venerdì 17 gennaio 2014

La Stampa 17.1.14
Berlusconi spera nel patto con Renzi
Si lavora ancora all’accordo. Domani il segretario Pd
dovrebbe incontrare il leader di Forza italia
di Ugo Magri

qui

La Stampa 17.1.14
Renzi si accorda con Berlusconi
Lo sconcerto della sinistra D’Alema uscendo lo gela “Ormai siamo alle comiche”
di Carlo Bertini


Lo scontro più aspro si consuma nel finale di questo primo round di Direzione che avrà la sua resa dei conti lunedì prossimo. Quando Renzi nella replica liquida «la tripartizione governo-gruppi parlamentari-partito proposta da Speranza», dicendo «non è uno che tratta col premier e poi con i capigruppo, perché questa è la sede delle decisioni», il segnale arriva forte e chiaro. E ai bersanian-dalemiani annidati in sala non piace affatto quello che considerano il messaggio implicito, e cioè che a queste decisioni poi tutti si dovranno allineare. Così come non piace il rischio di rivitalizzare Berlusconi, «immaginate l’impatto simbolico di Berlusconi che entra nella sede del Pd mentre ancora non è chiuso l’accordo con gli altri», avverte il bersaniano D’Attorre. Ma è sulle liste bloccate che, vieppiù se decise in accordo con Berlusconi, si rischia una spaccatura del partito. Perché il timore è che poi siano solo i leader a scegliere quali debbano essere i candidati e a scartare i non graditi. E invece il doppio turno di collegio o le preferenze svincolerebbero di più le minoranze dal pugno di ferro dei leader. «Se si deve tentare di forzare nel voto finale alla Camera, devono seguirti pure quelli della minoranza del Pd, mentre se è il solo segretario a decidere della tua sorte e non gli elettori, l’intendenza potrebbe non essere motivata a seguirti», è la minaccia dei bersaniani. Ed era stato proprio Speranza a invitare Renzi a puntare sul «doppio turno, un modo per unire il Pd e in quel caso tutto sarà più facile...».
E anche se il voto in Direzione si conclude con una vittoria schiacciante di Renzi, 150 sì e 35 astenuti sulla sua relazione, lo scontro potrebbe scaldarsi nel redde rationem parlamentare di questa partita cruciale sulla legge elettorale, che il leader si gioca sapendo di rischiare «il tutto per tutto». È giocata «con azzardo, non si gestisce
un partito così, nei gruppi la maggioranza l’abbiamo noi, non può pensare di travolgerci tutti», sibila un dalemiano uscendo infastidito dal salone al terzo piano del Nazareno.
Insomma lo sconcerto della sinistra è palpabile, «siamo alle comiche», è il commento gelido di D’Alema con un compagno di partito, dopo la relazione del segretario. Un primo assaggio del fuoco amico va in scena dal palco, anche se in platea il sospetto è che un minuto dopo il varo di una nuova legge elettorale, il leader Pd staccherà la spina al governo. «Quella non può essere una clava su cui costruire un tranello per l’esecutivo», attacca l’ex responsabile giustizia Danilo Leva. Ma la sinistra parla con una voce sola, le stesse cose chiedono Cuperlo, i bersaniani Fassina e D’Attorre, e cioè sì al doppio turno, no al tandem con Berlusconi e un sostegno pieno e «convinto» ad un esecutivo da rinnovare però totalmente, sempre a guida Letta. Ma dietro le quinte c’è pure chi ammette che «comunque Renzi è stato abile. Ha smontato la critica che lui vorrebbe far cadere il governo, chiedendo un mandato sul pacchetto di riforme che comporterebbe un anno di lavoro ed è chiaro che sta alzando il tiro nella stretta finale della trattativa».
Fatto sta che Cuperlo fa notare che «è impossibile proseguire con l’elegante retorica del Bruto è uomo d’onore», perché «non è dato in natura un governo che non abbia un sostegno visibile e convinto del primo partito della coalizione. E non basta la formula “ok se fa bene, se no si stacca la spina”. Di fronte al rischio di un logoramento progressivo del governo, sarebbe saggio valutare le ragioni non di un rimpasto, ma di una vera ripartenza, verificando l’ipotesi di un nuovo esecutivo presieduto da Letta per un recupero di autorevolezza e prestigio». Ci pensa Fassina ad usare toni più tranchant, perché «questo governo sembra figlio di nessuno e non esiste che un governo sia sostenuto da chi ha perso il congresso».

La Stampa 17.1.14
La strategia di Matteo legata al Cavaliere
di Marcello Sorgi


Alla fine di una direzione per forza di cose interlocutoria, nella quale i dissensi della vigilia non hanno realmente pesato, Renzi ha chiesto al Pd un rinvio sulla legge elettorale, legato evidentemente all’incontro con Berlusconi previsto per sabato. Va da sé che se riuscirà a chiudere l’accordo con il Cavaliere, il previsto dibattito sul sistema elettorale che il partito dovrebbe scegliere non si riaprirà. Se invece l’ex-premier prenderà tempo, o rilancerà, com’è nel suo metodo, ancorando l’eventuale intesa allo sbocco elettorale anticipato nella prossima primavera, le cose diventeranno più complicate.
Tra le file dei dirigenti del Pd, a bassa voce, erano in molti ieri a chiedersi cosa possa aver convinto Renzi ad ancorare in modo così stretto la sua strategia a Berlusconi. È possibile che gli incontri con Verdini, plenipotenziario del Cavaliere, lo abbiano persuaso che l’accordo è a un passo e tanto vale cominciare a preparare il partito a questa eventualità. Ma se poi Berlusconi, come ha fatto tante altre volte, si ritira o cambia idea? Era questo l’interrogativo che aleggiava nella sala della direzione democratica. Il segretario ha spiegato che la sua proposta si articola in tre parti: nuova legge elettorale sì, ma all’interno di un quadro istituzionale che prevede, entro il 2015, anno in cui si dovrebbe tornare a votare per eleggere il nuovo Parlamento, anche la riforma, praticamente l’abolizione, del Senato, che verrebbe trasformato in una Camera non più elettiva ma composta dai rappresentanti delle autonomie locali, e la riscrittura del Titolo V, cioè il trasferimento di gran parte delle competenze statali alle regioni che tanti problemi ha sollevato in questi anni, dopo il primo ritocco, frettolosamente approvato dal centrosinistra nel 2001.
Se questa settimana si concluderà questa è almeno la previsione con l’appuntamento tra Renzi e il Cavaliere da cui dipendono le sorti della riforma elettorale, è nella prossima in realtà che dovrebbe sciogliersi l’intreccio tra questa trattativa, aperta, e l’altra sul nuovo patto di governo per il 2014 a cui ha ripreso ha lavorare ieri il premier Letta, appena tornato dal Messico.

La Stampa 17.1.14
E alla fine dedica al Jobs Act solo un minuto e 40 secondi

Doveva essere
un cardine del suo intervento sui «problemi reali»
di Roberto Giovannini


ROMA Chi si attendeva dettagli e chiarimenti sul cosiddetto «Jobs Act» da parte del segretario del Pd Matteo Renzi, in realtà ha avuto un’amara delusione. Nel suo intervento introduttivo, durato un’ora e dieci alla direzione del partito che in teoria doveva essere ampiamente dedicata al confronto sull’ambizioso progetto per creare nuova occupazione, il sindaco di Firenze in realtà ha dedicato all’argomento soltanto un minuto e quaranta secondi. Evidentemente, anche se spesso il segretario dei democratici ama ripetere che bisogna parlare dei temi che interessano da vicino gli italiani, altre questioni sono state considerate prioritarie.
Il primo riferimento di Renzi sui temi del lavoro riguarda il recente regolamento attuativo dell’accordo su rappresentanza firmato da sindacati e Confindustria. «Sulla rappresentanza si può fare di più e meglio dice ma intanto è la dimostrazione che se sfidiamo il sindacato a cambiare si ottengono risultati». Secondo concetto, è che riaprire la discussione sull’articolo 18 sarebbe solo una «grande manfrina», perché il «Jobs Act» è una «prospettiva per l’Italia» perché con le riforme istituzionali «non si mangia». «Se rimettiamo il Paese a discutere dell’articolo 18 afferma il segretario facciamo la solita grande manfrina mediatica
che entusiasma gli addetti ai lavori e non riusciamo ad essere credibili innanzitutto con i nostri. Il piano per il lavoro non è la discussione tra liberisti e non liberisti, ma è una prospettiva per l’Italia. Dovrà essere licenziato dalla direzione, continuo ad affermare la centralità della direzione, perché la ritengo fondamentale».
Fine del tempo dedicato al progetto di «Jobs Act» nell’introduzione del segretario. Non è dunque un caso se, successivamente, Pippo Civati usa la chiave dell’ironia nei confronti del segretario, per chiedere che la discussione sul piano per il lavoro abbia una base più concreta. «Matteo dice Civati dacci un testo per favore. Io su alcune cose sono molto d’accordo. Su altre proprio no. Vorrei solo che avessimo un testo di riferimento quanto prima, per discuterne tutti quanti»

Il Sole 17.1.14
Cavaliere soddisfatto: intesa possibile


È soddisfatto Silvio Berlusconi. Il discorso di Renzi ha confermato che il sindaco cercherà l'intesa con lui sulla legge elettorale. I suoi emissari, da Verdini a Brunetta, ci stavano lavorando da giorni. Ma il passaggio in direzione non era così scontato. Ora l'ex premier vede più vicina la possibilità di un accordo in quell'incontro di domani che per lui sarà un'ottima occasione per uscire dall'angolo.
In particolare, Berlusconi ha condiviso il passaggio sulla necessità di mettere una pietra tombale sul potere di veto dei piccoli partiti. Stesso passaggio che, al contrario, ha alimentato i malumori di Angelino Alfano, che si vede scavalcato nella trattativa e che ora deve trovare un modo per rientrare in partita. Non che gli manchino le armi, vista la possibilità di mettere a repentaglio la vita del governo. Ma è chiaro che dovrà giocare bene le sue carte per non essere messo ai margini dall'accordo diretto tra Renzi e Berlusconi.
Il Cavaliere, da parte sua, punta molto sull'incontro con Renzi. La ribalta mediatica e politica che il segretario del Pd, incontrandolo, gli offre è un'opportunità. Una legittimazione della sua leadership e il riconoscimento di essere, nonostante la condanna definitiva e l'imminente decisione sugli arresti domiciliari o l'affido ai servizi, ancora tra i protagonisti della scena politica italiana. Tanto che c'è anche l'ipotesi che, dopo il faccia a faccia, Berlusconi possa convocare una conferenza stampa.
Berlusconi comunque non dovrebbe porre l'aut aut sul voto a maggio assieme alle europee in cambio dell'ok all'intesa sulla riforma elettorale. Il Cavaliere, secondo le stesse fonti, non mancherà di ribadire la necessità di tornare quanto prima alle urne, convinto di trovare in Renzi un interlocutore attento. La convinzione dell'ex premier, del resto - al di là delle valutazioni sull'opportunità o meno per Forza Italia di andare al voto a breve - resta quella che sarà proprio il segretario del Pd, direttamente o spingendo Ncd a farlo, a staccare la spina a Letta.


Corriere 17.1.14
Fibrillazioni dentro il partito
E il sindaco si prepara all’incontro con Berlusconi
Sulla riforma l’idea di evitare il doppio turno
di Maria Teresa Meli


ROMA — Massimo D’Alema va via prima. Per una volta l’ex presidente del Consiglio esce di scena non per marcare la sua presa di distanza dal segretario, ma per evitare di votargli contro. È la fotografia del nuovo Pd. È la fotografia della nuova direzione.
Matteo Renzi incassa, però è prudente. Non lo impensierisce il «no» di Cuperlo e non lo intimorisce la prospettiva che la minoranza lo attacchi perché incontrerà Silvio Berlusconi. Con il Cavaliere il segretario non sarà accomodante: «Quello è matto come un cavallo», dice ai suoi il sindaco, forse senza sapere che di lui, anche i fedelissimi, dicono la stessa identica cosa. «È legittimo e logico che io lo incontri», spiega il sindaco di Firenze. Che potrebbe vedere tra oggi e domani il leader di Forza Italia. Alle sei del pomeriggio, dicono al Pd. All’hotel Bernini, assicura qualcuno. A palazzo Vecchio, dice qualcun altro.
«Comunque lo farò davanti a tutti», sottolinea il leader del Partito democratico. Che su questo punto non torna indietro: «Ma vi pare che chi ha fatto il governo con Berlusconi, adesso venga a rompermi le scatole se lo incontro?». Con Letta i rapporti sono ridotti ai minimi termini. Se non altro perché Renzi ha detto sia al diretto interessato (ossia il premier) che a tutti quei pd che lo osteggiano, quali sono i termini della questione: «Se si fallisce sulla riforma perché approfittando dello scrutinio segreto qualcuno vota contro, il governo cade e si va alle elezioni. Vi conviene? È veramente questo quello che volete?». Una parte del Pd, che pure non condivide il programma e le parole di Renzi, non lo vuole. Ma c’è un pezzo di quel partito che non è disposto a dargli «la ditta chiavi in mano». Cone confessa Ugo Sposetti a Panorama nella rubrica di Kayser Soze, il nom de plume scelto da uno dei più stretti collaboratori di FI: «Matteo deve stare attento. Se si mette d’accordo con Berlusconi rischia di ripetere gli errori di Walter Veltroni, che si accordò sulla legge elettorale con il Cavaliere, poi perse le elezioni e il partito. Anche perché il Pd è spietato, carnivoro. Non è un partito padronale come Forza Italia, non perdona nessuno».
Il segretario, comunque, tira innanzi. I sondaggi di Alessandra Ghisleri lo danno in vetta alla classifica dei leader e dei personaggi politici. Poco sotto il 50 per cento, sopra Giorgio Napolitano, addirittura. E comunque quasi quindici punti sopra Letta, che nel giro di due mesi ha perso quasi venti punti in percentuale. Eppure il sindaco non si rallegra con se stesso e con gli altri suoi collaboratori. Anzi. «Il governo Letta è al minimo storico e la cosa non mi fa piacere: mi terrorizza».
Renzi, in direzione, ma anche davanti ai suoi, riuniti poco prima non le manda a dire e continua a ripetere: «Qualcuno nel partito pensa di fregarmi votando a scrutinio segreto? Ma anche ci fossero cento franchi tiratori, che succederebbe? Farebbero male a me o al governo?». Domanda retorica, ovviamente, perché la risposta del segretario è scontata: «Si farebbero del male da soli, perché per dare fastidio a me, farebbero cadere Letta. Dicono che questo governo va bene qualsiasi cosa faccia e lo dicono solo per polemizzare con me, che ho instaurato una normale dialettica con questo esecutivo. Ma io non voglio far cadere Letta: sarebbe una sconfitta del Partito democratico anche questa».
Dunque, Renzi va avanti, anche se con gli amici ammette: «Non sarà facile». Però è convinto di farcela: «Continuano a scrivere che mi logorerò, ma credo che alla fine tutto ciò porti bene. Se incasso la legge elettorale, il Pd diventa il padrone del tavolo e dà le carte. È di questo che qualcuno ha paura, è per questo che c’è chi tenta di mettermi i bastoni tra le ruote. Peccato che tutti questi non abbiano capito che le trattative sulla legge elettorale sono molto avanti». Talmente «avanti», per dirla alla Renzi, che la chiusura dei lavori è vicinissima.
Lunedì prossimo il segretario sarà già in grado di dire qual è la proposta del Partito democratico. Il doppio turno eventuale. Ossia, un primo turno in cui non saranno le coalizioni a presentarsi, bensì i partiti. Il che significa che le forze politiche minori, Nuovo centrodestra incluso, saranno costretti a scegliere prima e non potranno avere «il potere di veto o di ricatto» sul secondo turno. Perciò, o ci saranno collegi uninominali dove i candidati si presenteranno e, magari, vi sarà anche una quota proporzionale per consentire non solo ai grandi partiti di entrare in Parlamento, oppure si andrà con mini-liste bloccate. Ad Alfano la scelta. Per Renzi è uguale. A Letta la mediazione tra i due, che gli è stata chiesta anche dal presidente della Repubblica.

Repubblica 17.1.14
L’apertura a Silvio divide il popolo dem
“Non si tratta con un pregiudicato”. “L’intesa si fa anche con lui”
di Carmine Saviano


ROMA — «Surreale». Renzi la bolla così. Ma la polemica aperta dalla sinistra del Pd in vista dell’incontro del segretario democratico con Berlusconi non smette di agitare elettori e militanti. Che per tutta la giornata di ieri hanno affidato i loro commenti ai social network. Un appuntamento al buio, quello tra il Cavaliere e il sindaco di Firenze, da molti osservato con preoccupazione. Una trappola, un tranello, il solito gioco del Caimano. E inviti a Renzi affinché «non ci caschi», non dia spazio a un’insperata riabilitazione politica di Silvio Berlusconi.
Certo, una consapevolezza tra gli elettori del Pd è diffusa: «Le riforme vanno fatte insieme all’opposizione», anche perché «abbiamo sempre criticato quelle fatte a colpi di maggioranza dal centrodestra». Il problema riguarda l’affidabilità politica di Berlusconi. E qui i «consiglia Matteo» sono tanti. Su Twitter Adriano Gozzi scrive: «Matteo, attenzione a Silvio. Il suo unico faro è il tornaconto personale». E in tanti richiamano Renzi ad aver consapevolezza del passato prossimo del centrosinistra. Vent’anni di «tavoli saltati».
E, proprio il richiamo al passato recente, è uno degli argomenti utilizzati dai sostenitori della strategia del segretario per controbattere alle critiche della sinistra interna. Le domande sono ciniche e richiamano le scelte del Pd targato Bersani. «Ma come? Dicono a Matteo di non parlare con Berlusconi e poi ci hanno fatto insieme due governi?». Ancora: «Mi sbaglio o il Pd guidato da Bersani è stato in maggioranza con Berlusconi dal novembre 2011 al novembre 2013?».
Ma i fautori del «non-incontro» insistono. E per tutta la giornata rilanciano le loro motivazioni. Sintetizzando: un evasore fiscale, condannato in via definitiva, non può ottenere una nuova agibilità politica proprio dal Pd. In questo senso le critiche sono nette. Regina Cusumano su Twitter: «Renzi, non far finta di non capire: trattare con Forza Italia va bene. Con Berlusconi, no». Luca Logi aggiunge: «In due milioni lo votano per cambiare verso e lui da dove si inizia? DalCavaliere...».
Altro luogo di discussione, il blog di Pippo Civati. Qui i commenti all’incontro sono oltre cento. E Anita parte da una constatazione: «In politica, si sa vige la legge del compromesso. È necessario parlare con tutti per portare a casa dei risultati». Poi la domanda: «Ma quello che non riesco a capire, è come mai un pregiudicato possa ancora esercitare un potere a livello politico. Qualcuno di buona volontà me lo dovrebbe spiegare. Perché non lo riesco proprio a comprendere».
Infine, la richiesta di un dibattito pubblico aperto e trasparente. Soprattutto se si tratta della legge elettorale. Per Libertà e Giustizia, l’associazione presieduta da Sandra Bonsanti e Gustavo Zagrebelsky, «si vorrebbero decidere le sorti del Paese in colloqui a tu per tu. Allora è inutile dire che le regole si scrivonotutti insieme».

Repubblica 17.1.14
Da D’Alema a Veltroni così il dialogo col Cavaliere ha “incantato” la sinistra
E ora tocca a Renzi sfidare l’Ammaliatore
di Filippo Ceccarelli


NESSUNO potrà mai dubitare che Berlusconi sia il più grande incantatore.
Non si dice qui di serpenti, ma solo per rispetto riguardo ai leader della sinistra che lo hanno sempre sottovalutato come antagonista e perciò si sono fatti da lui regolarmente ammaliare nel corso di incontri, cene, crostate bipolari, commissioni bicamerali, bla-bla istituzionali ed elettorali, tele-smancerie, presentazioni di Vespa e quanto ha reso suicida qualsiasi forma di collaborazione.
TOCCA adesso a Matteo Renzi, la cui audacia è indiscutibile come la baldanza che accompagna il suo esordio alla guida del Pd. Rispetto ai suoi predecessori, ha qualche vantaggio: il Berlusconi di oggi è più vecchio, alcuni dei suoi l’hanno tradito, ha diverse condanne sulle spalle, lo stanno per spedire ai servizi sociali, insomma quanto mutato dal Berlusconi che tre anni orsono lo invitò ad Arcore, pure congedandolo con una lusinga che davvero deve averlo fatto pensare: «Ti apprezzo perché mi assomigli».
Nel grande gioco del potere la magia dell’incanto si risolve più spesso di quanto s’immagini nell’arte del raggiro. Da Rutelli a Fassino, da Amato a Bersani l’hanno certamente avvertita. Ma gli annali della Seconda Repubblica, pur nella loro spumeggiante contraddittorietà, dicono che ogni tentativo di circonvenzione d’incapace ai danni di Berlusconi è destinato a fallire per il semplice motivo che questi è tutto fuorché incapace.
E infatti ha attratto a sé prima D’Alema, in un periodo che va dall’inverno del 1997 alla primavera del 1999 (elezione di Ciampi al Quirinale); e dopo aver infinocchiato il machiavellico leader Maximo, circa dieci anni dopo, tra l’autunno del 2007 e l’inverno 2008 (caduta di Prodi bis), ha nuovamente e con fredda efficacia dato fondo alla sua virtù abbindolatrice nei riguardi di Veltroni, leader buonista, che nella susseguente campagna elettorale, sia pure con nobili intendimenti, nemmeno voleva chiamare il Cavaliere per nome e allora usava una lunga e complessa formula, «il leader della parte a noi avversa». Che, stravinte le elezioni, fece puntualmente del-l’Italia carne di porco.
Magari a Renzi andrà bene, ma prudenza vorrebbe che ripassasse un po’ di storia e di psicologia, individuale e sociale. Forse proprio perché figlio di un Pci ormai morto e sepolto, a un certo punto della sua vita e della sua carriera D’Alema fu attratto da quello stesso Berlusconi di cui pure per qualche tempo aveva detto le peggio cose. Il destino delle tv del Biscione e l’eccessivo potere dei giudici divennero le basi di un accordo che si cementò in Bicamerale.
Ma poi i due si trovarono anche vicendevolmente simpatici. «Il mio più intimo nemico» scherzava Silvione. In una interminabile intervista Emilio Fede mostrò ai telespettatori la collezione di civette di Max, che intanto cominciò a pubblicare con Mondadori. Un giorno si disse che Veronica avesse confezionato con le sue mani delle marmellatine per la famiglia del leader pds. Non era vero, ma non molto prima che il Cavaliere buttasse tutto all’aria, ci fu la crostata costituzionale ed elettorale a casa Letta, venne al mondo il grazioso termine «inciucio», mentre si deve a Giampaolo Pansa il battesimo di una creatura invero poco rassicurante, «Dalemoni».
Nell’immaginario di questo tempo visionario l’ibridazione è sintomatica costante, per cui si rinvia brevemente a un irresistibile, impressionante e come tale assai diffuso fotomontaggio on line, il «Renzusconi». Anche «Uolter» Veltroni, d’altra parte, ebbe il suo morfologico incrocio, addirittura sulla copertina di Newsweek, «Veltrusconi».
A differenza di D’Alema, il primo leader del Pd conosceva talmente bene il Cavaliere da avergli perfino dedicato in gioventù un libro dal titolo «Io e Berlusconi(e la Rai)» (Editori riuniti, 1990). Dunque questioni di tv. Sull’argomento catodico e gli accordi anzitempo vedi, assai bene informato, «Il baratto» di Michele De Lucia (Kaos, 2008). Ma non appena Veltroni fu eletto leader del Pd, insieme a tante pregevoli intenzioni stabilì che per il bene dell’Italia era di capitale importanza aprire, tanto per cambiare, un bel tavolo istituzionale ed elettorale. Con tutti. Quindi con Lui. Solo.
E in pompa magna si videro, alla Camera, accordandosi quindi su una specie di Vassallum con correttivo di Quagliariellum, o forse no, comunque erano le europee - e Vendola ancora oggi protesta. A distanza di sette anni la conferenza stampa del lieto evento, tenuta fianco a fianco su un podietto con eleganti fregi dorati, restituisce a chi c’era la magia delle happy hours: due leader cortesi, sorvegliati nel linguaggio, ispirati da spirito costruttivo e compresi nel loro ruolo di rifondatori della democrazia italiana.
Particolare significativo, o meglio maliziosa coincidenza: sia nell’incantesimo con D’Alema che in quello con Veltroni a Palazzo Chigi c’era Prodi, il povero Prodi, l’unico che di Berlusconi non s’è mai fidato. Adesso, guarda caso, c’è un suo allievo, Enrico Letta. Che Qualcuno lo protegga dalle ricorrenze e dalle regolarità di un potere purtroppo sempre abbastanza uguale a se stesso.

Repubblica 17.1.14
La partita finale
di Franco Cordero


L’analisi retrospettiva aiuta a capire cos'avvenga. Torniamo alla primavera 2008, quando S.B. rimette piede a Palazzo Chigi, forte d'una strepitosa vittoria elettorale: ha due Camere ubbidienti; l'avversario gli rende ossequio; finti neutrali cantano mirabilia. Niente sembra impedire la conversione della Repubblica italiana in signoria (Casa d'Arcore) ma i fasti nascondono due grossi tarli. Primo: pendono pericolosi giudizi penali, relitto d'una pirateria esercitata a mansalva e niente esclude che emerga altro. Secondo: formidabile nel combinarsi affari in spregio alle norme, l'uomo non sa da che parte cominci l'arte del governo; in lingua d'Esopo o Fedro, è come affidare la gestione del pollaio alla volpe; dottrina e prassi berlusconiane implicano corruzione, falso, frode, parassitismo, fisco evaso, giustizia truccata, e tale marasma devasta l'economia. Francis Drake predava l'oro spagnolo dei galeoni, mentre costui dissangua l'Italia a beneficio suo e dei furbi (vedi P2, P3, P5 e simili compagnie). Dalla Corte dei conti sappiamo cosa succhi allo Stato l'attuale regime vampiresco, almeno 60 miliardi annui: continuando finiamo in bancarotta; qualunque ragioniere calcola tempi e misura del rendiconto. Oscura le prospettive una crisi planetaria. Lui la nega raccontando quanto siano ricchi gl'italiani: viaggiano in aereo; frequentano i ristoranti; hanno appartamenti il cui valore sale a vista d'occhio; «le mie aziende vanno a gonfie vele».
Due punti gravemente vulnerabili. Padrone delle Camere, vuol diventare immune dalla giurisdizione penale, riuscendovi. Peccato che fosse legge invalida. Se la fa riacconciare, sicuro dell'esito perché vi mette mano un presidente della Repubblica insistente nel chiedere «larghe intese»: parlando chiaro, definiamole «concerto subalterno degli oppositori»; è al potere un plutocrate stregone dei media, in terrificante conflitto d'interessi. Tutt'e due cadono dalle nuvole quando l'antipatica Corte ribadisce il verdetto. Nel terzo tentativo chiede qualcosa in meno: che le udienze slittino ogniqualvolta dichiara d'essere impedito da affari governativi; e siccome anche qui emergono aspetti d'invalidità, operai volenterosi s'accingono alla quarta fatica. Nella parte in cui vale, la norma ad personam gli viene comoda. La sua strategia è elementare: implacabile perditempo, finché scadendo i termini della prescrizione (se li era accorciati), svaniscano i delitti; cadono le braccia davanti a simili spettacoli. Assorbito dagli affari penali e privati interessi, figura poco alla ribalta d'haute politique. Perdeva i colpi, ritrovando l'aureola sotto Natale 2009, quando un matto gli scaglia nei denti il Duomo milanese in miniatura: i soliti pulpiti maledicono chi inquina le teste; don Luigi Verzè, imprenditore decotto, rievoca la salita al Calvario; tra i morbidi oppositori qualcuno sta compunto, quasi ammettendo colpe collettive. Poi espelle dal partito l'antagonista interno, possibile leader d'una destra pulita (aprile 2010), ed è l'ultimo exploit, applaudito dal
Corriere della Sera. L'anno dopo l'Italia cammina gobba: ha la crisi nelle ossa; e lui perde importanti elezioni amministrative, persino a Milano; ma forte dei numeri in parlamento, sarebbe inamovibile se non lo rovesciassero le borse. Distavamo due dita dal disastro.
Sabato 12 novembre 2011 esce ingloriosamente. L'augusto stratega, però, gli salva un futuro tenendo artificialmente vive le Camere. Nei 15 mesi del governo cosiddetto tecnico, la cui formula clinica era «salasso senza riguardo ai socialmente deboli», l'Olonese defenestrato ripiglia in mano i fili, sfiorando la vittoria, col relativo premio garantito dal Porcellum (se l'erano grugnito nell'anno 2006, affinché l'avversario, presumibile vincitore, trovasse un paese ingovernabile). Tale l'Italia 2013: tre schieramenti hanno basi elettorali quasi pari; e dal Quirinale incombe quel malaugurato disegno d'alchimia governativa, ovviamente ben visto dal redivivo; al Pd l'acquiescenza costa i 2.045.190 voti persi in 5 anni ed era già sconfitto allora. Stride il monito con cui l'imperioso demiurgo chiede tregua a favore del fuggiasco dalle aule giudiziarie: Deo gratias, commentano spettatori inquieti; tra poco compie i sette anni e sloggia dal Colle; ma tra le quinte complotta un partito delle «larghe intese». Sapiunt Dalemam le mosse che tra sabato 20 aprile e domenica reinsediano l'uscente, evento senza precedenti. Appena reincoronato, installa un governo bicefalo: una testa appartiene al nipote del plenipotenziario berlusconiano in mille missioni; l'altra sta sul collo d'Angelino Alfano, prediletto da Re Lanterna, sebbene gli manchi «un quid»; alla giustizia va la signora ex prefetto, ministro degl'Interni nel governo tecnico, protetta dal Colle, e questa scelta ha dei sottintesi. Giochi fatti, se Dike patisse i venti. Ha del miracoloso che a Milano Tribunale e Corte d'appello conducano in porto i dibattimenti su una frode fiscale americana: caso lampante; e nelle due sedi Re Lanterna incassa la condanna a 4 anni. La difesa ostruzionista aveva speso ogni espediente. S'era anche chiuso al San Raffaele lamentando noie agli occhi. In Cassazione la causa sarà chiamata al 30 luglio. Tutta da vedere la pantomima d'un evangelico ministro berlusconiano: presumibilmente ignaro delle questioni (non erano affare suo: gestisce trasporti e infrastrutture): torce viso e mani, parla a fiotti, ruota gli occhi, spiegando convulso come non sia pensabile una decisione negativa sul ricorso; sarebbe attentato alla democrazia. La discussione avviene in due giorni. Opinanti à la pageprevedono l'annullamento con rinvio, motivato da qualche piccolo difetto, nel qual caso il processo torna a Milano e Kronos lo inghiotte. L'avverbio latino èutinam: “Dio voglia”; salviamo la “stabilità”, valore supremo. Il dispositivo li lascia esanimi: ères iudicata la condanna a 4 anni; e in questo scenario vedremo come equazioni giuridiche incidano nella storia d'Italia. Forse siamo alla rumorosa partita finale.

il Fatto 17.1.14
“Falliti! Vado da Silvio”
Renzi e B. Ecco l’accordo
Guerra di missili con Letta
di Wanda Marra


Intesa sul modello elettorale spagnolo, domani incontro al Nazareno o in campo neutro. Forza Italia: “A Matteo serve un killer per far cadere il governo: eccoci”. Il premier non va alla direzione Dem e il segretario spara sull’esecutivo. Poi dice: “Io ed Enrico come Kennedy e Krusciov su Cuba”

O c’è la consapevolezza del dramma dell’urgenza o se si pensa che si possa continuare ad andare avanti come se niente fosse, saremo spazzati via”. Perché finora questo governo ha collezionato “solo fallimenti”. Nella sua prima volta in direzione da segretario del Pd, Matteo Renzi ingrana la quinta, drammatizza i toni fino all’inverosimile. “Non mi faccio intimorire”, dice alla minoranza che ha provato a diffidarlo dal trattare con Berlusconi. Nella strettoia più difficile, quella su cui si “gioca la faccia”, portando o non portando a casa la riforma elettorale reagisce andando all’attacco, con tutto il suo peso. Nessuna bozza, chiede al partito un voto sulla sua relazione. Un mandato a fare l’accordo con Berlusconi, come dice e ribadisce tra le righe.
LUNEDÌ, a faccia a faccia avvenuto, la direzione si riunirà di nuovo. “Surreale e stravagante la polemica sull’incontro con il ‘pregiudicato’ Berlusconi, come ha detto D’Attorre, quando invece poi ci stavano al governo insieme. E non ho visto ministri dimettersi per la condanna dell’alleato Berlusconi. Li ho visti dimettersi per un ‘chi’”. (ogni riferimento a Fassina non è puramente casuale, ndr). Il percorso è tracciato, l’aut aut è chiaro. Il faccia a faccia è fissato tra oggi e domenica, a Roma, forse al Nazareno, probabilmente in un albergo. C’è già un patto pronto sul sistema spagnolo corretto con premio di maggioranza. D’altra parte il sindaco l’ha chiarito: l’importante non è “il doppio turno”, ma “il premio di maggioranza”. Con buona pace di Enrico Letta, che non a caso ieri alla direzione non va. I due sono ai ferri corti, una ricomposizione in questa fase sembra impensabile. La situazione la fotografa bene Matteo nella replica: “Le parole di Enrico le prendiamo come i messaggi di Krusciov a Kennedy nella crisi dei missili”. Renzi continua a dire no a rimpasti e rimpastini. A Napolitano che lunedì ha provato a convincerlo, proponendogli la sostituzione di ministri importanti, ha risposto sostanzialmente che una volta che si comincia a toglierne uno, tocca toglierli tutti. E dunque, “sul rimpasto decida Letta”, ma non serve “cambiare uno o due ministri”, serve “una visione”. E a conferma che in questo momento con i governativi la situazione è logora, attacca pure Dario Franceschini, ricordando una dichiarazione del 2011 sulla necessità di fare la legge elettorale “non a colpi di maggioranza: è ancora della stessa idea? ”. Per adesso pure l’ipotesi Letta bis sembra lontanissima. Più facile, grazie all’accordo con Berlusconi, la caduta del governo, una nuova legge elettorale e voto a maggio. Oppure, addirittura, un Renzi premier senza passare per il voto. Anche se l’interessato continua a negare di voler far cadere il governo e derubrica questi scenari a “intrighi”. Lo dice Paolo Gentiloni in un intervento che nella replica il segretario dirà di condividere per filo e per segno: “La natura del governo non cambia se facciamo rimpasto, dovevamo vincere le elezioni per fare il nostro. Non lo boicottiamo ma resta l’ambiguità della situazione e la sua intrinseca debolezza”. E avverte: “Il governo dura se fa la legge elettorale, non, come ho sentito dire in questi giorni, se la legge non si fa”. Tutti avvertiti: il voto subito con questa legge è possibile. Ma sarebbe “un suicidio del sistema politico”.
NELLE ULTIME 48 ore si sono moltiplicati tra i democratici gli stop al modello spagnolo e al Mattarellum, gli altolà a un incontro con Berlusconi. Si è fatta strada tra i democratici l’idea che in fondo ci si potesse tenere il proporzionale: non fosse altro che la maggioranza degli eletti sono stati portati in Parlamento da Bersani e dunque se le liste le fa Renzi rischiano il posto. Ma ieri in realtà nella minoranza nessuno affonda. Cuperlo prende la parola per dire che ci vorrebbe un Letta bis e che lui è favorevole al doppio turno. Speranza insiste che serve “un nuovo patto con Letta”. Orfini (che ha difeso la legittimità della trattativa con B.) sostiene di non essere d’accordo praticamente con nessuno. Fassina si produce in una (debole) difesa del governo. D’Attorre ci va giù pesante: "Renzi aveva dato la disponibilità a guidare il governo con Berlusconi”. Ma poco prima della direzione il fedelissimo Dario Nardella va al Colle a spiegare a Napolitano per quale sistema elettorale si sta lavorando. Proprio lui, l’uomo della trattativa con Forza Italia, quello che per primo ha visto Brunetta. Lui, uno dei più stimati al Quirinale. Alla fine, la direzione vota sulla relazione del segretario. I 35 cuperliani si astengono. Tutto aggiornato a dopo il faccia a faccia con B. “Com’è andata? Meglio di così... ”, commenta Matteo alla fine.

il Fatto 17.1.14
“Que Viva Matteo”, così B. risorge e ci porta al voto
L’incontro previsto tra domani e domenica
C’è già un’intesa sul modello spagnolo. Ma a democratici, Ncd e Colle non piace
di Fabrizio d’Esposito


La resurrezione del Caro Condannato è un trionfo ispanico-messicano. Renato Brunetta, incontenibile, inneggia così sul Mattinale berlusconiano: “Stiamo con Renzi, lo diciamo sommessamente, e non vorremmo farlo sapere troppo in giro, perché tutto questo non sia usato contro di lui, ma alla maniera dei rivoluzionari messicani ci viene da scandire ¡Que Viva Matteo! ”. Un falco esultante all’ombra del Cavaliere la mette giù così, alle nove di sera: “Renzi ha bisogno di un killer per far fuori Letta e quel killer è Berlusconi che fa l’accordo con lui sulla legge elettorale. C’è già una bozza sul modello spagnolo. A quel punto Alfano e i suoi faranno cadere tutto”.
Il modello spagnolo, il killer, il grido brunettiano “¡Que Viva Matteo! ”, il patto preparato mentre il premier era in Messico. Non si può resistere al paragone: Matteo Stalin che ordina a Silvio Mercader di picconare Enrico Trotsky rifugiatosi in Messico. Tutto torna. A partire dall’incontro che i due, mandante e killer, rispettivamente Renzi e Berlusconi avranno domani a Roma. C’è anche un’ipotesi per domenica, ma non è prevalente. In merito il cerchio magico di B. è evasivo, per motivi scaramantici: “Domani sera (oggi per chi legge, ndr) Renzi sarà dalla Bignardi a La7 e annuncerà lui tutto”. Ossia: luogo e orario. Dettagli non secondari. Anzi. La trattativa sul posto è stata estenuante e forse ancora lo è.
DA PIAZZA San Lorenzo in Lucina, dove c’è la sede nazionale di Forza Italia, nella Capitale, dicono: “In agenda ancora non è stato segnato nulla”. Sulla location ha fatto tutto Renzi. All’inizio è partito sparato proponendo il quartier generale del Pd. Poi di fronte alle polemiche interne sul “pregiudicato” in visita al Nazareno avrebbe ripiegato su un posto “terzo”. Un albergo o un residence di lusso. In ogni caso sembra certo che i due si vedranno, si sorrideranno e sigleranno il patto compilato sul modello spagnolo da Denis Verdini e dallo studioso Roberto D’Alimonte, consulente di Renzi sulla riforma della legge elettorale. Sabato pomeriggio, echi baglioniani per un amore di convenienza tra i due, forse scoppiato già in un incontro segreto alla vigilia di Natale. A Palazzo Grazioli, per il momento, il Caro Condannato incassa l’outing del segretario democrat con silenziosa soddisfazione. I suoi sono raggianti: “Problemi ad andare al Nazareno? Figuriamoci, il presidente ci andrebbe di corsa dopo che il Pd l’ha cacciato dal Senato”.
Una resurrezione, appunto. Su cui però gravano un po’ di incognite. La prima riguarda la tenuta dei gruppi parlamentari del Pd, in cui i renziani sono ancora minoranza. La legge elettorale si vota infatti a scrutinio segreto e nell’urna, come già accaduto con l’elezione del capo dello Stato, può accadere di tutto. La seconda variabile è legata al timing del pacchetto riformista che sottoscriveranno “Matteo” e “Silvio”: l’abolizione del Senato oltre al modello spagnolo per salvare il maggioritario e soffocare il Nuovo Centrodestra nella culla. Aggiungono i falchi: “Berlusconi con questo accordo diventerà il padre della Terza Repubblica”. Ma un percorso del genere, va da sé, potrebbe non avere come sbocco l’election day del 25 maggio, Politiche più Europee, che in realtà sarebbe l’obiettivo vero degli assassini politici del governo. Ce ne sarebbe anche un terzo, che ai forzisti non dispiacerebbe: “Se Grillo fosse della partita, sarebbe tutto perfetto”.
LA TERZA E ULTIMA incognita analizzata a palazzo Grazioli si sofferma sulla linea di resistenza che adotterà il Sistema antirenziano e antiberlusconiano per respingere l’offensiva ispanica. E più di uno individua un serio indizio nell’intervista di Emanuele Macaluso, amico di Napolitano, al Foglio di ieri: votare con il Porcellum riformato dalla Consulta. Proporzionale puro, all’ennesima potenza. Sarà questa la trincea che gli alfaniani inizieranno a scavare per salvare se stessi, con la speranza di radunare una vasta compagnia? Da domani comincia una nuova era. Forse.

il Fatto 17.1.14
Renzi e B. colloquio col condannato
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, Renzi segretario Pd a furor di popolo, annuncia che andrà a colloquio con il condannato (quattro anni per frode fiscale mentre era presidente del Consiglio, in via definitiva). Ma non a Rebibbia. Al Nazareno, sede del Pd. E sarà il condannato a recarsi al Nazareno, come fosse uno statista. Mi domando: in quale Paese un segretario di partito incontra un condannato per discutere e concordare scelte politiche determinanti per la vita della nazione, quale è la legge elettorale?
Francesco

SONO VENT’ANNI ormai che alcuni di noi si rivolgono l’un l’altro la domanda “in quale Paese”. Infatti, tutto ciò che è accaduto nel ventennio di Berlusconi (il ventennio dura ancora, come dimostra il fatto narrato dalla lettera) era talmente assurdo, illegale e, per giunta, sbandierato, da provocare quella domanda fra alcuni italiani, e disprezzo e sfiducia nel resto del mondo. Nonostante i milioni di voti che le ultime elezioni hanno portato verso sinistra o verso un centro diverso da Berlusconi o verso un movimento con un carico di promesse di cose nuove, tutto si è poi risolto, con il consenso di tutti (quasi tutti) in uno strano governare comune e da fermi, che ci ha collocato in una palude di sabbie mobili che lentamente si stanno mangiando non solo ciò che resta delle politica, ma anche qualcosa che dopo il fascismo non era mai mancato, il rispetto e la fiducia nelle istituzioni. E così Renzi pensa di surclassare il suo collega di partito Letta, che governa avendo come vicepremier e ministro del’Interno Alfano, con l’idea di incontrare direttamente Berlusconi, ombra shakespeariana nel destino dell’ex delfino. E poiché Renzi è un tipo spiritoso e sfacciato, perché non celebrare l’evento direttamente presso la sede della direzione Pd, in modo che tutti vedano, tutti discutano, e coloro che sono ormai avvezzi o rassegnati o comunque abituati a queste strane intese senza alcuna intesa, si congratulino? Mi sembra fatale concludere che, al momento, la maggioranza dei nostri concittadini sia contenta di questo incontro e lo consideri, chissà, un’opera buona (“visitare i carcerati” sia pure a rovescio) oppure un altro segno di “pacificazione” (mentre incombe la questione De Girolamo e la delicatezza con cui, si è saputo, questo ministro affronta la politica). Certo un fatto è strano. È sicuro Renzi che coloro che trovano questo previsto incontro uno scandalo e un insulto sia alla Costituzione sia al Codice penale, siano così pochi e che non creeranno, a suo tempo (chissà, De Girolamo permettendo, potrebbe essere tra poco) un problema elettorale, nel senso di scarsità di voti? Ho criticato spesso le sfide giovanilistiche di Matteo Renzi e poiché sono il solo, oggi, in Italia, a non chiamarlo Matteo (non perché non mi sia simpatico, ma perché lo conosco solo come persona pubblica) sono legittimamente sospetto di pregiudizio. Eppure, poiché esiste un solo partito democratico che potrebbe persino vincere le prossime elezioni, se non si impantana nella “pacificazione” (concetto estraneo alla politica), penso che il segretario dovrebbe stare attento a questa stramba e “divertente” decisione. Qualunque “campaign manager” nel mondo gli direbbe che non gli conviene abbracciarsi alla salma politica di Berlusconi. Ogni tanto, nelle irruenti conversazioni di Renzi, spunta qualcosa che è tutt’altro che giovane e tutt’altro che nuovo. Ma farsi trovare con Berlusconi nella sede del Pd sarebbe un infortunio molto peggiore di quello di Hollande.

l’Unità 17.1.14
Incontro col Cav previsto domani «in luogo neutro»
di Federica Fantozzi


Renzi, alla fine, che mandato avrà? Nel suo partito mi sembra che stiano facendo i doppi, tripli salti mortali per tenere tutto insieme...». Silvio Berlusconi ha seguito con interesse e scetticismo crescente la direzione del Pd. E mentre Forza Italia sale sulle barricate per difendere il leader «offeso» dall’ala Cuperlo-Orfini, ma anche dalla posizione del capogruppo Speranza e di Fassina che vorrebbero trattare con i capigruppo ma non con lui, il Cavaliere come al solito più pragmatico dei suoi cerca di trarre vantaggio dalle divisioni in casa d’altri. Senza dimenticare le sue.
Così il feuilleton del faccia a faccia tra il fondatore azzurro decaduto e il neo segretario Democrat, assume sempre più i connotati del patto impossibile. Renzi lo ha detto apertamente, sulle riforme si gioca il tutto per tutto. E per questo dovrà scegliersi bene gli interlocutori reali. Dove incontrarsi, intanto? Da Palazzo Vecchio si era passati a Montecitorio, poi alla sede Pd di Largo del Nazareno, fino al «luogo neutro» forse un albergo del centro capitolino. Ma ostilità e perplessità resistono in entrambi i partiti. Al punto che il colloquio, dato per certo domani pomeriggio, non ha ancora conferma e sottovoce in diversi parlamentari forzisti dicono che potrebbe slittare: «Noi siamo pronti, ma loro?».
Al di là dell’impasse sul luogo e sull’impatto che può avere nella «rilegittimazione» di Berlusconi, pesano i sospetti reciproci. In queste ore, Berlusconi sta di nuovo, per l’ennesima volta, cambiando idea. Il voto a maggio, la spallata con l’election day, l’accelerazione sulla legge elettorale, non lo convince più come prima. La verità è che non ha più un partito alle spalle. Forza Italia è lacerata, divisa in fazioni armate una contro l’altra. L’ostilità dei dirigenti all’innesto di Toti, l’invasività di Verdini, i personalismi di Brunetta, fino al durissimo altolà di Fitto, che ha rappresentato uno strappo nelle felpate liturgie di piazza in Lucina ma anche nel personale modo di porsi dell’ex governatore pugliese di stile democristiano. E con un partito a pezzi, «che non è stato nemmeno in grado di compattarsi per celebrare i vent’anni della mia storia che è anche la loro» si chiede Silvio cosa ci sia dietro l’angolo.
Dubbi che sono arrivati anche alle orecchie del sindaco di Firenze. Che, nello stesso momento, si sta chiedendo fino a che punto possa fidarsi di Berlusconi senza un piano B. Perché se quest’ultimo fa melina, puntando a votare nei tempi previsti con la legge ridisegnata dalla Corte Costituzionale dopo la bocciatura del Porcellum, nella palude delle riforme finirà per affondare proprio l’ex Rottamatore.
PALETTI
Sulla carta, Forza Italia sembra disposta ad accettare i paletti messi da Renzi nel suo discorso alla direzione nazionale del Pd. «Le riforme sono ricalcate sulle nostre proposte del 2006 spiega un dirigente di piazza in Lucina Il Senato come Camera delle Autonomie ci va benissimo. Adesso ci sediamo a un tavolo e vediamo come si possono mettere in comune queste belle idee che però finora sono rimaste sulla carta». Nemmeno l’ipotesi di un patto scritto, nero su bianco, che escluda il voto anticipato, sembra uno spauracchio: «Perché no? Possiamo discutere di tutto». Nessuna preclusione, per carità.
Già, ma verso quale punto di arrivo? Per Berlusconi resta lo spagnolo. Al quale Alfano e i suoi ministri hanno chiuso la porta, pena a parole la crisi di governo. Sul Mattarellum corretto, evocato da Brunetta, molti azzurri hanno dubbi. E già pensano di giocarsi la partita in proprio. Ma soprattutto, finché non riporta la pace interna il Cavaliere non è in grado di muovere i suoi parlamentari come una falange compatta, come gli chiede Renzi. E allora l’ex premier si va convincendo che un anno di tempo per «azzerare e ricostruire» in fondo non sia il peggiore dei mali.
Al faccia a faccia, però, continua a tenere. Come forma di rilegittimazione dopo l’«omicidio politico perfetto» consumatosi con la sua decadenza. Lo avrebbe voluto con il massimo di pubblicità e ufficialità. Occasione di rilancio politico, probabilmente l’ultima prima che i magistrati decidano su come debba scontare la pena residua. Silvio ci andrà con Gianni Letta, e basta. Senza Verdini. E dopo l’incontro pensa già a una conferenza stampa per amplificarne l’esito.

Corriere e Repubblica, pur di avere Renzi, sono isposti a riprendersi anche Berlusconi
L'alternativa della "sinistra" sarebbero Letta e Alfano...E tu? preferisci la padella o piuttosto la brace???
l’Unità 17.1.14
Cuperlo spinge per un Letta-bis
«Non riportare sulla scena Berlusconi»
Il presidente Pd: «Oggi per la prima volta ci sono le condizioni per una maggioranza favorevole al doppio turno»
Fredda la minoranza del partito. Fassina attacca: «Il Pd la smetta di fare la maestrina e bacchettare il governo»
di M. Ze.

ROMA. I toni sono pacati, la parola «franchezza» torna ripetutamente e sembra caratterizzare l’intento di questa prima direzione a firma Renzi, che va in diretta streaming e prosegue per quattro ore filate. Ma le distanze tra le minoranza Pd e Matteo Renzi restano intatte e non su questioni di contorno: il rapporto con il governo e la legge elettorale. Una minoranza che ha posizioni diverse anche al suo interno: più dura l’area bersaniana, con Alfredo D’Attorre e Stefano Fassina, per fare due nomi; e quella più dialogante con i Giovani Turchi e, infine, quella di Pippo Civati.
Tocca a Gianni Cuperlo cercare di mediare almeno nella sua componente sapendo che la strada non è tutta in discesa, dal rapporto con il governo alla legge elettorale. «Per la prima volta ci sono le condizioni per una maggioranza parlamentare favorevole al doppio turno», dice invitando alla coerenza e quindi no alle liste bloccate. Ma al segretario, a cui riconosce il merito di aver accelerato i tempi, ribadisce che è dalla maggioranza che bisogna partire, «se vogliamo che la nave arrivi in porto. Il problema non è discutere o meno con Fi, va difeso il principio di farla con una maggioranza ampia ma non dobbiamo riportare sulla scena Berlusconi». Il punto è, per Cuperlo, quale destra si vuole legittimare, con quale destra decidi di parlare. Per Orfini il tema non si pone, visto che con il Cavaliere il Pd ci ha governato, il problema è il modello di legge elettorale e lui l’unico che sente di scegliere è l’ispanico-tedesco. Roberto Speranza, che alla Camera deve gestire un gruppone di oltre trecento deputati eletti in un’altra epoca politica, invita a partire lì da dove è più probabile tenere unito il Pd, il doppio turno. Tenere unito il Pd? Ma che motivazione è, ribatte Andrea Ranieri.
Civati, che chiede un Jobs Act fatto di proposte concrete, «Matteo dacci un testo», insiste su un Mattarellum «che tratti con più cautela il premio di maggioranza» e critica con forza l’abolizione del Senato in favore di una Camera delle Autonomie così come la immagina il segretario, «penso che debba rimanere una quota elettiva. Se vogliamo intervenire sul Senato o lo aboliamo completamente oppure manteniamo una quota elettiva e una di indicazione regionale», dice annunciando che c’è un documento a disposizione per la discussione che su questo si dovrà fare.
Attenzione, avverte Guglielmo Epifani, che ha tenuto le redini del partito fino a una manciata di settimane fa, è giusto imporre e guidare il dibattito sulla legge elettorale, «ho trovato intelligente l’idea di Renzi il 2 gennaio di proporre agli altri un plateau di proposte che avessero un minimo comune denominatore, ma questo ha un rischio: se avanzo tre idee che hanno un'omogeneità di fondo e incrocio tre risposte diverse non posso consegnare ai miei interlocutori la decisione su quale proposta fare». La scelta, aggiunge, «devo farla io, provando a costruire un fronte più ampio, e nel far questo tenere unito il nostro partito o saremmo un po’ più deboli nell’affrontare questo passaggio delicato». L’altro nodo, quello su cui gli animi si scaldano di più, in nome di questa franchezza continuamente evocata, è il rapporto tra il Nazareno e Palazzo Chigi. Archiviamo pure il termine rimpasto, dice, parliamo di svolta, ma diciamo chiaramente che così non può andare più avanti. «Non è dato in natura un governo che non trovi nel principale partito della maggioranza un sostegno autonomo incalza in polemica con il segretario che rispetto a questo tema assicura lealtà ma non risparmia critiche -. È necessario capire se questo partito sosterrà il governo con la chiarezza necessaria e credo non basti più la formula “se il governo fa avanti, se no si stacca spina”». Dunque un nuovo governo, «presieduto da Letta che fuori dal galleggiamento recuperi il prestigio dell’esecutivo» e allontani lo spettro del logoramento che non riguarderebbe solo Letta, ma tutto il Pd.
E su questo punto torna anche il capogruppo Pd alla Camera, sul «triangolo partito-governo-gruppi parlamentari che in questo momento non funziona». Detto in estrema sintesi: la minoranza del partito non ci sta a farsi carico dell’appoggio convinto al governo mentre Renzi e i renziani assicurano che non si andrà al voto nel 2014 e poi inanellano una serie di «ma» che segano le gambe della sedia di Letta. Per Fassina il tema politico delle sue dimissioni è ancora lì sul tavolo: «Il governo Letta è figlio di nessuno», ma il Pd deve smetterla «di fare la maestrina che bacchetta il governo, dice solo le cose che non vanno». Battuta che non piace affatto a Mila Spicola, che maestra lo è davvero e allora ecco che lo invita a stare attento al linguaggio. Durissima Enza Bruna Bossio, invece, con il segretario: «Io non ci sto alle riunioni di partito nei comitati elettorali. Per quanto mi riguarda questo non deve più avvenire». La diretta streaming suggerisce toni mai troppo severi, ma i distinguo sono lì, prendono forma con il voto sulla relazione: trentacinque astenuti, gudizio sospeso, sulla relazione del segretario e fra questi c’è anche Cuperlo.

Verità storiche indiscutibili... da Claudio Sardo... (eh eh eh!)
l’Unità 17.1.14
I cattolici democratici
Vent’anni fa moriva la Dc ma non ha lasciato eredi
di Claudio Sardo


Era il 18 gennaio 1994. Mino Martinazzoli annunciò la ri-fondazione del Partito popolare nella sede storica dell’Istituto Sturzo, a Palazzo Baldassini. Poco distante, nell’hotel Minerva di Roma, la mattina di quella stessa giornata, Pier Ferdinando Casini, Clemente Mastella e Francesco D’Onofrio avevano dato vita al Ccd. La Democrazia cristiana il partito che aveva governato per quasi mezzo secolo, guidando la ricostruzione, l’industrializzazione, la crescita democratica del Paese e poi anche la degenerazione del potere chiuse così i battenti. Era appena iniziata la campagna elettorale che avrebbe portato Berlusconi al clamoroso successo. I referendum di Segni avevano imposto la svolta maggioritaria. E il ciclone di Tangentopoli aveva azzerato un’intera classe dirigente. Tuttavia entrambe le filiazioni della Dc, benché in compitizione tra loro, andavano incontro alla sconfitta.
Sì, perché anche Casini, che pure accettò da subito la sfida bipolare e uscì dalle urne del ’94 tra i vincitori, si ritrovò in posizione subalterna rispetto a quel Berlusconi, che alla Dc aveva strappato tanti elettori, ma della Dc non aveva neppure un cromosoma. La convivenza col Cavaliere è durata dieci anni: poi la rottura ha ulteriormente marcato lo spostamento a destra e la deriva populista di quella che fu la rappresentanza dei «moderati» italiani.
La sconfitta più significativa fu comunque quella di Martinazzoli. Lui, generosamente, interpretò la ri-costituzione del Ppi come «la terza fase» del cattolicesimo democratico. Quella «terza fase» che Aldo Moro aveva intravisto, auspicato, ma che venne travolta dalla mano assassina dei brigatisti. Il moroteo Martinazzoli sperò che in quei primi anni Novanta dal male della corruzione, dal blocco politico del Caf (Craxi-Andreotti-Forlani), dalla crisi di sistema in cui il Paese era sprofondato dopo l’adesione al trattato di Maastricht, potesse scattare una redenzione. I valori «buoni» della Dc, in fondo, avevano vinto e l’economia sociale di mercato era anche per la sinistra la sola difesa disponibile a fronte del liberismo arrembante: perché da quelle radici non poteva nascere una nuova pianta? Peraltro, il ritorno al Ppi era anche un riconoscimento della novità del Concilio: l’unità politica dei credenti non aveva più un fondamento teologico e la proposta «popolare» si sarebbe misurata con il pluralismo delle opzioni politiche nella stessa Chiesa.
Il maggioritario nostrano, però, prima ridusse il Ppi a una terza forza minoritaria, poi lo costrinse alla scelta: o con i progressisti o con Berlusconi. E il paradosso maggiore è che i cattolici che scelsero più convintamente la sinistra, lo fecero accettando l’oblio della raffinata cultura costituzionale della Dc, di quella capacità di usare le istituzioni per includere, di concepire la mediazione come valore, di distinguere i poteri per evitarne l’eccessiva verticalizzazione. La Dc non sarebbe stata se stessa senza la filiera di giuristi che va da Costantino Mortati a Leopoldo Elia. Non avrebbe avuto i tratti originali che abbiamo conosciuto con De Gasperi, con Fanfani, con Moro e con lo stesso De Mita, il quale compì l’ultimo serio tentativo di rigenerazione democristiana, pur dentro l’impraticabile blindatura pentapartita.
LA CULTURA COSTITUZIONALE
La spinta forte dei cattolici democratici verso l’Ulivo fu quella dei referendum e della «religione» del maggioritario. In fondo in Romano Prodi c’era uno spirito di rottura non dissimile da quello di Mario Segni: la percezione di una necessaria, radicale innovazione nelle forme della competizione politica. Un bipolarismo quasi angosassone, che non solo punisse (giustamente) l’occupazione dei partiti nella società ma anche (discutibilmente) la responsabilità dei partiti nella formazione dei governi e nella vita delle istituzioni.
La Dc nasce, prospera, dà il meglio di sé nella società divisa dalla Guerra fredda, nell’Italia che si emancipa dalla povertà, nel sistema proporzionale, nella Chiesa che protegge l’unità politica dei credenti. Le gabbie dei blocchi sociali le assegnano la rappresentanza dell’elettorato conservatore e anti-comunista, ma la Dc tenta sempre di superare se stessa e si concepisce sin dalle origini come «un centro che guarda a sinistra». Il no di De Gasperi al Papa che gli chiedeva di aderire all’«operazione Sturzo» è un vero e proprio atto fondativo della Dc, della sua laicità e della sua fedeltà alla Costituzione. In fondo De Gasperi si rifiutò di fare cio che Berlusconi fece quarant’anni dopo: un’alleanza senza confini a destra.
Ovviamente la Dc ebbe diversi sbandamenti a destra: negli anni 50 fino alle pagine nere del governo Tambroni, poi ancora negli primi anni 70. La sua vita interna è stata piena di battaglie. Spesso decisive per il Paese. Era il partito della nazione. Nel bene e nel male. E con Moro, che rispettava il radicamento e la cultura nazionale del Pci, arrivò fino a tentare un salto democratico non compatibile con i rapporti di forza internazionali del tempo.
Oggi non sentiamo più alcuna nostalgia della Guerra fredda, né dell’unità politica dei cattolici. La Dc non ha più ragion d’essere. Eppure quella cultura personalista sedimentata nei corpi intermedi e nella Costituzione, quel senso del limite della politica e dei poteri, quell’idea delle istituzioni come mediazione (e non negazione) dei conflitti, sarebbe oggi utile. Anche a sinistra. Se il Pd vuol essere il partito della ricostruzione nazionale, non ha interesse ad azzerare la storia. Il nuovismo è effimero: la parabola di Berlusconi l’ha dimostrato. Non è un caso che, seppure la Dc non abbia veri eredi, i leader più giovani ed emergenti abbiano una discendenza proprio da quella storia.

Togliatti - e noi! non abbiamo sbagliato mai niente! Parola di marxista ratzingheriano...
l’Unità 17.1.14
I comunisti
Unità nazionale e conflitto: così è cambiata la sinistra
Da Togliatti a Berlinguer la storia del Pci si modellò nel confronto col partito «dei cattolici». Con sconfitte e successi. Fino alla rottura di Occhetto
di Giuseppe Vacca


Il giudizio del Pci sulla Dc durante la Prima Repubblica fu molto oscillante. Si può dire, però, che fino alla fine degli anni Settanta le oscillazioni corrispondevano a modalità diverse di far leva sulla sua ispirazione antifascista, mentre negli anni Ottanta, con la crisi del paradigma antifascista, l’avvicinamento al socialismo europeo e la scelta della «democrazia dell’alternanza», il Pci se ne fece un’altra immagine e cercò di spingere la Dc ad assumere il ruolo di un grande partito di destra di stampo europeo.
Fino all’inizio degli anni 70 la definizione predominante della Dc era nel Pci quella di «partito di governo della borghesia», risalente a Palmiro Togliatti. Ma conviene ricordare che Togliatti fu interprete di fasi molto diverse dei rapporti fra Pci e Dc. Nel triennio dei governi di unità antifascista (1944-47) favorì l’avvento di De Gasperi alla presidenza del Consiglio e l’assunzione di un ruolo preminente della Dc nella compagine di governo. Queste scelte erano dettate non solo da realismo politico o da calcoli di partito. Certo, Togliatti sapeva che nella sfera d’influenza occidentale, in cui era collocata l’Italia, non potevano essere le sinistre a primeggiare nel governo e d’altro canto la crescita del ruolo della Dc favoriva quella del Pci nella sinistra, essendo i due partiti di massa più dotati di risorse militanti e adesioni popolari. Ma la scelta di favorire l’ascesa di De Gasperi era legata anche al convincimento di poter contare sul fatto che la Dc non avrebbe potuto facilmente rinunciare alla sua ispirazione antifascista senza mettere in crisi l’«unità politica dei cattolici», necessaria a vincolare la Chiesa alla democrazia repubblicana.
Dopo il quinquennio più aspro della guerra fredda e la sconfitta del centrismo nelle elezioni del 1953, la Dc decise di raccogliere la sfida delle sinistre e questo consentì al Pci di inserirsi nella nuova fase politica favorendo l’apertura ai socialisti e giuocando la carta della sinistra democristiana per ricostruire l’arco delle forze che avevano collaborato alla stesura della Costituzione e potevano sostenere un programma di riforme che si proponesse di attuarla. Secondo Togliatti, questa politica doveva mirare a mettere in crisi la centralità democristiana e per questo coniò un’immagine negativa della Dc degasperiana con l’ambizione di influire sulla lotta delle sinistre al suo interno. Quell’immagine della Dc «partito della restaurazione capitalistica» e «partito americano», inaffidabile anche sul terreno dell’antifascismo, rimase uno stereotipo della cultura politica del Pci fino ai primi anni 70, per essere poi incrinata ma non sradicata dalla mentalità delle sinistre in cui è fortemente presente anche ai giorni nostri.
Fu incrinata negli anni in cui i protagonisti della scena politica divennero Moro e Berlinguer: gli anni della «strategia dell’attenzione» e del «compromesso storico». Alla base delle loro politiche vi era l’intuizione condivisa che l’instabilità internazionale e il «conflitto economico mondiale», seguiti alla fine del sistema di Bretton Woods e del «trentennio d’oro» della crescita mondiale e dello Stato sociale, riproponesse acutamente il problema della fragilità interna e della debolezza internazionale dell’Italia; perciò le due principali forze politiche dovevano cercare di convergere e di rafforzarne la coesione interna. Moro e Berlinguer condividevano una visione del problema italiano ereditata da De Gasperi e Togliatti, fondata sull’esperienza del fascismo. Quindi erano convinti che in un periodo storico di
instabilità internazionale e di acuti conflitti sociali una polarizzazione radicale secondo lo schema destra-sinistra avrebbe ridato fiato allo «spessore reazionario» della società italiana, consegnando «i moderati» all’egemonia di una destra antidemocratica e spingendo la Chiesa a fare blocco con essa. Moro e Berlinguer condividevano, perciò, anche l’idea che la crisi della democrazia repubblicana, insidiata dalla «strategia della tensione», dallo stragismo neofascista e dal terrorismo di sinistra, colpisse innanzitutto la Dc, che oltre a essere il perno del sistema politico era anche la principale garanzia della sua evoluzione. Questo indusse Moro ad adoperarsi per spostare tutta la Dc sul terreno del «confronto» col Pci e Berlinguer a spingere il Pci a mutare l’immagine della Dc riconoscendone il carattere di partito nazionale e popolare.
LA DEMOCRAZIA BLOCCATA
Il fallimento della «solidarietà nazionale», l’assassinio di Moro e l’inizio della «nuova guerra fredda» mutarono drasticamente lo scenario politico. L’anticomunismo dei neoconservatori che avevano assunto la guida degli Usa e della Gran Bretagna era molto più assertivi del passato, mentre l’opzione europea della politica italiana era ormai condizionata dal progetto di integrazione a egemonia tedesca avviato da Helmut Schmidt. Nel regime di «democrazia bloccata» che né Moro, né il Pci, avevano avuto la forza di superare, il Pci era una forza ormai isolata che rischiava un inarrestabile declino. La nuova generazione che prese in consegna le sorti del partito fra l’88 e l’89 fece quindi l’unica cosa vitale che si potesse fare: avviò un ricambio della sua cultura politica e ne decretò la fine. Il gruppo dirigente occhettiano era consapevole che eliminando il supporto dell’anticomunismo alla «costituzione materiale» del sistema di governo si apriva una voragine e cercò di colmarla con risorse culturali e politiche che non avevano avuto una sedimentazione adeguata.
Per limitarmi al tema che sto trattando, concepì il passaggio alla democrazie dell’alternanza come una semplificazione tendenzialmente bipartitica del sistema politico secondo uno schema sinistra-destra e, per giustificare la sua scelta propose una banalizzazione della storia della Prima Repubblica che, per farmi capire, rendo di proposito caricaturale: quarant’anni di consociativismo e di malgoverno democristiano. L’unico riferimento consolidato di questa visione era la «cultura radicale» e si può capire perché, da queste premesse, fosse difficile provare interesse per i tentativi di rifondare politicamente il cattolicesimo democratico. Sulle ceneri della Prima Repubblica aleggiava il fantasma del «nuovo inizio» che favorì l’avvento di Forza Italia.

l’Unità 17.1.14
Il proporzionale e gli alchimisti
di Luciano Canfora


Caro Direttore,
ora che la Consulta ha depositato le motivazioni della sentenza ed il «premio di maggioranza» è stato archiviato come «incostituzionale», le conseguenze di questo passaggio d’epoca che chiude il ventennio «maggioritario» meritano di essere messe in chiaro.
1) Ormai la legge elettorale c’è; è falso che sia urgente inventarne una, quasi a colmare un vuoto. Non c’è un vuoto legislativo. In forza della sentenza, perfezionata a tutti gli effetti con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, è attualmente in vigore un sistema proporzionale con sbarramento al 4%.
Infatti lo sbarramento attualmente vigente non era compreso nella materia sottoposta al vaglio della Corte: e dunque resta in piedi.
2) È deplorevole che questo specifico dato venga nascosto ai cittadini dai mezzi di comunicazione. Se lo si scrivesse a chiare lettere, i cittadini si chiederebbero che senso abbia l’attuale frenesia alla ricerca di una legge elettorale visto che non solo ce n’è già una, ma c’è anche l’agognato «sbarramento» atto a tranquillizzare chi finge di preoccuparsi della «frantumazione» partitica additata di norma (in discreta malafede) come patologia tipica proporzionale. Frantumazione non ci può dunque essere perché comunque è in vigore lo «sbarramento» al 4%.
Dunque cosa vogliono? Vogliono una legge che consenta ad una maggioranza relativa di diventare, in sede parlamentare, maggioranza assoluta: nel che risiedeva il nucleo fondamentale della legge Acerbo voluta da Mussolini nel 1923 e messa in atto alle elezioni mortifere del 1924. Veicolo di tale miracolo (una minoranza di elettori che produce una maggioranza di eletti) è il famigerato «premio di maggioranza». Per lo meno, la improvvida «legge truffa», bocciata dagli elettori il 7 giugno del 1953, dava il «premio» alla lista (o coalizione) che avesse superato, sia pure di un solo voto, il 50% dei suffragi!
Fingere che si debba escogitare una nuova legge elettorale perché in questo momento ne siamo privi è anche un sopruso: è quasi circonvenzione, come di incapaci, della gran parte dei cittadini-elettori. Il ruolo di stampa, radio, tv può risultare di vera e consapevole complicità.
L’argomento che si ode più spesso ripetere al fine di esorcizzare la legge elettorale proporzionale (con sbarramento) attualmente vigente è che si avrebbe daccapo un Parlamento ingovernabile dato l’arroccamento semi-aventiniano e fatuamente sterile dei «cinquestellanti». Ma già oggi, con un Parlamento eletto con un sistema ultramaggioritario («Porcellum»), il risultato è uguale: l’impossibilità di dar vita ad una maggioranza politica definibile come tale! Dunque si dovrebbe inventare addirittura qualcosa di più mostruoso, di più aberrante del «Porcellum», per superare una siffatta difficoltà.
Essa è dovuta alla scelta di un partito (al quale si accredita un terzo dell’elettorato) di tirarsi fuori da ogni alleanza: tecnica adoperata già dal movimento hitleriano negli ultimi anni di Weimar. Ma una tale scelta non la si sconfigge a colpi di trucchi elettorali, bensì politicamente. Se si è capaci di ciò. E invece su questo terreno per ora nessuno seriamente si cimenta.
Bisogna dunque smetterla di escogitare leggi elettorali più o meno alchemiche fondate sul presupposto seguente: siccome prevedo il risultato, devo provvedere a truccarlo!

Corriere 17.1.14
Avanza il partito del proporzionale ma non prendiamocela con la Consulta
di Paolo Franchi


Sorpresa. «Sotto il cielo della politica», come direbbe Enrico Mentana, gli adepti della proporzionale sono tanti. Tantissimi. Un’infinità.
A propiziare la scoperta sono state le motivazioni con cui la Corte costituzionale ci ha spiegato quello che, volendo, si sarebbe potuto facilmente desumere sin dalla sentenza. In poche parole: venendo meno i due capisaldi del Porcellum (un premio di maggioranza abnorme e non subordinato al superamento di una soglia minima di voti e le liste bloccate), una legge elettorale che consente, all’occorrenza, di andare a votare anche domani mattina comunque c’è, ed è quella con cui si votò nelle ultime elezioni della Prima Repubblica, correva l’anno 1992: proporzionale e preferenza unica. Il Parlamento (legittimo) può cambiarla, ci mancherebbe, e, se è per questo, la Consulta fa sapere in anticipo che, magari con qualche integrazione, potrebbero andar bene tutte e tre le soluzioni proposte da Matteo Renzi, Mattarellum rafforzato, modello spagnolo e sindaco d’Italia. Ma, se non volesse o non potesse o non sapesse farlo, la cosa non riguarderebbe la Corte. Che, come è noto, è il giudice delle leggi varate dal legislatore ordinario, non di quelle che il legislatore ordinario non riesce, per un motivo o per l’altro, a varare.
Non è il caso, ovviamente, di mettere in conto alla Consulta né l’arrogante pressapochismo politico e istituzionale che ci ha regalato il Porcellum né l’ignavia furbastra con cui per anni si è evitato di riformarlo radicalmente prima che questa (annunciatissima) decisione provvedesse a toglierlo di mezzo. Tanto meno è il caso di imputarle, adesso, l’emergere di un vasto e variopinto fronte vetero e neo proporzionalista che cerca di trarre in qualche modo profitto dalla sentenza. Dandosi come collante la difesa del particulare di ciascuna delle sue componenti e, prima ancora, la comune volontà di cercare di prendersi il maggior tempo possibile in attesa di non si sa bene cosa.
I proporzionalisti dichiarati hanno le loro buone ragioni, di principio e non solo. Che però non reggono di fronte a un paio di obiezioni semplici semplici. La prima è d’ordine, per così dire, generale: un sistema votato in primo luogo a soddisfare le (sacrosante, insopprimibili) esigenze della rappresentanza politica presuppone l’esistenza di ciò che invece è clamorosamente venuto meno e ben difficilmente prenderà di nuovo corpo, cioè di partiti che, per l’appunto, rappresentino nella società prima ancora che in Parlamento interessi, valori, progetti, programmi, e su questa base individuino le ragioni del conflitto, che della democrazia è il sale, così come quelle del compromesso, senza il quale è capitato spesso alle democrazie di finire a carte quarantotto. La seconda, che alla prima è strettamente legata, è invece di natura per così dire pratica: nessuna riforma elettorale basta, da sola, a garantire la governabilità, ma è certo che, se votassimo di nuovo con la legge elettorale del 1992 ci rinunceremmo in partenza.
Ma queste banalissime osservazioni non si sa esattamente a chi muoverle. Perché i proporzionalisti dichiarati alla Beppe Fioroni sono pochi, molto pochi, una minoranza esigua che parla una lingua del passato e fatica persino a riacquistare la voce, rompendo la regola del silenzio disciplinatamente praticata negli anni in cui si professava niente meno che la «religione del maggioritario». Molto ma molto più numerosi (un’infinità, abbiamo detto non troppo scherzosamente) sono i cripto proporzionalisti, chiamiamoli così, o meglio i proporzionalisti ancora solo potenziali, del tutto disinteressati alle questioni sistemiche, nonostante il sistema rischi di venir giù assieme a loro, e attentissimi invece a quelle che sono, o immaginano che siano, le loro convenienze. L’elenco è sui giornali da giorni, ed è sterminato: da Beppe Grillo a Silvio Berlusconi, passando per un pezzo del Pd, Angelino Alfano, Pier Ferdinando Casini … Probabilmente contiene qualche nome e qualche gruppo politico di troppo, che nei prossimi giorni bisognerà depennare. Ma non si sfugge alla sensazione, o qualcosa di più, che l’unico davvero determinato a cambiare (così determinato da sfidare Enrico Letta e buona parte del suo partito, guardando ben oltre la maggioranza di governo per cercare un’intesa direttamente con Berlusconi) sia Renzi. Guarda caso, l’unico attore politico sulla scena convinto che con una nuova legge a vincere sarebbe lui, a condizione, ovviamente, che si voti il più rapidamente possibile, e non nell’anno del mai. Può darsi che il Cavaliere, per interesse e per fedeltà alla sua antica, conclamata e sin troppo praticata vocazione maggioritaria voglia davvero marciare di conserva con lui, partecipando così al rito della sua investitura. Ma non ci giureremmo.
Tra pochi giorni la riforma della legge elettorale inizierà ancora una volta il suo cammino parlamentare. Gli appelli e le dichiarazioni di disponibilità a fare bene e rapidamente si moltiplicano. I sospetti che non se faccia nulla pure. C’è da sperare, si capisce, che tanti solenni impegni vengano rispettati. Ma, se i sospetti si riveleranno fondati, non sarà certo il caso di prendersela con la Consulta.

Repubblica 17.1.14
La voglia di inciucio dei proporzionalisti
di Curzio Maltese


SULL’ULTIMA spaccatura del Pd, la milionesima, occorre fare una premessa tanto ovvia quanto necessaria. Nelle democrazie è normale e auspicabile che la legge elettorale sia decisa d’accordo fra destra e sinistra. Non è normale invece che destra e sinistra siano insieme al governo. Nel mondo alla rovescia della politica italianasta accadendo il contrario.
La parte del Pd che ha governato per due anni e fino all’altro giorno con Berlusconi si scandalizza se il nuovo segretario Matteo Renzi vuole discutere con il capo della destra la legge elettorale. All’improvviso i bersaniani, i dalemiani e altri correntisti del Pd hanno scoperto dopo vent’anni che Berlusconi è inaffidabile, ha un sacco di problemi con la giustizia, processi in corso, condanne, e insomma non è una persona con cui trattare. Cristianamente, si dovrebbe festeggiare questo ritorno a casa dei figlioli prodighi uccidendo il vitello grasso. È dai tempi della Bicamerale che scriviamo questo suRepubblica, spesso accusati dai vertici del centrosinistra di antiberlusconismo viscerale, estremismo ideologico e impolitico. Ora si sono convinti: evviva. Ma sui pentiti della sinistra è lecito avere qualche sospetto.
È del tutto legittimo che Renzi voglia discutere le riforme istituzionali e la legge elettorale con la destra. A patto naturalmente che lo faccia alla luce del sole. In questo il segretario del Pd deve dimostrare di essere davvero un uomo nuovo della politica. Diverso dalla destra, che ha fatto approvare una legge elettorale, per giunta una porcata incostituzionale, a colpi di maggioranza e contro l’opposizione. Diverso da Berlusconi stesso, che ha sempre usato i tavoli del dialogo con la sinistra per ottenere sottobanco favori personali e aziendali. Diverso anche dai vecchi dirigenti della sinistra, che quei favori li hanno concordati, come ha ammesso Luciano Violante in parlamento, a costo di deformare la democrazia italiana. Ma fin qui siamo nel campo dell’ovvio. Più complicato è capire che cosa spinga la nomenklatura del Pd, e non solo, a opporsi al dialogo su una legge elettorale maggioritaria. Perché di questo si tratta e non di una poco credibile obiezione etica alla trattativa con l’ex alleato Berlusconi.
Diciamo la verità, monta una gran voglia di proporzionale nel ceto politico vecchio e nuovo, insieme all’idea di archiviare la seconda repubblica con un ritorno all’antico, alla prima. Si tratta di un interesse trasversale, che riguarda molte botteghe e aziende politiche rappresentate in Parlamento. Il proporzionale piace alla vecchia nomenklatura del Pd, che preferisce governare con la destra piuttosto che farsi rottamare da un possibile governo Renzi. Il proporzionale piace moltissimo agli ormai minuscoli centri di Monti e Casini e al partitino di Alfano, che possono giocare al ruolo di Ghino di Tacco e chiedere pedaggio a qualsiasi futura maggioranza. Non dispiace perfino a Berlusconi, che oggi tratta con Renzi, ma domani potrebbe tornare in un governo di larghe intese, dipende naturalmente da chi gli offre che cosa. Il sistema proporzionale entusiasma poi i nuovi entrati del Movimento 5 Stelle, i quali hanno appena scoperto quant’è bello ballare sul Transatlantico mentre l’Italia va in rovina e non vogliono per nessuna ragione rinunciare ai vantaggi di un’opposizione di sua maestà ai futuri governissimi. Una legge elettorale proporzionale in definitiva accontenta tutti i gruppi che contano in Parlamento, o quasi. Svantaggia soltanto sessanta milioni d’italiani, stremati da governi di larghe intese e piccoli orizzonti, che vorrebbero uscire dall’eterna emergenza. Se si facesse un referendum su proporzionale o maggioritario, vincerebbe il secondo con un plebiscito, oggi come allora. Ma siccome l’opinione degli italiani seguita a non contare nulla nei giochi dei partiti, vecchi e nuovi, è molto probabile che alla fine si arrivi a una legge proporzionale.
Non sarà eccessivo almeno chiedere un atto di onestà ai tifosi del proporzionale. La verità, per favore. Il problema non è se Renzi tratta con Berlusconi, come hanno fatto tutti e su tutto prima di lui. Il problema è non fare la legge elettorale, punto e a capo, e usare la sentenza della Corte Costituzionale per tornare al proporzionale puro e ai fasti della prima repubblica. È questo il nuovo, vero e grande inciucio. Nella perenne emergenza i cittadini vivono malissimo, ma il ceto politico, da Alfano a Casaleggio, compreso il vecchio Pd, se la passa assai bene. E dunque, che ragione c’è di cambiare?

La Stampa 17.1.14
Per distruggere l’arsenale di Assad ci vorranno almeno novanta giorni
di Paolo Mastrolilli

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il Fatto 17.1.14
Gioia Tauro, pattumiera chmica
Il porto calabrese attende, tra timori e proteste, l’arrivo delle navi con l’arsenale tossico
di Daniele Martini e Lucio Musolino


Gioia Tauro Alla fine le armi chimiche di Assad transiteranno dal porto di Gioia Tauro. Quando arriverà la nave danese “Arc Futura” si effettuerà il trasbordo su quella americana “Cape Ray” (entro metà febbraio). Operazione necessaria prima di distruggere il contenuto dei centinaia di container. L'annuncio è del ministro degli Esteri, Emma Bonino, che ha spiegato come l'Italia “ha offerto sia un contributo finanziario, sia il porto di Gioia Tauro”. “Una vergogna che le armi chimiche siriane siano stoccate qui e che l'Italia abbia messo a disposizione dell'operazione il proprio territorio, cosa che non ha fatto nessun altro Paese”. Per il segretario dell’Italia dei Valori, Ignazio Messina, arrivato in serata in Calabria, non ci sono margini di discussione e attacca il ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi: “La cosa ancora più grave è che Lupi abbia detto che in due anni 3 mila container con sostanze della stessa pericolosità siano già stati trattati a Gioia Tauro. Invitiamo il governo a impedire lo sbarco. L’Italia fa la parte del commensale schiavo che pulisce la tavola dopo il banchetto”.
NEL PIAZZALE antistante l'ingresso del porto, spunta una bandiera dell'Idv. Poco più in là alcuni portuali. Uno di loro lavora proprio sulle gru che dovrebbero spostare le armi chimiche: “Quei container non li vogliamo lavorare. Se vogliono, possono chiamare i soldati per fare il nostro lavoro. Siamo sempre gli ultimi a sapere le cose. La sicurezza non ha prezzo”. “Non abbiamo notizie ufficiali”, aggiunge il coordinatore dei portuali del Sul, Domenico Macrì: “Vorremmo capire perché hanno scelto proprio questo porto. Sono certo della professionalità dei lavoratori, però mi preoccupa il contesto e vorrei capire quali misure di sicurezza stanno adottando”. Carmelo Cozza, segretario del Sul: “Se dalla Capitaneria e dall'Autorità portuale ci vengono date tutte le garanzie sulla sicurezza dell'operazione e viene allestito un sistema di protezione e un piano di emergenza contro tutti i pericoli, compresi quelli sanitari, allora e solo allora siamo disponibili a fornire il nostro lavoro per il trasbordo. Altrimenti siamo pronti a bloccare il porto. Il nostro lavoro comporta ovviamente anche rischi, per esempio solo a Gioia Tauro vengono sbarcati e reimbarcati gli esplosivi desensibilizzati. Ma tutt'altra cosa sono le armi chimiche”. Medcenter Contship è il terminalista prescelto dal governo per l'operazione. Ha in concessione 3,4 chilometri di banchine su un totale di 5. Movimenta 3 milioni e 100mila container ogni anno e quindi spostare i container con le armi chimiche sarebbe uno scherzo se non si trattasse di roba ad altissimo rischio.
FONTE UFFICIALE Medcenter spiega che trattandosi di un trasbordo tra due navi Ro-Ro (la danese Ark Futura e l'americana Cape Ray), probabilmente saranno posizionate affiancate ortogonalmente alla banchina Nord (che ricade nel comune limitrofo di San Ferdinando) e poi svuotate e riempite con una sorta di muletti che faranno la spola da un’imbarcazione all’altra prelevando e deponendo un container alla volta. Solo in serata arriva la prima e unica dichiarazione del governatore della Regione Scopelliti: “È vero che la Calabria può offrire un contributo contro le armi chimiche e per la pace nel mondo, ma è anche vero che così facendo si rischia di portare alla guerra civile un territorio”. Eppure sembrerebbe che da Roma, in via riservata, Scopelliti fosse già stato informato da una settimana sull’arrivo delle navi. Un disarmo che stona con l'articolo 1 della legge 185 del 1990 che traccia le “nuove norme sul controllo dell'esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento”. Al comma 7 recita: “Sono vietate la fabbricazione, l'importazione, l'esportazione e il transito di armi biologiche, chimiche e nucleari”. Il transito appunto.

l’Unità 17.1.14
Navi dei veleni
Armi siriane a Gioia Tauro. La rabbia dei sindaci
di Umberto De Giovannangeli


Sostengono di non essere stati avvertiti. Affermano di averlo saputo a decisione presa. La rivolta dei sindaci della Piana contro le «navi dei veleni». È il porto calabrese di Gioia Tauro quello nel quale transiteranno le armi chimiche provenienti dalla Siria che si trovano a bordo di quattro navi danesi e norvegesi. L’annuncio del capo dell’Opac (l’Organizzazione per la proibizione delle Armi Chimiche), Ahmet Uzumcu, viene confermato dal ministro dei Trasporti Maurizio Lupi alle Commissioni riunite Affari esteri e Difesa di Camera e Senato. Il transito di circa 560 tonnellate di sostanze chimiche letali dovrebbe avvenire tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio e in non più che 48 ore. Il diplomatico turco ha assicurato che «è stata presa ogni misura possibile per un trasferimento sicuro: i rischi sono molto evidenti e abbiamo preso tutte le misure per ridurli al minimo».
«Si tratta della più importante operazione di disarmo degli ultimi 10 anni, più importante di quella che sta avvenendo in Libia», rimarca la ministra degli Esteri Emma Bonino nel corso dell’audizione davanti alle commissioni riunite Esteri e Difesa. L’offerta del porto italiano ha aggiunto la titolare della Farnesina si inserisce nella linea che il governo italiano ha seguito dall’inizio, quella della soluzione politica del conflitto siriano». In Italia, ha poi aggiunto il capo dell’Opac «si svolgerà presto una riunione tecnica con esperti di Usa, Danimarca e Norvegia per calcolare ed elaborare le operazioni. Ci attendiamo che possa avvenire in tempi molto rapidi e in modo molto fluido. Si tratta di una operazione singola». Uzumcu ha ringraziato Roma «per l’eccellente sostegno all’operazione» di eliminazione delle armi chimiche siriane e per il «generoso contributo» dato «mettendo a disposizione un proprio porto», a cui si aggiunge un contributo di tre milioni di euro al fondo fiduciario dell’Opac e il velivolo di trasporto per gli ispettori che operano in Siria. «La decisione italiana rimarca Uzumcu è fondamentale, in particolare, per la distruzione degli agenti mostarda».
«NON È DEMOCRAZIA»
Ma il sindaco di Gioia Tauro non ne sapeva nulla. «Non mi avevano informato. Mettono a repentaglio la mia vita. Se succede qualcosa la popolazione mi viene a prendere con un forcone», afferma il primo cittadino di Gioia Tauro Renato Bellofiore, lista civica. «È gravissimo, forse il ministro Bonino non sa cos’è la democrazia. È la solita scelta calata dall’alto. Siamo considerati una popolazione di serie B. Tra l’altro, qui non c’è un ospedale attrezzato». Preoccupato anche Domenico Madaffari, sindaco di San Ferdinando, il comune in cui ricade il 75% del porto tutte le banchine anche lui sostenuto da una lista civica: «Stiamo valutando di emettere un’ordinanza per chiudere il porto». Fonti del governo precisano che a Gioia Tauro verranno scaricate 560 tonnellate di agenti chimici, ma fanno notare che ogni giorno nei porti italiani vengono movimentate 2000 tonnellate di agenti chimici della stessa pericolosità e che lo scalo calabrese è attrezzato per la gestione di questi carichi che effettua ogni giorno.
Dalle precisazioni ufficiose alla nota ufficiale. «In stretto raccordo con l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac), l’Italia metterà a disposizione il porto di Gioia Tauro» per il passaggio delle armi chimiche provenienti dalla Siria. A Gioia Tauro «il materiale sarà caricato su altra imbarcazione e trasportato al di fuori del territorio nazionale per le operazioni di distruzione». A renderlo noto è un comunicato della presidenza del Consiglio. «Aderendo alle disposizioni contenute nella Risoluzione 2118 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 27 settembre 2013 spiega Palazzo Chigi il Governo italiano, che ne ha informato il Parlamento, ha deciso di contribuire all’azione della comunità internazionale diretta alla distruzione di armi chimiche siriane impiegate nei mesi scorsi ai danni di popolazioni civili nel drammatico conflitto che ha luogo nel Paese». L’operazione di distruzione delle armi, «che verrà completata in breve tempo, sarà svolta secondo i più alti standard di sicurezza e di tutela dell’ambiente, presso strutture specificamente attrezzate. In linea con lo storico impegno del nostro Paese a sostegno della pace e della sicurezza internazionale conclude il comunicato questo sforzo costituisce un contributo concreto e imprescindibile a garanzia della stabilità e della sicurezza nella regione mediterranea e mediorientale».
Le armi chimiche siriane da distruggere attualmente sono depositate in circa 1.500 container sulla nave danese che farà scalo a Gioia Tauro e poi saranno trasbordate sulla nave statunitense Cape Ray. La successiva distruzione a bordo della nave americana avverrà in acque internazionali mediante un procedimento di idrolisi, i residui verranno trasferiti all’estero per essere convertiti in sostanze utilizzabili dall’industria chimica e non ci saranno sversamenti in mare di nessun tipo in quanto tutti gli agenti verranno trattati all’interno di un ciclo chiuso supervisionato dalle Nazioni Unite. La Siria ha un magazzino totale dichiarato di 1.290 tonnellate tra armi, sostanze e precursori. Mercoledì scorso, tra l’altro, il regime siriano ha denunciato l’attacco a due siti e ieri il capo dell’Opac si è detto preoccupato che l’eventualità si ripeta: «Sarebbe preoccupante che ci fossero tentativi di accaparrarsi di quei prodotti chimici: non credo sia nell’interesse di nessuno».

La Stampa 17.1.14
Il vento di Michela Murgia pronto a spazzare via Pdl e Pd
Sardegna al voto tra un mese. La scrittrice in testa ai sondaggi
e Cappellacci ora la teme
di Giuseppe Salvaggiulo

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Corriere 17.1.14
Preti pedofili
«Perché le coperture?» L’agenzia Onu interroga i delegati vaticani
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO — «Quali misure avete preso?». «Perché ci sono state coperture?». Nel giorno in cui la Santa Sede risponde a Ginevra al Comitato sui diritti del fanciullo, e con l’osservatore Silvano Tomasi elenca le misure severe adottate negli ultimi anni assicurando di voler «diventare un esempio» nella lotta alla pedofilia e per la protezione dell’infanzia, Papa Francesco pronuncia un’omelia durissima contro «gli scandali» che sono stati «la vergogna della Chiesa», la «corruzione» di «preti, vescovi e laici» che magari avevano «una posizione di potere e comodità» ma nei quali «la parola di Dio era rara: non avevano un legame con Dio!». Fino a esclamare una frase (tanto più significativa, visto che alla messa c’era pure il cardinale Mahony, l’ex arcivescovo di Los Angeles che fu accusato d’aver coperto 129 casi di abuso) che sembra far riferimento ai risarcimenti pagati da diverse diocesi: «Ma ci vergogniamo di tanti scandali? Alcuni hanno fatto pagare tanti soldi: sta bene! Si deve fare così... la vergogna della Chiesa!». Quello di Ginevra non era un «tribunale». La Santa Sede, tra i primi dei 193 Paesi che ne fanno parte, aderì alla Convenzione sui diritti del fanciullo nel 1990. Il Comitato ne controlla l’applicazione ed è composto a turno dagli stessi membri. Ognuno presenta un rapporto periodico e in questa sessione, assieme ad altri come Germania e Russia, la Santa Sede doveva rispondere (dopo averlo fatto per iscritto, a novembre) a una serie di domande. A febbraio riceverà delle «raccomandazioni» non vincolanti. Al centro della discussione, il classico problema della distinzione tra Santa Sede e Chiesa universale. «L’accusa alla Santa Sede di avere ostacolato l’attuazione della giustizia mi sembra un po’ campata per aria», dice monsignor Tomasi. Preti o religiosi del mondo non sono «funzionari» o «dipendenti» di Roma, hanno spiegato i rappresentanti vaticani. E i casi di abuso — dall’Irlanda ai Legionari di Cristo — non hanno a che fare con «il rispetto della Convenzione da parte della Santa Sede»; i responsabili devono rispondere alle leggi dei loro Paesi, che hanno il «diritto e dovere» di perseguirli. Tomasi e monsignor Charles Scicluna, che da «pm» del Sant’Uffizio impostò il giro di vite voluto da Ratzinger, hanno ricordato l’inasprimento delle norme, le «linee guida» (trasparenza, collaborazione con le autorità) imposte da Roma alle chiese del mondo, la «commissione ad hoc» voluta da Francesco per prevenire, la necessità di «trasparenza e responsabilità» in ogni diocesi. Resta il caso del nunzio Józef Wesolowski che è cittadino vaticano e sarà giudicato penalmente, ha confermato Tomasi, «con la severità che merita».

il Fatto 17.1.14
L’Onu torchia la Santa Sede “Basta opacità sui preti pedofili”
di Andrea Valdambrini


C’è sempre una prima volta. Anche per la più segreta e misteriosa delle istituzioni, la Santa Sede, che amministra la giustizia nel chiuso delle sue mura senza riferirsi ai tribunali ordinari – e lo fa nei molti casi di abusi sessuali da parte del clero sui minori che hanno attraversato la storia recente.
Per la prima volta una delegazione vaticana ha pubblicamente riferito di fronte alla giuria delle Nazioni Unite a Ginevra. Delegazione certamente di alto profilo, guidata dall’osservatore permanente presso l’Onu, il vicentino arcivescovo Silvano Tomasi e composta, tra gli altri, da monsignor Charles Scicluna, ora vescovo di Malta, che ha a lungo ricoperto il ruolo di promotore di giustizia – ovvero procuratore generale – sui casi di pedofilia presso la Congregazione per la Dottrina della Fede.
Nell’audizione a Ginevra, Scicluna ha riconosciuto come in passato ci sia stata troppa lentezza nel contrasto agli abusi sui minori, ma ora il Vaticano è determinato a fare chiarezza, aggiungendo poi che la magistratura dei Paesi in cui ci sono inchieste aperte deve agire contro chiunque tenti di coprire crimini o depistare le indagini, sacerdoti e vescovi per primi, se è il caso. Da parte sua, Tomasi ha fatto riferimento alla fermezza con cui viene trattato monsignor Wesolowski, già nunzio in Repubblica Dominicana, accusato di abusi, richiamato in Vaticano dove verrà sottoposto a un doppio processo.
I componenti della commissione Onu per i diritti dell’infanzia, però, non hanno risparmiato domande e critiche sulla gestione dei tanti casi di pedofilia emersi, dall’Irlanda agli Usa passando per il Messico - dove il fondatore della potente congregazione dei Legionari di Cristo padre Maciel è reso responsabile di abusi a lungo coperti dalle autorità ecclesiastiche.
SARA OVIEDO – che ha l’incarico di investigatrice sui diritti umani - ha incalzato Scicluna sul perché i religiosi sospettati di molestie sono spesso stati trasferiti di sede piuttosto che denunciati alla polizia. La presidente della commissione Onu ha aggiunto: “Il modo migliore per prevenire nuovi abusi è quello di fare chiarezza su quelli passati. Il vostro modo di agire, però, non sembra essere troppo trasparente”.
All’indomani della sua elezione, Papa Francesco ha chiesto alla Chiesa un’azione decisa contro gli abusi sessuali e più recentemente ha annunciato l’istituzione di una commissione d’inchiesta vaticana.

Repubblica 17.1.14
Abusi, l’Onu interroga il Vaticano “Più impegno con i preti pedofili”
Sarà processato un prelato polacco. Il Papa: “Vergogna per la Chiesa”
di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO — Impegno a eliminare lo scandalo della pedofilia nella Chiesa. E annuncio di un processo in Vaticano per un diplomatico polacco accusato di abusi sessuali sui minori. Con questa doppia promessa formale la Santa Sede ieri ha risposto comparendo per la prima volta davanti a un organismo internazionale, l’Onu a Ginevra, per fornire spiegazioni sull’imbarazzante caso internazionale scoppiato nel 2011.
Accusato per anni di aver coperto lo scandalo per difendere la propria reputazione, e scosso dall’entità del fenomeno, il Vaticano ha poi ordinato a tutti i vescovi di denunciare alla giustizia ordinaria del proprio Paese i membri del clero accusati di pedofilia. E Papa Benedetto XVI prima, e Papa Francesco dopo, hanno promesso una nuova linea. A comparire per rispondere alle domande di un comitato delle Nazioni Unite sull’applicazione della Convenzione per i diritti del fanciullo era una delegazione di 6 persone guidata dall’osservatore permanente della Santa Sede a Ginevra, monsignor Silvano Tomasi, di cui faceva parte anche l’ex procuratore per i reati sessuali, monsignor Charles Scicluna, autore fino a pochi anni fa di denunce non sempre gradite in ambito ecclesiale, oggi vescovo a Malta.
Nell’interrogatorio Scicluna ha riconosciuto che la Santa Sede è stata lenta ad affrontare la crisi, ma ha aggiunto che è adesso impegnata a farlo e incoraggiato i procuratori a intraprendere azioni contro chiunque ostacoli la giustizia. Duro l’intervento dell’investigatrice del comitato per i diritti umani, Sara Oviedo, la quale ha incalzato la delegazione vaticana chiedendo le ragioni per cui spesso i sacerdoti accusati diabusi siano stati trasferiti invece che consegnati alle forze dell’ordine. Un membro del comitato è anche la psicologa e psicoterapeuta italiana Maria Rita Parsi.
Monsignor Tomasi ha quindi parlato del caso riguardante l’ex nunzio apostolico nella Repubblica domenicana, il polacco Josef Wesolowski, accusato di abusi sessuali su minori. Verrà giudicato — ha detto — con «la severità che merita». Tomasi si è poi diffuso sull’impegno della Chiesa per affrontare questo «crimine orrendo e abnorme» degli abusi,tanto a livello centrale quanto a livello di base. «Il risultato dell’azione combinata adottata — ha detto l’osservatore permanente vaticano — dalle Chiese locali e dalla Santa Sede presenta una cornice che, se correttamente applicata, contribuirà a eliminare gli abusi da parte del clero».
In un intervento alla Radio Vaticana, il portavoce papale, padre Federico Lombardi, ha detto che sul caso la Santa Sede ha dato risposte «ampie e efficaci». E lo stesso Papa, nella sua omelia mattutina a Santa Marta, ha parlato di «corruzione dei sacerdoti» che invece di dare «da mangiare ilpane della vita» danno un «pasto avvelenato». «Tanti scandali — ha detto — che io non voglio menzionare singolarmente, ma tutti ne sappiamo... Sappiamo dove sono! La vergogna della Chiesa!».
Sono state alcune organizzazioni e vittime statunitensi, europee e messicane, a far arrivare il dossier degli abusi sul tavolo del comitato Onu. L’organismo non ha poteri giuridici per punire i colpevoli. Ma un’eventuale sanzione sarebbe un brutto colpo per la Chiesa che sta cercando di darsi una nuova immagine.

l’Unità 17.1.14
Abusi, Vaticano all’esame dell’Onu
Critiche alla S. Sede per la scarsa trasparenza e la lentezza mostrata davanti alle denunce
di Roberto Monteforte


CITTÀ DEL VATICANO I diritti del fanciullo: di questo si è discusso ieri alla delegazione Onu di Ginevra. E in particolare di come il Vaticano e la Santa Sede abbiano applicato la Convenzione internazionale su tali diritti. È stato l’osservatore vaticano presso la sede Onu di Ginevra, monsignor Silvano Maria Tomasi a rispondere al fuoco di fila di domande presentare dai funzionari delle Nazioni Unite che, dando voce alle denunce delle associazioni delle vittime di abuso, hanno chiesto conto di quanto è stato concretamente fatto per perseguire i responsabili dei quattromila casi di possibili abusi che dalle diocesi sarebbero all’esame della Congregazione per la Dottrina della Fede. Alla Santa Sede si chiede conto di quanto, malgrado le dichiarazioni, si è poi concretamente fatto per perseguire i responsabili di abuso. Se è finito il tempo delle coperture.
Nella sua risposta monsignor Tomasi ha richiamato le iniziative intraprese prima da Benedetto XVI e poi da Papa Francesco per «eliminare questo crimine dalla Chiesa». Ha illustrato la strategia della Santa Sede e delle Chiese locali, richiamando le «Linee guida» e tutti gli altri strumenti approvati negli ultimi anni per contrastare questo «orrendo fenomeno». «La Chiesa cattolica vuole diventare un esempio per tutti gli altri Stati» ha assicurato Tomasi che ha ricordato la decisione di Papa Francesco di creare un’apposita Commissione per la protezione dei minori.
Il nunzio ha respinto l’accusa rivolta alla Santa Sede di aver ancora ostacolato l’attuazione della giustizia. «È campata per aria» ha affermato, chiarendo che i vescovi non agiscono «come delegati del Papa». «La Santa Sede ha assicurato sostiene il diritto ed il dovere di ogni Paese a perseguire ogni crimine contro i minori; quindi, non regge la critica per cui si cerca di interferire od ostacolare il corso della giustizia». Quindi ha precisato che «abusi verificatisi in istituzioni cattoliche in diversi Paesi non riguardano il rispetto della Convenzione da parte della Santa Sede, perché si tratta di casi su cui hanno giurisdizione, in base alle proprie leggi, i Paesi dove gli abusi si sono verificati».
Ma vi è anche l’ultimo «caso», quello dell’ex nunzio apostolico nella Repubblica domenicana il polacco Jozef Wesolowski, indagato nel Paese latino-americano e in Polonia per abusi sessuali su minori e richiamato in Vaticano lo scorso 21 agosto. Il diplomatico non verrà estradato, perché è cittadino vaticano, afferma l’osservatore vaticano, ma assicura «Verrà processato con la severità che merita» sia dal punto di vista canonico (dalla Congregazione per la Dottrina della Fede) che penale (dal Tribunale vaticano).
Sul caso Wesolowski interviene anche il direttore della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi. Vi sarà rigore. Ribadisce che il Vaticano avrebbe tutte le carte in regola nella lotta contro gli abusi e indica Papa Francesco come «testimonial» dei diritti dei minori. Sicuramente il Papa argentino è fermissimo contro quei preti, vescovi e laici pedofili e corrotti. Ieri nella sua omelia tenuta alla domus Santa Marta, li ha definiti «la vergogna della Chiesa!». «Ma ci siamo vergognati di quegli scandali, di quelle sconfitte di preti, di vescovi, di laici?» ha domandato. Ha pure osservato come chi si è reso colpevole di questi scandali aveva «una posizione nella Chiesa, una posizione di potere, anche di comodità. Ma non aveva la Parola di Dio». E invece che «il pane della vita e della Verità» hanno dato un «pasto avvelenato». Per Francesco non si deve ripetere.

Corriere 17.1.14
L’ultima verità su «De Tormentis» e i Br torturati


«Valutando le dichiarazioni nel quadro di tutte le risultanze processuali, deve necessariamente concludersi che un funzionario all’epoca inquadrato nell’Ucigos e rispondente al nome di Nicola Ciocia, dopo aver sperimentato pratiche di waterboarding nei confronti della criminalità comune, le utilizzò all’epoca del terrorismo nei confronti di alcuni soggetti arrestati, al fine di sottoporre costoro a una pressione psicologica che avrebbe dovuto indebolirne la resistenza e indurli a parlare». Così ha stabilito la corte d’assise di Perugia, descrivendo una tortura: il detenuto nudo legato a un tavolo, col naso tappato e un imbuto in bocca per versagli in corpo acqua e sale.
Accadde nel lontano 1981 durante il sequestro del generale statunitense James Lee Dozier, rapito dalle Brigate rosse e liberato dalla polizia sulla base delle informazioni ricevute anche attraverso quella tecnica d’interrogatorio; ed era accaduto nel 1978, all’indomani del sequestro Moro, con Enrico Triaca, il «tipografo delle Br» che dopo l’arresto denunciò i maltrattamenti subiti per farlo confessare. All’epoca Triaca fu condannato, oltre che per appartenenza alla banda armata, per calunnia nei confronti dei poliziotti accusati.
Oggi, trentacinque anni dopo, quel verdetto è stato annullato da altri giudici. I quali — al termine di un’istruttoria avviata sulla base di inchieste giornalistiche e dalla tenacia dell’avvocato Francesco Romeo, del Foro di Roma — hanno accertato che il racconto della tortura fatto dal detenuto potrebbe quantomeno corrispondere al vero (in ogni caso non si può dire con certezza che è falso). Il poliziotto esperto di quella pratica, ormai ottantenne e significativamente soprannominato «De Tormentis» dai suoi stessi colleghi, non rischia più niente perché ormai i reati sono prescritti.
Però la sentenza di Perugia è importante. Si dice sempre che la democrazia italiana ha vinto la guerra col terrorismo nel rispetto dello Stato di diritto. E sul piano generale è così. Ma la democrazia continua a vincere anche quando ha la forza e la capacità — seppure dopo tanto tempo — di riconoscere che almeno in alcune occasioni il diritto fu sospeso.

il Fatto 17.1.14
Marco Rizzo: “Tutta colpa di Krusciov”
di Luca De Carolis


Vogliamo il socialismo, quindi siamo contro l’euro. Stiamo dalla parte dei Paesi aggrediti dall’imperialismo: Corea del Nord, Siria, Cuba”. Marco Rizzo, 54 anni, ex Rifondazione comunista e Pdci, è il segretario del nascente Partito comunista, ex Comunisti sinistra popolare. A sancire il cambio di sigla sarà il congresso nazionale, da oggi a Roma. Rizzo, cinque legislature alle spalle tra Parlamento italiano ed europeo, concluderà i lavori domenica mattina al Frentani.
Rizzo, chi siete ?
Siamo marxisti-leninisti, che vogliono il socialismo. Abbiamo una linea chiara: uscire dall’Unione europea e dall’euro, che con il Patto di stabilità e la Bce sta distruggendo tutto. Vanno nazionalizzate le grandi imprese e le grandi banche. Ridiamo la Fiat alle maestranze: funzionerà meglio di quella di Marchionne.
È una ricetta sovietica.
All’epoca di Stalin, l’Urss era la seconda potenza mondiale. Poi è arrivato Krusciov, che ha introdotto elementi di libero mercato e ridotto la strutturazione del partito. Non è fallito il socialismo, è fallita la sua revisione.
Quindi si riparte da Marx.
Il comunismo è giovane, sconta la sua minore età. Il capitalismo ha molti più anni e sa camuffarsi meglio.
Come lo spiegate a un 18enne che Stalin aveva ragione?
Spiegandogli i danni di Krusciov, appunto. E ricordandogli quanto gli costa la dittatura delle banche e della troika europea.
Quanti iscritti avete al momento?
Circa 3 mila, e siamo presenti in 75 province.
Come vi finanziate?
Ogni dirigente versa una quota in base al reddito. Le tessere si pagano con offerte libere
Lei quanto versa?
Io mi sono svenato. Ma non entriamo nel dettaglio.
Alle Europee vi presenterete?
Decideremo nella riunione del 27 gennaio a Bruxelles con gli altri 30 partiti comunisti continentali.
Siete durissimi nei confronti del Pd e di Rifondazione.
Fanno parte del sistema. Rifondazione nel suo congresso parlava di alternatività al Pd. Ma in Sardegna si è alleata con i Democratici.
Elogiate la Corea del Nord.
Non cerchiamo facili consensi. Stiamo dalla parte di quei governi legittimamente eletti che vengono aggrediti dall’imperialismo: dalla Siria alla Corea del Nord fino all’Iran.
La Corea del Nord è un governo legittimo o una dittatura?
E l’Italia? Un Paese a cui la troika impone il 3 per cento sul rapporto deficit-Pil cos’è?
Kim Jong-un avrebbe fatto sbranare suo zio da 120 cani.
Una favola della stampa occidentale. Dicevano che aveva fatto uccidere anche la fidanzata: ma è viva e vegeta.
Lo zio è morto davvero.
Io sono contro la pena di morte. Ma quell’uomo stava organizzando un golpe.
Come vive oggi Marco Rizzo?
Ricevo un vitalizio, perché ho versato 20 anni di contributi da parlamentare.
Quanto prende?
A novembre 4.500 euro netti. Voglio ricordare che, dopo essere stato eletto, mi licenziai per non prendere il doppio contributo. Ho lavorato 18 anni prima di entrare in Parlamento: e sono nato povero.

«Sono un comunista» (sic!)
Corriere 17.1.14
Vattimo e la corsa alla poltrona: io voglio vincere
di Alessandro Trocino


«Volevo votare Grillo già l’ultima volta Ma forse farlo da Idv era un po’ troppo» ROMA — E perché lascia Antonio Di Pietro? «Beh, non ha nessuna chance di essere eletto. Perché mai uno deve correre per perdere?». Gianni Vattimo, già filosofo del «pensiero debole», attualmente europarlamentare eletto con l’Italia dei valori, è pronto al grande salto: con Beppe Grillo. Lo annuncia sul suo blog, autodefinendosi «politico trombando».
Lascia l’Idv. Non è irriconoscenza?
«Se abbandonassi la nave per andare con Berlusconi dovrei vergognarmi. Ma per un ex idv che non vuole abbandonare la politica, il Movimento 5 Stelle è l’unica. E poi Di Pietro mi ha dato il suo placet».
Cosa è andato storto con Di Pietro?
«L’Idv è stato ucciso da Napolitano. Di Pietro si era intestardito nell’alleanza con il Pd e ha distrutto tutto, perché Napolitano ha detto no. E il futuro dell’Idv è legato ancora al Pd».
Non le piace il Pd di Matteo Renzi?
«Renzi è più di destra che di sinistra. Qualche volta mi dico che mi piacerebbe sedermi sul fiume e aspettare che passi il cadavere del Pd».
Eppure è stato Veltroni a chiamarla in politica.
«Prima ancora Prodi. Mi voleva candidare, ma in lista insieme a Cacciari. Non saremmo mai stati eletti insieme. Dissi di no e lui mi disse: ho un’idea, vi metto in ordine alfabetico, senza capilista. Ma così mi vuoi male, gli ho detto, non mi eleggono di certo».
A lei piace andare sul sicuro.
«Beh, se uno vuol fare politica...».
Nel blog elenca i «passaggi»: Pds, Pdci, Idv. E ora Grillo. Ne mancano almeno due: maoista e radicale.
«Sì, giusto. Fui candidato radicale con il Fuori nel ‘75. Mi fecero fare un outing che non avevo deciso. E poi ero di sinistra e chiunque fosse fuori dal Pci era maoista. Quando lo seppe il mio professore, Luigi Pareyson, mi fece una scenata. Ma la carriera non ne risentì».
Insomma, da che parte sta?
«Sono un comunista».
In passato si è dichiarato anarchico.
«Diciamo che sono un comunista ermeneutico. Che poi è il titolo del mio libro in uscita, lo citi. Ma sono anche catto-comunista. Anche se un prete mi definì demonio. E anarco-comunista».
E ora grillo-comunista. Com’è andata?
«Ho telefonato a Grillo. È stato gentile. Mi ha fatto capire che è logico che quelli dell’Idv passino ai 5 Stelle. Io stesso volevo votarli l’ultima volta, ma essendo idv mi sembrava troppo».
In effetti. Cosa la unisce a Grillo?
«Molte tematiche dipietriste. E poi la lotta contro la Tav, contro il fiscal compact e l’austerità».
E il pianeta Gaia di Casaleggio? Come si sposa con il pensiero debole?
«Mah, non ho mai preso molto sul serio il loro aspetto teorico. Però, cosa diavolo sarà mai. L’idea di realizzare una democrazia planetaria diretta in rete non mi eccita particolarmente ma non mi spaventa. Mi spaventano un po’ i grillini invece».
Perché?
«Li rispetto molto, è gente che si impegna moltissimo: ho paura che mi costringerebbero ad ammazzarmi di lavoro...».
Finora si è un po’ annoiato. Cito: «L’Europa è un posto di una noia mortale. Si parla solo di parafanghi e porri».
«Vero. Soffro nella commissione Cultura, troppo museale. Però mi appassionano le vicende latino americane».
Lei è castrista.
«Certo. E chavista».
La si accusa di antisemitismo. E di rivalutare il Protocollo dei saggi di Sion.
«Ho detto solo che per essere inventati, sono stati ben inventati. Quanto al resto sono antisionista, non antisemita. Lungi da me l’idea di un complotto giudaico-massonico. Credo che lo Stato di Israele sia stato l’inizio della rovina. E comunque ricordiamoci che la Federal Reserve è di proprietà di Rothschild e Rockefeller».

il Fatto 17.1.14
La Cassazione libera il medico della clinica degli orrori


PIER PAOLO Brega Massone, l’ex primario della chirurgia toracica della casa di cura Santa Rita di Milano, condannato lo scorso novembre a 15 anni di reclusione nel processo di appello ‘bis’ per lo scandalo della “clinica degli orrori”, è stato scarcerato. Dopo un lungo e difficile iter giudiziario, fatto di condanne e ricorsi, la Cassazione ha infatti annullato l’ord i-ne di carcerazione. Il medico è accusato di omicidio per la morte di quattro pazienti. A giugno inizia però il percorso complicato: la cassazione annulla la sentenza di secondo grado e chiede a una nuova sezione della Corte d’appello di Milano di ricalcolare la pena inflitta per altri reati, come falso e truffa, che intanto si erano prescritti. A novembre, in secondo grado, è stata condannata la pena a 15 anni e mezzo di reclusione per lesioni ai danni di circa 80 pazienti. Così la Procura generale di Milano ha emesso un ordine di carcerazione, che è stato contestato dalla difesa. La decisione a sua volta viene impugnata davanti alla Cassazione che ieri ha dato ragione ai legali di Brega Massone.

il Fatto 17.1.14
Rodolfo Sabelli, Presidente dell’Associazione nazionale magistrati
“Svuotacarceri? Ecco un’altra soluzione tampone”
“Ci saranno molte richieste di liberazione” E la Lega fa slittare il voto
intervista di Beatrice Borromeo


Mentre ieri la Lega è riuscita a far slittare i lavori sul decreto svuotacarceri a martedì prossimo, arriva anche il parere dell’Associazione Nazionale Magistrati. Secondo il presidente Rodolfo Sabelli, il testo presenta alcuni punti positivi: “Per esempio l’ipotesi di espulsione di quei detenuti che non appartengono all’Unione Europea”. Ma il decreto ha anche molti aspetti critici, come quello organizzativo: “Ci saranno molte più richieste di liberazione anticipata e il carico di lavoro sarà ingente. C’è carenza di organico e sarà molto difficile far fronte alla novità”.
E poi non dimentichiamo che anche i mafiosi beneficeranno di sconti di pena.
Infatti, l’unico motivo per cui giustifico questo intervento è che conosco la straordinaria gravità della situazione carceraria. L’Europa ci obbliga a provvedere entro maggio: qualcosa bisogna pur fare.
La liberazione anticipata speciale passerà da 45 a 75 giorni: su un totale di sei anni, la pena si ridurrà a tre anni e mezzo. Non la preoccupa la perdita dell’effetto deterrente in un Paese dove la criminalità organizzata è così radicata?
Certo, il problema c’è. Purtroppo viviamo in una situazione che non avrebbe mai dovuto determinarsi e anche le altre soluzioni, come l’indulto, si prestano a critiche.
Però in Italia ci sono carceri vuote e non utilizzate. Perché non usarle prima di liberare criminali?
Io non conosco la situazione delle risorse, suppongo ci sia carenza di personale penitenziario. Diciamo che è una cosa da fare, ma non è né la prima né l’unica.
Ma con lo svuotacarceri – dice il procuratore di Messina, Sebastiano Ardita – lo Stato rinuncia alla giustizia penale.
Questa è una misura eccezionale presa solo perché siamo davanti a una vera emergenza. E le soluzioni tampone, si sa, finiscono per occultare i veri problemi. La accetto solo perché è in via straordinaria.

Corriere 17.1.14
Il caso Batman non è servito a fermare i super vitalizi
Lazio, i 266 vitalizi d’oro
L’assegno per i consiglieri 50enni che hanno fatto una sola legislatura
di Sergio Rizzo


Due mesi, ci sono voluti. Due mesi di lettere e sollecitazioni. Due mesi durante i quali i consiglieri grillini della Regione Lazio, alla richiesta di conoscere l’elenco dei vitalizi si sono sentiti opporre addirittura ragioni di privacy. Alla fine l’hanno spuntata: e la lista è piena di sorprese. Nel dicembre 2013 sono stati pagati 266 assegni: ben 49 in più rispetto a quelli di tre anni prima per una spesa di un milione 635.917 euro. Il che significa 19 milioni 631.004 euro in un anno. Ovvero un terzo dell’intero bilancio regionale.
Soprattutto, in quell’elenco ora nelle mani di Valentina Corrado del M5S, presidente del Comitato regionale di controllo contabile, c’è la prova che nulla, dopo la storiaccia di Batman & co., è cambiato, nemmeno per coloro che facevano parte del Consiglio regionale capace di bruciare in un anno 14 milioni di denari pubblici, usati anche per scandalose spese personali. Perché nel 2012 è bastato un piccolo emendamento bipartisan per far saltare la norma del decreto Monti che avrebbe inibito il vitalizio prima dei 66 anni di età e con meno di dieci anni di mandato.
Il risultato è che ancora adesso nel Lazio c’è chi incassa l’assegno con le vecchie regole, ha cinquant’anni e con una sola legislatura. Durata, per giunta, meno di tre anni. Francesco Carducci, per esempio, capogruppo dell’Udc nel Consiglio regionale dal 2010 al 2013, compirà 51 anni il 13 gennaio prossimo: a dicembre ha avuto diritto a 2.467 euro netti. E poi Isabella Rauti, classe 1962, eletta nel 2010 nel listino Polverini, figlia dell’ex segretario missino Pino Rauti, e consorte dell’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, nominata a giugno del 2013 da Angelino Alfano consigliere per le politiche di contrasto alla violenza di genere: 2.611 euro. E l’ex assessore all’Ambiente della giunta di Renata Polverini Marco Mattei, 50 anni compiuti lo scorso 29 ottobre: 2.467. Stessa cifra per Paolo Cento (luglio 1962) ex deputato Verde, ex sottosegretario all’economia, «Er Piotta» per gli amici. Circa la metà dei 4.861 che spettano al suo ex collega di partito Angelo Bonelli, di soli venti giorni più giovane ma che in Regione ha fatto due mandati.
Ancora. A Fabio Desideri (1961), vicepresidente della commissione urbanistica, 2.467 euro. Come pure al suo coetaneo socialista Daniele Fichera. Nella chilometrica lista figurano anche i 3.598 euro del vitalizio di Luciano Ciocchetti, ex assessore e vicepresidente della Regione, classe 1958: coscritto dell’ex governatore Piero Marrazzo, cui di euro al mese ne spettano invece 3.187. C’è poi Laura Allegrini (1960), per due mandati consigliere di An: 4.705 euro mensili. Insieme all’ex presidente pidiellino della Provincia di Frosinone Antonello Iannarilli (3.758 euro). E al cinquantunenne Stefano De Lillo, eletto con Forza Italia e titolare di un assegno da 4.232 euro, il quale ha lasciato il testimone a suo fratello Fabio, alfaniano: uno di quelli che nel nuovo Consiglio regionale possono vantare illustri parentele. Mai però come Luca Gramazio, figlio di quel Domenico Gramazio, simpaticamente soprannominato «Er Pinguino», passato alla storia per aver divorato in Senato una fetta di mortadella mentre sul suo banco saltavano i tappi di champagne, quando nel 2008 cadde il governo di Romano Prodi. Ex parlamentare di An, Gramazio senior porta a casa 5.895 euro di vitalizio regionale più 4.982 di vitalizio parlamentare, come si ricava dalla lista pubblicata sull’Espresso da Primo di Nicola. Totale, 10.877 euro al mese. Netti.
Certo non l’unico a provare l’ebrezza del doppio vitalizio. Un sistema già di per sé assurdo, cui nessuno ha voluto mettere finora mano, che nella Regione Lazio ha prodotto rendite astronomiche a spalle dei contribuenti, complice un meccanismo di conteggio che ha dell’incredibile. Il vitalizio regionale, che dovrebbe essere abolito soltanto dalla prossima legislatura per essere sostituito da una pensione contributiva, si calcola su una base ancora più favorevole di quella del vitalizio parlamentare, e raggiunge il massimo dopo soli 15 anni.
Si spiegano in questo modo casi come quello dell’ex missino Giulio Maceratini, che sommando le due pensioni riesce ad arrivare ancora più su di Gramazio, oltrepassando la soglia degli 11 mila euro netti al mese: 11.031, esattamente. Cumulo inarrivabile per tutti gli altri numerosi centauri: l’ex deputato e consigliere regionale della destra Oreste Tofani (10.830), gli ex presidenti regionali socialisti Bruno Landi (7.302), Giulio Santarelli (8.176) e Sebastiano Montali (5.258), l’ex sindaco di Viterbo Rodolfo Gigli (8.032), l’ex capogruppo del Pd in Regione e attuale sindaco di Fiumicino, Esterino Montino (8.565), l’ex onorevole comunista Giovanni Ranalli (8.696), l’ex sindaco di Latina, aennino, Vincenzo Zaccheo (7001), l’ex sindaco di Civitavecchia, democratico, Piero Tidei (5.731), l’ex coordinatore della segreteria Pd, Goffredo Bettini (6.978)...
E ci fermiamo qui, in attesa di vedere come andrà a finire la doppia partita che si sta giocando alla Pisana. La consigliera Teresa Petrangolini, fondatrice di Cittadinanzattiva, propone di introdurre per legge un tetto rigido alla possibilità di cumulare il vitalizio con altri emolumenti pubblici, secondo uno schema già adottato dall’Emilia-Romagna. Pare che il governatore Nicola Zingaretti si sia già detto d’accordo: vedremo. Mentre il Movimento 5 Stelle ha presentato un ordine del giorno nel quale chiede un giro di vite sui trattamenti. Compreso il divieto (sacrosanto) di sommare più vitalizi. Nel quale potrebbero incappare in futuro due ex consiglieri già titolari di assegno regionale cui dovrebbe spettare fra qualche anno pure quello parlamentare: il cinquantaquattrenne figlio dell’ex segretario Dc Arnaldo Forlani, Alessandro Forlani (2.755 euro netti) e il cinquantacinquenne nipote di Giulio Andreotti, Luca Danese (3.187 euro).

Corriere 17.1.14
Rinunciare alla vita a novant’anni, Carla morta d’oblio


Per la giornalista ed ex senatrice Ravaioli la stessa scelta di Monicelli e Lizzani F orse a un certo punto si muore d’oblio. Forse questo ha ucciso Carla Ravaioli, sicché è inutile indagare, analizzare, sezionare — come faranno, certo, doverosamente, magistrati e poliziotti — per scoprire infine solo quel vuoto che si mangia tutto.
Garcia Marquez sosteneva che la morte per i vecchi non arriva con la vecchiaia ma con la dimenticanza. E pure Pirandello la vedeva così: «Ah, che vuol dir morire? Nessuno si ricordava più di me, come se non fossi mai esistito». Così, quando scompaiono uno dopo l’altro coloro che hai amato, la morte è già lì, manca l’anagrafe.
Dopo i novanta, poi, è quasi una certezza che nessuno si ricordi più di te; spesso neppure tu te ne ricordi, con la memoria bucherellata come un cencio tarlato. La Ravaioli no, dicono fosse lucida, piena di idee, e dunque forse condannata a un tormento peggiore. Perché chissà quante telefonate di auguri potrà avere avuto, l’altro ieri, questa donna coraggiosa, tenace giornalista di cento giornali — da Rinascita al manifesto , dall’Eu ropeo a Liberazione —, fiera scrittrice di cento saggi, prima sulla condizione femminile e poi sulla questione ambientale: proprio l’altro ieri compiva novantuno anni, da sola, al tavolo della cucina della sua casa di via del Seminario, due passi da Fontana di Trevi, nella Roma che mozza il fiato, nella bellezza eterna che rende la morte clandestina. Tante medicine davanti, in bell’ordine, troppi ansiolitici ingollati come confetti d’una Prima Comunione. Nessun biglietto, chissà. Dice Enzo Scandurra, professore, urbanista e amico d’una vita intera, che «Carla soffriva di solitudine politica e culturale», e anche questa può essere una forma letale di solitudine, parente stretta dell’oblio, se non c’è altro a riempire il vuoto. La battaglia ecologista le avrebbe tenuto compagnia, se solo avesse potuto raccontarla ancora: «Tutti i soldi spesi per le armi dovrebbero essere investiti per l’ambiente, nemmeno tu mi capisci, non mi capisce più nessuno: così mi diceva». Ieri i pompieri, allertati dalla colf filippina che bussava invano alla porta, hanno sfondato una finestra e l’hanno trovata. Lì. In cucina.
Adesso è inevitabile, si riaprono gli archivi, perché capita sempre più spesso, sempre più a nomi famosi, uomini e donne che hanno avuto la vita strapiena e forse per questo non si rassegnano a vedersela svuotare dalla dimenticanza. Monicelli, poco più di tre anni fa, a novantacinque anni, volò giù dal balcone al quinto piano dell’ospedale San Giovanni, col suo corpo da uccellino e la sua anima accompagnata da Capannelle e Brancaleone e il conte Mascetti e tutti quegli angeli di celluloide che noi ricorderemo e che potrebbero essere il migliore antidoto alla dimenticanza, non fosse che alla fine ricordiamo i figli ma il loro padre diventa un’ombra astratta, un uccellino, appunto, nella sua entità umana. E naturalmente, come sempre avviene in questi casi, seguirà il dibattito tra cattolici e laici: se questa morte scelta da vecchi, anticipata con uno sberleffo proprio sul filo dell’arrivo, sia un pur rispettabile atto di egocentrismo o un puro gesto di libertà. Chiacchiere senza senso. Carlo Lizzani, contemplando la scelta del maestro suo amico, si lasciò andare a una frase di ammirazione che molto lasciava presagire: «Un gesto da lucidità giovane», disse. E due anni dopo, a novantuno anni come Carla, si buttò dal terzo piano del suo palazzo romano, lasciando due righe alla famiglia: «Stacco la chiave, scusate figli cari». Anche allora seguì il dibattito e addirittura la polemica politica, perché c’è sempre qualche dissennato che sente il bisogno di dare un colore al gesto estremo. In quel periodo ci fu persino qualche penna appuntita che volle stigmatizzare la categoria del «mortuariamente corretto», incasellando a sinistra una fila di suicidi che cominciava con Lucio Magri. In realtà la politica riflette pedissequamente l’orrore diffuso della vecchiaia e dei suoi sintomi, in una società dove oltre i 65 anni si registra un terzo dei suicidi e i vecchi sono aboliti, essendo tollerati solo i falsi giovani. «Se c’è un perché, tutti i come diventano sopportabili», annota un giovane scrittore col dono della fede. Il punto è quello. La rottamazione, non in senso renziano ma esistenziale, comincia dal nostro pianerottolo, dai nostri condomini affollati di monadi senza perché e dunque straordinariamente deserti.
Carla Ravaioli aveva in mente ancora un libro, con Valentino Parlato, altro sodale di sempre: sui limiti della crescita economica in rapporto all’ambiente. Ma d’un tratto l’ultimo miglio può esserle apparso insopportabilmente penoso. «Sapeva che le grandi case editrici non l’avrebbero più accettata come un tempo», medita Scandurra. E può non essere civetteria, questa, ma bisogno di far sentire ancora la propria voce, forte e chiara, nel mondo che vorremmo cambiare e invece ci dimentica. È l’idea d’un altro mondo a tenerci ancorati a questo, sostiene Dostoevskij. Ma nessun mondo possibile dev’essersi intravisto, l’altro giorno, in via del Seminario.

Repubblica 17.1.14
Addio a Carla Ravaioli, giornalista e senatrice


ROMA — Carla Ravaioli, giornalista, saggista ed ex senatrice, è stata trovata morta ieri mattina nella sua abitazione romana, a un passo dal Pantheon. Nata a Rimini nel 1923, aveva compiuto 91 anni proprio mercoledì scorso. Da accertare le cause della morte. Tra le ipotesi anche quella del suicidio: sul tavolo in cucina sono state trovate infatti scatole di medicine vuote.
Giovane storica dell’arte, si laureò con Roberto Longhi a Bologna discutendo una tesi su Guido Cagnacci, Ravaioli si è poi occupata principalmente della condizione femminile. Nel 1969 Laterza diede alle stampe il suo libroLa donna contro se stessa.L’anno dopo il trasferimento da Milano (dove viveva dal 1954) a Roma. Del 1973 è il saggioMaschio per obbligo (Bompiani), seguito due anni dopo, stesso editore, da La mutazione femminile,un colloquio con Alberto Moravia. Successivamente la sua riflessione si è allargata fino
ad indagare i rapporti socio-economici del mondo contemporaneo (da Tempo da vendere, tempo da usare, Franco Angeli, 1986; aProcesso alla crescita, dialogo con Bruno Trentin,Editori Riuniti, 2000) con un interesse soprattutto per le questioni ambientali. E, a questo proposito, l’urbanista Edoardo Salvano la ricorda come «tra i pochissimi che hanno compreso che una delle radici principali della degradazione dell’ambiente sta nei limiti profondissimi dell’economia».
Carla Ravaioli, che ha scritto, tra l’altro, per
Il Giorno, L’Europeo, La Repubblica, ilmanifestoe per la Rai, è stata un’intellettuale combattiva e appassionata. Fu eletta al Senato nelle liste di Sinistra Indipendente. Il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha espresso «sinceri sentimenti di partecipazione al cordoglio nel ricordo del suo impegno civile e culturale e del suo contributo all’attività parlamentare».

l’Unità 17.1.14
Addio Carla Ravaioli «ragazza» coraggiosa
di Aldo Tortorella


È stata trovata morta ieri mattina nella sua abitazione di via del Seminario, nel centro di Roma, Carla Ravaioli. Sul tavolo della cucina numerose scatole di medicinali. Giornalista, saggista, ex senatrice, appena tre giorni fa aveva compiuto 91 anni. Laureata in storia dell’arte con Longhi, il suo impegno di giornalista l’ha portata a occuparsi della condizione della donna prima (ha scritto tra l’altro “La donna contro se stessa”, Laterza 1969, “Maschio per obbligo”, Bompiani 1973, “La mutazione femminile. Conversazioni con Alberto Moravia”, Bompiani 1975, “La questione femminile. Intervista col Pci”, Bompiani 1976), dell’ambiente poi. ll presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha espresso «sinceri sentimenti di partecipazione al cordoglio nel ricordo del suo impegno civile e culturale e del suo contributo all’attività parlamentare».
Qui di seguito pubblichiamo un ricordo di Aldo Tortella.

L’altro ieri eravamo insieme con Carla a una riunione della associazione che abbiamo fondato insieme con lei. E come al solito si vantava d’esser più vecchia di me e io le dicevo che era una ragazza. Ed era vero. Nella sua battaglia per far capire alla sinistra tutta – e a noi – che non c’è sinistra senza la capacità di capire che lo sviluppo che si sta seguendo è insensato e inumano c’era una passione giovanile, il fervore di un convincimento sincero e profondo. Ed era piena di progetti e di volontà. L’ultimo era quello di una intervista in cui io avrei dovuto avanzarle le obiezioni più informate, cioè non quelle più dozzinali, di una sinistra sviluppista, anche se non le condividevo tutte. E l’avevo indirizzata a qualcuno più bravo di me a sostenere quella parte. Aveva scritto tanto per una visione della lotta ambientalista che risalisse, prima e oltre il capitalismo, alle ragioni costitutive di una deriva che minaccia l’avvenire stesso dell’umanità. Ma non ne era appagata.
Sentiva che c’era tanto da fare per affermare una cultura economica e politica diversa, come quando, in anni lontani, a Milano, era stata tra le più combattive a spendersi, come giornalista e scrittrice, nell’azione per coinvolgere la sinistra di allora, a partire dal Pci, nelle lotte del primo femminismo. La sua forza stava nel fatto che la passione era nutrita di rigore e di capacità critica.
Di qui veniva l’acutezza di una instancabile e competente contestazione dei luoghi comuni di una cultura economica e politica incapace di vedere i nessi tra produzione e ambiente, tra mercato e qualità delle nostre vite, tra vacuità delle spinte al consumo e gravità di un disastro annunciato. Il suo insegnamento è prezioso per costruire una nuova sinistra politica e sindacale, in grado di superare le durissime sconfitte passate e recenti. Un insegnamento che raccogliamo e vogliamo continuare a coltivare con lo spirito combattivo del suo carattere.

il Fatto 17.1.14
“Non ne uscite vivi”
Noi, la ronda e i cartelli per Sharon
Il pestaggio, a poche ore dalla morte del leader israeliano
Il racconto di 4 giovani aggrediti nel Ghetto di Roma per aver staccato i manifesti in memoria del “Leone”
di Lorenzo Galeazzi e Tommaso Rodano


Circondati, minacciati e picchiati con martelli e bastoni da una squadra organizzata, nel cuore del quartiere ebraico di Roma. In pieno centro. È il racconto inquietante di quattro giovani romani. Mostrano cicatrici, lividi, referti medici e l’atto della denuncia appena resa alle forze dell’ordine. Tre di loro preferiscono rimanere anonimi, il quarto – Vladimiro – “ci mette la faccia”, con tanto di mazzata poco sopra la nuca e un “bel buco”, ricucito con quattro punti di sutura.
SUCCEDE TUTTO nella notte tra sabato e domenica, a poche ore dalla morte di Ariel Sharon.
I quattro amici escono da un locale verso le 4. Si fermano a mangiare la pizza nella via storica del ghetto romano, Portico d’Ottavia, a pochi passi dalla sinagoga. Mentre si allontanano, Vladimiro ha un’idea sciocca e un gesto istintivo: stacca uno dei manifesti sui muri che commemorano “il leone” Sharon. È un attimo. I quattro vengono circondati – secondo la loro denuncia – da almeno una decina di giovani armati. Tutto succede all’improvviso, la “ronda” si materializza in pochi secondi. L’aggressione dura diversi minuti. Gli autori del blitz – secondo chi denuncia – sono giovani (“Tra i 20 e i 25 anni”, ipotizza Vladimiro). Hanno mazze da baseball, spranghe e persino martelli. Alcuni portano kippah e barba lunga.
I quattro ragazzi sono ricoperti d’insulti: “Vi spacchiamo la faccia”, “Da qui non uscite vivi”, “Che cazzo ci venite a fare nel quartiere ebraico? ”. Gli viene intimato di inginocchiarsi, ma rifiutano (“Non per una questione d’orgoglio, ma in un pestaggio, in quella posizione, saremmo stati ancora più vulnerabili”). Gli urlano di andare via, ma mentre provano ad allontanarsi arrivano le botte alle spalle. Vladimiro subisce il colpo più pesante: una mazzata tra capo e collo che gli lascia una lacerazione profonda, suturata al pronto soccorso del Fatebenefratelli. Gli altri ragazzi rimediano brutte contusioni e qualche giorno di prognosi. Molto più grande è stato lo spavento. Vladimiro riconosce di aver commesso un gesto provocatorio, istintivo: “Non avrei dovuto farlo. La mossa sbagliata nel posto sbagliato. Ma non volevo essere aggressivo, ero quasi sovrappensiero. Ho le mie idee politiche su Sharon e sulla politica di Israele, ma non sono mai stato una persona violenta. Non avevo idea di poter scatenare una reazione del genere”. Anche perché gli aggressori sembravano tutt’altro che “improvvisati”: “Sono arrivati insieme, come una ronda. Abbiamo visto prima un’automobile, poi tutti gli altri. Uno di loro dava indicazioni – ricorda un ragazzo – e ordinava di andare a prendere le armi in macchina”.
L’EPISODIO somiglia in modo impressionante all’aggressione dei cinque attivisti del Teatro Valle, avvenuta nello stesso quartiere ebraico di Roma il 14 novembre 2012, dopo una manifestazione degli studenti. Allora la violenza fu ancora più cruda e gli assalitori si qualificarono come agenti in borghese, chiedendo i documenti ai loro interlocutori, prima di colpirli ripetutamente. Uno dei ragazzi del Valle riuscì a filmare l’aggressione con una fotocamera. Gli insulti erano molto simili a quelli raccontati nella nuova denuncia: “Nel quartiere ebraico non ci dovete entrare. Potete andare a fare casino per tutta Roma, ma se entrate qui dentro siete morti”.
IL NUOVO episodio riapre il dibattito sull’esistenza di un “servizio d’ordine” armato e autogestito, che si occuperebbe di garantire “la sicurezza” della comunità ebraica romana. “Un fatto inaccettabile, allucinante – conclude Vladimiro – in una capitale occidentale, nel 2014. Davvero Roma sta diventando la città dei ghetti. Quartieri chiusi, dove devi stare attento a come ti muovi o non puoi mettere piede”.
Per il presidente della Comunità ebraica, Riccardo Pacifici, “le ronde da noi non esistono”. “Il nostro servizio d’ordine – spiega – c’è e avviene alla luce del sole: genitori e nonni che presidiano il quartiere a turno con le forze dell’ordine”. Al massimo “si è trattato di una rissa da sabato sera, tra teste calde”. Ma alla fine Pacifici si lascia scappare un paragone ardito: “Non è questo il caso, ma se qualcuno va a togliere una bandiera sotto CasaPound, secondo lei cosa succede? ” E conclude il ragionamento così: “Lo dico al di fuori del mio ruolo istituzionale, ma se qualcuno si avvicina e mi tira un ceffone, io non mi metto a chiamare i carabinieri. Prima rispondo. I fatti andranno verificati, ma gli aggrediti hanno tutta la mia solidarietà”.

il Sole 17.1.14
La cultura della ripresa
Risanamento tra proteste e colpi di scena
Gli enti lirici tentano la riscossa
Sette teatri hanno presentato nuovi piani industriali per ottenere finanziamenti
di Giovanna Mancini


Difficile distinguere tra vincitori e vinti in una vicenda complessa come quella del Teatro San Carlo di Napoli, con il sindaco della città (presidente della Fondazione che lo gestisce) che insiste nella proposta di mettere in ordine i conti puntando sulle risorse interne e, sul fronte opposto, il ministero dei Beni culturali che richiama la fondazione al rispetto della legge «Valore cultura».
Comunque lo si voglia giudicare, il caso di Napoli è emblematico della frattura creata, nel mondo della lirica italiana, dalle regole introdotte con la legge Bray, approvata lo scorso ottobre per sanare la disastrosa situazione economica delle fondazioni liriche. Il ministero ha previsto, per il 2014, un fondo a rotazione di 75 milioni, per la concessione di finanziamenti di durata massima trentennale, oltre a un altro fondo di 25 milioni. Il tutto però, a condizione che gli enti presentassero dei «credibili» piani industriali di ristrutturazione.
La definizione di questi piani ha scatenato l'inferno nei teatri, sollevando in particolare le proteste dei sindacati, preoccupati per possibili tagli o ridefinizioni delle condizioni lavorative ed esasperando conflitti (talora anche di natura politica) già in essere. Lo scenario non è dei più confortanti: tre delle 14 fondazioni liriche italiane sono attualmente commissariate (Bari, Firenze e Palermo) e due sono fortemente a rischio – lo stesso San Carlo e il Lirico di Cagliari, dove proprio oggi è previsto il cda per esaminare le candidature alla sovintendenza, dopo l'addio di Marcella Crivellenti, la cui nomina era stata giudicata non valida dal Tar, lo scorso novembre.
Ma le note più dolorose riguardano la situazione economica, con un indebitamento lordo che, complessivamente ammonta a circa 340 milioni di euro (l'indebitamento netto è di 100 milioni). Non mancano le situazioni virtuose di realtà (come l'Accademia Santa Cecilia di Roma o la Scala di Milano, ma anche Venezia e Torino) che riescono a far quadrare i conti, magari ricorrendo a risorse private. In base alla legge Bray, i soggetti che nel triennio 2011-2013 hanno raggiunto il pareggio di bilancio avranno in dote una quota aggiuntiva (del 5%) sul Fondo unico dello spettacolo, che per il 2014 ammonta a circa 410 milioni di euro (per tutti i settori) e che da quest'anno sarà assegnato ai beneficiari non più «a pioggia», ma in base ai risultati raggiunti.
Una logica premiante che finora in Italia è mancata. Aveva quest'ambizione il processo di privatizzazione avviato a metà degli anni 90, che ha trasformato gli enti lirici in fondazioni, ma che dopo quasi vent'anni sembra sostanzialmente fallito (salvo i casi di Scala e Santa Cecilia). A incidere sui bilanci è soprattutto la spesa per il personale, che assorbe mediamente il 70% delle risorse. Una situazione insostenibile, che va risolta razionalizzando la forza lavoro. Il che non significa soltanto ridurre il personale (attraverso pensionamenti, ricollocamenti, esternalizzazioni...), ma anche aumentare la produttività e gli introiti. In questa direzione dovrebbero muoversi i piani di rilancio presentati il 9 gennaio al commissario straordinario Pier Francesco Pinelli, scelto dal Governo per risanare il sistema delle fondazioni. È il caso del Maggio Fiorentino, che un anno fa era a rischio liquidazione, mentre oggi cerca il rilancio con un piano che prevede risparmi per 4 milioni sul lavoro. O del Carlo Felice di Genova, che punta a razionalizzare il costo del lavoro senza ricorrere a licenziamenti.
Sul tavolo del commissario sono arrivati i fascicoli di sette fondazioni: le tre attualmente commissariate, Trieste (commissariata nei due esercizi precedenti, come Napoli), ma anche Genova, Bologna e Opera di Roma, che hanno aderito autonomamente alla possibilità di accedere ai finanziamenti. Ora spetta a Pinelli valutarne la singola efficacia e agire con rapidità. Per sanare una situazione così disastrata occorre però muoversi in una logica di sistema e sinergia: i teatri lirici italiani sono tanti, forse troppi rispetto al pubblico potenziale. Ma se siamo convinti – e lo siamo – che il loro numero e la loro storia siano una ricchezza per il Paese, è necessario che producano «meglio» e spendendo meno, avviando co-produzioni e collaborazioni.

Corriere 17.1.14
Londra batte Parigi nel turismo
E la bella Roma resta a guardare
di Paolo Conti


Le Figaro parla di «detronizzazione» ma il dato, al di là della retorica, è interessante. Nel 2013 il mondo del turismo ha assegnato a Londra, con ben 16 milioni di visitatori, lo scettro di città più visitata d’Europa. Il quotidiano parigino constata con amarezza che la capitale francese deve accontentarsi di un secondo posto (dopo aver perso il primo) non superando la quota dei 16 milioni ma fermandosi a un passo: 15,9 milioni di presenze.
Un simbolo, si dirà. E gli stessi amministratori parigini parlano di un «effetto giochi olimpici»: Londra avrebbe tratto vantaggio dalle grandi opere realizzate per la spettacolare Olimpiade 2012. Le immagini in mondovisione avrebbero avuto il loro peso.
E le città italiane? Anzi: e Roma, capitale mondiale dell’archeologia e dell’arte? I primi dati certi sono forniti dall’Ente bilaterale del turismo del Lazio. Il 2013 ha chiuso a 12 milioni 635 mila presenze con un aumento oggettivo, visto che nel 2012 si parlava di 11 milioni 997 mila. Ma è del tutto evidente che la disparità tra i 16 milioni di Londra e i 12 appena superati da Roma fa riflettere. E preoccupare. Primo punto. Roma garantisce la più grande offerta di beni archeologici al mondo. Secondo. Roma è anche la capitale del cattolicesimo, è sede del papato e dunque dovrebbe riuscire a sommare le due potenzialità per poter aspirare al vertice della classifica delle città più visitate al mondo. Terzo. Roma ha un clima straordinariamente favorevole, che riduce a un pugno di mesi (forse dicembre-gennaio-febbraio) il periodo di freddo intenso.
E allora? Allora c’è tutto il resto. Servizi pubblici scadentissimi. Un sistema museale ancora frammentario e che fatica moltissimo ad affacciarsi sulla scena dei new media , soprattutto della Rete. Una parcellizzazione delle professionalità legate al turismo: alberghi, ristoranti, la realtà del bed and breakfast , faticano a «fare sistema» e a dare un unico volto, per rivolgersi a una unica platea mondiale, a una città straordinaria. E così Roma si riduce a salutare da lontano le glorie di Londra e i circa 12 miliardi di euro lì spesi dai turisti nel 2013.

l’Unità 17.1.14
Foreign Policy
«L’Italia pagò 4 milioni di riscatto per Quirico»


Il governo italiano ha pagato 4 milioni di riscatto per ottenere la liberazione lo scorso settembre dell’inviato de La Stampa Domenico Quirico rapito in Siria e tenuto in ostaggio in condizioni terribili per 152 giorni e, sembra, anche del suo compagno di prigionia, il belga Marco Piccinin.
Ad affermarlo è la rivista statunitense Foreign Policy che cita come fonte il mediatore, Motza Shaklab, membro
del Consiglio Nazionale Siriano, una delle sigle dell’opposizione anti-Assad.
«Ho visto i soldi con i miei occhi», ha detto Shaklab, spiegando di essere stato presente al momento del pagamento del riscatto. L’ambasciata italiana a Beirut, riporta la stessa rivista, ha negato che il governo abbia pagato alcun riscatto. Nessun commento dalla Farnesina.

Corriere 17.1.14
Ambasciatori convocati, l’Ue sfida Israele sulle colonie
Anche Roma con Londra e Parigi nell’iniziativa anti-insediamenti
di Davide Frattini


GERUSALEMME — Pochi giorni fa l’avvertimento dell’alto rappresentante per la politica estera Catherine Ashton(«dovete fermare tutte le costruzioni nelle colonie»), ieri l’intervento di cinque Paesi dell’Unione Europea. Italia, Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna hanno concordato di convocare gli ambasciatori israeliani. Per esprimere il malumore causato da quelle 1.400 nuove abitazioni annunciate dal governo di Benjamin Netanyahu, per trasmettere la preoccupazione che il piano possa annullare gli sforzi per raggiungere un accordo con i palestinesi.
È quello che spiega una fonte diplomatica al quotidiano locale Haaretz : «Abbiamo espresso in modo molto chiaro che progetti di quel tipo rischiano di distruggere i tentativi di creare un’atmosfera positiva attorno ai negoziati». Anche la Farnesina ha fatto sapere informalmente di avere convocato Naor Gilon, l’ambasciatore a Roma, per esprimergli la chiara preoccupazione del governo italiano per i ripetuti annunci di nuovi insediamenti che non agevolano il processo di pace. L’unico rappresentate israeliano a non essere stato chiamato è quello in Germania, perché Frank-Walter Steinmeier, il ministro degli Esteri tedesco, è in visita a Gerusalemme e ha passato il messaggio direttamente ad Avigdor Lieberman, il capo della diplomazia.
Netanyahu ha replicato alle critiche in un incontro con la stampa estera. «L’Unione Europea dovrebbe smetterla con questa ipocrisia. Convocano i nostri ambasciatori per qualche casa e non richiamano quelli palestinesi per gli appelli alla distruzione di Israele. È falso continuare a ripete che gli insediamenti rappresentino un ostacolo alla pace. La causa del conflitto è il rifiuto dei palestinesi di riconoscere lo Stato ebraico».
La protesta europea arriva dopo una nuova crepa tra il governo israeliano e gli Stati Uniti, aperta dalle parole di Moshe Yaalon. Il ministro della Difesa ha dichiarato che John Kerry è spinto da «un fervore messianico» e ha ironizzato: «Che gli diano un premio Nobel e ci lasci tranquilli». Il segretario di Stato americano ha preferito considerare irrilevanti le frasi che una sua portavoce aveva definito «oltraggiose». Lo scontro con Washington è generato dalla richiesta israeliana di mantenere una presenza militare nella valle del Giordano anche dopo un eventuale accordo. Netanyahu ha incontrato ieri ad Amman re Abdallah e avrebbe sottolineato che le preoccupazioni per la sicurezza riguardano anche la Giordania.
Kerry — spiegano gli analisti israeliani — sta usando le pressioni dell’Unione per spingere Netanyahu a concedere di più. La minaccia è quella del boicottaggio e dell’isolamento internazionale. I diplomatici europei negli incontri di ieri con gli ambasciatori hanno voluto anche spiegare quali possibilità si aprirebbero dopo un accordo di pace: lo status di Israele potrebbe venire innalzato a quello di «partner privilegiato» dell’Ue. Da pochi giorni gli scienziati israeliani fanno parte del Cern di Ginevra, la prima nazione a essere aggiunta al laboratorio di ricerche dal 1999.
Da lunedì sera Laura Boldrini, la presidente della Camera, è in visita in Israele. Ieri ha incontrato nella Striscia di Gaza gli operatori della cooperazione italiana. Ha promesso di scrivere a Emma Bonino, il ministro degli Esteri, «per informarla di quanto visto, la situazione è critica».

La Stampa 17.1.14
Sulle colonie Netanyahu attacca l’Ue «È ipocrita»


Il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha bacchettato l’Europa per aver convocato gli ambasciatori di Israele dopo l’approvazione di nuovi insediamenti in Cisgiordania. «L’Ue si comporta in modo ipocrita» ha esclamato Netanyahu davanti la stampa estera al termine di una giornata iniziata ad Amman con un incontro con re Abdallah: «Quando mai l’Ue ha convocato rappresentanti palestinesi per denunciare l’incitamento contro Israele o la partecipazione al terrorismo? È l’ora di smetterla con questa ipocrisia». Ai giornalisti stranieri impegnati in Israele Netanyahu ha detto che nelle trattative in corso con i palestinesi le questioni di sicurezza «sono drammatiche e complesse», e riguardano anche la Giordania.

La Stampa 17.1.14
“Gaza rischia di esplodere”
La denuncia dell’Onu: la chiusura di tunnel con l’Egitto ha messo in ginocchio l’economia
di Maurizio Molinari

qui

La Stampa 17.1.14
Boldrini: “È un’emergenza
L’unica strada è lo sviluppo” La presidente della Camera in visita in Israele e nella Striscia
di M. Mo.

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Corriere 17.1.14
Cina, il tesoro segreto del «Generale Goldfinger»
Continua la campagna anticorruzione voluta da Xi Jinping: nel 2013 puniti oltre 180 mila dipendenti pubblici
di Guido Santevecchi


PECHINO — Per portare via i beni sequestrati al generale Gu Junshan sono serviti due giorni e due notti di lavoro di una squadra di 20 poliziotti e quattro camion. Il bottino dell’ufficiale corrotto comprendeva una statua di Mao in oro puro, lavandini d’oro, un modellino di nave in oro, lingotti, casse di liquore pregiato, un’intera cantina lunga trenta metri di bottiglie costose. Un tipo pratico il generale Gu, vicecapo dei servizi logistici dell’Esercito di liberazione popolare. Era responsabile delle infrastrutture e caserme e con la sua competenza si era costruito una specie di fortino nella città di famiglia, Puyang, provincia centrale dello Henan. E siccome i valori di solidarietà familiare sono sacri in Cina, l’alto ufficiale aveva aiutato anche i due fratelli minori a tirar su casa: il quartier generale dei Gu era diventato imponente ed era stato ricalcato sul modello della Città Proibita di Pechino.
Dove trovava tanti soldi il comandante? Le forze armate cinesi sono un gigantesco potentato economico, che controlla gruppi industriali e terra. Di tanto in tanto serve dismettere qualche appezzamento e Gu si prendeva una commissione personale per l’affare: il 6 per cento. Stessa percentuale sull’edificazione di caserme. Ma Gu sapeva anche guardarsi le spalle, facendosi voler bene da colleghi e superiori. A Pechino, dove lo aveva chiamato il suo incarico di prestigio, possedeva un’altra dozzina di appartamenti, da almeno 600 metri quadrati l’uno, pronti per essere regalati in caso di necessità.
L’inchiesta su questo Generale Goldfinger con la passione per l’oro era cominciata a gennaio del 2012. Lo avevano messo sotto inchiesta per «problemi economici», formula reticente che sta per corruzione. Il mese seguente il nome di Gu era stato cancellato dal sito web della Difesa. Poi il silenzio, perché in Cina l’Esercito di liberazione popolare è sacro dopo l’epopea della rivoluzione e criticarlo non è salutare.
Degli ufficiali corrotti non si parla mai, per rispetto e timore. Ma due anni dopo l’inizio, questo caso Goldfinger è stato raccontato con ricchezza di particolari da Caixin , una rispettata rivista. Significa che il presidente Xi Jinping si sente abbastanza forte per picchiare duro anche sui vertici delle forze armate nella sua campagna anticorruzione.
Caixin ripercorre la carriera del generale. Gu Junshan all’inizio era considerato un ufficiale scadente, ma era molto servizievole nei confronti dei superiori: alloggio fatiscente da ristrutturare? Gu trovava sempre il modo, con un bel sorriso. Poi il salto di qualità: fece breccia nel cuore della figlia di un commissario politico di divisione aerea, la sposò e, alla fine, gradino dopo gradino, favore dopo favore, arrivò a vicecapo della logistica dell’esercito. Non si dimenticò dei fratelli, ai quali affidò due fabbriche di forniture militari nella provincia d’origine.
Ma ora tira un vento nuovo a Pechino. La Commissione disciplinare del Partito comunista ha appena pubblicato i dati del 2013, primo anno dell’era di Xi, che ha promesso di «schiacciare le mosche (i piccoli burocrati che rubano) e «combattere le tigri» (gli alti funzionari che rubano)». Sono 182.038 i dipendenti pubblici puniti per corruzione nel 2013. Rispetto al 2012 c’è un aumento del 13,3 per cento, dice la Commissione, che evidentemente vuole sottolineare la serietà dello sforzo di pulizia. E oltre a un esercito di 182 mila corrotti, c’è un’armata di gente che denuncia malversazioni: gli investigatori del partito dicono di aver ricevuto un milione e novecentocinquantamila soffiate dalla gente. L’altro giorno Xi ha detto: «Dev’essere chiaro che tutte le mani sporche saranno tagliate». Addio Goldfinger Dito d’oro.

Corriere 17.1.14
Le politiche sull’energia di Putin per ricreare la rete di Paesi fedeli
di Luigi Ippolito


L’appetito vien mangiando, recita il vecchio adagio. E la Russia di Vladimir Putin non sembra accontentarsi di riaffermare la sua egemonia nello spazio geopolitico che fu dell’Unione sovietica. Dopo aver ricondotto all’ovile l’Ucraina, tentata da un accordo di associazione con l’Unione europea presto rinnegato, Mosca ora punta ai «Paesi satelliti» del defunto Patto di Varsavia.
Il primo boccone potrebbe essere l’Ungheria. I russi concederanno a Budapest un prestito di 10 miliardi di euro per ammodernare due reattori nell’unica centrale nucleare ungherese. Ancora una volta, è la politica energetica che funge da braccio armato del Cremlino: anche a Kiev è stato ridotto di un terzo il prezzo delle forniture di gas naturale, accanto a un finanziamento di 15 miliardi di dollari. E l’ultima mossa di Mosca conferma i piani per trasformare Rosatom, l’agenzia nucleare russa, nell’equivalente di Gazprom, il gigante del gas che rappresenta la punta di lancia dell’azione economico-diplomatica del Cremlino.
L’accordo con Budapest permette ai russi di coprire gran parte del fabbisogno energetico ungherese per gli anni a venire, considerato che Mosca già fornisce tre quarti del petrolio e del gas. Una riduzione delle tariffe energetiche domestiche consentirebbe inoltre al premier magiaro Viktor Orban di mantenere una delle sue promesse-chiave della campagna elettorale in vista del voto di maggio. E non stupisce più di tanto che Orban, già entrato nel mirino dell’Unione europea per le sue tendenze autoritarie, finisca per legare il suo destino politico all’autocrate del Cremlino.
Fa più impressione, invece, che l’Europa appaia disarmata di fronte all’offensiva di Mosca. Eppure è proprio alle frontiere orientali che la Ue gioca la sua partita strategica più importante. Ma dopo la legnata presa sull’Ucraina, a Bruxelles l’unica reazione che sembrano capaci di mettere in campo è la ripicca diplomatica: ieri i 28 hanno cancellato la tradizionale cena con Putin in occasione del summit bilaterale in programma per il 28 gennaio. Certo, pesa il fatto che gli scambi commerciali fra i due blocchi abbiano raggiunto nel 2012 i 336 miliardi di euro. Ma forse bisognerebbe stare attenti a non scivolare dall’interdipendenza economica alla sudditanza politica.

Corriere 17.1.14
«Quando mia nonna ebrea beffò i nazisti»
Marco Bechis: io, desaparecido in Argentina, ho capito l’orrore ad Auschwitz


«Anch’io, desaparecido, ero diventato una lettera seguita da un numero. Mi chiamavo, anzi mi chiamavano A01, e non potevo permettermi di dimenticare altri due numeri, 190 e 191, cioè le combinazioni per aprire i lucchetti ai capi della catena che circondava le mie caviglie. Ero diventato un signor nessuno, senza nome e senza identità».
Marco Bechis, il regista della nostra web serie «Il rumore della memoria», che verrà trasmessa da Corriere.it a partire da lunedì 20 gennaio, è un artista segnato da dure esperienze, ma non si è mai abbandonato al pessimismo. Non ama la retorica. Il suo lavoro è sempre asciutto e incisivo. E poi si nutre di dubbi, la medicina terapeutica che garantisce i risultati migliori.
«Quando mi avete proposto la web serie per il Corriere Tv , che sarà seguita da un film-documentario, ho avuto due reazioni contrapposte. Mi affascinava, ovviamente, la storia di Vera Vigevani Jarach, una donna ebrea che nella vita non ha tombe su cui piangere. Il tema delle morti senza nomi e senza tombe mi ha sempre sconvolto e coinvolto. Dovendo però tornare un’altra volta nel luogo dove anch’io ho avuto un’esperienza dolorosa, sarei stato tentato di rifiutare. Però la proposta web del Corriere era decisamente seducente e innovativa. E poi sono convinto che nel web prima o poi vincerà il contenuto».
Che cosa intende?
«Mi spiego. So bene che sul web la percentuale di hard news e di gossip è preponderante. Magari si avvicina al 90 per cento. A me interessa impegnarmi per l’ultimo segmento. Per questo è importante il modo di raccontare una storia, quindi il contenuto che diventa forma. Una grande storia, raccontata male, è scialba. Una piccola storia, in mani giuste, può diventare un grande caso. Sa che cosa potrebbe accadere?».
Non mi dica che il web annienterà persino la televisione?
«In parte è già accaduto. Sul web si troveranno con frequenza prodotti seriali socialmente condivisi, che un gruppo di amici potrebbe decidere di gustare in compagnia, affittando una sala. Non quindi un cinema dove paghi il biglietto per vedere quello che hai scelto, e che poi potrebbe deluderti, ma un posto dove rivedere con piacere e condividere. Chissà che questo non diventi il futuro».
Nel docu-web per il «Corriere della Sera» lei racconta una storia che parte dall’Argentina e arriva in Polonia, ad Auschwitz-Birkenau. Vede punti di contatto tra queste due tragedie del Novecento?
«Le proporzioni, ma soprattutto le sproporzioni sono evidenti. Da una parte c’è il genocidio etnico, dall’altra quello ideologico. Però, nel metodo persecutorio trovo molti punti in comune. Vede, in Cile, in Uruguay, in Grecia vi sono state dittature feroci, e tutti abbiamo visto stadi, carri armati e immagini di violenza. In Argentina i golpisti, dopo aver studiato attentamente gli errori commessi negli altri Paesi, hanno cambiato tattica: cercando, con ogni mezzo, di far sparire, segretamente, gli oppositori. Li rapivano, utilizzando squadre in borghese, e poi negavano di averli sequestrati. Desaparecidos, appunto. L’annientamento studiato e programmato, probabilmente in anticipo».
Che cosa vuol dire?
«Le faccio un esempio. La prigione dove mi portarono e fui rinchiuso non esiste più. Era una delle sedi della polizia, chiamata in codice “club atletico”. Ora l’edificio è stato distrutto per costruire un tratto di strada sopraelevata. Pensi che il barista della casa di fronte mi ha raccontato che, sin dall’anno prima del golpe, c’erano operai che lavoravano alacremente nel sotterraneo dell’edificio, e poi andavano a bere un bicchiere raccontando qual era il loro lavoro. Costruire letti di pietra e celle in serie. Mi pare che l’intenzione dei committenti fosse evidente».
Lei è ebreo?
«Era ebrea mia nonna, Luisa Zaban Bechis, che si convertì al cattolicesimo prima del fascismo, ma che per le autorità era un’ebrea. Aveva studiato con i suoi fratelli in Germania, e conosceva il tedesco alla perfezione. Durante l’occupazione nazista arrivò a Torino con un figlio malato, mio zio. Voleva scendere in un albergo, davanti alla stazione di Porta Nuova. Ma l’hotel era stato requisito dal comando tedesco. Non si perse d’animo. Entrò e, con il suo tedesco perfetto, spiegò che suo figlio era malato e che dovevano sistemarli lì per una notte. Accettarono. Una beffa straordinaria».
Lei era molto turbato durante la nostra visita, per accompagnare Vera, ad Auschwitz e a Birkenau.
«Sì, è vero. Non ero mai stato ad Auschwitz, e confesso che, al mio ritorno in Italia, non ero più lo stesso. Mi sembrava che prima non avessi capito niente. Quando si tocca con lo sguardo e con il cuore la dimensione dell’orrore, beh, cambia davvero tutto. E poi c’è l’ossessione di quel perché? Chiedersi come sia stata possibile quella mostruosità, e poi pensare, come in un incubo, che può succedere ancora».

Corriere 17.1.14
Saccheggi e rapine: la guerra dell’arte
Imperi e collezionisti all’inseguimento dei capolavori
Sergio Romano racconta la storia di un’ossessione
di Arturo Carlo Quintavalle


Il turista che viaggia per musei lo sa bene, ma forse non vuole rendersene conto: «La proprietà (dell’arte) è un furto». No, non è una affermazione neo o post-marxista, ma una constatazione di fatto. Se avete viaggiato nelle grandi capitali, poniamo a Parigi fra il Musée de l’Homme e il Louvre, a Londra fra British e Victoria and Albert, a Washington alla National Gallery, a New York al Metropolitan, e potremmo continuare con la Berlino della Museum Insel e con centinaia di altri luoghi simbolici della storia della cultura, sapete bene che le grandi raccolte, quelle imperiali inglesi, o prussiane, o francesi, e ancora quelle dei grandi collezionisti statunitensi nascono da precise vicende storiche: la sconfitta e la scomparsa di Stati minori, o di nobili famiglie, dunque guerre guerreggiate in passato, guerre economiche, oggi.
Sergio Romano si colloca in prospettiva storica, forse proprio per mettere a confronto due modi e due tempi del depredare, oggi diremmo del collezionare. Comincia infatti da Vivant Denon, che univa insieme, recandosi in Egitto con la spedizione napoleonica del 1798-1801, una grande esperienza dell’arte occidentale dall’antichità al Rinascimento e oltre, a una forte attenzione per la civiltà dell’Egitto.
La sua storia è singolare: Napoleone gli mette a disposizione una intera compagnia di soldati e lui, Denon, con quella, viaggia dalle piramidi di Giza a Tebe e al Sud, disegnando, analizzando i monumenti della regione e ponendo le basi di quello che sarà per cento e più anni il totale saccheggio della terra dei faraoni, portato avanti da inglesi, francesi, tedeschi, italiani e altri ancora. Lo provano le grandi raccolte di antichità egizie nei musei dell’Occidente. Lo stesso si dica per l’arte cinese, giapponese, medio ed estremo-orientale. L’arte dunque è simbolo del potere di chi la possiede e così Denon, seguendo il programma napoleonico, pensa il Louvre come luogo dove concentrare l’intera storia dell’arte del mondo. Il progetto non riesce, Napoleone è sconfitto e dal 1815 Denon è costretto a restituire; ma, ad esempio, su cento capolavori portati via dal Vaticano, Antonio Canova ne ritrova solo una settantina; lo stesso accade a parte delle migliaia di opere «prelevate» in Europa dalle armate francesi. Se i musei diventano il simbolo del potere e le opere d’arte sono le matrici delle culture, delle lingue, dei popoli, chi desidera tagliare la radice di quelle memorie deve trasferire altrove dipinti, sculture, libri, archivi e magari eliminare quello che non rapina.
Passiamo a vicende più recenti: Hitler vuole creare, con l’aiuto di Hermann Göring, una raccolta dell’arte dell’intero Occidente, ma insieme distruggere la storia dei Paesi occupati, quella della Polonia, quella dell’Unione Sovietica, e vuole favorire un’arte «pura»: «Il compito dell’arte non è quello di frugare nella sporcizia per amore della sporcizia, di dipingere l’essere umano solo in condizione di decomposizione». L’arte dunque non sarà, nel Reich, degenerata; entartete , nota Romano, vuol dire «estraniata, allontanata dalla propria specie», quindi è degenerata l’arte ebraica, ma anche quella moderna, e ancora quella bolscevica, e quella cristiana: lo spostamento dall’analisi delle forme al rifiuto delle ideologie è significativo.
Qualcuno dei più vecchi fra gli storici dell’arte, figli o nipoti dei pochi soprintendenti impegnati in Italia fra 1943 e 1945 nella tutela di fronte alle rapine naziste, ha sentito il racconto di quei camion militari venuti per portare in Germania i nostri capolavori, un racconto che coincide con la parallela lotta per conservare i tesori di Francia, ad esempio quelli concentrati, migliaia di pezzi, al Jeu de Paume a Parigi e salvati da una funzionaria, Rose Valland, e dai partigiani che bloccarono le truppe della Wermacht. Nel dopoguerra Rodolfo Siviero, figlio di un sottufficiale dei carabinieri, laureato in Storia dell’arte, borsa di studio nel 1937 a Berlino, nel 1946 diventa plenipotenziario del governo De Gasperi per il recupero delle opere d’arte; Siviero va a Monaco di Baviera, dove gli americani depositano 6.775 quadri e sculture razziati dai nazisti in mezza Europa e ritrovati nelle cave di sale di Altaussee (Salisburgo): rientrano così in Italia il Discobolo Lancellotti , la Danae di Tiziano e molte altre opere. Ma non tutto torna. Eclatante il caso delle opere prese dai sovietici in Germania come riparazione dei danni di guerra e poi solo in parte restituite alla Ddr. Manca all’appello, fra l’altro, il tesoro di Priamo, quello che Heinrich Schliemann aveva scoperto nel 1873 a Troia e portato a Berlino: sta ancora a Mosca. E mai sono state restituite migliaia di opere rubate a collezionisti ebrei, molti scomparsi nei campi di concentramento.
Esiste un nesso stretto fra potere economico e compravendita del passato, che attraversa l’intero Occidente nel secolo americano. Perché è indubbio che il ‘900 vede il maggior spostamento di opere d’arte da ogni parte del mondo agli Stati Uniti: sono le grandi collezioni dei Mellon, Morgan, Frick, Rockefeller e ancora quelle della National Gallery di Washington, dell’Art Institute di Chicago, del Metropolitan di New York, molte delle quali si consolidano tra lo scorcio dell’800 e poi fra le due guerre e dopo. È interessante ragionare sulle conseguenze di questa enorme concentrazione di modelli simbolici nei nuovi Paesi. Come i marmi prelevati da Lord Elgin e portati dal Partenone a Londra, ridisegnano in Inghilterra la cultura neoclassica, così le grandi collezioni del passato favoriscono la crescita di un «impero» dell’arte contemporanea che gli Usa impongono, almeno dal tempo dell’Espressionismo astratto. A questo punto, finito il razzismo dell’arte degenerata, sono a confronto due ideologie, quella dell’immagine e dunque dell’arte come strumento di moltiplicazione della cultura, e quella del rifiuto dell’arte in quanto mezzo di corruzione usato dall’Occidente nei confronti dei differenti «orienti». Non l’arte, ma l’ideologia dell’arte è un furto.

Corriere 17.1.14
Il confine difficile tra due storie
Moderno o contemporaneo, l’ambiguità del Risorgimento
di Antonio Carioti


Falso allarme. Non è vero che all’Università di Bologna ci si può laureare in Storia senza conoscere le vicende della seconda metà dell’Ottocento e in particolare il Risorgimento italiano. Resta però aperto in generale il problema della delimitazione tra un insegnamento di Storia contemporanea che tende a concentrarsi sul Novecento e un programma di Storia moderna che ha superato i limiti cronologici in uso nel passato (prima la rivoluzione francese, 1789; poi il Congresso di Vienna, 1815), per addentrarsi ormai a metà del XIX secolo e anche oltre.
La notizia secondo cui a Bologna il corso di laurea triennale in Storia non prevede lo studio dell’unità d’Italia, diffusa dall’Ansa, viene smentita dai diretti interessati. In particolare da Alberto De Bernardi, titolare della cattedra di Storia contemporanea presso l’ateneo emiliano: «Negli ultimi anni i miei corsi hanno riguardato la questione meridionale, che nasce nel 1860; il colonialismo italiano, che comincia nell’Ottocento; e nel 2011 proprio l’unità d’Italia. Francamente non capisco su che cosa si basi questa accusa. Per anni noi storici italiani siamo stati rimproverati di essere dei provinciali, che guardavano solo alle vicende del loro Paese. E c’era del vero: infatti io cerco di dare al mio insegnamento una dimensione globale. Questa polemica di segno opposto mi sembra priva di senso».
Ma da dove nasce la questione? «Forse dal fatto — osserva Gian Paolo Brizzi, che a Bologna insegna Storia moderna — che al momento non c’è un insegnamento specifico di Storia del Risorgimento nel corso di laurea in Storia. Ma esiste nel corso di laurea in Lettere e gli iscritti di Storia possono ovviamente frequentarlo. A partire dal prossimo anno del resto la Storia del Risorgimento ci sarà anche da noi: abbiamo già previsto il corso, che sarà tenuto dalla collega Maria Pia Casalena. Il problema vero è che ormai viene rimpiazzato un docente ogni cinque che vanno in pensione: dato che le discipline cardine, come Storia moderna e Storia contemporanea, devono essere comunque coperte, a soffrire sono quelle specialistiche, tipo Storia del Risorgimento. Avviene lo stesso altrove: negli studi giuridici, a Medicina, a Ingegneria, nelle scienze naturali».
Giudica inesistente il caso anche Angelo Varni, che a Bologna insegna proprio Storia del Risorgimento: «Sono titolare della cattedra nel biennio che porta alla laurea magistrale, mentre nel precedente corso triennale (la struttura complessiva è il famoso 3 più 2) insegno Storia del giornalismo. Ma anche trattando quest’ultima materia mi occupo ampiamente del XIX secolo, che vede lo sviluppo della stampa moderna. È l’incredibile laboratorio di eventi tra il 1789 e il 1815 che segna l’affermarsi dell’opinione pubblica e di una concezione della politica, fondata sul rapporto tra Stato e cittadino, con cui ci confrontiamo ancora oggi: per questo ritengo che la rivoluzione francese sia lo spartiacque tra la storia moderna e quella contemporanea, al di là delle ripartizioni accademiche».
Su questo punto però i pareri non sono unanimi. De Bernardi ritiene che il confine vada spostato più in là nel tempo: «Credo che la rivoluzione europea del 1848 sia più adatta del 1789 parigino. La storia contemporanea riguarda i fenomeni che possiamo considerare aperti dal punto di vista delle loro dinamiche di sviluppo. È a metà dell’Ottocento, con l’affermazione dell’industria, i nuovi mezzi di comunicazione, l’avvento della società di massa e dello Stato liberale, che la modernità acquista una fisionomia nuova».
Propende invece per la fine del Settecento, in sintonia con Varni, un altro docente contemporaneista dell’ateneo di Bologna, Fulvio Cammarano: «Con la rivoluzione americana e quella francese i diritti dell’individuo diventano materia di lotta politica e il cittadino rivendica una definizione dei rapporti di potere attraverso la Costituzione. Si tratta di una svolta dalla quale non si torna più indietro, che interpella ancora noi contemporanei, visto che i problemi della rappresentanza sono al centro dei conflitti in corso nelle democrazie odierne».
È interessante ascoltare in proposito anche il parere di uno storico dell’Età moderna come Brizzi: «Difficile individuare una data discriminante: se ne possono proporre molte, tutte a buon titolo. Di certo è impensabile capire gli sviluppi attuali senza considerare gli eventi che caratterizzano l’esordio dell’età moderna: l’invenzione della stampa, la scoperta dell’America, la Riforma protestante. Ma sul piano didattico credo che si debba mantenere un equilibrio tra i due insegnamenti: è sbagliato avere una Storia contemporanea che copre solo il XX secolo o poco più, mentre quella moderna arriva a estendersi per quasi quattrocento anni, dall’impresa di Cristoforo Colombo (1492) fino al 1848, se non addirittura al 1870. È anche il frutto della scelta di dedicare il programma di storia dell’ultimo anno delle scuole superiori al solo Novecento, restringendo lo spazio del XIX secolo. È così che si penalizza davvero il Risorgimento».

Corriere 17.1.14
Szymborska in viaggio, da Stalin a Woody Allen
di Luca Mastrantonio


Wisława Szymborska è scomparsa il primo febbraio di due anni fa, a 88 anni, ma è possibile passare un’ora in sua compagnia grazie al documentario La vita a volte è sopportabile (uscito da Casagrande, con libro che raccoglie testi di Roberto Saviano, Francesco M. Cataluccio, Matteo Campagnoli, Jarosław Mikołajewski). Il film di Katarzyna Kolenda-Zaleska è un ritratto assai fedele all’umorismo della poetessa polacca; e sorprendentemente intimo, perché fa breccia nella riservatezza di un’autrice che, dopo il Nobel del 1996, temeva di perdere il contatto con la vita reale: musa irrinunciabile per un lirismo filosofico intriso di quotidianità.
Com’è riuscita la regista a convincere la Szymborska? Con un viaggio, un percorso a premi stravagante, come certe passioni della poetessa; in particolare, l’acquisto compulsivo di souvenir e oggetti kitsch, presi in giro per il mondo, che poi, per svuotare casa, regalava agli amici durante cene che finivano con pesche miracolose (o mostruose); e poi l’attrazione per i cartelloni di paesi dai nomi surreali (Neanderthal e Sodoma). Li faceva fotografare dal segretario Michal Rusinek, grazie al quale il film apre i cassetti fisici (600, in un appartamento di 60 mq, a Cracovia) e mentali della poetessa; di lei racconta aneddoti e appunta le poesie composte durante il viaggio (a cavallo del 2008): sono limerick , umoristici componimenti brevi, che la Szymborska s’inventa e poi recita davanti al cartello del paesino di Corleone, in Italia, o nella città di Limerick, in Irlanda (da cui deriva il nome del genere poetico).
Dal gomitolo di interviste spunta fuori un divertente dialogo a distanza con Woody Allen, in un scambio di battute autoironiche e vicendevole adorazione. Per i più sentimentali, ci sono gli occhi lucidi della poetessa quando legge Amore a prima vista ; ai patiti del rimorso, concede un pensiero sui suoi versi giovanili in omaggio a Stalin: «Non mi giustifico, li ho scritti; me ne pento». E poi: «Mancano di conoscenza e immaginazione».
Miti senza pentimento, invece, sono Ella Fitzgerald, Al Pacino, Havel e il pugile polacco Andrew Golota («che dire, un uomo vero» sospira davanti a una sagoma che lo ritrae). E sopra tutti Vermeer: il documentario registra l’estasi sotto-palpebra della poetessa davanti alla Lattaia , in un museo olandese, cui poi dedicherà una poesia («giorno dopo giorno versa / il latte dalla brocca nella ciotola / il mondo non merita / la fine del mondo»).
Il film riesce a far trapelare la luminosità della Szymborska, la sua gioia di vivere, vedere e scrivere, attraverso parole, gesti e sorrisi; oggetti grotteschi, come il sommergibile-accendino, o vezzosi, come i cappellini; e poi certi riti, dall’amato caffè nero, lungo, alle sigarette lente, boccheggiate. Quando aveva iniziato a fumare? Prima della guerra, dice. E poi, smilitarizzando la risposta, precisa: ma si trattava di una questione d’amore.

Corriere 17.1.14
I limiti del computer super intelligente
di Massimo Gaggi


Watson, il supercomputer delle meraviglie, è l’orgoglio e la grande speranza dell’Ibm ma, in una certa misura, anche un oggetto misterioso. A tre anni dalla sua vittoria sull’uomo in «Jeopardy», il più celebre quiz televisivo americano, centinaia di ingegneri continuano a lavorare sullo sviluppo di questa macchina che, promette il gigante informatico che l’ha costruita, dovrebbe rivoluzionare aspetti cruciali delle nostre vite: dal modo in cui si arriva a diagnosi e terapie per il cancro alle scelte d’investimento dei risparmiatori.
Un anno fa anche il Corriere ha raccontato come alcuni degli ospedali americani più avanzati nella lotta contro i tumori — dallo Sloan-Kettering di New York alla Cleveland Clinic, all’Anderson Cancer Center in Texas — abbiano cominciato a utilizzare la straordinaria capacità di Watson di memorizzare tutta la casistica medica universale e di imparare dai suoi errori diagnostici per migliorare le terapie. Questo sta già avvenendo, ma, evidentemente, trasformare una «Formula 1» in una vettura che può essere guidata per strada non è facile nemmeno nel mondo dell’informatica: Ibm sta faticando più del previsto nei suoi tentativi di fare di Watson una macchina da 10 miliardi di dollari di fatturato l’anno, come promesso dal capo del gruppo, Virginia Rometty. Quella di Watson diventa, così, una storia esemplare delle difficoltà di trasformare in realtà le promesse di un mondo governato da macchine capaci di formulare giudizi più affidabili di quelli dell’uomo. Una storia fatta di grande abilità ingegneristica, ma anche di attesa famelica dei manager che devono giustificare i loro investimenti davanti agli azionisti e di ridotta agilità dei grandi gruppi industriali rispetto alle start-up tecnologiche, molto più adatte a navigare nei flutti dell’economia digitale. A fronte dei dieci miliardi di fatturato posti come obiettivo dalla Rometty, capo di un gruppo il cui giro d’affari è in calo da 6 trimestri consecutivi, fin qui Watson ha portato a casa solo 100 milioni di dollari. Adesso l’Ibm rilancia e diversifica: ha appena annunciato la creazione nell’East Village di New York del Watson Group, una task force di duemila persone incaricata di sviluppare e vendere la macchina. Per «Big Blue», la società più longeva del mondo dell’elettronica (è stata fondata 103 anni fa) già sopravvissuta al succedersi di varie ere geologiche nell’informatica, questo è un altro passaggio decisivo. Ibm cerca di affrontarlo con umiltà (dopo mesi di incomprensioni e istruzioni impartite da lontano, gli ingegneri hanno cominciato a recarsi settimanalmente negli ospedali che usano Watson) e battendo strade nuove: dopo i tentativi con Citigroup di mettere a punto una versione di Watson capace di scegliere gli investimenti più promettenti, ora decolla una partnership con la banca asiatica Dbs, mentre Terry Jones, il padre dei siti turistici Travelocity e Kayak vuole rivoluzionare di nuovo l’industria dei viaggi proprio ricorrendo a Watson. Ma nulla in questo mondo è scontato e Ibm dovrà correre a perdifiato per centrare i suoi obiettivi.

Repubblica 17.1.14
Il Rinascimento tecnologico
Quelle banche dati che ci obbligano ad essere intelligenti
di Michel Serres


Da quando siamo uomini, abitiamo in uno spazio polarizzato attorno a luoghi diconcentrazione, case, villaggi e tesori diversi; in particolare, il luogo stesso in cui vivo e al quale riferisco il mio indirizzo. Viviamo in questo spazio perché costruire lo forma, abitare lo consolida e pensare consiste nel riprodurlo.
Lo spazio immagazzina, l’individuo pensa: stesso processo. Non saremmo potuti sopravvivere senza queste concentrazioni che condizionavano la vita, l’individuo, il collettivo, le pratiche e la teoria; non ci smettevamo, instancabilmente, di inventarne di nuove sotto tutti i rapporti. Ed ecco che i computer portano a compimento questo segmento dell’ominizzazione. Perché se queste macchine possono essere definite universali, meritano tale titolo sotto la rubrica, appunto, della concentrazione. Che bisogno abbiamo di riunire libri, segni, beni, studenti, case o mestieri dal momento che il computer lo fa? Il problema generale dell’immagazzinamento che cercavamo di risolvere e sul quale lavoravamo follemente fin dalla nostra origine ha trovato soluzione, non solo reale ma virtuale: ogni questione di questo tipo trova molteplici risposte possibili, secondo le sue condizioni e costrizioni. Le reti rendono desueta la concentrazione attuale, voglio dire un ammasso qualsiasi qui e ora.La rapidità delle comunicazioni concentra virtualmente ovunque, ad libitum, tutto o parte del connesso disponibile. Al contrario delle antiche tecnologie, le nuove macchine sostituiscono con trasmissioni rapide la funzione del conservare. Non immagazziniamo più cose, bensì relazioni.
Le reti sostituiscono la concentrazione con la distribuzione. Da quando disponiamo, su una postazione portatile o sul telefonino, di tutti i possibili accessi ai beni o alle persone, abbiamo meno bisogno di costellazioni espresse. Perché anfiteatri, classi, riunioni e colloqui in un dato luogo, e perché una sede sociale, dal momento che lezioni e colloqui possono tenersi a distanza? Gli esempi culminano in quello dell’indirizzo. In tutto il corso della storia è stato riferito a un luogo, di abitazione o di lavoro, mentre oggi l’indirizzo di posta elettronica o il numero di telefono cellulare non indicano più un determinato luogo: un codice o una cifra, pura e semplice, basta. Quando tutti i punti del mondo godono di una sorta di equivalenza, la coppia qui e ora entra in crisi. Heidegger, filosofo oggi assai letto nel mondo, nel chiamare esserci l’esistenza umana, designa un modo di abitare o di pensare in via di estinzione. Il concetto teologico di ubiquità – la capacità divina di essere ovunque – descrive meglio le nostre possibilità rispetto al funebre qui giace.
Un altro modo di interpretare il gesto di immagazzinare: depositare informazione su pergamena, carta stampata o supporto elettronico significa costruire una memoria. I nostri antenati assomigliavano agli attori di oggi che sono in grado di recitare a memoria migliaia di versi o di sostenere altrettante repliche. Simili eroismi superano ormai la nostra capacità. Man mano che costruiamo memorie performanti, perdiamo la nostra, quella che i filosofi chiamavano una facoltà. Possiamo davvero dire: perdere? Niente affatto, perché il corpo deposita, a poco a poco, quell’antica facoltà nei supporti mutevoli; cervicale e soggettiva, essa si oggettivizza e si collettivizza. Una stele di pietra, un rotolo di papiro, una pagina di carta: ecco memorie materiali, in grado di dare sollievo alla nostra memoria corporea. Era vero per le biblioteche, lo è ancora di più per la rete, memoria globale ed enciclopedia collettiva dell’umanità.
Secoli fa cantastorie, aedi, gli apostoli di Gesù, gli interlocutori di un dialogo di Platone, anche uno studente della Sorbona medievale, potevano ripetere a distanza di anni, senza omettere una sillaba, i discorsi di un maestro o di un oratore uditi da giovani. Al riparo dagli errori di copisti troppo interventisti, la tradizione orale tracciava una via più sicura rispetto alla trasmissione scritta. I nostri predecessori coltivavano dunque la loro memoria e disponevano di sottili strategie mnemotecniche. Man mano che prendevamo note o leggevamo stampati, non tanto abbiamo perso quella facoltà quanto l’abbiamo depositata nei libri e nelle pagine. Così come la ruota fu ispirata dal corpo, dalle caviglie e dalle rotule in rotazione nella marcia, allo stesso modo l’immagazzinamento dell’informazione prese le mosse da funzioni cognitive antiche. Al contrario degli animali, bloccati in un organismo senza “secrezione” di questo tipo, noi non cessiamo di riversare le nostre prestazioni corporee in strumenti prodotti a partireda esse. Perdiamo la memoria perché ne costruiamo di multiple.
Ci uniamo qui ai piagnoni antichi e moderni, i cui discorsi e testi deplorano la perdita dell’oralità, della memoria, della concettualizzazione e di tante altre cose preziose per i nostri avi. In realtà la perdita della memoria, nell’epoca che seguì quella in cui si declamavano a mente i poemi di Omero, liberò le funzioni cognitive dal carico impietoso di milioni di versi; apparve allora, nella sua semplicità astratta, la geometria, figlia della Scrittura. Allo stesso modo nel Rinascimento una perdita ancora più importante sollevò i saggi dallo schiacciante obbligo della documentazione, che allora si chiamava dossografia, e li riportò bruscamente alla nuda osservazione che fece nascere le scienze sperimentali, figlie della stampa. A bilancio, i vantaggi prevalgono in maniera preponderante sui pregiudizi, poiché in tali circostanze nacquero due altri mondi, che permisero di comprendere questo. Sapere consiste allora non più nel ricordare, ma nell’oggettivare la memoria, nel depositarla negli oggetti, nel farla scivolare dal corpo agli artefatti, lasciando la testa libera per mille scoperte. Ho impiegato molto a capire che cosa volesse dire Rabelais, quando i professori mi obbligavano a dissertare sulla celebre frase:Preferite una testa ben fatta a una testa piena. Prima di poter allineare i libri nella loro libreria, Montaigne e i suoi antenati dotti dovevano imparare a memoria l’Iliade e Plutarco, l’Eneide e Tacito, se volevano averli a disposizione per meditare. L’autore degli Essais li cita ormai ricordandosi solo del loro posto sugli scaffali per consultarli: quanta economia! All’improvviso la pedagogia, che quel Rinascimento auspica, vuoterà la testa un tempo piena, e ne modellerà la forma senza preoccuparsi del contenuto, ormai inutile in quanto disponibile nei libri. Liberata della memoria, una “testa ben fatta” si volgerà ai fatti del mondo e della società per osservarli. Rabelais, in quella frase, in realtà, loda l’invenzione della stampa e ne trae lezioni educative. Decisamente, bisogna riscrivere Pantagruel o gliEssais.Come vecchi cadenti, i bambini di oggi non ricordano neppure la trasmissione vista ieri sera in televisione. Quale scienza immensa promuoverà quest’altra perdita di memoria? Questo sapere recente si può già apprenderlo o almeno visitarlo sulla rete, come il nuovo oblio l’ha già modellato. Sì, l’enciclopedia, la cui rete mondiale gronda informazioni singolari, ha appena cambiato paradigma, sotto l’effetto della nuova liberazione. Il nostro apparato cognitivo si libera anche di tutti i possibili ricordi per lasciare spazio all’invenzione. Eccoci dunque consegnati, nudi, a un destino temibile: liberi da ogni citazione, liberati dallo schiacciante obbligo delle note a piè di pagina, eccoci ridotti a diventare intelligenti!
Come nel Rinascimento, giungono una nuova scienza e una nuova cultura, i cui grandi racconti producono un’altra cognizione che li riproduce a loro volta arricchiti. Questo cambiamento d’intelletto ha avuto luogo più volte nella storia, ad esempio quando arrivarono i modelli astratti della geometria o gli esperimenti in fisica, quando appunto cambiavano le tecnologie. Così la storia della filosofia e la storia stessa, tributarie della storia della conoscenza, seguono quella dei supporti.

Sull’ultimo numero di Vita e Pensiero appare la versione integrale del testo qui anticipato

La Stampa 17.1.14
Un documento di 400 anni fa potrebbe riscrivere la storia dell’Australia
Un manoscritto portoghese del XVI esimo secolo, raffigurante un canguro, dimostrerebbe che la scoperta del Paese sia avvenuta molto prima del 1770
di Enrico Caporale

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