efficaci e persino ardite occorre attendere che il sistema economico trasudi salute? Falso, interamente falso. Le grandi politiche sociali, quelle che, culminate nei sistemi di welfare,hanno segnato un passo avanti di storico significato nell’assicurare sostanziali tutele agli strati sociali più deboli, non sono state lanciate in Paesi in cui il miele scorreva abbondante, ma al contrario in Paesi impoveriti, anche terribilmente impoveriti e scossi alla radice da crisi economiche e sociali della massima gravità. Così è avvenuto dopo la crisi del 1929, in Europa ad opera delle socialdemocrazie scandinave e degli stessi regimi nazista e fascista, negli Stati Uniti per impulso delNew Deal rooseveltiano; e ancor più è avvenuto, per la forte determinazione del governo laburista di Attlee, dopo la fine della seconda guerra mondiale in Gran Bretagna, quando vi erano ancora le tessere, aprendo poi la strada alla progressiva estensione, favorita dalla ripresa economica, dello “Stato del benessere” in un numero crescente di Paesi. Le risposte date alla crisi del 1929 e a quella seguente al 1945 furono i prodotti congiunti per un verso di un risveglio morale che unì la parte progressista delle classi dirigenti, socialisti riformisti, liberali di sinistra e cristiani sociali, per l’altro del timore del diffondersi del comunismo. E furono risposte alte e vincenti. Tutta opposta è stata ed è la risposta alla crisi che, iniziata nel 2008, morde ancora pesantemente. Quando quest’ultima scoppiò, da quasi trent’anni era in corso l’offensiva neoliberista, che, mentre invocava la libera iniziativa di ciascun individuo, nei fatti aveva lasciato padrone del campo le oligarchie finanziarie e industriali e seguito linee di sempre maggiore contrazione delle istituzioni del welfare.La parola d’ordine era che, se in passato era stata la spesa pubblica a sostenerle, era giunto il tempo di porre fine al malo andazzo, invitando alla corresponsabilizzazione delle singole persone e, per soccorrere quanti rimasti ai margini, alle iniziative di carattere caritativo. Negli anni successivi al 2008 le oligarchie plutocratiche — le quali grazie alle loro avidità speculative avevano provocato il disastro e a differenza che dopo il 1929 e il 1945 non avevano più da temere né la diffusione di un comunismo ormai fallito né una seria resistenza di esauste socialdemocrazie — ci fecero assistere a questo spettacolo, davvero brillante dal loro punto di vista: i nemici giurati dell’intervento pubblico rovesciarono sui bilanci statali e sulle tasche della massa dei contribuenti semi-poveri e poveri i costi della crisi di cui erano interamente responsabili. Al danno si aggiunsero le beffe. L’esito è stato l’accrescersi in maniera esponenziale delle diseguaglianze.
Questa tendenza si è pienamente dispiegata anche in Italia, dove il divario tra ricchi e poveri è andato costantemente aumentando, al punto che il reddito di circa il 10 per cento della popolazione è arrivato ad essere pari a quello di circa il 40 per cento del resto. Davvero in quel pozzo, che, se non senza fondo, è profondo, non si possono pescare risorse per finanziare l’“assegno universale” ai senza lavoro caldeggiato da Renzi, e davvero la patrimoniale auspicata dalla leader della Cgil avrebbe il carattere di una espropriazione comunista? Tra poche settimane, esattamente il 26 febbraio, saranno vent’anni da quando Norberto Bobbio diede alle stampe presso l’editore Donzelli il fortunatissimo saggio Destra e sinistra,nel quale il vecchio filosofo levava (e non gli toccò di vedere il seguito) la sua indignata denuncia contro l’acuirsi indecente delle diseguaglianze ed esortava una sinistra sbandata a rialzare la bandiera della giustizia sociale: da intendersi quest’ultima, sia chiaro, non alla maniera di Babeuf, ma di un movimento inteso, mediante il metodo delle riforme, ad assegnare ai poveri quel quantum di risorse senza le quali essi non possono condurre una dignitosa esistenza. I ricchi, si sa, non tutti per fortuna ma per sfortuna nella grande maggioranza, oppongono orecchie sorde a questo messaggio. Spetta ai buoni governi in generale e in particolare alle sinistre che non dimentichino la loro ragion d’essere di suonare la sveglia al senso della responsabilità sociale, senza il quale la sfiducia dei più verso lo Stato e la politica è destinata, del tutto motivatamente, a dilagare in masse ridotte addirittura alla disperazione.

Il Sole 16.1.14
Nel triangolo Lugano-Ginevra-Zurigo. Oltre 72mila posizioni a rischio
Niente più segreti in Svizzera con il nuovo accordo bilaterale
di Alessandro Galimberti


MILANO. L’imminente firma dell'accordo con la Svizzera sullo scambio automatico di informazioni fiscalmente sensibili (si veda il Sole 24 Ore di ieri) potrebbe risolvere una volta per tutte la questione della utilizzabilità delle liste Falciani, almeno nei confronti della Confederazione, paese che peraltro ospita oltre 72 mila delle nuove posizioni sospettate di infedeltà fiscale.
Il fisco, infatti, dentro la cornice del futuro accordo bilaterale – che impone la rottura del segreto bancario quando si tratta di depositi di cittadini stranieri ma contribuenti nella madrepatria – non avrebbe difficoltà ad ottenere per via amministrativa (cioè senza nemmeno passare da un giudice) il "profilo" del sospettato di evasione fiscale. La radiografia dei conti esteri permetterebbe all'Agenzia di ricostruire le movimentazioni e di ricondurle, salva la prova contraria, a redditi italiani occultati.
Alle procure della repubblica resterebbe l'iniziativa penale nei casi – che per la verità appaiono la norma in questo spaccato di clienti Hsbc – in cui l'evasione fiscale è sopra la soglia di punibilità, o quando le provviste siano state create con fatturazioni false o artifici contabili.
Il problema, quindi, in attesa di un definitivo orientamento sul punto della Cassazione – che in più occasioni a partire dal 2001 si è espressa alternativamente pro e contro l'utilizzo dei dati acquisiti in modo non ortodosso (si vedano le sentenze 8344/2001, 8273/03 e 19689/04, fino all'ultima, interlocutoria e controversa 38753/2012) – è destinato a rimanere in balìa dei giudici tributari, come si legge nell'articolo sopra, almeno fino all'entrata in vigore degli accordi bilaterali di assistenza fiscale a tutto campo.
La questione però, alla luce delle imminenti novità legislative anche in materia di voluntary disclosure - cioè di rimpatrio volontario dei capitali "in nero" - può essere vista da un altro punto di vista.
I titolari dei "nuovi" conti non ancora raggiunti da iniziative dell'agenzia delle Entrate – o della Guardia di finanza – potrebbero decidere di concordare con gli uffici fiscali una compliace della propria posizione estera, pagando l'intero importo delle tasse dovute, sanzioni amministrative ultraridotte e provando a contenere le conseguenze penali dentro il limite della conversione pecuniaria (nel progetto di decreto legge fermo sui banchi del governo, invece, il reato di evasione fiscale del "pentito" estero non sarà più perseguito). L'alternativa, per questi nuovi correntisti "Falciani" potrebbe essere una lunga battaglia legale che nei prossimi anni fornirà al fisco e alla magistratura armi molto più invasive e incisive.

Il Sole 16.1.14
Sanità. Nella classifica della mobilità il Sud perde pazienti in favore del Nord
Quasi 800mila italiani cambiano regione per curarsi: in un anno spesi 2 miliardi
di Roberto Turno


ROMA Sono 770mila gli italiani che fanno la valigia in cerca di cure, soprattutto di ricoveri, in un'altra regione. Come se tutti gli abitanti della provincia di Cagliari emigrassero per curarsi fuori dalla Sardegna. Un esercito che ha perso pezzi da un anno all'altro (-5%), ma che in dodici mesi ha generato quasi 2 mld di spese nel dare/avere tra regioni. Una spesa cresciuta di oltre 250 mln (+6%), paradosso solo apparente: le cure più gettonate sono infatti sempre più quelle di alta specialità, l'eccellenza, le cure più ricercate e dunque costose. Non a caso il grande buco nero del Sud d'Italia. Perché è proprio da Roma in giù che si continua a lasciare sempre di più la propria città a caccia di cure migliori e più rapide: dalla Campania fuggono 82mila, 59mila abbandonano la Calabria, 58mila la Puglia, 49mila se ne vanno dalla Sicilia. Viceversa la Lombardia "incassa" 143mila italiani da altre regioni, 111mila l'Emilia Romagna, 90mila il Lazio e 70mila la Toscana.
Ecco l'altra (e la solita) faccia dell'Italia delle cure. Mai abbastanza nota, mai abbastanza considerata dalle politiche nazionali e soprattutto locali, a partire dal Sud quasi tutto sotto lo schiaffo dei commissariamenti e dei piani di rientro dai maxi debiti di asl e ospedali. Quei piani "lacrime e sangue", spesso in ritardo a dispetto dei super ticket e delle maxi addizionali fiscali, che tra l'altro, tagliando l'assistenza, fanno lievitare la mobilità degli assistiti di quelle regioni. L'ultimo check degli italiani in fuga dall'ospedale sotto casa arriva dal mega rapporto sull'attività ospedaliera 2012, appena elaborato dal ministero della Salute (si veda www.24oresanita.com).
Una foto di gruppo – 10,2 mln di schede e 461 mln di informazioni elaborate – che però riserva anche note di miglioramento per la sanità pubblica: il calo dei ricoveri ordinari (6,8 mln, -2,9%) e la riduzione di 300mila di ricoveri inappropriati, dunque evitabili. Dunque fonte di spreco. Perfino la riduzione di 39 strutture di ricovero in genere. Anche se poi non mancano le "perle" di quel Far West delle cure nella solita forbice Nord-Sud: il 36,5% di nascite col bisturi sul totale dei parti, dal 61% della Campania al 21% del Friuli; o le 212 infezioni post chirurgiche contratte ogni 100mila dimissioni, dalle 356 della Basilicata alle 54 del Molise. Altro particolare non da poco: il costo medio di ogni ricovero è di 3.500 euro (3.800 per i maschi), ma quelli fuori regione, spesso per prestazioni di alta specialità, valgono oltre 5.200 euro, segnale ulteriore dell'appesantimento finanziario per il Sud, più sguarnito di eccellenze. E che così paga di più.
L'analisi della mobilità sanitaria, intanto, è impietosa. La spunta il Nord fino alla Toscana, perde il Sud. Tra pazienti in uscita e in entrata, la Lombardia ha "guadagnato" 76.367 ingressi extra regione e 555 mln di euro, l'Emilia Romagna 67.194 assistiti e 336 mln, la Toscana 34mila pazienti e 132 mln. All'opposto, nel saldo della mobilità passiva e attiva la Campania (anche se in miglioramento) ha "perso" 55.716 pazienti e 402 mln di euro, la Sicilia ha un risultato negativo di 34mila pazienti e di 189 mln, la Puglia di 32mila assistiti e di 180 mln. Ma attenzione ai risultati di Lazio e Molise: nel primo caso sono condizionati dalla presenza del Bambin Gesù, dove per il Lazio i ricoveri sono considerati in uscita; nell'altro, dalla forte attrazione esercitata nel Molise dall'istituto Neuromed di Isernia. In ogni caso, poco più di 8 ricoveri ordinari per acuti ogni mille abitanti avvengono fuori regione e la mobilità vale il 7,5% di tutti i ricoveri per acuti: 505mila su 6,7 mln.
Numeri che danno l'esatta dimensione della profonda frattura anche sanitaria che spacca l'Italia. E che farebbero passare quasi in secondo piano le note positive elencate nel rapporto ministeriale. I ricoveri per acuti (6,8 mln) sono scesi del 2,9% e le giornate di degenza (46,4 mln) del 3,2%. In forte calo del 10,3% i cicli di hospital (2,5 mln), con le punte minime in Basilicata, Lombardia e Puglia quelle massime tra Campania, Friuli e Lazio. Delle 10,2 milioni di giornate di degenza totali, il 75% sono erogate dagli istituti pubblici, il 25% da quelli privati. I giorni di degenza media dei ricoveri per acuti negli istituti pubblici sono stati 7,2, contro i 5,5 del privato accreditato, con le punte massime nel pubblico del Veneto (8,3 giorni) e della Liguria (8,1) e quelle minime di Umbria (6,2 giorni) e Toscana (6,5).
Ma attenzione: negli ospedali pubblici c'è anche chi paga. I "solventi" nel 2012 sono stati oltre 82mila, più della metà solo in Lombardia. Per non dire dei ricoveri per avere un medico in libera professione intramuraria: sono stati 34mila, di cui 8.100 in Campania. Proprio la Lombardia ha fatto segnare la diminuzione più elevata dei ricoveri totali (-124mila), la Basilicata il crollo in percentuale più forte (-13%). Il Lazio – regione commissariata – ha fatto peggio di tutti: ricoveri pressoché stabili. Chissà se la cura da cavallo post Monti ha cambiato le cose. L'ultima verifica all'economia ha detto che il ritardo resta gravissimo. Ma intanto i cittadini, che pagano addizionali al massimo, vengono respinti dagli ospedali.

il Fatto 16.1.14
Il “gioco” di Riina: ritornare alle stragi
“Riina minaccia perché la giustizia non scopra la verità”
Le minacce del boss sembrano una chiamata alle armi per chi non vuole far emergere la verità sui rapporti tra Stato e mafia
Ma i magistrati di Palermo non smetterannodi cercare una risposta alle domande inquietanti della stagione della trattativa
di Roberto Scarpinato

Procuratore Generale della Repubblica di Palermo, Trapani e Agrigento

In quanto Procuratore Generale mi occupo delle misure di sicurezza nei confronti dei magistrati nelle tre province di Palermo, Trapani e Agrigento. Questa parte della mia attività è divenuta sempre più impegnativa perché in questi ultimi mesi si sta registrando una straordinaria escalation di minacce, di intimidazioni che credo non abbia precedenti e che riguarda un numero crescente di magistrati. Non si tratta solo dei magistrati di cui ha dato notizia la stampa nazionale – mi riferisco per esempio a Di Matteo, agli altri pm che si occupano del processo sulla cosiddetta trattativa, ai quali in questi giorni si è aggiunta Teresa Principato, che segue le indagini per la cattura di Matteo Messina Denaro – ma anche di altri pubblici ministeri e di magistrati della giudicante, soprattutto quelli che si occupano delle misure di prevenzione. La mia sensazione complessiva è che all’interno dell’universo mafioso stia accadendo qualcosa, che stia lievitando una insofferenza sempre maggiore di cui occorre decifrare le motivazioni complessive. L’idea che mi sono fatto è che occorre distinguere due tipi di pericoli. Un pericolo che viene dal presente, dall’attualità della mafia della Seconda Repubblica; e un pericolo di natura diversa che viene dal passato, cioè dalla mafia della prima Repubblica. L’interagire di questi due pericoli potrebbe creare una miscela esplosiva. I pericoli che vengono dal presente e hanno, a mio parere, una causale economica.
Anche la mafia soffre la crisi
La crisi economica che attanaglia tutto il paese ha messo in grave difficoltà anche la mafia siciliana in quanto ha ridotto drasticamente le entrate derivanti dalla predazione sistematica dei fondi pubblici realizzata in mille modi, grazie anche a ramificate relazioni collusive con il ceto politico-amministrativo (manipolazione di appalti e commesse pubbliche) ; e le entrate derivanti dalle estorsioni “a tappeto”. Nel 2007 gli investimenti pubblici avevano raggiunto 890 milioni di euro mentre nel 2012 si sono ridotti a 351 milioni e nei primi otto mesi del 2013 a 196 milioni. Quanto alle estorsioni si va riducendo sempre di più la platea numerica dei soggetti da estorcere. Sono migliaia le imprese che hanno chiuso i battenti e altre sopravvivono a stento tra mille difficoltà. La riduzione delle entrate ha un impatto notevole sulle spese correnti di ordinaria amministrazione dell’organizzazione. Mancano i soldi per mantenere le numerose famiglie dei carcerati, per pagare la mesata della manovalanza in libertà, per finanziare le spese legali. Cresce dunque giorno dopo giorno un’insofferenza che non si manifesta solo nei confronti della magistratura accusata, per esempio, di sequestrare e confiscare imprese e beni mettendo sul lastrico centinaia di famiglie; ma anche e soprattutto - e qui sta la novità - nei confronti della stessa classe dirigente di Cosa Nostra. Nei confronti di alcuni capi un tempo ritenuti carismatici, come Messina Denaro, monta la critica di pensare solo a se stessi e ai propri affari, disinteressandosi del popolo mafioso. Ad altri capi viene mossa la critica di esser troppo deboli, incapaci di "far abbassare le corna a una magistratura troppo ringalluzzita”.
Come nella società civile legale nei momenti di crisi economica e di scontento prende corpo la richiesta di uomini forti che assumano il comando e fermentano fenomeni di spontaneo ribellismo, così nel mondo mafioso cresce la richiesta di uomini forti che mettano da parte la strategia provenzaniana della sommersione che andava bene quanto gli affari giravano per tutti; uomini forti che sappiano battere i pugni sul tavolo. Contemporaneamente, vista la mancanza di una solida e autorevole leadership, si profila il pericolo di un “rompere le fila”, cioè che ognuno si senta legittimato ad autogestire a livello individuale e in ordine sparso minacce e intimidazioni ai magistrati. Cresce anche il rischio che qualche emergente si autoproponga come l’uomo forte della situazione compiendo gesti di rottura.
Per completare il quadro telegrafico sui pericoli che vengono dal presente, aggiungerei il soffiare sul fuoco di questo scontento popolare da parte di un mondo di colletti bianchi gravitanti nel mondo dell’imprenditoria collusa o contigua che, dietro le quinte, cavalca strumentalmente la crisi additando come corresponsabile una magistratura accusata di sequestrare e confiscare imprese un tempo floride che davano lavoro portandole al fallimento. Sono accuse infondate perché le imprese erano floride solo perché venivano gestire nell’illegalità evadendo il fisco, imponendosi sul mercato con metodi mafiosi, eppure fanno presa (...).
Il boss allude al ritorno alle maniere forti
Vengo ora a esaminare i pericoli che vengono dal passato, cioè dalle minacce e dai propositi di morte di Riina di cui la stampa nazionale ha dato ampie notizie. In sostanza Riina invoca un ritorno alle maniere forti, il compimento di gesti eclatanti di rottura per dare una lezione ad una magistratura che non intende fermarsi nelle indagini. Questo imput di Riina che viene dal vertice dell’organizzazione da parte di un capo che, seppure detenuto da 24 anni, secondo le regole di Cosa Nostra non è mai decaduto dalla carica, intercetta la voglia crescente del ritorno alle maniere forti che viene spontaneamente dal basso. Al di là degli scopi immediati e reconditi di Riina, le sue parole possono dunque essere interpretate all’interno dell’organizzazione come una investitura o un’ autorevole legittimazione all’azione di coloro che premono per un ritorno alle maniere forti, spostando così l’ago della bilancia a loro favore rispetto ai “moderati”. Riina ha continuato a manifestare quei propositi di morte anche dopo avere appreso dalla stampa che le sue parole erano state ascoltate. La situazione di instabilità politica è un ulteriore fattore di incremento del rischio. Veniamo ora all’analisi delle minacce di Riina, e qui sta la parte più difficile. In questi ultimi tempi mi veniva da pensare che in questo paese è come se fossimo prigionieri del nostro passato, un passato che pesa come un’enorme zavorra sul futuro. Siamo nell’Italia del 2014, la prima Repubblica è defunta da un quarto di secolo, la seconda è agli sgoccioli, il mondo è cambiato e noi siamo ancora qui a interrogarci, a misurarci con i pericoli di una possibile ripresa della strategia stragista. Costretti dunque a vivere con la testa rivolta all’indietro, perché se volti le spalle al passato, può colpirti a morte per ragioni che vengono da lontano e che restano indecifrabili a chi ignori la storia del nostro paese, la cruenta e segreta lotta per il potere che ha segnato la storia italiana. Quando abbiamo appreso dei propositi di morte di Riina ci siamo posti alcuni interrogativi che, a mio parere, non hanno trovato sinora risposte plausibili. Il primo nasce dal fatto che quelle minacce così reiterate non sembrano avere una causale apparente adeguata. Mi spiego: le stragi del 1992-‘93 erano una reazione alla conferma nel gennaio del 1992 della condanna del maxiprocesso da parte della Cassazione. Una vendetta nei confronti dei politici che non avevano mantenuto le promesse di impunità, di Falcone e Borsellino artefici di quel processo e – secondo una tesi accusatoria in corso di verifica e nel cui merito non entro – anche uno strumento per esercitare pressioni su alcuni vertici statali per indurli a concedere benefici processuali. Ma una strage che dovesse essere compiuta ora e che dovrebbe colpire Di Matteo o qualcuno degli altri magistrati che gestiscono il processo sulla “trattativa”, che scopo avrebbe?
Ove pure quel processo dovesse concludersi con sentenze di condanna, si tratterebbe di pene detentive di pochi anni, assolutamente irrilevanti per uno come Riina che ha collezionato una serie di ergastoli. Dunque perché fermare un processo che avrebbe conseguenze processuali pratiche insignificanti per Riina? Direi di più: un’eventuale strage avrebbe effetti assolutamente contro producenti perché cristallerebbe nell’immaginario collettivo di gran parte della pubblica opinione la certezza che la strage è stata compiuta per impedire l’accertamento della verità, radicando così la certezza che la tesi accusatoria era fondata. Un boomerang quindi. Non appare plausibile poi la spiegazione che Riina non tollererebbe di essere dipinto – secondo la tesi accusatoria – come uno che avrebbe avuto rapporti sottobanco con esponenti dello Stato per condurre una trattativa, perché avere avuto quei rapporti equivarrebbe, secondo la sua mentalità, ad un atto di “sbirritudine”. Stando alla tesi accusatoria, Riina nel processo giganteggia come il grande capo che avrebbe costretto alcuni esponenti dello Stato a trattare in un rapporto di potenza a potenza, e secondo il disegno di “fare la guerra per fare la pace”. Il processo quindi non gli crea affatto un danno di immagine ma, al contrario, esalta, seppure nel male, la sua immagine. Ragionando per esclusione, tutti gli interrogativi restano aperti e per questo motivo sono a mio parere ancora più inquietanti perché non si riesce a trovare una spiegazione adeguata alla rabbia di Riina. A meno di non concludere che ci troviamo dinanzi a un comportamento irrazionale, al delirio di onnipotenza di un uomo condannato all’impotenza, e tenuto conto che non si riesce a trovare una spiegazione plausibile all’interno dello scenario processuale esistente e visibile – quello ricostruito nel processo della “trattativa” – non resta che ipotizzare che ciò che preoccupa Riina stia nel fuori scena. Cioè in un retroscena delle stragi del 1992-‘93 che non è ancora divenuto processuale, ma che si teme potrebbe divenirlo perché le indagini non si sono mai fermate e prima o poi qualche bocca che sinora è rimasta prudentemente chiusa potrebbe cominciare a parlare, soprattutto se dovesse aprirsi una fase di instabilità politico-istituzionale. Cosa si potrebbe celare di tanto misterioso e terribile nel fuori scena rimasto finora segreto da turbare i sonni di Riina al punto di incitare ripetutamente a compiere gesti eclatanti per scongiurare l’ evento della sua possibile emersione? A questo punto il discorso si fa complicato, perché non può essere più portato avanti mettendo in campo solo personaggi come Riina, Provenzano, ma occorre chiamare in causa quello che Falcone definì il “gioco grande” di cui la mafia ha sempre fatto parte.
La lotta per il potere si combatte nell’ombra
Falcone coniò quell’espressione per definire il gioco grande del potere dopo il fallito attentato all’Addaura del 1989, quando si rese conto che accanto ai mafiosi dell’ala militare avevano agito per il suo omicidio menti raffinatissime esterne alla mafia, i cui interessi convergevano con quelli della mafia. Falcone sapeva benissimo, sin da quando indagando sul riciclaggio internazionale si era imbattuto nel caso Sindona, nella P2, nell’omicidio Ambrosoli, nell’omicidio Calvi, che la lotta per il potere in Italia non si è svolta solo alla luce del sole, ma anche e soprattutto nell’ombra, utilizzando in alcuni momenti cruciali l’omicidio politico e le stragi, avvalendosi talora della mafia come braccio armato e della causale mafiosa come copertura per celare sottostanti causali politiche che dovevano restare segrete. Non esiste un solo paese europeo la cui storia sia segnata come quella italiana da una catena così lunga di stragi, omicidi politici, progetti eversivi dall’inizio della Repubblica al 1993. In questo gioco grande e sanguinoso del potere, la mafia ha svolto spesso un ruolo di coprotagonista in sinergia con altri poteri: pezzi deviati dello Stato, massoneria segreta, destra eversiva. Non è un caso che il capo mafia Luigi Ilardo, assassinato pochi giorni prima che iniziasse a collaborare con la magistratura rivelando i retroscena delle stragi del 1992-‘93 avesse anticipato che quel che era avvenuto era un discorso che veniva da lontano, aggiungendo che molti attentati in passato attribuiti alla mafia avevano causali complesse al di là della mafia (...).
Lo stragismo non segna solo la fine convulsa della prima repubblica nel 1992-1993, ma anche il suo inizio. La Prima Repubblica viene tenuta a battesimo dalla strage politico-mafiosa di Portella della Ginestra del 1 maggio 1947 che segna l’inizio della strategia della tensione e vede interagire gli stessi personaggi che saranno all’opera nei decenni successivi in altre stragi e progetti eversivi: mafiosi, mandanti politici, pezzi deviati dello Stato, massoni ed esponenti della destra eversiva. Da allora il gioco grande non ha mai subito interruzioni e ha visto spesso tra i suoi coprotagonisti la mafia. Nel 1970 la mafia viene coinvolta, come hanno raccontato Buscetta e Calderone, nel progetto del golpe Borghese che vide scendere in campo la stessa formazione del 1947. E ancora viene coinvolta nella strategia della tensione che insanguinerà il paese dal 1969 in poi. Alla fine del 1969 Cosa Nostra aveva programmato una serie di attentati che dovevano essere eseguiti con ordigni esplosivi da collocare in varie città italiane come Palermo, Catania ed Enna (...).
Potrei citare molti altri esempi, mi limito solo a ricordare che la strage del Rapido 904 consumata il 23 dicembre 1984 con 15 morti e 267 feriti, ebbe tra i suoi artefici Pippo Calò, i cui rapporti con la massoneria e con la destra eversiva sono stati processualmente provati. In tante, in troppe di queste stragi si sono verificati depistaggi e coperture degli esecutori materiali da parte di esponenti delle istituzioni certificate anche in sentenze definitive. È certo inquietante prendere atto che anche nelle indagini per le stragi del 1992-’93 si sono verificati depistaggi che ricordano quelli del passato: la sottrazione dell’agenda rossa di Borsellino, l’inquinamento con falsi collaboratori delle indagini sulla strage di via D’Amelio.
Perché ho voluto tracciare questo telegrafico excursus del gioco grande del potere e del protagonismo della mafia in questo gioco?
Perché vi sono molti elementi che inducono a ritenere che anche lo stragismo del 1992-‘93 sia stato un gioco grande nel quale si sono saldati convergendo – come in passato – interessi mafiosi e interessi di soggetti esterni che nel disegno stragista si sono inseriti orientandolo nei tempi, nei modi, negli obiettivi, in modo da conseguire obiettivi che inglobavano quelli mafiosi, ma avevano un respiro e un orizzonte più ampio.
Una “nuova strategia della tensione in Italia”
Mi limito a indicare alcuni elementi che peraltro sono noti agli specialisti della materia. Il 4 marzo 1992, otto giorni prima dell’omicidio di Salvo Lima, Elio Ciolini, già coinvolto nelle indagini per la strage di Bologna e detenuto in carcere, scrive una lettera al giudice istruttore Grassi il cui titolo è “Nuova strategia della tensione in Italia – Periodo marzo – luglio 1992”. Ciolini anticipa che nel periodo marzo-luglio sarebbero avvenuti fatti intesi a destabilizzare l’ordine pubblico come esplosioni dinamitarde, sequestro ed eventuale omicidio di esponente politico Dc ed eventuale omicidio del futuro presidente della Repubblica. Pochi giorni dopo l’omicidio Lima da lui preannunciato, il 18 marzo Ciolini rivela in un altro appunto che il piano era stato deciso da esponenti di massoneria, politica e mafia. (...)
Nella parte finale dell’appunto scrive: “Creare intimidazione nei confronti di quei soggetti e Istituzioni stato (forze di polizia ecc.) affinché non abbiano la volontà di farlo e distogliere l’impegno dell’opinione pubblica dalla lotta alla mafia, con un pericolo diverso e maggiore di quello della mafia”.
Si tratta non solo di una straordinaria anticipazione della tempistica e degli obiettivi della fase stragista che si consuma nel 1992 in Sicilia, ma anche dell’ anticipazione del successivo trasferimento della strategia stragista fuori dalla Sicilia, nel Centro Nord e della spiegazione dei motivi.
I registi del piano avevano previsto che dopo la prima fase, si doveva distogliere l’impegno dell’opinione pubblica dalla lotta alla mafia, creando un pericolo diverso e maggiore. A tale fine le stragi dovevano essere effettuate al Centro Nord, dovevano essere attribuite non più alla mafia ma a fantomatiche sigle eversive (e infatti vengono rivendicate con la sigla Falange armata) portando il terrore in tutto il paese con effetti destabilizzanti dell’intero sistema politico che si voleva portare al collasso. Come faceva Ciolini a sapere con così largo anticipo tutto quanto sarebbe poi in effetti accaduto? Pochi giorni dopo l’omicidio Lima, il 19 marzo 1992 veniva pubblicato su una rivista vicina ai servizi segreti un articolo nel quale si rivelava che quell’omicidio era solo l’incipit di una strategia della tensione che aveva obiettivi e ispiratori politici. L’articolo descriveva un piano di destabilizzazione la cui esistenza e configurazione sarebbero state rivelate nei medesimi termini, solo alcuni mesi dopo, da alcuni collaboratori di giustizia. Costoro dichiaravano che verso la fine del 1991 si erano tenute delle riunioni tra i vertici regionali di Cosa Nostra nelle campagne di Enna in esito alle quali si era deciso di aderire a un progetto di destabilizzazione politica che aveva tra i suoi artefici esponenti della massoneria deviata, del mondo politico e della imprenditoria (...).
Chi e perché aveva deciso che Falcone, invece di essere facilmente ucciso a Roma con colpi di arma da fuoco, doveva essere assassinato a Palermo con un’enorme quantità di esplosivo in grado di uccidere insieme a lui anche un numero elevato di altre vittime? Nessun collaboratore è stato mai in grado di spiegare il motivo di quel cambio di strategia e chi la suggerì. Riina è tra i pochissimi a sapere la verità. Proseguendo nella indicazione degli elementi di emersione del gioco grande sotteso alla strategia stragista, possiamo ricordare che il 21 e 22 maggio 1992 l’agenzia di stampa vicina ai servizi sopra menzionata anticipò in due articoli che stava per verificarsi un bel botto esterno per influenzare l’elezione del presidente della Repubblica in corso di svolgimento.
Giovanni Brusca, uno degli esecutori materiali della strage di Capaci, ha dichiarato in dibattimento che la tempistica della strage aveva consentito di conseguire l’obiettivo di mettere fuori gioco Giulio Andreotti dalla corsa alla presidenza della Repubblica.
I quesiti senza risposta nel biennio delle bombe
Chi aveva suggerito a Riina oltre che le modalità esecutive anche la tempistica? Riina sa la verità. E ancora è interessante constatare come dopo che Claudio Martelli, Ministro della Giustizia, aveva varato il decreto Falcone che introduceva il 41 bis anche per i mafiosi, si siano mossi contro di lui contemporaneamente i mafiosi che progettarono un attentato, ed alcuni esponenti della P2 che iniziarono una campagna di stampa nei suoi confronti rivelando circostanze decisive circa il suo coinvolgimento nella vicenda del Conto Protezione che determinarono l’inizio di un procedimento penale e le sue conseguenti dimissioni. Si tratta di una singolare coincidenza di tempi o di una sinergia non casuale? Poco dopo le dimissioni giunse una telefonata della Falange Armata con la quale si comunicava che Martelli doveva essere grato che per lui era stato perseguita la via politica anziché quella militare. E ancora: chi era il soggetto esterno a Cosa Nostra che, come ha rivelato Gaspare Spatuzza, assistette al caricamento dell’esplosivo nell’autovettura utilizzata per la strage di via D’Amelio? Perché dopo il rapimento del figlio del collaboratore di Giustizia Santino Di Matteo, la moglie del Di Matteo in una conversazione intercettata del 14.12.1993 scongiurò il marito di non parlare degli “infiltrati” nella strage di via D’Amelio? Chi erano quegli infiltrati? E chi suggerì di scegliere per gli attentati consumati a Roma nella notte tra il 27 e il 28 luglio le Chiese di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro? È un caso che quelle chiese avessero il nome di battesimo di Giovanni Spadolini e di Giorgio Napoletano, rispettivamente presidenti del Senato e della Camera? È un caso che Spadolini nel 1992 avesse fatto riferimento in varie interviste a un resoconto dei servizi segreti su rapporti intessuti di recente tra la mafia siciliana e alcuni settori della vecchia e nuova P2 e svesse indicato i vertici P2 come un grave pericolo per la democrazia? Come si spiega che nella stessa notte si verificò un black out dei centralini di alcune sedi di governo? Perché l’allora premier Carlo Azeglio Ciampi maturò, come lui stesso ha dichiarato, la convinzione che fosse in atto un progetto di colpo di Stato, convocando in via straordinaria il Consiglio supremo di difesa? Cosa si cela dietro lo strano suicidio in carcere di Antonino Gioé, esecutore della strage di Capaci, depositario di scottanti segreti e in contatto con i servizi, il 29.7.1993 due giorni dopo le stragi di Milano e Roma? É vero che, come afferma il collaboratore Di Matteo, Gioè stava per iniziare a collaborare con la giustizia? Perché e chi dispose un’esercitazione militare tra il 9 e l’11 novembre 1993 per l’ipotesi di guerra civile? E cioè proprio nello stesso periodo in cui veniva progettata la strage allo stadio Olimpico? Potrei continuare con decine di quesiti inquietanti, ma mi fermo qui.
Credo che quanto ho sin qui frammentariamente ricordato dia il senso di un possibile fuori scena, di un “gioco grande” che da sempre aleggia intorno alle ricostruzioni processuali sin qui effettuate come una matrioska più grande che contiene matriosche più piccole.
Un gioco grande che qualcuno teme possa di-svelarsi e irrompere sulla scena processuale se dovesse cedere qualche punto del sistema che sino a oggi e riuscito a blindare nel segreto i retroscena della stagione 1992-‘93.
Spero fortemente che abbiano ragione coloro che ritengono che le minacce di Riina siano solo lo sfogo e il delirio di onnipotenza di un uomo ridotto all’impotenza. Perché se così invece non fosse, quelle minacce suonerebbero come una sorta di chiamata alle armi per tutti coloro che come Riina e più di Riina hanno interesse a che questa parte della storia resti per sempre segreta, e che sulla scena restino solo un’icona assoluta del male di mafia come Riina e solitari paladini del bene come Falcone e Borsellino, da celebrare nelle cerimonie ufficiali senza porsi troppe domande scomode alle quali non si può dare risposta. A quelle domande la magistratura palermitana continuerà a cercare di dare risposta, costi quel che costi.

Repubblica 16.1.14
L’ultimo scivolone di Marino
Il supermanager dei rifiuti licenziato il primo giorno di lavoro
È indagato per reati ambientali: l’aveva nascosto
di Giovanna Vitale


ROMA — Non ne azzecca una, il sindaco Marino. Con le nomine è sfortunato assai. Non fa in tempo a scegliere un dirigente comunale o il manager di una società partecipata — dopo mesi di analisi dei curricula, colloqui coi candidati, liti estenuanti coi partiti — ed ecco che qualcosa va storto. È successo con il comandante dei vigili, Oreste Liporace, che non aveva i requisiti richiesti per l’incarico; accade oggi con Ivan Strozzi, presidente e ad di Ama, risultato indagato per traffico illecito di rifiuti a neppure sei giorni dalla nomina.
«È la maledizione del curriculum », ridacchiano nei corridoi del Campidoglio i consiglieri di maggioranza, da sempre piuttosto critici nei riguardi di un metodo («Affidarsi ciecamente a un’autocertificazione ») che azzera la politica e finisce per non premiare il merito, visti gli incidenti di percorso. Non proprio casi isolati. Anche il capo segreteria del vicesindaco, per dire, è stato costretto a lasciare perché beccato senza laurea pur avendo dichiarato il contrario, con tanto di finto diploma allegato.
Ora come allora l’epilogo è lo stesso. Il centrodestra fa fuoco e fiamme, accusa Marino di «incapacità » e chiede le dimissioni dell’assessore all’Ambiente, che verrà formalizzata oggi nella mozione di sfiducia presentata in aula da un’opposizione per la prima volta compatta: dalla Destra al M5S passando per Fdi, Ncd e lista Marchini. Un problema serio, per l’amministrazione di centrosinistra: il voto segreto e il malpancismo della maggioranza potrebbero ingrossare le fila dei franchi tiratori. E se la mozione dovesse passare, significherebbe sfiduciare l’intera giunta,non un singolo assessore.
Una mina che il primo cittadino ha cercato di disinnescare sollecitando il subitaneo passo indietro dell’ingegnere 68enne arruolato meno di una settimana fa alla guida di una delle aziende più problematiche della città. Quella, per intenderci, che fra Natale e Capodanno ha fatto fare a Roma una figuraccia planetaria con la foto i maiali fra i sacchi abbandonati in periferia. Si era impegnato a risanarla, Strozzi: «Riporteremo trasparenza e legalità in azienda», le sue prime parole. Dimenticando però di rivelare al sindaco quel piccolo particolare: la notifica dell’atto di conclusione delle indagini per traffico illecito di rifiuti recapitatagli a ottobre dalla Procura di Patti, in Sicilia, per una vicenda di sette anni fa, quando lui era ad di Enia, multiservizi di Parma Piacenza e Reggio Emilia (poi diventata Iren). E a poco vale la difesa: «Si tratta di accuse risibili e infondate, l’inchiesta ipotizza reati compiuti tra il 2005 e il 2008 da una società messinese, partecipata al 12% da Enia, dove io sono arrivato nel 2006. Quota che ho poi liquidato nel giro di dieci mesi».
Marino non vuole sentir ragioni. «Sono furibondo, con Strozzi abbiamo avuto non uno ma due colloqui, non ci ha mai neppure accennato di avere un problema del genere». Un’omissione «gravissima » che inevitabilmente «fa venire meno la fiducia». Dunque all’ingegnere, nonostante le ottime referenze («Aveva lavorato con Delrio a Reggio Emilia e con Chiamparino aTorino: entrambi mi avevano parlato bene di lui») è stato intimato lo sfratto. «Mi dispiace per l’equivoco in cui ho indotto il sindaco» reagisce a caldo lui, «non lo avevo informato dell’indagine perché non lo ritenevo necessario, è stata una leggerezza di cui mi assumo la responsabilità». Ora si ricomincia daccapo. «Entro due o tre giorni» sarà comunicato «il nome del nuovo presidente dell’Ama» fa sapere il Campidoglio. Ribadendo che «verrà usata la stessa procedura: l’analisi dei curricula ». Perseverare è diabolico, tranne che per Marino.

La Stampa 16.1.14
Dietrofront del Pd sulla cannabis
Manconi ci riprova
Nuovo testo per la liberalizzazione a scopo terapeutico
di Francesco Grignetti

qui

il Fatto 16.1.14
Gruppo Espresso
La Repubblica si rimangia i prepensionamenti
Si dimettono tre membri del Comitato di redazione, La solidarietà è più vicina
di Marco Franchi


Si riapre la partita sul piano esuberi del gruppo editoriale L’Espresso. Le tensioni in seno alle redazioni di Roma e Milano del quotidiano La Repubblica, infatti, hanno fatto saltare il banco delle trattative tra i giornalisti e l’azienda. Secondo quanto riportato da MF, al termine dell’assemblea di martedì 14 gennaio il comitato di redazione si è spaccato con le dimissioni di tre (uno di Roma e due delle redazioni locali tra le quali Milano) dei cinque membri. La frattura ha portato alla decadenza dell’organismo di rappresentanza dei giornalisti e al rinvio sine die del negoziato con l’amministratore delegato Monica Mondardini. A far precipitare la situazione, dopo che sul finire del 2013 le redazioni (440 giornalisti) avevano approvato con un referendum l’opzione dei 48 prepensionamenti obbligatori, è stata la mozione presentata in apertura di assemblea dalla redazione di Roma, e poi approvata con 170 voti a favore contro 130, che rimette in discussione tutta l’intesa già sottoscritta a dicembre con l’azienda per avviare alla pensione anticipata 59 redattori sessantenni passando da un periodo minimo di cassa integrazione. A dicembre le preferenze della maggioranza dei giornalisti (soprattutto quelli delle sedi periferiche come Milano) erano andate ai prepensionamenti scartando l’opzione della riduzione generale degli stipendi. Con la nuova mozione la maggioranza chiede invece che la cassa integrazione sia solo per coloro che volontariamente decidono di andare prima in pensione. In questo modo possono trattare con più forza una buonuscita o, se non giudicano congruo lo scivolo aziendale, possono restare in redazione senza finire nelle maglie della cig. L’inversione di rotta è stata sostenuta soprattutto dalle firme della sede centrale di Roma del quotidiano diretto da Ezio Mauro, compresi alcuni vicedirettori. Ora però c’è il rischio che la cassa integrazione venga fatta scattare per tutti oppure che l’azienda proponga l’opzione solidarietà per l’intero organico.

il Fatto 16.1.14
Fiction e realtà
Sofri e Calabresi, vi racconto la storia
di Massimo Fini


Nel serial documentaristico Gli anni spezzati (gli anni di piombo) Rai Uno si è anche occupata dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi avvenuto il 17 maggio del 1972. Quella mattina mentre il commissario usciva di casa, in via Cherubini 6, e stava per salire sulla sua 500, fu avvicinato alle spalle da un uomo che sparò due colpi di pistola, uno alla nuca, l’altro alla schiena, poi risalì su una 125 blu guidata da un complice e sparì nel traffico.
É CURIOSO che in questo documentario, nel complesso abbastanza sgangherato non si facciano mai i nomi degli assassini (se non nei titoli di coda): Adriano Sofri, il leader carismatico di Lotta Continua, Giorgio Pietrostefani, il suo braccio destro, condannati a 22 anni di carcere come mandanti, di Ovidio Bompressi e Leonardo Marino esecutori materiali del delitto (il primo sparò, il secondo guidava la 125 blu). Come se si volesse rimuovere dalla memoria dell’opinione pubblica non solo i responsabili di quel delitto ma anche l’ambiente in cui maturò. É strabiliante che si tenti questa obliterazione mentre, pur essendo quei fatti assai lontani, molti testimoni del tempo sono ancora vivi.
Io sono fra questi. Nel 1972 facevo il cronista all’Avanti! e abitavo in via Verga a non più di duecento metri da via Cherubini. Fui uno dei primi ad arrivare sul luogo del delitto. Il corpo di Calabresi era già stato portato via, ma sull’asfalto c’erano ancora pozze di sangue mentre qualcuno stava spazzando via, mischiandoli a della segatura e buttandoli in una di quelle palette che servono per sbarazzarsi della spazzatura, brandelli di cervello.
Lotta Continua e il suo settimanale, di cui erano o erano stati o sarebbero stati direttori-prestanome intellettuali di più o meno chiara fama, da Piergiorgio Bellocchio a Pio Baldelli, Pasolini, Adele Cambria, Pannella, Giampiero Mughini, aveva condotto una feroce campagna contro il commissario Calabresi accusandolo di essere il responsabile della morte dell’anarchico Pino Pinelli “caduto” nella notte fra il 15 e il 16 dicembre dal quarto piano della Questura di Milano dopo tre giorni di interrogatori in seguito alla strage di Piazza Fontana avvenuta pochi giorni prima (12 dicembre).
Conoscevo bene gli ambienti anarchici. Nel 1962 quando facevo la prima liceo al Berchet, un gruppo di giovanissimi anarchici aveva rapito a Milano il viceconsole spagnolo (a cui peraltro non verrà torto un capello) per cercare di impedire la condanna a morte di un antifranchista, Conill Valls. Alcuni di quel gruppo venivano dal Berchet, ne erano usciti da pochissimo. Altri giovani anarchici, Tito Pulsinelli, Joe Fallisi, Della Savia li avevo conosciuti in seguito in uno dei bar di Brera, frequentato anche da Calabresi, poliziotto moderno, abile e accattivante, che girava in maglione, avevo incontrato anche Pino Pinelli, più anziano degli altri, sulla quarantina, che faceva il ferroviere. Pinelli era il classico anarchico d’antan, lo era culturalmente e sentimentalmente, ma come uomo era mitissimo, uno che non avrebbe fatto del male a una mosca. Che si fosse gettato dal quarto piano gridando “É la fine dell’anarchia! ” andandosi a spiaccicare nel cortile della Questura, che era la versione della polizia, pareva a tutti inverosimile. Da qui la campagna contro Calabresi (che verrà poi assolto da ogni addebito perché al momento del volo di Pinelli non era nella stanza, c’erano altri poliziotti) condotta da Lc ma anche, sia pur con toni meno accesi, dall’Espresso e dall’Avanti!. Le indagini invece di puntare su Lotta Continua, il cui giornale nel titolo e nell’editoriale di Sofri aveva sostanzialmente plaudito all’omicidio (c’era stata anche una riunione del Direttivo di Lc in cui si era discusso se attribuirsene anche materialmente la paternità) si diressero a destra. Perché in quegli anni postsessantottini in cui quasi tutti i giornali e i giornalisti se la davano da rivoluzionari era un delitto di lesa maestà indagare a sinistra, anche se la stella a cinque punte delle Br aveva già cominciato a brillare. Mi ricordo il tempo che si perse a seguire le piste di un giovane estremista di destra, Gianni Nardi, figlio di una facoltosa famiglia di San Benedetto del Tronto. Passarono così inutilmente gli anni e alla fine l’omicidio Calabresi fu archiviato fra i tanti casi irrisolti della recente, e torbida, storia italiana.
SEDICI ANNI DOPO, nel 1988, Leonardo Marino, un ex operaio della Fiat, ex militante di base di Lc, che vendeva frittelle in un baracchino ambulante di Bocca di Magra, mentre molti suoi compagni di origine borghese, Sofri compreso, si erano ben sistemati nei giornali, nell’editoria, nella politica e, più in generale, nell’intellighentia, si autodenunciò per l’omicidio Calabresi: lui e Ovidio Bompressi erano stati gli esecutori materiali, Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani i mandanti. Marino non era un pentito, diciamo così, classico, non era in prigione, non era indagato, nessuno lo cercava, viveva tranquillo a Bocca di Magra, non aveva nessun interesse a confessare un omicidio che gli sarebbe costato undici anni di galera (anche se poi, grazie proprio alla capacità degli altri imputati a portare il processo per le lunghe, la sua pena cadrà in prescrizione, ma al momento della sua confessione Marino questo non poteva saperlo).
Al processo, iniziato nel novembre del 1989, Sofri e gli altri si difesero malissimo. Negando anche l’evidenza. Negando che esistesse un secondo livello di Lc dedito agli “espropri proletari”, cioè alle rapine. Una di quelle rapine fu compiuta con la mia macchina, una Simca coupè rossa che un mio amico, Ilio Frigerio, militante di Lc, mi aveva chiesto per uscirci, disse, con una ragazza, la sera. Me l’avrebbe riportata la mattina dopo. E in effetti la mattina la macchina, intatta, era nel mio garage. Qualche tempo dopo Ilio mi confessò che aveva dato la mia macchina ad altri militanti di Lc che avevano bisogno di un’auto “pulita” per fare una rapina. In quanto a Pietrostefani dalle sue dichiarazioni sembrava che in Lc fosse stato solo di passaggio. Mentre tutti sapevano che se Sofri era l’ideologo Pietrostefani era il capo dell'organizzazione. “Chiedilo a Pietro”, dicevano i militanti di Lc quando c’era un problema di questo genere da risolvere.
DURANTE I VARI processi che si conclusero nel 1997 con una condanna definitiva della Cassazione, e anche dopo, venne fuori tutto il ripugnante classismo dell’entourage degli ex Lotta Continua (Roberto Briglia, Gad Lerner, Luigi Manconi, Marco Boato, Paolo Zaccagnini, Enrico Deaglio, Guido Viale): la testimonianza di Leonardo Marino non valeva niente, perché era un venditore di frittelle, un ex operaio, un plebeo, niente a che vedere con la raffinatissima intelligenza di Sofri. Una degna conclusione per chi era partito per buttare giù dal trespolo i padroni.
SOFRI HA AVUTO otto processi, due sentenze interlocutorie della Cassazione, una assolutoria (la cosiddetta “sentenza suicida” perché il dispositivo era volutamente in stridente contraddizione con la motivazione), quattro condanne. Ha goduto anche di un processo di Revisione, a Venezia, cosa rarissima in Italia che probabilmente nemmeno Silvio Berlusconi riuscirà a ottenere. E anche il processo di Revisione ha confermato la sentenza definitiva della Cassazione del 1997. Nessun imputato in Italia ha mai avuto le garanzie di Adriano Sofri. Nonostante tutto ciò la potente lobby di Lotta Continua, divenuta trasversale e incistata in buona parte dei media, ha continuato a proclamare a gran voce la sua innocenza e a pretenderne la scarcerazione per grazia autoctona del Capo dello Stato. Nel frattempo Sofri è diventato editorialista principe del più venduto settimanale di destra, Panorama, e del più importante quotidiano della sinistra, La Repubblica. Per meriti penali, suppongo, perché in tutta la sua vita Sofri ha scritto solo due pamphlet, mentre proprio la prigionia gli avrebbe dato la possibilità di scrivere, perché il carcere è un posto atroce ma ha infiniti tempi morti (Caryl Chessman, Il bandito della luce rossa, condannato a morte per dei presunti stupri, scrisse in galera quattro libri, fra cui due capolavori: Cella 2455 braccio della morte e La legge mi vuole morto). Quando, a volte, un’università o qualche liceo mi invitano a tenere lezioni di soi-disant giornalismo e, alla fine, i ragazzi mi si affollano attorno e mi chiedono come si fa a diventare giornalista, rispondo: “Uccidete un commissario di polizia o, se non avete proprio questo stomaco, prendete tangenti come Cirino Pomicino”.
Indubbiamente Adriano Sofri, da giovane, aveva un indiscutibile carisma. Anche un uomo di forte personalità come Claudio Martelli ne subiva il fascino se ha chiamato Adriano uno dei suoi figli in omaggio all’amico. Io questo fascino non l’ho mai capito. Era piccolo, mingherlino, il mento sfuggente del prete, l’aspetto molliccio per nulla virile. Ma, si sa, le vie del carisma sono misteriose. Il giornale di Lotta Continua pubblicava le foto, i nomi, gli indirizzi, i percorsi, le abitudini di fascisti o presunti tali, alcuni dei quali aggrediti sotto casa, specialità della ditta, sono finiti in sedia a rotelle. Almeno questo dovrebbe far riflettere i difensori d’ufficio di Adriano Sofri.

La Stampa 16.1.14
Vattimo vuole restare a Bruxelles
E chiede un posto ai Cinque Stelle
di Alberto Infelise


TORINO Se il pensiero debole e la visione apocalittica di Gaia possano in qualche modo convivere è un quesito che, per quanto bizzarro, potrebbe trovare presto una risposta. Gianni Vattimo annuncerà oggi la sua ultima incarnazione politica. Il filosofo e parlamentare europeo, ex Pds, ex Pdci, ex Idv intende gettare alle ortiche tutti gli ex -ismi e abbracciare di slancio la causa del Movimento 5 Stelle.
L’articolata motivazione della decisione, Vattimo la spiegherà (gesto grillino in sé) con un post sul suo blog: una sorta di mini autobiografia politica, dettagliata e ricolma di particolari (Vattimo ascrive a sé la primogenitura dell’uso del termine «rottamazione» in politica) nel descrivere la storia di un serio professore che una ventina di anni fa decise di «scendere in politica» esponendosi anche a una serie di sconfitte e dinieghi da parte della politica togata. Sconfitte e dinieghi ai quali mai il professore ha pensato di arrendersi. Il fil rouge (come direbbero gli europeisti Gennaro Olivieri e Guido Pancaldi) che lega questa storia è da ricercare, secondo Vattimo, nella sua costante ansia «anti sistema» che ora vede in Grillo & Associati gli unici degni alfieri. «Anche lì e soprattutto lì dice Vattimo c’è una sinistra»: affermazione che rischia di mandare in tilt i server di Casaleggio, ma tant’è.
Certo, il processo di grillizzazione non è stato semplice. Anche perché il leader pentastellato non rispondeva al telefono. Poi però ha alzato la cornetta e il colloquio pare sia stato amichevole, cordiale e pieno di attestati di stima reciproca.
Ora la macchina è avviata: Vattimo è già iscritto al Movimento e al Movimento porta in dote il suo seggio a Bruxelles, dove per ora di 5 Stelle non se ne vedono. In più le sue battaglie per la causa No Tav ne fanno un esponente potenzialmente gradito al Movimento e a parte della sinistra. Niente corsie preferenziali per l’illustre nuovo acquisto, però: dovrà anch’egli sottoporsi all’approvazione della rete per entrare nella lista dei candidati. E diventare così il secondo professore a Cinque Stelle. Dopo Paolo Becchi.

La Stampa 16.1.14
Io ebrea contro il Giorno della Memoria
di Elena Loewenthal


Il brano che anticipiamo è tratto dalla pagine conclusive di Contro il Giorno della Memoria (sottotitolo Una riflessione sul rito del ricordo, la retorica della commemorazione, la condivisione del passato), il pamphlet di Elena Loewenthal che esce oggi per Add editore (pp. 93, € 10).
Nel libro l’autrice, scrittrice e studiosa di ebraismo, dà voce ai suoi dubbi intorno alla
ricorrenza che si celebra ogni 27 gennaio, anniversario della liberazione del Lager di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa nel 1945, in ricordo delle vittime della Shoah.

Come si fa a scendere a patti con una storia così? Come si fa a farci i conti? A togliersela dalla testa, a non trasformarla in un’ossessione, a evitare che ti si aggrovigli dentro? pensare che possa lasciarti in pace anche soltanto un momento, per tutti i giorni della tua vita?
Niente da fare.
Te la trascini dietro. Sai che ci stai dentro e non ne esci più anche se sei nata dopo.
Forse, ogni tanto speri di poterla dimenticare. È pura illusione, è un auspicio che affidi, caso mai, alle generazioni successive. Ma altro che memoria, culto della memoria, celebrazione della memoria, moralità della memoria. Per te che sei nata dopo, cioè per me, il vero sogno sarebbe poterla dimenticare, questa storia. Rimuovere la Shoah dall’universo della mia coscienza e dal mio inconscio, soprattutto. Smettere, ad esempio, di sentirmi l’intestino in gola ogni volta che vedo e sento passare un treno merci con il suo sferragliare pesante, la lentezza del moto e del suono che assorda, la parete impenetrabile dei vagoni.
Altro che GdM. Ci vorrebbe quello dell’oblio, per me. O almeno la possibilità di sistemare tutta quella memoria su una nuvola, come si fa adesso. Non perché sia vuoto, anzi. L’oblio non si fa con il vuoto, ma con il pieno, come il troppo pieno. È una forma di difesa dall’angoscia, una pulsione di vita, l’oblio: così spiega Simon Daniel Kipman in L’Oubli et ses vertus. Anche lui, che è psicoanalista, al dovere della memoria contrappone il diritto all’oblio e soprattutto il diritto alla trasformazione in tracce meno tossiche e più confortevoli dell’«iscrizione traumatica e traumatizzante del ricordo».
Se solo la si potesse dimenticare, questa storia. Non i suoi morti, che poi sono miei, ma la storia in sé. Le leggi razziali, le persecuzioni, i treni con i deportati, le camere a gas, le torture, le fucilazioni di massa, le violenze assurde. Perché mai coltivarne la memoria, se non per continuare a star male? Ma l’autolesionismo non fa parte della mia identità, né del mio bagaglio morale o teologico. L’ebraismo è una cultura della vita, ha fede nella vita. Non coltiva la morte.
Pensare che gli ebrei ambiscano a celebrare questa memoria significa non provare nemmeno a mettersi nei loro panni. Quella memoria è scomoda, terribile, respingente.
Ne farei tanto volentieri a meno, non finirò mai di ripeterlo.
È la prima cosa da chiedere, appuntata nella mente, se mi capitasse di nascere un’altra volta, con la possibilità di opzione: grazie, questo no. Né prima né durante né dopo. Mettetemi in un mondo dove non c’è la Shoah.
Anche per questa ragione, o forse in primo luogo per questa ragione, io rinnego il GdM: non mi appartiene, non gli appartengo, non riguarda me e la mia, di memoria. La mia memoria non comunica. Malgrado la mia vicinanza estrema e quotidiana, provo una frustrazione terribile che è la conseguenza di una distanza minima, ma insormontabile. A un passo di lì ci sono quel dolore, quelle paure. Lo so, ma non posso far nulla per condividerlo, per sentirlo, per renderlo comunicabile. Non lo è né lo sarà mai. Come non è veramente condivisibile alcuna sofferenza al mondo, del resto. [...]
Ma ovviamente l’oblio non è una terapia culturale accettabile. Viviamo in un tempo che celebra la memoria come valore e l’oblio come difetto. Ricordare è un bene di per sé. Siamo portati a considerare questo come un assunto indiscutibile. Ma forse non è così. Forse anche le società hanno bisogno di dimenticare – le ferite, i torti perpetrati e quelli subiti. Come l’individuo, che per riprendersi deve rimuovere i traumi almeno in parte, almeno per un certo tempo.
Al di là di questo, il GdM sta dimostrando, purtroppo, che la memoria non porta necessariamente un segno positivo, non è utile o benefica di per sé. Può rivoltarsi e diventare velenosa. Scatenare il peggio invece di una presa di coscienza. Come aiuta molti a capire, come fa opera istruttiva, così il GdM è diventato il pretesto per sfogare il peggio, per riaccanirsi contro quelle vittime, per dimostrare che sapere non rende necessariamente migliori. Di fronte ad alcuni, diffusi fenomeni, la reazione istintiva è ormai quella di rammaricarsi della conoscenza acquisita: se circolasse meno memoria, se di Shoah non si parlasse tanto e disinvoltamente, forse si eviterebbero esternazioni verbali – e a volte non solo verbali – che sono un insulto rivolto a tutti. Ai morti, ai sopravvissuti, ma soprattutto alla società civile contemporanea. In sostanza, in questi ultimi anni la memoria non si è dimostrata particolarmente terapeutica: se di certe cose si parla molto più che in passato, è anche vero che non di rado se ne parla offendendo la memoria – sempre che abbia senso, l’espressione «offendere la memoria»: caso mai si offendono i vivi, perché i morti, purtroppo per loro, non si offendono più. È quasi come se la celebrazione della memoria avesse autorizzato la sua stessa violazione. Per questo ogni tanto il silenzio sarebbe auspicabile.
Ma la violazione peggiore, quella più grave e sicuramente più gravida di conseguenze, è quella di considerare il GdM come l’occasione di un tributo agli ebrei, un postumo e ovviamente simbolico risarcimento.
Non è, non dovrebbe essere nulla di tutto questo.
Il GdM riguarda tutti, fuorché gli ebrei che in questa storia hanno messo i morti. Che non l’hanno ispirata, ideata, costruita e messa in atto. Che non l’hanno neanche vista, in fondo: ci sono precipitati dentro. Era buio. Gli altri sì che hanno visto. È questo sguardo che dovrebbe celebrarsi nel GdM. Allora nel presente, oggi verso il passato.
E non è uno sguardo nemmeno consolatorio. [...] Ma non certo per far sì che non accada mai più. La memoria non porta con sé alcuna speranza. La cognizione del male non è un vaccino. «Ricordare perché non accada mai più» è una frase vuota. Se anche non dovesse accadere mai più, non sarà per merito della memoria, ma del caso.

La Stampa 16.1.14
Se il dovere del ricordo genera i Dieudonné
di Paolo Modugno


PARIGI Dice Alain Finkielkraut: «L’antisemitismo contemporaneo non è più razzista, ma si presenta come antirazzista». E aggiunge: «l’antisemitismo degli oppressi suscita più comprensione e indulgenza nella Francia del XXI secolo di tutte le altre forme di razzismo». Lo scandalo Dieudonné rivela la difficile questione della preservazione della memoria della Shoah. Finkielkraut, filosofo di origini ebraiche, abituato a demolire i luoghi comuni, è pessimista: «Siamo di fronte a una difficoltà insormontabile. Le persone che vengono allo spettacolo di Dieudonné hanno la sensazione di esser state ingozzate dall’insegnamento della memoria. Si vorrà senz’altro combattere il male con il dovere di memoria, e ciò non farà che aggravarlo. Non ho soluzioni».
Ma chi sono gli spettatori di questo comico di colore il cui spettacolo è stato bloccato dal ministro dell’Interno Manuel Valls per i contenuti antisemiti? Chi i suoi 500 mila fan su Facebook? Molti giovani, non solo di origine immigrata, anche di sinistra, che vivono nei quartieri popolari. Spiega André Déchot, autore di La Galaxie Dieudonné: «Il loro tratto comune è la mancanza di punti di riferimento storici e politici. Per loro la quenelle [un misto di un saluto nazista represso e del gesto dell’ombrello, ndr] è prima di tutto un gestaccio rivolto al potere che non si occupa di loro».
Le Monde ha indagato questa «génération Dieudonné» scoprendo fisionomie sorprendenti. Nico, 22 anni, studente di Giurisprudenza alla Sorbona, alle ultime elezioni ha votato, al primo turno, per il Nuovo partito anticapitalista e al secondo per il Partito socialista. È un fan di Dieudonné da quando aveva 16 anni e si chiede: «La Shoah deve essere il tabù per eccellenza? Il miglior modo di riconoscere la nostra storia passa attraverso il fatto di poterci ridere sopra: ridere della schiavitù, della colonizzazione e della Shoah. Se c’è una cosa di cui bisogna ridere, sono proprio le comunità, tutte le comunità, è il solo modo per arrivare all’ideale repubblicano delle origini». Hedi, di padre tunisino e madre francese, 35 anni, diplomato a Sciences Po, aggiunge: «A scuola ci parlano dei crimini della Germania, e molto meno di quelli della Francia: la colonizzazione e la schiavitù. Dieudonné ha puntato il dito su questo fenomeno e per tutti noi giovani di origine immigrata è stata una rivelazione: finalmente qualcuno ne parlava».
L’affaire Dieudonné è dunque al cuore del problema della memoria della Shoah e del difficile equilibrio da trovare con la memoria di altri crimini storici. Secondo Henry Rousso, autore di Le Syndrome de Vichy, «si è raggiunto il limite dell’idea secondo la quale coltivare la memoria della Shoah avrebbe una funzione civilizzatrice immediata, costituirebbe un modo di educare e di prevenire. Oggi, nell’air du temps, si respira una certa insofferenza: “Basta con la memoria della Shoah!”. Gli ultimi testimoni stanno per scomparire: cosa ne sarà della memoria domani?». «La cosa di cui ho più paura», conclude Rousso, «è il fatto che Dieudonné fa dell’antisemitismo un’ideologia di rottura con una dimensione popolare, antisistema, dicono, mentre prima si trattava essenzialmente di un’idea di estrema destra».

il Fatto 16.1.14
Dieudonné deve tacere?
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, non credo che chiudere i teatri e la bocca di Dieudonné, il feroce comico antisemita, sia la cosa giusta. Troverà sempre un blog o un microfono. Non è meglio abbandonarlo per la sua squallida strada e negargli attenzione?
Mara

NON FUNZIONA COSÌ. Ce lo insegna la Storia. Raccomando la lettura di un testo di storia contemporanea americana, “Il giardino delle bestie” di Erik Larson. È la biografia di William E. Dodd, primo ambasciatore americano nella Berlino di Hitler, che ha testimoniato, scritto, denunciato, raccontato invano al suo Paese e al mondo ciò che stava accadendo in Germania dalla “Notte dei cristalli” (distruzione di centinaia di negozi ebrei, aggressioni, violenze e vittime) in avanti. I rapporti di Dodd al Dipartimento di Stato venivano accantonati perché “certamente esagerava”. Quando Dodd ha spiegato che i suoi diplomatici di origine ebrea non venivano ricevuti dalle autorità naziste, Washington gli ha proposto di sostituire il personale ebreo dell’ambasciata con dei cristiani. L’argomento era: “Sono momenti di assestamento di un grande Paese: noi abbiamo interesse a tenere rapporti amichevoli. In questo modo, gradatamente, la fiammata di ostilità verso gli ebrei si spegnerà. Guai a incoraggiare questi isolati atti di teppismo parlandone in giro per il mondo. Da soli si stancheranno”. Lungo questa strada di tolleranza (che copriva una vera e profonda indifferenza di molta classe dirigente americana per le discriminazioni razziali) si è arrivati ad Auschwitz. È importante ricordare ciò che l’ambasciatore Dodd scriveva a Roosevelt (il solo, ma da solo, che concordava con lui). Scriveva nel 1934 che “la maggior parte dei tedeschi ha ripugnanza per i metodi nazisti”. Scriveva nel 1938: “È impressionante, quasi tutti sono d’accordo con Hitler e in favore degli arresti, delle aggressioni, dei pestaggi, che si moltiplicano contro gli ebrei”. Non dite che il caso Dieudonné è troppo piccolo. Anche il nazismo comincia molto in basso. E benché sia arrivato fino a Heidegger, non potrete dire che è nato nelle università. Ma attenzione. Se da un lato, nel punto più basso della Francia, (neri e bianchi, islamici e cristiani festosamente insieme) sentite la voce razzista e fascista di Dieudonné, dall’alto della politica solida e affermata potete ascoltare la signora Le Pen e le sue idee sul mondo. Strano che Dieudonné e la Le Pen, xenofoba e accanita nemica degli immigrati, dicano le stesse cose. Ma l’antisemitismo e il suo alibi preferito, l’antisionismo, sono radicati da secoli nel peggio del mondo e il peggio del mondo è molto prolifico. In questo momento e in questa Europa un intero civilissimo Paese come l’Ungheria è diventato entusiasticamente anti-ebreo al punto da espellere, discriminare, censurare, bruciare i libri dei grandi poeti ebrei di quel Paese chiave della cultura europea. L’Ungheria è membro dell’Unione europea, non ha sforato il 3 per cento, ma ha approvato dozzine di leggi neonaziste. Avete sentito una voce sola da Strasburgo o da Bruxelles? Ecco perché nessuno deve tacere sullo scandalo Dieudonné né in Francia né in Europa. Bisognerà rivedere e respingere l’idea che il Dipartimento di Stato, annoiato dai rapporti sull’antisemitismo, esprimeva all’ambasciatore americano a Berlino nel 1934: “Non si preoccupi, passa”. Noi sappiamo che non passa, e che alla prima occasione peggiora e diventa malattia infettiva. Urge medicina preventiva, visto che la brutale vaccinazione del 1945 sembra avere esaurito su molti il suo effetto.

Corriere 16.1.14
La battaglia di Vera contro oblio e ingiustizia
di Antonio Ferrari e Alessia Rastelli


La storia di Vera Vigevani Jarach, ebrea italiana che fuggì in Argentina dopo le leggi razziali, attraversa il Novecento: il nonno morì ad Auschwitz; la figlia Franca, 18 anni, fu sequestrata e gettata in mare da un aereo della morte del dittatore argentino Videla. Vera aveva un desiderio: «Un viaggio nella memoria».

Lager e torture, il viaggio di Vera nel buio La storia di un’ebrea italiana: nonno ad Auschwitz, figlia desaparecida in Argentina Vera Vigevani Jarach, ebrea italiana che vive in Argentina, aveva un desiderio. Il «Corriere della Sera» l’ha aiutata a realizzarlo. Questa donna di ottantacinque anni, giornalista per quattro decenni all’ufficio dell’«Ansa» di Buenos Aires, ha attraversato, nel Novecento, due tragedie che l’hanno segnata per sempre: ha perso il nonno materno, Ettore Felice Camerino, mandato al gas ad Auschwitz dagli aguzzini nazisti; e ha perso la figlia Franca, di diciotto anni, sequestrata, torturata e gettata in mare (viva) da un aereo della morte del dittatore Videla. «Non ho tombe sulle quali piangere. Mio nonno è diventato il fumo di un camino, mia figlia riposa in fondo al mare», racconta Vera, che si definisce «militante della memoria».
In visita l’anno scorso al Binario 21 della stazione Centrale di Milano, da cui partivano i treni dei deportati ebrei, diretti ai campi di sterminio di Auschwitz-Birkenau, Vera racconta di aver avuto uno «schianto». Una folgorazione diventata il desiderio imperativo di «fare un viaggio nella mia memoria».
La proposta è arrivata al «Corriere» attraverso il cugino di Vera, Marco Vigevani. Il direttore Ferruccio de Bortoli l’ha accolta e ci ha incaricato di realizzarla. Ci siamo così messi in viaggio con Vera. E la sua storia è il nostro tributo a quella che non è soltanto una «giornata» ma è ormai diventata «la settimana della memoria».
L’idea è stata di realizzare il lavoro in due tempi, coinvolgendo l’intero sistema del «Corriere della Sera». Dal 20 gennaio il nostro sito Corriere.it trasmetterà la web serie in sei puntate Il rumore della memoria. Il viaggio di Vera dalla Shoah ai desaparecidos . Il giornale di carta accompagnerà ogni puntata con storie e approfondimenti raccolti nel percorso con Vera.
I contenuti, sia scritti sia multimediali, saranno disponibili sulle nostre piattaforme per tablet e smartphone e si apriranno alla condivisione e al dialogo con i lettori attraverso gli account del «Corriere» sui social network. Nelle prossime settimane, inoltre, sarà prodotto un film-documentario.
Per fare tutto questo avevamo bisogno di un grande regista. La scelta si è concentrata su Marco Bechis, che firma sia la web serie sia il film. Direttore di opere importanti come Garage Olimpo , che riguarda proprio le detenzioni clandestine volute dalla dittatura argentina, lui stesso desaparecido negli anni Settanta, arrestato, torturato, e fortunatamente liberato, Bechis era la persona più adatta a entrare fino in fondo nel mondo di Vera.
Come autori del progetto, insieme allo stesso Bechis e a Caterina Giargia, abbiamo scelto di seguire linearmente il viaggio di Vera. Abbiamo iniziato incontrandola nella sua casa di Buenos Aires e raccontando le vicende e lo stato d’animo di una madre cui hanno sottratto e ucciso l’unica figlia.
Con lei siamo entrati nella Esma, la scuola ufficiali della Marina militare, nel sotterraneo e nella mansarda usati come luoghi di prigionia e di tortura. Ai tempi della giunta, uno dei principali responsabili dell’operazione desaparecidos era l’ammiraglio Emilio Eduardo Massera, direttore della Esma ed iscritto dal 1976 alla loggia massonica P2 di Licio Gelli (tessera numero 1755). Siamo stati al Parco della memoria di Buenos Aires, tra i banchi di scuola di Franca, nella cabina telefonica (poi trasformata dai militari in un improbabile bagno) usata dalla figlia di Vera, e dagli altri prigionieri, per chiamare i genitori e rassicurarli. Ovviamente sotto la pressione dei militari.
Dall’Argentina siamo poi tornati con Vera in Italia, in primo luogo a Milano, dove la donna visse da bambina sperimentando la persecuzione antiebraica e da dove suo nonno fu deportato ad Auschwitz.
Abbiamo visitato la scuola elementare «Morosini», dalla quale nel 1938 Vera fu espulsa. Le leggi razziali, promulgate dal governo di Mussolini, per compiacere i nazisti di Adolf Hitler, privavano infatti i genitori del lavoro e i figli del diritto all’istruzione. Ma l’Italia non fu un blocco granitico, e non lontano dalla «Morosini», in via della Spiga, nel cuore di Milano, vi era (e vi è ancora) un’altra scuola dove nel ‘38 lavorava il professor Bronzino. Docente che andava a scuola in orbace e con la camicia nera, ma che rifiutava l’idea che vi fossero bambini privati della possibilità di studiare. Contribuì quindi ad aprire la scuola, al pomeriggio, per i bambini ebrei, con insegnanti israeliti. Vera ha incontrato gli alunni di oggi sia nell’istituto da cui fu espulsa sia in quello dove fu accolta.
A questo punto, la testimone si è concentrata su quanto accadde al nonno, appunto Ettore Felice Camerino. Mentre tutta la famiglia aveva deciso di partire da Genova per Buenos Aires, all’inizio del 1939, il nonno, che all’epoca aveva 68 anni, si era rifiutato. Per due ragioni: aveva un negozio di mobili antichi e si riteneva troppo anziano per rifarsi una vita; era assolutamente convinto che, in Italia, agli ebrei non sarebbe successo nulla di irreparabile. Invece, alla fine del ‘43, dopo l’8 settembre, la situazione divenne drammatica. Il nonno cercò di fuggire in Svizzera. Insieme con lo storico della Resistenza Franco Giannantoni, abbiamo accompagnato Vera nel punto dove Camerino tentò di attraversare il confine, attivando però i campanelli della rete che separava i due Paesi. Arrestato dalla Guardia di finanza, fu consegnato ai nazisti, rinchiuso nel carcere di Varese, poi a Milano a San Vittore.
Il 30 gennaio 1944, dal Binario 21, fu scaraventato in un vagone del convoglio numero 6, sul quale si trovava — poco più che bambina — anche Liliana Segre. Arrivarono entrambi ad Auschwitz il 6 febbraio: Camerino fu mandato subito «al gas», la Segre è sopravvissuta ed è diventata una testimone. È stata lei ad accompagnare Vera a visitare il Memoriale della Shoah sorto al Binario 21, dove, in grande, è stata impressa sulla pietra la parola «Indifferenza». L’indifferenza che ha accompagnato le sofferenze dei deportati. A San Vittore erano stati salutati con affetto dagli altri prigionieri ma per le strade di Milano, molti tra coloro che sapevano si girarono dall’altra pare.
Il viaggio ha fatto tappa alla risiera di San Sabba a Trieste. Poi abbiamo trascorso con Vera, cui non mancano coraggio e determinazione, due giorni nei campi di sterminio di Auschwitz e Birkenau.
«Continuo a chiedermi come sia stato possibile. — riflette lei ad alta voce —. Non mi vengano a dire che i nazisti erano pazzi. No, non erano pazzi, ma lucidissimi nella loro ferocia. Voglio incontrare i ragazzi dappertutto. Mi sento viva, mi sento appunto una militante della memoria».
Il Corriere l’ha aiutata a realizzarlo. Dal 20 gennaio online su Corriere.it la web serie di Marco Bechis e subito dopo anche un film documentario.

il Fatto 16.1.14
Match senza gara Tra realtà e velleità
India batte Italia 2 marò a zero
di S. Ci.


Esperti in imbarazzi e inefficienze gli uomini, e le donne, delle istituzioni italiane tentano la carta dell’indignazione contro le lungaggini giuridiche per sfilare i due marò dalle mani del potere indiano. All’ennesimo riaccendersi della questione che da ormai quasi 2 anni (era il febbraio 2012 quando i due fucilieri di Marina furono arrestati per l’uccisione di due pescatori presi per pirati) funesta l’immagine diplomatica di Roma, suonano i tamburi di guerra per mobilitare la patria nel nome dell’onore - e della vita - di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Delegazioni parlamentari s’apprestano a partire per New Delhi per testimoniare vicinanza con i militari del battaglione San Marco, “reclusi” nell’ambasciata italiana. Anche esponenti dei 5 Stelle si dovrebbero recare in India per cercare di capire come stanno le cose. Nel frattempo il governo italiano ha fatto ricorso presso la Corte suprema indiana per gli evidenti ritardi della giustizia asiatica: in 2 anni i 2 marò non sono nemmeno stati incriminati, ma hanno visto più volte aleggiare sul loro capo la pena di morte. Anche il ministro degli Esteri indiano ammette l’“imbarazzante” ritardo.
MA L’ATTEGGIAMENTO italiano pare incapace di sfuggire al cliché della democrazia occidentale nei confronti di “paesi in via di sviluppo”. È vero che la lentezza dei tribunali indiani ha portato la questione a divenire un tema della campagna elettorale - si vota a maggio - nel quale il partito al governo rischia per via dell’“italiana” Sonia Gandhi (capo del partito del Congresso e madre del suo candidato), ma i politici romani paiono dimenticare che l’India è la più popolosa democrazia al mondo, 1 miliardo e oltre 200 milioni abitanti e in costante espansione economica e diplomatica: un gigante mondiale di fronte a un’Italia che perde posizioni.
La Corte suprema a New Delhi ha fatto sapere di esser pronta a discutere della richiesta italiana già lunedì, e a Roma si spera che possa essere il momento decisivo, benché ogni volta che la giustizia asiatica abbia promesso di prendere una decisione si sia persa in garbugli e rinvii molto italici.
 
Corriere 16.1.14
In Siria
Captagon, l’anfetamina che alimenta la guerra
di Davide Frattini


GERUSALEMME — La vecchia macchina artigianale ricorda un grammofono. Serviva a produrre caramelle, adesso nel cono di alluminio vengono versati gli ingredienti per realizzare le pasticche che dal laboratorio tra le montagne della Bekaa viaggiano sui camion fino al porto di Beirut e dal Libano verso i Paesi del Golfo. Dove il consumo di questa droga chiamata Captagon è in crescita come le violenze in Siria. Il regime e i ribelli si accusano reciprocamente di alimentare con il traffico gli acquisti di armi, di rinvigorire con le anfetamine la voglia di combattere dei soldati e dei miliziani.
Il Captagon è il nome commerciale di un farmaco proibito negli anni Ottanta, veniva prescritto ai ragazzini affetti dal disturbo da deficit d’attenzione e iperattività. Le tavolette da spaccio, tipo ecstasy, hanno mantenuto lo stesso nome e lo stesso componente (la fenitillina), sono popolari in Kuwait, a Dubai, in Arabia Saudita, dove a metà settembre dell’anno scorso un trafficante siriano è stato impiccato: i giovani del regno consumano un terzo della produzione mondiale e la produzione mondiale è concentrata tra Libano e Siria.
Nel 2013 i poliziotti di Beirut hanno sequestrato oltre 12 milioni di pasticche e hanno intensificato le operazioni contro i clan. Il colonnello Ghassan Chamseddine, che comanda la narcotici locale, racconta alla rivista Time come le bande sunnite siriane della zona di Homs si siano spostate in aree più sicure verso il Libano, da dove restano coinvolte nel conflitto che va avanti da quasi tre anni. «Con un paio di operazioni possono guadagnare fino a 300 milioni di dollari (oltre 220 milioni di euro) — spiega — e con quei soldi comprano armi». Per aiutare i ribelli in questo caso, per sovvenzionare i soldati di Hezbollah e i miliziani del regime, quando nei traffici di Captagon sono gli avversari a mettere le mani.
Due ricercatori israeliani dell’Istituto internazionale per il contro-terrorismo di Herzliya spiegano in uno studio del 2013 che Hezbollah ormai si paga le spese anche con i farmaci contraffatti (non solo Captagon, pure pillole di Viagra). Anche se i leader del movimento sciita negano di essere coinvolti nei traffici di stupefacenti, qualche boss locale ammette che i sostenitori nella Bekaa potrebbero finanziarsi attraverso le anfetamine.
Comprare una pasticca costa attorno ai 7 euro e gli attivisti siriani raccontano che il consumo è cresciuto tra i civili, qualche ora di euforia per provare a dimenticare la guerra. Un agente della sicurezza interna assicura all’agenzia Reuters di averne notato gli effetti sui dimostranti e sui ribelli presi prigionieri. «Possiamo picchiarli e loro non sentono il dolore, ridono sotto i colpi».
L’opposizione accusa invece gli shabiha , le squadracce formate da alauiti pro-Assad, di essere implicati da sempre nel commercio: «La situazione è peggiorata con il conflitto. I criminali, i drogati possono fare quello che vogliono perché la gente è in miseria, non ha un lavoro. I soldati prendono il Captagon per reggere ai turni di guardia la notte o prima di andare in battaglia e non sentire la paura».
I ribelli fondamentalisti del Fronte Al Nusra proclamano di voler reprimere il traffico e l’uso di droghe. Spesso però — racconta un capo del gruppo a Time — devono lasciar correre perché gli abitanti dei villaggi si ribellano: trasportare le pasticche al di là delle montagne è rimasto l’unico modo per sfamarsi.

Corriere 16.1.14
La Gran Bretagna fuori dall’Europa non è solo una minaccia elettorale
di Fabio Cavalera


Più si avvicinano le elezioni e più i conservatori di David Cameron urlano contro l’Europa. Che vi sia la preoccupazione di perdere tanti voti a favore della destra di Nigel Farange (l’Uk Independence Party, Ukip), che fa della guerra all’Unione la sua bandiera, è fin troppo evidente. La speranza che hanno è di recuperare un po’ di consensi.
L’ultimo colpo di frusta è del cancelliere dello scacchiere George Osborne: o si riforma l’Europa o il Regno Unito esce dal club dei 28. Londra vuole riprendersi alcuni dei poteri delegati a Bruxelles. L’ennesima minaccia. Ma liquidare le «provocazioni» dei conservatori semplicemente come un’arma elettorale ad uso interno è riduttivo.
David Cameron ha promesso un referendum sull’Europa nel 2017 al quale intende presentarsi con un nuovo patto di Unione. L’euroscetticismo di Cameron e di Osborne è profondo. E non è finalizzato a provvisori giochini elettorali. È qualcosa che appartiene alla loro sfera culturale e politica, alla loro nostalgia di una Gran Bretagna imperiale e dominante, alla loro aspirazione (legittima) di pensarsi protagonisti della globalizzazione come nazione e non come Europa. Accettano l’Europa se snellisce il mercato, se stimola la competizione e se non vi sono ingerenze nelle politiche di casa. Il loro è un protezionismo politico più che economico.
L’Europa con la sua burocrazia asfissiante ha consegnato agli euroscettici più di un motivo (fondato) per organizzare le barricate. Le riforme della Ue sono necessarie. David Cameron lo sa e spinge, confidando sulla sponda di Angela Merkel e di altre capitali (non esclusa Roma). Il problema è che i suoi strappi e quelli del suo amico Osborne, ripetuti e a volte scomposti, non sembrano favorire il dialogo sull’integrazione funzionale quanto, piuttosto, prefigurano l’irrigidimento.
La strategia dell’accelerazione rischia di apparire un basso espediente elettorale. Ridisegnare l’Europa chiede tempo e mediazioni. E se Cameron ne ha poco (il 2015 le elezioni in Gran Bretagna e il 2017 il referendum) è perché si è voluto cacciare da solo in quello che potrebbe essere per lui un vicolo cieco.

Il Sole 16.1.14
Ancora concorrenza russa alla Ue
Se Putin prende in prestito l'Ungheria


A Budapest, come era già accaduto a Kiev, le linee politiche, spicce e informali, di Vladimir Putin si incrociano con un sentimento antieuropeo che ha trovato nuova forza nella grande crisi economica degli ultimi cinque anni. Ma se in Ucraina l'Unione era chiamata ad agire fuori dai suoi confini e si doveva scontrare con la capacità di influenza di Mosca sui Paesi del blocco sovietico, in Ungheria gli accordi sulle centrali nucleari e le possibili promesse di Mosca sui futuri sconti alla bolletta energetica, sono un intervento negli interessi diretti dell'Europa. L'Ungheria infatti è da dieci anni parte integrante della Ue. E per questo la stretta di mano con la quale Putin garantisce al premier magiaro Viktor Orban un prestito trentennale da 10 miliardi di euro per la costruzione di due reattori nucleari, è anche un chiaro messaggio a Bruxelles. Lo invia la Russia che senza nascondersi aspira a riaffermarsi come grande potenza mondiale, non solo economica. E lo sottoscrive Orban che nella sua controversa parabola politica - da leader liberista oppositore del regime postcomunista, a ultraconservatore nazionalista, a premier populista e liberticida - potrebbe aver trovato un nuovo amico. Un aiuto importantissimo, anche in vista delle elezioni di primavera, nella battaglia che - tra rischi di default e aspirazioni autarchiche - lo stesso Orban sta conducendo contro «le banche internazionali e i poteri forti che vogliono comandare in casa d'altri», contro il Fondo monetario internazionale e a ben vedere contro la stessa Unione europea.

La Stampa 16.1.14
“Ma ai greci serve un piano di rilancio senza austerità”
Il leader della sinistra Tsipras: il Paese è al collasso
di Marco Zatterin

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La Stampa 16.1.14
Hollande, il coming out è politico “Sono un socialdemocratico”
Tagli alla spesa e ai dogmi socialisti. Berlino applaude la gauche s’infuria
di Paolo Levi

qui

Corriere 16.1.14
Quando non si può rispettare la privacy
L’«affaire Julie», la vicenda psicosentimentale di François Hollande, sembra aver colpito gli italiani.


Per una questione di quantità (un’amante per volta!) e di qualità (una donna elegante!), cui non eravamo abituati. Per la solita curiosità legata al sesso: se in una notizia compare l’ombra di un reggiseno, lettori, ascolti e utenti si moltiplicano. Per un misto d’invidia e incredulità (lei così acuta, lui così rotondo!). Per l’originalità della vicenda: un Presidente francese che svicola fuori dall’Eliseo vestito da Mototopo non passa inosservato. A giudicare da quanto si legge e si sente, tuttavia, c’è dell’altro. La domanda — non nuova, sempre attuale — è questa: la vita privata di un uomo o di una donna è sempre inviolabile? Anche se quell’uomo o quella donna ci governano? Anche se certe informazioni ci permettono di valutarli, e magari non sceglierli più? La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (art. 12) recita: «Nessun individuo potrà essere sottoposto a interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesione del suo onore e della sua reputazione». Prego notare l’aggettivo: arbitrarie. La risposta, a mio giudizio, sta tutta qui. La vita privata di un personaggio pubblico è sacra, finché i due livelli non interferi- scono. In questo caso, prevale l’interesse pubblico. L’interesse a sapere, per giudicare e decidere: posso affidarmi a questa persona? Aveva ragione la principessa Diana a denunciare la persecuzione dei media, ha ragione suo figlio William a preoccuparsene: raccontare le vicende familiari dei Windsor può stuzzicare la curiosità, ma non ha giustificazio- ne. Aveva torto Silvio Berlusconi a lamentare l’intrusione nella sua vita privata. Certe abitudini — s’è visto — avevano risvolti giudiziari, finanziari, politici, istituzionali (chi ha messo Nicole Minetti in consiglio regionale?).
Quel tipo di vita ha avuto conseguenze fisiche e psichiche. Se chi guida un’automobile dev’essere in grado di farlo, perché non possiamo pretendere lo stesso da chi guida un Paese? Bill Clinton, il patrono laico del connubio sesso-e-politica, è un caso diverso. Ha rischiato la presidenza non per l’incontinenza sessuale, ma per l’imprecisione verbale: disse di non aver avuto rapporti sessuali con la signorina Lewinsky, ed era falso.
Gli americani di fine XX secolo erano pronti a perdonare una debolezza: non una bugia. Entrambi peccati orali, ma diversi.
Infine, ripetiamolo. La moltiplicazione degli obiettivi — ce n’è uno, potente, dentro ogni telefono — ha ridotto la possibilità di riservatezza. La tecnologia ha sconfitto la deferenza. Alla Casa Bianca, ai tempi di Jfk, entravano più ragazze che in una palestra di zumba; oggi diventerebbero le reginette di YouTube. I personaggi pubblici che non si rendono conto di tutto questo cercano guai. E li trovano, di solito. N’est-ce-pas, Monsieur Le Président?

Corriere 16.1.14
Faure e l’amante, quella notte fatale all’Eliseo
Il presidente morì in un amplesso, nella fuga Marguerite dimenticò il corsetto
di Stefano Montefiori


PARIGI — Il 13 gennaio 1898, Émile Zola pubblica sull’Aurore il suo «J’accuse…! », con il sottotitolo ben visibile «Lettera al presidente della Repubblica», ma il presidente Félix Faure non risponde. Mesi dopo la Francia si trova confrontata all’Inghilterra a Fascioda, in un incrocio epocale tra le due potenze coloniali impegnate nell’espansione una verso l’Est l’altra verso il Sud dell’Africa ma Faure ordina il ritiro, piegandosi alla determinazione britannica.
Due grandi occasioni mancate, per l’ex commerciante di pellami diventato presidente della Terza Repubblica, che riuscirà a passare alla storia comunque: se non per le imprese in vita, grazie all’agonia di morte cominciata tra le braccia dell’amante Marguerite Steinheil, il 16 febbraio 1899, all’Eliseo.
Félix Faure è, tra i molti capi di Stato erotomani francesi, quello che ha pagato alla passione il prezzo più alto. Al perfido Georges Clemenceau sono attribuite due battute che spiegano molto del protagonista in extremis Faure e delle circostanze della sua fine: «Félix Faure è tornato al nulla, si sentirà a casa sua», e soprattutto «Voleva essere Cesare, non fu che Pompeo», perché il capo di Stato amava notoriamente il lusso e i fasti presidenziali, ma morì per una prolungata fellatio.
Quel giorno Félix Faure aveva convocato Marguerite per le 17, dopo il Consiglio dei ministri, ma gli impegni di lavoro si prolungarono oltre il previsto e a quell’ora il presidente stava ancora discutendo con l’arcivescovo di Parigi e Alberto I di Monaco venuti a perorare la causa del capitano Dreyfus. Sembra che il 58enne Faure abbia preso una dose eccessiva di cantaride, il Viagra dell’epoca, prima di dedicarsi finalmente alla 29enne Marguerite.
Dal salone blu dell’Eliseo a un certo punto arrivarono le grida della donna, e il capo di gabinetto Le Gall entrò di corsa nella stanza. Vide Faure agonizzante, senza respiro, le mani che stringevano in uno spasmo i capelli di Marguerite urlante. La donna seminuda venne aiutata a divincolarsi e scappò via, dimenticando all’Eliseo il corsetto. Mentre il medico cercava invano di salvare il presidente dall’emorragia cerebrale, venne chiamato il prete per l’estrema unzione. Leggenda vuole che al suo arrivo il sacerdote chiese a una guardia «Il presidente mantiene ancora i sensi, la conoscenza?», per sentirsi rispondere «No, è appena scappata dalla scala di servizio».
La première dame Marie-Mathilde Berthe Belluot venne avvisata solo due ore dopo il malore, e l’agonia ne durò altre due: Faure esalò l’ultimo respiro tra le braccia della moglie mille volte tradita ma che provava per lui una ingiustificata ma vera devozione. Sapeva delle sue relazioni ma non gliene chiese mai conto, e quando il presidente le chiese di stare non accanto a lui ma un passo indietro, durante i ricevimenti all’Eliseo, lei acconsentì volentieri. «Era un così bravo marito», ripetè la première dame durante i funerali, al Père-Lachaise. Marie-Mathilde visse altri vent’anni dopo la morte di Faure, senza avvenimenti di rilievo, e non riuscì neppure a far sposare la figlia Antoinette a Marcel Proust, come le sarebbe tanto piaciuto. La maîtresse Marguerite Steinheil confermò invece di essere donna di carattere, sfruttando la dubbia e attraente fama ottenuta con la morte di Faure per intrecciare altre relazioni altolocate, per esempio con il ministro Aristide Briand e il re Sisowath della Cambogia.
Di Faure resta solo quel pomeriggio di amore e morte, e la fermata della linea 8 nel metro di Parigi.

Repubblica 16.1.14
Intervista a Marx
“Io sarei il guru del socialismo? Mi hanno preso troppo sul serio”
Lo storico Donald Sassoon ha provato a contattare nell’aldilà l’autore del “Capitale”
Il risultato è uno sguardo sull’oggi: ironico, ma non solo
di Donald Sassoon


IL LIBRO Intervista immaginaria con Karl Marxdi Donald Sassoon (Castelvecchi trad.
di Leonardo Clausi pagg. 50 euro 6) è il libro da cui prendiamo alcuni brani

Allora, dottor Marx, lei è davvero messo in soffitta adesso, o no? Quindici anni fa le sue teorie dominavano mezzo mondo. Adesso cosa rimane? Cuba? La Corea del Nord?
«Le mie “teorie”, come le chiama lei, non hanno mai “dominato”. Ho avuto dei seguaci che non mi sono scelto o cercato, e per i quali ho meno responsabilità di quante ne abbiano Gesù per Torquemada o Maometto per Osama bin Laden. I seguaci che si nominano da soli sono il prezzo del successo. La maggior parte dei miei contemporanei ci metterebbe la firma per essere “in soffitta” come lei pensa io sia. Scrissi che la questione era non di spiegare il mondo, ma di cambiarlo. E quanti eminenti vittoriani hanno fatto altrettanto?».
Ok. Nessuno sottovaluta la sua fama. Ma su questo deve essere d’accordo: il marxismo non è più quello di un tempo…
«In realtà il mio lavoro non è mai stato importante come adesso. Negli ultimi cinquant’anni ha conquistato le università dei Paesi più avanzati del mondo. Storici, economisti, politologi e anche, con mia grande sorpresa, alcuni critici letterari si sono tutti dati alla concezione materialista. La storia più interessante prodotta attualmente in Europa e negli Stati Uniti è più “marxistica” che mai. Basta andare alle convention della American Social Science History Association, che io visito regolarmente da spettro. Lì si esamina attentamente l’interconnessione di strutture istituzionali e politiche e del mondo della produzione. Parlano tutti di classi, strutture, determinismo economico, rapporti di potere, oppressi e oppressori. E fanno tutti finta di avermi letto – unchiaro segno di successo».
Calma. Andiamo avanti. Devo chiederle questo: l’Unione Sovietica, i gulag, il terrore comunista.
«Me l’aspettavo. Devo ammettere di essere vanitoso come chiunque altro e che tutto questo culto della personalità e venerazione di Marx mi ha toccato. Mi solleticava il vedere la mia faccia sulle banconote della vecchia DDR e una Marxplatz in ogni città prussiana. Certo, grazie alle abilità di marketing di Engels, gli sforzi di Bernstein e di quel noiosone di Kautsky, subito dopo la mia morte divenni il grande guru del movimento socialista. Di conseguenza gli occidentalizzatori russi mi presero sul serio come l’elettricità. Così non mi sorpresi quando Lenin decise di trasformarmi nella Bibbia. Lenin era un politico intelligente con un buon istinto. Ma era anche un fondamentalista determinato a trovare nel mio lavoro la giustificazione per qualunque cosa volesse fare. Inventò il “marxismo” man mano che andava avanti. Questa detestabile abitudine, tipica delle religioni da tempo immemorabile, si sparse ovunque. Cominciai ad avere la sensazioneche anche le mie liste della spesa fossero arruolate al servizio di questa o quella fazione del movimento. Prenda il concetto di “dittatura del proletariato”. Era una formula che avevo escogitato per suggerire, seguendo l’antico uso dei Romani, un governo eccezionale in tempo di crisi. Avrò usato quest’espressione non più di una decina di volte in vita mia. Non le sto a dire la sorpresa quando la vidi riemergere come idea centrale del marxismo, usata per giustificare il regime a partito unico. Che posso dire? E fui abbastanza sorpreso quando la prima cosiddetta rivoluzione socialista, tra tutti i popoli, avvenne in un Paese così profondamente primitivo e governato da slavi. Quello che stavano facendo i bolscevichi era compiere la rivoluzione borghese che la borghesia russa era troppo esigua e stupida per compiere. I comunisti usarono lo Stato per creare un sistema industriale moderno. Se questa è “dittatura del proletariato”…».
E a proposito dei suoi primi scritti sull’alienazione? I manoscritti del 1844 erano famosi negli anni Sessanta. Vi si vedeva un’attinenza col mondo contemporaneo.
«Sciocchezze. La ragione per cui non li pubblicai era perché erano sproloqui irrilevanti. È ovvio che l’intellighenzia piccolo borghese disillusa ci sarebbe andata a nozze. Sono una perdita di tempo».
Dunque non pensa che il suo rapporto con Hegel…
«Oddio, Hegel! Le dirò un segreto. Non ho mai veramente letto se non nel modo più superficiale, la Fenomenologia dello spirito di Hegel o la sua Logica. La vita è troppo breve».
Che ne pensa del socialismo di oggi?
«È stato in coma per molto tempo. Ha raggiunto il suo scopo: civilizzare il capitalismo nella sua terra d’origine. Non gli si poteva chiedere di più. Adesso sista estinguendo serenamente. Anche il comunismo è crollato, ora che ha raggiunto il suo, di scopo: la costruzione del capitalismo. Lo hanno capito bene in Cina, dove si giocherà il prossimo secolo. In Russia, dove stiamo assistendo alla transizione da lumpen- comunismo a lumpen-capitalismo, è un altro discorso. Ma cosa vuole mai costruire con i russi? Uno deve leggere i loro romanzi, ascoltare la loro musica, ma per quel che riguarda un’economia solida…».
E Blair, la terza via?
«Davvero devo esprimermi su gente del genere? Dire che la storia li dimenticherà è troppo. Non se ne accorgerà nemmeno. E questo mostra quanto siete scesi in basso. Ai miei tempi ce la vedevamo con Bismarck, Lincoln, Gladstone e Disraeli… Veri nemici ».
E l’America?
«Mi sono sempre piaciuti gli yankee: niente feudalesimo,niente tradizioni imbelli. Un sacco di ipocrisia e religione, certo. Ma escono in qualche modo più forti da ogni crisi capitalista. Un fantastico sistema di governo: democrazia truccata, elezioni truccate, sistema politico truccato, circondato da impostori e gretti avvocati. Questo consente al business di svolgere il proprio compito, comprare i candidati, una tangente qui, una tangente là. La gente non è coinvolta. La metà se ne frega di votare. Per l’altra metà la politica è un innocuo divertimento, come guardare Chi vuole essere milionario?».
E lei? Come passa il tempo?
«Io? Mi diverto. Con Friedrich giochiamo su internet. Lo sapeva che “Karl Marx” dà più di quattro milioni di risultati su Google? Abbiamo entrambi molti amici su Facebook e molti che ci seguono su Twitter».
Traduzione di Leonardo Clausi

Repubblica 16.1.14
Addio a Juan Gelma, il poeta dell’esilio
La sua battaglia contro la giunta Videla che gli aveva ucciso figlio e nuora
di Omero Ciai


Si racconta che Juan Gelman, il grande poeta argentino morto martedì scorso a 83 anni a Città del Messico, s’innamorò dell’esprimersi in versi da bambino, ascoltando il suo fratello maggiore mentre recitava Puskin in russo. Una lingua che lui non capiva perché era l’unico figlio nato, nel maggio del 1930, in Argentina di una coppia di ebrei ucraini emigrati nel Paese latinoamericano alla fine degli anni Venti. Gelman iniziò a scrivere poesie a otto anni e a undici pubblicò i primi versi. Giocò a calcio, studiò chimica. Ma alla fine divenne giornalista. Come molti adolescenti della sua generazione in Argentina fu prima comunista e poi montonero. I Montoneros erano un gruppo radicale di sinistra del peronismo che s’ispirava a Evita contro la deriva a destra dell’ultima presidenza di Juan Domingo Peron (1973-74) e che praticò anche il terrorismo e la guerriglia. Gelman fu sorpreso dal golpe militare del 24 marzo 1976 mentre si trovava in Europa. Da allora visse in esilio, prima a Roma, poi a Madrid, a Managua, a Parigi, a New York, e infine a Città del Messico dove si trasferì nel 1988. Pochi mesi dopo il golpe i militari arrestarono a Buenos Aires sua figlia Nora, diciannove anni, suo figlio Marcelo, vent’anni, e la moglie di quest’ultimo, Maria Claudia, diciannove anni. Erano andati a casa sua perché cercavano lui ma, non trovandolo, portarono via i figli e la nuora. Nora fu rilasciata mentre Marcelo e Maria Claudia vennero torturati, assassinati e fatti sparire diventando due degli oltre 30mila «desaparecidos» argentini della dittatura dei generali Videla e Massera. Solo due anni più tardi, nel 1978, da fonti della Chiesa cattolica, Gelman seppe che Maria Claudia al momento dell’arresto era incinta di sette mesi e che aveva partorito in carcere. Ma nulla di più. Nè il luogo, né il sesso. Da quel momento Gelman, «orfano di suo figlio», trascorse vent’anni — insieme alla prima moglie che era rimasta in Argentina e aveva partecipato alla fondazione dell’associazione delle «Abuelas de plaza de Mayo» — alla ricerca del nipote rubato dai militari. Una ricerca che divenne presto un movimento internazionale grazie all’appoggio di numerosi amici e intellettuali, da Gabriel García Márquez a José Saramago, a Dario Fo, a Günter Grass. Nel 1998 Gelman seppe che vent’anni prima sua nuora Maria Claudia era stata consegnata dai militari argentini a quelli uruguyani nell’ambito del Plan Condor, un accordo di collaborazione contro le opposizioni politiche fra le dittature latinoamericane (Brasile, Argentina, Cile, Paraguay, Uruguay) appoggiate dal governo americano e dalla Cia.
A Montevideo Maria Claudia era stata assassinata dopo aver partorito una bambina che era stata data in adozione ad un’altra famiglia. Due anni più tardi, e dopo violente polemiche con il presidente dell’Uruguay, Julio Maria Sanguinetti, e con l’esercito argentino, che negavano validità alle prove raccolte, Gelman riuscì ad identificare e incontrare sua nipote Macarena.
Poeta triste, ironico e sarcastico, Juan Gelman è considerato uno dei grandi autori del ‘900 in lingua spagnola e ha vinto numerosissimi premi letterari: dal Cervantes (nel 2007), una sorta di Nobel latino americano, al «Juan Rulfo», al «Neruda », fino al «Reina Sofia» per la poesia latinoamericana, ottenendo un riconoscimento vastissimo e unanime alla sua opera. Nonostante le dolorose cicatrici della dittatura e del lungo esilio dall’Argentina, Gelman ripeteva spesso di non aver mai scritto un solo verso dalla prospettiva dell’odio, semmai da quella dell’assenza, della perdita, della mancanza. Ex comunista e ex montonero — l’organizzazione argentina lo condannò a morte per tradimento nel 1979 — ha proseguito, fino alla fine, la sua militanza politica nella difesa internazionale dei diritti umani.

Repubblica 16.1.14
La necessità del Male
Ecco perché abbiamo bisogno di antieroi
Dalla serie tv cult “Breaking Bad” al film di Ridley Scott “The Counselor” il crimine paga Anche i conti della crisi
di Giancarlo De Cataldo


Walter White, protagonista di Breaking Bad, osannata serie TV americana, è un mite professore di chimica di mezza età che scopre di avere un cancro devastante e diventa un grande produttore di metanfetamina. In The Counselor, il film di Ridley Scott sceneggiato da Cormac McCarthy, Michael Fassbender è un avvocato di successo che, per avidità, si mette in affari coi narcos. Due eroi negativi che dovremmo esecrare. Invece ci seducono con il loro fascino nero. Stiamo con loro, anche se si macchiano di crimini orrendi e nella vita di ogni giorno ci guarderemmo bene dal frequentarli. Perché?
Le macchine narrative, quando sono ben fatte, agiscono a un livello più profondo. Entrano in risonanza con la nostra emotività. E grazie a loro apprendiamo rivelazioni inquietanti sulla realtà che ci circonda. È una realtà che ci offre continuamente film senza lieto fine. I nostri non arrivano mai in tempo. Per credere nell’avvento di un qualche salvatore bisognerebbe riporre un minimo di fiducia nelle capacità di autorigenerazione del sistema. O, per meglio dire, del mercato, che è l’unico valore ideologico oggi universalmente riconosciuto. Dovremmo raccontarci un’altra storia: il mercato, forza buona, è inquinato dal lato oscuro (narcos, faccendieri, truffatori, raiders).
A un certo punto scenderanno in campo i Jedi e rimetteranno le cose a posto. Sarebbe una storia fasulla. La gente non ci crede più. Gli artisti più sensibili si fanno interpreti di questo scetticismo.
Breaking Bade The Counselor ci sbattono in faccia la necessità dell’essere malvagi. Tutto, a prima vista, affonda radici nella crisi dello stato sociale. Walt White non può curarsi perché glielo impedisce una sanità perversa. Tanto perversa che gli americani sono convinti in maggioranza della sua validità: paradosso relativo, in un contesto puritano. Dio ti ha dato la salute perché ti vuol bene, se te la leva è perché devi aver commesso qualche peccato, e perché dovrei pagare io, che sono sano, per la tua malattia? A Walt si rompe qualcosa dentro. L’apologia della malvagità si fa critica radicale. Il Procuratore Fassbender, invece, è mosso dall’avidità. Ma è anche lui, a suo modo, una vittima della crisi. L’acuirsi del divario fra ricchi e poveri ha scavato un fossato tra due mondi che ragionano in termini di inclsione/esclusione. O dentro o fuori. E se per essere dentro bisogna darsi al crimine, anche questa è una forma di malvagità necessitata.
Il collante comune è la droga, potente motore dell’economia. Da tempo si fa un gran parlare dello shadow banking. Gli organismi internazionali hanno raccomandato massima vigilanza su questa zona grigia nella quale proliferano i fondi speculativi e operano soggetti che paiono sfuggire a ogni controllo. Da più di un centro finanziario si sono levate proteste raggelanti: vigilanza, certo, ma senza esagerare. Quei soldi ci servono, fanno bene al sistema. Il mercato ha perso ogni capacità di badare a sé stesso (ammesso che ne abbia mai posseduta una). Le regole che sovrintendono al traffico di strada e alla circolazione dei profitti ad alto livello sono sovrapponibili. La droga è la scorciatoia per il successo. Ma non è tutto qui. Sia nella serie che nel film di Scott, la critica sociale trasfigura in una dimensione dichiaratamente mitologica. La droga assume l’aspetto di un tramite con la divinità, come nel “soma” del mondo antico o nei rituali sciamanici. È potere ed è libidine, la droga. Se sostituiamo a una qualunque divinità dello sterminato pantheon religioso il Dio Denaro, i termini dell’equazione non cambiano. E la droga diventa il canale diretto che collega i sacerdoti della nuova ecclesia mercantile all’uno e indiscusso Moloch sociale.
Questi racconti sul Male mettono in scena memorabili bastardi, ma in realtà parlano di noi gente comune. Della nostra fragilità d’animo. Della nostra incapacità di fronteggiare la deriva. L’insospettabile affarista in guanti di velluto e il sicario che tortura e squartaa mani nude gli altri disgraziati come lui militano nella stessa paranza e ne sono tutti perfettamente consapevoli. Anche se i più beneducati cercano di nasconderlo, soprattutto a sé stessi. Perciò, paradossalmente, i buoni ci danno il cattivo esempio: perché ci ingannano, illudendoci che possa esistere un lieto fine. Ma attenzione. I “cattivi”, rispetto a noi, hanno un’arma in più: credono in sé stessi e nella strada che hanno scelto di percorrere. Sono cacciatori, e non hanno bisogno di giustificarsi. Né di provare pietà per la preda. «Il cacciatore ha una purezza di cuore che non esiste da nessun’altra parte», recita Cameron Diaz nel finale di The Counselor, «noi naturalmente siamo un’altra storia. Sospetto che siamo inadatti per la strada che abbiamo scelto. Vorremmo stendere un velo su tutto questo sangue e questo terrore. Ma non c’è niente di più crudele di un codardo, e probabilmente il massacro che verrà supera la nostra immaginazione». Come per il mite chimico Walter White e per l’ambizioso Procuratore, è dunque troppo tardi per tirarsi indietro?
Quando la malvagità si fa criterio di lettura del contemporaneo, c’è forse solo spazio per una dolente mediazione. E un mediatore è il protagonista di
La trasmigrazione dei corpi, folgorante romanzo breve del messicano Yuri Herrera (di prossima uscita per Feltrinelli). In una città sconvolta da un’epidemia, forse provocata ad arte dal governo per costringere la brava gente a starsene chiusa in casa, i mediatori trattano la restituzione dei corpi dei caduti nelle narcofaide. La loro è un’anomala forma di pietas: la stessa del soldato giapponese che si fa bonzo nel capolavoro di Ichikawa, L’Arpa Birmana. Un compito che può apparire insensato, perché la violenza sembra fuori controllo. Eppure, in questa insensatezza c’è un grido di dolore che sembra indicare l’unica strada possibile: deporre le armi, e, nell’attesa, organizzare una nuova, più convinta rinascita etica.

Repubblica 16.1.14
Beni culturali. Sì della Camera agli elenchi dei professionisti

ROMA — Ieri pomeriggio la Camera dei Deputati ha detto sì all’istituzione, presso il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, di elenchi nazionali di archeologi, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi, antropologi, esperti di diagnostica e di scienze e tecnologia applicate ai beni culturali, storici dell’arte a cui affidare gli interventi operativi di tutela, protezione, conservazione, valorizzazione e fruizione dei beni culturali. Il testo, approvato all’unanimità dall’Assemblea di Montecitorio, ora passa al Senato. Il ministro dei Beni culturali Massimo Bray ha espresso su Twitter la sua soddisfazione per l’approvazione del ddl alla Camera. Soddisfazione anche dalla Confederazione Italiana Archeologi: «Si tratta di un primo fondamentale passo verso il riconoscimento dei professionisti dei Beni culturali».

Repubblica 16.1.14
Regnò 3700 anni fa
Ritrovata la tomba del Faraone sconosciuto

ALCUNI archeologi americani dell’università della Pennsylvania, hanno ritrovato la tomba del faraone Senebkay, che regnò sull’Egitto circa 3700 anni fa. Lo ha dichiarato il ministro egiziano dell’Antichità, Mohamed Ibrahim. Il ritrovamento è avvenuto presso il sito archeologico di Abydos, nella provincia di Sohag, nel sud del paese. Qualche riferimento al suo nome figurava già nel “Papiro di Torino”, il leggendario “Papiro dei Re” (nella foto) custodito nel museo della città, che annota più di 300 nomi di faraoni. Gli archeologi hanno ritrovato lo scheletro del faraone — il sovrano probabilmente superava il metro e ottanta di altezza — e i vasi contenenti i suoi organi mummificati, mentre non è stato rinvenuto nessun ornamento funerario, a riprova che il sito è stato saccheggiato durante l’era faraonica. Secondo Ali el-Asfar, capo del dipartimento sui faraoni del ministero dell’Antichità, questo studio è «la prova che gli Hyskos, un popolo proveniente dall’attuale Siria, che aveva invaso e guidato l’Egitto intorno al 18esimo secolo a. C., in realtà non aveva il dominio sull’intero paese».

Corriere 16.1.14
Picasso al Prado? Musei in lite a Madrid

Si chiede il direttore del Prado di Madrid, Miguel Zugaza che cosa ci faccia ancora Guernica in un museo d’arte contemporanea. La sua tesi è che Picasso (foto) sia ormai un classico e tra i classici dovrebbero finire le sue opere. Però Guernica è il maggior richiamo del Reina Sofia, dirimpettaio del Prado, che all’ipotesi di scippo ha replicato: «Giù le mani». Ma forse è solo una sfida sul numero di visite. (a. ni.)