domenica 19 gennaio 2014

La Stampa 19.1.14
“Profonda sintonia”, dice il segretario
Il Cavaliere: il Pd è cambiato
Renzi-Berlusconi: intesa sulla legge elettorale
di Francesca Schianchi

qui

La Stampa 19.1.14
Quel patto firmato lontano dagli occhi e da foto compromettenti
di Mattia Feltri


Ah che peccato, la giornata storica non ha un’immagine storica. Ci eravamo mobilitati dalla mattina, noi e quelli delle tv, pregustando la foto che dai giornali sarebbe presto transitata sui sussidiari di storia. La stretta di mano, il fatale ingresso nella tana
dei comunisti, come talvolta ancora Silvio li chiama. Una bella istantanea di Berlusconi con la bandiera del Partito democratico sullo sfondo, o magari un’altra dei dialoganti che rifanno l’Italia sotto i quadri di Fidel e del Che. Ci si sarebbe accontentati del vecchio capo del centrodestra ritratto mentre saluta dal finestrino, o del giovane capo del centrosinistra che si affaccia col pollice alzato: uno straccio qualsiasi di testimonianza digitale da mettere in copertina sull’istant book della fondazione della Terza repubblica. E invece niente. I due più grandi comunicatori della politica contemporanea italiana si
sono presi una giornata di vacanza, al termine della quale non avevano esibito nemmeno una stilla dell’altissima considerazione, etica ed estetica, che hanno di sé.
Alle 21.52, e capirete la portata dell’evento, Matteo Renzi non aveva ancora twittato il senso epocale della vicenda, ma si era limitato (con grande modestia) a rilanciare il messaggio di uno che invitava tutti noi a impegnare in questioni meno fatue almeno il dieci per cento del tempo dedicato al vertice. Quell’altro era al minimo sindacale: aveva giusto diffuso il solito video sui tg e poi sui siti Mediaset, non una roba da intasare il traffico: in un’ora se l’erano visto in un migliaio e poco più. E infatti era il centesimo video mummificato, poteva essere dell’anno scorso o dell’anno prossimo, non sarebbe cambiato nulla: le tende co-
lor dittatura rumena alle spalle, le bandiere assortite in un angolo, in quell’altro, sulla scrivania, un soprammobile d’argento barocchissimo; lui col doppiopetto blu e la cravatta a pois, il medesimo modello che indossa da vent’anni per essere rassicurante, e invece ormai pare l’eterno replay di se stesso. Nel frattempo Renzi si era concesso il minimo sindacale di una conferenza stampa, ma roba da dieci minuti,
«perché ho il treno». Il treno? Cioè, qua tutti parlano di giornata storica, di intesa decisiva, di una nuova partenza per il paese, e lui ha il treno? E non può prendere quello dopo? No, niente da fare, ha il treno, prenderà
quello lì, intanto illustra i tre punti su cui c’è intesa, e in realtà si gusta l’ingresso nel mondo dello svicolare, anguillesco, evasivo, fumoso come i fuoriclasse rottamati (o estinti).
Renzi era comparso con un certo anticipo sul palcoscenico della giornata. Era arrivato nella sede del partito alle 15, proveniente a piedi dalla stazione Termini. Si era tirato dietro una pattuglia di giornalisti a cui aveva concesso giusto un saluto, e chiusa lì. Neanche una battutina, un’arguzia, gli inseguitori erano rimasti a bocca asciutta, increduli. Si era poi sparsa la voce, piuttosto fantasiosa, che per una corrispondenza sentimentale anche Berlusconi avrebbe raggiunto sulle sue gambe la sede dell’appuntamento. Ma quando mai? Naturalmente è arrivato in macchina e seguendo un percorso particolarmente complicato che gli ha permesso di entrare al Nazareno da un’entrata laterale, invisibile come chi va all’appuntamento galante. Una beffa. Anzi, un tradimento. Un’infamia. Tutto ciò che c’era di fotografabile era l’auto insozzata di uova da pochi contestatori. Un mezzo zabaione da offrire ai posteri, insieme con la figura del Cav, presa abilmente da qualche squarcio di finestra mentre, accompagnato da Gianni Letta, sale scale anonime con ringhiera. Da qui si vedono i tacchi, i leggendari tacchi del Capo. Ma in-
somma, sarà mai questa l’immagine che fisseremo sulla lapide di un ventennio? Non restava che confidare in un selfie, cioè l’autoscatto da iPhone di cui si sarebbe incaricato Renzi. In fondo ci pensarono anche Abc (Alfano, Bersani e Casini) nella stanza di Mario Monti. Il selfie non è arrivato. Non è arrivato altro. Abbiamo lasciato il terreno di battaglia con niente in pugno, e con la società dell’immagine all’improvviso accecata.

La Stampa 19.1.14
Berlusconi esulta
“Una legge favorevole o ritorno alle urne”
Il Cavaliere convinto: in ogni caso, sarà un successo
“Renzi ha una marcia in più: ho sempre detto che mi assomiglia
È sveglio, determinato e parla diretto agli italiani e ai suoi interlocutori di Palazzo”
Brunetta: “Il segretario del Pd ha fatto l’opposto di Epifani:
ha rilegittimato Berlusconi e ha fatto rinascere le larghe intese sulle riforme
di Amedeo La Mattina

qui

Corriere 19.1.14
Il democratico ribelle D’Attorre: un successo di Silvio


ROMA — «L’incontro? Berlusconi 2, Renzi zero», dice Alfredo D’Attorre. È il deputato — bersaniano — del Pd che nei giorni scorsi ha chiesto a Matteo Renzi di non ricevere «il pregiudicato Berlusconi» nella sede del partito; e lo ha avvertito, anche, che moltissimi parlamentari non voterebbero un nuovo sistema elettorale con liste bloccate. Ora vede un piccolo spiraglio nell’ipotesi di premio di maggioranza alla coalizione invece che al primo partito: «Ma valuteremo il testo. Renzi ha parlato in politichese. Si può intuire l’abbandono del modello spagnolo in favore di un mini-Porcellum, un Maialinum modificato...e il riconoscimento che non si possono fare le riforme solo con Berlusconi». Passi non sufficienti, per D’Attorre: «Allo stato, Renzi ha abdicato a due punti prima ritenuti fondamentali: doppio turno e restituzione ai cittadini delle preferenze. Inoltre, ha solo resuscitato Silvio Berlusconi. Noi continueremo la nostra battaglia: che non è di minoranza o di corrente, ma della maggior parte dei nostri elettori. Basta guardare i social network e ascoltare le federazioni: la scelta di Renzi non è compresa».
D. Gor.

l’Unità 19.1.14
Renzi: «Con Berlusconi profonda sintonia»
Berlusconi incassa il terzo patto E si vanta: «Sono le mie riforme»
Per l’ex premier è già un successo l’incontro: «Io e Matteo siamo le calamite politiche, gli altri si devono adeguare»
Letta: direzione giusta
Gelo della sinistra Pd: «Non voteremo mai le liste bloccate»
Fassina: «Doveva vedere i capigruppo di Forza Italia, non Berlusconi»


La Stampa 19.1.14
La scelta di Renzi, l'errore del M5S
"Si rianima Berlusconi"? Sarà il tempo a dirlo.
Mentre è possibile ricostruire come si è arrivati allo schema attuale
di Jacopo Iacoboni

qui

il Fatto 19.1.14
Miracolo Renzi: torna B. e fa il padre costituente
di Fabrizio d’Esposito


NELLE DUE ORE DI INCONTRO NELLA SEDE DEMOCRATICA IL LEADER FORZISTA HA RIBADITO D’ESSERE STATO INGANNATO DALLA “PACIFICAZIONE” DEL COLLE

L’Unto Condannato va al Nazareno, laddove in un’altra era geologica, quella bersaniana, si tentò di propiziare con un ballo imprudente, sul terrazzo, lo smacchiamento del Giaguaro. Per lui e per i suoi “è una soddisfazione immensa”. Di più. È la Riabilitazione del Pregiudicato, dopo l’infausto agosto della Cassazione di Esposito. Silvio Berlusconi si è preparato al vertice con “Matteo” sorridendo per tutta la mattinata. Sveglia comoda, poi una lunga riunione con Gianni Letta e Denis Verdini, fino al primissimo pomeriggio. Il volto però era più teso, all’arrivo al Nazareno, alle sedici e qualche minuto. E non solo per le uova lanciate. In ogni gesto, B. ha sentito il peso del suo ritorno, in una posizione centralissima, sulla scena politica. Anche se poi è entrato da una porta laterale. Un passo dietro, l’onnipresente Letta, Zio del Premier, che ufficialmente non ha incarichi né la tessera di partito.
   LUI E LO ZIO SI SONO accomodati proprio sotto la famigerata foto del Che e di Fidel, nella stanza del segretario democratico. I due, “Matteo” e “Silvio”, stando alle fonti dei rispettivi staff, non hanno fatto finta di piacersi. Non hanno fatto finta di trovare un accordo. L’intesa comprende anche la fatidica questione del voto nella prossima primavera, insieme alle Europee. Il ragionamento, da entrambi i fronti, è sottile, carico di sottintesi non esplicitati nel colloquio di ieri. Ed è questo, secondo la sintesi delle due versioni: “Renzi e Berlusconi sanno che dovranno essere gli altri, cioè Letta e Alfano, ma soprattutto Alfano, a far crollare tutto”. Altrimenti avanti fino al 2015, per la gioia di tutti. Significativo, in merito, il brandello di dialogo tra B. e Verdini a Palazzo Grazioli, subito dopo il vertice del Nazareno. Verdini: “Sul voto che cosa ti ha detto?”. Berlusconi: “Ha ribadito che vuole fare le riforme e votare nel 2015”. Verdini: “E tu ci credi sul serio?”. La risposta del Cavaliere è stata un sorriso. L’ennesimo, in una giornata da incorniciare e ricordare dopo la Condanna e la Decadenza. A Berlusconi, Renzi è piaciuto tantissimo ed è convinto che lui e il segretario del Pd d’ora in poi daranno le carte, al posto del governo Letta-Alfano-Napolitano. L’onere della prova, cioè della caduta del governo, tocca agli altri. Semmai va indotto. Il Calvario, per rimanere in tema di Nazareno e Resurrezione, è tutto del premier, degli anti-renziani del Pd e degli alfaniani. Nel loro faccia a faccia Renzi e Berlusconi non sono entrati nel merito tecnico del modello spagnolo da importare in Italia. L’intesa poggia su tre pilastri: la legge elettorale per schiacciare i piccoli e salvare il bipartitismo; la riforma del Titolo V; la fine del bicameralismo perfetto e l’abolizione del Senato.
   IN DUE ORE E MEZZO di confronto, il Condannato non si è dimenticato dei suoi guai giudiziari. Ovviamente. Il tempo di un caffè e Berlusconi è partito a razzo con la sua requisitoria contro le toghe rosse di Magistratura Democratica (“Caro Matteo, con te per la prima volta i comunisti possono diventare socialdemocratici e rispettare l’avversario”). Presente Gianni Letta, B. ha pure rimesso in mezzo la promessa del Quirinale di dargli la grazia motu proprio per la condanna Mediaset. La diffidenza per Napolitano è un altro terreno comune tra lui e Renzi. Al segretario del Pd, il Cavaliere ha detto che si sarebbe aspettato “un concreto gesto di pacificazione”. Quel gesto che alla fine non è arrivato e ha provocato il terremoto delle larghe intese, con la scissione del Nuovo Centrodestra. Il lungo sfogo sulla giustizia ha fatto sballare tutta la scaletta del Condannato. Doveva andare via alle diciotto, per poi ritornare a Palazzo Grazioli e ripartire infine per Arcore, con l’aereo privato da Ciampino.
   Nella nota finale, B. riconosce “il cambiamento di rotta del Pd” e in ogni caso spera nel “voto al più presto possibile”. Ma per celebrare la Riabilitazione non si è risparmiato. Così prima di volare ad Arcore ha registrato il solito videomessaggio. Dopo gli ultimi dedicati ai suoi momenti neri del 2013, stavolta un annuncio più disteso sulla legge elettorale “condivisa”. Più che la sostanza conta però l’immagine. Berlusconi è tornato.

Corriere 19.1.14
Ritorno in scena del Cavaliere
«Anche umanamente il leader pd è persona seria»
«Ora la Terza Repubblica può nascere davvero»
E ai suoi rivela: vorrei tra i nostri Alfio Marchini
di Tommaso Labate


ROMA — «Renzi si è rivelato un interlocutore serio non solo politicamente, ma anche umanamente. La sintonia non è di facciata. E la Terza Repubblica può nascere davvero…». Alle 20,45 di ieri sera, su un’auto blu con i vetri oscurati che fende il traffico della Capitale diretta all’aeroporto di Ciampino, c’è un Silvio Berlusconi che definire «raggiante» è poco. I pochi che riescono a mettersi in contatto con lui, quando dalla fine del faccia a faccia con Matteo Renzi sono trascorse due ore scarse, sentono dall’altra parte del telefono «un uomo rinato». «Quasi come se quel maledetto agosto e la condanna in Cassazione non ci fossero mai stati», azzarda una delle primissime file di Forza Italia dopo avergli parlato. Per quanto i suoi stessi uomini escludano che «il Presidente abbia discusso del suo caso personale nella sede del Pd», e per quanto l’euforia rimanga al di fuori sia dal video registrato a Palazzo Grazioli sia dalla nota ufficiale, è evidente che l’accensione dei motori della «grande riforma» conferisce un’aura di verità alla scommessa che l’ex premier aveva fatto coi suoi in mattinata. «Il tema di oggi non sono Letta o Alfano. Vedrete, oggi sarà il giorno del mio vero ritorno in campo…».
Riavvolgendo il nastro, quando varca la soglia dell’ingresso laterale della sede del Pd Berlusconi non dà neanche peso alla mini-contestazione del Popolo Viola. «L’importante è che non mi facciate sedere sotto la foto di Che Guevara e di Fidel Castro. Lo sapete che io, coi comunisti…», è la battuta con cui la tensione accumulatasi lungo tutto il pre-vertice si scioglie. I padroni di casa ovviamente lo accontentano, infatti il Cavaliere e Gianni Letta prendono posto sul divano in pelle nera sopra il quale campeggia una foto di Bob Kennedy, che la delegazione forzista gradisce senz’altro di più rispetto a quella made in Cuba. La base del dialogo, quella riforma che parte della «rivoluzione del Senato» e che arriva alla fine del bicameralismo perfetto, è già sul tavolo. Era stata, quantomeno nelle linee generali, confezionata dai rispettivi staff (Gianni Letta e Denis Verdini da un lato, Roberto D’Alimonte dall’altro) e approvata da entrambe le parti. È sulla legge elettorale, invece, che l’accordo da «astratto» si fa «concreto». Anche al di là di quella «piena sintonia» di cui il sindaco di Firenze parlerà alle 19, durante la sua conferenza stampa. E persino oltre quell’«accordo per rafforzare i partiti» di cui parlerà l’ex premier nel video registrato a Palazzo Grazioli.
La formula magica c’è. E viene pronunciata più volte, durante il summit. «Spagnolo corretto». Sì,«sul modello spagnolo noi ci stiamo», è il modo in cui lo chiama Berlusconi, anche di ispanico il modello ha soltanto qualcosa. «Sono pronto a garantire sul sostegno pieno dei miei deputati», è la garanzia di cui il Cavaliere si fa carico per dare un’ulteriore assicurazione al Pd. Piuttosto, è l’interrogativo che viene girato ai Democratici, «siete sicuri che i vostri lo voteranno anche nel segreto dell’urna?».
Alla «svolta» vera, almeno sulla carta, manca solo un dettaglio. Lo stesso che Berlusconi confesserà a chi lo aspetta a casa, a Palazzo Grazioli, a incontro finito. «Io e Renzi siamo d’accordo su un modello che cancelli il potere di ricatto dei piccoli partiti. L’unica cosa su cui ancora non ci stiamo è la definizione del premio di maggioranza…». Ed è un dettaglio su cui gli sherpa di Pd e Forza Italia discuteranno da stamattina alle 16 di domani, termine che Renzi ha fissato come «dead line» per la stesura della proposta.
Ma per capire quello che Berlusconi ha in mente bisogna fare, rispetto al vertice del Nazareno, un salto indietro di quarantott’ore. «Quel Renzi ha coraggio da vendere. Tanto che secondo me», aveva confidato durante una cena, «alla fine la scissione dentro il Pd ci sarà». Al contrario, era stata la subordinata, «noi non rischiamo nulla. Alfano sarà alleato con noi e, alle brutte, si voterà col proporzionale puro». Già, ma quando? Nonostante ripeta — come ha fatto anche al Nazareno – che «noi vogliamo le elezioni anticipate», il Cavaliere non ha alcuna fretta di andare alle urne. E questa dichiarazione d’intenti starebbe anche in un messaggio informale che da Arcore avrebbe già raggiunto il Quirinale. «Ho bisogno di tempo per ringiovanire Forza Italia», era stato il pensiero messo a verbale prima di sorprendere i commensali con un colpo da teatro. «Ho saputo che Alfio Marchini farà una lista per candidarsi a premier», ha scandito. «È un personaggio che mi piace. E che vorrei portare tra i nostri…».

Repubblica 19.1.14
E al Nazareno Silvio resuscita
La rinascita del Cavaliere torna al centro del dibattito e ricompatta Forza Italia
Solo quaranta giorni fa la decadenza da senatore
di Curzio Maltese


LA POLITICA spettacolo non è sempre bella e stavolta il pubblico non gradisce lo show, fischia, urla e lancia uova contro l’auto di Berlusconi in visita alla sede del Pd.
UN ESERCITO di carabinieri è schierato a proteggere un pregiudicato da cittadini incensurati, invece del contrario. Nella folla spicca l’indomito Gianfranco Mascia e piccoli pezzi del fu popolo viola, insieme a elettori di Renzi delusi.
L’hanno votato l’8 dicembre in massa per farla finita con vent’anni di inciuci e soltanto quaranta giorni dopo ecco qui l’uomo nuovo già in trattative col vecchio diavolo. Ma a parte la forma, di cui si è discusso fin troppo, conta alla fine la sostanza. In questo caso, piuttosto inquietante. L’accordo raggiunto riguarda il «modello spagnolo», anche se nessuno dei due leader ha il coraggio di dirlo a chiare lettere. Con il suo fiuto infallibile per l’illegalità, Berlusconi ha scelto fra le proposte di Renzi non solo la peggiore, ma anche l’unica potenzialmente più incostituzionale del porcellum. La Costituzione, del resto, non gli è mai piaciuta. Il nuovo sistema prevede sempre liste bloccate e un premio di maggioranza. In pratica, per effetto del combinato disposto fra le due soglie di sbarramento e il premio di maggioranza del 15 o 20 per cento, un partito anche se resta lontano dal 50 per cento dei voti potrebbe ottenere una maggioranza assoluta in Parlamento. La bocciatura della Corte Costituzionale è possibile se non verrà introdotta una soglia di accesso al premio. Il cosiddetto modello spagnolo, per inciso, sarebbe forse incostituzionale anche in Spagna, dove infatti il premio di maggioranza non esiste.
Lo stesso Matteo Renzi, uomo non facile all’imbarazzo, in conferenza stampa non cita mai l’oggetto principale dell’accordo. La prende alla larga, parla della riforma del titolo V della Costituzione e di abolire il bicameralismo, tutte cose che richiedono molto tempo, e rimanda a domani i dettagli sulla legge elettorale.Poi chiude in fretta perché non vuole perdere l’ultimo treno, che suona bene come metafora.
Al segretario del Pd bisogna riconoscere di essere un leader coraggioso. Fa una certa impressione vederlo camminare su un filo sospeso nel vuoto. Il suo è un azzardo notevole. Non ha alcuna garanzia che Berlusconi rispetterà gli accordi presi, nessuno l’ha mai avuta. Il patto col diavolo era necessario in ogni caso per smuovere un quadro politico abbarbicato allo status quo e sempre più affezionato all’idea di trascinare l’emergenza delle larghe intese all’infinito, magari con l’aiuto di Grillo.
L’unico modo che ha per cambiare le cose è dettare l’agenda politica ogni giorno, come, in effetti, sta facendo dall’8 dicembre e nessun leader del centrosinistra aveva mai fatto negli ultimi vent’anni. Al primo passo falso, però, è morto. Nella migliore delle ipotesi la mossa dell’accordo con Berlusconi servirà per avviare le riforme che il governo promette e rinvia da nove mesi. Nella peggiore, non se ne farà comunque nulla e lui si sarà messo nelle mani del più inaffidabile socio mai visto all’opera nella storia della politica italiana.
Silvio Berlusconi, al contrario, non ha nulla da perdere. La mossa di ieri è stata la migliore trovata propagandistica da quando ha accettato l’invito di Santoro a Servizio Pubblico. Le visite nella tana del nemico, dai tempi della Bicamerale con D’Alema, sono la migliore delle vie d’uscita in tempi di crisi. Con il patto di Largo del Nazareno, Berlusconi si rilancia come leader riformatore e modernizzatore agli occhi dei propri elettori, ricompatta il partito e divide l’avversario. Dopo mesi di prime pagine su condanne, olgettine e cane Dudù, è un bel risultato.
La giornata dell’incontro fra Renzi e Berlusconi segna in ogni caso uno spartiacque. Da ieri la seconda repubblica è finita. Si può soltanto entrare nella terza o ritornare alla prima.

Repubblica 19.1.14
In rete va in scena il vertice di Renzusconi
Sul vertice blindato le ironie del web “Perquisite Silvio. E Apicella non c’è?”
Tra i tweet Pieraccioni: il Cavaliere è lì per i lavori socialmente utili
di Filippo Ceccarelli


“E APICELLA non c’è?” chiede uno fra i mille di Twitter. E mille ancora, magari, perché il flusso, o forse è uno scarico di acque sporche, o uno sciame di api industriose.
O UN’EVAPORAZIONE di concetti contorti, o un addensarsi di immagini che parlano da sé, insomma, questo getto, questo scolo, questa disseminazione di parole non finisce affatto, è iniziata prima ancora che i due leader si vedessero e ora che l’incontro è finito prosegue sotto la specie #renziberlusconi e anche sotto quella, invero già meno asettica e più iniziatica, comunque battezzata #enricostaisereno.
Là dove Enrico sarebbe Letta, come lo chiama Renzi per rassicurarlo, non dovrebbe stare per niente sereno perché è chiaro che Matteo, insieme al Cavaliere, lovuole far fuori.
E dunque: “Apicella non c’è?”. Ma gli eventi che si consumano ieri al Nazareno sono “le merende eleganti”. Scrive uno: “Silvio porta le amiche”. Commenta un’altra: “Già lo vedo che dà consigli sull’arredamento”. Intima un altro ancora: “Perquisitelo prima che entri”. Tutto al di là non si dice qui della politica, ma del tempo, dello spazio, delle relazioni e dell’immaginazione. Non era mai accaduto, a memoria di osservatore, che un passaggio di questa portata simbolica — e solo tra un po’ si potranno poi discuterne gli effetti concreti — sia andato in scena con un così massiccio contrappunto di... ecco, qui è difficile definire cosa sono i tweet.
Interazioni? Vibrazioni? Sberleffi? Fiotti emozionali? Rivolgimenti onirici? Forse è ancora troppo presto per i sociologi. I giornalisti politici, d’altra parte, stanno cominciando a farci il callo. Dice Renzi, al quanto immusonito, “Profonda sintonia”. E subito una gli fa l’eco musicale: “Sintonia, sintonia canaglia”. E come in un inseguimento senza respiro un altro immediatamente propone, sempre su questa benedetta profonda sintonia: “Ok, sprofondiamoli sintonizzati”.
E per favore, non la si chiami, pigramente, ironia. Non si scomodi l’antica “eironeia”socratica. Questa si twitter è molto di più, è molto di peggio, o di meglio, dipende, “oh yeah”. E’ diabolica elusione, sconsolata diserzione, efficacissima ricreazione, nel duplice senso di divertimento, ma anche di ricreare, ossia acchiappare un dato della realtà, un evento, una parola, una immagine, e ricostruirle da capo, però piegandole ai propri fini, anzi storcendole in una direzione irreale, ma con l’aria che tira mica tanto.
Per esempio: “Il Pd ha finalmente superato l’ossessione dell’antiberlusconismo ed è passato direttamente al berlusconismo”. Sembra di rivivere certi spunti degli Indiani metropolitani (“Do you remember? Oh, yeah”) nel Movimento del Settantasette: “Il CC del Pci ha deciso di votare Dc”. Come pure sembra di cogliere una certa sottigliezza storica nella seguente e sintetica considerazione dispensata al termine del colloquio segreto tra Renzi e Berlusconi: “Una grande alleanza di governo. Una grande alleanza di opposizione. Modello italiano, inimitabile”.
Perché davvero l’ironia non basta a spiegare, né la sociologia, né il giornalismo, e soprattutto è ancora troppo presto anche solo per immaginare cosa porterà, anzi a cosa porterà questo bricolage che incendia la rete, questo tripudioludico che ingolfa lo scenario della cosa pubblica di euforie, eccitazioni, effervescenze, vibrazioni; e poi anche di connessioni, contagi, piaceri, incantesimi e zampillanti mitologie da prendersi con le pinze. Lungi dall’elaborare prospettive programmatiche che superino la durata di una settima, ci si limita a riconoscersi in questo o quel tweet: “A marzo partiranno i lavori per la nascita di Firenze2”. Come pure, sui piccoli incidenti che hanno anticipato l’arrivo dell’auto di Berlusconi con la scorta che procedeva a Bagdad: “Tirato l’uovo, ma la frittata è fatta”.
Come se la parte in ombra della società, la pancia maledetta e decisiva, avesse trovato di colpo un modo di “presentarsi” ormai al di là di qualsiasi rappresentanza e rappresentazione — sia quella politica tradizionale, dunque, sia quella degli spettacoli politici di cui proprio Berlusconi e Renzi, le più intense e aggiornate maschere del potere a disposizione, rappresentano l’alfa e l’omega.
E addio, francamente, a qualsiasi spiegazione che tiri in ballo, dinanzi a questo profluvio di performance comunicative, pratiche reticolari, nebulose affettive, gioie tragiche e invocati malanni perfino corporali (“voltastomaco”, “coliche”, “sbocchi di fiele”), insomma, si tolga di mezzo il concetto così novecentesco di partecipazione. Perché questa che ti arriva addosso è anch’essa molto di meno e molto di più, della vecchia e cara partecipazione, è peggio o meglio, dipende. Ma intanto il palcoscenico — altro che le nuvolette del Cavaliere e gli attrezzi vintage di Renzi — si fa notare per il cumulo di rovine. Non è questa la prosecuzione della vecchia politica con altri mezzi tecnologici, è uno strappo, è una consumazione, è un carnevale un po’ cannibale e un po’ creativo.
Troppo difficile, in ogni caso,capire cosa abbia mosso questo tweet ai limiti della blasfemia: “Renzi da Nazareth a tavola con pubblicani e prostitute. Vediamo se a Pasqua la base lo crocifiggerà”.
Sembra, se proprio occorre trovare qualche riferimento, la vendetta delle avanguardie del secolo scorso che si sono fatte cultura, ma anche con qualche ricaduta nella porno-cultura con legittimazione anonima o mascherata. Colpiscono le foto dietro cui si raffigurano gli utenti: Salvator D’Alì, Calvino, un certo Renzo Mattei, un finto Kuperlo, perfino un redivivo Cossiga che si firma Franc’Esco.
Nel merito, a voler classificare l’incandescente materiale si capisce che un terzo, grosso modo, invoca lo scandalo di un incontro che non ci sarebbe dovuto essere.Un altro terzo — ma la suddivisione è affrettata — cerca di mettere in luce l’incoerenza di Renzi che aveva detto le peggio cose di Berlusconi. Infine un terzo che gioca e si gioca con disperata euforia il tema del connubio, del matrimonio, della fusione, dell’ibridazione. In questo senso le immagini annichiliscono senz’altro le parole. Il “Renzusconi”, mostruosa creatura rubizza, non ne ha proprio bisogno. E preziose elaborazioni grafiche del simbolo del Pd con dentro il Biscione ammettono che il marketing può mangiare se stesso, e forse è fatale che chi scommette sullo spettacolo dei consumi è da questo che deve guardarsi le spalle, e arrivederci al prossimo tweet.

Repubblica 19.1.14
Il presidente della Repubblica segue con attenzione il dibattito
Contatti diretti con il leader democratico
La soddisfazione del Quirinale le riforme si possono fare davvero
di Umberto Rosso


ROMA — Sul Colle, la telefonata è arrivata quando il faccia a faccia si è appena concluso. Nei minuti prima della conferenza stampa, mentre Berlusconi sta ancora lasciando largo del Nazareno, la prima chiamata di Matteo Renzi è per Giorgio Napolitano. «Presidente, è andata bene». La buona notizia che il capo dello Stato aspettava, nel suo appartamento al Quirinale dove per tutto il giorno ha seguito l’altalena della trattativa con Silvio Berlusconi. Un’informativa veloce del segretario, con i giornalisti già alla porta, in attesa di un resoconto più dettagliato da presentare nelle prossime ore, quando l’accordo sulla legge elettorale sarà nero su bianco. Fino a lunedì perciò, cioè al fatidico momento in cui tutto il Pd (riassorbita la fronda bersaniana) e Alfano (sciolto il nodo della soglia di sbarramento) diranno di sì all’intesa, al Quirinale la linea ufficiale resta quella della prudenza e del riserbo. Ma le premesse ci sono, e tira aria di soddisfazione al Colle dopo l’esito dell’incontro fra il leader dem e il Cavaliere.
Da Palazzo Chigi soffia subito una dichiarata ventata di ottismismo, il presidente Letta e il ministro Franceschini salutano il grande passo in avanti. Per il Quirinale (anche per il ruolo diverso nella partita) non è ancora arrivato il momento dei commenti e delle valutazioni, almeno finchè l’accordo non sarà chiuso. L’obiettivo numero uno indicato dal Colle, «tenere insieme la continuità del governo e l’approvazione delle riforme» si direbbe però a portata di mano, così Renzi ha assicurato nel rapido colloquio di ieri al presidente. E’ quella la preoccupazione principale del capo dello Stato,la condizione posta al segretario per il lasciapassare, «non perderti per strada pezzi della maggioranza di governo mentre intavoli il confronto con Forza Italia». E così mentre il segretario si incaricava di tessere la tela col Cavaliere, su un altro fronte si è lavorato sodo nelle ultime ore per quadrare il cerchio con il Nuovo centrodestra, trovare la soluzione tecnica nella nuova legge elettorale per tenere dentro Alfano. Il punto di caduta politico dell’accordo. Insieme alla rinuncia di Berlusconi a spingere per il voto anticipato.
Sul piano dei principi, l’archittettura disegnata da Renzi e sottoscritta dal capo di Forza Italia raccoglie in pieno la svolta che Napolitano auspica da tempo. E’ un pacchetto complessivo di riforme, come appunto il capo dello Stato chiede. C’è l’intesa per mettere mano al Titolo V della Costituzione e abolire il Senato attuale, come ha sollecitato con forza anche di recente, incontrando le alte cariche dello Stato. Con la fine di quel «bicameralismo paritario» che il presidente della Repubblica ha sempre indicato come una strozzatura e un difetto del nostro sistema, senza pari in nessun altra democrazia parlamentare, da superare presto. E i cardini della nuova legge elettorale emersi dall’incontro Renzi-Berlusconi basati su «bipolarismo e governabilità», per collocare il nostro paese nel maggioritario, risultano in perfetta sintonia con le aspettative di Napolitano. Resta quel «tagliare il potere di veto» ai partitini che Renzi ha platealmente sbattuto in faccia ad Alfano e soci, magari non raccogliendo le “alte” raccomandazioni a tenere a freno la lingua. Al Colle, sperano che resti davvero solo un problema di forma.

Repubblica 19.1.14
I Campi Elisi di Silvio l’ispanico
di Eugenio Scalfari


IERI si è combattuto il giorno intero sulla legge elettorale, anche il giorno prima si era combattuto e anche oggi e domani si continuerà perché lo scontro avverrà su un compromesso ed anche i compromessi contemplano molte varianti.
Per abbreviare il linguaggio politico e mediatico il confronto avviene attorno al modello della legge elettorale spagnola definita Ispanico, scritto con la maiuscola. Mi viene in mente un celebre film il cui protagonista era l’attore Crowe, generale delle legioni e supposto successore di Marc’Aurelio il quale però venne ucciso dal figlio Commodo che diventò imperatore. L’ex generale fu ridotto in schiavitù e chiamato Ispanico; dopo varie vicende affrontò lo stesso Commodo nell’arena del Colosseo. Si uccisero reciprocamente e il film si chiude con l’arrivo di Ispanico nei Campi Elisi dove ritrova sua moglie e i suoi figli.
Resta ora da capire per noi che viviamo duemila anni dopo questa romanzesca vicenda, chi sia l’Ispanico di oggi: se Berlusconi o Renzi o Letta.
Personalmente propendo per Berlusconi, somiglia all’Ispanico del film sia come capo di legioni sia nella fase della schiavitù (condannato dalla Cassazione e deposto dal Senato) sia nel ritorno ai Campi Elisi. C’è tornato infatti ieri sera nell’incontro con Renzi nell’ufficio che era stato di Bersani, e ci resterà ormai per sempre, quali che siano i risultati dell’incontro.
Berlusconi l’Ispanico. Renzi l’ha riportato al centro della politica italiana.
Compiendo quell’atto di clemenza che il Cavaliere aveva invano atteso da un «motu proprio» di Napolitano e che il Presidente si è sempre rifiutato di concedere per la semplice ragione che non può ignorare le sentenze definitive della magistratura, rafforzate dalle decisioni altrettanto definitive del Senato della Repubblica.
La clemenza «motu proprio» gliel’ha accordataMatteo Renzi.
Nessuno lo obbligava, la legge elettorale ha carattere ordinario, non costituzionale, anche se è direttamente legata alla trasformazione del Senato in Camera delle regioni, senza di che resterebbe in piedi la trappola del bicameralismo perfetto che non esiste in nessuna democrazia occidentale, neppure in quella presidenzialistica americana.
Allora perché il sindaco di Firenze ha deciso di riportare nei Campi Elisi l’Ispanico Berlusconi, con la sua fidanzata Francesca Pascale e il cagnolino Dudù?
***
Ho letto con molto interesse qualche giorno fa un articolo di Asor Rosa sul “Manifesto”: un articolo decisamente anti-renziano e altrettanto decisamente filo-lettiano pur essendo Asor Rosa un intellettuale che vagheggia una nuova sinistra- sinistra. Non è paradossale che una personalità come Asor Rosa arrivi ad una conclusione così contraddittoria? Seguendo quale logica? Rosa lo dice: il Pd non c’è più, è un partito lacerato da correnti, correntine e spifferi di corrente, che si è consegnato di fatto a Matteo Renzi, sia in quelli che lo appoggiano sia in quelli che lo contrastano. In entrambi i casi le varie fazioni agiscono alla cieca o per interessi propri. I più contrari a Renzi, come Fassina o Civati, auspicano elezioni immediate e coincidono in questo punto di fondo con il sindaco di Firenze.
Il partito non c’è più, c’è Renzi, il quale deve portare a casa riforme che facciano colpo sull’immaginario degli elettori. La legge elettorale interessa assai poco la gente, i lavoratori, le famiglie che non arrivano alla fine del mese, i poveri e i poverissimi ma anche gli agiati che vivono con l’incubo di precipitare in basso.
Questa gente non ha alcuna stima della politica ma resterebbe colpita dal fatto che un politico di nuovo conio porta a casa un risultato concreto. Quale che sia, interessi o meno la gente, è pur sempre un risultato, ottenuto in pochi giorni. La gente ne sarebbe stupefatta se questo avvenisse. Il renzismo guadagnerebbe fiducia tanto più che il nuovo leader promette anche obiettivi economici «a portata di mano».
Chi ha esaminato a mente fredda quelle promesse ha capito che non sono affatto a portata di mano, ma una buona parte degli italiani ha sempre creduto che i miracoli si fanno, la bacchetta magica esiste e anche l’asino che vola c’è da qualche parte. Se così non fosse, non ci sarebbe un venti per cento di elettori che vota ancora per Silvio. Silvio c’è e se non ha fatto miracoli è perché finora gliel’hanno impedito i suoi nemici toghe rosse e comunisti.
Meno male che Silvio c’è e dunque anche meno male che c’è Renzi. Si somigliano? Sì, si somigliano e anche molto.
***
La vera — e formidabile — bravura di Silvio è sempre stata quella d’incantare la gente, ma è la stessa bravura di Matteo che sa incantare la gente come Silvio e anche di più ora che Silvio è vecchio e fisicamente un po’ provato.
Matteo è un Silvio giovane dal punto di vista dell’incantamento e quindi più efficace.
Adesso il suo problema sarà quello di convincere Alfano a contentarsi. Gli ha offerto uno stock di seggi basati sul proporzionale ma corretti da un maggioritario assicurato dal premio di maggioranza che le liste dei partiti maggiori otterranno. Alfano avrà meno di quanto sperasse col doppio turno continuando tuttavia ad esistere, ma con Silvio l’Ispanico restituito al suo ruolo di salvatore della Patria. È terribilmente scomoda per Alfano una convivenza di questo genere. O si oppone al compromesso che gli viene proposto o il suo movimento finirà di nuovo nelle braccia di Berlusconi. Questo è il dilemma che dovrà sciogliere nelle prossime quarantott’ore.
C’è tuttavia un aspetto di questa situazione politica: è interesse della democrazia italiana l’esistenza d’una destra moderata, repubblicana ed europeista, che restauri l’alternanza tra le due ali dello schieramento nell’ambito di quei principi sui quali è nata la democrazia europea simboleggiata dalla bandiera tricolore: libertà, giustizia, fraternità.
In Italia ci fu la destra storica dopo la quale cominciò il gioco malandrino del trasformismo con interruzioni di governi autoritari comunque mascherati.
Alfano può non piacere, non è certo un personaggio attraente, carisma zero, intelligenza politica dubitabile, ma non c’è solo lui in questa prima esperienza di destra moderata, ci sono Lupi, Cicchitto, Quagliariello. Siamo comunque ad un primo esperimento, ma merita di non essere schiacciato e ributtato indietro. È una mossa intelligente quella di Renzi di avergli offerto una ciambella di salvataggio, ma la ciambella funziona se il mare è calmo e la costa è vicina. Con Berlusconi risuscitato la costa è assai lontana e il mare in tempesta. Questo è il punto che Alfano e i suoi dovranno valutare con la massima attenzione.
***
Nel frattempo la recessione economica sembra aver toccato il fondo cominciando a risalire. I dati per la prima volta registrano un aumento dei fatturati; la speranza è che i consumi riprendano e il «credit crunch» delle banche abbia finalmente una fine. La Commissione della Ue, si spera ed è probabile, darà un giudizio favorevole sulla politica economica italiana, specialmente per quanto riguarda le privatizzazioni e la revisione delle spese superflue. Le privatizzazioni consentiranno una diminuzione consistente del debito pubblico, la riduzione della spesa e l’appoggio dell’Europa potrebbero liberare risorse per incentivare la domanda interna ed anche quella estera. Il trattato con la Svizzera sui capitali italiani depositati nelle banche di quel Paese è vicino alla sua conclusione e ci darà una congrua disponibilità di nuove risorse.
Insomma tra un anno il rilancio dello sviluppo potrebbe essere consolidato e i riflessi su investimenti e occupazione potrebbero essere consistenti.
Non siamo certo in grado di giudicare se Renzi sarà lieto di questo risultato, ma tutti gli italiani ne saranno confortati e la rabbia sociale sarà confinata in piccole minoranze.
Il Silvio Ispanico si attribuirà tutti i meriti. È sempre avvenuto e sarà ancora una volta così. Speriamo soltanto che gli italiani che credono nelle favole siano meno numerosi di oggi e i partiti più idonei a capire le differenze tra cultura politica e improvvisazione. Ci vogliono tutte e due queste capacità, una sola è una sciagura.

Corriere 19.1.14
Il rebus dei numeri in Senato e l’urgenza di allargare l’intesa
Tra i 108 senatori pd quelli renziani sono non più di 25
di Lorenzo Fuccaro


ROMA — Matteo Renzi parla di «grande sintonia» sulla legge elettorale e Silvio Berlusconi rivela che esiste un «accordo tra Pd e Forza Italia per rafforzare i grandi partiti». Ufficialmente non si conosce il testo dell’intesa, ma potrebbe essere ampia e coinvolgere anche le altre forze politiche. Tuttavia se, per una qualche ragione, saltasse tutto e il nuovo sistema di voto fosse frutto di un patto a due, se cioè non lasciasse alle piccole forze politiche altra possibilità che accettare o restare tagliate fuori, sorgerebbero dei seri problemi, soprattutto al Senato perché alla Camera i numeri sono tali da non costituire un assillo. A Montecitorio Forza Italia e Pd godono di una maggioranza che sulla carta — nonostante lo scrutinio segreto con il quale si approverà il testo — li mette al riparo da rischi. Al contrario di ciò che potrebbe avvenire nell’altro ramo del Parlamento. Parlando con chi a Palazzo Madama ci sta da tempo ed è un osservatore attento delle sue vicente interne, si scopre che i senatori del Pd di strettissima osservanza renziana, sarebbero non più di 25 su un totale di 108. Se si sommano ai 60 berlusconiani si arriva a 85. Siamo pertanto ben lontani dal quorum necessario per fare passare un testo, benché a costoro si possano associare alcuni dei sei senatori a vita (Mario Monti, Carlo Azeglio Ciampi, Claudio Abbado, Renzo Piano, Carlo Rubbia ed Elena Cattaneo). Con loro il totale è al massimo 91. Sono insufficienti perché ne servono almeno 161, tenuto conto che l’assemblea è composta da 321 senatori e che il presidente del Senato, per prassi, non partecipa alle votazioni. In dettaglio, senza Pd e FI, la somma degli altri gruppi — che non sono tutti alleati fra loro — dà come risultato 153: M5S 50, Ncd 31, Lega Nord 15, Misto (Sel e altri) 14, Per l’Italia 12, Per le autonomie 12, Gal 11, Scelta civica 8.
Stando così le cose, nel caso di un patto a due tra Renzi e Berlusconi, sarebbero quindi soltanto 85 i senatori sui quali si fonderebbe una maggioranza parlamentare che non tenesse conto del consenso delle altre formazioni. Il punto politico è che il gruppo dei senatori del Pd è espressione della passata segreteria. Sono, cioè, in massima parte bersaniani, appartengono insomma all’attuale minoranza del partito fatta appunto di bersanian-cuperliani e civatiani perché le liste per le politiche del febbraio 2013 furono fatte inserendo pochi esponenti vicino a Renzi, battuto da Bersani alle primarie del 2012. Ora, però, il partito è guidato dal sindaco di Firenze che si è mosso subito dicendo che avrebbe cercato un’intesa sulla legge elettorale con chi ci stava, e non partendo dal recinto della maggioranza delle «intese ristrette» che sostiene il governo Letta.
Fatti gli incontri e arrivati alla stretta finale, alla vigilia del faccia a faccia con Berlusconi, la minoranza del Pd ha minacciato di fare cadere il governo se l’accordo non avesse compreso anche gli altri partiti della coalizione. Ufficialmente se si interpellano gli esponenti delle varie componenti nessuno è disposto ad ammettere che le forze in campo sono queste. Tutti si trincerano dietro frasi del tipo: «Quando la Direzione del partito, dopo avere valutato il modello elettorale, prenderà la decisione tutti noi saremo tenuti» a rispettarla e a comportarci conseguentemente, «saremo» disciplinati ed è quindi «da escludere» una spaccatura e «non è neppure all’orizzonte» una scissione. Comunque altri, sempre con la garanzia dell’anonimato, fanno notare che il fatto che il segretario non abbia reso noto il modello sul quale si è registrata la convergenza con Berlusconi dipende proprio dalla consapevolezza che senza il consenso dei «piccoli» la legge elettorale è destinata a non passare.

Corriere 19.1.14
Sbarramento, premio e proporzionale: così la nuova formula
di M.Antonietta Calabrò


La soglia è al 5% per le forze in coalizione e all’8% per chi decide di correre da solo
ROMA — E alla fine fu l’Italicum. L’accordo tra Berlusconi e Renzi è stato raggiunto su quello che si può definire un «quarto modello» rispetto ai tre proposti dal leader del Pd, frutto del lavoro preparatorio intercorso nei giorni scorsi tra il professor Roberto D’Alimonte, esperto di sistemi elettorali vicino a Renzi, e Denis Verdini, coordinatore di Forza Italia. Naturalmente, nei prossimi giorni, gli esponenti dei due partiti maggiori continueranno a lavorarci con l’eventuale contributo degli alfaniani e dei centristi — se la trattativa andrà in porto —, ma la sostanza non dovrebbe cambiare. Ecco di che cosa si tratta.
Proporzionale con sbarramento
Per la Camera dei deputati (che sarà l’unica Camera elettiva e quella che darà la fiducia al governo) la distribuzione dei seggi avverrà a livello nazionale, in base ad un sistema proporzionale. Quindi, la ripartizione dei voti tra i vari partiti sarà attribuito in un collegio unico nazionale. Questo sistema servirà a garantire anche le formazioni più piccole. Ma per evitare che il risultato elettorale sia in balia delle formazioni poco rappresentative, è stato pensato uno sbarramento del 5 per cento (o del 4) per i partiti che facciano parte di una coalizione e uno più alto, dell’8 per cento, per i partiti non coalizzati.
Il premio di maggioranza
La governabilità e la stabilità sono assicurate da un premio di maggioranza per la coalizione che raggiunga almeno il 35 per cento dei voti su base nazionale. Il premio ipotizzato consisterebbe in un 20% di seggi in più, che permetterebbe di raggiungere complessivamente il 55 per cento dei seggi, alla coalizione vincente.
La proporzione tra questi due numeri — coalizione al 35 per cento e un premio del 20% dei seggi — è uno dei punti più delicati dell’intero accordo. Ci sono dei dubbi al riguardo: se cioè non sia troppo alto il premio previsto o troppo bassa la percentuale richiesta per ottenerlo.
Se nessuna coalizione dovesse raggiungere il 35 per cento dei consensi a livello nazionale, i voti invece verrebbero ripartiti proporzionalmente in base ai risultati raggiunti da ciascun partito e da ciascuna coalizione (fatti salvi i due diversi livelli di sbarramento di cui si è detto).
Le liste bloccate «corte»
Come verranno scelti i candidati? Questo è stato uno dei talloni d’Achille del Porcellum e uno dei motivi principali della sua recente bocciatura da parte della Corte costituzionale. Ebbene la Corte ha stabilito il principio che i candidati devono essere facilmente individuati dagli elettori, che i cittadini devono sapere per chi votano. Non ha però censurato il sistema delle liste bloccate in sé: ha solo evidenziato il problema costituito da liste troppo lunghe (con troppi nomi) che impediscono all’elettore di sapere chi alla fine verrà eletto e riducendo, di fatto, al minimo il suo potere decisionale. Ebbene, nell’Italicum, il numero dei seggi, pur attribuito su scala nazionale, consentirà di eleggere i candidati presentati dai vari partiti in circoscrizioni su base provinciale ( o nel caso delle province più grandi e più densamente popolate) su base subprovinciale. E su liste «corte» e «bloccate». Non ci saranno quindi preferenze da esprimere, ma il rapporto con l’elettore verrà assicurato dai pochi nomi per partito che appariranno sulla scheda.
La base provinciale segna una differenza sostanziale rispetto al modello spagnolo originariamente proposto, dove le circoscrizioni elettorali sarebbero state molto più piccole e senza la distribuzione dei voti a livello nazionale. La base «provinciale» o «subprovinciale» avrà anche un’altra conseguenza. Non ci sarà infatti la necessità di riscrivere completamente le circoscrizioni elettorali, compito che da solo avrebbe richiesto moltissimo tempo, prima di poter andare nuovamente a votare.
Titolo V e abolizione del Senato
Oltre che sulla legge elettorale l’accordo tra il segretario del Pd e il leader di Forza Italia è stato raggiunto su due riforme costituzionali: la riforma del Titolo V della Costituzione e la fine del cosiddetto bicameralismo perfetto. Il Senato non sarà più elettivo, ma composto da sindaci, presidenti di Regione, comunque da persone già elette come rappresentanti delle autonomie locali. Il titolo V riguarda il funzionamento di Comuni, Città metropolitane, Province e Regioni, cioè gli enti territoriali che compongono la Repubblica italiana. Con queste riforme si vuole ottenere un taglio sostanziale dei costi della politica con l’abbattimento delle indennità.

Repubblica 19.1.14
Il presidente del partito: giusto discutere con Forza Italia, il prezzo non può essere risuscitare chi abbiamo combattuto
Ma Cuperlo critica “la profonda sintonia” “Metodo sbagliato rilegittimare Berlusconi”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA — «Da quanto tempo Berlusconi non dominava le prime pagine per il suo ruolo politico? Bene, tra ieri e oggi è tornato a farlo». Gianni Cuperlo, il presidente del Pd e leader della minoranza, lancia l’offensiva contro Renzi, facendo prevedere una rottura nella direzione del partito di domani.
Cuperlo, tra Renzi e Berlusconi c’è stata «profonda sintonia», la sorprende?
«Sì, quella formula mi ha sorpreso e voglio capire cosa significa. Quelle riforme — fine del bicameralismo, Titolo V, legge elettorale — le vogliamo tutti, ma conta cosa ci scrivi. Sul merito è difficile giudicare, il segretario ha detto solo che serve govenabilità e togliere ai piccoli partiti un diritto di veto. Vedremo la traduzione. Sul metodo, ritengo sia sbagliato».
Lei giudica ancora inopportuno l’incontro con Berlusconi?
«Lo giudico sbagliato, come ho già detto nella direzione democratica di venerdì. Una cosa è discutere le riforme anche con Forza Italia, altra è allargare la «profonda sintonia» con Berlusconi agli altri. È un metodo sbagliato che punisce le forze impegnate nel governo con noi e che il capo della destra lo avevano messo all’angolo solo tre mesi fa.Colpisce che anche il Pd domani in direzione verrà messo davanti al fatto compiuto».
Però in cambio si riforma la Costituzione e si fa finalmente la riforma elettorale.
«Che le riforme si facciano me lo auguro con tutto il cuore. Ma, dio non voglia, che il prezzo da pagare sia resuscitare sul piano politico chi abbiamo combattuto negli ultimi 20 anni. Che lo si sia fatto bene o male, è un altro discorso, Ma anche i sentimenti della tua gente contano. Il timido Letta aveva accompagnato il capo della destra sotto il cartello “Exit”; il vulcanico Renzi l’ha accolto sul tappetino “Welcome”. Spero sia la mossa del cavallo, e non il passo del gambero».
La «profonda sintonia» tra il Pd e il Cavaliere manda in tilt il governo Letta?
«Così non ha senso proseguire per il bene del paese. Il punto è se il primo partito della maggioranza vive il governo come il suo governo, lo critica quando serve, ma non lo azzoppa ogni giorno. Meglio prendere atto che una fase si è chiusa e pensare a una ripartenza, dove il programma per il 2014, che per me vuol dire una totale discontinuità nella redistribuzione delle risorse a favore di chi sta peggio, coincida in parte con nuovi volti e con un recupero di autorevolezza e prestigio».
Quindi un Letta-bis?
«Sì, l’ho proposto, ovviamente nel rispetto delle prerogative del capo dello Stato. Continuare a dire il governo faccia, se no vada a casa, è poco più di una formula di rito».
Nel merito. Cosa non va del modello elettorale spagnolo?
«Vedremo i testi. Io resto convinto della scelta del doppio turno. Quanto al modello spagnolo senza correttivi pesanti, quella soluzione punisce la rappresentanza e non garantisce la governabilità. Se si aggiunge il premio di maggioranza e si evitano le preferenze, temo un iper maggioritario con i vertici dei partiti che ancora una volta decidono chi entra alla Camera. Si rischia un Porcellum corretto dove una volta di più ai cittadini verrebbe sottratto il diritto a scegliere il loro rappresentante».
Comunque se ci fosse un’intesa su quel modello, cosa fa? Non lo vota?
«Voglio discuterne nella direzione del mio partito. È bene accelerare la pratica, ma dire che serve una nuova legge non significa che qualunque legge vada bene. Perché se alla fine ci ritrovassimo con una soluzione simile o peggiore del passato, non avremmo compiuto un miracolo ma un delitto. Qui non si gioca più con i tweet e l’hashtag, ma si ragiona del destino della Repubblica parlamentare. C’è differenza».
Renzi però ha molto consenso. C’è la possibilità di una scissione della sinistra del Pd?
«Non c’è nessuna scissione dietro l’angolo, c’è una diversità. Il consenso che accompagna Renzi non solo lo vedo, ma lo considero un’opportunità per il Pd. Nessuno lavora per ostacolare un rinnovamento radicale. Tutt’altra cosa è un’idea di partito dove è vietato disturbare il conducente. Il Pd non è un autobus ma un’orchestra. Il direttore appena nominato non si discute, però sta a lui fare in modo che gli strumenti si accordino. Se qualche violino ha dei dubbi sullo spartito è bene chiarirsi subito, invece di abbatterlo, in senso figurato».

il Fatto 19.1.14
Lo storico Miguel Gotor
“Era decaduto, Matteo gli ridà un posto al sole”


Mi dispiace vedere come il Berlusconi uscito dal Senato con la decadenza, sia rientrato dalla porta del Nazareno. Renzi l’ha rimesso al centro della scena: un grave errore politico”. Il senatore Miguel Gotor è vicinissimo a Pier Luigi Bersani.
Perché quest’incontro al Nazareno?
Il timore è che Renzi voglia usare Berlusconi per destabilizzare il governo. Tirare dritto sulla legge elettorale, con un sistema come lo spagnolo che esclude i partiti della maggioranza, non può che nuocere all’esecutivo.
Parlare con Berlusconi è inevitabile: ha ancora tanti voti.
Questo è chiaro. Sarà importante coinvolgere Forza Italia nel processo di riforma istituzionale, che però non si può fare a colpi di tweet. Se si parte da un’intesa con Berlusconi ignorando i partiti di governo, significa renderlo di nuovo il sole del sistema politico. Il governo Letta aveva avuto la forza di farlo decadere dal Senato, senza cedere al ricatto della governabilità. Ed era riuscito a dividere la destra, l’avversario del Pd. Ora Renzi lo rimette in pista.
Lo spagnolo è una soluzione davvero così negativa?
Siamo ancora alle ipotesi, bisogna aspettare la Direzione di lunedì (domani, ndr). Ma un sistema di quel tipo non sarebbe accettabile: non prevede le preferenze e ha liste bloccate. Per di più, comporta circoscrizioni dove la soglia per l’elezione di fatto è il 20 per cento. È un Porcellum corretto, un Porcellino.
Il bersaniano D’Attorre ha promesso: “Non lo voteremo mai, daremo battaglia”.
Sarebbe battaglia politica e a viso aperto.
Temete che con le liste bloccate Renzi epuri voi della minoranza?
Questa non è una partita tra maggioranza e minoranza, la posta in palio è molto più alta. Sono convinto che molti renziani vogliano scegliere i propri parlamentari, senza subire le scelte delle segreterie.
Quindi, meglio il doppio turno.
Certo, è l’unico sistema che garantisce la governabilità.
Obiezione: Renzi parla con Berlusconi, bypassando Ncd e Scelta Civica che non vogliono lo spagnolo, per non farsi intrappolare in una palude parlamentare.
Non è vero, sul doppio turno c’era un sostanziale accordo nella maggioranza. Bisognava partire da lì, e poi confrontarsi con le opposizioni. E invece il cambiamento di chi ha vinto le primarie con le preferenze riparte da Berlusconi.

il Fatto 19.1.14
Ora il gioco si fa duro
di Antonio Padellaro


Enrico Letta chiamava in continuazione per sapere come andavano le cose e Matteo Renzi non rispondeva. È finita che ad aggiornare il premier sull’incontro con Berlusconi al Nazareno è stato lo zio Gianni Letta (la famiglia innanzitutto). Deve essere stato piuttosto rassicurante se poi Letta nipote ha comunicato che il segretario pd si muove nella giusta direzione. Questa è la prima notizia: il governo per ora non cade anche se nessuno può escludere che da ieri sera, qualche pozzo sia stato avvelenato. Due ore e mezzo di colloquio e totale sintonia fanno sapere i dialoganti, ma alla fine cosa hanno concordato? Una legge elettorale che rafforza i grandi partiti (loro) o le grandi coalizioni (sempre loro) e mette fuori gioco i piccoli, costringendoli per sopravvivere a farsi annettere dai più forti. Per Alfano una brutta notizia. Indicativo il suo tweet: non ci faranno tornare all’ovile. Vedremo. Allora si vota subito? No. Così dice Renzi, che ha bisogno di almeno un anno (primavera 2015) per cambiare la Costituzione e abolire il Senato. Oltre alla riforma del Titolo Quinto per tagliare le unghie ai furbetti delle Regioni, quelli che s’ingozzano di rimborsi. Anche il Pd renziano, insomma, muove all’attacco della vorace casta per togliere l’esclusiva a Grillo e, quando sarà, riprendersi almeno una parte di quei voti che ai Cinquestelle sono arrivati dai delusi di sinistra. Quanto al Condannato Decaduto, porta a casa una visibilità che non è più solo giudiziaria: la dimostrazione che pur se malconcio è sempre al centro del gioco. Ha sfinito Renzi con la solita pippa lamentosa sulla persecuzione delle toghe rosse accusando Napolitano di avergli fatto balenare una grazia mai più ricevuta. Napolitano, appunto, che si vede sottrarre le riforme dall’intraprendente sindaco. E consapevole che se lasciato troppo libero di fare il rottamatore rottamerà anche lui. Da oggi si vedra se e come l’accordo potrà reggere. E se i due conigli mannari, Letta e Alfano, s’inventeranno qualcosa per mandare tutto all’aria. Renzi si sta facendo un mucchio di nemici ma non ha scelta.

il Fatto 19.1.14
Il sindacalista Sergio Cofferati
“Meglio vederlo al Nazareno che ad Arcore”
di Luca De Carolis


Renzi doveva incontrare Berlusconi, era inevitabile. Ed è meglio averlo fatto al Nazareno che a palazzo Grazioli”. Sergio Cofferati, ex segretario Cgil, ora europarlamentare del Pd, ha sostenuto Cuperlo alle primarie. Ma condivide la linea del segretario: “Non può far altro che criticare questo governo”.
L’entrata di Berlusconi al Nazareno ha inorridito diversi militanti e suscita l’ira della minoranza del Pd.
È un segno dei tempi. Un’immagine molto forte, per gli elettori di entrambi gli schieramenti.
Sincero: c’è stata profanazione?
Il tema del luogo non mi sembra fondamentale. Comunque, meglio incontrarlo a Sant’Andrea delle Fratte che a palazzo Grazioli. Mi sembra un segno di rispetto da parte di Berlusconi nei confronti di una parte politica che ha sempre avversato. In fondo, è andato a casa dei comunisti (sorride, ndr).
Ma lei l’avrebbe incontrato? L’ex premier ha già mandato a sbattere altri due leader della sinistra, D’Alema e Veltroni.
È un rischio che va corso. Berlusconi è un personaggio mutevole, ma confrontarsi con lui è una strada obbligata, se si vuole arrivare a una legge elettorale. Rappresenta ancora una parte importante di elettorato.
Pare che l’ipotesi su cui stanno convergendo sia il sistema spagnolo.
Bisogna arrivare a un sistema che rovesci i gravissimi limiti del Porcellum. Tutto ciò che prefigura l’impossibilità di scegliere le candidature da parte degli elettori va evitato.
La minoranza del Pd è già in trincea. Teme anche di essere demolita tramite le liste bloccate.
Se la legge elettorale viene adoperata per azzerare le minoranze interne è sbagliatissimo. Ma ora non vedo questo pericolo. Renzi è il primo a sapere che deve rappresentare tutte le anime del suo partito .
Perché insiste sullo spagnolo?
Non so se e perché vada in quella direzione. Certo, quel sistema elettorale comporta dei rischi.
Il segretario attacca ogni giorno il governo di cui fa parte il suo Pd. Sbaglia?
Sono contrario dal primo giorno a questo esecutivo, carico di contraddizione e sempre più debole. Renzi non può che sottolinearne i limiti. Noi abbiamo già commesso l’errore di appiattirci sul governo Monti. E l’abbiamo pagato nelle scorse Politiche.

il Fatto 19.1.14
Matteo e Silvio, sintonia canaglia
di Wanda Marra


MATTEO E SILVIO, SINTONIA CANAGLIA
IL SEGRETARIO PD RICEVE IL CONDANNATO DECADUTO (E GIANNI LETTA) E ANNUNCIA MODIFICHE COSTITUZIONALI C’È ANCHE UN ACCORDO SULLA LEGGE ELETTORALE PER RENDERE EGEMONI I PARTITI MAGGIORI. GUERRA A GRILLO

“Mi ha attaccato una pippa infinita sulle toghe rosse, su magistratura democratica, sulla persecuzione giudiziaria”. Come racconta Matteo Renzi a uno dei suoi più stretti collaboratori 50 minuti del match clou di ieri tra lui e Silvio Berlusconi al Nazareno se ne vanno via così. Un match che si conclude con la “piena sintonia” dei due, per citare le parole del sindaco.
L’EVENTO è storico: il segretario del Pd che riceve il condannato nella sede del partito. Renzi parte da Firenze col treno delle 13 e 08. Da solo. Arriva a Termini e sbarca al Nazareno poco prima delle 15. Silvio Berlusconi si materializza in macchina, vetri oscurati, con Gianni Letta alle 15 e 59 ed entra da un ingresso laterale. Di fronte al Nazareno la strada è chiusa. Entrano solo i giornalisti. Ad accogliere il Caimano è Lorenzo Guerini, ex sindaco di Lodi, portavoce della segreteria. Immortalato dalle foto mentre sale le scale con Berlusconi in abito scuro e cravatta. Il Cav., cordiale, saluta tutti quelli che incrocia. Anche Renzi è in abito scuro e cravatta (che poi si toglierà per la conferenza stampa). I due si incontrano nella stanza del segretario. Sono seduti su due divanetti. Berlusconi è sotto la foto di Kennedy, Renzi sotto quella di Che Guevara. Con loro ci sono Guerini e Gianni Letta. In ballo c’è la legge elettorale, ma anche le grandi riforme. Quello su cui Renzi si gioca la faccia e in qualche modo il futuro e Berlusconi può riacquistare centralità. Ma il Cav. non può evitare di tornare a parlare dei suoi guai giudiziari. Il segretario lo fa parlare, ascolta. Si aspetta che gli arrivi qualche richiesta, che lo aiuti ad uscirne. Ma non succede. Almeno per ora, anche se Renzi è consapevole di non poter escludere che Berlusconi lo farà in futuro. Adesso gli basta essere stato ricevuto nella sede del Pd, aver avuto, sulla strada degli arresti domiciliari, una nuova legittimazione come capo del centrodestra, e la possibilità di passare come quello che ha riformato l’Italia insieme a Renzi. I minuti scorrono, la tensione, l’aspettativa salgono. Anche a Palazzo Chigi. Enrico Letta prova più volte durante il faccia a faccia a parlare sia con Renzi che con Guerini: nessuno risponde. Alla fine ad informarlo non sarà nessuno dei due, ma lo zio Gianni. “Piena sintonia” con Forza Italia ripeterà Renzi nella conferenza stampa alla fine dell’incontro, che termina alle 18 e 30. “Che ha fatto la Roma? ”, si lascia scappare entrando. Poi, si fa serio. L’accordo con Berlusconi anche se il segretario è cauto nelle parole, nei toni e nei tempi (“Non vorrete farmi perdere il treno? ”) sostanzialmente è fatto. Ma la trattativa è in via di definizione perché a questo punto la scommessa è mettere dentro Alfano e tenere a bada i malumori del Pd. Ci sono 48 ore di tempo per perfezionarla. Lunedì, spiega Renzi, chiederà un voto alla direzione. Oltre alla riforma del voto, nell’intesa con B., ci sono pure il titolo V della Costituzione e l’abolizione del Senato. Per dirla con Renzi: “C’è una seconda intesa sulla trasformazione del Senato in ‘Camera della autonomie’ con il paletto che non ci sia una indennità per i senatori, né la loro elezione diretta e si modifichi il bicameralismo perfetto, in modo che il Senato non voti la fiducia al governo”. La scommessa di Renzi è quella di battere Grillo sul suo terreno, la lotta alla casta. Perché a questo punto per lui la competizione non è tanto con il centrodestra, ma con i Cinque Stelle. E allora deve intestarsi la battaglia delle grandi riforme, sottraendole al governo, ai ministri delle Riforme, ai presunti saggi passati o venturi. Quello che pensa dell’azione di Quagliariello & co. l’ha detto più volte in questi giorni (“In Italia ci sono i ministri delle Riforme, ma nessuna riforma”). Per questo, in fondo, andare ad elezioni nel 2015 gli va bene: è il tempo necessario per presentarsi come il grande rinnovatore dell’Italia. E per quel che riguarda il Cavaliere, il Titolo V è uno dei suoi vecchi pallini.
SULLA LEGGE elettorale Renzi in conferenza stampa parla di un “accordo aperto a tutti”. Il punto di partenza - che dovrebbe riuscire a portar dentro anche Alfano con Ncd - è una sorta di “ispano-tedesco”. “Favorire la governabilità, favorire il bipolarismo, eliminare il potere di ricatto dei partiti più piccoli”, sono i tre criteri del segretario. La base di partenza del confronto è dunque un modello a circoscrizioni plurinominali, come lo spagnolo, ma con assegnazione di seggi su base nazionale, che lo fa assimilare a quello tedesco. Per andare incontro ai piccoli non ci sarebbero le circoscrizioni plurinominali piccole, in cui si eleggono 5-6 deputati con liste bloccate. Tale sistema ha una soglia di sbarramento implicita altissima, del 10-15%, il che manderebbe in Parlamento solo i tre partiti maggiori (Pd, Fi e M5). Ma se a queste si associa l’assegnazione dei seggi su base nazionale, i partiti medi potrebbero accedere al Parlamento. Con un premio di maggioranza alla più votata delle liste. Elemento di trattativa è anche lo sbarramento per i singoli partiti: si ragiona del 5% se stanno in coalizione e dell’8% se corrono da soli. Renzi e Berlusconi ovviamente non sono entrati nelle pieghe dei dettagli tecnici. Questo tocca a Verdini per B. e a Roberto D’Alimonte per il sindaco, che evidentemente nelle prossime ore avrà il suo da fare per l’elaborazione tecnica. Da Letta arrivano commenti positivi, da Ncd segnali contrastanti, che però fanno pensare che si vada verso un accordo complessivo. Nell’entourage renziano nessuno pensa che Alfano voglia far saltare il tavolo. Almeno per ora. Renzi dal canto suo uscito dal faccia a faccia chiama Napolitano. Il quale è aperto e cortese. Ma chiarisce che prima di dare la sua benedizione alle riforme in programma vuole vedere tutte le carte. Poi, mentre gli altri si arrovellano, Renzi sale sul treno e se ne torna a Firenze.

l’Unità 19.1.14
Cassa integrazione, è record
Studio Cgil: nel 2013 tolti ai lavoratori oltre 4 miliardi
1.075 milioni di ore totali, maggiore incidenza al Nord, il settore meccanico il più colpito
di Marco Ventimiglia


MILANO  L’anno appena concluso, che di buono ha portato ben poco, invece si segnala per una ben triste caratteristica, quello del peso della cassa integrazione. Infatti, quando si parla di miliardi, quasi sempre segue la parola euro, e di solito non è un bel sentire, con cifre che identificano il disavanzo dello Stato piuttosto che altri deficit di grande rilevanza. Ma se i miliardi sono relativi alle ore di cig, come ha dato conto ieri la Cgil, allora i numeri diventano ancor più drammatici.
Oltre 515mila lavoratori relegati per l’intero 2013 in cassa integrazione a zero ore, in ragione di 1.075 milioni di ore di cig, richieste e autorizzate lo scorso anno, ovvero il terzo peggior risultato degli ultimi quattro. Ed ancora, un ammontare che porta il totale di ore che i lavoratori hanno trascorso in cig negli ultimi sei anni di crisi economica, a partire cioè dal 2008, a più di 5,4 miliardi. Questo ed altro, in tema di ricorso alla cassa integrazione, viene certificato da parte dell’Osservatorio Cig della Cgil nazionale nel suo rapporto di dicembre 2013, con elaborazioni basate sulle rilevazioni dell’Inps.
OTTOMILA EURO IN MENO
Miliardi di ore, ma anche di euro, sotto forma del danno economico subito dai lavoratori per la forzata inattività. Gli oltre mezzo milione di dipendenti coinvolti nei processi di cassa a zero ore nel 2013 hanno subito una perdita complessiva sul reddito di oltre 4,125 miliardi di euro, ovvero 8mila in meno nella busta paga di ogni singolo lavoratore. Numeri che, per il segretario confederale della Cgil, Elena Lattuada, descrivono «un sistema produttivo letteralmente frantumato, per un verso dai colpi della crisi, e dall’altro per non aver messo in campo misure per invertire la tendenza. Il tutto mentre questa situazione si riversa con violenza sulla condizione di centinaia di
migliaia di lavoratrici e lavoratori che, entrando nel settimo anno di crisi, versano in una condizione di grandissima sofferenza». Per la dirigente sindacale serve quindi «un netto cambio di passo, l’avvio di un’opera di vera e propria ricostruzione che metta al centro, prima ancora delle regole, interventi che favoriscano processi di riorganizzazione generale dell’economia e della produzione».
Se il consuntivo annuale parla chiaro, non emergono motivi di ottimismo nemmeno restringendo l’analisi all’ultima parte dell’anno, quando altri indicatori hanno invece evidenziato un attenuarsi dell’impatto della crisi. In particolare, l’Osservatorio della Cgil segnala che è proseguita anche a dicembre la crescita del numero di aziende che hanno fatto ricorso ai decreti di cigs. Tornando ai numeri annuali, nel corso del 2013 i decreti di cigs sono stati 6.838, con un +10,45% sul 2012, e riguardano 12.025 unità aziendali (+9,08% sull’anno passato). Nello specifico si registra sempre un forte aumento dei ricorsi alla cassa integrazione per crisi aziendale (3.829 decreti per un +11,08% sullo stesso periodo del 2012), che rappresentano il 56% del totale dei decreti.
Ragionando in termini geografici, appare molto pesante il bilancio per le regioni del Nord. Dal rapporto della Cgil emerge che al primo posto per ore di cig autorizzate c’è la Lombardia con 251 milioni 480.693 ore che corrispondono a 120.441 lavoratori (prendendo in considerazione le posizioni di lavoro a zero ore). Segue il Piemonte con 129 milioni 388.178 ore per 61.968 lavoratori e il Veneto con 108 milioni 188.370 ore per 51.814 lavoratori. Inoltre, si conferma ancora una volta la meccanica il settore dove si è totalizzato il ricorso più alto allo strumento della cassa integrazione nel corso dall’anno passato. Secondo l’Osservatorio, sul totale delle ore registrate nel 2013, la meccanica pesa per 366 milioni 447.892 ore, coinvolgendo 175.502 lavoratori.

l’Unità 19.1.14
Rappresentanza: lo scontro «riapre» il congresso Cgil
Mossa di Landini: emendamento dei delegati Fiom per mettere in discussione il voto del Direttivo
Corso d’Italia: si esprimano tutti gli iscritti
di Massimo Franchi


Un emendamento dal basso, forse proposto dai delegati Fiom di Pomigliano, per chiedere un voto dei lavoratori sull’accordo sulla rappresentanza che sia vincolante per la Cgil. Il giorno dopo il Direttivo della spaccattura tra la confederazione e la Fiom, Maurizio Landini passa alla mossa successiva per rimettere in discussione la decisione del parlamentino di Corso d’Italia.
Il problema dei problemi sia per la Fiom che per tutta la segreteria Cgil ha infatti un solo nome: congresso. La macchina che porterà all’appuntamento del 6 maggio a Rimini, quando comincerà la tre giorni del XVII congresso, è già partita da mesi e, nonostante lo tsunami interno di venerdì, non può essere fermata. A quell’assise si arriverà con una mozione praticamente unitaria, sottoscritta sia da Susanna Camusso (prima firmataria) che da Maurizio Landini. Il congresso unitario a emendamenti era lo strumento trovato per mettere da parte le divergenze e presentarsi credibili davanti ai quasi 6 milioni di lavoratori e pensionati iscritti, reduci da 5 anni di crisi economica. Una visione condivisa della situazione (la premessa del documento), dieci «azioni» come proposte e obiettivi per cambiare le cose. Poi gli emendamenti che ogni categoria ha presentato per avanzare le proprie proposte specifiche, che andranno votati al congresso. Ma anche questi sono stati ormai presentati, non sono più modificabili e sono congelati alla situazione precedente il 10 gennaio, giorno della firma sul Testo unico sulla rappresentanza.
Gli unici che possono presentarne di nuovi sono gli iscritti durante le assemblee congressuali nei luoghi di lavoro. E a questo puntano Landini e Gianni Rinaldini, leader della minoranza dell’ultimo congresso (2010). «Quello che è successo al Direttivo non può rimanere fuori dal congresso spiega Rinaldini Io ricordo a tutti che Trentin nel 1992 dopo aver firmato un testo non concordato con la confederazione si dimise, per poi essere confermato. Venerdì invece è accaduto qualcosa di gravissimo e intollerabile per la democrazia interna in Cgil. Ci sono però gli strumenti per discuterne comunque al congresso. E lì avremo la possibilità di contarci. Io e Maurizio Landini continua Rinaldini abbiamo sottoscritto 4 emendamenti molto importanti su pensioni, reddito minimo, contrattazione e appunto democrazia: un emendamento che se approvato farebbe modificare lo statuto della Cgil, chiedendo sempre ai lavoratori di esprimersi».
«VOTO DEGLI ISCRITTI GIÀ PREVISTO»
Dalla segreteria della Cgil si risponde senza scomporsi. «Dal punto di vista formale
la presentazione di un emendamento dal basso è perfettamente legittima osserva Vincenzo Scudiere Faccio però notare che il documento approvato venerdì prevede già il voto degli iscritti nelle assemblee sul Testo unico sulla rappresentanza. I voti saranno sommati e arriveranno al congresso. In più però noi dalla settimana prossima organizzeremo con Cisl e Uil una campagna informativa unitaria sui contenuti del testo».
Un voto quindi ci sarà, ma la Fiom vorrebbe che fosse limitato «ai diretti interessati», spiega Rinaldini, e cioè ai soli lavoratori delle categorie di Confindustria e non altri. Su questo però la segreteria Cgil non transige: «La protesta della Fiom ha preso una valenza politica tale che coinvolge tutti gli iscritti alla Cgil», risponde Scudiere.
Chi invece contesta completamente l’accordo è Giorgio Cremaschi. L’ex segretario nazionale della Fiom, l’unico che ha presentato un documento alternativo («Il sindacato è una cosa seria»), venerdì ha deciso di non partecipare al voto perché si prepara a «presentare ricorso alla commissione Statuto della Cgil contestando che l’accordo fatto votare sia illegittimo». «So che non ho speranza che venga accolto, ma mi interessano le motivazioni e dopo averle lette non escludo di ricorrere alla magistratura perché è da maggio scorso che dico che l’accordo sulla rappresentanza è incostituzionale», attacca.
I problemi che ora Landini deve affrontare sono due. Il primo, interno, riguarda il suo sostanziale isolamento: nessuna altra categoria lo ha appoggiato nella battaglia. Il secondo, esterno, riguarda la categoria. Con Fim Cisl e Uilm i rapporti sono da guerra fredda dai tempi del referendum di Pomigliano. L’altro paradosso della situazione è infatti quello che la Fiom contesta la super visione confederale, «il mancato rispetto dell’autonomia della categoria», ma non è in grado di arrivare ad un accordo con Fim e Uilm per gestire quello stesso accordo. «L’indisponibilità a applicare l’accordo nella nostra categoria è il solito ruggito del coniglio, a cui Landini ci ha abituato da anni e fornisce un’idea dello sbando in cui da troppo tempo è il gruppo dirigente della Fiom», attacca Marco Bentivogli della Fim Cisl.

l’Unità 19.1.14
Carlo Smuraglia
Allarme fascismi in tutta Europa
Il presidente dell’Anpi: «Finora l’Ue è stata molto tiepida nel censurare forme rinascenti
di semi-dittatura come nell’Est europeo»
«Alle europee ci giochiamo tutto. La crisi alimenta nuovi fascismi»
intervista di Adriana Comaschi


«Ho l’impressione che ci sia una generale disattenzione, anche a sinistra, sulla gravità del momento e sul valore delle prossime elezioni europee per bloccare l’avanzata di fascismi, nuovi populismi, razzismo».
Carlo Smuraglia, presidente nazionale Anpi, è diretto nel bacchettare i partiti, impegnati a discutere di regole piuttosto che su come arginare un crescente disagio sociale e i pericoli che ne derivano. Lo fa dal convegno che si è tenuto ieri in Campidoglio con la Federazione internazionale dei Resistenti (Fir), la principale associazione in difesa dei valori di Resistenza e antifascismo in Europa.
Presidente, perché proprio ora la riunione dell’esecutivo Fir a Roma? L’antifascismo e i suoi valori sono a rischio oblio? «Vogliamo riorganizzare le file dell’antifascismo in Europa in modo che il nuovo Parlamento, quello che uscirà dalle prossime elezioni europee, metta alla sua base antifascismo e difesa della democrazia. Finora l’Europa è stata molto tiepida nel censurare forme rinascenti di quasi dittatura, come nell’Est europeo, o di movimenti che si richiamano al nazismo, il risorgere del razzismo, nuove forme di populismo e fascismo. Per questo chiederemo ai candidati alle europee un impegno preciso per un’Europa non solo unita e attenta al sociale, ma anzitutto democratica. Ci sono pericoli sempre attuali, alcune condizioni che portarono all’affermarsi di fascismo e nazismo purtroppo si ripropongono».
Quali sono le situazioni che vi hanno allarmato?
«L’orribile strage di Utoya, di matrice chiaramente razzista e fascista; l’enorme crescita del movimento di Marine Le Pen in Francia; l’alleanza tra questo e la Lega Nord; situazioni di mancanza di libertà come in Ungheria e Slovacchia. In generale, le destre si stanno spostando da un conservatorismo liberale a nuove forme di populismo e razzismo: e quest’ultimo è sempre la premessa per cose ancora peggiori...»
Diceva del riproporsi di condizioni che hanno portato al fascismo. Occorre intervenire anche su queste? Come?
«Non c’è dubbio che sia così, certi fenomeni in Europa sono sempre nati da situazioni di crisi. Oggi la crisi c’è, crea scontento, spesso può spingere a destra, una destra che appunto sta cambiando. Allora non basta esorcizzare questi effetti, si agisca sulle cause della crisi: una è la politica di intransigenza assoluta sui bilanci, a mio giudizio profondamente sbagliata, seguita finora dall’Europa. Una politica che ha aggravato la crisi sociale, trasformandola in un’emergenza con proteste che i populismi fanno presto a cavalcare. Non basta reprimerli, servono politiche più attente al versante sociale, allo sviluppo. Queste possono essere un grosso antidoto». Le forze politiche stanno agendo in questo senso?
«No. Sul fatto che alle prossime elezioni europee ci si gioca il futuro della Ue e diritti fondamentali vedo una distrazione, anche delle forze di sinistra, più attente al dato sociale: le richiamo in questo senso, perché colgano la gravità di questo momento. Ogni Paese scegliendo i suoi candidati ricordi la posta in gioco, siamo inseriti in un contesto: devono censurare di più certi movimenti e intervenire sulle cause della crisi, contrastando il liberismo sfrenato che ha imperversato finora, serve più attenzione alle esigenze dei lavoratori». Dunque occuparsi del nodo lavoro. Come lo sta affrontando la politica In Italia? E come valuta il Job Act di Renzi? «Vedo un grande affannarsi a discutere di regole, quando si dovrebbe piuttosto creare nuovi posti di lavoro ed espandere la produzione. Altrimenti le disuguaglianze cresceranno ancora, con i rischi di cui dicevo. Anche il Job Act non mi convince, mi pare disciplini e semplifichi più che incentivare le attività per cogliere la “ripresina”».
Schulz, presidente del Parlamento Ue, vi ha inviato un messaggio di sostegno in cui declina l’antifascismo di oggi anche in «battaglie concrete», come quella per evitare che i migranti diventino «capro espiatorio di ogni male»...
«È veramente un punto importante. Non c’è da superare solo la Bossi-Fini, ma anche la legge Maroni. Ricordo poi al centrodestra che anche Alfano è andato a commemorare le vittime di un enorme naufragio: un governo ha il dovere di trovare una soluzione che tenga insieme diritti dei migranti e sicurezza, un punto di incontro. Lo ius soli temperato? Sono favorevolissimo, mi sembra strano persino dover discutere sulla cittadinanza ai figli di chi risiede qui da anni».
Come legge i continui attacchi al ministro Kyenge?
«Ne sono profondamente indignato, non si contesta quello che fa ma quello che è, per il colore della sua pelle. Eppure colgo poco stupore, nonostante si sia superata ampiamente la soglia della tollerabilità, come dimostra la pubblicazione degli appuntamenti del ministro, con l’invito a seguirli per contestarla. Poi c’è il parlamentare che si presenta in aula con il volto dipinto di nero... vorrei più indignazione, anche a sinistra, l’istigazione all’odio razziale è un reato».

La Stampa 19.1.14
“Francesco è un dono di Dio”
La nuova vita della suora-mamma
La giovane lascerà il convento e non vuole aiuti. Si trasferirà a Roma
di Maria Corbi

qui

La Stampa 19.1.14
Gerarchie ecclesiastiche. Foto ritoccata in stile Stalin
Sostituita la faccia dell’ex Nunzio a processo per pedofilia e il vescovo accusato sparisce
Scambio di volti nello scatto ufficiale dei prelati di Santo Domingo

qui

Repubblica 19.1.14
La Chiesa attacca il sindaco di Roma “Fermate il registro delle unioni civili”
Domani il voto. Il Comune: tuteliamo diritti. Il Vicariato: miopia politica
di Paolo Rodari


CITTÀ DEL VATICANO — «Non si può barare con le parole». Per il vicariato di Roma non ci sono mezze misure: il riconoscimento e l’istituzione di un registro delle unioni civili approvato nei giorni scorsi nelle commissioni capitoline, è «una forzatura giuridica, frutto di miopia politica». A parlare, per voce del cardinale vicario della città di Roma, Agostino Vallini, è un editoriale di Angelo Zema, direttore del settimanale Roma Setteche esce quest’oggi nella capotale insieme al quotidiano dei vescovi italiani Avvenire.
Con il varo della delibera, si legge nel durissimo testo, «a essere discriminate sarebbero le famiglie». E ancora, l’affondo più importante: «Distinguere non è discriminare ma rispettare: questo dovrebbe essere chiaro. A meno che non si voglia immaginare di fornire assist a normative nazionali — ancora inesistenti — o di preparare qualche coup de théâtre nella città del Papa, cuore della cristianità». «Un tocco hollywoodiano», lo definisce il direttore diRoma Sette,«concessione alla scenografia per un’idea priva di sostanza, se si considera nonsolo l’inutilità giuridica di tale strumento ma anche il flop dei registri delle unioni civili in sei Municipi romani (meno di 50 coppie iscritte in 8 anni, come dimostrato da un’inchiesta di Avvenire). Insomma, la delibera è una forzatura giuridica, frutto di miopia politica. Di una politica che non sa guardare lontano, che vola basso e resta al palo dibattendosi tra le emergenze irrisolte della città».
Al tempo del Papa della misericordia e della tenerezza evangelica, che alla ripetizione monotematica dei princìpi detti “non negoziabili” preferisce anteporre l’abbraccio e l’accoglienza verso tutti, le parole uscite dal Vicariato suonano quasi come una contraddizione. Ma non lo sono. Intanto, è impensabile che il Vicariato si esponga senza che il Papa, che porta il titolo di vescovo di Roma — Vallini esercita le funzioni di vescovo in sua vece, ma non è il titolare della diocesi — ne condivida la linea. Vallini e Bergoglio, fra l’altro, hanno contatti frequenti. In secondo luogo, non sembra essere Francesco un Pontefice intenzionato a tradire la dottrina o gli insegnamenti fino a oggi proposti dai suoi successori. Piuttosto egli lascia che siano le Chiese locali e i loro pastori a intervenire laddove sia ritenuto necessario, facendo egli in questo senso egli un passo indietro.
Più volte Francesco ha salutato cordialmente in piazza San Pietro il sindaco di Roma Ignazio Marino. Mentre lo scorso 9 gennaio ha avuto un’attenzione particolare non solo al sindaco ma anche al presidente della Regione Lazio,Nicola Zingaretti, e al commissario straordinario della Provincia di Roma, il prefetto Riccardo Carpino, ricevuti in udienza. Invece che accoglierli tutti e tre nella sala Clementina come da protocollo, li ha ricevuti separatamente, parlando in privato con ognuno di loro, senza discorsi ufficiali. Ma queste attenzioni non significano che egli condivida ogni azionepolitica dei tre. Semplicemente preferisce che, senza che la cadenza degli interventi diventi ossessiva, siano i vescovi locali a esprimersi se c’è bisogno.
Già a Buenos Aires il cardinale Bergoglio aveva definito l’equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio un «reale e grave regresso antropologico». Mentre in queste ore egli ha scritto a coloro cheoggi a Parigi partecipano alla nona edizione della Marcia per la vita, organizzata dal collettivo En marche pour la vie,incoraggiandoli con forza ad andare avanti: «Diciamo sì all’amore e no all’egoismo — ha scritto — . Diciamo sì alla vita e no alla morte; in una parola diciamo sì a Dio, che è amore, vita e libertà».

il Fatto 19.1.14
Roma e rifiuti
Zingaretti querela Caltagirone


“Ho dato mandato ai miei legali, a tutela della mia onorabilità, di querelare per diffamazione il quotidiano Il Messaggero”. Il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, risponde con le vie legali al quotidiano di Francesco Caltagirone. La decisione è scattata a causa di un articolo pubblicato ieri in prima pagina dal titolo “Rifiuti, il patto dei politici. Leggi ad hoc per Cerroni. Il ruolo di Pd, Regione e Provincia per favorire il ras a Roma”. La tesi riportata nel pezzo è che il Pd era d'accordo nel favorire gli interessi del “re della monnezza”, Manlio Cerroni, arrestato pochi giorni fa nell’ambito dell’inchiesta sulla gestione dei rifiuti romani. "Lo aiutavano, volevano aiutarlo. Nella sede della Regione Lazio, ma con telefonate di sostegno, provenienti anche dalla Provincia e dalla politica nazionale", si legge nell’incipit dell’articolo. Che riporta un dialogo tra Cerroni e l'ex assessore Di Carlo: “Zingaretti sta lavorando per farmi fare... secondo lui dovrei fare il vicepresidente con la delega all’energia ed ai rifiuti”. Netta la risposta del governatore: “Sui rifiuti non ho mai fatto alcun patto con nessuno”.

il Fatto 19.1.14
Tra Renzi e Letta
Sanità al collasso, governo ombra di se stesso
di Furio Colombo


Trovo strano che l’ex governatore del Lazio, Piero Marrazzo, sia stato accusato, a torto o a ragione, di un po’ di tutto (adesso di un coinvolgimento nella grave questione dei rifiuti) ma non dell’unica clamorosa responsabilità che Marrazzo si è assunto quando, per compiacere le insistenti richieste del governo Berlusconi, ha svuotato e poi chiuso uno dei grandi ospedali romani, il San Giacomo, l’unico nel centro storico e l’unico con reparti di eccellenza nella traumatologia, nella tecnica più avanzata delle dialisi, nella cardiologia, nella terapia intensiva, ma forse appetibile per qualche clamorosa speculazione privata. Devo spiegare perché la vicenda romana fa testo, sia come evidenza di malgoverno sia come prova di cecità e di un penoso carico di finti esperti e di finti consulenti dai costi lunari, anche per tante altre situazioni italiane.
UNA RAGIONE importante è che Marrazzo, che aveva presieduto alla cattiva gestione della Sanità dell’intera regione, è stato nominato – lui stesso – commissario governativo con il compito di risanare ciò che, da presidente della Regione, aveva portato al tracollo. Quel commissario ha chiuso un grande ospedale appena dotato di nuova e costosa strumentazione d’avanguardia, ha disperso le équipe mediche che per decenni erano state un importante punto di riferimento nel sistema sanitario della città, ha abbandonato medici e infermieri, destinandoli a caso in altri ospedali già carichi.
E chi visitasse il pronto soccorso degli altri ospedali romani troverebbe il caos di folle disorientate, stanche, da zona di guerra, cittadini condannati ad attese di ore e di giorni, pazienti che aspettano in auto per non stare al gelo sulle barelle (che in molti casi sono, per giorni, gli unici letti) impedendo alle ambulanze di ripartire.
STRANAMENTE sia i ministri della Salute sia i presidenti delle Regioni finiscono per incastrarsi (ammesso che la cosa avvenga con un minimo di pulizia morale e contabile) solo nella questione dei costi, che vengono regolarmente “rimessi in ordine” attraverso l’unico strumento di chi non ha una visione: il taglio. Tagliare – ti insegnano e ti ripetono di volta in volta nella sequenza dei vari governi – finisce per essere il solo modo di governare la salute.
La frenesia del taglio come politica colpisce tutti, colpisce a vanvera. Ma il caso della Sanità è il più grave perché include, come una pericolosa matrioska, un problema dentro l’altro. Ed è una buona rappresentazione del modo in cui accettiamo di venire governati. Non c’è visione e non esistono piani. Le grandi crisi si risolvono con successive punizioni dei cittadini, a cui si dà, volta per volta, meno del dovuto (il dovuto è stabilito dalla Costituzione e dagli impegni elettorali) come se lo Stato fosse andato improvvisamente in rovina.
I disastri (come la penosa storia dei tagli fatti a caso negli ospedali e le storie delle disperate ricerche di un posto letto, prima di morire per troppa attesa) non hanno un colpevole e non saranno mai pagati da nessuno. Anzi chi taglia fa carriera.
Date tempo a un ciclo di eventi di ricomporsi e subito si torna alla lezione secondo cui “una festa è finita” e bisogna rimborsare, con correzioni drastiche a tuo carico, le conseguenze di quella festa ignota e lontana.
Il pagamento avviene sempre e solo dalla parte di coloro che dovrebbero essere garantiti e protetti. E invece, di volta in volta, vengono chiamati a una nuova rinuncia per salvare chi li governa, ovvero, come viene solennemente detto loro ogni volta, per salvare l’Italia.
MI DIRETE che ho parlato poco di corruzione. È vero. Ma qualche volta contro la corruzione arriva il giudice. Resta impunito invece, il modo di governare dei tagli senza luce, senza visione, senza competenza, senza un minimo progetto del che fare, distribuendo a caso le mansioni (i ministri) e seguendo a caso la telecamera da parte di chi dirige il governo. Mentre scrivo non so che cosa si saranno detti, il nuovo segretario Pd Matteo Renzi e il condannato Berlusconi, che (casualmente fuori dalla prigione) si è trovato a passare davanti alla sede del Pd. Forse hanno creato un governo-ombra per vegliare sul governo ologramma che attraversa le porte senza aprirle.

il Fatto 19.1.14
Leggende metropolitane sugli immigrati
risponde Furio Colombo


CARO FURIO, premetto che l’unico giornale che leggo è il Fatto Quotidiano. Detto ciò ti mando in allegato un articolo pubblicato su “Il Giornale” (maggio 2012) in cui si racconta della facilità con cui i congiunti “over 65” dei cittadini stranieri ottengono l’erogazione dell’assegno sociale da parte dell’Inps anche quando i ricongiungimenti non sono proprio “effettivi”. La cosa mi ha molto indignato, soprattutto se penso alla recente riforma delle pensioni che ci penalizza nonostante i tanti anni di lavoro e i tanti contributi versati. Gradirei conoscere la tua versione dei fatti e il tuo punto di vista.
Vanna

HO LETTO con attenzione la pagina del “giornale.it ” in data 6 maggio 2012. C’è una apparente cura per i dati e per le fonti, in questo articolo, ma è questione di montaggio. Basta raggiungere le ultime righe (che dovrebbero essere le prime) per apprendere che i casi scoperti in Italia dalla Guardia di Finanza sarebbero 270, dunque lo zero virgola uno degli immigrati che vivono o hanno vissuto in Italia. Prudentemente, l’autore dell’articolo scrive in quelle ultime righe, (indicando il piccolo numero di apparenti profittatori della previdenza italiana) che “la Guardia di Finanza ha individuato 270 fattispecie di questo tipo”. Tradotto, non vuol dire accertamento di reato o di violazione di norme. Ci fa solo sapere che alcune persone non erano in casa al momento del controllo, cosa che ha insospettito la Gdf. Del seguito non sappiamo nulla. Però mi sia permesso di ricordare ai lettori che per la maggior parte di questi anni (il ventennio berlusconiano che adesso stiamo duramente scontando) l’Italia è stata sotto l’egemonia diretta o indiretta di un mondo di informazioni controllato dal noto titolare del conflitto di interessi. E che il rapporto con il mondo, i problemi, i rischi, la sofferenza della immigrazione, tutto è stato sempre nelle mani della Lega Nord, la stessa che in questi giorni dedica la sua attenzione razzista al ministro Kyenge. La Lega, è bene ricordare, non solo ha avuto i voti gonfiati dai collegi messi a disposizione da Forza Italia, ma ha avuto anche posizioni di potere ministeriale del tutto sproporzionate a voti e risorse umane del gruppo. Vi sembra che Maroni sia il tipo di ministro dell’Interno che facilita il ricongiungimento familiare? Avete mai visto le code (a volte un vero ingombro stradale) che circondavano le questure (o le affollavano, ai tempi della Lega, quando l’ordine era di ritardare il più possibile la concessione dei diritti dovuti agli immigrati?) Qualcuno ha mai visto le condizioni in cui vengono tenuti i cosiddetti “clandestini” nei Cie (Centri di identificazione ed espulsione)? E qualcuno ha mai riflettuto sul famoso Trattato di amicizia con la Libia di Gheddafi, che prevedeva, da parte dell’Italia, il versamento a fondo perduto di 20 miliardi (venti miliardi) di dollari in rate di cinque miliardi all’anno, in cambio dell’intercettazione in mare (operazioni spesso finite con l’affondamento) delle povere barche di coloro che, fuggendo da guerre e carestie, tentavano di raggiungere un pezzo d’Europa? Ma c’è un piccolo problema in più da ricordare in questo contesto. Una buona parte degli immigrati di questa fase della storia, viene, lavora, mette da parte quello che può e ritorna a casa. Varie volte è stato discusso il problema di persone che, a migliaia lavorano, arricchiscono con il loro lavoro il Paese ospite (lo dice il Nobel Milton Friedman, guru delle destre conservatrici del mondo), versano i contributi e li perdono per sempre quando ripartono. Perché nessuna legge prevede il rimborso? Ci sono tanti modi di tentare di sollevare ostilità (che l’Italia, persino in crisi, continua a non avere) contro i migranti. Questo, del “Giornale.it  ”, segnalato dalla lettrice, è uno.

Corriere 19.1.14
I dubbi per una legge sul fine vita che uniscono l’Italia alla Francia
di Isabella Bossi Fedrigotti


Mentre da noi una giornalista ultranovantenne si uccide con le pillole e un carcerato tormentato dal cancro si rivolge a Napolitano chiedendo di essere lasciato morire, in Francia è intervenuto il tribunale per fermare l’eutanasia su di un paziente decisa dai medici e da una parte della famiglia, ma non dai genitori. Qui e là si infiamma, dunque, il dibattito sul fine vita. La colpa, se tale si può chiamare, è della medicina che oggi riesce a far sopravvivere per anni chi in altra epoca se ne sarebbe andato in pochi giorni. Del resto, chi non vorrebbe far il possibile e l’impossibile per tenere in vita — anche se non si sa quale vita — una persona amata, un parente, un amico?
Questo almeno si pensava fino a non molto tempo fa: ora, avendo nozione di possibili interminabili stati vegetativi, non raramente si tende a compiangere nel profondo chi è stato salvato per il rotto della cuffia con la prospettiva di un’esistenza attaccata alle macchine. E c’è perciò chi scrive lettere-testamento, chi estorce promesse a figli e congiunti, chi si iscrive a funeree associazioni olandesi o svizzere per garantirsi un’uscita di scena senza troppi traumi. Ma c’è anche chi — in Rete il tema è più dibattuto che mai — pur convinto della bontà dell’eutanasia, teme di pentirsi un giorno di quel testamento biologico redatto in piena coscienza, e di non essere più in grado di esprimersi per revocarlo. Oppure c’è chi supplica i figli di lasciarlo vivere sino all’ultimo respiro, persuaso che anche soltanto uno spiraglio di luce sia meglio del buio che potrebbe esserci dall’altra parte.
Ci vuole una legge, chiedono in Italia come in Francia. Ma a chi si applicherà? A chi è in coma profondo, a chi è in stato vegetativo o anche a chi ha conservato una sia pur modesta reattività? Chi prenderà la decisione? I parenti, i medici o, come è successo ora in Francia e, molto prima, nel caso di Eluana Englaro, pure in Italia, i magistrati? E la legge dovrà consentire solo l’eutanasia passiva o anche attiva? Gli interrogativi sono molti e di difficile risposta. Inevitabilmente, poi, vengono a mescolarvisi visioni di anziani non autosufficienti, per il cui accudimento mancano i fondi, il tempo o le forze, destinati da medici e parenti a morte «dolce». E chissà se l’avrebbero voluto.

Repubblica 19.1.14
“Rifaccio il partito comunista e non vogliamo alleanze con il Pd”
Rizzo: oggi il congresso fondativo, proponiamo di uscire dalla Ue e di nazionalizzare la Fiat


ROMA — Il Partito comunista di Marco Rizzo nasce ufficialmente stamane, a Roma. Congresso fondativo in via dei Frentani, bandiere rosse e adesione a una nuova Internazionale: «Per la verità ci siamo presentati anche alle ultime Politiche, circoscrizione estero. Prendendo l’1,6% al Senato, l’1,4% alla Camera. Dati buoni, come vede».
Rizzo, perché lanciare un partito comunista? Non rischiate di sembrare la caricatura di un passato che non c’è più?
«C’è bisogno di cambiare il sistema. Noi proponiamo di uscire dall’Unione europea, senza pagare il debito. Di nazionalizzare le banche e le grandi imprese come la Fiat».
Programma ambizioso. Un tantino fuori dalla storia?
«Noi siamo per il ritorno all’ideologia, in continuità con la Rivoluzione d’ottobre. E con l’Unione sovietica, dove il socialismo è fallito solo dopo l’avvento di Krusciov».
Nel solco di Stalin, insomma.
«Lo stanilismo fa parte del nostro patrimonio, ma noi siamo marxisti-leninisti».
Pensate di allearvi con qualcuno?
«No. E il Pd è uno dei bastioni del capitalismo moderno».
Lei però ci ha governato, con chi oggi milita nel Pd.
«Un errore. Ma perseverare è diabolico».
Quindi Letta e Renzi pari sono, per il suo Partito comunista.
«Questione per noi ininfluente, esattamente. A sinistra gli eredi del Pci — da D’Alema a Veltroni — hanno decomunistizzato il Pci per avere in mano il Paese. Poi è arrivato uno che non è mai stato comunista, li ha rottamati e mandati a casa».
(t. ci.)

il Fatto 19.1.14
Tour con campagna elettorale. Grillo farà pagare gli spettacoli
di Emiliano Liuzzi e Giulia Zaccariello


Ieri era una tentazione, oggi è qualcosa di più: un progetto che ha già titolo, tappe segnate sul calendario e un canovaccio. Beppe Grillo si prepara a tornare sul palcoscenico e punta al pienone. Non delle piazze questa volta, ma dei palazzetti. E non con un comizio, ma con uno show a pagamento, sullo stile di quelli abbandonati più di tre anni fa, per dedicarsi anima e corpo al Movimento 5 stelle. Questo almeno sulla carta. Perché tutto fa pensare che sarà difficile per lui svestire i panni del leader politico, per tornare a quelli del comico. Il debutto della nuova tournée infatti è previsto in primavera, proprio in contemporanea con la campagna elettorale per il Parlamento europeo. E gli argomenti che porterà al pubblico, manco a dirlo, saranno proprio la politica di Bruxelles, l'euro e la sovranità nazionale. La sensazione è che sia una sorta di campagna elettorale a pagamento. Da affiancare a quella vera e propria che invece come sempre avverrà nelle principali piazze d’Italia.
   DATE PRECISE E ANNUNCI ufficiali ancora non ci sono. Come non ci sono indicazioni sul prezzo delle esibizioni. Indiscrezioni apparse sul settimanale l’Espresso si spingono però fino al titolo. Un “Te la do io l'Europa”, che riporta immediatamente indietro di trent'anni, alle trasmissioni “Te la do io l'America” e “Te lo do io il Brasile” firmate da Grillo all'inizio degli anni Ottanta. Sempre secondo il settimanale, sul tavolo del leader dei 5 stelle c’è un contratto con l’agenzia di spettacolo milanese Marangoni, che di Grillo cura già l'attività, insieme a quella di altri come Piero Chiambretti, Stefano Benni e Renato Pozzetto. Alla voce Grillo la Marangoni ha messo in calendario per i prossimi mesi un nuovo tour, con fermate nei palasport delle principali città d’Italia.
   Del resto l’idea di tornare nei teatri e nei palazzetti, dove si muove come a casa sua, Grillo l’ha accarezzata continuamente in questi ultimi mesi. Non ne ha mai fatto mistero né con gli amici né con i collaboratori: “O vinciamo o torno a lavorare e continuate senza di me”, ha ripetuto spesso, parlando della politica come una parentesi. Lunga, ma pur sempre una parentesi. Ora, però, la scommessa appare doppia. Perché intanto riprende il suo lavoro di comico, che non ha mai rinnegato. E torna a incassare. Come disse un produttore, Michele Torpedine, al Fatto due mesi fa, “Grillo è uno che vale quanto Ligabue, in questo momento, quasi 4 milioni l’anno, a fare un conto a occhio e croce”.
   CHI È VICINO AL suo staff assicura infatti che Grillo non ha alcuna intenzione di mollare il Movimento proprio alla vigilia delle Europee di maggio. L'idea è invece quella di lavorare su due fronti, quello dello show a pagamento da una parte, e quello della campagna elettorale dall'altra. Sperando che uno possa dare la spinta all'altro. Le incognite di certo non mancano. L’ultima tournée del comico è stata quella dello spettacolo “Beppe Grillo is back”. Era il 2011 e i numeri non furono quelli da record degli show precedenti. Il vero bagno di folla gliel'ha regalato due anni dopo la politica, con quello Tsunami tour che nel 2013 lo ha portato su e giù all'ombra dei campanili e dei comuni di tutt’Italia, da Bergamo e Catania. Davanti a piazze stracolme Grillo parlava di politica, voti e apriscatole. Ma di ticket d’ingresso non c'era nemmeno l’ombra.

La Stampa 19.1.14
Gli accusati sempre sereni
di Lorenzo Mondo


«Sono sereno» afferma l’esponente politico, il pubblico funzionario, il «grand commis», l’imprenditore che ha ricevuto dai magistrati un avviso di garanzia per episodi di varia, assortita corruzione. «Sono sereno», qualcuno si azzarda a dire, anche quando gli tocca un rinvio a giudizio. Una frase che, declinata paritariamente al maschile e al femminile, viene proferita con esibita risolutezza. L’aggettivo è così inflazionato che finisce per assumere proporzioni comiche e diventerà, c’è da crederlo, un contrassegno della moritura Seconda Repubblica.
Sul fenomeno potranno esercitarsi con profitto, oltre ai politologi, gli antropologi e gli studiosi del linguaggio. Ovviamente, all’inflazione della parola si accompagna quella dei comportamenti scorretti o criminosi che vengono perseguiti dalla magistratura. Certo, decrittando l’espressione, occorre tenere conto delle reazioni di persone oneste (ne esistono) contro i pregiudizi dei cittadini nei confronti delle «caste» e contro i possibili eccessi dei «giustizieri». Ma le asserzioni autoassolutorie risultano per lo più confutate da inesorabili dati di fatto.
Stupisce, in ogni caso, il ricorso degli imputati a una espressione stereotipa e stucchevole, come se ubbidissero a uno smarrito passaparola. «Sereno» potrebbe essere sostituito da «tranquillo», «fiducioso» e analoghe formulazioni. Ma sembra quasi che, trovandosi in difficoltà, si cerchi conforto in un linguaggio sperimentato e condiviso. Sereno, inoltre, si dice abitualmente di un cielo limpido, senza nubi o foschie. E qualche turbamento, qualche nubecola, dovrebbe pure inquietare chi deve difendersi da gravi accuse. Ci si aspetterebbe piuttosto un moto, anche verbale, di indignazione, di rauco, aspro rigetto. Assistiamo invece al dilagare di una presunta serenità, che da quelle persone eminenti pretenderebbe magari di estendersi, rassicurante, all’intero paese. Frutto di una coscienza adamantina o della persuasione che tutto, alla fine, si aggiusterà? In base all’assioma che la somma di tanti colpevoli dà come risultato nessun colpevole?
Lasciamo perdere le osservazioni non impegnative di ordine linguistico e semantico. Atteniamoci a un dato certo e risolutivo: che tanta serenità non trova riscontro nell’animo della stragrande maggioranza dei cittadini, della gente comune. Ai molti assilli provocati dalla congiuntura economica si aggiunge in loro la delusione, la rabbia davanti alla smaccata negazione di ogni responsabilità. E queste sembrano aggravate dall’affermazione «sono sereno» quando occulti un sentimento mentito e abusivo.

La Stampa 19.1.14
“Sei mesi di terrore e isolamento”
Ecco le prigioni di Ablyazov
In cella in Francia con i detenuti più pericolosi.
L’avvocato: “Scene degne di un film”
di Francesco Grignetti

qui

il Fatto 19.1.14
Camilleri, Spinelli, Flores: “Candidiamo Tsipras”
di Carlo Di Foggia


APPELLO ALLA SOCIETÀ CIVILE DI SEI INTELLETTUALI IN VISTA DELLE ELEZIONI EUROPEE DI MAGGIO: UNA LISTA AUTONOMA CHE APPOGGI IL LEADER GRECO DI SYRIZA

Il “bivio”, come viene definito nell'appello, si manifesterà il 25 maggio prossimo, data delle elezioni europee che potrebbero regalare il Parlamento più euroescettico della storia. Ma anche un'occasione per portare in Europa una ricetta alternativa alla cura letale imposta dall'austerità. Una via terza rispetto anche a “chi considera morto il progetto unitario”, suicidatosi con la moneta unica e che in Italia passi attraverso una lista autonoma. É il senso dell'appello promosso da intellettuali del calibro di Andrea Camilleri, Barbara Spinelli, Paolo Flores d'Arcais, Luciano Gallino, Marco Revelli e Guido Viale, che chiedono la costituzione di una lista da presentare alle europee, rivolta a esponenti di comitati, associazioni, movimenti e organismi della società civile.
   TUTTO RUOTA attorno alla figura di Alexis Tsipras, il leader del partito di estrema sinistra greco Syriza, che alle ultime elezioni elleniche sembrava incarnare il nemico numero uno della stabilità europea. La lista appoggerà la sua candidatura alla presidenza della Commissione Ue avanzata dal Partito della sinistra europea. Le nuove regole decise a Bruxelles, infatti, impongono ai partiti europei, che raggruppano le formazioni nazionali di una stessa area politica, di annunciare prima della chiamata alle urne la scelta per la guida dell'esecutivo comunitario. La figura di Tsipras ha un valore simbolico. Syriza è il partito di sinistra radicale di gran lunga più forte all'interno dell'Unione. “Il suo paese, la Grecia, è stato utilizzato come cavia durante la crisi ed è stato messo in ginocchio i promotori dell'appello – e in quanto tale è il nostro portabandiera”. L'obiettivo è un cambiamento che passi dall'interno, perchè “l'Europa deve restare l'orizzonte, altrimenti da soli gli Stati non ce la faranno”. Ma per continuare ad esserlo, bisogna superare una crisi che è politica prima che economica: “Deve divenire un'unione politica, con una nuova Costituzione, scritta dal Parlamento e non più dai governi. Solo così potrà darsi i mezzi per un Piano Marshall europeo che crei posti di lavoro, con piani d'investimento comuni che colmino il divario tra l'Europa che ce la fa e l'Europa che non ce la fa”, chiudendo definitivamente la fase dell'austerità. “La Banca centrale europa – si legge ancora nel documento – dovrà avere poteri simili a quelli esercitati dalla Federal Reserve americana, con poteri di prestatore di ultima istanza”.
   Un'adesione, quella al progetto di Tsipras, che nelle intenzioni dei promotori passa attraverso le idee più che la forma. La nuova lista, infatti, farà parte del gruppo parlamentare della Sinistra europea (Gue) ma sarà autonoma. Nessuno, vuole sentir parlare di partito. “Non dovrebbe essere una coalizione delle vecchie formazioni della sinistra radicale”, ha spiegato Barbara Spinelli in un'intervista al quotidiano Avgi, vicino a Syriza. Il motivo è semplice: “Non avrebbe alcuna possibilità di successo”.
   NEL DIRETTIVO della formazione europea, però, siede un'unica italiana, Rifondazione comunista, e il rapporto con i partiti della sinistra nostrana è uno dei nodi su cui si dovrà necessariamente confrontare il progetto. Su un punto però, i firmatari non lasciano margini di trattativa: “In lista potranno essere candidate persone con appartenenze politiche, purché non abbiano avuto incarichi elettivi e responsabilità di rilievo negli ultimi dieci anni”.
   All'appello hanno già aderito l’ex magistrato antimafia Antonio Ingroia insieme a Furio Colombo, Carlo Freccero e oltre cinquanta esponenti della società civile. Giovedì scorso, una delegazione dei promotori ha formalizzato la proposta al numero due di Syriza, il deputato Nikos Pappas, ricevendo un consenso informale. Il via libera ufficiale dovrà infatti essere approvato dalla direzione nazionale del partito greco. Solo allora il progetto prenderà forma. Le candidature dovranno essere selezionate attraverso un’ampia consultazione e approvate da un comitato nazionale, sotto la guida dei sei promotori che ricopriranno il ruolo di garanti e hanno già fatto sapere che non si candideranno. La nuova lista inoltre, specifica l’appello, “non si manterrà con i rimborsi elettorali”.

il Fatto 19.1.14
Incredibile a Seattle
Una marxista eletta in America
di Alessio Schiesari


L’insediamento di un nuovo consiglio comunale normalmente non richiama grandi folle. Martedì scorso, a Seattle, le cose sono andate diversamente. Davanti al palazzo del municipio si sono radunate più di mille persone. Il nuovo sindaco democratico Ed Murray ha provato a spostare la cerimonia nella sala dei ricevimenti, la più grande dell’edificio. Visto che anche questa non bastava, ha fatto aprire le porte del salone e centinaia di persone si sono assiepate nei corridoi. Il motivo di tanto interesse non era l’insediamento del primo sindaco gay della città, Murray appunto, ma il giuramento di Kshama Sawant, la prima consigliera comunale Usa eletta in una lista socialista da oltre un secolo.
Sawant è un’ingegnera informatica nata in India 40 anni fa. Poco più che ventenne si è trasferita negli States dove ha ottenuto la cittadinanza nel 2010. Si è unita al movimento Occupy e, nel 2012, è stata arrestata mentre tentava di bloccare uno sfratto. Al ballottaggio ha sconfitto Richard Conlin, un democratico in carica da 16 anni. È stata eletta nelle file di Socialist Alternative, un movimento marxista attivo in 15 città. Il repertorio politico è quello tipico dei gruppi radicali: movimentismo, diritti civili, anti proibizionismo e opposizione al capitalismo. “Ci ispiriamo a Marx, Engles, Trockij e Martin Luther King”, spiega Bryan Koulouris, uno degli organizzatori della campagna elettorale.
IL JOLLY PERÒ l’hanno pescato l’estate scorsa, quando hanno appoggiato le rivendicazioni dei lavoratori dei fast-food per l’aumento del salario minimo di 7,25 dollari l’ora. Il tema è entrato nel dibattito nazionale: anche Obama ha promesso di innalzarlo oltre 10 i dollari. Socialist alternative ha rilanciato, lanciando una campagna per portare la paga base a 15 dollari l’ora. Non solo: i suoi delegati si sono infiltrati nella grande distribuzione e hanno insegnato ai lavoratori di Walmart e McDonald’s a scioperare e difendersi dalle ritorsioni aziendali.
La strategia ha funzionato: gli scioperi sono in aumento e la campagna ha dato visibilità al movimento. Sawant ha completato l’opera promettendo di ridursi lo stipendio di consigliera da 120mila a 40mila dollari annui. Per diventare sindaco Murray ha dovuto rincorrere Socialist Alternative, promettendo di portare il salario minimo dei dipendenti comunali a 15 dollari, mentre a Minneapolis un altro candidato socialista ha perso il ballottaggio per soli 230 voti. “Ci stiamo preparando per altre elezioni locali a Chicago, New York e in California”, spiega un galvanizzato Koulouris. Anche se si tratta di seggi locali, è una piccola rivoluzione. Negli Usa, da un secolo, “socialista” è una parola usata in senso dispregiativo. Per questo Fox News di Murdoch, la tv ultra repubblicana, è l’emittente che la usa di più: 5 volte al giorno. Non è sempre stato così: il socialismo sbarca sulle coste americane a fine ‘800 insieme agli immigrati tedeschi ed ebrei. Nel 1897, Eugene Debs, un sindacalista figlio di due possidenti emigrati dalla Francia, fonda il Partito socialista americano. Padre padrone per oltre 20 anni, i maggiori successi del socialismo d’oltreoceano sono legati alla sua figura: alle presidenziali del 1912 ottiene 900 mila voti, superando il 6%. Nello stesso periodo, grandi città del Midwest come Minneapolis e Milwakee eleggono sindaci socialisti. Durante la grande guerra, Debs e altri 1500 militanti vengono arrestati per il loro boicottaggio al conflitto. Roosvelt e il suo New Deal vengono accusati dai repubblicani di rifarsi a idee marxiste, e rubano ai socialisti ogni spazio politico. Durante il maccartismo, i socialisti scompaiono: nel ’56 il loro candidato presidenziale ottiene 2121 voti. Da allora, i pochissimi socialisti che sono stati eletti l’hanno fatto presentandosi come indipendenti o progressisti.

Repubblica 19.1.14
l ritorno dell’Afrika Korps la Merkel manda le truppe in Mali
Sarà la prima missione dalla disfatta di Rommel ad El Alamein
di Andrea Tarquini


BERLINO — L’Afrika Korps è pronto a rinascere, ma sotto un segno opposto a quello di Rommel: in nome dell’Europa, delle sue missioni di pace e dei suoi interessi nel continente nero. E soprattutto, in nome dell’imperativo strategico di Angela Merkel: sostenere la Francia con un grande gesto simbolico. Anche in armi, tanto più dopo la promessa svolta riformista in politica economica da parte di François Hollande. Soldati tedeschi e aerei da trasporto Transall della Luftwaffe potrebbero entrare in azione nelle prossime settimane o mesi nel Mali e nella Repubblica centroafricana, i due paesi subsahariani dove Parigi finora ha affrontato da sola guerriglie e terrorismi integralisti.
«L’Europa non può lasciare la Francia sola in Africa», ha detto ieri il ministro degli Esteri, Frank-Walter Steinmeier. E nel pomeriggio ha avuto un primo consulto telefonico col capo della diplomazia francese Laurent Fabius, che incontrerà martedì. «Gli interessi dell’Europa intera - ha aggiunto - sono in gioco quando nell’Africa nera e subsahariana agiscono le minacce di instabilità, terrorismo e deportazioni».
Lo svolta era stata preannunciata da uno scoop della Sueddeutsche
Zeitung, confermato in sostanza dal ministro. Sarà la prima missione militare comune a due di Berlino e Parigi, e in assoluto il primo intervento tedesco in Africa dopo che la “Volpe del deserto” incassò da Montgomery la disfatta di El Alamein. I piani per accogliere le richieste francesi sono stati illustrati in circolo ristretto prima dal capo di Stato maggiore interforze generale Volker Wieker, poi in modo più preciso dal capo di stato maggiore della Bundeswehr e responsabile delle forze di pronto intervento Hans-Werner Fritz. Un segnale politico di Angela Merkel, vitale per l’Eliseo in un momento difficile su più fronti, dalla svolta moderata in economia, al caso di Julie Gayet, fino alle difficoltà militari appunto in Africa.
Credo, ha detto il generale Fritz, «che l’Africa, e soprattutto l’Africa del Nord e centrale, ci darà da fare nei prossimi anni». Prossimi anni, o piuttosto prossimi giorni: il piano prevede di mobilitare la brigata congiunta franco-tedesca, impiegandola per la prima volta in un’azione militare congiunta, esterna all’Europa. La situazione in Mali, ha aggiunto il numero uno della Bundeswehr, «davvero non appare stabilizzata», e le forze armate tedesche «continueranno a dare il loro contributo per consolidare gli equilibri attuali». Un eufemismo, per annunciare in realtà, sottolinea la Sueddeutsche, un impegno militare di ben altra natura rispetto agli aiuti all’addestramento ealla logistica delle forze governativelocali. Duramente criticata da Parigi e Londra per il suo disimpegno totale nella guerra contro Gheddafi, Angela Merkel ha voluto cambiare strada. L’Afrika Korps franco-tedesco e anti-integralisti farà uscire Parigi dal carattere finora solitario delle sue missioni.
Le decisioni potrebbero essere adottate già oggi a livello europeo a Bruxelles, poi confermate nel dettaglio il 19 febbraio prossimo dal Consiglio di difesa bilaterale franco-tedesco.

La Stampa 19.1.14
Ecco le donne-bodyguard,
l’ultima moda dei ricchi cinesi
Per la sicurezza i miliardari scelgono le ragazze: “Danno meno nell’occhio”
Boom di campi di addestramento tra corse nel fango e nuotate al gelo
di Enrico Caporale

qui

La Stampa 19.1.14
Il Bob Dylan di Tiananmen censurato ancora una volta
Creò la “colonna sonora” dei moti del 1989
di Ilaria Maria Sala

qui

Repubblica 19.1.14
Polonia, Europa senza euro
di Lucio Caracciolo


Per capire l’eurocrisi conviene studiarla dalla Polonia. Un Paese di quasi 40 milioni di abitanti, alla frontiera orientale della Nato e dell’Ue, integrato nel sistema economico tedesco senza condividerne la moneta. In vent’anni, i polacchi hanno prodotto un miracolo: il reddito medio pro capite è passato da un quarto alla metà di quello tedesco; il tasso di crescita è stato mediamente di tre punti più alto che in Germania; solo l’economia della Polonia, fra quelle europee, ha evitato la recessione prodotta dalla crisi mondiale del 2007-2009, continuando a crescere, sia pure di poco, mentre l’Eurozona sprofondava. Chiunque percorra le vie di Varsavia e delle principali città polacche, ricordando come fossero alla fine dell’era comunista, resta colpito dal senso di relativo benessere, di vitalità e di efficienza.
Insieme alle privatizzazioni, al buon uso dei fondi di coesione europei, alla stabilità politica e macroeconomica con conseguente incentivo agli investimenti esteri, non c’è dubbio che la disponibilità di una moneta nazionale — dunque di un tasso di cambio flessibile — abbia alquanto contribuito al miracolo. Ora che sperimentano i limiti della crescita, stimata sotto il punto percentuale nel 2013, e mentre il tasso di occupazione resta piuttosto basso, i polacchi guardano alla prospettiva dell’integrazione nell’area dell’euro con crescente scetticismo.
I sondaggi indicano una netta maggioranza contraria all’ingresso nell’Eurozona. Il governo guidato dal moderato, prudentissimo Donald Tusk cerca di schivare il dibattito, mentre l’opposizione di destra, nazionalista con accenti xenofobi, dipingel’Eurozona a tinte fosche. Lo sfogo di Angela Merkel durante il vertice europeo del 19 dicembre — «presto o tardi, l’euro esploderà, senza la coesione necessaria» — eccita a Varsavia il timore che abbandonando la propria moneta il paese possa finire nell’occhio del ciclone, in un’Eurozona a rischio disintegrazione. I sondaggi sembrano indicare che alle elezioni europee di primavera e soprattutto alle politiche del 2015 Tusk possa essere battuto dalla destra di Diritto e Giustizia, guidata da Jaroslaw Kacziñski, il quale usa la paura dell’euro per dipingere l’Unione Europea come una minaccia alla sovranità e all’identità nazionale.
Il successo di Kacziñski nei sondaggi è alimentato dalla “religione di Smolensk”, la leggenda secondo cui la sciagura aerea nella quale perse la vita il presidente conservatore Lech Kacziñski, gemello di Jaroslaw, sia stata frutto di un complotto ordito da Putin e Tusk. Teoria sostenuta dai settori più xenofobi della Polonia profonda, soprattutto dalla Chiesa locale, refrattaria al verbo di Francesco (tanto da censurarne alcuni discorsi).
«Vogliamo portare Budapest a Varsavia», affermano diversi esponenti dell’ultradestra polacca, come se l’Ungheria di Orbán possa costituire un antidoto all’Europa, che «priva i polacchi di beni, dignità e lavoro» per aggiogarli a una «dominazione straniera». Quando facciamo un bilancio dell’eurocrisi, non è dunque solo alle performance economiche che bisogna guardare, ma soprattutto alla rivincita degli egoismi xenofobi. Il laboratorio polacco, in bilico fra successo europeo e ritorno al passato, ci dirà molto su noi stessi.

La Stampa 19.1.14
Altro raid israeliano a Gaza, un morto
“In bilico la tregua siglata con Hamas”

qui

La Stampa 19.1.14
Gaza e Ramallah, i due volti inconciliabili della Palestina
I carretti trainati dagli asini a Gaza e le auto coreane nel centro di Ramallah
Mentre nella Striscia dominano povertà, disoccupazione e arretratezza, la città della Cisgiordania continua a crescere
Ma per Abu Mazen non mancano i grattacapi: dai difficili negoziati con Israele alle infiltrazioni jihadiste
di Maurizio Molinari

qui


il Fatto 19.1.14
L’escluso Moni Ovadia
“Ora la comunità ebraica deve scindersi: troppe differenze”
di Roberta Zunini


“Sì”. Moni Ovadia appoggia senza alcuna esitazione quanto affermato da Gad Lerner sul suo blog, cioè la necessità di una scissione dalla Comunità da parte degli ebrei democratici e progressisti. “È arrivato il momento di separarci e formare una comunità di ebrei tolleranti, perché ciò che è accaduto questa settimana nel ghetto ebraico di Roma mostra il livello non più sostenibile di fascismo o, se preferite, stalinismo, a cui gran parte della Comunità romana è arrivata” spiega con tono amareggiato e indignato lo scrittore e attore di origine ebraica. La settimana era iniziata con un grave episodio di violenza fisica nei confronti di alcuni ragazzi, rei di aver strappato un manifesto di ringraziamento al defunto Sharon, affisso nel cuore del ghetto. Alle telecamere del fattoquotidiano.it , i ragazzi avevano infatti dichiarato che “subito dopo si sono materializzate 15 persone con mazze da baseball e martelli, alcuni con la kippah sul capo, e hanno iniziato a pestarci, urlando che non saremmo usciti vivi”.
Il secondo episodio riguarda invece la presentazione del libro Sinistra e Israele in una sala della comunità, martedì scorso. Siccome uno dei relatori, Giorgio Gomel, aveva dichiarato di non condividere l’atteggiamento dei coloni israeliani nei Territori palestinesi e di non considerarli fratelli, ha trovato ad accoglierlo uno striscione con la scritta “Torna a Gaza, Giorgio” e una settantina di persone che gli hanno impedito di parlare contestandolo aspramente; tanto che lui e Tobia Zevi, l'altro relatore, sono dovuti uscire scortati dal servizio d’ordine. “Cosa dobbiamo aspettare ancora - si chiede Ovadia -, è evidente che la Comunità è animata da persone che non sanno cosa significhi essere democratici. Del resto sostengono, senza alcuna capacità o volontà critica, l’attuale governo di estrema destra israeliano.
O forse appoggiano qualsiasi governo israeliano perché difendono l’esistenza di Israele?
Intanto ribadisco che non bisogna confondere il sionismo con l'ebraismo. Loro difendono i governi israeliani ultranazionalisti, intolleranti e violenti nei confronti dei palestinesi e degli ebrei che non la pensano come loro. Si tratta della stessa tipologia di persone che detestava e detesta Rabin e lo scherniva ritraendolo con la svastica al braccio e la kefiah in testa. Sono quegli ebrei che hanno scritto un altro striscione contro di me e Giorgio in cui si leggeva “Ogni ebreo è mio fratello, Moni Ovadia e Giorgio Gomel no”. Ma io, al contrario di loro, accetto ogni critica e insulto, però voglio almeno poter dissentire da questa deriva senza essere minacciato o additato come nemico del popolo ebraico.
Intende dire che se lei è animato dalla massima di Voltaire “Disapprovo quello che dite, ma difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo” e vorrebbe che anche gli altri la rispettassero?
Vorrei che si facesse una riflessione su cosa significhi essere democratici, su cosa significhi essere animati davvero dai precetti biblici basati sulla tolleranza e il rispetto del prossimo. Vorrei che tutti potessimo confrontarci senza essere accusati di tradire la nostra identità solo perché la pensiamo diversamente. Non è più così invece, qui c'è gente che pensa di avere la verità in tasca e chi ha idee diverse è da ostracizzare, come è successo a me nella comunità milanese e come è successo a Gomel in quella romana.
Perché si è arrivati a questo livello di intimidazioni?
Perché si è confuso il mantenimento dell'identità ebraica con il nazionalismo, che è un coltello piantato nella schiena dei popoli o l’ultima spiaggia dei farabutti, come ha detto Samuel Johnson. Pensano che essere ebrei significhi agire come Netanyahu in Israele. Queste persone confondono l’identità ebraica con l’oppressione e il bavaglio.
Su quali pilastri dovrebbe poggiare la Comunità degli “ebrei democratici o progressisti”?
Prima di tutto, in quanto uomini, la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo; come ebrei, la Torah e il Talmud; come italiani, la Costituzione.
Cosa ha impedito finora la scissione, visto che se ne parla da qualche tempo?
Ci sono molte remore perché si pensa che dividersi possa indebolirci. Io invece penso il contrario a questo punto: rimanere in questa situazione significa tradire l'ebraismo. A questo proposito sottolineo che a volerci tutti assieme, in una comunità, furono i fascisti della prima ora. Durante i primi anni del Ventennio, è ora di ribadirlo, gran parte del notabilato ebraico italiano era fascista.

Corriere 19.1.14
L’ingiusto
Il rabbino di Terezin che fece il patto con il diavolo
Nel campo era conosciuto come un personaggio malvagio ma lui si considerava un chirurgo che non doveva piangere sul paziente
Bisognava per forza prostituirsi per rendere migliore la vita
di Bernardo Valli


L’ultimo degli ingiusti ha trattato col diavolo. Era un ebreo e per sette anni ha avuto rapporti con Eichmann sterminatore degli ebrei. Era un personaggio non comune. Il suo nome era Benjamin Murmelstein. Rabbino, grande studioso della mitologia, colto, superintelligente, ironico, divertente, luminoso. Così me lo descrive Claude Lanzmann, che incontro nel suo appartamento, vicino al cimitero di Montparnasse. Lui, Lanzmann, l’autore di
il film destinato a durare come la grande opera sul massacro degli ebrei, difende Murmelstein, non lo giudica come altri un rinnegato, lo considera un uomo sincero che ha salvato decine di migliaia di ebrei. Centoventimila in Austria. Alla domanda se collaborare col diavolo non ponga un problema morale, Lanzmann risponde che dipende dalle circostanze e dagli uomini: e Murmelstein era di una perfetta onestà, era astuto, inventivo, coraggioso, si può dire eroico. Questo è il giudizio dominante nel suo film (
sta una questione scottante: la capacità dell’uomo di agire secondo quel che ritiene il suo dovere, la sua etica, al di là delle evidenti e insidiose contraddizioni, anche filosofiche. In concreto, si doveva accettare o ci si poteva piegare perché costretti al non nobile ruolo di guardiano di un campo nazista, e poi tentare di alleviare la sofferenza delle vittime.
Tanti sono i giudizi opposti a quelli di Lanzmann. Nel mezzo degli anni Ottanta, quando Benjamin Murmelstein morì, il grande rabbino rifiutò di recitare il la preghiera per i defunti, e gli negò la sepoltura accanto alla moglie nel cimitero ebraico di Roma. Né in vita gli è stato riconosciuto il diritto all’aliya, cioè quello di emigrare nello Stato di Israele, riservato a tutti gli ebrei. Lo storico e filosofo Gershom Scholem voleva che venisse impiccato. Claude Lanzmann, storico della tragedia del suo popolo, invece lo riabilita.
Per lui l’ultimo degli ingiusti era in verità un giusto. Crede nell’innocenza di Benjamin Murmelstein, il reietto, rifiutato dai suoi. Ne fa un ritratto rispettoso nel suo film—romanzo, sfidando la condanna abbattutasi sui Consigli ebraici(judenrat) ritenuti collaboratori dei nazisti, di cui Benjamin Murmelstein faceva parte, e di cui è stato il presidente a Theresienstadt.
Claude Lanzmann ha uno scatto di collera quando definisco documentario le tre ore e quaranta minuti di immagini che raccontano la vicenda di Murmelstein, mostrano un lungo colloquio con lui, e riesumano Theresienstadt, il ghetto cecoslovacco dove lui operò negli ultimi mesi. Non gli va che si consideri la sua opera un documento. Il suo è un film autentico. Un grande film. È vero. Ha ragione. Mi mostra con orgoglio la lettera di complimenti scrittagli da Steven Spielberg — «...il tuo film mi ha tolto il respiro...» — con cui si era scontrato ai tempi di Schindler’s List.Quello di Lanzmann è un grande film e un terribile romanzo di una realtà dasvelare, da capire, contro tutti i pregiudizi. Per Lanzmann non ci sono stati collaborazionisti ebrei per motivi ideologici, ma soltanto perché obbligati a esserlo. Con intelligenza, e anche con furbizia e audacia, nella sua posizione di «decano degli ebrei», come veniva chiamato in quanto mediatore tra carnefici e vittime, Murmelstein ha cercato, appunto, di alleviare la tragedia, nei limiti della sua condizione. Con l’autorità di storico della Shoah, Lanzmann gli riconosce questo merito, che altri ancora gli negano, continuando a considerarlo un “ingiusto”, un essere iniquo.
L’uomo è gonfio in viso. È marcato dalle nevrosi. Ma sa essere ironico. Acuto. A volte tenero. Vulnerabile. È nel 1975 che Claude Lanzmann filma il lungo colloquio con Murmelstein su una terrazza affacciata sui tetti di Roma, dove vive quasi nella miseria. Ma l’ha già incontrato prima, nel ’73, all’Hotel Nazionale. Non è stato facile far parlare quel personaggio braccato dai severi giudizi dei suoi. Chiedo a Lanzmann perché abbia tardato tanto a rendere pubblica la lunga intervista e a prendere posizione in favore di quell’“ingiusto”, escluso dalla comunità. La risposta è che Shoah(1985) era un film epico, il cui tema era la morte, e non poteva integrare la fragile figura di Murmelstein, personaggio tutt’altro che epico. Per Isaac Bashevis Singer, nei campi nazisti c’erano dei martiri e i martiri non sono sempre santi. Le vittime avevano tanti ruoli e innumerevoli comportamenti.
Il campo di Terezin (Theresienstadt in tedesco) è a una cinquantina di chilometri da Praga. Era una caserma per sei-settemila soldati in cui sono stati poi rinchiusi almeno cinquantamila ebrei alla volta, e in cui ne sono passati almeno centoquarantamila dal novembre del 1941 alla primavera del 1945. Era un campo-ghetto famoso perché un film di propaganda nazista dal titoloIl Führer regala un villaggio agli ebrei mostrava una città esemplare, quasi da villeggiatura, dove c’erano cinema, palestre, sale da gioco e da conferenza, e dove gli abitanti potevano stampare giornali, disegnare e dipingere, e persino prendere il sole quando appariva nel grigio cielo mitteleuropeo. Erano immagini che dovevano far credere ai deportati che a Est, dove erano diretti, li attendeva una vita piacevole, e al mondo che i tedeschi trattavano con generosità gli ebrei strappati alle loro case. Nel giugno ’44 un inviato del Comitato internazionale della Croce Rossa visitò quel luogo “idilliaco” senza accorgersi che dietro le facciate gli abitanti con la stella gialla morivano di stenti e di maltrattamenti, e molti di loro erano diretti in campi di sterminio come Auschwitz.
Tre rabbini, «decani degli ebrei», si sono succeduti alla direzione del ghetto modello. Erano ovviamente designati dai nazisti e nel quadro dei Consigli ebraici avevano il compito di organizzare la comunità nei limiti consentiti. I due rabbini che hanno preceduto Benjamin Murmelstein hanno conosciuto una fine brutale. Jacob Edelstein fu arrestato nel ’43 e deportato a Auschwitz e là assassinato; Paul Eppstein fu ucciso con un colpo alla nuca il 27 settembre ’44 a Theresienstadt. Ed è allora che Murmelstein ha assunto l’incarico e si è rivelato il più abile. È sopravvissuto fino alla liberazione, quando pur possedendo un passaporto della Croce Rossa non è fuggito, anzi ha atteso di essere giudicato, dopo un anno di prigione, da un tribunale cecoslovacco. Il quale lo ha assolto dalle accuse dei reduci di Theresienstadt che lo indicavano come un solerte collaboratore dei nazisti e responsabile di avere contribuito a compilare le liste di chi doveva essere trasferito in altri campi dove la morte era sicura. Anche se lui non lo sapeva.
Nel 1961 Murmelstein ha scritto in italiano un libro (Terezin, il ghetto modello
di Eichmann, ripubblicato lo scorso anno dalla casa editrice La Scuola) nel quale si difende dalle accuse: ha salvato molte vite consentendo agli ebrei austriaci di emigrare in Inghilterra, in Spagna, in Portogallo; ha prolungato l’esistenza di Therensienstadt, dove poteva agire per migliorare la vita dei prigionieri; non ha fatto liste per deportare la gente in campi della morte; e si dilunga nel dimostrare la buona fede nel cercare di rendere l’esistenza dei deportati meno terribile di quel che sarebbe stata senza di lui. Si riteneva inoltre depositario di una missione: raccontare le giornate nel ghetto (come accade inMille e una notte) per farne conoscere le abiezioni.
Murmelstein non manca di humor. La paura l’ha accompagnato per sette anni, dal 1938, anno dell’invasione nazista dell’Austria, dove viveva, fino al 1945. Ma non doveva mostrarla, e dunque cercava di vivere quella situazione con spirito d’avventura. La conoscenza di Eichmann, a Vienna, subito dopo l’Anschluss, aveva fatto di lui una specie di “re degli ebrei”, cosi lo chiamavano per scherno, ma anche con una certa considerazione, alcuni tedeschi.
Murmelstein insegna a Eichmann la storia dell’emigrazione ebraica e il singolare allievo gli dimostra riconoscenza. Ad esempio lo fa sedere al suo stesso tavolo. Ordina addirittura a un Ss di portargli una seggiola. Fatto eccezionale perché un ebreo doveva stare in piedi immobile, sull’attenti. Quell’episodio della seggiola conterà ancora dopo anni. L’Ss che l’aveva portata a Murmelstein per ordine di Eichmann diventerà il responsabile di Theresienstadt nel ’44 e non dimenticherà che quell’ebreo doveva essere trattato con riguardo, se a Vienna aveva potuto sedersi al tavolo del suo superiore. Murmelstein ironizza su quel tremendo e grottesco passato. La sua nomina a presidente del Consiglio ebraico fu in parte dovuta a quella seggiola.
Il suo rapporto con Eichmann l’ha favorito ma ha creato attorno a lui anche la forte diffidenza dei deportati. Li faceva lavorare per settanta ore la settimana al fine di mantenere pulito il campo ed evitare le epidemie. Riconosce di essere stato odiato. Doveva far evacuare chi aveva malattie contagiose, e la destinazione era facilmente immaginabile. Era conosciuto come un personaggio malvagio e pronto ad alzare la voce per farsi ubbidire. Ma lui si considerava «un chirurgo che non doveva piangere sul paziente». Il suo compito era quello di Sancho Panza, che apre gli occhi a Don Chisciotte. Bisognava agire tenendo conto della cruda realtà, quindi anche prostituirsi per rendere migliore la vita a Theresienstadt. Dietro le lenti da miope traspare il tragico sguardo di chi ha dovuto amministrare l’orrore organizzato dai nazisti e si trincera dietro una malizia a tratti macabra.
Quella di Lanzmann non è soltanto l’assoluzione elargita con generosità aun uomo condannato dalla propria comunità. Non è l’audace riclassamento di un parìa. È un viaggio nel cuore di tenebra, dove ci si imbatte anche nelle «selvagge contraddizioni» di Murmelstein. Quando lavorava per realizzare il lungo film sulla Shoah, Lanzmann si è reso conto, dice lui stesso, che la questione dei Consigli ebraici non poteva essere trascurata. Gli uomini che ne facevano parte erano per lui accusati ingiustamente di collaborazionismo. Quando seppe che Leib Garfunkel, numero due del consiglio di Koyno (un campo che Murmelstein contribuì a organizzare) stava per morire, Lanzmann corse a Gerusalemme. Scoprì un personaggio «adorable», ma ormai agonizzante. La sua voce era fioca, incomprensibile. E alloraha inseguito Murmelstein a Roma.
L’azione di Lanzmann, e in particolare adesso il suo filmL’ultimo degli ingiusti, è in aperta polemica con Hannah Arendt. La filosofa tedesco-americana ha scritto nel 1961, durante il processo di Eichmann, che il criminale nazista rappresentava «la banalità del male». Rifacendosi alla testimonianza di Murmelstein, Lanzmann definisce vergognose le parole di Hannah Arendt. Al contrario di quel che afferma, Eichmann non era un uomo qualsiasi, un funzionario ubbidiente, e quindi un personaggio banale. Murmelstein lo conosceva bene e lo giudicava un demone e un corrotto, responsabile delle proprie azioni. Nella Notte dei Cristalli, a Vienna (10 novembre 1938), pistola alla mano dirigeva l’operazione contro gli ebrei e i loro beni. Quel giorno Murmelstein lo vide di persona. Hannah Arendt considerò in tutti i modi giusta l’esecuzione di quel personaggio che riteneva banale. Ma a lei non viene perdonato neppure l’accusa rivolta ai Consigli ebraici di avere favorito la soluzione finale collaborando con i nazisti. La testimonianza di Murmelstein è, per Lanzmann, la prova del contrario. A suo modo anche lui fu una vittima.

il Fatto 19.1.14
Gherardo Colombo
“Io, le inchieste e la paura di finire con un colpo in testa”
La P2, Mani Pulite passando per gli anni di piombo. “Gli italiani? Più sudditi che cittadini”
“Quando potevo finire con un colpo in testa”
di Silvia Truzzi

  
Milano “La prima giustizia è la coscienza”, dice Jean Valjean, travestito da monsieur Madeleine, ne I miserabili di Victor Hugo. E si rivolge a Javert, l'ispettore che incarna la giustizia cieca, testarda e inesorabile. Una prospettiva che è stata spesso l'orizzonte prevalente del dibattito, nel Paese dove da vent'anni si farnetica di una supposta guerra tra politica e magistratura: il futuro della giustizia resta un perno centrale nella vita democratica. E dunque anche della salute dell'Italia: siamo venuti a parlarne con Gherardo Colombo, ex magistrato, scrittore, presidente di Garzanti e membro del Cda della Rai. Sta lavorando – spiega mentre tenta di salvare una pantofola dalle fauci di Luce, Golden Retriever di sette mesi – a uno spettacolo tratto da Imparare la libertà, il potere dei genitori come leva di democrazia, manuale per educare senza punire, scritto a quattro mani con Elena Passerini. Il debutto è previsto per il 24 febbraio a Roma. Sul palco, con Colombo nei panni del professore, ci saranno anche Piotta, il bidello, e due studenti: Sara Colombo, figlia di Gherardo, e Cosimo Damiano D'Amati che è anche il regista.
Dottor Colombo, quando si parla di rapporti tra giustizia e politica, l’obiezione prevalente è che la magistratura si sostituisce alla politica. Nel caso della Consulta sul Porcellum è stato fatto di tutto per evitare la sostituzione, eppure il legislatore è rimasto a guardare nonostante i numerosi moniti e del Colle.
I giudici – di qualunque grado e tipo – hanno il compito di rispondere alle domande che vengono loro rivolte. È stata sollevata, non a torto, una questione di legittimità sulla normativa elettorale: la Corte ha risposto. A Torino la domanda di chiarimento al Tar sulla validità delle elezioni regionali è stata avanzata da uno degli attori politici. Se coloro che esercitano la funzione politica fossero capaci di risolvere le questioni all'interno della propria funzione, la magistratura non dovrebbe intervenire! Esiste, però, un problema di tempi: in queste materie in particolare, le questioni dovrebbero essere risolte in qualche mese, non in qualche anno. Anche se i motivi, molto frequentemente, non possono essere addebitati ai giudici.
L’etica è stata “ristretta” al diritto penale: d’accordo?
Questo è il problema. Non esiste più la responsabilità politica, disciplinare o amministrativa. Tutto va a finire nel processo penale. L’idea che si ha è che tutto quello che non è vietato dalla norma penale va bene. Ma la verifica penale dovrebbe essere l’extrema ratio, arrivare per ultima. E forse, aggiungo, non è la più indicata a risolvere le questioni, perché come effetto ha una sanzione, non l'identificazione di un rimedio che valga in casi analoghi per il futuro.
Nella Prima Repubblica non era così. O era un po’ meno così: non sarà mica “colpa” di Mani Pulite?
Durante la Prima Repubblica molte cose accadevano nell'ombra. Non farei un'apologia di quegli anni: non dimentichiamo la P2, la stagione delle stragi, da piazza Fontana a piazza della Loggia, da Peteano all’Italicus. E poi c'erano meccanismi di autoconservazione del potere estremamente collaudati ed efficienti. Io credo che l'emersione di Tangentopoli sia strettamente connessa alla caduta del Muro di Berlino. L'Italia era un Paese di confine, in cui si era arrivati a un equilibrio basato su “stanze di compensazione”: il potere si salvaguardava nel suo complesso. Cade il Muro di Berlino e finisce quella contrapposizione – da una parte il mondo occidentale, dall'altra l'Unione Sovietica – in cui entrambi i blocchi avevano un interesse forte sul nostro Paese: perciò la violazione delle norme sul finanziamento ai partiti era ampiamente praticata. L’equilibrio salta, e allora per una piccola finestra temporale, abbiamo potuto indagare in un modo impensabile fino a poco prima, perché in un modo o in un altro succedeva qualche cosa che bloccava le indagini. Torno alle inchieste sulle stragi: quale incredibile serie di trasferimenti ha dovuto subire il processo per piazza Fontana! L’ostacolo alle indagini era quasi la prassi, a volte anche con il coinvolgimento della magistratura: è stata la magistratura a fare in modo che il processo di piazza Fontana andasse in giro per l'Italia fino a morire. Anche senza voler pensare alla malafede, i fatti sono questi. Così è successo per la P2, per i fondi neri dell'Iri: se i processi fossero rimasti a Milano, gli esiti sarebbero stati senz'altro diversi.
Il Tribunale di Milano era diverso?
Milano, negli anni delle stragi, della P2 e dei fondi neri Iri rappresentava una delle non frequenti eccezioni rispetto al pensiero corrente in magistratura secondo cui il potere era esonerato dalla verifica giurisdizionale. Se veniva alla luce qualcosa che riguardava persone che gestivano il potere e iniziavano le indagini, nel giro di poco tempo tutto si bloccava. La stragrande maggioranza dei giudici del Dopoguerra si era formata sotto il Fascismo. E quindi, l'atteggiamento era quello al quale si era stati abituati dal regime: in certi cassetti non si guarda. Con il tempo progressivamente le cose cambiano. Viene istituita la Corte costituzionale e questa estromette dall'ordinamento tante norme risalenti a prima della Costituzione; nasce il Csm e si compie un importante passo verso l'indipendenza della magistratura stessa dagli altri poteri dello Stato; c'è un progressivo ricambio generazionale, perché via via che il tempo passa i magistrati che si erano formati sotto il Fascismo vanno in pensione. Torniamo a Mani Pulite: io sono entrato nell'inchiesta – su richiesta reiterata dei dirigenti del mio ufficio, Francesco Saverio Borrelli e Gerardo D'Ambrosio – nell'aprile del ‘92, due mesi dopo che Di Pietro aveva cominciato le indagini.
A luglio di quell'anno lei rilasciò la famosa intervista a Leo Sisti sull’Espresso, in cui proponeva di risolvere la questione evitando la prigione a chi confessava e restituiva il maltolto allontanandosi per un po’ dalla vita pubblica. Lo pensa ancora?
Avevo intuito che quella giudiziaria era una strada senza sbocco. La corruzione era davvero un sistema e sarebbe stato – come in effetti è accaduto – impossibile scoprire e gestire tutto. Non ci sono stime certe, ma il circa il 40% dei processi si è risolto con la prescrizione. Anche oggi penso che la soluzione non poteva essere giudiziaria, che sarebbe stato necessario investire molto a livello educativo.
E la P2?
Il 19 marzo 1980, Prima linea ammazza Guido Galli, di cui ero collega all'Ufficio istruzione. Lo racconto perché in qualche modo c'è un collegamento con l'assegnazione dei processi che riguardano Sindona a Giuliano Turone e a me. Uccidono Guido, dopo aver assassinato un altro collega a Salerno e uno a Roma, e l'Ufficio istruzione di Milano rischia di dissolversi: tanti chiedono e ottengono di essere trasferiti, come volessero scappare. Milano negli anni Ottanta, alle dieci di sera e nei weekend, era deserta: io andavo in giro in moto, quando mi fermavo al semaforo e qualcuno attraversava la strada dietro di me, mi aspettavo un colpo in testa. Avevo paura, avevamo tutti paura, ma in un po’ siamo rimasti. Essendo tra quelli che sono rimasti, i vari processi su Sindona furono assegnati a Giuliano, Gianni Galati e a me. Indagando su Sindona, scopriamo che Joseph Miceli Crimi, il medico che aveva organizzato il viaggio clandestino di Sindona a Palermo subito dopo l'omicidio di Giorgio Ambrosoli e lo nascondeva in quella città, aveva incontrato ad Arezzo Licio Gelli più volte nello stesso periodo. Poiché Gelli già compariva a più riprese nelle indagini, abbiamo deciso di perquisire i luoghi che frequentava, tra i quali la Lebol – a Castiglion Fibocchi – di cui era dirigente. Era il 17 marzo 1981, ero in ufficio con Giuliano, ed eravamo piuttosto scettici sull’esito dell'operazione. A metà mattina il telefono squilla: è il colonnello Bianchi, che avevamo mandato con i suoi uomini della Guardia di Finanza da Milano a eseguire le perquisizioni, imponendogli di non prendere contatto con i colleghi del luogo perché fosse mantenuta la massima segretezza. Ci racconta che sono stati trovati documenti di rilievo eccezionale aggiungendo, stupefatto, che il comandante generale della Guardia di Finanza lo aveva contattato, dicendogli che nelle liste avrebbe trovato anche il suo nome...
... e non era il solo nome eccellente...
La mattina dopo arrivano le carte, una cosa strabiliante. Ministri, sottosegretari, parlamentari, generali dei Carabinieri, dell'Esercito, della Finanza, il capo del Sismi, il capo del Sisde; i nomi di quelli che avevano depistato le stragi. C’era il nome di Sindona, il nome del generale Massera, coinvolto nel colpo di Stato in Argentina di pochi anni prima. C’erano i nomi di magistrati, imprenditori, giornalisti e via dicendo. Ritenendo necessario che i vertici delle istituzioni venissero informati della gravità della situazione, dopo aver tentato invano di contattare il presidente della Repubblica Pertini che era in viaggio istituzionale in Sudamerica, fummo ricevuti dal presidente del Consiglio Forlani, il 25 marzo. Ad aprirci la porta di Palazzo Chigi fu il prefetto Semprini, che figurava nell'elenco degli iscritti alla P2. Forlani minimizzava, ma alla fine riconobbe la gravità della situazione.
Pressioni?
Pressioni direi di no, ma il procuratore della Repubblica di Milano, Gresti, ci chiese di restituire le carte a Gelli! Intanto la Commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Sindona, presieduta da Francesco De Martino, chiede copia delle carte. In Parlamento cominciano a piovere le interrogazioni: Forlani risponde in aula martedì 19 maggio. La nostra sensazione – ascoltavamo la seduta parlamentare da Radio Radicale – è che il capo del governo volesse scaricare su di noi la responsabilità della pubblicazione delle liste. Circolavano, messe in giro ad arte, un sacco di voci sugli iscritti alla P2. Con il consigliere istruttore Amati, che era il nostro dirigente, Turone e io scriviamo una lettera in cui diciamo che ritenevamo coperti da segreto istruttorio i verbali delle deposizioni rilasciate dai testimoni che stavano sfilando davanti a noi, ma non il restante materiale. De Martino annuncia che la Commissione Sindona avrebbe provveduto comunque a rendere pubbliche le liste e dunque Forlani decide di farlo lui stesso: una settimana dopo cade il governo.
E le famose buste sigillate?
Erano circa 35, più o meno ognuna conteneva una notizia di reato. Le accenno al contenuto di due, giusto per capirci. Parlano di un conto, “Protezione”, presso la banca Ubs di Lugano, con riferimenti all’onorevole Claudio Martelli, e di versamenti per milioni di dollari a favore di Bettino Craxi. Oltre alle buste, in una Banca di Castiglion Fibocchi, trovammo le prove del pagamento delle quote d'iscrizione alla P2. Tutti erano disorientati. Allora l'idea era che i magistrati rispondessero a qualcuno in sede politica.
Quest'idea è rimasta: hanno annullato le elezioni in Piemonte e il segretario della Lega Salvini ha dato la colpa alla magistratura comunista. È un ritornello che abbiamo sentito in tutto il ventennio berlusconiano.
Certo, in modo strumentale. Allora invece era spesso vero che i magistrati rispondessero a qualcuno riservatamente in sede politica! C’è chi dice che secondo il manuale Cencelli la poltrona di Procuratore della Repubblica di Roma valesse quanto un ministero. I politici impazzivano, perché non erano in grado di attribuirci un’appartenenza. Non sapendo per conto di chi lavoravamo non sapevano con chi lamentarsi, o a chi rivolgersi per fermarci o per trattare. Non pensavano che fossimo veramente indipendenti! Sta di fatto però che nel giro di meno di sei mesi la Procura di Roma ha sollevato conflitto di competenza, la Cassazione le ha dato ragione, le carte sono trasmigrate a Roma e le indagini di maggior rilievo sono state subito archiviate.
E per Mani Pulite, pressioni?
Io posso parlare per me: mai nessuna. Se c’è stato qualche tentativo di avvicinamento, è stato subito bloccato. Borrelli è stato fondamentale per garantire la nostra piena autonomia.
In questo pregiudizio sulla scarsa indipendenza della magistratura dalla politica quanto hanno pesato le correnti del Csm?
Sono stato iscritto a Md da quando sono entrato in magistratura fino a quando mi sono dimesso, ma – salvo un incarico giovanile locale – non ho mai ricoperto funzioni istituzionali.
Però lei è stato a lungo un simbolo di Magistratura democratica.
Non intendevo affatto negare l’appartenenza, solo specificare che ho fatto poca vita associativa. Finché non c'è stato il Csm, le funzioni venivano svolte per un verso dal ministero e per l’altro dalla Cassazione: organi entrambi, allora, molto sensibili al potere. All’inizio degli anni Cinquanta, chi faceva il giudice in Cassazione si era formato in una società organizzata da regole che, per esempio, vietavano il voto alle donne, stabilivano discriminazioni all'interno della famiglia, consideravano reato l’adulterio femminile ma non quello maschile. C'era chi aveva sviluppato un pensiero alternativo, ma la massa era piuttosto allineata. La Costituzione, in conseguenza, veniva considerata più come un complesso di affermazioni programmatiche che non la legge fondamentale della Repubblica. Le correnti arrivano dopo: originariamente le posizioni erano perlopiù molto conservatrici, ed era quasi sovversivo allora essere in sintonia con la Costituzione. Magistratura democratica nasce nel 1964 e progressivamente nasce il paradosso dei magistrati politicizzati.
Si è sentito spesso dire che Md è stata ispiratrice di molte indagini delle toghe rosse.
Una cosa che posso dirle per certo è che io non sono stato mai “ispirato” da nessuno. Le indagini sono “ispirate” dalle notizie di reato. Piuttosto credo che queste affermazioni siano spesso volte a distogliere l’interesse dal merito delle indagini e dei processi. Per sapere se un’indagine è giustificata occorre leggere le motivazioni delle sentenze, cosa che credo avvenga davvero molto raramente.
Altro però è la gestione del potere all'interno della magistratura, per esempio la questione della spartizione degli incarichi tra le correnti.
Non c’è dubbio. Qui penso che ci siano problemi. È una questione culturale, che riguarda in generale il Paese. La competenza ha perso significato e valore, e a volte vale di più l’appartenenza rispetto alla capacità e alla preparazione. Temo che anche la magistratura si sia adeguata alla tendenza generale qualche volta, e che taluni incarichi siano stati assegnati attraverso accordi tra le correnti basati, appunto, sulle appartenenze.
I magistrati fanno carriera in base all'anzianità di servizio.
Il problema è più generale, riguarda la gestione dell’autonomia della magistratura. Le sembra logico che i criteri di scelta del dirigente di un ufficio siano, appunto, l’anzianità o se va bene, la bravura nello scrivere sentenze o nel dirigere le indagini? Il capo di un ufficio deve essere in grado di organizzare. Per dire, la Procura di una grande città, come Milano o Roma, è costituita, tra magistrati, polizia giudiziaria, cancellieri, personale amministrativo da circa un migliaio di persone.
Si parla di riforma della giustizia da sempre: da più parti s’invoca come risolutiva la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante.
Non credo che aver fatto lo stesso concorso di un pm pregiudichi la terzietà di un giudice. Tanto è vero che accade non di rado che le richieste della Procura siano rigettate dai giudici. Supponiamo che sia vero che l’appartenenza alla stessa categoria crea un rischio parzialità: non sarebbe allora assai più drammatica la comunanza tra giudici di primo grado, Appello e Cassazione? Il giudice dovrebbe sempre comportarsi in modo da comunicare, anche all'esterno, un'immagine di indipendenza. A volte non è così, ma la separazione delle carriere non c'entra nulla: esistono già norme, sul passaggio tra ruoli, a tutela dell'imparzialità. La partecipazione alla stessa carriera serviva soprattutto a trasmettere al pubblico ministero la cultura della giurisdizione. Invece succede che il pm, per come la funzione è rappresentata dai media, è sempre più spesso identificato come l'accusa. Cioè qualcuno che ha come interesse la condanna, e non invece la corretta ricostruzione dei fatti.
Come è possibile che sia così poco percepito il rischio di una magistratura inquirente dipendente dal potere esecutivo, soprattutto in un Paese come l’Italia?
Questo è un passo ulteriore: una volta separate le carriere, allora sarebbe possibile sottoporre la funzione inquirente all'esecutivo. Sarebbe tragico. Anche se forse a tanti italiani, che mi pare abbiano ancora la mentalità del suddito piuttosto che quella del cittadino, forse non dispiacerebbe.
Per via di questa mentalità ha lasciato la magistratura per andare a insegnare la Costituzione nelle scuole?
Sì, anche ai bimbi piccoli. Capiscono molto più di quanto gli adulti vogliono credere e hanno una gran voglia di coinvolgimento, spesso frustrata da una scuola che, pur con eccezioni significative, tende più all’omologazione dei ragazzi che alla promozione della loro libertà responsabile.
Le esperienze politiche di ex magistrati o magistrati in aspettativa hanno suscitato molte critiche. Lei che pensa al riguardo?
La Costituzione prevede per tutti il diritto di elettorato attivo e passivo. Credo allo stesso tempo che il principio della divisione dei poteri sia fondamentale, da un punto di vista formale e sostanziale, per cui dal mio punto di vista non guasterebbe se chi volesse dedicarsi alla politica si desse la regola di dimettersi dalla magistratura e di lasciar passare del tempo, due-tre anni, tra un’esperienza e l'altra.
Nino Di Matteo è stato più che minacciato, è stato oggetto addirittura di un ordine di esecuzione da parte di Totò Riina, nel silenzio assoluto delle istituzioni.
In Italia, come in nessun altro Paese democratico, sono stati uccisi tanti magistrati. Quando ad ammazzare è stata la criminalità organizzata, le vittime erano spesso persone rimaste isolate: Falcone per esempio ha subito un progressivo isolamento. Sarebbe più che opportuno, anzi direi necessario e doveroso, che le istituzioni facessero sentire la loro vicinanza a Di Matteo. Anche con gesti simbolici, come la presenza fisica (una visita a Palermo, un convegno organizzato lì), ma che mi pare siano molto rari. Le persone che sono oggetto di quelli che a volte sembrano atti preparatori a un omicidio, dovrebbero essere il più possibile protette e garantite. Deve essere chiaro da che parte sta lo Stato.
In questo caso c’è un cortocircuito: nel processo sulla Trattativa, lo Stato è dalla parte sbagliata, quella degli imputati.
Per quel che ne so nessuno tra coloro che ora ricoprono cariche istituzionali è indagato in quel processo.
C’è stata però la questione della distruzione delle conversazioni tra il presidente della Repubblica e Nicola Mancino.
Mi pare che quella fosse una questione processuale e non andrebbe confusa con le più generali vicende delle minacce a Nino De Matteo.
Lei è anche consigliere del Cda della Rai, ormai al giro di boa di metà mandato. Bilancio?
Questa è un’altra, lunga, intervista: bisognerebbe parlare di leggi, procedure, competenze, delle difficoltà nell’esercitare le funzioni. E tanto altro...

Corriere La Lettura 19.1.14
Dopo la mamma tigre, ecco il gruppo tigre
Amy Chua, autrice del bestseller sulle madri cinesi, scrive un saggio sul successo negli Usa di otto aggregazioni etnico-culturali, dai mormoni ai nigeriani
E ritornano le critiche
di Guido Santevecchi


Cinesi, esiliati cubani, nigeriani, indiani, ebrei, iraniani, libanesi, mormoni: che cosa hanno in comune questi gruppi culturali che popolano gli Stati Uniti d’America? «A dispetto delle idee sull’eguaglianza, alcuni fanno meglio di altri. Come i mormoni, che hanno un successo sbalorditivo negli affari, o i cubani di Miami che in una generazione sono passati dalla povertà al benessere. O i nigeriani che si guadagnano dottorati con voti altissimi. O indiani e cinesi d’America che hanno un reddito superiore a quello degli altri americani. O gli ebrei, che forse hanno il reddito più alto di tutti». E chi ha fatto la scoperta? Ma naturalmente Amy Chua, professoressa di Yale con un debole per il complesso di superiorità e che ora ha annunciato il suo nuovo libro: The Triple Package , in uscita a febbraio.
L’avevamo lasciata tre anni fa, alle prese con due figlie adolescenti, la sua carriera di docente di diritto in una delle più prestigiose università del mondo, un trionfo (e una polemica) globalizzata per un testo dal titolo Perché le madri cinesi sono superiori , subito seguito dal bestseller Il ruggito della mamma tigre (pubblicato in Italia da Sperling & Kupfer). Amy Chua spiegava alle madri d’Occidente come preparare i figli ad avere successo nella vita, come evitare di essere deboli e troppo protettive. Metodo orientale, perché Chua, classe 1962, viene da una famiglia di immigrati cinesi trapiantati nel Midwest e perché le statistiche internazionali classificano gli studenti cinesi come i migliori (almeno per i test scolastici).

Qualche esempio della strategia della mamma tigre: una delle sue bambine, Lulu e Sophia, tornò a casa con un bel voto in un compito di matematica, ma non il migliore della classe, era seconda dietro una compagnetta di origine coreana. La signora Chua non ebbe dubbi, bisognava intervenire con una bella cura di ripetizioni: ordinò di risolvere duemila problemi di matematica per notte fino a quando non conquistò il rango di prima della classe. In un’altra situazione la mamma, delusa dai progressi troppo lenti con le lezioni di piano, minacciò l’altra figlia di bruciarle tutti gli animaletti di pelouche se non fosse riuscita subito a eseguire alla perfezione un brano complicato. Risultato assicurato: una sfilza di A in pagella.
Seguirono milioni di copie vendute e un’infinità di critiche, insulti e anche qualche minaccia di morte via email. Betty Ming Liu, insegnante di giornalismo alla New York University sostenne che «genitori come Amy Chua sono la causa per la quale molti americani di origine asiatica, come me, finiscono in terapia». La saggista Ayelet Waldman rispose sul «Wall Street Journal» con un intervento — In difesa delle mamme occidentali colpevoli, ambivalenti e preoccupate — nel quale tirava fuori un dato terribile sulle ragazze americane di origine asiatica: tra i 15 e i 24 anni c’è un tasso di suicidi superiore alla media. I più moderati la accusarono di sfruttare le paure dell’Occidente nei confronti dell’ascesa cinese come superpotenza mercantile. David Brooks, editorialista del «New York Times», osservò che Chua giocava con il timore americano di declino nazionale, lo spettro del Nuovo Secolo Cinese. Quanto al mito della mamma tigre , Brooks aveva una tesi opposta: Amy Chua non era troppo dura, quasi una parodia di Crudelia Demon, ma addirittura iperprotettiva, perché quando alla quattordicenne Lulu veniva proibito di andare a dormire a casa della compagna del cuore — per non perdere quattro ore filate di esercizi musicali — la si privava di un confronto emotivamente molto più impegnativo. Insomma, i ruggiti che impongono ai figli di correre a casa a fare i compiti da soli, sarebbero un modo di ritirarli dalle esperienze della vita di relazione, che possono lasciare qualche ferita. Conclusione: «Amy Chua in realtà è una pappamolle».

Ora la professoressa ripete l’operazione e, dai genitori tigre, passa ai «gruppi culturali» con artigli capaci di afferrare il successo. Questa volta Amy Chua non si presenta da sola ma con il marito Jed Rubenfeld, anche lui docente di Yale. The Triple Package è il bagaglio di tre caratteristiche che portano all’ascesa sociale: il complesso di superiorità, l’insicurezza, il controllo dell’impulso. La coppia spiega che agli americani viene insegnato come nessun gruppo sia superiore agli altri, sotto nessun punto di vista. «Ma poi, tutti i gruppi di successo credono — senza dirlo ad alta voce — di essere eccezionali, scelti, superiori». Simile il ragionamento per la seconda qualità fondamentale, l’insicurezza: «Chi si sente insicuro e inadeguato cerca di mettersi alla prova e riesce». Completa il pacchetto del perfetto gruppo tigre il controllo dell’impulso, che si riferisce alla «capacità di resistere alla tentazione, specialmente quella di arrendersi di fronte alla difficoltà della prova o di accontentarsi della prima gratificazione, di vivere al momento».
Può sembrare banale, sebbene la coppia fornisca una serie di dati a sostegno della tesi sulla supremazia degli otto gruppi — dai cinesi che hanno figli primi della classe ai nigeriani, passando per i mormoni re del business e della politica. Ma le prime reazioni sono state feroci. «Salon», influente sito web, ha scritto che Chua e Rubenfeld «propongono una spregevole teoria sulla superiorità razziale». Il «New York Post» avverte che la coppia non usa mai i termini ethnic o racial , ma poi lancia l’anatema: «Dopo averci detto che le madri cinesi sono le migliori e preparano i figli all’ascesa inarrestabile della Cina, non sorprende che ora Chua torni con una tesi ancora più incendiaria, regolata sull’ansia profonda per la situazione economica, sulla paura collettiva che la classe media americana stia per scomparire, sulla convinzione sbagliata che la riforma dell’immigrazione si tradurrà in minori opportunità per gli americani. In conclusione: questo libro vuole spaventare la gente, proprio come fanno i razzisti».
Finora, il commento migliore che abbiamo trovato su The Triple Package è questo: «Ricco di dati statistici e provocatorio». È riapparsa anche Ayelet Waldman, che ha usato la nuova arma del disprezzo sociale, Twitter: «Amy Chua esce con il volume 2 di “Scriverò qualcosa di pazzo perché voi compriate il mio libro e mi rendiate ricca”». In materia, la recensione di «Forbes», che di successo economico se ne intende, comincia con: «Predizione: il nuovo libro di Amy Chua non venderà bene come l’altro».
Lei, la professoressa della mamma tigre e ora del gruppo culturale tigre ha confessato di avere un punto debole: «Non sono brava a godermi la vita». E Sophia, la figlia maggiore rieducata al primato con duemila problemi di matematica, è ad Harvard, dove si era laureata la madre. Ha un blog «New tiger in town», dove scrive: «Grecia antica o civiltà romana? Dico romana, mi piace l’aspetto imperiale, la promessa di cittadinanza in cambio di servizio».

Corriere La Lettura 19.1.14
I giovani ricchi americani malati di affluenza
Un giudice perdona un ragazzo ubriaco che ha ucciso quattro persone
La sua patologia fonde i termini influenza e «affluence» (opulenza)
Disturbo inventato? Sentenza classista?
di Massimo Gaggi


Dopo aver rubato una cassa di lattine di birra ed essersi ubriacato, Ethan Couch, rampollo di una ricca famiglia del Texas, si è messo al volante di un potente pick up, ne ha perso il controllo e ha fatto una strage: quattro morti e nove feriti, falciati dal suo camioncino alla periferia di Fort Worth. Al processo il pubblico ministero ha chiesto una condanna a vent’anni di reclusione (riformatorio e poi carcere, una volta divenuto maggiorenne), ma la difesa ha mandato avanti uno psicologo, Gary Miller, che è riuscito a convincere il giudice che tutto quello di cui Ethan ha bisogno è un buon periodo di rieducazione: niente prigione ma dieci anni di libertà vigilata e uno di cure intensive.
Casi simili si sono visti anche in Italia. E anche da noi il guidatore stragista — magari drogato e senza patente, oltre che ubriaco — può restare in carcere ben poco. Ma in America, dove i reati vengono puniti con una severità molto maggiore anche senza premeditazione, il caso ha provocato enorme scalpore, specie per gli argomenti usati dallo psicologo della difesa. Secondo il quale Ethan ha agito sotto l’effetto di una particolare patologia, denominata affluenza che colpisce chi, divenuto improvvisamente ricco, non sa come gestire questo suo nuovo stato e le enormi tentazioni che ne derivano.
I più vulnerabili a questa patologia — definita con una parola che fonde i termini affluence (opulenza) e influenza per la quale la lingua inglese adotta il termine italiano — sono ovviamente i giovani: inesperti, con pochi freni inibitori. E i figli dei ricchi, con un più facile accesso a droghe e alcol e alla guida di auto velocissime, sono esposti a tentazioni e rischi che chi viene da famiglie con minori disponibilità economiche non conosce.
Il giudice Jean Hudson Boyd ha accettato in gran parte la linea della difesa e, pur respingendo la tesi della non responsabilità di Ethan per incapacità di intendere, gli ha evitato la prigione condannandolo a un periodo di sorveglianza a piede libero e a un anno di terapia. Una sentenza che ha provocato dibattiti furiosi caratterizzati anche da un capovolgimento delle posizioni tradizionali: stavolta, anziché i conservatori fautori della «punizione esemplare», gli indignati sono i progressisti, che in genere alla repressione preferiscono la rieducazione. Ma qui si ha la sensazione di essere davanti a una sentenza classista: affluenza è una patologia presunta, una malattia non riconosciuta dalla scienza medica, che colpisce solo i ricchi e che solo per loro funziona da attenuante. I figli dei poveri che uccidono ubriachi continuano a finire in galera senza poter accampare giustificazioni. Una differenza di trattamento che diventa addirittura scandalosa se si va a vedere il tipo di terapia accettato dal giudice: Ethan Couch è stato condannato a vivere per un anno in una struttura di riabilitazione in California che offre tra l’altro terapia equina (lunghe cavalcate), scuola di cucina e lezioni di arti marziali. Un anno di cure in un centro che somiglia più a un resort che a un riformatorio, per le quali il padre di Ethan, un industriale siderurgico, alla fine salderà un conto di 450 mila dollari, circa 350 mila euro.

Ce n’era abbastanza per sollevare un’ondata di indignazione popolare che, nelle settimane scorse, è stata alimentata dal popolare anchorman della Cnn, Anderson Cooper, e da The View , uno dei più seguiti talk show della rete Abc. Ma quando la polvere delle polemiche si è depositata, è iniziato un dibattito più serio tra psicologi, sociologi e perfino storici. Con uno studioso di Oxford, James McAuley, che in un editoriale pubblicato sul «New York Times» ha tirato fuori addirittura la progressiva autosegregazione dei ricchi del Texas in comunità chiuse — isole di shopping center e country club in mezzo al nulla — per giustificare la perdita del senso della realtà dei figli dei ricchi. Mentre su «Forbes» Gregory McNeal, un giurista, spiega che l’affluenza non è una malattia nel senso clinico del termine, ma piuttosto un disturbo della sfera emotiva, un’alterazione prodotta da un eccesso di materialismo e consumismo unito a carenze nell’educazione familiare: genitori che non hanno mai seguito i figli, ragazzi che non hanno mai imparato che le loro azioni hanno conseguenze perché non sono mai stati sanzionati per i loro comportamenti negativi.
Sul banco degli imputati soprattutto quei genitori della upper middle class che non solo trascurano i figli e non li educano ai principi della disciplina ma spesso — nota Suniya Luthar, docente di psicologia alla Arizona State University — reagiscono con irritazione e proteste quando altri, in genere i professori a scuola, provano a subentrare in questa funzione educatrice. Ma per molti giorni nella discussione che ha tenuto banco in America, più che degli errori dei genitori, si è discusso della giusta punizione da infliggere ai figli viziati, con il web intasato da messaggi del tipo «una sana povertà in carcere è la terapia migliore per guarire dall’affluenza». Poi è iniziata una riflessione più pacata. «Quello delle sperequazioni di trattamento da parte del sistema giudiziario è un problema annoso», ha scritto sull’«Huffington Post» Maia Szalavitz, una neuroscienziata prestata al giornalismo. «Il fatto che i comportamenti di alcuni ragazzi siano stati alterati dai privilegi non giustifica, ovviamente, la concessione di altri privilegi, né l’idea che la ricchezza produce di per sé comportamenti antisociali». Ma esaminando quello di Ethan Couch e altri casi simili è difficile sottrarsi alla sensazione che se i genitori non avessero trascurato i loro ragazzi e avessero punito i loro primi comportamenti sbagliati anziché chiudere un occhio per senso di colpa, quei crimini non sarebbero mai stati commessi. Non per questo i figli dei ricchi vanno oggi perdonati: la Szalavitz non chiede assoluzioni, ma un’analisi più approfondita di meccanismi decisionali e dinamiche sociali che alimentano le tempeste dell’affluenza così come uno studio dei motivi per i quali in molte società, come quella americana, c’è la tendenza a punire i poveri con più durezza.

Ma sulla stessa Cnn il criminologo Danny Cevallos scende in campo per sostenere la necessità di tenere conto del fattore affluenza nonostante l’indignazione di Anderson Cooper e di tanti altri per il caso Couch: non è una vera patologia riconosciuta dalla società degli psicologi, d’accordo, ma è una condizione che influenza i comportamenti umani e quindi andrebbe riconosciuta come attenuante. Un ragazzo non adeguatamente educato e con molti soldi in tasca è molto più esposto al rischio di procurarsi facilmente droghe e alcol o di guidare in modo sconsiderato una vettura troppo potente. Un rischio del quale non tener conto perché lo corrono solo i ricchi?
Cevallos dissente: «Molti sostengono che solo la classe lavoratrice e i poveri possono accampare, per giustificare i loro atti illegali, situazioni di svantaggio mentale o ambientale: a mio avviso è inaccettabile. La verità è che alle nostre società non piacciono i ragazzi viziati, soprattutto quando sprecano opportunità che gli altri non hanno o abusano del benessere familiare. È comprensibile, ma anche questi ragazzi, come gli altri, sono incapaci di comportamenti pienamente responsabili, anche la loro corteccia cerebrale frontale è ancora priva delle aree e delle interconnessioni che danno spessore ed equilibrio ai giudizi, alle motivazioni, ai processi decisionali».
E, allora, via libera agli studi sull’affluenza il cui simbolo più estremo oggi sembra essere il Leonardo DiCaprio di The Wolf of Wall Street travolto dai suoi eccessi lungo la catena droga-sesso-truffe-spese folli. Affluenza che, del resto, è oggetto di analisi sociologica già da molti anni: scandagliata nei saggi dell’economista Thomas Naylor e del documentarista John de Graaf e in quello degli australiani Clive Hamilton e Richard Dennis. Risale addirittura alla metà degli anni Novanta del secolo scorso il viaggio dello psicologo inglese Oliver James attraverso le città più ricche del pianeta — da New York a Shanghai a Singapore — per studiare il virus dell’affluenza e i modi per rafforzare il sistema immunitario emotivo dell’uomo. Una sindrome da prendere con le molle e che fa storcere il naso ai progressisti. Ma a riconoscere l’affluenza (definita una febbre del lusso che mina il sistema immunitario delle famiglie) è stata, in un articolo scritto dieci anni fa per la rivista giuridica della Washington University, addirittura Elizabeth Warren: l’accademica divenuta senatore democratico del Massachusetts che i radicali della sinistra liberal vorrebbero candidata alla Casa Bianca al posto di Hillary Clinton.

Corriere La Lettura 19.1.14
Facebook. Segnali di declino culturale
Fine della privacy : la grande beffa di Zuckerberg
di Antonio Casilli

qui

Corriere La Lettura 19.1.14
Lo insegna Platone: l’ amicizia si dimostra e non si dichiara
Un rapporto che vive soltanto nella diversità
di Umberto Curi


Basta un click. In un social network come Facebook, per «aggiungere» qualcuno alla propria lista di amici (o, all’opposto, per «rimuoverlo») è sufficiente posizionare il mouse su un’apposita casella e dare l’impulso. Tutto qui. Senza bisogno di convenevoli o complicazioni. Senza essere costretti a guadagnarsi l’affetto o la stima dell’altro, e senza neppure fornire spiegazioni ove si preferisca rifiutare o cancellare l’amicizia. Basta un click. Ma se si esce dalla rete, e si interrogano alcuni autori della tradizione filosofica occidentale, è facile scoprire che il tema è molto meno semplice, oltre che certamente meno banale.
Nell’Etica Nicomachea (libro VIII, capitolo 3), Aristotele sottolinea con molto rigore le differenze riscontrabili tra varie forme di amicizia. Non è «vera» amicizia né quella che corrisponde all’utile di uno, o di entrambi i contraenti, né quella che è fondata sul piacere. Autentica è solo quella che, svincolata da ogni altra motivazione in qualche modo estrinseca, trovi la propria ragion d’essere in se stessa, e si sviluppi inoltre sul comune presupposto della virtù dei contraenti.
Radicalmente diversa l’impostazione conferita al problema da Nietzsche, proiettato a superare ogni approccio genericamente «sentimentale», e ogni visione artificialmente edulcorata, per approdare a quella nozione di «amicizia stellare», che si imporrà quale punto di riferimento per il dibattito teorico del Novecento. L’amicizia non è definita per «prossimità», né è riconducibile ai motivi che ricorrono nella precedente tradizione speculativa. Il fondamento dell’amicizia va individuato nella differenza: «Esiste verosimilmente un’immensa invisibile curva e orbita siderale, in cui le nostre diverse vie e mete potrebbero essere intese quali esigui tratti di strada… E così vogliamo credere alla nostra amicizia stellare, anche se dovessimo essere terrestri nemici l’un l’altro». Fra gli aspetti più innovativi dell’impostazione nietzscheana, vi è il riconoscimento di una connessione, che potrà apparire sorprendente o paradossale, e che invece è decisiva. Sia pure soltanto attraverso un accenno, l’autore dello Zarathustra infatti istituisce una stretta connessione fra amicizia (stellare) e inimicizia (terrena), fra amicizia e ostilità. Con ciò alludendo ad una questione di grande rilievo, sulla quale si ritornerà più ampiamente di qui a poco.

Memore del monito nietzscheano — «Amici, non vi sono amici» — Jacques Derrida prende le mosse da una riflessione sui modelli di amicizia elaborati nel mondo greco e nella modernità, e dunque dalla nozione classica di philia e dall’ideale della fratellanza universale, per sottolineare che, pur in maniera diversa, entrambi intendono il legame dell’amicizia come un vincolo, come una costrizione. Tutto ciò è confermato, secondo il pensatore francese, dal fatto che l’amicizia è concepita non come unione fra due incommensurabili, ma come relazione fra ciò che si tende a rendere simile, sicché l’amicizia viene ad essere principalmente fondata sulla cancellazione delle differenze, anziché sulla loro valorizzazione. Emerge, per questa via, l’affiatamento fra il modo di concepire l’amicizia e un contesto più generale, dominato dalla logica dello scambio fra equivalenti, dalla simmetria fra debito e credito, al punto che la stessa amicizia è considerata un rapporto suscettibile di misurazione, riconducibile dunque ad una formulazione quantitativa. Sovvertendo ciò che accomuna il classico e il moderno, Derrida propone invece di intendere l’amicizia come ciò che non solo non cancella l’estraneità, ma che salda soggetti che sono in qualche modo estranei: «La dissimmetria infinita è la condizione di un’amicizia senza condizione, che a sua volta è l’unica forma di relazione perché senza alcuna comunanza. Tutto il resto è scambio e debito» (Politiche dell’amicizia ).
Insomma, bisogna avere la forza di costruire l’amicizia sulla dissomiglianza, sull’asimmetria, sulle differenze, valorizzando al massimo (e non deprimendo) le differenze e dunque esaltando la diversità: «Non si dispone del bene dell’amicizia, ma ci si attrezza ad offrirlo». Non è vero, allora, che l’amicizia consista nel fare «uno» di «due» soggetti. Al contrario, non è vera amicizia, se non quella che tiene aperta, e anzi enfatizza la «duità»: il rispetto delle differenze, la valorizzazione della dissimmetria. La lezione nietzscheana ricompare qui da un lato come reciso superamento dell’accezione classica, aristotelico-ciceroniana, di amicizia, e dall’altro come riabilitazione del nesso che intercorre fra amicizia e ostilità.
Sia pure indirettamente, l’approccio derridiano lascia intravedere un aspetto dell’amicizia abitualmente ignorato, su cui indugia invece Carl Schmitt. Per dirla in estrema sintesi: se sono «amico» di qualcuno, per ciò stesso non posso che essere nemico di un altro. E viceversa. Non si può essere «amici», se non nel concreto di una relazione che ha, per così dire, due facce: da un lato quella dell’unione, e dall’altro quella della disconnessione. La fratellanza universale è dunque un’utopia, o un abbaglio, perché tende a rimuovere il principio di individuazione dell’amicizia — l’essere con qualcuno, perché si è contro qualche altro. Con l’aggiunta che questa relazione è comunque sempre reversibile, nel senso che il nemico può convertirsi in amico e viceversa.
Nella prospettiva che si è fin qui delineata, assume allora un significato molto più definito la concezione platonica dell’amicizia, quale viene formulata soprattutto nell’epilogo del dialogo intitolato Liside , là dove il filosofo sembra arrendersi («non so più cosa dire») di fronte alla difficoltà di indicare una definizione univoca dell’amicizia. Non si tratta semplicemente di una dichiarazione di afasia. Da un lato, infatti, resta inevasa la domanda sul ti esti , sul «che cos’è», riferito all’amicizia. Ma dall’altro lato ciò non può cancellare l’esistenza effettiva di una relazione di amicizia.
In termini forse ancor più radicali, di quanto non sosterranno Nietzsche e Derrida, anche Platone dunque respinge ogni tentativo di far corrispondere l’amicizia ad una «cosa» di cui si possa parlare. Ma nel contempo, questo limite intrinseco al logos non occulta una situazione di fatto, nella quale e per la quale si può riconoscere in atto la presenza dell’amicizia. E forse è questo l’implicito contesto di pensiero per il quale si è soliti affermare che l’amicizia autentica non si dichiara, ma si dimostra. Perché non vi sono parole che ci permettano di definirla. Mentre noi comunque siamo amici — ma per ciò stesso anche nemici — in rapporto ad altri.

Repubblica 19.1.14
Chiara Frugoni
La storica del Medioevo si racconta tra ricordi, ricerca e dolori privati
“Studio San Francesco e ho portato il cilicio ma le suore sono state la mia scuola di ateismo”
intervista di Antonio Gnoli


Da quale angolo o buco del Medioevo è balzata fuori questa donna insieme affabile e intelligente, la cui lieve rassegnazione, in certi momenti della nostra conversazione, sfiora il martirio? Me lo chiedo dopo aver ascoltato il lungo racconto di Chiara Frugoni. Un sentimento di calma avvolge le sue parole e una distratta bellezza nutre il volto franco e dolce. Non c’è convenzionalità nei suoi pensieri che vivono, mi sembra, di una sottaciuta divergenza con la vita. Cosa li muove? Da quale fuoco arcano provengono? Una medievista di rango, apprezzata in tutto il mondo per i suoi studi su San Francesco, srotola il proprio tempo con la precisione di una miniatura, invitandoci a scendere fino al punto in cui felicità e infelicità si toccano in certi dettagli o strade aliene che lei ha percorso. A cominciare dall’infanzia, sulla quale la Frugoni ha recentemente scritto un libro (Perfino le stelle devono separarsi,Feltrinelli), carico di reticente commozione. È lì, in quel luogo irrisolto, che prende corpo qualcosa di strano e di doloroso: «Sì, la mia infanzia compendia la stranezza e il dolore, il sacrificio e la crudeltà. E forse questo piccolo libro, nel quale mi racconto grazie alle figure che hanno attraversato la mia prima vita, desidero pensarlo come una forma di congedo. L’ho scritto cercando una certa pace».
E l’ha trovata?
«La pace? Diciamo che ritornare sui luoghi della mia infanzia ha lenito la mia angoscia».
Quali luoghi?
«Solto, innanzitutto e poi Brescia. Tutto quello che mi è accaduto fino ai dieci anni si è svolto in quella cornice. Tra il paradiso e l’inferno».
Due mondi opposti, come li conciliava?
«Non c’era conciliazione tra le due “società”. Tra quella dei nonni materni, la parte ricca, e quella dei nonni paterni: povera, indigente, dignitosa. Le due famiglie non si sono mai toccate. Mai un abbraccio, una festa celebrata in comune. Mai niente che le mescolasse».
E lei come reagì?
«Con rassegnazione. Erano mondi codificati, difficili da aggredire o cambiare. Il babbo era a Roma per studio e lavoro. Con la mamma vivevamo in un bel palazzo nel centro di Brescia. Occupavamo una stanza come dei rifugiati. Il giorno a scuola dalle suore. La sera insieme a cena con i nonni. Di solito c’era il classico piatto di minestra. Finito il quale la mamma tirava fuori da un sacchetto una fetta di stracchino».
Come spiega tanta austerità?
«Era il loro tratto crudele. Ma anche il modo di interpretare un’idea di bene, tanto assurda quanto impervia. Il nonno materno, molto bigotto, diceva che sarei diventata una badessa».
E per questo la fece studiare dalla suore?
«L’intenzione fu quella. Ma mi trovai in una scuola assurda e folle».
Folle?
«Sì, quelle suore – ossessionate dal sesso e dalla vita – volevano che avessimo delle visioni. Ci dicevano che se non avessimo visto l’ostia animarsi saremmo state dannate. Passavo il mio tempo nella penitenza e nella preghiera. Portavo il cilicio a insaputa dei miei».
I suoi genitori non ne erano a conoscenza?
«No. Le suore non volevano che raccontassimo in famiglia ciò che accadeva a scuola. Ci minacciavano e al tempo stesso ci dicevano che eravamo delle elette. A sette anni conoscevo il significato del peccato mortale e veniale, cos’era sacrilego e cosa non lo fosse».
Che ordine era?
«Erano suore canossiane. Vivevo quel mondo con una profonda angoscia. Ricordo che un giorno giunsi sulla piazza del Duo-mo di Brescia. Completamente vuota. Alle due sarei dovuta rientrare a scuola. Ero sola con una cartella pesantissima e, in quel momento, pensai che la mia infanzia era finita».
Perché lo pensò?
«Perché sentii montare in me una disperazione fortissima e al tempo stesso un senso di ineluttabilità per ciò che stava accadendo».
Ma i suoi non ne ebbero la percezione?
«I bambini mascherano bene. Papà veniva a trovarci raramente. Raccontava di questi suoi interminabili viaggi in treno, in terza classe, da Roma a Brescia. Poi, finite le elementari, mia madre si ribellò e decise di avvicinarsi a Roma. Andammo a vivere a Ostia, dove le case d’inverno costavano pochissimo. Alla domenica il babbo ci portava in pineta o a vedere il mare. A me, che il mare lo vedevo tutto i giorni, sembrava una punizione».
Come erano i suoi genitori?
«Mia madre era una casalinga felice del suo mondo. Disprezzava cordialmente il lavoro intellettuale del babbo».
Suo padre è stato il grande Arsenio Frugoni, illustre medievista.
«Era un personaggio affascinante con un totale disprezzo per le cose. Da me, ma non da mio fratello, pretese la perfezione assoluta e ciò scatenò una certa insicurezza malgrado fossi la più brava a scuola. Poi mi iscrissi al liceo Virgilio. Fu un periodo felice. Papà lavorava alla Treccani. Sembravamo, improvvisamente, una famiglia normale. Quando arrivò l’università, ripresero le angosce. Pensavo di non farcela. Interruppi. Cercai un lavoro come commessa in un grande magazzino. I miei erano allibiti. Il babbo nel frattempo era diventato professore alla Normale di Pisa».
E lei riprese i suoi studi?
«Sì, provai ad entrare alla Normale. Ma ben presto capii che non potevo avvicinarmici».
Cosa lo impediva?
«Mio padre, cosa se no? Scrisse una lettera al direttore della Normale dicendo che ero inadatta alla ricerca. La verità è che non voleva che si pensasse che godessi di favori familiari. Terminai l’università a Roma e feci il concorso come bibliotecaria a Pisa. Lo vinsi. Una biblioteca magnifica, oggi diventata l’assurdo contenzioso di politici incapaci».
Descrive un padre terribile.
«Fu uno dei volti di quest’uomo».
Non teme che ne sia stata in qualche modo vittima?
«Forse sì. Mi ritenevo una ribelle perdente. Soggiogata dal suo fascino. Ricordo che solo dopo la sua morte ho cominciato a scrivere, a pubblicare e a insegnare».
Come è morto?
«In un incidente di macchina, nei pressi di Bolgheri. Morirono lui e mio fratello. La mamma restò a lungo in coma»
 Cosa accadde quando apprese la notizia?
«Fu tremendo. Mi precipitai all’ospedale. Arrivai che era pomeriggio. Feci le scale. Incrociai il primario di ortopedia. Gli chiesi notizie. Mi scrutò con fastidio: il vecchio è morto. Il giovane non passerà la notte, disse allontanandosi. Solo la mamma trascorse un anno in ospedale a ricomporre i pezzi».
Eppure quella morte in un certo senso l’ha liberata.
«Ha cancellato l’immagine che restituiva di me: la perfetta cretina».
C’è una vicenda misteriosa che riguarda suo padre: la sua apparente adesione a Salò. So che lei se ne è interessata a fondo. Con quali risultati?
«Papà, che conosceva perfettamente il tedesco – passammo anche un periodo a Vienna dove lavorava per l’Istituto italiano di cultura – fu chiamato a dare lezioni di italiano al tenente colonnello Jandl. Che poi verrà giustiziato a Norimberga».
Mi scusi, non era facile entrare in quella cerchia senza qualche credenziale politica.
«È vero. Oltretutto lì c’erano anche Mussolini, i gerarchi, le SS. Il peggio del fascismo e del nazismo. Di questo non seppi mai nul-la fino al giorno del funerale di mio padre. Durante la cerimonia si presentò un signore che era stato capitano delle SS. Mi disse che papà aveva fatto il doppio gioco. Che era un partigiano infiltrato. Andai a trovarlo a Berlino, sperando che avesse dei documenti. Niente. In seguito mi scrisse una lunga lettera, con il vincolo di non diffonderla, in cui mi diceva come papà era riuscito a evitare l’arresto e la fucilazione scappando dalla finestra».
Come è possibile che suo padre su tutto questo abbia taciuto?
«Non lo so. Credo facesse parte della sua personalità misteriosa. Una sola volta reagì con molto fastidio contro quella gente che si vantava di aver fatto la Resistenza. In seguito ho cercato documenti, rovistato in archivi. Niente. È saltata fuori solo una tessera in cui si diceva che era stato un partigiano di brigata».
Ma qualcuno deve averlo mandato a Salò.
«Credo siano stati i servizi segreti inglesi. E forse ci fu anche il coinvolgimento di Montini, il futuro papa, allora molto impegnato nel gioco della resistenza».
«L’onestà e il senso del dovere. Al prezzo di una grande infelicità. Certo non ho educato i miei figli allo stesso modo».
Forse gli deve anche la passione per il Medioevo?
«Sì, ricordo certi viaggi in lambretta – io alla guida e lui dietro – con cui si andavano a vedere gli affreschi di Clusone sulla “danza macabra” e il “trionfo della morte”. Temi su cui mi sarei laureata. Non ho avuto dei maestri. Ma lui, anche se in modo distorto, lo è stato. Ho percorso una strada che papà aveva solo cominciato: l’attenzione all’immagine come fonte storica. Ma lei non ci crederà».
Non crederò a cosa?
«Che la passione per le immagini si chiarì nel periodo che passai in sanatorio».
Lei è una continua sorpresa!
«Da piccola contrassi la tubercolosi. Fu durante l’università che la malattia divenne insidiosa. Tanto che pensarono di ricoverarmi in un sanatorio in Valtellina. Sebbene fosse concepito come una prigione, quel luogo non era privo di fascino. Avevano sequestrato il nostro tempo. C’era proibito leggere e incontrare, soprattutto all’inizio, i parenti e gli amici».
Perché?
«Si credeva, e penso sia vero, che i sentimenti influissero sull’organismo. Le emozioni alzavano la febbre. Occorreva lasciarsi invadere da una calma interiore. Che rompevamo solo durante la cena. Ogni sera ci si cambiava per andare a tavola. Eleganti scambiavano occhiate e palpiti. Nascevano a volte amori furiosi, destinati a infrangersi nella normalità del giorno. D’inverno, l’importante che non ci fosse vento, ci obbligavano a stare sul balcone o in terrazza per ore. Guardavo, come ipnotizzata, la montagna registrando i più piccoli spostamenti della neve. O nel cielo le nuvole. È stata un’educazione all’osservazione, un allenamento alla pazienza. Che ho poi trasferito nel mio lavoro. Soprattutto nell’esplorazione delle immagini come documenti della storia».
Al centro del suo lavoro di studiosa c’è la figura di San Francesco. Oggi tornata in auge. Cosa rappresenta?
«Intanto è meno scontata di quel che sembra. Ha creato un ordine, ha rivoluzionato il rapporto con la società e rivisto le relazioni con la Chiesa. Ha reso praticabile il dialogo tra le religioni ed effettuale la parola del Vangelo e questo già in pieno Medioevo».
Si è sempre pensato al Medioevo come a un’epoca arretrata, buia, oltranzista, dogmatica.
«Sono felice di aver contribuito a sfatare questa immagine. Pensi a certi oggetti che sono stati inventati allora: gli occhiali, i bottoni che hanno fondato la moda, il mulino a vento, la forchetta, la forma del libro, i vetri, gli assegni, le note musicali. Sono le prime cose che mi vengono in mente. Potrei continuare. E poi c’è l’arte. Sto scrivendo un libro, che sarà l’ultimo, sugli affreschi della basilica superiore di Assisi. Con molte novità interpretative dentro».
Perché dice che sarà l’ultimo?
«Perché non ne scriverò altri».
È un’affermazione singolare. Lei parlava all’inizio di un “congedo”. Cosa intendeva?
«Segnalare che una vita volge a termine. Ho 74 anni. Sono in buona salute. Eppure è un pensiero che torna sovente. Lo so, c’è qualcosa di irrazionale in ciò che dico. Ma non mi libero dall’idea di non avere più molto tempo. L’accolgo con serenità. Senza drammi. Mio padre avrebbe quest’anno compiuto cent’anni. È morto a 56. Sono nata lo stesso mese e giorno in cui era nato lui: 4 di febbraio. Si scrisse la sua epigrafe che concludeva con una frase molto francescana: ricordatemi ancora, volendovibene».
Posso chiedere se crede in Dio?
«Dovrei? Dopo quello che mi è accaduto penso che le suore furono un’eccellente scuola di ateismo. Ho smesso di credere verso i 15 anni».
E con chi o con cosa l’ha sostituito?
«La pratica francescana o le parole del Vangelo non hanno bisogno dell’aldilà. Valgono per noi, per il nostro mondo. Per me sono dei buoni modelli, come la capacità di introspezione e la fantasia. Lo zio Gianni – un uomo che rimpianse per tutta la vita di non aver sposato una violinista – mi regalava per le feste dei piccolissimi giocattoli. Diceva che non avevano avuto il tempo di crescere. E che io avrei dovuto prendermene cura. Ecco, mi piace pensare che quella bambina di allora abbia imparato ad applicare quella piccola lezione su tutto».

Repubblica 19.1.14
Il supplizio del giovane Rimbaud divenne la verità di un veggente
di Walter Siti


Non è che non voglia dire niente», scrive Rimbaud al suo professore di liceo inviandogli per lettera questa poesia; mette le mani avanti, teme che il testo possa passare per un giochino goliardico, con quei termini buffi o inventati e quel ritmo da filastrocca. Così infatti la prenderà il professore, che gli rimanderà indietro una parodia con la stessa metrica; iltrioleterauna forma medievale (strofe di otto versi su due sole rime, in cui il quarto verso ripete il primo mentre il settimo e l’ottavo ripetono i primi due) ripresa recentemente dai parnassiani, ultimo grido della moda poetica. Rimbaud non ha ancora compiuto diciassette anni, scrive poesie da quando ne aveva quindici e frigge dal desiderio di essere pubblicato. Questo testo lo invia anche a Paul Demeny, un poeta amico del suo professore, e a lui lo presenta come un esercizio anti-romantico, una fantasia bizzarra composta in antitesi ai cuoricini e alle sviolinate; vuole mostrarsi cinico, scafato, ma da adolescente aggiunge «non si arrabbi». Sa di avere in mano una bomba, la trascrizione di un’esperienza che quei due letterati non si sognano neanche; la superiorità che sente su di loro è tale che non vale la pena di dichiararla. Molti adolescenti snobbano gli adulti, ma in questo caso lui ha ragione.
Da quando ha sedici anni Rimbaud scappa di casa: la madre è anaffettiva, tratta il figlio con severità ottusa e lui parte da Charleville per Parigi ma non ha i soldi per il biglietto, sicché lo riportano a casa; allora riparte a piedi. Arriva a Parigi nel mese che
precede lo scoppio rivoluzionario della Comune, per dormire si rifugia in una caserma. È un biondino di sedici anni curioso di tutto, i soldati sono eccitati e alticci, succede l’irreparabile e lo violentano. Quando lo ha inviato al professore, il titolo di questo testo eraIl cuore suppliziato,a Demeny l’ha spedito come
Il cuore del pagliaccio; solo per Verlaine, ricopiandoglielo, troverà il titoloIl cuore rubato (in francese volé, a un passo da violé, violentato). Trasforma il trauma in una recita grottesca: il cuore che sbava da dietro è l’osservazione precisa, crudele, dell’avvenuto stupro. Il “caporal” è il tabacco di pessima qualità che masticavano i mi-litari: sono gli sputi, le derisioni, le cicche che gli danno il voltastomaco. Eppure non si tira indietro da niente, l’ottonario non dimentica una sillaba e gli occhi restano asciutti — è già il ragazzo che due anni dopo si proclamerà «della razza di chi cantava sotto i supplizi» e condannerà la vita come «una farsa universale».
Qualche accademico prudente dà al testo un’interpretazione simbolica: la nave sarebbe la società provinciale che il giovane Rimbaud detesta, la truppa sarebbero i buoni borghesi e lo sbavare a poppa sarebbe semplicemente il protagonista che vomita tutto il suo disgusto. Troppo pallido, tutta l’energia va perduta. Qui a essere un naviglio è lui stesso, come pochi mesi dopo sarà un battello ubriaco, ansioso che l’acqua penetri il suo scafoper lavarlo. Nelle caserme parigine era raffigurato lo stemma della città, un vascello con sotto il motto fluctuat nec mergitur; il latino può essere l’abracadabra dei flutti, da lì può venire la metafora marinaresca, i graffiti sporcaccioni dei soldati sulla parete dello stemma come affreschi accanto al timone. I “pioupiou” sono le reclute, o spine: inventando un aggettivo canagliesco che li riguarda si pone sul loro piano di scherzi, quasi sta dalla loro parte; musicalmente si identifica con gli aggressori senza smettere di sentirsi vittima — lo schifo del mondo (a Parigi viene denunciato perché scoperto a scrivere «merda a Dio» su una panchina) si confonde con una voglia oscura di autodistruzione; con un estremismo esistenziale e formale che può essere paragonato solo ai più violenti degli odierni gangsta rapper.
Ci sono dei testi-limite, dei testi-spartiacque;nella stessa lettera in cui gli spedisce questo, Rimbaud confessa al suo professore di volersi rendere veggente— «si tratta», scrive, «di giungere all’ignoto mediante lo sregolamento di tutti i sensi» e aggiunge «io è un altro». Come non vedere che proprio il trauma raccontato qui (e proprio perché ha saputo tenergli testa col ritmo) provoca in lui una scissione psichica, spingendo la sua poesia verso l’allucinazione e la droga? La visionarietà del Rimbaud maggiore sarà sempre materialista come solo certi mistici sanno esserlo: via verso un altro mondo perché l’esistente non ci merita ma senza spiritualismi nebulosi — concreti e brutali nella fantasia come si è saputo essere fantasiosi nella brutalità. La domanda finale, in quella caserma parigina, è stata «come agire?»; per lui la poesia è azione, ribellione spinta fino al bisogno dicambiare la vita.La lirica, presaalla lettera, conduce a un dissidio insanabile con la realtà, il sogno mostra la corda e la vita si vendica: spogliata dei suoi veli ambigui ebbene sì, «la poesia è una cretinata». Rimbaud a diciannove anni avrà già bruciato l’intercapedine di malafede che permette alla poesia di esistere e di volare, non scriverà più. Peregrinerà per l’Europa esercitando i mestieri più strani, lo scaricatore di porto e l’interprete in un circo, poi in Africa sarà commerciante e trafficante d’armi. Tornato in Francia con un tumore complicato dalla sifilide, muore a trentasette anni. Il mondo ha vinto, la poesia si è suicidata per eccesso di onestà.

Il Sole 24 Ore Domenica 19.1.14
La sapienza antica di Newton
Con il medesimo rigore con cui scoprì la gravitazione universale e il calcolo infinitesimale si applicò alla teologia e alla «prisca sapientia»
Voleva dimostrare che la civiltà ebraica è più antica di quella egizia
di Franco Giudice


A un osservatore sagace come Voltaire non era di certo sfuggita l'ostentata devozione con cui gli inglesi avevano dato l'ultimo saluto a Isaac Newton, «la gloria della nazione britannica», come lo definì una gazzetta nell'annunciarne la morte il 20 marzo 1727. Nell'abbazia di Westminster, dove otto giorni dopo furono celebrati i funerali, il philosophe vide sfilare davanti ai suoi occhi il Lord Cancelliere, due duchi e tre conti che reggevano il feretro, con al seguito un lungo corteo che, oltre ai familiari, comprendeva numerose personalità di alto rango. Un funerale di stato in piena regola, che si concluse con la sepoltura di Newton in «una posizione eminente» della navata centrale, alla stregua «di un re che avesse fatto del bene ai suoi sudditi», come con un po' di sarcasmo annotò Voltaire.
Ovviamente, quei funerali così solenni rendevano omaggio all'uomo pubblico che nella sua carriera aveva ricoperto cariche prestigiose, al Newton cioè consigliere di fiducia del governo, direttore della Zecca, presidente della Royal Society e insignito del titolo di cavaliere dalla regina d'Inghilterra. Ma a essere celebrato era soprattutto il Newton scienziato, l'autore di capolavori come i Philosophiae naturalis principia mathematica (1687) e l'Opticks (1704), destinati a segnare per sempre la storia della scienza.
Nessuno o quasi sapeva che l'uomo seppellito con tutti gli onori a Westminster sul letto di morte avesse rifiutato i sacramenti della Chiesa anglicana, di cui deplorava il trinitarismo, che giudicava una forma di idolatria. Ed erano davvero in pochissimi a sospettare che Newton avesse dedicato un tempo incomparabilmente maggiore all'esegesi biblica, all'alchimia e alla cronologia universale che non a tutte le altre discipline da noi oggi considerate, in senso proprio, scientifiche. Ma nel 1728, la pubblicazione postuma della sua Chronology of Ancient Kingdoms Amended (La cronologia degli antichi regni emendata) avrebbe fornito ai contemporanei un primo saggio di questi interessi, e scatenato subito un grande dibattito. Attraverso un estenuante sfoggio di fonti antiche, non privo di ardite speculazioni filologiche, Newton presentava infatti una drastica revisione della cronologia tradizionale, contraendo la storia greca di cinquecento anni e quella egizia di un millennio. Sulle vere ragioni però che lo avevano spinto a una simile impresa il silenzio era pressoché assoluto. Ed è proprio su di esse che getta nuova luce il magistrale lavoro di Jed Buchwald e Mordechai Feingold, che ricostruisce il coinvolgimento di Newton nello studio della cronologia.
Newton iniziò a occuparsi di cronologia intorno al 1700, al culmine di approfondite indagini storiche che lo vedevano ormai impegnato da parecchio tempo. Aveva passato al setaccio una quantità enorme di fonti classiche, tra cui Erodoto, Clemente di Alessandria, Diodoro Siculo, Eusebio di Cesarea, insieme ad altri Padri della Chiesa e alle Sacre Scritture. Ma non si trattava di erudizione fine a se stessa. Quelle letture, come mostrano Buchwald e Feingold, scaturivano da esigenze teologiche ben precise: ripristinare nientemeno l'originaria e vera religione, per capire come e perché si fosse corrotta. E in questo contesto risultava fondamentale spiegare le discrepanze tra la cronologia degli storici pagani e quella dell'Antico Testamento, l'unica che Newton considerasse attendibile.
Dopo lunghi anni di ricerche bibliche, Newton si era convinto che l'originaria religione monoteistica, quella cioè che Dio aveva insegnato ad Adamo ed Eva, fosse stata ripetutamente corrotta in una forma di adorazione di falsi déi. Restaurato da Noè, l'autentico culto di Dio fu di nuovo ristabilito da Mosè e poi da Gesù, cadendo però, a causa del trinitarismo introdotto dalla Chiesa cattolica, ancora una volta nell'idolatria. Newton credeva inoltre che le verità ricevute dagli ebrei non riguardassero soltanto il culto originario di Dio, ma anche l'universo che Egli aveva creato. A Noè e alla sua progenie Dio aveva infatti rivelato che la struttura del mondo è eliocentrica; una sapienza antica che si era smarrita con il sorgere di false religioni, a tutto vantaggio dell'erronea cosmologia geocentrica.
Fu sulla base di queste convinzioni che Newton scrisse La cronologia degli antichi regni emendata. Intendeva dimostrare che la civiltà ebraica, a dispetto dell'opinione prevalente, veniva senz'altro prima di quella egizia. Erano stati Noè, i suoi figli e nipoti che, dopo il diluvio, avevano portato in Egitto l'antica sapienza ricevuta da Dio, e che dagli egizi era stata poi trasmessa ai greci. Come era possibile dunque conciliare la storia sacra con quella pagana? Newton non aveva dubbi: occorreva riformare la cronologia tradizionale degli antichi regni e correggerla attenendosi alle solide basi della Bibbia. Un'operazione tutt'altro che semplice poiché, a suo avviso, tutte le nazioni, a eccezione di quella ebraica, per accrescere la loro antichità si erano falsamente attribuite centinaia di anni in più. Ma che Newton intraprese con un metodo originale e complesso, dove per l'interpretazione delle fonti antiche diventava indispensabile l'uso della matematica e dell'astronomia. E che Buchwald e Feingold ci aiutano a seguire fin nei minimi dettagli, rivelandosi delle guide scrupolose ed eccellenti.
Si scopre così che un aspetto importante del metodo di Newton consisteva nel confutare, attraverso rigorosi calcoli matematici, il criterio di datazione degli antichi cronologisti. E che pertanto le loro cronologie dovevano essere significativamente ridimensionate rispetto alle loro pretese lunghezze. Ma a colpire ancor di più è il modo in cui Newton impiegava gli strumenti dell'astronomia per collocare la spedizione degli Argonauti, dietro il cui mito pensava si nascondesse un evento storico reale, 45 anni dopo la morte di Salomone. Un risultato, a suo avviso, della massima rilevanza, poiché gli consentiva di stabilire una nuova datazione della guerra di Troia, la cui distruzione sarebbe dunque avvenuta dopo la costruzione del Tempio di Salomone.
Newton, come ci ricordano Buchwald e Feingold, «lavorò su questi problemi fino a pochi giorni prima di morire», determinato a dare alla sua riforma della cronologia quel "rigore matematico" che tutti gli riconoscevano. Ma altrettanto determinato a occultare che tale riforma fosse strettamente legata al suo schema genealogico dei discendenti di Noè e al suo tentativo di restaurare l'autentica religione monoteistica. Gli esiti di queste ricerche preferì mantenerli segreti, disseminandoli in una massa impressionante di manoscritti. La ragione era quanto mai comprensibile: la negazione della Trinità, nell'Inghilterra dell'epoca, costituiva un reato perseguibile per legge. E Newton lo sapeva molto bene: nel 1710, il suo discepolo William Whiston, che aveva scelto come suo successore sulla cattedra di matematica a Cambridge, fu bandito su due piedi dall'università proprio per aver pubblicamente sostenuto l'antitrinitarismo.
Sarebbe tuttavia riduttivo considerare il libro di Buchwald e Feingold come una semplice, per quanto apprezzabile, ricostruzione degli studi cronologici di Newton. Il loro obiettivo è decisamente più ambizioso: dimostrare che il Newton dedito alla teologia, alla cronologia, all'alchimia e alla prisca sapientia non avesse niente di diverso dallo scienziato che aveva svelato la natura composita della luce solare, inventato il calcolo infinitesimale ed enunciato la legge di gravitazione universale. Una tesi, possiamo dire con un po' di orgoglio, sostenuta già da un grande studioso italiano di Newton scomparso circa dieci anni fa, Maurizio Mamiani, cui dobbiamo la prima edizione mondiale del Trattato sull'Apocalisse (Bollati Boringhieri, 1994), ma che gli autori purtroppo non citano. In ogni caso, Buchwald e Feingold hanno il merito di aver analizzato tutti quei manoscritti che, soprattutto a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, rappresentano una sfida costante per chiunque si occupi di cose newtoniane, sollevando questioni di estremo rilievo. Che legame c'è tra gli interessi documentati dai manoscritti e le ricerche di Newton nel campo dell'ottica, della meccanica e della matematica? Il Newton nel suo laboratorio alchemico, alle prese con crogioli e fornaci, era lo stesso che analizzava il passaggio della luce attraverso il prisma o che misurava la caduta dei gravi nei diversi mezzi? Cosa ha a che fare il Newton interprete dell'Apocalisse con l'uomo che scrisse i Principia mathematica? E come è possibile conciliare il Newton immerso nello studio della prisca sapientia con l'autore dell'Opticks?
È a queste domande che cerca di dare risposta l'imponente lavoro di Buchwald e Feingold, che documenta come l'approccio di Newton ai diversi campi del sapere si basasse su un "metodo unico", dove a contare erano sempre i numeri e i dati empirici, fossero essi i fenomeni osservativi piuttosto che le Sacre Scritture o le testimonianze dei classici. Un Newton insomma tutto d'un pezzo, destinato a far discutere gli specialisti, ma che rappresenta indubbiamente uno dei contributi più innovativi degli ultimi anni nella prolifica Newtonian industry.

Jed Z. Buchwald-Mordechai Feingold, Newton and the Origin of Civilization, Princeton University Press, Princeton, pagg. 528, $ 49,50

Il Sole 24 Ore Domenica 19.1.14
I Trovatori
A caccia d'amore e disamore
Erano una pattuglia di poche centinaia di poeti nata tra Catalogna e Italia con centro la Provenza, prima di Dante e Petrarca
di Lorenzo Tomasin


Che senso ha leggere i Trovatori? Tramontato il mito romantico del loro aurorale primitivismo (hanno fatto, sì, germinare la poesia europea, ma sopra radici culturali poderose, illuminate da generazioni di eruditi); appannato – forse – ai nostri occhi il fascino letterario dell'amor cortese con i suoi riti, tutto sommato ripetitivi e stilizzati; sommerse le loro rime dalle successive grandi stagioni della poesia lirica europea: perché proprio i Trovatori, cioè una pattuglia di poche centinaia di poeti fiorita, con centro la Provenza, tra Catalogna e Italia prima di Dante e Petrarca?
La domanda è facilmente eludibile con un'autogiustificazione accademica: esiste una disciplina chiamata Filologia romanza (i non-laureati-in-lettere spesso la ignorano, ma è, o dovrebbe essere, un cardine della nostra educazione umanistica: lo studio dei testi scritti nelle lingue derivate dal latino) che ha fatto della letteratura provenzale antica la sua principale palestra. La Filologia romanza, e in particolare occitanica, in Italia sta abbastanza bene, specie rispetto ad altri Paesi. In Francia, per dire, è stata praticamente sterminata con la stessa risolutezza che nel Duecento guidò la crociata contro gli eretici albigesi. Pur nei mala tempora, in Italia si coltivano ancora gli studi di robusta scuola filologica che hanno svelato all'Europa i Trovatori: la monumentale Bibliographie des Trobadours del tedesco Alfred Pillet, del 1933, ancora utilissima, è stata ora ripubblicata e ben aggiornata da Paolo Borsa, Roberto Tagliani e Stefano Resconi (e Stefano Asperti l'aveva già messa in internet). In Italia si pubblicano le migliori edizioni dei poeti di Provenza e i loro commenti più raffinati. Ma di tutto questo al pubblico arriva poco, e ciò non risponde alla domanda da cui siamo partiti.
Tra le risposte possibili, se ne può cercarne una nelle Canzoni occitane di disamore appena pubblicate da Francesca Sanguineti e Oriana Scarpati. Ottimo campo di prova: è un'antologia, felicemente pensata, delle poesie che i trovatori dedicano al tema opposto a quello usuale: non l'innamoramento ma la fine dell'amore. Che significa: constatazione di crudeltà, scorrettezza, venalità o ingenerosità della donna che si è poeticamente servita e riverita. Con le parole di Bernart de Ventadorn: «Mout l'avia gen servida / tro ac vas mi cor volatge; / e pus ilh no m'es cobida, / mout sui fols, si mais la ser» («l'avevo servita molto nobilmente finché non manifestò un animo volubile nei miei confronti, e poiché ella non mi è destinata, sono davvero folle se la servo ancora»). Più esplicito e iattante Raimbaut de Vaqueiras: «Ges no pres un botacis / dona que aitals sia / c'un prenda et autre.n lais» («Non apprezzo uno sbuffo una donna che si comporti in modo tale da prendere uno e lasciarne un altro»).
Come accade anche ai non-trovatori, il disamore implica deprecazione dell'amore in sé. Folchetto, con la sua eleganza: «Amor, per so m'en soi eu recresuz / de vos servir, que mais no n'aurai cura; / c'aissi com mais prez'hom laida pentura / de long, no fai cant es de pres venguz, prezava eu vos mais can no.us conoissia» («Amore, per questo ho abbandonato il vostro servizio e non me ne interesserò mai più; perché così come si apprezza maggiormente un brutto dipinto da lontano rispetto a quando è vicino, io vi apprezzavo di più quando non vi conoscevo»).
Più spesso, ci si risolve nella decisione di servire un'altra donna, da cui si spera di avere miglior guiderdone (guizardo). Raimbaut d'Aurenga: «Ar sui partitz de la pejor / c'anc fos vista ni trobada, / et am del mon la bellazor / dompna, e la plus prezada» («ora mi sono allontanato dalla peggiore che esista, e amo la più bella donna del mondo, e la più valente»). Resta il diritto se non proprio d'insultare la precedente amata (ché sarebbe contrario alle regole della cortesia), di esporla al dileggio. Peire Cardenal: «Ia m'amia no mi tenra / si ieu lieys non tenia, / ni ia de mi non iauzira / s'ieu de lieys non iauzia» («la mia amica non mi avrà mai se io non la posseggo, né di me godrà se io non godo di lei»).
Arguto, certo, anche se in fondo poco originale (di rado lo è la poesia medievale, nel senso che intendiamo oggi). Quel che forse è davvero suggestivo per il pubblico italiano – proprio perché familiare, ma altrove introvabile – è ciò cui il lettore di traduzioni non fa caso. Ottima la scelta delle curatrici di mettere una versione a fronte, ma di ridurla all'osso e di scioglierla in prosa, quasi per ricacciare continuamente l'occhio verso il testo originale, scritto in una lingua da cui italiani, francesi e spagnoli d'oggi si sentono allo stesso grado lontani e vicini. Si capisce perché i pionieri degli studi trobadorici credettero (a torto, si chiarì poi) di vedere in questa lingua la madre comune di tutte quelle neolatine di oggi. Ecco: è forse la lingua dei trovatori – di fatto dimenticata o trascurata per secoli – a regalare il piacere maggiore a chi oggi la legge con occhi diversi da quelli dello studioso: una lingua difficile ma non impenetrabile, straniante e divertente, in cui si sperimenta nel modo più concreto la distanza, e insieme la mirabile familiarità di questi amorosi disamorati.

Alfred Pillet, Henry Carstens, Bibliographie des Trobadours, rist. anast. con aggiornamenti, a cura di
P. Borsa, R. Tagliani, S. Resconi. Introduzione di M.L. Meneghetti, Ledizioni, Milano, pagg. 614 € 48,00
Canzoni occitane di disamore, a cura di F. Sanguineti e O. Scarpati, Carocci, Roma, pagg. 248, € 28,00

Il Sole 24 Ore Domenica 19.1.14
Sfide della scienza
Senza spazio e senza tempo
La gravità quantistica, ultima frontiera della fisica fondamentale, ci offre una nuova affascinante visione della struttura del mondo che rimette in forse tutto il nostro sapere
di Carlo Rovelli


Quello che vediamo di là dalla finestra non fa che meravigliarci. Abbiamo imparato moltissimo sull'universo, nel corso dei secoli. Abbiamo riconosciuto molti nostri errori. Credevamo la Terra fosse piatta. Che fosse ferma al centro del mondo. Che l'Universo fosse piccolo e rimanesse sempre eguale a se stesso.
Credevamo che gli uomini fossero una stirpe a parte, senza parentele con gli altri animali. Abbiamo imparato che esistono quarks, buchi neri, particelle di luce, onde di spazio e impressionanti architetture molecolari in ogni cellula del nostro corpo. L'umanità è come un bimbo che cresce, e scopre con stupore che il mondo è vasto, ci sono mille cose da imparare e idee da conoscere, diverse da quelle in cui è cresciuto. L'universo è multiforme e sconfinato, continuiamo a scoprirne aspetti, a stupirci della sua varietà, bellezza e semplicità. Più scopriamo, più ci rendiamo anche conto che quello che ancora non sappiamo è più di quanto abbiamo capito. Più potenti sono i nostri telescopi, più vediamo cieli strani e inaspettati. Più indaghiamo dettagli minuti della materia, più scopriamo strutture profonde.
Oggi vediamo quasi fino al big bang, la grande esplosione da cui 14 miliardi di anni fa sono nate tutte le galassie; ma già cominciamo a intravedere qualcosa al di là del big bang. Abbiamo imparato che lo spazio s'incurva, e già cominciamo a intravedere che questo stesso spazio è tessuto da un trama di grani quantistici che vibrano. Quello che sappiamo sulla grammatica elementare del mondo sta continuando a crescere. Se cerchiamo di mettere insieme quanto abbiamo imparato, gli indizi puntano a qualcosa di assai diverso dalle idee su materia e energia, spazio e tempo, che ci hanno insegnato a scuola. Appare una struttura elementare del mondo in cui non esiste il tempo e non esiste lo spazio, generata da un pullulare di eventi quantistici. Campi quantistici disegnano spazio, tempo, materia e luce, scambiando informazione fra un evento e l'altro.
La realtà è tessuta da una rete di eventi granulari; la dinamica che li lega è probabilistica; fra un evento e l'altro, spazio, tempo, materia ed energia sono sciolti in una nuvola di probabilità. Questo mondo strano e nuovo emerge oggi dallo studio del principale problema aperto nella fisica fondamentale: la gravità quantistica. Il problema di rendere coerente quello che abbiamo compreso del mondo con le due grandi scoperte del XX secolo, relatività generale e quanti. Alla gravità quantistica, allo strano mondo che questa ricerca ci sta rivelando, è dedicato questo libro. Il libro racconta la ricerca in corso: quello che ci sembra di cominciare a capire della natura elementare delle cose.
Inizia dalle origini, lontane, di alcune idee chiave che ci permettono di mettere ordine nei nostri pensieri del mondo. Descrive le due grandi scoperte del XX secolo: la teoria della relatività generale di Einstein e la meccanica quantistica. Racconta l'immagine del mondo che sta oggi emergendo dalla ricerca in gravità quantistica, tenendo conto delle ultime indicazioni che ci ha dato la Natura, come le conferme del modello standard cosmologico ottenuta con il satellite Planck (2013) e la mancata osservazione delle particelle supersimmetriche al Cern (2013). Discute le conseguenze di queste idee: la struttura granulare dello spazio, la sparizione del tempo a piccolissima scala, la fisica del big bang, l'origine del calore dei buchi neri, fino a quello che intravediamo sul ruolo dell'informazione alla base della fisica. Nel mito famoso che Platone racconta nel settimo libro della Repubblica, gli uomini sono incatenati nel fondo di una caverna buia, e vedono solo ombre proiettate da un fuoco alle loro spalle sulla parete davanti a loro. Pensano che quella sia la realtà.
Uno si libera, esce, scopre la luce del sole e il vasto mondo. Noi siamo tutti in fondo a una caverna, incatenati dalla nostra ignoranza, dai nostri pregiudizi, e i nostri deboli sensi ci mostrano ombre. Cercare di vedere più lontano ci confonde, non siamo abituati. Ma ci proviamo. La scienza è questo. Il pensiero scientifico esplora e ridisegna il mondo, ce ne offre immagini via via migliori: ci insegna a pensarlo in modo più efficace. La scienza è un'esplorazione di forme di pensiero. La sua forza è la capacità visionaria di fare crollare idee preconcette, svelare territori nuovi del reale e costruire nuove e più efficaci immagini del mondo. È un'avventura che si appoggia sulla conoscenza accumulata, ma la sua anima è il cambiamento.
Guardare più lontano. Il mondo è sterminato e iridescente; vogliamo andarlo a vedere. Siamo immersi nel suo mistero e nella sua bellezza, e oltre la collina ci sono territori ancora inesplorati. L'incertezza in cui siamo immersi, la nostra precarietà, sospesa sull'abisso dell'immensità di ciò che non sappiamo, non rende la vita insensata: la rende preziosa. Ho scritto questo libro per raccontare quella che per me è la meraviglia di quest'avventura. L'ho scritto pensando a un lettore che non sappia nulla di fisica, ma sia curioso di sapere cosa capiamo e cosa non capiamo oggi della trama elementare del mondo, e dove stiamo cercando. E per provare a comunicare la bellezza del panorama sulla realtà che si vede da questa prospettiva. L'ho scritto anche pensando ai miei colleghi, compagni di viaggio sparsi in tutto in tutto il mondo, o a una giovane o un giovane appassionati di scienza che vogliano incamminarsi in quest'avventura. Ho cercato di tratteggiare il panorama generale sulla struttura del mondo fisico, visto alla doppia luce della relatività e dei quanti, così come credo possa stare insieme.
Non è un libro di sola divulgazione; è anche scritto per articolare un punto di vista coerente, in un campo dove l'astrattezza tecnica rischia talvolta di rendere poco visibile la visione d'insieme. La scienza è fatta di esperimenti, ipotesi, equazioni, calcoli e lunghe discussioni, ma questi sono strumenti, come gli strumenti dei musicisti. Alla fine, quello che conta nella musica è la musica, e quello che conta nella scienza è la comprensione del mondo che la scienza riesce a offrire. Per capire il significato della scoperta che la Terra gira intorno al Sole non serve addentrarsi nei complicati calcoli di Keplero; per capire l'importanza della scoperta che tutti gli esseri viventi del nostro pianeta hanno gli stessi antenati non c'è bisogno di seguire le complesse argomentazioni del libro di Darwin. La scienza è leggere il mondo da un punto di vista via via più ampio. In questo libro racconto lo stato attuale della ricerca di questa nuova immagine del mondo, così come lo capisco oggi, cercando di metterne a fuoco i nodi essenziali e i nessi logici. Come lo si racconterebbe a un collega e amico, e che ti chieda «ma tu come pensi che stiano davvero le cose?», camminando lungo il mare una lunga notte d'estate.

Il testo qui pubblicato è un estratto del nuovo libro di Carlo Rovelli, La realtà non è come ci appare, Raffaello Cortina, Milano, pagg. 236, € 22,00

Il Sole 24 Ore Domenica 19.1.14
La mente e la lingua
Il nostro codice interno
La competenza linguistica non deve essere indagata in modo diverso da altre capacità umane. Come la visione, è definita biologicamente, e come tale va indagata
di Noam Chomsky


L'autore di un saggio critico sulla mia ricerca esordisce lamentando il fatto che sembra che io creda in un solo -ismo, il truismo. C'è molto di vero in questo; tuttavia è importante aggiungere una chiarificazione. Quelli che io ritengo truismi sono comunemente giudicati come sbagliati o stravaganti. Lascerò ad altri il compito di rispondere alle domande che ciò solleva.
Nel titolo di questo intervento troviamo un esempio, ossia la parola internalismo. Mi pare che un termine migliore per definirlo potrebbe essere truismo, sebbene la difesa dell'internalismo sia considerata quantomeno controversa e questo approccio sia rifiutato dalle correnti filosofiche dominanti, dove regna piuttosto l'esternalismo. Ciò nondimeno, ritengo che l'internalismo rimanga un truismo.
Prendiamo ad esempio l'apparato digerente. I ricercatori hanno descritto il cosiddetto "secondo cervello", il "cervello viscerale". Recentemente è stato detto che il cervello viscerale «si distingue dalle altre componenti del sistema nervoso periferico, in quanto controlla e regola il comportamento di organi indipendentemente da comandi provenienti dal cervello», in un modo abbastanza complesso. Il cervello intestinale può soffrire delle stesse patologie del cervello, come morbo di Alzheimer, Parkinson e autismo, e persino mostrare «tipi propri di psiconevrosi». Ha i propri trasduttori sensoriali e il proprio apparato regolatore, che lo rendono adatto a svolgere compiti specifici in interazione con altri organi, ma certamente non ogni compito. Ovvero, il cervello intestinale ha un ambito definito e limiti definiti determinati dalla sua natura interna, come nel caso di ogni sistema organico. Questo ambito definito, tuttavia, deve essere inteso come mutabile in certa misura in certe condizioni.
Lo studio del cervello viscerale è internalista. Il funzionamento dell'apparato digerente certamente dipende da fattori esterni ad esso, alcuni interni all'organismo, altri al di fuori della pelle, ad esempio le sostanze chimiche prodotte dalla casa farmaceutica Monsanto. Gli scienziati studiano la natura del sistema interno, e le sue interazioni esterne, e questo non genera particolari dilemmi o dibattiti filosofici.
Torniamo al "primo cervello", e a certe sue componenti, come il sistema visivo, o quello motorio, o il linguaggio. Essi differiscono per aspetti cruciali, ma non vedo motivo per cui la ricerca su di essi non dovrebbe essere internalista tanto quanto quella sul cervello viscerale. Anche in questo caso, ci sono certamente interazioni esterne, ma non appare chiaro il motivo per cui queste dovrebbero suscitare problemi speciali. Tyler Burge ha sostenuto che la teoria della percezione visiva di David Marr integra proprietà del mondo esterno nel sistema visivo stesso, ma io credo che questo sia un fraintendimento. Certamente Marr parla di proprietà del mondo esterno, ma per un motivo. Ciò diventa chiaro quando guardiamo alla ricerca sperimentale, che non utilizza stimoli come giraffe o tavoli, bensì prevalentemente immagini tachistoscopiche. Se il nervo ottico potesse essere indagato direttamente, le indagini si baserebbero su questo. Il lavoro teorico più importante, prendiamo il principio di rigidità di Stephen Ullman, rimane completamente internalista. Lo stesso vale per l'organizzazione motoria. C'è uno studio internalista del sistema e di come esso funziona, e, come nel caso del cervello viscerale o della visione, ci sono ulteriori ricerche sulle interazioni con altre parti dell'organismo e il mondo esterno.
È difficile comprendere perché un approccio simile dovrebbe essere controverso nel caso del linguaggio. Il fatto che io parli una certa varietà di ciò che è comunemente chiamato inglese piuttosto che un'altra varietà di inglese, o una varietà di italiano, è semplicemente una proprietà interna, primariamente del mio cervello. Interna a me c'è una procedura computazionale G che genera una gamma infinita di espressioni strutturate che corrispondono a interpretazioni assegnate a livello dell'interfaccia sensorimotoria (per l'uso esterno del linguaggio) e dell'interfaccia concettuale-intenzionale, e che forniscono un "linguaggio del pensiero" – presumibilmente l'unico linguaggio del pensiero esistente, ma questo è un altro discorso. Possiamo dunque definire questa procedura come la Proprietà Base del linguaggio.
Una delle espressioni generate da G sottende la frase (1): «Quale dei suoi dipinti hai detto ai tuoi amici che ciascun artista preferisce?» G determina la pronuncia di (1) e il suo significato, per esempio il fatto che il pronome "suoi" si interpreti come riferito a "ciascuno", cosicché la risposta a (1) potrebbe essere la frase (2): «Il primo che ha dipinto», intendendo un dipinto differente per ogni artista. Da questo punto di vista la frase in (1) differisce dalla frase (3): «Quale dei suoi dipinti ha convinto i tuoi amici che ogni artista ama i fiori?», che pure è strutturalmente simile a (1), ma dove la risposta non può essere (2). Osservazioni di questo tipo valgono per un'infinità di espressioni, come risultato di proprietà interne a me.
Conseguentemente, il nucleo centrale dello studio del linguaggio è la cosiddetta "Lingua I", dove I sta per interna, individuale, e intensionale: abbiamo a che fare con le procedure computazioni concrete che soddisfano la Proprietà Base, una proprietà biologica dell'individuo a cui la Lingua I appartiene. Lo stesso vale, mutatis mutandi, per altri sistemi dell'organismo, che si tratti del cervello viscerale o del sistema visivo o del sistema immunitario o di altro. La Lingua I non va confusa con la nozione di idioletto, che manca della cruciale disposizione alla formulazione intensionale propria della Proprietà Base – ossia di ciò che converte la discussione sul linguaggio in una impresa che ora può essere perseguita in tutti i suoi aspetti con una profondità di gran lunga maggiore che in passato, come la ricerca degli ultimi anni ha dimostrato ampiamente.
(traduzione di Valentina Bambini)

Il Sole 24 Ore Domenica 19.1.14
Filosofia e biologia
Le specie esistono? Forse no
di Mario De Caro


Lo spassoso film di Elaine May The New Leaf, distribuito in Italia con il cervellotico titolo È ricca, la sposo... e l'ammazzo, racconta le gesta del gaglioffissimo ex-milionario Henry Graham (interpretato da un Walther Matthau in stato di grazia). Per tutto il film Graham si industria per far fuori la moglie, valente botanica, mirando alla sua eredità. Nell'ultima scena però avviene il miracolo: il Nostro cede alla commozione, fino a redimersi, quando casualmente si imbatte in un esemplare di Aesophila grahami, una nuova specie di felce che la devota moglie ha denominato in suo onore. Insomma, vedersi dedicata una nuova specie è privilegio così gratificante che può ridare la rettitudine morale a chi l'ha smarrita.
Sarà. Ad ogni modo, è una fortuna che Henry Graham non avesse letto Filosofia della biologia di Andrea Borghini ed Elena Casetta. Perché, se lo avesse fatto, probabilmente alla vista di quella felce non si sarebbe commosso così tanto e avrebbe portato a termine i suoi propositi uxoricidi. Ma cosa hanno scritto Borghini e Casetta nel loro libro per diventare potenzialmente complici dei truci progetti di Graham? In breve, hanno spiegato con estrema chiarezza e precisione perché alcuni scienziati e filosofi negano l'esistenza delle specie, mentre altri, pur ammettendo che le specie esistano, non riescono a mettersi d'accordo su cosa siano. In questa luce, la grande gratificazione di Graham per la Aesophila grahami non si giustifica: quanto si potrà mai essere contenti per aver dato il proprio nome a qualcosa che non esiste o, se esiste, non si sa cos'è?
Il problema delle specie non è l'unico affrontato in questo eccellente volume. Vi si discute anche dei concetti di vita, organismo, individuo e sesso; della teoria della selezione naturale di Darwin e della cosiddetta "Nuova sintesi"; della rivoluzione biotecnologica e delle varie forme di evoluzione. Temi culturalmente cruciali, ovviamente. Ma non per tutti: a due tipi di lettori, infatti, questo libro è vivamente sconsigliato. I primi sono quelli secondo cui la filosofia, occupandosi solo del Fondamento Ultimo (o al massimo del Penultimo), non ha nulla a che fare con la scienza; i secondi sono quelli che, al contrario, ritengono la filosofia disciplina astratta e oziosa da cui è bene che la scienza si tenga alla larga. A parte dunque questi tipi lettori – che è bene lasciare a bagno nei rispettivi brodi – questo libro piacerà molto a quanti credono nella vitalità di un'idea che fu già di Aristotele e Galileo, Leibniz e Newton, Kant e Darwin, Russell e Einstein: ovvero che filosofia e scienza possano, e spesso debbano, interagire.
Un buon esempio in questo senso è proprio la questione delle specie. Come rilevato da Borghini e Casetta, nel dibattito contemporaneo sono presenti oltre venti diverse definizioni di specie, nessuna delle quali è veramente soddisfacente. Prendiamo una delle più note, il «concetto biologico di Specie» proposto da Ernst Mayr, che in parte riprende un'idea del grande Buffon (il biologo del Settecento, non il portiere della nazionale). Secondo Mayr, «le specie sono popolazioni di organismi che si incrociano tra loro dando origine a prole feconda (e non si incrociano invece con i membri di altre popolazioni)». Bella definizione. Peccato che molte specie si riproducano asessualmente – e che, anzi, la riproduzione asessuata sia, come spiega Marc Ereshefsky, «la forma predominante di riproduzione della vita su questo pianeta». Ne segue che la definizione di Mayr si applica soltanto a una parte degli organismi: e nel resto del mondo naturale non ci sono forse le specie? Un bel problema, ovviamente. Ma anche le altre definizioni di specie – per esempio quella "filogenetica", quella "ecologica" e quella "fenetica" – presentano problemi analoghi, se non peggiori.
Insomma, non si riesce a definire il concetto di specie in modo soddisfacente. Una pessima notizia per i fautori del realismo tradizionale, che vanno in caccia di definizioni essenzialistiche sotto di cui far ricadere tutti gli individui che sembrano appartenere a un certo tipo naturale. Ma il fallimento del realismo essenzialista non significa che l'antirealismo rispetto alle specie abbia vinto: e in questo senso basterà citare un'assai promettente proposta di Philip Kitcher, il "realismo pluralista". Certo, una proposta di questo genere non potrà che spiacere a quanti si ostinano a negare la rilevanza del realismo nella filosofia contemporanea. In cambio piacerebbe molto a Henry Graham – e gli salverebbe l'anima.

Andrea Borghini, Elena Casetta, Filosofia della biologia, Carocci, Roma, pagg. 306, € 19,00

Il Sole 24 Ore Domenica 19.1.14
Evoluzionaria / cos'è la felicità
Altruismo, elisir di lunga vita
di Luca Pani


La felicità deriva dal piacere e il piacere non è mai abbastanza, giusto? No sbagliato, anzi sbagliatissimo. Eppure dovremo saperne parecchio da quando le ricerche sociologiche sul significato e il raggiungimento della felicità umana hanno lasciato i microcosmi psicologici per arrivare alla biologia vera e propria sino a quella genetica e molecolare, passando addirittura dalla neuroeconomia. E invece sono arrivati dei risultati inattesi.
Gli scienziati amano definire le cose che studiano e la felicità è uno di quegli argomenti difficili da definire. Certo non basta liquidarla come assenza di infelicità. È quasi offensivo. Essere felici è una combinazione di sensazioni ed emozioni che vengono percepite consciamente come una disposizione permanente di un determinato stato mentale costituito principalmente da un piacere dei sensi (edonico) e da un piacere del vivere e del fare (eudemonico). Ma il piacere non è felicità ed è riduzionistico persino associarli tra loro.
Il piacere è solo un bieco servitore delle utilità Darwiniane: cibo e sesso ad esempio. Per la sopravvivenza del più adatto e della specie segue da sempre principi semplici e tuttavia tirannici: classifica gli stimoli in positivi o negativi, cerca le ricompense, evita i dolori, che siano – in entrambi i casi – fisici o psichici e finalmente li trasforma in emozioni. A quel punto basta ricordare che cosa dà piacere e cosa dolore, correre verso il primo, correre sempre, ma in direzione opposta, via dal secondo. Almeno nelle altre specie funziona così mentre noi, con un ineffabile talento per complicarci la vita, riusciamo talvolta a fare l'esatto contrario: corriamo verso il dolore e ci allontaniamo dal piacere. A volte poi abusiamo del piacere e della ricompensa che ne deriva e, com'è noto, questo è uno dei principi delle dipendenze patologiche e dei disturbi da perdita di controllo degli impulsi, dove la componente motoria della ricerca della gratificazione viene messa a servizio del soddisfacimento del l'anticipazione del piacere. Sono i casi in cui si gioca compulsivamente, mai per vincere, ma "aspettando" di vincere. E si perde.
A quanto pare l'attesa del «principio del piacere (e del dispiacere)» ha parassitato l'ultima arrivata tra le nostre strutture cerebrali: la neocorteccia che si occupa, tra le altre cose, dell'autoconsapevolezza, della pianificazione strategica e proprio della simulazione di quello che verrà; ed è qui che, forse, si nasconde il sacro Graal della felicità umana. Si scopre, infatti che il primo passaggio nella generazione delle emozioni è la rappresentazione implicita del valore di uno stimolo piacevole o meno, a cui segue una risposta fisiologica e che, solo allora, un'esperienza cosciente possa riuscire a trasformarsi in una forza evoluzionaria.
Sarebbe dunque stata l'evoluzione di queste esperienze emozionali più che la "semplice" selezione naturale ad aver guidato le civilizzazioni umane perché laddove il solo evitamento del dolore e la ricerca del piacere sono egoistiche e non costruiscono niente, l'evoluzione di una specie complessa come la nostra si basa anche sulla perfetta consapevolezza del benessere e del malessere degli altri, si basa – in fondo – sull'empatia. In questo nessun altro animale, neppure i primati, è neppure minimamente in grado di essere come noi. Gli uomini sono eccezionali nella loro capacità di sviluppare emozioni sociali come il senso di colpa e la vergogna che limitano il poter fare le cose generando un equivalente senso di impotenza e che sono tra i primi ostacoli all'ottenimento di una felicità stabile. Ma allora, se il piacere non deve essere troppo e deve stare sotto il controllo della pazienza e della disciplina e soprattutto se il piacere eccessivo è sempre momentaneo che cosa ci rende felici?
Si scopre che gli uomini possono essere motivati anche dall'aiutare gli altri senza nessun tornaconto personale e che il vantaggio evoluzionistico di un simile comportamento sarebbe molto significativo sul miglioramento della salute sia del gruppo a cui gli altruisti appartengono che dell'individuo in quanto tale.
Esiste infatti una forte concordanza tra il vivere in modo generoso e la sopravvivenza. Non stiamo parlando di volontariato o di generico senso civico, che certamente aiutano, ma di altruismo come stile di vita. Mi rendo conto che accostare un modo di vivere basato spesso su scelte "spirituali" ed esclusivamente etiche possa non essere immediatamente riconducibile al l'allungamento della vita di chi lo pratica, almeno quanto una dieta ipocalorica e ricca di attività fisica, eppure i dati raccolti nell'ultimo decennio parlano chiaro.
Due terzi di chi aiuta davvero gli altri senza pensare minimamente a se stesso si sente fisicamente meglio, con più energia, più forte e meno malinconico. Quando l'altruismo diventa strutturale e non è più relegato alla donazione domenicale o all'estemporaneità di un gesto isolato, fare del bene riduce perennemente i pensieri depressivi, aumenta l'autostima e allevia i dolori e la fatica, cioè rende felici.
Due tra le strategie emotive complesse che predispongono maggiormente all'esercizio costante dell'amore altruistico (probabilmente l'unica vera forma dell'amore) sono la completa e sincera accettazione degli altri ed il perdono. Perdonare riduce lo stress, il livello del cortisolo, la pressione arteriosa e migliora l'appetito e il sonno e quindi, ancora una volta, rende felici.
Come sempre c'è un rovescio della medaglia e non ci si può annientare per gli altri. Sarebbe controproducente e certamente contro evolutivo che per servire alla mensa dei poveri ci si dimenticasse di mangiare. Il sottile equilibrio tra un po' di sano egoismo e tanto sano altruismo è la chiave di volta per ottenere dei benefici veri e duraturi sulla propria felicità. Provare per credere e poi chiediamoci se siamo o se siamo mai stati davvero felici. Scrutiamoci sinceramente dentro e proviamo a valutare il nostro livello di altruismo. Non dobbiamo dirlo a nessuno, è un segreto tra noi e noi, ma almeno adesso magari sappiamo perché ci sentiamo in un certo modo e siamo sempre in tempo per rimediare. Fare del bene non è mai abbastanza e conviene.