lunedì 20 gennaio 2014

IL PIANO RENZI-BERLUSCONI: QUI

l’Unità 20.1.14
Rodotà: dov’è l’etica pubblica?


Stefano Rodotà, ospite ieri sera di Fabio Fazio a Che tempo che fa, è stato molto critico sull’incontro Renzi-Berlusconi, accusando una «deriva etica»: «Per chi è cittadino del Paese e ritiene che ci sia da ricostruire un’etica pubblica e civile, abbiamo perduto tutta la memoria se non ricordiamo che Silvio Berlusconi è stato condannato a agosto e che solo da poche settimane è stata dichiarato decaduto da senatore». Rodotà fa notare che solo «uno solo tra i commentatori ha detto che Berlusconi a breve sarà o ai domiciliari o ai servizi sociali e allora c’è un’anomalia se abbiamo bisogno di rilegittimare chi si trova in questa condizione». Anche perché a quel punto l’ex premier dirà, «guardate oggi che sono un padre della patria che modifica la Costituzione, come mi tratta questa giustizia».
Dubbioso anche sulla legge elettorale: il sistema spagnolo «favorisce i grandi partiti» e le liste bloccate sono state bocciate dalla Consulta e hanno fatto «allontanare i cittadini dalla politica». Rodotà, inoltre, non è sicuro che con una legge elettorale proporzionale (se non si approvasse una nuova legge) si avrebbe lo stesso risultato alle urne. Dubbi anche sul Senato delle autonomie: «Se resta alla Camera il voto di fiducia, su leggi importanti anche la seconda Camera deve poter dire la sua».

La Stampa 20.1.14
Rodotà:
«Si rischia la deriva etica se si dimentica chi è Berlusconi»


Parla di deriva etica e si rammarica per la perdita della memoria. Stefano Rodotà è duro nella sostanza quando, ospite di Fabio Fazio, stronca l’incontro Renzi-Berlusconi. «Sento grandi inni al realismo da chi dice che l’incontro si doveva fare ma io sono sempre prudente di fronte agli eccessi di realismo e ai danni che ha provocato negli anni». «Per chi è cittadino del Paese osserva ancora Rodotà e ritiene che ci sia da ricostruire un’etica pubblica e civile, abbiamo perduto tutta la memoria se non ricordiamo che Silvio Berlusconi è stato condannato e che è stato dichiarato decaduto da senatore».

Corriere 20.1.14
Il diritto di scelta degli elettori
di Aldo Cazzullo


Ma a scegliere gli eletti saranno gli elettori o sempre i capi partito? Perché qui siamo ancora alle liste bloccate. Più in generale, nella «Terza Repubblica» la classe dirigente uscirà dalla selezione popolare dei migliori o sempre dalla cooptazione?
È positivo che la macchina delle riforme, imballata da anni, si sia rimessa in moto, coinvolgendo sia la maggioranza sia una parte dell’opposizione. Ma è tutto da vedere che la legge elettorale ipotizzata nell’incontro Renzi-Berlusconi garantisca i due requisiti di base: la governabilità e, soprattutto, la rappresentanza.
L’obiettivo di avere la sera stessa del voto un vincitore in grado di governare — un risultato certo con il doppio turno e pressoché certo con i collegi uninominali e premio di maggioranza — diventa abbastanza incerto: con un sistema tripolare e la necessità di non escludere le forze regionali e i lacerti del centro, a Renzi o a chi per lui occorrerebbe un exploit. È anche vero però che se uno schieramento non raggiunge almeno il 35-40%, conferirgli un mandato pieno a governare sarebbe una forzatura. Starà agli elettori decidere.
Quel che invece gli elettori rischiano di non poter decidere neppure stavolta è il nome degli eletti. Il modello Renzi-Berlusconi evita solo formalmente il vizio del Porcellum dichiarato incostituzionale dalla Consulta: l’impossibilità di individuare i candidati. Le liste più brevi renderanno se non altro i deputati riconoscibili. Ma essi non dovranno il loro mandato a una scelta popolare, come nel caso dei collegi uninominali; saranno comunque e sempre legati al capo partito. Se i seggi saranno ripartiti su base nazionale si eviterà il pericolo di frammentazione, impedendo a ogni collegio di eleggere un sindacalista del territorio; ma si concentrerà ancora di più il potere di selezione della classe dirigente nelle mani di pochi. Per tacere dei 92 seggi attribuiti con il premio di maggioranza e quindi del tutto svincolati al territorio. In un sistema simile, l’unico rimedio alle liste bloccate sarebbe la preferenza. Che però implica, e non soltanto al Sud, la resurrezione o meglio il riconoscimento del clientelismo.
Oltretutto, di ridurre il numero dei parlamentari non si parla più. Mentre viene attribuita una funziona salvifica al superamento del bicameralismo perfetto, che in effetti rallenta le decisioni, ma non ha impedito agli Stati Uniti (dove le leggi devono passare al vaglio di Camera e Senato) di diventare la più potente democrazia al mondo.
Non è solo una questione politica. La crisi della rappresentanza non riguarda soltanto i partiti. Trasferire potere dalle segreterie ai cittadini è condizione necessaria ma non sufficiente. La rivolta contro le élite investe l’intero establishment , dai sindacati alle varie istituzioni. Non saranno primarie semiclandestine come quelle tenute dal Pd tra il Natale e il Capodanno 2012, o consultazioni online poco trasparenti come quelle grilline, a sciogliere un nodo che non riguarda solo l’Italia ma è il grande tema del nostro tempo.
Per recuperare un minimo di credibilità, di capacità di guida, di rapporto con la base, le élite devono porsi il tema della rappresentanza. La logica di Grillo — sostituirle con «uno di noi» — palesemente non funziona, così come non ha funzionato l’utopia leninista di affidare l’amministrazione dello Stato alla cuoca (che nell’epoca della cucina-spettacolo ha trovato ben altre gratificazioni). Ma questo non autorizza nessuno a richiudersi nella logica delle consorterie e dei partiti personali. I rappresentanti del popolo per definizione devono rispondere ai rappresentati; non al segretario generale.

il Fatto 20.1.14
Gianfranco Pasquino
“Non è spagnolo, lì la gente sceglie chi viene eletto”
di Eduardo Di Blasi


Ma lei, se fosse il segretario di un partito, non si vorrebbe scegliere tutti quelli da portare in Parlamento? ”. La domanda arriva a metà dell’intervista, quando il professor Gianfranco Pasquino, politologo e senatore per tre legislature consecutive dal 1983 al 1996, ha già chiarito che il sistema “spagnoleggiante” (così lo definisce) che fa capolino nel nuovo inizio Renzi-Berlusconi non risponde alle prescrizioni che la Corte Costituzionale ha messo nero su bianco con la sentenza ammazzaporcellum.
Spiega: “Quello spagnolo è un sistema proporzionale, con piccoli collegi, non un sistema maggioritario. Da noi aggiungiamo un premio di governabilità e una soglia di sbarramento all’ingresso. È un sistema ‘spagnoleggiante’, ancora in via di definizione, ma per ciò che è emerso fino ad ora ha come limite che non fa scegliere ai cittadini chi mandare in Parlamento”.
Un altro Porcellum?
Un porcellinum. Con liste più corte e un maggior numero di collegi, 118. Non so se riuscirà a garantire una governabilità. Peraltro ancora non sappiamo se il premio di maggioranza aggiungerà cinquanta, ottanta o novanta seggi alla coalizione vincente. Quel che è certo è che lascerà all’elettore solo la possibilità di decidere “contro chi” votare, non chi mandare in Parlamento.
Le liste corte non sono state cancellate dalla sentenza della Consulta...
Le liste corte no, ma se poi alle liste aggiungi ancora un premio di maggioranza, semmai non ripartito sul singolo collegio, allora il problema si pone...
La Corte segnala la necessità di prevedere un tetto entro cui far scattare l’eventuale premio di maggioranza...
Sì. Ho visto che l’ipotesi attuale è che scatti una volta superato il 35%. Mi pare un po’ poco.
Ma perchè, anche dopo la sentenza della Consulta, i partiti dovrebbero riproporre un sistema che li espone a nuove bocciature?
Ma perchè per i partiti scegliere per intero i gruppi parlamentari è una manna. Lo è stato per il Pd, per Berlusconi, ma anche per Bossi e Di Pietro. Avendo la possibilità di scegliere, metti fuori gioco le opposizioni interne. Non è un caso che Renzi incontri le maggiori difficoltà all’interno del proprio partito.
Lei preferisce il Mattarellum...
Se non altro ha il pregio di far eleggere un parlamentare per collegio. Anche se io sono per un Mattarellum “modificato” come quello proposto da Pippo Civati. Mi va bene eleggere il 75% dei parlamentari con il sistema uninominale, ma sull’altro 25% preferirei che il riparto fosse fatto al livello di collegio elettorale, di modo da premiare chi ha fatto campagna elettorale ed è finito dietro, semmai di poco.

Come funziona in Spagna
Sistema proporzionale, che favorisce la rappresentanza territoriale

LA SPAGNA elegge 350 deputati e 259 senatori. I primi vengono eletti in numero di 100 nelle 50 province (ognuna ne elegge di diritto 2, ad eccezione delle due enclave di Ceuta e Melilla che ne mandano a Madrid uno ciascuna). Gli altri 248 vengono eletti con un sistema proporzionale. In questo modo i primi “100” divengonoo espressione dei partiti maggiori, gli altri garantiscono la rappresentatività. Al Senato è diverso. Gli spagnoli eleggono 208 senatori direttamente (ogni collegio ne elegge da 2 a 4) e 51 indirettamente. Non esistono premi di maggioranza.

Il progetto italo-iberico
Così “copiamo” (male) Madrid. Chi vince con il 35% governa il Paese

DALLA SPAGNA prendiamo le circoscrizioni più piccole: diventano 118 per eleggere 630 deputati. E anche i listini bloccati di 5-6 nomi. Questo impedisce di per sè ai partiti più piccoli di eleggere direttamente i propri rappresentanti. Su base nazionale, però, chi supera il 5%, può ottenere dei seggi con il sistema proporzionale. Aggiunta ulteriore è un premio di maggioranza alla coalizione più votata. Come indicato dalla Consulta, va messa una soglia. Quella scelta per adesso si attesterebbe al 35%. In tal modo chi vince con più del 35% dei consensi ha un premio di +20%.

Repubblica 20.1.14
“Ma devono rispettare i vincoli della Consulta”
Il costituzionalista Luciani avverte: le indicazioni della Corte sul premio di maggioranza e sulle preferenze sono state esplicite
intervista di Liana Milella


ROMA — «Stiamo attenti a non sottovalutare i vincoli fissati dalla Consulta». Appena tre giorni fa è stato sentito dalla commissione Affari costituzionali della Camera e Massimo Luciani, professore di diritto costituzionale alla Sapienza, aveva raccomandato proprio «di considerare che, per definire la nuova legge elettorale, la Corte ha lasciato al legislatore uno spazio discrezionale ampio, ma non illimitato ».
Premio di maggioranza e niente preferenze. Siamo dentro o fuori quei limiti?
«Ci sono dei dubbi. Perché la Corte costituzionale ha sottolineato l’esigenza di garantire la “funzione rappresentativa dell’assemblea” e quella di assicurare agli elettori il potere di “incidere sull’elezione dei propri rappresentanti”. E non è detto, almeno da quanto si capisce dalle prime frammentarie informazioni, che il nuovo sistema le soddisfi entrambe».
Lei avverte il rischio di un nuovo Porcellino?
«Il sistema sembra molto diverso, ma alcuni dei vecchi difetti sembrano ancora in vita».
Le liste corte, quindi con candidati riconoscibili, possono bastare?
«Penso proprio di no. È vero che la Corte non ha escluso che liste brevi, senza preferenza, possano andare bene, ma vedo qui due difficoltà: la prima è giuridica e consiste nel fatto che i seggi sarebbero suddivisi tra i partiti su base nazionale e assegnati alle singole circoscrizioni secondo i risultati ottenuti in ciascuna di esse. È chiaro, a questo punto, che l’elezione dipenderebbe non solo dalla volontà degli elettori di quella circoscrizione, ma anche da quella degli altri, sicché ci sarebbe un elemento di problematica casualità ».
E il secondo problema qual è?
«L’opinione pubblica non ne può più di essere vincolata dalle segreterie dei partiti».
Questo sistema piace molto aBerlusconi, ma non rischia di far restare “vecchia” e con i vecchi difetti la classe politica che ci governa?
«Questo dipenderà dalle scelte delle segreterie, ma il problema è appunto che nessuno vuole più lasciar loro il monopolio».
Ma allora la via più semplice non è quella di rimettere in pista le preferenze?
«Certamente, anche perché la Corte ha ricordato che la preferenza unica (magari corretta, aggiungo io, per assicurare la parità di genere) era stata volutadai cittadini con il referendum del 1991. So che si obietta che le preferenze possono aumentare i costi delle campagne elettorali e generare rischi di corruzione, ma questi problemi si porrebbero ugualmente istituzionalizzando il sistema delle primarie, che sarebbe l’unica altra alternativa alle liste bloccate».
Il premio di maggioranza del 15-20% per la coalizione che raggiunge il 35% è eccessivo?
«La Corte ha già detto che un premio troppo alto sarebbe incostituzionale, ma non ha chiarito quale sarebbe la soglia giusta. Certo, quello immaginato sarebbe un premio molto alto e c’è da chiedersi se non sia, come ha detto la Consulta, “tale da produrre un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente”. E quindi, direi, anche il sistema dell egaranzie».
Abolire il Senato è un sacrificio necessario?
«Cambiare il nostro bicameralismo è essenziale. In particolare lo è riservare a una sola Camera il rapporto di fiducia con il governo. Senza una riforma del genere le nostre istituzioni corrono maggiori rischi di instabilità ».
Siamo sicuri che un nuovo Bozzi, l’autore del ricorso contro il Porcellum, non porti all’incostituzionalità anche della legge Renzi-Berlusconi?
«Stando così le cose avrei davvero qualche timore».

Repubblica 20.1.14
I due leader extra-parlamentari
di Ilvo Diamanti


È DA oltre vent’anni che si cerca e si promette di riformare la Repubblica. Con effetti deludenti. Perché le riforme — quelle elettorali per prime — sono sempre state fatte su spinta dei referendum o con colpi di mano. L’unica riforma costituzionale effettivamente realizzata riguarda il titolo V della Costituzione, approvata dal Centrosinistra alla vigilia delle elezioni del 2001. Per testimoniare la propria fede federalista.
L’attesa “riformatrice”, negli ultimi anni, si è, quindi, concentrata sulla legge elettorale. Sul Porcellum, approvato dalla maggioranza di Centrodestra, guidata da Berlusconi, nell’inverno del 2005. Per ostacolare la vittoria annunciata dell’Unione di Centrosinistra, guidata da Prodi, alle elezioni dell’anno seguente. Più in generale, per impedirle di governare. Perché il Porcellum, per vincere, “costringe” a costruire coalizioni ampie ed eterogenee. Così, l’attenzione politica e dell’opinione pubblica si è rivolta alla legge elettorale. Causa prima della frammentazione e, inoltre, del degrado della classe politica. Eletta in liste bloccate, senza possibilità di controllo da parte degli elettori.
Non a caso, gli sforzi di Matteo Renzi, subito dopo essere stato eletto segretario del Pd, si sono orientati in questa direzione. Ri-scrivere la legge elettorale. Riformata, di fatto, dalla Corte Costituzionale, che ha abolito il premio di maggioranza, le liste bloccate e le candidature multiple. Di più: Renzi ha condotto il percorso “riformista” per via extra-parlamentare. Negoziando, direttamente, con il principale leader dell’opposizione, Silvio Berlusconi. I due leader: entrambi fuori dal Parlamento. Nel caso di Berlusconi, perché condannato in via definitiva per frode fiscale. Il negoziato, peraltro, è avvenuto nella sede del Pd. Al di là dei giudizi di merito, il metodo stesso assume, sul piano simbolico, un significato molto chiaro. Sancisce un contesto bi-personalizzato, nel quale il Capo del Post-Pd negozia direttamente con l’Imprenditore di Fi. Sulla base di progetti elaborati — e negoziati — dai tecnici di sua fiducia, insieme a quelli di Berlusconi. Ignorando il lavoro dei Saggi nominati dal Governo. L’esito, annunciato “prima” della presentazione al partito, di oggi, e della discussione in Parlamento, che partirà lunedì prossimo, è chiaro dal punto di vista della comunicazione, assai più chede i contenuti. E degli effetti.
Dal confronto fra i due leader, è emerso, anzitutto, un sistema elettorale di tipo spagnolo (almeno, a parole); dunque, un proporzionale con effetti maggioritari. Sulla base di collegi piccoli, liste bloccate “corte”. In grado, così, di saldare il rapporto fra elettori ed eletti e, al tempo stesso, favorire i partiti maggiori. Rafforzato, nel progetto di Renzi, da un premio “nazionale” (alla coalizione vincente) e da uno sbarramento (per ora, al 5%. L’8% per i partiti non coalizzati). Inoltre, i due leader hanno delineato un nuovo assetto istituzionale, in cui il Senato diventa, di fatto, Camera delle autonomie. Non eletta dai cittadini, ma, probabilmente, dagli eletti a livello locale. E, quindi, ridotta nei numeri, nei poteri (non voterà più la fiducia al governo). E nei costi. Questi appaiono i contorni della Repubblica provvisoria, tracciati dai leader dei due principali partiti. Ma soprattutto da Renzi. In sede extraparlamentare. In attesa dell’esame parlamentare.
Per questo, è difficile scindere il giudizio politico da quello sul merito istituzionale. È evidente che Renzi ha imposto il proprio primato. Sul governo oltre che sul partito.(Ma anche su Berlusconi, rientrato in gioco grazie a lui.) Il Leader del Post-Pd ha agito come Capo del governo. O forse, del post-governo. La cui maggioranza, ora, è coerente con le larghe intese originarie. Perché coinvolge direttamente Berlusconi. D’altronde, se vediamo le stime di voto più recenti (sondaggio Demos di alcuni giorni fa), è chiaro come l’asse fra Renzi e Berlusconi abbia una base elettorale solida. Il Pd è, infatti, valutato intorno al 34% e Fi al 22% (in altri termini, più del Pdl alle recenti elezioni). Insieme, superano largamente la maggioranza assoluta, fra gli elettori. Mentre i partiti di governo, insieme, non raggiungerebbero il 50%.
Naturalmente, è impensabile immaginare una maggioranza per le riforme alternativa rispetto a quella di governo. Per questo è probabile che, intorno alla legge elettorale, si possano trovare soluzioni accettabili per gli altri alleati. Per primo, il Ncd. Tuttavia, più dei contenuti, a Renzi interessano la capacità e la rapidità delle riforme, in un Paese dove le riforme sembrano impossibili. Se non con percorsi biblici.
Peraltro, per marcare l’efficacia riformatrice si affida al linguaggio. Alle “etichette”. La proposta attualmente in discussione evoca la Spagna, ma è italiana. È un post-porcellum. Un proporzionale con premio di coalizione e sbarramento. Con un numero di collegi molto più ampio e listini “corti”. Ma in Spagna non c’è bisogno di alleanze né di premi, perché il sistema è bipartitico. Mentre lo sbarramento al 3% serve a “calmierare” i collegi più ampi (Madrid e Barcellona). Più delle leggi, infatti, contano gli attori politici, la società civile. E i sistemi elettorali producono, spesso, effetti diversi da quelli previsti. Il Mattarellum, ad esempio, nel 1993 venne delineato immaginando un paese diviso in tre: la Lega al Nord, la Sinistra al Centro e i Popolari (postDc) al Sud. Poi arrivò Berlusconi… Vent’anni dopo, per questo, occorre attenzione nel ri-scrivere la Costituzione e le leggi elettorali. Il federalismo, il bicameralismo e il Porcellum (in salsa spagnola). Le leggi fondative della Repubblica vennero scritte dall’Assemblea Costituente, in circa un anno e mezzo di confronto e discussione, tra persone di orientamento diverso e opposto. Il nostro proporzionale, che oggi non funziona, ha funzionato bene nel dare rappresentanza a tutti principali attori e settori di un Paese diviso. Uscito dalla guerra (e da una guerra civile). Oggi i tempi sono molto diversi. Ma non possiamo ignorare il problema della nostra democrazia rappresentativa. Il distacco, l’estraneità, che spinge un quarto degli elettori “fuori” dal voto. E indirizza un quarto dei voti verso il M5S. Cioè: contro i partiti della Seconda Repubblica. Per scrivere le regole della Terza Repubblica, compreso il sistema elettorale, Renzi deve fare i conti anche con questa parte dell’Italia. Con questa Italia. Non solo con la sinistra del Pd. Non solo con i “piccoli partiti. Non solo con Berlusconi e Forza Italia. Deve misurarsi con l’Italia dei delusi. Con l’Italia di Grillo. Fino in fondo. Disponibile, per questo, ad affrontare la sfida referendaria. Consapevole che nessuna legge può colmare il vuoto della politica.

l’Unità 20.1.14
Oggi voto in direzione. La bozza di legge elettorale oggi all’esame del parlamentino Pd
Battaglia sulle liste bloccate
Renzi: «Incontro col Cav alla luce del sole. Io eletto per cambiare»
Ma nel Pd cresce la tensione. La sinistra attacca
Fassina: «L’incontro con Berlusconi errore che non andava fatto. Da dirigente del partito mi sono vergognato»
«Avventuristica». Così Italianieuropei definisce la tentazione delle urne anticipate
di Osvaldo Sabato


Si gioca il tutto per tutto, l’obiettivo è fare presto. Il leader del Pd Matteo Renzi dopo aver incassato l’ok di Silvio Berlusconi a questo punto si è proposto dei tempi molto rapidi: oggi la direzione del partito discuterà e voterà il modello spagnolo corretto all’italiana, e gli altri punti dell’accordo con il Cavaliere a partire dalla riforma del Senato e del titolo V della Costituzione. Modifiche che a dire di Renzi produrranno risparmi per un miliardo di euro. «Sulle riforme il Pd si gioca la faccia» era stato l’avvertimento del segretario nell’ultima direzione del partito.
Ma è in quella di oggi che Renzi conta di portare a casa il via libera del Pd potendo contare su un’ampia maggioranza. Anche se non mancano i malumori interni e anche con gli alleati di governo non mancano i problemi, la questione è molto delicata. Questo Renzi lo sa molto bene, perché il tema è spinoso e chi dentro il Pd si oppone al segretario non ha nessuna intenzione di arrendersi. Ieri Renzi è stato a Parma a discutere del modello con Pier Luigi Bersani. In ogni caso la road map del leader democratico prevede l’approdo in Parlamento, già entro metà febbraio, dei due disegni di legge di riforma costituzionale: modifica del Senato in camera delle autonomie e del titolo V della Carta che snellirà le competenze delle regioni, poi entro aprile l’approvazione definitiva delle nuova legge elettorale. «Finalmente siamo vicini a quelle riforme attese da vent’anni» commenta Stefano Bonaccini. Riforme, che per il segretario del Pd emiliano e componente della segreteria di Renzi, servirebbero a «togliere l’acqua dell’antipolitica a Grillo».
Nel frattempo la rivista “Italiani europei”, diretta da Massimo D’Alema, in un editoriale non firmato si mette di traverso rispetto alla tentazione di elezioni anticipate ritenendola una soluzione «avventuristica» e che tra l’altro rimetterebbe in gioco Silvio Berlusconi «il che non corrisponde agli interessi del paese e rischia di farci perdere quella credibilità internazionale che abbiamo riconquistato». «La responsabilità del nuovo segretario del Pd sarà anche scegliere i tempi giusti affinché si legge la prova elettorale consenta un passo avanti all’intero paese». «È possibile oggi definire un programma di lavoro di un anno per realizzare alcune essenziali riforme elettorali, costituzionali e regolamentari. E al contempo è necessario definire un’agenda che comprenda interventi di consolidamento della ripresa e di sostegno all’occupazione», scrive la rivista dalemiana.
Se su Senato e regioni è più facile trovare un’ampia convergenza nel Pd, non è lo stesso quando si parla delle nuove regole sul voto, perché in questo caso la minoranza è pronta a dare battaglia. Anche se con toni diversi. Per esempio Matteo Orfini, leader dei giovani Turchi, in dissenso con i bersaniani aveva aperto al dialogo con Berlusconi, a differenza del presidente del Pd Gianni Cuperlo che ha ritenuto un errore l’aver rilegittimato il capo di Forza Italia. Ma è Stefano Fassina che ci va giù duro: «Da dirigente del Pd mi sono vergognato. Questo colloquio non andava fatto, è un errore politico. Andava coinvolta Forza Italia con i capigruppo nelle riforme», è la tesi dell’ex ministro che aggiunge «il Senato ha votato dopo una sentenza passata in giudicato per l'interdizione politica. Difficile spiegare perché lo abbiamo votato poi lo ribattezziamo per la terza volta a padre costituente». Quanto al sistema elettorale, i bersaniani rilanciano il doppio turno e il ritorno delle preferenze, e sempre con Fassina lanciano la proposta di un sondaggio on line: «Lo statuto lo prevede, chiediamo ai nostri iscritti di pronunciarsi sulla legge elettorale attraverso canali telematici, in dieci giorni». Proposta bocciata dalla renziana Simona Bonafè. «Ma si sono già espressi» dice la parlamentare Pd al telegiornale di Sky ricordando le primarie dello scorso 8 dicembre, «noi ci siamo presentati con un programma chiaro, penso che dividerci ancora, come stiamo facendo nel partito, fra berlusconiani e anti berlusconiani non serve assolutamente a nulla».
Il tutto mentre su twitter un altro renziano, il senatore Andrea Marcucci, ironizza su Fassina paragonandolo a Hiroo Onoda l'ultimo giapponese ad essere rimasto nella foresta. È in questo clima che Cesare Damiano annuncia battaglia da quella parte del Pd che vuole le preferenze nella nuova legge elettorale. «Se la direzione del Pd voterà una proposta sulla legge elettorale, sarà un impianto ancora a maglie larghe. Almeno lo spero» dice l’onorevole democratico e presidente della Commissione Lavoro «noi continueremo comunque la nostra battaglia per riconsegnare ai cittadini la preferenza nella scelta degli eletti al Parlamento». L’idea di una consultazione tra gli iscritti trova d’accordo il deputato Pd, Danilo Leva «riformare la legge elettorale non può significare tornare alle liste bloccate». Il Pd sicuramente oggi pomeriggio dirà al segretario di andare avanti. Ma la minoranza interna prepara una fronda. Il timore è che si ricada in un nuovo Porcellum, come ha detto ieri Alfredo D'Attorre. Senza dimenticare che la battaglia potrebbe diventare durissima nei gruppi parlamentari, dove la sinistra del partito ha ancora un certo peso.

Corriere 20.1.14
La sinistra pd e il fastidio per il Cavaliere
«Che vergogna, lo abbiamo ri-sdoganato»
Le critiche di Fassina. E c’è chi chiede di consultare la base
Ma Cuperlo: no a scissioni
di Andrea Garibaldi


ROMA — Il meno diplomatico è come al solito Stefano Fassina, viceministro dimissionario. Osservando l’incontro fra Renzi e Berlusconi, «mi sono un po’ vergognato, come dirigente del Pd». E a Maria Latella (SKy Tg 24 ) ha detto, inoltre: «Berlusconi è stato incoronato padre costituente, pur avendo una sentenza passata in giudicato e un voto del Parlamento». Dunque, «per convenienza politica, la legge non è uguale per tutti». Fassina è «l’ultimo giapponese», ha subito replicato su Twitter il senatore renziano Andrea Marcucci, paragonando l’ex viceministro al tenente Hiroo Onoda, trovato nella foresta ventinove anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
Fassina, tuttavia, non è solo. Danilo Leva, per esempio, è stato presidente del Forum giustizia del partito con Epifani, ha seguito l’estenuante vicenda della «decadenza» di Berlusconi ed è portatore di una particolare amarezza: «Berlusconi non aveva più il mazzo, gli abbiamo consentito di tornare a ridare le carte. Da oltre 50 giorni è indegno di fare il senatore e ora tratta sulle riforme». Errore grave, è la locuzione più usata dall’opposizione interna (bersaniani-dalemiani). «Non è il primo sdoganamento di Berlusconi nella storia del Pd...», dice sconsolato l’ex ministro Cesare Damiano. «Berlusconi 2 Renzi 0 — proclama il deputato Alfredo D’Attorre —. Il leader di Forza Italia ha incassato rinuncia al doppio turno e reintroduzione delle liste bloccate».
«Incontro inquietante — si sente ripetere fra donne e uomini che furono al fianco di Bersani e anche di Epifani —. Pericoloso è sedersi la tavolo con lo scorpione...». Eppure, per oggi pomeriggio il dibattito in Direzione non si annuncia feroce. Anche se insoddisfazione, irritazione sono palpabili: «Non discuto che si debba essere veloci. Non discuto che si possa anche voler stupire. Ma per me i contenuti valgono ancora», dice Damiano. No, però, a qualsiasi idea di scissione, ha assicurato il presidente Cuperlo: «Il Pd ora è una squadra, ci si confronta e poi si decide». Nessuna scissione, ha ribadito Fassina. Che però rilancia: «Sul modello di riforma elettorale ascoltiamo i circoli, gli iscritti del Pd. Lo statuto lo prevede e con Internet possiamo farlo nel giro di qualche giorno». Leva precisa: «Sia la base del partito a decidere il meccanismo democratico più utile a legare l’eletto al territorio e a restituire ai cittadini il diritto di scelta». Lo statuto prevede che tale consultazione sia richiesta dal Segretario, o dalla maggioranza in direzione, o dal 5 per cento degli iscritti.
I renziani hanno subito risposto: la base è stata appena consultata, con le primarie! Fatto sta che gli oppositori di Renzi oggi si vedranno prima della direzione e metteranno a punto la tattica. La linea è questa: se viene coinvolta la maggioranza di governo, quindi il gruppo di Alfano; se non si va a votare a maggio; se si procede con l’abolizione del Senato; se si sostiene la ripartenza del governo (Cuperlo chiede un nuovo governo Letta per il 2014); se accade tutto questo, il progetto Renzi può passare. Ma se dopo il «riaccoglimento» di Berlusconi dovesse essere approvato anche il ritorno delle liste bloccate, «allora potremmo anche votare contro — sostiene Damiano —. Ci troveremmo di fronte a un nuovo Porcellum con piccole correzioni». E Leva: «Concedere le liste bloccate perché Berlusconi le vuole sembra un tradimento delle primarie, un passo indietro rispetto alla domanda di cambiamento». Insomma, ascolteranno Renzi e poi...
Riguardo a Berlusconi sono su una posizione più morbida coloro che vengono chiamati i Giovani turchi. Dice Matteo Orfini: «L’accusa di resuscitare Berlusconi è di matrice grillina. Non mi appassiona». Contrario anche a sentire la base: «Come? Non l’abbiamo consultata sulle larghe intese!». Ma le liste bloccate proprio no, anche per loro: «Le liste bloccate non sono accettabili. Meglio allora i collegi uninominali».
E i big o ex big del Pd? Molto nell’ombra. Su Italianieuropei , la rivista di D’Alema, uscirà un editoriale su Renzi: «Deve essere capace di unire il Pd e valorizzare questa unità tra diversi. C’è chi lo consiglia di fare da solo, ma è una tentazione elitaria che non ha mai portato bene nel campo riformista».

l’Unità 20.1.14
Gianni Cuperlo
Il presidente del Pd: «No a un restyling del Porcellum I cittadini devono scegliere gli eletti, è un punto irrinunciabile. Lo dirò in direzione e nei gruppi»
«Contro le liste bloccate sarà battaglia dura»
«Sbagliato restituire visibilità a Berlusconi Non ha mai voluto davvero riformare le istituzioni»
«Sulla legge elettorale è opportuno consultare i nostri iscritti anche se i tempi sono stretti»
di Andrea Carugati


ROMA Gianni Cuperlo annuncia battaglia oggi in direzione «e poi nei gruppi parlamentari». Contro le liste bloccate che sembrano destinare a restare un caposaldo della bozza discussa da Berlusconi e Renzi. E contro quello che sembra più «un restyling del Porcellum piuttosto che la nuova legge che abbiamo sempre voluto». E apre al referendum tra gli iscritti proposto da Stefano Fassina proprio sulla legge elettorale. «Sarebbe giusto farlo, anche se i tempi sono molto stretti». «Sono convinto che le riforme di cui si sta parlando siano una necessità», è la premessa. «Superare il bicameralismo paritario e riformare il Titolo V della Costituzione, insieme alla riforma elettorale sono una scelta essenziale per restituire speranza all’Italia. E trovo positiva l’accelerazione impressa dal Pd su questi temi: ora sono gli altri a doversi misurare con la nostra agenda». Ma nel merito restano tutti i dubbi. «Rimango dell’opinione che il doppio turno sia il sistema più adatto per il nostro Paese, perché garantisce governabilità e rappresentanza».
E tuttavia il doppio turno sembra ormai fuori dai radar...
«Se si vuole ragionare di vera modifica del Porcellum, è irrinunciabile che i cittadini tornino a scegliere i loro rappresentanti. E questo si ottiene solo con i collegi uninominali o con le preferenze. Non è un dettaglio tecnico, ma un punto politico fondamentale: è la condizione per ricostruire un legame di fiducia tra gli elettori e il sistema politico. Bisogna sottrarre alle segreterie dei partiti il potere di nominare i parlamentari. Su questo non si può arretrare».
Il modello di cui si sta parlando assomiglia troppo al vecchio Porcellum? «Leggerò il testo in direzione. Se ci sono le liste bloccate e un premio di maggioranza, anche se più contenuto, è evidente che si tratterebbe solo di un restyling della vecchia legge. Il Pd ha fatto in passato le primarie e potrebbe farlo ancora per selezionare le candidature, ma non è la stessa cosa. Le primarie sono un modo per attenuare lo strapotere delle segreterie, ma restituire agli elettori la scelta diretta dei parlamentari richiede che ci siano i collegi o le preferenze».
Teme che gli elettori Pd vi accusino di aver cambiato poco?
«Ho molto dubbi che il modello di cui si parla possa risolvere i problemi che abbiamo denunciato per anni. Non possiamo accontentarci di un correttivo a una legge pessima, o di una legge solo un po’ meno pessima. Non è la riforma di cui c’è bisogno».
L’obiezione è facile: Renzi è appena arrivato e fa qualcosa, chi c’era prima...
«E infatti io non ho alcuna intenzione di polemizzare con Renzi su questo. Anzi, come ho detto, ho apprezzato l’accelerazione che ha impresso. Un minuto dopo le primarie ho detto che il compito della minoranza non è quello di lavorare “contro”, ma di ragionare nel merito dei problemi».
Lei in Parlamento voterebbe un sistema con le liste bloccate?
«Prima di tutto voglio fare una battaglia politica in direzione e nei gruppi parlamentari sulla questione delle liste bloccate. È una della cause dei guasti della nostra democrazia negli ultimi anni, e intendo contrastare negli organismi dirigenti questo modello in ogni modo».
In direzione però i numeri sono a favore di Renzi...
«Insisteremo a discutere nei gruppi parlamentari».
Cosa accadrebbe se i gruppi parlamentari esprimessero un’opinione diversa dalla direzione?
«Intanto andiamo in direzione e discutiamo. Poi si vedrà».
E il referendum tra gli iscritti che propone Fassina la convince?
«Sono consapevole che i tempi sono molto stretti, visto che la legge elettorale va in discussione in Aula alla Camera il 27 gennaio. E tuttavia ritengo che sentire l’opinione dei nostri iscritti e dei gruppi dirigenti a tutti i livelli sia un atto giusto e lo sosterrò».
Pensa che l’opinione del popolo democratico sia ostile a questo accordo? «Credo che ci siano opinioni diverse, sto ricevendo moltissime mail. Vorrei che ci fosse una discussione seria, serena e responsabile. Le riforme le vogliamo tutti, a partire da quella delle legge elettorale. Ma dire che serve una riforma non significa che qualunque riforma va bene».
Condivide l’opinione di chi prova vergogna per l’incontro tra Berlusconi e il segretario del Pd?
«Non condivido il metodo utilizzato da Renzi. Da mesi Berlusconi non occupava le prime pagine dei giornali, fatta eccezione per le vicende della sua decadenza dal Senato. Il fatto che abbia recuperato visibilità per un ruolo politico attivo dovrebbe far riflettere tutti, minoranza e maggioranza del Pd. Ma soprattutto i nostri elettori. Non ho mai detto che non bisognava discutere delle regole con Forza Italia, compreso Berlusconi. Ho sostenuto invece che occorresse partire dalla maggioranza e poi ricercare un accordo più largo. Dubito che aver restituito al capo storico della destra una piena agibilità politica, quasi una primazia, possa rappresentare un passo avanti verso una fisiologica alternanza tra un centrodestra e un centrosinistra di tipo europeo». L’obiezione la conosce: voi ci avete fatto il governo con il leader di Forza Italia... «Il governo fatto anche con le forze di centrodestra è stato necessario per la situazione creatasi dopo il voto di febbraio. È stata una questione di responsabilità. Questo non mi impedisce oggi di esprimere e confermare le mie critiche sul metodo utilizzato in questa discussione sulle riforme».
Crede che questa volta Berlusconi sia più affidabile rispetto al passato?
«Spero che il traguardo delle riforme venga superato, perché prima degli interessi di un partito ci sono gli interessi della democrazia italiana e del patto repubblicano. In vent’anni di vita politica, Berlusconi e il suo partito non hanno mai dimostrato di voler condurre fino in fondo un’opera di riforma delle istituzioni. Dunque qualche dubbio sulla sua effettiva volontà è lecito conservarlo...».
Ritiene che il governo supererà indenne questo passaggio?
«Mi sembra presto per dirlo. Le riforme vanno fatte nell’interesse del Paese, non per garantire gli equilibri politici. Ma sul governo ribadisco che la situazione non può andare avanti così, perché i problemi del Paese sono drammatici: c’è un rischio di deflazione, milioni di persone che faticano a fare la spesa. Non si vuole usare la parola rimpasto? Cancelliamola. Ma una ripartenza è decisiva: si prenda atto della nuova situazione politica e si dia vita a un Letta bis. Che abbia come priorità una grande operazione di redistribuzione di risorse a favore della fasce sociali più deboli. Questo per me deve essere il cuore del patto per il 2014».
Per farlo serve una nuova squadra di governo?
«A un nuovo programma deve corrispondere un nuovo governo che riesca a recuperare un rapporto di fiducia con il Paese. La condizione è che il Pd lo senta come il “suo governo”». Dovrebbero entrare ministri renziani? «Questo lo valuteranno il segretario del partito e il presidente del Consiglio, in accordo con il Capo dello Stato. Per me sarebbe importante che entrassero figure di grande prestigio esterne ai partiti, che si sono battute sulla frontiera della legalità e del civismo».

La Stampa 20.1.14
Quando prof Cuperlo alzò il voto alla studentessa per... padre Pio
di Carlo Bertini


Fa un certo effetto guardare Gianni Cuperlo con la sua aria da giovanotto asburgico, capelli rasati con sfumatura sul collo e ciuffo davanti, raccontare un episodio che non ti aspetteresti di sentire da un ex comunista doc laico e rigoroso. Però capace di padroneggiare sempre l’arma dell’ironia, dimostrando una notevole dose di curiosità per mondi magari a lui distanti. «In uno dei miei periodi di non militanza attiva, insegnavo Scienze della Comunicazione all’università di Teramo e devo ammettere che la cosa più noiosa erano gli esami. Mi piaceva molto fare lezione, ma gli esami erano proprio una scocciatura. Un giorno stavo interrogando una ragazza, non proprio brillante devo dire. E alla fine le dissi, “senta, se vuole io le potrei dare 22, ma se preferisce può tornare...”. Lei mostra una faccia affranta e quando tira fuori il libretto degli esami, le scivola sulla scrivania il santino con l’immagine di Padre Pio. “Sa professore, io sono molto devota al Santo, ma se non per me, almeno lo faccia per lui, la prego...”. Prima quasi incredulo e poi basito, mi scopro ad offrirle uno sguardo compassionevole e alla fine non so bene perché, ma le alzo il voto. Lo faccio! Un bel 24 tondo tondo per Padre Pio...». Risata scrosciante di Cuperlo e dei cronisti in Transatlantico che ascoltano questo atipico personaggio, che ad ogni domanda politica sul Pd sfodera la sua consueta dose di autoironia, anteponendo ad ogni risposta lo stesso adagio: «Dal peso che mi deriva grazie a quel 18 per cento di consensi presi alle primarie... ho convocato su mia decisione la Direzione per lunedì alle 16...».

Corriere 20.1.14
Bersani riceve la visita di Renzi. Ma non gli dà il via libera
di Francesco Alberti

PARMA — Visita apprezzata. Clima amichevole. Sul fair play niente da dire. Ma se Matteo Renzi sperava di ottenere oggi all’ospedale di Parma, nella stanza di neurochirurgia dove dal 5 gennaio è ricoverato il suo predecessore Pier Luigi Bersani, un assist, anche piccolo, per tentare di ammorbidire la dissidenza di parte del Pd sulla riforma elettorale, allora ha dovuto prendere atto che, seppur convalescente, l’uomo che solo un anno fa lo sconfisse alle primarie e che pareva destinato a Palazzo Chigi resta un osso duro. Che uno come Renzi, mediatico per eccellenza, eviti tv e taccuini, come ha fatto ieri pomeriggio a Parma uscendo da un ingresso secondario, al termine di una visita tutt’altro che improvvisata, ma annunciata con diverse ore d’anticipo, dà l’idea della delicatezza del momento e delle difficoltà che il neosegretario si trova a fronteggiare.
In un contesto fino a poco tempo fa inimmaginabile (Bersani nella sua stanza d’ospedale a due letti, in vestaglia; Renzi su una seggiola: soli per quasi un’ora, mentre fuori dalla porta sono rimasti il governatore Vasco Errani, l’assessore regionale Alfredo Peri e il presidente della provincia di Parma, Vincenzo Bernazzoli), i due, liquidati in fretta i convenevoli, si sono affrontati con la stessa schiettezza che li ha visti rivali in passato. L’ex segretario, a quanto si apprende, ha detto chiaramente al suo successore di «non aver gradito» che l’incontro tra lui e Berlusconi si sia svolto nella sede del Pd. Non è dato sapere se Bersani abbia espressamente parlato di «regalo all’avversario», ma il senso era quello: il rischio di aver ridato al Cavaliere una boccata d’ossigeno nel momento in cui in tanti considerano chiusa la sua ventennale avventura politica, andando in controtendenza rispetto agli umori di una larga fetta della base. E qui, a quanto riferiscono fonti vicine, Bersani avrebbe ricordato al suo successore che «la leadership di un partito come il Pd richiede massima attenzione alle varie sensibilità e profonda sintonia (guarda caso la stessa espressione usata da Renzi per sintetizzare l’incontro con Berlusconi, ndr ) con la nostra base».
Sul modello spagnolo, più o meno ibrido che sia, Bersani è stato più cauto, ha congelato ogni giudizio in attesa della direzione di oggi, ma ha fatto capire che alcuni elementi di criticità ci sono e riguardano, nell’ordine, la distanza dalla proposta originaria del Pd (il doppio turno), la presenza delle liste bloccate con il rischio di ripiombare nella logica del Porcellum e il nodo del premio di maggioranza e quindi della governabilità. Temi di cui Bersani, prima dell’arrivo di Renzi, aveva discusso anche con Romano Prodi, da sempre convinto sostenitore del doppio turno. L’ex premier, che ha regalato all’amico una scatola di sigari, ha evitato qualsiasi domanda sfiorasse Berlusconi, scherzando sulle condizioni di Bersani: «Ho trovato bene Pier Luigi. Abbiamo parlato di tutto, dall’impero romano ad oggi. La sua memoria? Migliore della mia». A giorni, salvo imprevisti, l’ex segretario sarà dimesso per proseguire la convalescenza nella sua abitazione piacentina. Dire che è impaziente, è poco. Tv, iPad, libri e riviste non gli bastano più. Raccontano i suoi: «Pier è un combattente, vive di adrenalina». Se è per questo, con Renzi è garantita.

l’Unità 20.1.14
Bersani al segretario: «Attento a riaprire il ventennio»
di Vladimiro Frulletti


Gli ha augurato un «sincero in bocca al lupo», ma lo ha anche messo in guardia dai pericoli che ha di fronte. Anzitutto da quello di non dimenticare che il Pd è una «comunità» vasta e che quindi va trattata con cura tenendo conto anche delle varie sensibilità che ci sono. Anche quelle che, ad esempio, non hanno affatto gradito l’incontro, proprio nella sede del Pd, con Berlusconi. Lo stesso Bersani, come raccontano fonti vicine all’ex segretario, non ha gradito.
Renzi, ieri, come annunciato, è andato a trovare il suo predecessore all’ospedale. E ha trovato un Bersani già decisamente in forma tanto da passare quasi un’ora in un fitto colloquio. Non formale. Del resto era la prima volta che i due si vedevano da quando Renzi ha vinto le primarie. E lo stesso segretario-sindaco alla vigilia della sua partenza per Parma aveva tolto ogni involucro di formalità a un incontro che per lui doveva avere un significato politico. E l’ha avuto.
Infatti Bersani non gli ha nascosto le proprie perplessità su quell’accordo sulle riforme che Renzi sta cercando di portare a casa. Lo stesso faccia a faccia con Berlusconi, per l’ex leader del Pd infatti sembra riaprire, dopo l’ultimo 20ennio, una parentesi che pareva chiusa dopo la condanna del Cavaliere e soprattutto l’indebolimento politico causato dalla scissione del Nuovo Centrodestra di Alfano.
Quanto alla legge elettorale a cui sta lavorando Renzi, Bersani non ha chiuso la porta. S’è riservato un giudizio completo nel momento in cui il testo sarà reso noto alla direzione del Pd di oggi pomeriggio, spiegando a Renzi che molto dipenderà da quanta distanza ci sarà fra il modello proposto e la storica posizione del Pd a favore del maggioritario a doppio turno. Bersani ha spiegato al suo successore
che comunque se fosse in lui starebbe bene attento a non riproporre ricette già bocciate dalla Corte costituzionale. Avvertimento in cui è esplicito il riferimento alle liste bloccate e a un eccessivo premio di maggioranza. Dunque Renzi da Bersani ha avuto delle indicazioni chiare, ma senza alcuna chiusura o posizione pregiudiziale. Che poi è l’atteggiamento con cui si presenteranno oggi gli uomini più vicini a lui in direzione.
Comunque anche questa domenica molto politica (prima di Renzi aveva avuto un lungo colloquio con Prodi) dimostra che Bersani, a due settimane dal ricovero in ospedale per un’emorragia cerebrale, è in netta ripresa. Tanto che fra una settimana già potrebbe tornarsene a casa e lasciare l’ospedale. Del resto l’ex segretario Pd ha già ripreso a leggere e ad usare il suo iPad e addirittura dicono che ogni tanto riesca anche a farsi portare una pizza violando le regole dell’ospedale. In forma l’ha trovato anche l’ex premier dell’Ulivo. «Con Bersani abbiamo parlato dell’impero romano, ha memoria più di me, è perfettamente in forma» spiega Prodi che alla domanda di Sky Tg24se avessero anche commentato l’incontro fra Renzi e Berlusconi non ha negato: «Abbiamo parlato di tutto».

La Stampa 20.1.14
Bersani non fa sconti al segretario
Oggi il vertice a Roma dove i bersaniani si presenteranno «a mani libere»
“La sintonia devi averla col partito” La visita in ospedale
L’ex leader avverte: “Stai attento alle sensibilità”
di Giovanni Cerruti


Poteva andar meglio, magari un’altra «profonda sintonia», e questa volta con Pierluigi Bersani, l’illustre infermo che può ancora muovere umori e malumori. E invece, dopo quasi un’ora, su nella stanza al quarto piano dell’Ospedale Maggiore, è appena un «Buon lavoro, Matteo». Così, alla fine di un pomeriggio di pioggia gelida, Matteo Renzi se ne va come era arrivato: invisibile alla piccola folla di reporter che fa la posta nell’androne, e dunque muto, niente da dichiarare, nemmeno un tweet ricordo. C’è sempre un treno che non lo aspetta e deve tornare subito a Firenze. E oggi a Roma, appuntamento nel pomeriggio con la direzione Pd.
Renzi e Bersani da soli. Vasco Errani, il presidente dell’Emilia-Romagna, che attende in corridoio. In mattinata Romano Prodi aveva portato un pacchettino rosso, dentro un paio di sigari assai graditi da Bersani e molto meno dai medici. Renzi non si sa cos’abbia portato, ma si sapeva cosa avrebbe detto. Il riassunto delle ultime puntate, soprattutto l’ultima, quella di sabato, l’incontro con il Cavaliere nella sede Pd del Nazareno. Ecco, da quel poco che filtra non sarebbe proprio piaciuta a Bersani. Che, al successore, avrebbe ricordato che la profonda sintonia ci vuole con le varie sensibilità del partito, «con la nostra gente».
Sul comodino «Mia suocera beve» di Diego De Silva, sul letto una copia del National Geografic. Ci sarebbero anche delle pizzette, che Bersani si fa portare (di nascosto) da un amico. Sta meglio, molto meglio, come ha raccontato Romano Prodi. Forse mercoledì potrà tornare a casa. Ma di questo non parla con Renzi. Ascolta, piuttosto. Si fa spiegare l’idea di riforma elettorale, l’idea di partito. Non pare sia rimasto entusiasta. Uno dei suoi, con cautela, spiegherà che «la valutazione sarà possibile quando si conosceranno i dettagli, e in ogni caso bisognerà vedere la distanza con la proposta originale del Pd, che è il doppio turno».
Alfredo D’Attorre, deputato con l’etichetta «bersaniano», ha già provveduto a bombardare Renzi e le sue profonde sintonie. Dal quarto piano non arrivano smentite. Bersani avrebbe ribadito che «tra listino bloccato e premio di maggioranza per la governabilità il rischio è quello di ripetere gli errori del “Porcellum”». Insomma perplessità su perplessità. Che lasciano immaginare, per questo pomeriggio, una Direzione Pd dove i “bersaniani” si presenteranno, come si dice, «a mani libere». Un rischio che forse, con questa domenica sul treno per Parma, Renzi avrebbe voluto evitare. Ma con Bersani non c’è stata profonda sintonia...
Non che Renzi si turbi più di tanto. Prima di partire da Firenze e rinunciare alla partita della sua Fiorentina in tv, aveva messo su Facebook tutto il suo decisionismo: «Sono stato eletto alle primarie per cambiare le regole del gioco, per rilanciare sul lavoro, per dare un orizzonte al Pd e all’Italia. Dopo 20 anni di chiacchiere in un mese abbiamo il primo obiettivo a portata di mano. L’accordo, trasparente e alla luce del sole, è molto semplice...».
E’ quello che sta andando a spiegare a Bersani. Che ne aveva parlato in mattinata con Romano Prodi. «Di tutto, abbiamo discusso di tutto», sarà poi la sua conferma.
«Per una volta facciamo ciò che abbiamo promesso, e questo mi sembra l’unico modo per cambiar verso», scrive Renzi. Avanti, avanti così. Anche se a Parma, su al quarto piano, Bersani non può far a meno di ripetere che «di uomo solo al comando mi piaceva Coppi e basta». E che un segretario del Pd non può sempre scattare fuori dal gruppo. «Attento alle sensibilità». Quelle sensibilità che non hanno capito l’invito nella sede del Nazareno per Silvio Berlusconi. «E’ un tornare indietro». E’ un rimetterlo in sella, nel gruppo. «La leadeship va sempre maneggiata con cura». Senza strappi. Senza esclusioni. E magari senza i «Fassina chi?».
Anche se poteva andar meglio Matteo Renzi non poteva non venire a Parma. C’era stato Enrico Letta per un’ora e mezza, Prodi per un ora, lui poco meno. Ma Letta e Prodi sono due vecchi amici, Renzi no, altra generazione, altra storia, altro modo di intendere la segreteria del Pd e le «sintonie». Forse il viaggio a Parma era un atto dovuto, forse non s’aspettava altro che dubbi e dinieghi. Nell’androne dell’Ospedale aspettava quella pattuglia di reporter ormai abituati alla battuta renziana che fa sempre titolo. Ma per questa volta niente, nè una battuta nè una fotografia. Non è il caso. Con Bersani poteva andar meglio. Con la direzione Pd chissà.

il Fatto 20.1.14
Dopo il Nazareno
Bersani-Grillo Sintonia contro Renzi
di Stefano Caselli


Un accordo trasparente, alla luce del sole”. Forse pure troppo. Matteo Renzi – via Facebook, come ben si confà a un vero leader-due-punto-zero – rivendica la trasparenza che ha generato la “sintonia profonda” tra il segretario del Pd e Silvio Berlusconi sulla bozza di riforma della legge elettorale. Ed è proprio questo il punto (al di là del merito del modello ispano-tedesco che qualcuno già ribattezza “Porcellinum” come a dire nulla cambia), i riflettori sul condannato interdetto che – come per magia – riguadagna il palcoscenico dopo mesi di meste apparizioni al fianco di Dudù. E la rivolta interna al partito non si è fatta attendere. Il più duro, sicuramente, è stato l’ex viceministro Stefano Fassina: “L’incontro al Nazareno – ha detto l’ex viceministro delle larghe intese – è stato un errore politico. Mi sono un po’ vergognato come dirigente del Pd. Da sabato pomeriggio la legge è un po’ meno uguale per tutti. Andava certo coinvolta Forza Italia, ma ci sono i capigruppo e non andava certo rilegittimato il Cavaliere, ribattezzandolo per la terza volta come padre costituente a fronte di una condanna definitiva. O abbiamo sbagliato quando abbiamo votato per la decadenza, e Renzi poteva dirlo allora, o ieri. Stiamo prolungando il ventennio che abbiamo alle spalle”.
PENSIERI molto simili a quelli espressi da Eugenio Scalfari su La Repubblica: “Renzi – scrive il fondatore del quotidiano nel suo editoriale domenicale – ha riportato Berlusconi al centro della politica italiana”. Concetti ribaditi nel pomeriggio a Lucia Annunziata durante In 1/2 Ora: “Il Pd rischia di scomparire – sostiene Scalfari – adesso c’è solo il partito di Renzi. Riportare Berlusconi al centro della scena è stato un errore fatale. Renzi vuole sostituire Letta. E per farlo ha tirato in mezzo Berlusconi”. Meno diretto, ma ugualmente contrariato, il presidente del partito Gianni Cuperlo: “Sul merito dell’incontro Renzi-Berlusconi – dichiara – ora è difficile giudicare, ma sul metodo ritengo sia sbagliato. Da tempo il cavaliere non dominava le prime pagine per il suo ruolo politico, ora è tornato a farlo. Il timido Enrico Letta aveva accompaganato il capo della destra sotto il cartello ‘exit’, il vulcanico Renzi l’ha accolto sul tappetino ‘welcome’”. Duro anche Stefano Rodotà, ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa: “Abbiamo perduto tutta la memoria se non ricordiamo che Silvio Berlusconi è stato condannato e che solo da poche settimane è stato dichiarato decaduto da senatore. Non mancherà di rivendicare il suo ruolo di padre della patria”. Il vertice di sabato non è piaciuto nemmeno a Pier Luigi Bersani (ancora ricoverato a Parma per i postumi dell’ictus) che ieri ha ricevuto la visita prima di Romano Prodi, poi di Renzi: “Non ha gradito – rivelano fonti vicine all’ex segretario del Pd – che l’incontro sia avvenuto nella sede del Pd. Ospitare Berlusconi al Nazareno – avrebbe detto Bersani – sembra riaprire, dopo l’ultimo ventennio, una parentesi che sembrava chiusa”.
RENZI, su Facebook, si difende: “Sono stato eletto alle primarie per cambiare le regole del gioco (...) Dopo 20 anni di chiacchiere, in un mese abbiamo il primo obiettivo a portata di mano(...) Si fa una legge elettorale per cui chi vince governa stabilmente senza il diritto di ricatto dei partitini: suggerisco a chi critica la legge di aspettare almeno di sapere come è fatta, io la presento domani (oggi, ndr) in direzione alle 16. Nasce il Senato delle Autonomie: via i senatori eletti, via i loro stipendi con riduzione del numero dei parlamentari e dei costi della politica. Si cambia il titolo V, superando non solo le province ma semplificando anche il ruolo delle Regioni (...) in più i consiglieri regionali riducono indennità a quelle dei sindaci e si cancellano i rimborsi-scandalo ai gruppi (...) Questo accordo è oggi a portata di mano”. Tutte cose che dovrà spiegare oggi alla direzione del Pd. Facile immaginare che al Nazareno sarà un pomeriggio agitato, soprattutto (ma non solo) a proposito delle preferenze che – a quanto pare – non sono previste dalla bozza di accordo: “È un Porcellum truccato – ancora Fassina – con tutti i difetti del Porcellum, le liste restano bloccate. Vogliamo preferenze e doppio turno”.
Preoccupatissimo per l’assenza delle preferenze è anche il Nuovo Centrodestra (quello di Alfano e Cicchitto): “Dateci la possibilità di scegliere il deputato”, implora Alfano.
BEPPE GRILLO non l’ha presa benissimo: “L’Italia – scrive sul suo blog – è in preda alle allucinazioni e ai dejà vu (...) Renzie in Profonda Sintonia con il pregiudicato Berlusconi (...) La Profonda Sintonia con un pregiudicato al quale vengono affidate le sorti del Paese attraverso una nuova legge elettorale è un’allucinazione. Non può succedere che chi è stato scaraventato fuori dalla finestra del Senato per frode fiscale dal M5S con i voti del Pd sia chiamato a fare le leggi dal Pd (...) Le leggi si fanno in Parlamento non in una stanza con due extraparlamentari, uno in attesa del gabbio”. Il più tranquillo di tutti è B. Ieri è tornato alla vecchia abitudine di telefonare a una platea adorante: “Il premio di maggioranza di cui stiamo discutendo consentirà di governare”. I fortunati che hanno potuto ascoltarlo discettare nuovamente di riforme costituzionali, questa volta, sono stati i membri del club “Forza Silvio” della Val di Susa.

La Stampa 20.1.14
Grillo attacca Renzi: allucinante
Ma il M5S depositò un testo simile
E nel Movimento sussurrano: noi ci guadagneremo comunque
di Jacopo Iacoboni

qui

Repubblica 20.1.14
Il Partito democratico
Irriducibili Pd pronti alla battaglia Bersani: rispetto per la nostra gente
Fassina attacca: mi sono vergognato per Berlusconi al Nazareno
di Giovanna Casadio


ROMA — «Come si fa ad avere una “profonda sintonia” con un pregiudicato? Si può capire una momentanea convergenza...». La minoranza del Pd, il “correntino”, darà battaglia oggi nella direzione che Renzi non ha voluto rinviare e che voterà sul “sistema ispanico” modificato. Questa volta sull’onda dell’indignazione per il Cavaliere “sdoganato”, ricompare l’opposizione interna. Divisa, per la verità, in spifferi di correnti. Perché gli irriducibili sono soprattutto i bersaniani. Mentre i “giovani turchi” e Gianni Cuperlo, lo sfidante di Renzi alle primarie, sono più cauti. In trincea c’è Stefano Fassina, l’ex vice ministro dell’Economia che si è dimesso dopo il “Fassina chi?” di Renzi.
«Da dirigente del Pd mi sono vergognato - ha accusato Fassina - Dall’altro giorno, la legge è un po’ meno uguale per tutti, non andava rilegittimato, non andava incoronato padre costituente pur avendo una sentenza passata in giudicato e un voto in Parlamento ». Intervistato in tv su Sky,l’ex vice ministro ha giurato di non volere nessuna scissione. Le tensioni interne sono però molto forti. I bersaniani Alfredo D’Attorre, Nico Stumpo, Danilo Leva chiedono a gran voce un referendum tra gli iscritti e oggi presenteranno un documento in direzione. Anche se per il referendum civuole la maggioranza delle firme. «Il segretario si appella al voto delle primarie dell’8 dicembre attacca D’Attorre - però se passano le liste bloccate come è annunciato è un tradimento del popolo delle primarie perché significa riesumare il Porcellum. La gente ha eletto Renzi non per fare quello che gli pare». E comunque, annuncia D’Attorre, lui non voterà mai in Parlamento una riforma che restituisce un para-Porcellum, nemmeno nel nome della disciplina di partito. Oggi in direzione ci sarà Massimo D’Alema che dovrebbe intervenire. Intanto sulla rivista della sua fondazione “Italianieuropei”, scrive che la segreteria di Renzi e l’avvento di una nuova generazione nel Pd costituiscono una speranza, però il neo segretario non ceda a «tentazioni elitarie». Ma soprattutto D’Alema avverte Renzi: «Fare cadere il governo Letta e votare nel 2014 rimetterebbe in gioco Berlusconi ».
Il Cavaliere in una mossa sola è riuscito a mandare in tilt i Democratici. Anche Bersani, l’ex leader, è in disaccordo sull’incontro Renzi-Cavaliere. Ricevendo in ospedale la visita del segretario ieri, gli ha raccomandato di tenere in conto «la sensibilità della nostra gente». I militanti dem sono furenti. Però un inatteso assist a Renzi arriva dai “giovani turchi”. Francesco Verducci, il portavoce, twitta: «Il berlusconismo è durato così a lungo grazie all’anti berlusconismo ». Matteo Orfini parla di «atteggiamento laico» necessario: «Il modello elettorale spagnolo corretto in senso tedesco è da valutare nel merito. Il nostro “no”chiaro è sulle liste bloccate e pensiamo che ci voglia l’accordo nella maggioranza di governo. Ma le parole di Alfano lasciano ben sperare ». E su Berlusconi? «No all’antiberlusconismo becero, non ho condiviso l’uscita di Fassina, ma neppure quanto ha detto Gianni... ». I cuperliani, così divisi, si incontreranno stamani alle 13, prima della segreteria. E riunioni dicorrente sono in vista, da Areadem ai Popolari. Pippo Civati, l’altro sfidante di Renzi alle primarie, mette in guardia dagli «abbracci mortali»: «Ma sono ridicole le critiche di quelli che sono stati nel governo con i berlusconiani, vediamo piuttosto il merito».
Partono i botta e risposta. Antonello Giacomelli, ex coodinatore della segreteria di Franceschini, ironizza: «Più cautela nei giudizi da chi è stato nel governo», da Fassina cioè. Il lettiano Francesco Sanna sostiene che dell’incontro con Berlusconi bisogna farsene una ragione come del resto Letta fu costretto alle “larghe intese”. Sarcastico su Fassina anche Pittella: «Vergogna? Più che altro invidia ».

Repubblica 20.1.14
Il “Condannatellum” divide anche la base pd
Bocciato l’incontro col Cavaliere: “un pregiudicato”. Ma su Facebook Renzi “piace”
di Tommaso Ciriaco


ROMA — Ogni domenica pomeriggio i militanti democratici della storica sezione romana di via dei Giubbonari si ritrovano attorno a un proiettore. Stavolta, però, hanno poca voglia di rilassarsi con un film. Sotto choc per il faccia a faccia tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, quasi non discutono d’altro. «Da mesi non parlavamo più del Cavaliere — ammette amara Giulia Urso, segretaria appena rieletta con il 95% dei voti — ci eravamo liberati di un incubo durato per vent’anni». Ecco, l’incubo è tornato.
Dopo la visione del film — «il Caimano? Noooo, uno molto più bello» — questo spaccato di base dem ha improvvisato pure un rapido processo. Ecco la sentenza, «praticamente all’unanimità »: «Per carità, capiamo che per fare una riforma si deve parlare con tutti. Ma la cosa che ci ha offeso di più — scandisce la cuperliana Urso — è stata la scelta di organizzare l’incontro al Nazareno. La forma è contenuto, a volte. Renzi doveva avere più sensibilità, è stato poco delicato. Voglio dire, è tornato a interloquire con un pregiudicato. L’antiberlusconismo di fondo c’è, non possiamo cancellarlo».
Da via dei Giubbonari al web, poco cambia. In tempi di partito leggero e social network imperanti, la pagina Facebook di Matteo Renzi si trasforma in una miniera di passioni e delusioni. Senza filtro. Come un sondaggio imperfetto della rabbia della base. «Mi spiace — scrive l’utente Piergiorgio — ma non è accettabile: il fine non giustifica i mezzi».
È proprio il segretario del Pd a testare la febbre dei militanti con un post domenicale. In poche ore raccoglie oltre 20 mila “mi piace”, ma pure tanti commenti al vetriolo, carichi di sconforto o sdegno. «Caro Renzi — mette nero su bianco Luciano — gli accordi alla luce del sole si fanno in Parlamento, non inuna stanza chiusa insieme a un condannato ». “Condannato” e “delinquente” ricorrono come mai, per descrivere il Cavaliere a colloquio con Renzi. Il fotogramma dell’ex premier nella sede Pd del Nazareno resta indigeribile per molti. «Sì, bravo — si infuria Mattia — vai a parlare con i pregiudicati. Sei l’ennesima delusione, ti ho pure votato».
Controprova non c’è, perché sul web chiunque può professarsi militantedem. Certo è che la percentuale di delusi è alta. «Con chi le fai le nuove regole? Con i condannati decaduti interdetti? Credibilità meno che zero». «Sicuramente — sostiene Laura — quelli di destra ti votano». C’è anche chi difende il segretario. «Ma che cavolate scrivete? Qualunque segretario di maggioranza ha il dovere di consultare tutti i leader dell’opposizione...». Eppure in molti provocano il segretario: «Matteo — scrive Renato — Totò Riina non ti ha ancora chiesto l’amicizia su Facebook?».
Per non parlare del blog di Beppe Grillo, dove in molti ironizzano sulla nuova era del “Renzusconi”. Su Twitter, poi, l’aria è più o meno la stessa, con argomenti presi in prestito dall’ortodossia grillina: «Partito democratico — provoca Maryna — è l’acronimo di Silvio Berlusconi. Ah, no, scusate...». Oppure ancora: «Ma come la chiamate la nuova legge elettorale? Candannatellum o Pregiudicatellum... ».

Repubblica 20.1.14
Intervistato dall’Annunziata
Scalfari critica il segretario del Pd “Il Cavaliere è entrato nella maggioranza”


ROMA — «Berlusconi è risorto e di fatto è entrato nella maggioranza. Oggi il vero scontro è tra Letta e Renzi». Eugenio Scalfari, intervistato da Lucia Annunziata in “In 1/2” critica il segretario del Pd e dice che «non si può essere in piena sintonia con un pregiudicato. Le parole sono come pietre». Secondo Scalfari, «Renzi vuole sostituire Letta. E per farlo ha tirato in mezzo Berlusconi. Di fatto riabilitando».

l’Unità 20.1.14
Berlusconi rilancia il presidenzialismo
Molte trappole sulla via delle riforme
Il Cavaliere: «Prendiamo tutto con il 36%»
Ancora una giornata di incontri «Da negoziare soglia di sbarramento e premi»
Alfano resta diffidente
di Claudia Fusani


Grande è la confusione sotto il cielo: la situazione è eccellente» scriveva Mao. Lo possiamo ripetere oggi nonostante la «profonda intesa» rivendicata sabato da Renzi e Berlusconi dopo le due ore di faccia a faccia nelle stanze del partito che fu dei comunisti. La situazione, possiamo aggiungere citando vari protagonisti della partita delle riforme, è sicuramente ancora «molto fluida». E fino all’ultimo momento, basta sfilare una carta o aggiungerne un’altra, può sempre cambiare. In un senso o nell’altro.
Come nelle partite di poker, alla fine qualcuno deve dire «vedo» e calare le carte. Il fatto è che fino a ieri sera alle 20 di carte in giro ancora non se ne vedevano. Per lo meno, non sul tavolo di chi, come il Nuovo centrodestra, per quanto piccolo, è invece decisivo. A meno di non cambiare nuovamente le maggioranze parlamentari. La sera è lunga e la notte anche. Fino ad oggi alle 16 (orario in cui la direzione del Pd potrà leggere la bozza della proposta) ogni minuto è utile per correggere o ritoccare.
Giornata sicuramente convulsa, ieri. Che la si può rapidamente così tratteggiare: cabina di regia tecnica a Firenze presso casa del professor Roberto D’Alimonte, via di mezzo tra il maieuta e la levatrice della terza repubblica; incontro in mattinata, sempre a Firenze, tra Renzi e Verdini; Alfano e Renzi in continuo contatto telefonico e via sms (sono entrambe creature digitali) hanno dovuto rinviare a oggi l’incontro per rispettivi e precedenti impegni; il ministro Quagliariello, il D’Alimonte del Ncd, ancora a sera in attesa di «leggere la proposta scritta nel dettaglio. Finchè non leggiamo, non è fatta manco per un corno. Possiamo solo dire che non c’è l’infanticidio (dove l’infante sarebbe Ncd, ndr) e che non è un patto esclusivo a due». Ancora più diffidente Fabrizio Cicchitto che, avendone viste tante, avverte gli ottimisti già festanti: «Senza il nostro ok non c’è nessun accordo perchè salta tutto per aria».
LO SPROLOQUIO DEL CAV
A completare il quadro convulso della giornata non poteva mancare Silvio Berlusconi, dopo 5 mesi di purgatorio, tornato in paradiso titolare del posto di leader della destra al gran tavolo delle riforme. Il Cavaliere, infatti, totalmente incurante della delicatezza del passaggio politico-istituzionale e del fatto che i dettagli in una faccenda come questa sono la sostanza, ieri mattina ha pensato bene di mettersi al telefono per benedire il Club Forza Silvio della Val di Susa e di rivendicare paternità e contenuto dell’accordo. Raccontandolo a modo suo. E cioé molto semplificato: «Il paese si governa solo con il bipolarismo»; i partiti piccoli «non ragionano per il bene del Paese ma per quello dei loro protagonisti che sono ambiziosi e curano solo gli interessi personali» e lui lo sa bene perché «è capitato anche nella mia maggioranza». Fatta questa rapida analisi, la ricetta è quella che lui, ovviamente, ha sempre indicato: «Elezione diretta del capo dello Stato; una sola camera con meno componenti che impieghi al massimo 120 giorni per approvare una legge; modificare l’assetto istituzionale e la Costituzione; cambiare la composizione della Corte Costituzionale che è un organismo politico della sinistra, prevedere un sistema di voto per cui per abrogare una legge ci vogliono almeno i due terzi dei componenti». Chiariti gli obiettivi, ecco che il Cavaliere chiama il suo popolo al voto: «Se prendiamo il 36 per cento, abbiamo un premio del 15 per cento e possiamo avere il 51 per cento. È questa la proposta che sto discutendo con Renzi».
Così ha parlato il Cavaliere intorno all’ora di pranzo. Gettando un po’ di scompiglio tra chi, a sinistra, vede con molta diffidenza il patto tra Matteo e Silvio ricordando come nel suo ventennio il Cavaliere si sia sempre servito degli accordi con gli avversari politici. Il fatto è che Berlusconi dà per acquisiti dettagli che invece, dice in serata a L’Unità una fonte tecnica, «sono ancora oggetto di negoziazione». La soglia di sbarramento è stata fissata al 5%, «potrebbe scendere al 4% ma assolutamente non più bassa». Come invece preferirebbe Alfano. Ancora «da negoziare», entità e soglia del premio di maggioranza (che invece il Cav ha già fissato al 15 % se partito o coalizione prendono il 35). Punti fermi e non più in discussione sono invece «le liste bloccate con al massimo 4/5 nomi» e «la ripartizione a livello nazionale» dei voti di quei partiti che non hanno eletti nei collegi.
La battaglia di Alfano e Ncd contro le liste bloccate («entrerà in Parlamento ancora una volta solo chi è stato deciso dalle segreterie dei partiti»denunciano ) potrebbe essere in realtà la motivazione più presentabile per cercare di avere una soglia più bassa di sbarramento. Più acqua per nuotare. Quella che Berlusconi vuole togliere.
L’INSIDIA DEL SENATO
Non ci dovrebbero essere problemi sul timing dell’accordo tra Silvio e Matteo: legge elettorale approvata entro la fine di aprile, in modo da escludere per sempre il voto anticipato a maggio; entr metà febbraio il Parlamento presenta due disegni di legge di riforma costituzionale (Titolo V e riforma del Senato). Su questo punto, Renzi potrebbe lasciar fare il governo, facendo così una cortesia al ministro Quagliariello e anche al Quirinale. Su come sarà riformato il Senato però Ncd è destinato ad essere sconfessato. Renzi è stato chiaro, Silvio ha approvato e non ci vogliono più tornare sopra: non ci devono essere più senatori eletti, solo una camera di compensazione tra Stato e regioni abitata da sindaci e consiglieri regionali, senza indennità e senza voto di fiducia. La legge elettorale che nasce ora, prima della modifica costituzionale, avrà una clausola che farà vivere la legge anche una volta cambiato il Senato.
Quello della Terza repubblica è un percorso lungo e pieno di insidie. E non è neppure cominciato.

Corriere 20.1.14
Berlusconi blinda il partito sul patto
«In campo siamo solo io e Matteo»
Il leader chiede ai suoi di essere «massimamente collaborativi»
di Paola Di Caro


ROMA — Soddisfazione, tanta. E cautela, un po’. Quella di chi sa che un grande e insperato risultato è stato raggiunto, e che la tanto ambita centralità politica è stata riconquistata. Silvio Berlusconi, il giorno dopo, si trova di nuovo al centro della scena e non ha alcuna intenzione di tornare nel cono d’ombra. Per questo sta bene attento a non compiere passi falsi, a non fare forzature, a non usare toni polemici, a non cantare vittoria.
Anzi, a chi gli ha parlato, l’ex premier sembra tornato «quello di una volta», quello prima dello tsunami-condanna che ne aveva fiaccato entusiasmo e speranze. Oggi, dicono, sembra quel «leader che ha come primo obiettivo l’interesse pragmatico del Paese e la voglia di dare una mano a risolverli, i problemi che attanagliano l’economia». E questo, ovviamente, per un duplice motivo. Il primo è che davvero lui pensa che «se riusciamo a fare riforme mirate, per un bipolarismo maturo in cui i piccoli non ricattano il lavoro del leader, per un diverso bicameralismo e un diverso Senato, per autonomie che funzionano, riforme che noi avevamo già varato», tutto il Paese ne trarrebbe giovamento, e la sua immagine di padre della patria ancora di più.
Il secondo motivo per cui ai suoi ha dato mandato di essere «massimamente collaborativi, senza rendere la vita difficile a chi sta trattando e anche pronti a mediare là dove si deve», è che è ben consapevole che oggi Renzi alle urne è «praticamente imbattibile». Andarci di corsa, senza risultati acquisiti e in difesa rispetto a un leader che può dire «stavo cambiando il Paese, non me lo hanno fatto fare», porterebbe a una sconfitta annunciata. Meglio, molto meglio assecondare il suo lavoro, mettersi in scia, e dimostrare che i veri competitor sul campo, quelli che appunto lavorano per il bene del Paese, sono «Matteo da una parte, e io dall’altra. Gli altri non contano». Di Renzi, d’altronde, davvero Berlusconi ha un’ottima opinione: «Il nostro — ha raccontato — è stato un incontro serio, non ci siamo raccontati barzellette. È un ragazzo pragmatico, è intelligente, ha ribaltato il suo partito con una forza e un coraggio invidiabili, si è conquistato sul campo tutto, nessuno gli ha regalato niente. E io so riconoscere il merito. Così come credo di capire di chi posso fidarmi e di chi no. Di lui oggi mi fido».
Poi certo, in Parlamento ci sarà da combattere e resistere perché «cercheranno di bloccarci, di cambiare le carte in tavola. Non dobbiamo cadere nelle trappole». Ma, assicurano i suoi, in questo momento per lui gli ex amici che se ne sono andati — Alfano, gli altri ministri — non sono in cima ai suoi pensieri. Certo, si sta convincendo Berlusconi che il sospetto che aveva all’inizio — che era stata la durezza dei falchi a provocare la rottura con il suo delfino — sia stato un po’ troppo ingeneroso. Pensa, dicono, che il loro progetto fin dall’inizio fosse un altro: svuotare Forza Italia, accantonarlo, prenderne l’eredità per un progetto centrista che ne avrebbe superato presenza e eredità. Ma grazie al lavorio sotterraneo, al progetto bipolare di Renzi che «è anche il nostro», la minaccia potrebbe essere sventata.
Ad attaccare il Nuovo centrodestra in difficoltà pensano i suoi. Chi con durezza, come Luca D’Alessandro («Schiumano di rabbia per l’incontro tra Berlusconi e Renzi»), chi come Paolo Romani con toni più soft («Polemiche inspiegabili: noi vogliamo ridare centralità al nostro sistema politico in ottica bipolare»), chi esulta come Mariastella Gelmini: «Dopo questo incontro possiamo cambiare l’Italia», chi manda auspici come Anna Maria Bernini: «Tutti hanno il dovere morale di collaborare».
Parole di chi ritiene di essere tornato pienamente nel gioco politico. Il resto si vedrà, la partita è appena iniziata. Per chi era stato relegato in tribuna, tornare in campo da titolare è già una vittoria.

Repubblica 20.1.14
Berlusconi tra cadute e recuperi impensabili
Silvio risorto dalle ceneri l’ennesima palingenesi che fa infuriare la sinistra
di Filippo Ceccarelli


QUANDO si avvicina l’ora della morte, come scritto da storici, poeti, astrologi e naturalisti, la fenice si costruisce un nido di ramicelli aromatici nel quale si consuma con il proprio calore. Tra le varie rivelazioni a sfondo mitologico che Berlusconi ha sparso a piene mani su di sé per un ventennio e passa, questa faccenda dell’autocombustione non dovrebbe rivelarsi poi così complicata disponendo egli, nientemeno,che del “sole in tasca”.
QUANTO ai rametti profumati, incenso, cardamomo e altre odorose piante comunque reperibili nelle famose coltivazioni di Villa La Certosa, con il senno di poi è da ritenere che il Cavaliere le abbia condivise, in attesa della rigenerazione, dentro un nido abbastanza, ma non troppo affollato: famigliari e vecchi amici d’azienda; poi l’Orco Verdini, la Pitonessa e le Amazzoni, sia pure intermittenti; stabili al suo fianco e strenuamente fedeli dinanzi al rogo Mariarosaria Rossi, Francesca e Dudù. E così l’altroieri l’Araba Fenice di Arcore è risorta dalle proprie ceneri.
Sarà la terza o la quarta volta. Annotino la data i frettolosi biografi spalmando chiara d’uovo o altri più evoluti unguenti sulle ripetute scottature. Berlusconi è sempre lì. E’ rientrato in scena in automobile con sei coreografiche guardie del corpo che la circondavano, facendo deviare il traffico intorno al Nazareno. Poi ha diffuso un video, con la solita saliera d’argento sulla scrivania e le bandiere alle spalle. Molto responsabile, modello Padre della Patria. Se questo è un condannato, veniva da pensare, se questo è un pregiudicato, un colpevole, un parlamentare decaduto, un uomo politico alla fine del suo ciclo, un uomo con un piede già dentro i Servizi sociali, beh, giù il cappello lo stesso.
S’è detto dei biografi e di almeno due generazioni di giornalisti e di politici che costantemente e sistematicamente, dal 1995 al 2000, poi nel 2006, quindi dopo l’ultimo disastroso governo, hanno descritto e scommesso sulla fine di Berlusconi, per poi ricredersi. Ma considerato che la nuova vita del personaggio ha ripreso forza ed energia e dinamismo e centralità proprio sull’ineffabile tema della riforma elettorale, varrà qui la pena di segnalare che nel febbraio del 2011, richiesto di un parere sul destino del Cavaliere, l’esimio professor D’Alimonte, cioè l’odierno consigliere di Matteo Renzi sull’argomento, si espresse al riguardo con la pur cauta, ma lapidaria previsione: “Può succedere che si autoelimini”.
Non sempre, purtroppo, lastoria è maestra di cronaca. Indro Montanelli aveva ribattezzato Fanfani “Il Rieccolo”. Lo stesso Fanfani, fissato come tutti i democristiani della sua generazione al calendario liturgico, sosteneva che dopo la Quaresima c’era la Resurrezione, e non per caso una delle biografie del leader aretino, altrimenti detto per la sua instancabile vigoria “il motorino”, la biografia dedicatagli da Renato Filizzola (Editalia, 1988), ha come sottotitolo: “Quaresime e Resurrezioni”, al plurale.
Sempre Montanelli, parecchi anni dopo, fece riferimento al fenomeno Berlusconi comea una patologia. Dalla quale gli italiani si sarebbero liberati, finalmente sani, solo dopo averla sperimentata sulla loro pelle. Anzi, per l’esattezza, dopo essersene vaccinati. L’immagine era come al solito così felice che è impossibile dimenticarsene. Ma nella realtà, oggi, uno è autorizzato a porsi qualche interrogativo supplementare sul vaccino e la sua ormai pressoché acclarata inefficacia.
L’altroieri Capezzone e Gelmini hanno cantato la nascita della Terza Repubblica e la Pacificazione. All’acme del détournement promozionale, l’onorevole Ravetto ha addirittura fatto suo, invertito e distorto ai suoi fini lo slogan creato per Renzi dall’agenzia Proforma sottolineando che all’indomani del patto del Nazareno l’Italia “cambia verso”. Ieri Silvione, lallo lallo, ha spiegato che grazie alla nuova legge che stanno intrugliando con Matteuccio, alle prossime elezioni il 51 per cento è per Forza Italia un obiettivo anche ragionevole.
In ogni caso lui resta nel gioco. Forse perché — strano destino — è lui stesso divenuto il gioco, nel senso che ormai anche gli avversari hanno introiettato e perfino incorporato il suo gioco. O almeno. Rispetto a Fanfani, al fulmineo e toscanissimo soprannome montanelliano e a quelle altre immagini di conio pseudooratoriale, è quasi ovvio che l’incessante alternarsi di false cadute e perenni ripartenzeentra d’impeto nell’area del mito; quale è appunto quello dell’Araba Fenice come lo racconta Erodoto, per cui al dunque in Berlusconi la risurrezione coincide con l’immortalità e la volontà di sopravvivenza con la rinascita ciclica. E qui forse ci sta un pensierino per il povero don Verzé che con la sua medicina predittiva intendeva farlo vivere fino a 120 anni.
Va da sé che in tutto questo i soldi, tanti, non guastano. Ma l’esperienza conferma che nell’eterna palingenesi berlusconiana gli avversari giocano un ruolo fondamentale. Al solito si ondeggia fra risate e catastrofe. “Ha le orge contate” diceva Benigni. “Ho troppi impegni — rispondeva lui — per il mio funerale”.

Repubblica 20.1.14
Daniela Santanchè: il nostro leader ha coraggio e forza da leoni, noi falchi abbiamo tenuto alta la tensione e lo scontro
“I veri sconfitti sono solo i magistrati la Terza Repubblica nasce con Silvio”
intervista di Tommaso Ciriaco


ROMA — Daniela Santanchè ha voglia di togliersi qualche macigno dalle scarpe. E siccome interpreta la politica come eterna battaglia, non definisce quella del Cavaliere una rinascita: «Direi piuttosto che dopo l’incontro con Renzi Berlusconi ha dimostrato che non si è fatto ammazzare. Dicevano: la Terza Repubblica inizierà il giorno che Berlusconi sarà morto. L’atto di nascita porta invece la sua firma».
Onorevole, Forza Italia esulta. Sostiene che la guerra è finita.
«La fine di una guerra è la conseguenza di una prova di forza, non di una debolezza. Chi è debole e tratta ad oltranza è destinato a essere travolto. Lo insegna la storia: l’unico disarmo possibile è bilaterale. Chi getta le armi per primo è morto».
Insomma, rivendica la linea dura dei falchi.
«Per mesi ci hanno additato come il problema per una pacificazione. Invece siamo stati la soluzione. Paradossale no? Alfano se ne è andato dicendo che in unpartito dove ci sono Santanchè e Verdini si resta isolati dal mondo. Bene. Noi siamo entrati, graditi e riveriti ospiti, nella sede del Pd. Lui sta elemosinando una telefonata di Renzi per sapere come è andata e dal segretario del Pd riceve sfottò e disprezzo. Chi aveva ragione? Rivendico di essere stata tra chi non ha ceduto alle sirene, dal Quirinale alla sinistra, che ci promettevano: sacrificate Berlusconi e avrete salva la vita».
È stato Renzi a rimettere in
gioco Berlusconi?
«Se ieri è successo quello che è successo, è perché Berlusconi ha coraggio e forza da leoni e perché noi falchi abbiamo tenuto alta la tensione e il livello dello scontro con la magistratura, col Quirinale, con la sinistra, con i traditori che hanno venduto la sua dignità personale e politica al nemico».
Con la nuova legge dovrete però allearvi ancora con Alfano.
«Il destino di Alfano non mi appassiona, affari suoi e loro. Hafallito. Nessuno vuole ucciderlo nella culla, è lui che si è ucciso da solo. Mi auguro che non vada con la sinistra. E se non avrà tradito i valori di chi lo ha eletto, è ovvio che dovremo stare insieme. Con Berlusconi leader. E poi vorrei dire un’altra cosa».
Dica.
«I veri sconfitti di ieri sono i magistrati. Il loro sporco tentativo di rendere impresentabile Berlusconi è fallito definitivamente. Possono anche arrestarlo domani mattina, ma dopo ieri - per la storia e per l’opinione pubblica - in cella non finirebbe un pregiudicato ma uno statista perseguitato politico. E offro un consiglio non richiesto a Napolitano: prenda atto che aveva sbagliato visione politica e giudizio sulla persona e firmi una grazia tombale all’uomo che da vent’anni si sta prendendo il Paese sulle spalle».
Punti di vista, onorevole. Intanto non parlate più di election day. Una marcia indietro?
«Non è più il tema. Questo governo è un’accozzaglia: prima se ne va, meglio è. Si andrà a votare quando Berlusconi e Renzi avranno fatto ciò che hanno sottoscritto ieri. Se poi qualcuno vuole farlo saltare prima, si accomodi, non abbiamo paura».
In futuro pensate di sostenere Renzi?
«Renzi resta un avversario. Non ci interessa né il renzismo, né la rottamazione. E chi fra noi non lo capisce e parla di modello renziano, ricordi che Berlusconi ci ha insegnato sempre a essere inseguiti, non a inseguire».

Repubblica 20.1.14
“Se salta tutto si torna allo spagnolo secco”
La mossa del segretario per l’ultimo via libera “Pronto a correzioni sul premio di maggioranza”
Le ipotesi per garantire la governabilità se nessuno supera la soglia del 35%
di Carmelo Lopapa


È UN work in progress.La bozza di riforma elettorale che sembrava “chiusa” dopo l’incontro con Berlusconi è invece un cantiere aperto e nuovi colpi di scena sono possibili. Renzi confida a pochi fedelissimi di aver lavorato per ore su «alcuni correttivi».
ICORRETTIVI riguardano «il sistema di assegnazione del premio di maggioranza, soprattutto per il caso in cui nessuno dovesse raggiungere la soglia di accesso al premio». Continuerà a lavorarci questa mattina, prima della Direzione Pd del pomeriggio che in realtà il segretario mostra di temere poco o nulla.
Sotto osservazione sulla sua scrivania finisce dunque l’ipotesi in cui nessuna coalizione dovesse superare la quota minima prevista per accedere al premio (ancora da fissare tra il 35, il 37 o il40 per cento). È il tallone d’Achille del patto stretto sabato pomeriggio al Nazareno con Forza Italia. Ne ha parlato con gli emissari del Cavaliere. Se nessuno raggiungesse quella soglia, cosa accadrebbe? Impensabile, per il numero uno del Pd, che si torni a una ripartizione proporzionale dei seggi. E nulla può essere lasciato al caso, la partita è delicata. Indispensabile confrontarsi ancora col leader forzista sull’opzione due, su una scialuppa di salvataggio possibile per il sistema. Renzi, comunque soddisfatto, non fa nulla per nasconderlo nella domenica di lavoro trascorsa tra Firenze e la puntata in ospedale a Parma al capezzale del predecessore Bersani. «In un mese abbiamo fatto quel che gli altri non hanno fatto in vent’anni» è quel che i collaboratori più stretti gli sentono ripetere in queste ore. Il segretario è convinto che «l’obiettivo più grande resti l’abolizione del Senato e la revisione del Titolo V della Costituzione ». Ma un anello è legato all’altro e tutti sembrano appesi a quello più grosso, la legge elettorale.
Le dichiarazioni, in alcuni casi le bordate dell’ala sinistra del partito che ha sparato a pallettoni contro l’«accoglienza» in sede al Cavaliere condannato e decaduto se le lascia scorrere addosso. Sicuro com’è «di poter convincere tutti». E per tutti è l’avvertimento che ne consegue. «Se poi quell’accordo dovesse saltare, allora deve essere chiaro a tutti che si torna allo spagnolo secco e su quello siglo un’intesa solo con Berlusconi». Gli oppositori interni al Pd, ma soprattutto Alfano e ilsuo Nuovo centrodestra non potranno dire di non essere stati messi in guardia. Lui ne è convinto: «Quando nelle prossime ore tutti leggeranno il testo, anche per la minoranza del mio partito sarà impossibile dire di no». Con buona pace dei Cuperlo e dei Fassina. «Se ieri ho usato la formula“profonda sintonia” — raccontava ieri ai suoi a proposito del vertice con Berlusconi — è stato per non usare “intesa” o “accordo”. E se riusciamo ad approvare quel pacchetto, dovrebbe essere chiaro a tutti che non sono io, Matteo, a fare Bingo, ma il Paese».
Fuori dal recinto dem, ministri del Ncd, lo stesso vicepremier Alfano, Renato Schifani e gli altri riuniti ieri a Pesaro in guardia lo sono e non poco. Si attendevano entro ieri sera una bozza dell’intesa da poter studiare, valutare, esaminare. Nulla da fare. È molto probabile che il sindaco di Firenze voglia illustrarla prima alla Direzione del suo partito. Al più, forse, fornirà qualche traccia questa mattina allo stesso Alfano, dato che è in programma un faccia a faccia con il vicepresidente del Consiglio dopo le telefonate di sabato tra i due. Di certo, il vuoto di comunicazioneha mandato in fibrillazione i ministri centristi. Già in ambasce per le sorti del loro governo. Il capo del Viminale nell’incontro di questa mattina vorrebbe strappare al leader pd un impegno per il rimpasto che faccia ripartire il governo, insomma un maggiore coinvolgimento diretto dello stesso Renzi. Difficile che il segretario ceda. Ormai al voto non si va, se la situazione non precipita. Ma questo non vuol dire che il capo del partito non voglia marcare comunque la distanza dall’esecutivo Letta-Alfano.
Chi ha visto Silvio Berlusconi ieri ad Arcore, dove si è ritirato dopo l’exploit in casa Pd di sabato, ha scorto il «ghigno» dei momenti d’oro. Sicuro che l’accordo vada in porto perché il giovane segretario dem lo ha visto «determinato e io mi fido di lui». Il fatto è che il leader forzista guarda anche al di qua della legge elettorale e delle grandi riforme, guarda ai suoi problemi. «Se le cose vanno come devono andare — si chiede adesso — a questo punto, come fanno a non approvare quell’emendamento che esclude il carcere per gli ultra settantenni? Come si può pensare di mettere in galera uno che sta per diventare padre della Patria?» Il Cavaliere si dice certo che per questo anche la Corte di giustizia europea nelle prossime settimane «dovrà prendere in considerazione la concreta possibilità di sospendere l’interdizione». È il sogno mai sepolto della riabilitazione politica e della resurrezione personale.

l’Unità 20.1.14
«Conti cifrati, i segreti vaticani di monsignor Scarano»
Secondo lo Spiegel negli interrogatori dell’ex contabile Apsa emergono accuse anche a cardinali
L’Amministrazione Pontificia della Sede Apostolica usata come una banca-ombra
«Viaggi, crociere, alberghi a cinque stelle, massaggi»: tutto pagato agli amici e agli amici degli amici
di Paolo Soldini


«Viaggi, crociere, alberghi a cinque stelle, massaggi»: il tutto pagato agli amici e agli amici degli amici con i soldi della Amministrazione Pontificia della Sede Apostolica, un’istituzione del Vaticano che parrebbe voler insidiare la pessima fama dello Ior.
Stando a quanto ha scritto ieri lo Spiegel on line, dagli interrogatori cui la Procura di Roma sta sottoponendo monsignor Nunzio Scarano, ex capocontabile dell’Apsa, emergerebbe un quadro di illegalità e di corruzione di prima grandezza. Scarano, che fu arrestato nel giugno scorso dopo che era stato scoperto un tentativo di far rientrare in Italia, con la complicità di un agente dei servizi segreti, 20 milioni di euro riciclati in Svizzera, nei suoi colloqui con i pubblici ministeri Nello Rossi, Stefano Pesci e Stefano Fava starebbe sollevando accuse molto pesanti non solo sui suoi predecessori nell’amministrazione dell’ente, ma anche su alti prelati, pare addi-
rittura dei cardinali, e laici che avrebbero approfittato largamente delle disponibilità di cassa.
SOLDI IN SVIZZERA
Secondo il monsignore, che attualmente si trova agli arresti domiciliari in una struttura sanitaria dopo aver trascorso qualche tempo in carcere, l’Aspa è stata utilizzata in passato come una vera e propria banca-ombra, che gestiva depositi ed erogava prestiti nella più assoluta discrezione e ricompensava gli investitori, oltre che con cospicui interessi, anche con munifici regali. Sempre, va da sé, a spese dell’amministrazione della Sede Apostolica che, sulla carta, dovrebbe occuparsi soltanto della gestione del patrimonio vaticano.
Secondo quanto riferisce lo Spie...
gel, Scarano avrebbe raccontato ai pm che uno dei suoi predecessori avrebbe inventato un vero e proprio sistema di conti cifrati, che sarebbero stati diverse centinaia prima di essere chiusi precipitosamente quando, con l’arresto del monsignore per l’affaire dei venti milioni fatti rientrare dalla Svizzera, le autorità giudiziarie italiane cominciarono ad indagare sull’Apsa.
PIANI ALTI
Tra i titolari dei conti segreti, stando alla confessione dell’ex capocontabile, figurerebbero «alcuni cardinali, manager dell’Apsa e i loro amici speciali». Contando sulla segretezza dei conti, sarebbero state trasferite ingenti somme dall’Italia all’estero e tra l’altro molti soldi sarebbero finiti in una società svizzera che tratta affari immobiliari con la Santa Sede fin dagli anni ’20 del secolo scorso.
Negli interrogatori monsignor Scarano avrebbe sostenuto di non conoscere i dettagli di molte operazioni, che «sono sempre state affare dei piani alti». Lui si sarebbe però curato di informare l’amministrazione centrale del Vaticano sul carattere «particolare» delle iniziative dell’Apsa che ai suoi apparivano «tutt’altro che corrette».
I suoi dubbi scrissero a suo tempo alcuni giornali italiani Scarano li avrebbe espressi anche personalmente all’allora segretario di Stato Tarcisio Bertone. Gli sarebbe stato risposto di «non parlare della cosa con nessuno» e di «rimanere calmo» perché sarebbero state già prese «le necessarie contromisure». Allo Spiegel un portavoce del Vaticano ha chiarito che «alcuni affari (dell’Apsa) sono attualmente oggetto di una inchiesta interna» ma che per il momento sulle indiscrezioni in merito agli interrogatori dell’ex capocontabile non viene fornito alcun commento ufficiale. Viene ricordato però che proprio lo scandalo di cui nell’estate scorsa fu protagonista monsignor Scarano ha accelerato il processo avviato da Papa Francesco per moralizzare le finanze vaticane con la costituzione di un comitato di sicurezza finanziaria e la promulgazione di norme più severe per contrastare il riciclaggio.

il Fatto 20.1.14
Molestie, il silenzio della Cei
La Curia condanna ma il prete la sfida
di Marco Politi


Non è stata una passeggiata l’audizione sugli abusi ai minori nella Chiesa cattolica, cui il Vaticano ha dovuto sottoporsi a Ginevra davanti al Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, in quanto firmatario delle Convenzione per la protezione del fanciullo. L’inquirente Sara Oviedo – riferisce l’Associated Press – ha “messo sulla graticola” la Santa Sede con le sue domande sugli insabbiamenti dei casi di pedofilia. La questione è la stessa da anni. Da un lato il Vaticano sostiene di non essere il capo diretto delle centinaia di migliaia di preti sparsi nel mondo, dall’altro è indubbio che soltanto nel momento in cui Benedetto XVI ha deciso di voltare pagina – con nuove norme – rispetto all’omertà tradizionale, qualcosa ha cominciato a muoversi a livello internazionale.
Ma molto rimane ancora da fare. Perché mentre ci sono episcopati che si sono mossi con serietà già prima della svolta di Benedetto XVI – Usa e Germania per citarne alcuni – organizzando strutture nazionali di sostengo alle vittime e di monitoraggio del fenomeno, la conferenza episcopale italiana continua una linea di eclatante inerzia. I documenti, che citiamo, si riferiscono a due casi. Una vicenda di abuso accaduta ad Acireale e la storia di don Conti, parroco romano condannato a quattordici anni per abusi dalla Corte di appello di Roma e nei confronti del quale le autorità ecclesiastiche non hanno finora preso nessuna misura.
Ad Acireale c’è una madre, che ha appreso sconvolta che suo figlio – oggi trentottenne ricercatore in oncologia a New York – è stato abusato da quattordicenne in un arco di quasi due anni da un prete amico, don C. C.. In città è considerato una persona colta e carismatica, ma durante il processo canonico sono emersi – riferisce l’avvocato Giampiero Torrisi – “altri due casi di molestie”.
Dopo anni di sofferenze tenute dentro, nel 2012 la vittima Teo Pulvirenti porta di fronte al tribunale ecclesiastico il prete, che aveva abusato di lui. É un caso di buona giustizia ecclesiastica a livello diocesano. Il vescovo monsignor Antonino Raspanti compie rapidamente l’indagine preliminare, appura che i fatti meritano un processo, si apre il procedimento e il tribunale ecclesiastico di prima istanza riconosce la colpevolezza di don C.. Scrive a Pulvirenti il vescovo: “In questo grado il sacerdote è stato ritenuto responsabile degli abusi denunciati. Egli dovrà, pertanto, sottoporsi ad alcune restrizioni, in osservanza delle quali dovrà dimorare per alcuni anni fuori dalla Diocesi non assumendo incarichi ecclesiali e non svolgendo il ministero in pubblico”. É il 7 agosto 2013. Don C. ricorre alla Congregazione presso la Dottrina della fede, ma ancora prima del ricorso sfida pubblicamente la sentenza girando per la città. “Si è messo a passeggiare in centro di fronte alla cattedrale”, racconta l’avvocato Torrisi, legale di Pulvirenti. Una provocazione mirata per dimostrare di non tenere in alcun conto le misure di interdizione. Il vescovo non sa come obbligare il prete abusatore, la conferenza episcopale è notoriamente assente, la madre di Pulvirenti scrive disperata una lettera a papa Francesco chiedendo un “segno CONCRETO di vicinanza a chi soffre” e denunciando che la sentenza avrebbe dovuto metterlo “in condizione di non fare più male a nessun ragazzino. E spero con tutto il cuore che sia così. Spero, ma non ne ho certezza…”.
Rivolgersi al papa non è una moda, è l’estrema speranza per chi vede che l’apparato ecclesiastico è inceppato e la giustizia disapplicata. É chiaro che il vescovo locale avrebbe bisogno di tutto l’aiuto concreto della Cei per “applicare la legge” nei confronti del prete responsabile di abusi. Ma così non è.
La controprova di questa intollerabile passività della Cei si ha nello scambio di lettere tra il presidente dell’associazione “Caramella Buon onlus”, il cattolico Roberto Mirabile, e il presidente della Cei cardinale Bagnasco. L’associazione sostiene da anni le vittime nel difficile cammino di elaborare la violenza subita e di ottenere giustizia. Mirabile ha sostenuto Teo Pulvirenti ed è intervenuto nel caso Conti.
Parroco di Selvacandida Ruggero Conti è stato condannato nel maggio scorso in appello a quattordici anni e due mesi per violenza continua e aggravata ai danni di una serie di minori. Le vittime attendono con ansia la sentenza di Cassazione, ma sanno che Conti sta sperando che il passare dei mesi lo porti alla prescrizione. (Uno degli effetti della legge Cirielli, ringraziare Berlusconi).
La cosa sorprendente è che a differenza di Acireale, le autorità ecclesiastiche romane non hanno mosso un dito. Mirabile scrive a Bagnasco il 3 giugno 2013, chiedendo “quale misura attualmente il Vaticano intende prendere nei confronti dello stesso don Conti e quale misura Sua Eminenza intende prendere nei confronti del Vescovo Monsignor Gino Reali, chiaramente chiamato in causa nel corso del procedimento giudiziario… (che) pur essendo più volte stato informato degli episodi equivoci del Conti, aveva mantenuto negli anni un atteggiamento a dir poco di favoreggiamento e comunque di non-intervento”. Mirabile pone anche la questione del risarcimento delle vittime, che ad esempio ad Acireale è stato impostato correttamente, riconoscendolo alla vittima.
La riposta, a firma del sottosegretario Cei, è un capolavoro di evasività. Si citano begli interventi di Benedetto XVI e Francesco, si spiega che la Cei ha varato Linee-guida, in cui è stato “chiaramente affermato che assume importanza fondamentale anzitutto la protezione dei minori, la premura verso le vittime degli abusi” e si conclude elegantemente che “in questo quadro non spetta alla Conferenza episcopale italiana valutare ‘quale misura attualmente il Vaticano intende prendere nei confronti dello stesso don Conti’, come pure esula dalle competenze di questa Conferenza episcopale… la presentazione di scuse alle vittime e la valutazione riguardo a eventuali risarcimenti”.
Distinti saluti e chi si è visto s’è visto.

il Fatto 20.1.14
La lettera a papa Francesco
Ci aiuti, il colpevole è tra noi


Santo Padre chi le scrive è una madre di Acireale, città che da tempo vive il peso di una vergogna ad oggi insoluta firmata don C. C.. Mio figlio Teo, il secondogenito, oggi è un uomo di 38 anni. É un affermato ricercatore nel campo del tumore al cervello e vive a New York. Un giorno mio figlio mi chiama e mi prega di partire per New York. Lo raggiungo e mi racconta di aver subito abusi sessuali durante l’adolescenza… Il buio diventa ancora più profondo, quando mio figlio mi dice che la persona che ha abusato di lui è stato un nostro carissimo amico, nostro punto di riferimento, parroco della nostra comunità. Mi si è congelato il sangue. E mi si congela ogni secondo ogni attimo quando penso a quello che hanno subito mio figlio e altri, altre come lui. La sentenza del processo canonico in primo grado s’è già conclusa con la condanna di questa persona: ma, non rispettando la sentenza, continua a girare per la città (addirittura sembra sia entrato fino a qualche tempo fa nei locali della basilica di San Sebastiano, dove era appunto decano)… L’obiettivo (della sentenza) era che fosse messo nella condizione di non fare più male a nessun ragazzino. E spero con tutto il cuore che sia così. Spero ma non ne ho certezza. Santo Padre, me la dia Lei questa certezza, faccia in modo che la Chiesa dia un segnale CONCRETO di vicinanza a chi soffre. Aiuti mio figlio, aiuti la mia città. Le scrivo da figlia, Le scrivo da amica, Le scrivo da madre.
Mariolina. Una mamma

La Stampa 20.1.14
“Lobby gay trama contro il Papa”
La denuncia dell’ex capo della Guardie svizzere
di Giacomo Galeazzi

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Repubblica 20.1.14
“La lobby gay mina la sicurezza del Papa”
Ex capo della guardie svizzere rivela: in Vaticano è potentissima, come una società segreta
di Franco Zantonelli


LUGANO — L’ex comandante delle Guardie svizzere, Elmar Mäder, conferma l’esistenza di una lobby gay in Vaticano. Intervistato da un settimanale di Basilea, Schweiz am Sonntag, Mäder, 51 anni, originario del Canton San Gallo e in carica a Roma dal 2002 al 2008, ha spiegato come per molti anni una rete di ecclesiastici omosessuali abbia avuto influenza sulla Santa Sede. «I gay», ha detto, «tendono a solidarizzare reciprocamente e questo li porta a essere più fedeli l’uno con l’altro piuttosto che verso l’istituzione. Finiscono per costituire una vera e propria società segreta, così segreta da mettere a rischio la stessa sicurezza del Papa». L’ex comandante degli alabardieri del Pontefice dice:«Se avessi scoperto che uno dei miei uomini era gay, mai e poi mai gli avrei consentito di fare carriera. Per me l’omosessualità non costituisce un problema, ma il rischio di slealtà verso il nostro corpo sarebbe stato troppo elevato». Già Papa Francesco aveva dichiarato: «Bisogna distinguere tra l’essere gay, avere questa tendenza, e fare lobby. Se una persona è gay e cerca il Signore con buona volontà, chi sono io per giudicarlo? Le lobby, invece, non sono una buona cosa».
Mäder oggi non è più un mi-litare, ma guida una società farmaceutica con la carica di amministratore delegato. Racconta, tuttavia, come durante il servizio a Roma abbia messoin guardia i suoi uomini dalle attenzioni di alcuni esponenti della curia, «particolarmente lascivi». Nelle scorse settimane almeno due ex guardie svizzere avevano testimoniato anonimamente allo Schweiz am Sonntagdi essere state oggetto di molestie da parte di esponenti del clero. In un caso le proposte esplicite erano arrivate da parte di un autorevole cardinale, pronto a invitare il militare nella propria stanza. Lo stesso giovane aveva dichiarato che, in un’altra occasione, un esponente della Segreteria di Stato lo aveva palpeggiato. Il portavoce in carica delle Guardie svizzere, Urs Breitenmoser, aveva già minimizzato la questione: «Le vocidi una rete gay all’interno del Vaticano non sono un nostro problema». Ma l’ex comandante Mäder sulla lobby trasversale ha altre idee: «Un ambiente frequentato quasi esclusivamente da uomini non sposati è una sorta di calamita per gli omosessuali, la curia romana è uno di quelli. Nello stesso modo per cui i pedofili si ritrovano nei luoghi frequentati da bambini, le scuole e i club sportivi».
Nell’intervista al settimanale svizzero l’ex comandante Mäder racconta di aver tentato, invano, di mettere la Curia al corrente delle sue preoccupazioni prima di lasciare l’incarico. E alle sue dimissioni, tra l’altro, non sarebbe stata estranea quella messa in guardia inascoltata.

La Stampa 20.1.14
Il Vaticano e il ruolo di Pio XII
Operazione trasparenza Francesco apre gli archivi sul periodo della Shoah
di Gia. Gal.

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Corriere 20.1.14
Gli archivi di Pio XII e la Shoah, apertura più vicina 

Sedici milioni di fogli, più di 15 mila buste, 2.500 fascicoli. Il lavoro per ordinare gli archivi del pontificato di Pio XII, in particolare negli anni della Seconda guerra mondiale e della Shoah, è ormai a buon punto, spiega al «Corriere» monsignor Sergio Pagano, prefetto dell’Archivio Segreto vaticano: «È un’operazione complessa, ci lavoriamo da sei anni. Anche se, considerate le forze a disposizione, non potrei fare ora una stima, dire se ci vorrà ancora un anno, un anno e mezzo... Dopodiché deciderà il Papa».
Il rabbino Abraham Skorka, amico di lunga data di Bergoglio — si sono incontrati venerdì — ha spiegato al «Sunday Times» di averne parlato col Pontefice e che Francesco è pronto ad autorizzarne l’apertura agli studiosi. «La questione è molto delicata e dobbiamo continuare ad analizzarla», dice Skorka.
Ciò che è più importante, si legge, è che il Papa vorrebbe si aprissero gli archivi prima che si decida sulla beatificazione di papa Pacelli. Quando alla fine del 2009 vennero riconosciute le «virtù eroiche» di Pio XII, un passo verso la beatificazione, si riaprirono le polemiche intorno ai presunti «silenzi» di Pacelli sulla Shoah. Lo Yad Vashem di Gerusalemme giudicò «deplorevole» che fosse avvenuto prima della pubblicazione di «tutti i documenti». Già allora, del resto, il Vaticano aveva spiegato che «non c’è nulla di nascosto o da nascondere»: il lavoro di archiviazione è lungo e procede per pontificati, «ci vorranno cinque o sei anni».
I tempi sembrano quindi confermati. Si tratta di catalogare un materiale immenso da tre fonti principali: nunziature, Segreteria di Stato e Congregazioni della Curia. Anche se gli studiosi vaticani non ritengono aggiungerà molto alla «sintesi» ampia pubblicata nel ‘65 in dodici volumi: gli Actes et documents du Saint Siège relatifs à la Seconde guerre mondiale . La linea di «trasparenza» di Benedetto XVI è più che mai quella di Francesco. Nel libro Il cielo e la terra (Mondadori), scritto come un dialogo proprio assieme al rabbino Skorka, Bergoglio gli rispondeva: «Quello che lei dice sugli archivi della Shoah mi sembra giustissimo. È giusto che si aprano gli archivi e si chiarisca tutto. Che si scopra se si sarebbe potuto fare qualcosa e fino a che punto. E se abbiamo sbagliato in qualcosa dovremo dire: “Abbiamo sbagliato in questo”. Non dobbiamo avere paura di farlo. L’obiettivo deve essere la verità. Se iniziamo a occultare la verità neghiamo la Bibbia. Bisogna conoscere la verità e aprire quegli archivi. Bisognerebbe leggere cosa c’è scritto... Capire se si trattò di un errore di visione o cosa accadde realmente. Non sono in possesso di dati concreti. Finora le argomentazioni che ho sentito a favore di Pio XII mi sono sembrate forti, ma devo ammettere che non sono stati esaminati tutti gli archivi».
Non a caso Skorka conclude: «Il Papa è coerente con tutto ciò che diceva da cardinale».

La Stampa 20.1.14
Immigrazione
Quelle false credenze
L’immigrazione stimola affermazioni che poco hanno a che fare con la realtà. Faccio
qualche esempio
di Giovanna Zincone

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Repubblica 20.1.14
“Vi racconto il mio mestiere di trafficante di uomini”
Kabir, Muammer, Emir guadagnano milioni di euro coi barconi “Sono soldi facili. Siamo un clan, tutti devono avere paura di te”
di Vladimiro Polchi


«Tutti vogliono venire in Italia. Io aiuto le persone. Realizzo sogni ». Kabir, faccia pulita e sorriso aperto, è ben vestito, ha scarpe eleganti e una giacca alla moda con gilet trapuntato. Pare un agente di viaggi. Dal suo aspetto non penseresti mai a un trafficante di uomini. Kabir, pachistano cinquantenne, preferisce definirsi “mediatore”: «Forse lo fareste pure voi, se sapeste di guadagnare così facile — azzarda Kabir — per ogni persona portata dal Pakistan in Italia trattengo dai 3.000 ai 4.500 euro. C’è un po’ di rischio, è vero, ma è accettabile: io intanto prendo il denaro, poi Dio provvede».
Dimenticate le vittime disperate e i piccoli scafisti che per pochi spiccioli le trasportano in Europa, oggi la più grande e criminosa “agenzia viaggi” del mondo muove milioni di migranti e fattura tra i tre e i dieci miliardi di dollari l’anno. Un esempio: per la tratta più cara, quella dalla Cina agli Usa, il biglietto costa dai 40 ai 70mila dollari. Solo la cocaina produce di più. È un business popolato da tanti piccoli delinquenti, dietro ai quali si celano spesso grandi mercanti di clandestini, gente in doppiopetto dalle immense fortune. Sono gli “smugglers”, i trafficanti d’uomini, i “mercanti di carne umana” condannati ieri anche da Papa Francesco.
Una star del mercato è senza dubbio il turco Muammer Küçük. Per anni è stato il boss indiscusso degli sbarchi illegali nel Mediterraneo. La sua specialità: nasconde i migranti nella pancia delle barche a vela. Quanto guadagna? Basta chiedere a chi lavora per lui, come Ohran, skipper turco: «Calcolate che solo ultimamente sono stati arrestati trentacinque suoi capitani, che hanno portato in tutto venti barche. Ognuna di queste, se non la fermano, fa cinque o sei viaggi a stagione. Un’imbarcazione porta, a viaggio, un guadagno medio di 50mila dollari. Fanno più o meno 300mila dollari a stagione. Se si moltiplica per le venti barche fermate, sono 6 milioni di dollari. Ed è solo parte del colossale fatturato del trafficante turco. Da un peschereccio di venti metri, Muammer ricava molto di più: 500mila dollari, di cui 400mila vanno tutti in tasca sua». Certo, non mancano le spese. C’è, per esempio, da oliare alcuni ingranaggi: «Un ufficiale corrotto riesce a ricavare circa 40mila dollari a stagione. Di solito è un tenente o un colonnello». A far parlare gli “smugglers” è un libro-inchiesta: “Confessioni di un trafficante di uomini” (in uscita il 23 gennaio per Chiarelettere). I due autori, AndreaDi Nicola e Giampaolo Musumeci, hanno viaggiato a ritroso sulle rotte dei migranti, alla scoperta delle fonti dei flussi migratori. Come le isole Kerkenna, inTunisia. Da qui ci si imbarca per l’Italia.
Emir ha un peschereccio con un motore da 30 cavalli. Lampedusa dista 64 miglia, se il mare è buono si raggiunge in dieci ore. «Come recluto i migranti? Ho cinque persone in giro per la Tunisia che mi cercano i clienti — spiega Emir — stanno a Tunisi, Sidi Bouzid, Djerba. Lavorano dove sono conosciuti, devono essere del posto. Io da questo affare devo ricavare il più possibile. Qui, durante la rivoluzione del 2011, era un macello: venivano da tutto il Paese, dopo essersi venduti ogni cosa. Tutti volevano andare a Lampedusa. Non pensate che sia facile, per fare questo business bisogna essere coraggiosi. Tutti devono avere paura di te. I clienti più tranquilli sono gli africani neri, sono timorosi, se ne stanno quieti. Le teste calde sono i tunisini, sono spesso delinquenti o galeotti che arrivano da Tunisi o dall’interno. Sono dei piccoli boss nella loro regione. Io li massacro subito di botte, non ho scelta. Devono capire immediatamente chi comanda. E assesto loro subito due manate in faccia come si deve».
Risalire tutti i nodi della rete è impossibile. Le tratte sono spesso in subappalto, così i grossi trafficanti non si sporcano le mani. «Mi chiamano El Douly, “l’internazionale”, perché sono uno che ha viaggiato molto. Vengo da un villaggio della zona di Suez, in Egitto. Mio padre era ingegnere, grazie a lui ho potuto studiare: mi ha pagato la scuola fino alle superiori». El Douly opera in una delle zone più calde per l’immigrazione irregolare. Gestisce una rete egiziana, che collabora con una grande rete libica specializzata nel muovere i migranti verso la Sicilia. «Ora sono cresciuto nel mio business ed è la gente a cercarmi — racconta El Douly — nei piccoli villaggi dell’Egitto i giovani hanno bisogno di me. Qui non c’è un vero capo, un regista. Siamo in tanti, ci conosciamo e ci fidiamo l’uno dell’altro. Ognuno fa un pezzo del lavoro. È una rete, una collaborazione. A volte la fiducia passa dai legami tra clan, che in alcune regioni del mondo sono molto forti». Insomma, «se cercate un solo capo, significa che non avete ancora capito nulla di questo business».

La Stampa 20.1.14
La svolta sanguinaria delle ’ndrine non risparmia neanche l’infanzia
Un tempo l’onorata società considerava intoccabili donne, anziani e bambini
di Mimmo Cangemi

qui

Corriere 20.1.1
Il falso mito dei deboli risparmiati
di Goffredo Buccini


Allibertativi du cagnuleddu , disse Giovanni Brusca ai suoi aiutanti: liberatevi del cagnolino. E quelli sciolsero nell’acido Giuseppe Di Matteo, un bambino che il boia di Cosa Nostra aveva visto crescere ma che aveva la colpa d’essere figlio d’un pentito. È opportuno ricordarla, questa storia, ogni volta che si parla di malacarne mafiosi e vittime innocenti. Perché i macellai che amano definirsi «uomini d’onore» non hanno mai avuto nessun codice d’onore, neppure verso bimbi e mamme. Mai: il boss Michele Navarra assassinò in ospedale un tredicenne testimone dell’omicidio Rizzotto, ed eravamo appena nel 1948.
Sicché è umanamente condivisibile il grido di sdegno di Franco Giacomantonio, procuratore di Castrovillari, di fronte all’ultimo orrore scoperto ieri tra i boschi del Cosentino, a Cassano allo Ionio: un piccino di tre anni, Nicola, ammazzato e bruciato in macchina assieme al nonno Salvatore - curriculum da narcotrafficante - e alla sua compagna marocchina Ibtissa. Vendetta ‘ndranghetista o regolamento di conti tra cani sciolti, poco cambia. «Come si fa una cosa simile? È qualcosa di inaudito, si è superato ogni limite», ha detto, giustamente, Giacomantonio, reagendo da padre. Ma la verità, come lui stesso sa benissimo, è che il limite non c’è mai stato.
Il mito di una mafia un tempo «rispettosa» dei più deboli, di una ‘ndrangheta custode di valori familiari, di una camorra romanticamente neo-melodica è una balla contraddetta dalla Spoon River delle piccole vittime massacrate negli anni. Gli uomini del disonore sparano ai bambini quando sono sulla linea di tiro dei loro obiettivi, quando sono testimoni pericolosi o, addirittura, quando vogliono così punire i loro genitori. Poi vanno a casa ad abbracciare i propri figli, programmando il giorno giusto per mettere anche a loro una pistola tra le mani.
A Oppido Mamertina, falde dell’Aspromonte, 1998, fecero fuoco «deliberatamente contro i bimbi», raccontò l’allora procuratore Elio Costa, e morì Mariangela Ansalone, nove anni, colpevole solo di passare per caso col nonno nella zona dell’agguato. Dodò Gabriele, dieci anni, stava giocando a pallone col papà su un campetto alla periferia di Crotone, quando un killer che mirava a un presunto emergente delle cosche lo falciò con una raffica. Gaia, cinque anni, si è salvata dopo mesi di ospedale: gli assassini puntavano a suo padre, sempre a Crotone, in quello stesso periodo. Nella provincia, pochi anni prima, era stato ucciso Gianfranco Madia, 15 anni: in macchina col nonno, il vero bersaglio.
Quando l’infanzia non è troncata dai killer, è rubata dalle famiglie stesse. Una ricerca coordinata da Marianna Malara rivelò qualche tempo fa che in Calabria, tra il 1990 e il 2004, ottantadue minorenni erano stati denunciati per associazione mafiosa: tra gli assassini del piccolo Nicola potrebbe esserci qualcuno di quei ragazzini d’allora. A Corigliano Calabro, non lontano dal teatro del massacro scoperto ieri, è rimasta a lungo deserta la nuova scuola: occupava una palazzina confiscata a un boss e i genitori di ventisei bambini hanno preferito tenersi a casa i piccoli, ufficialmente perché il nuovo istituto era «troppo lontano». Alle elementari di San Luca hanno provato le «griglie pilotate» per evitare di mettere nella stessa classe figli di famiglie in guerra. Una resa? Macché, una «misura preventiva», ha detto candido il preside.
I codici d’omertà sono trasmessi col latte, dalle madri: a Cinquefrondi, piana di Gioia Tauro, nel ‘98, ammazzarono in sala giochi Saverio, 13 anni, davanti a suo fratello Orazio, minore di un anno. L’interrogatorio di Orazio, raccontato dal cronista Pantaleone Sergi, merita di essere riportato. Cos’è successo? «Non mi ricordo». Chi ha sparato? «Ve lo cercate da voi». Cosa hai visto? «Nun vitti nenti , non ho visto nulla». Come ti chiami almeno lo sai? «Nun sacciu nenti, chi voliti ?». Forse un esercito di maestri elementari sconfiggerà la mafia, come diceva Gesualdo Bufalino. Quel giorno potrebbe essere però parecchio lontano: nel frattempo non sarebbe inutile rinforzare l’esercito che abbiamo, di carabinieri e poliziotti. Perché bambini come Nicola non debbano più morire e bambini come Orazio non debbano più mentire.

Repubblica 20.1.14
Torturati e sciolti nell’acido quando la ferocia dei boss non risparmia i più indifesi
E Riina diceva: ne muoiono tanti, non èun problema
di Attilio Bolzoni


LA MAFIA non uccide mai bambini, la mafia i bambini li rispetta. Questa è la favola che tramandano i boss, generazione dopo generazione. La mafia in realtà ha sempre ucciso i bambini, quando è «necessario» l’omicidio non ha età. «Liberati del canuzzu», liberati del cagnolino dice Giovanni Brusca a uno dei suoi, indicando una larva, un corpicino che non pesa neanche 30 chili.
ECHE da 779 giorni è prigioniero, incatenato in una botola. Lo chiama così, «canuzzo», il piccolo Giuseppe Di Matteo, 11 anni, figlio di Santino «Mezzanasca» che ha la colpa di essere diventato un pentito della strage di Capaci. Suo figlio Giuseppe oramai non fa più resistenza, non sente nemmeno la corda che gli passa intorno al collo. Poi sparisce in un bidone di acido muriatico. «Ha reagito»?, chiede ancora Brusca. «No, non era come tutti gli altri bambini, lui era debole debole», gli risponde Giuseppe Monticciolo la sera dell’11 gennaio 1996 quando il piccolo Di Matteo se ne va per sempre.
Lo fanno per vendetta o per ricatto, lo fanno per eliminare un testimone pericoloso, uno che ha visto o sentito. Li bruciano, li sotterrano, li squagliano, tre anni, otto anni, dodici anni, la data di nascita è ininfluente quando c’è un capo che dà l’ordine o se bisogna salvare se stessi.
È capitato anche a Nicolas l’altro giorno quando era con suo zio e la donna di suo zio nelle campagne di Cassano allo Jonio, capita sempre quando un bambino è nel posto sbagliato nel momento sbagliato. In quel mondo innocenti non ne esistono.
La mafia non uccide mai i bambini, ripetono in Sicilia e in Calabria già negli Anni Sessanta quando i sicari — è il gennaio del 1961 — sparavano due fucilate alla schiena a Paolino Riccobono, il figlio di un mafioso della borgata di Tommaso Natale. Un errore di persona? Un pazzo? Un proiettile vagante?
La mafia vecchia è sempre «buona» e la mafia nuova sempre «cattiva». Così si seppellisce il passato. Pochi se lo ricordano ma subito dopo la guerra, nel ‘48, Giuseppe Letizia, pastorello didodici anni, fu ucciso con un’iniezione letale all’Ospedale dei Bianchi di Corleone dal medico condotto e capomafia Michele Navarra. La notte prima Giuseppe aveva visto gli uomini che avevano rapito il sindacalista Placido Rizzotto. Gli sgherri di Navarra. Ufficialmente deceduto per «tossicosi», il pastorello fu assassinato da un veleno.
I bambini non si toccano. Come non toccarono nel 1976 i quattro picciriddi di San Cristoforo, quattro bambini del quartiere più malfamato di Catania che avevano scippato la borsa alla mamma del boss Benedetto Santapaola. Furono prelevati e trasportati in un casolare a più di cento chilometri di distanza, in una campagna fra San Cono e Mazzarino, ai confini con la provincia di Caltanissetta. Il più grande aveva 14 anni, il più piccolo 11. Li tennero lì per due giorni, poi li soffocarono e li gettarono in un pozzo. Tutta l’antica cavalleresca mafia del tempo fu d’accordo: ammazziamoli.
Gli anni passano ma la mafia non cambia mai quando deve uccidere. La storia di «Dodo», Domenico Gabriele, anche lui 11anni, assassinato in un campo di calcio a Crotone. Il sicario voleva uccidere un suo rivale, ha cominciato a sparare all’impazzata e ne ha fatto fuori due e feriti altri dieci che inseguivano il pallone. Uno era «Dodo», tre mesi di agonia.
Come Nadia e Caterina Nencioni, 8 anni una e 2 mesi soltanto l’altra, morte in via dei Georgofili a Firenze con la bomba del «terrorismo mafioso» del maggio 1993. Come i gemelli Giuseppe e Salvatore Asta, 6 anni, saltati in aria con la madre Barbara nell’attentato del 2 aprile 1985 a Trapani contro il giudice Carlo Palermo. Come Letterio Nettuno, 13 anni, sparito nel gennaio del 1991 a Reggio Calabria, rapito, torturato, sgozzato. I suoi aguzzini sospettavano che aveva fatto da palo in un agguato contro un boss della cosca Ficara.
Piccole vittime cercate e piccole vittime «casuali», fra sventagliate di mitraglia e artificieri. Diceva Totò Riina ai suoi macellai quando c’era da mettere qualche bomba: «Di bambini a Sarajevo ne muoiono tanti, perché ci dobbiamo preoccupare proprio noi di Corleone?». Ma non sempre è andato tutto «normalmente», tranquillamente.
Palermo, autunno del 1986, ilmaxi processo è iniziato da otto mesi. La città è avvolta in un silenzio surreale, è vietato uccidere, vietato rapinare, vietato rubare. Non deve accadere nulla mentre i boss sono alla sbarra in attesa di giudizio. Ma la sera del 7ottobre un sicario in motocicletta, il viso coperto dal casco, si avvicina a un bambino di 10 anni che cammina in una strada della borgata di San Lorenzo e lo chiama: «Claudio». Claudio si volta e lui gli spara un colpo in mezzo agli occhi. Il giorno dopo, nell’aula bunker dell’Ucciardone, Giovanni Bontate che era uno dei rappresentati dell’aristocrazia mafiosa di Palermo, si alza in piedi, chiede la parola. E si rivolge alla Corte: «Non siamo stati noi, questo è un delitto che ci offende ». Per quel «noi» — noi mafiosi, voleva dire — pronunciato pubblicamente e violando quindi il vincolo più sacro — la segretezza — della sua organizzazione, Giovanni Bontate fu ucciso nella sua casa qualche giorno dopo la scarcerazione. Claudio Domino — sapremo in seguito — era stato testimone di uno scambio di una partita di eroina.

Corriere 201.14
Un’ingiustizia da cancellare
di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella


Possiamo accettare, due decenni dopo la riforma Dini, che un deputato regionale di 50 anni, l’età di Brad Pitt e Monica Bellucci, vada in pensione dopo una legislatura monca d’un triennio, prendendo il doppio di un operaio inchiodato 42 anni e un mese in fabbrica? È un insulto. E non ci si dica che «cosa fatta capo ha» perché si tratta di «diritti acquisiti», sacri e intoccabili come la mandibola di San Teodoro.
Sono anni che, strattonata dalla collera popolare, la politica giura d’essersi messa a dieta. E poi salta fuori che, mentre avevano tutti gli occhi addosso per le bravate di Franco «Batman» Fiorito & Co., al Consiglio regionale del Lazio, grazie a un cavillo maligno passato in Parlamento, han lasciato tutto come prima. Ignorando il decreto Monti che vietava i vitalizi prima dei 66 anni e con meno di due legislature.
Dice Confindustria che la crisi ha avuto effetti «paragonabili a danni di guerra». Che il Pil nazionale è crollato del 9,1%. La ricchezza pro capite dell’11,5%. La produzione del 24,6%. Gli investimenti del 27,7%. Bene: in questo contesto, 18 anni dopo la riforma delle pensioni che stravolse la vita di milioni di persone, i consiglieri laziali mandati a casa dagli scandali che avevano mozzato la legislatura hanno incassato nel 2013 (oltre alla «liquidazione») pensioni stratosferiche rispetto ai contributi pagati.
Per avere il vitalizio a 50 anni l’ex assessore Marco Mattei versò in tutto 60 mila euro. Dalla fine di ottobre 2013 ne prende 2.467 netti al mese: dal novembre 2015 sarà dunque, vita natural durante, a carico delle pubbliche casse. E se vivrà come un italiano medio (79,5 anni: auguri) riscuoterà, grazie a un aumento al 55° compleanno, 1.084.988 euro: 18 volte quanto versato. I cittadini si sono trovati alle prese con la «quota 102» (60 anni d’età e 42 di lavoro) o «quota 104»? Lui fa marameo da «quota 55». A Isabella Rauti Alemanno andrà ancora meglio. Per riprendersi i contributi pagati le basteranno 23 mesi e con l’aspettativa di vita delle donne (84,5 anni: auguri bis) prenderà 1.128.198 euro. Diciannove volte il versato. Quanto a Lilia D’Ottavi, subentrata a legislatura in corso, ha la pensione dopo esser rimasta in Consiglio un anno: neanche investire in cocaina le avrebbe fruttato di più. Ma è tutto il sistema vitalizi del Lazio a essere impazzito: per ogni euro versato, ne escono 48.
Tema: come possono i cittadini, esposti da anni a tagli che hanno intaccato pesantemente quelli che credevano fossero «diritti acquisiti» (si pensi agli esodati) rassegnarsi ora alla intoccabilità di quei trattamenti squilibrati e così offensivi nei loro confronti?
Per questo, se vogliono fare pace con gli italiani, quanti hanno responsabilità di governo, nei partiti, nelle Regioni, devono farsi carico di una svolta. Subito. Non solo non deve succedere mai più. Ma è ora di andare a toccare, quando sono spropositati (si pensi ai casi citati o a certe pensioni di 91.337 euro al mese) anche quei privilegi che qualcuno vorrebbe sacrali. È una scelta politica. Ma la stessa Corte dei conti ha già detto: non è un dogma. E così la Corte costituzionale, la quale nel 1999 riconobbe che al legislatore «non è inibito emanare norme con efficacia retroattiva» purché «la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza». E cosa c’è di più ragionevole, in questi anni di crisi, che abolire un’offensiva ingiustizia?

Corriere 20.1.14
Euroscettici favoriti dagli elettori
di F. Ca.


LONDRA – Nigel Farage promette di provocare «un terremoto nella politica». Magari esagera. Ma è fuori di dubbio che il suo populismo di destra antieuropeo e anti immigrati stia scompaginando le carte a Westminster. Il fantasma dell’ Uk Independence Party, rappresentato da questo ex seguace di Margaret Thatcher, sta agitando i vertici dei principali partiti britannici. I conservatori ne soffrono di più perché pesca consensi nelle loro roccaforti. Ma la paura si estende oltre i confini naturali e prevedibili. L’onda ha raggiunto ormai anche i laburisti e i liberaldemocratici. Nigel Farage sfonda a destra, al centro, a sinistra e costringe i leader Cameron, Miliband e Clegg a inseguirlo sullo terreno che preferisce.
Gli ultimi sondaggi sono molto più che un campanello d’allarme. Se si votasse oggi, fra coloro che hanno già un’opinione e una preferenza consolidate, i laburisti sarebbero primi col 35%, secondi i Tory con il 30, terzo l’Ukip con il 19, solo quarti i liberaldemocratici con l’8%.
Il problema è che c’è poi un’ampia fascia incerta che comunque guarda a Nigel Farage come a un’opzione valida. Mettendo assieme i decisi e gli indecisi ne viene fuori un risultato sconcertante: Cameron è il leader più popolare (27%) ma Farage (22%), che supera Miliband (18%) e Clegg (13%), lo incalza. Soprattutto se richiesto di indicare se vede con «favore» o no il partito antieuropeista, l’elettorato dà un’indicazione netta: il 27%, compreso chi non lo vota con certezza, ne ha un’immagine positiva.
Lo Uk Independence Party, nell’indice che offre la sua potenzialità numerica, ossia le preferenze che potrebbe prendere, scavalca i laburisti fermi al 26, i conservatori (25) e i libdem (14). I sondaggi a volte creano allarmismo. Questa volta il pericolo è fondato. E lo dimostra il ripetuto tentativo delle forze tradizionali di riappropriarsi dei temi (Europa e immigrazione) che stanno a cuore di Farage. Solo che lo fanno nel modo sbagliato: usando proprio l’arma del populismo. Poche idee, tanti schiamazzi. Confondono chi osserva in attesa della scelta. Ed è il modo migliore per portare acqua al mulino dello stesso Farage.

Repubblica 20.1.14
Gli euroscettici di Ukip primo partito, Economist: “Ue in pericolo”
di E. F.


LONDRA — Minaccia di continuare a crescere l’ondata populista e xenofoba che attraversa l’Europa sullo sfondo di crisi economica e immigrazione. Secondo un sondaggio pubblicato dal quotidiano Independent di Londra, il partito anti-europeo britannico Ukip è attualmente «il più popolare» tra gli elettori del Regno Unito, superando per la prima volta tutti gli altri. L’Ukip ottiene nel sondaggio il 27 per cento dei favori, seguito dal Labour con il 26, dai conservatori con il 25 e dal partito liberaldemocratico con il 14. Un risultato che prospetta l’ipotesi di una vittoria del partito indipendentista alle elezioni europee del maggio prossimo, imbarazzando gravemente i Tory del primo ministro David Cameron, a loro volta pervasi da sempre più forti sentimenti anti-europei e contro gli stranieri. Anche se un clamoroso attacco contro i gay da parte di un consigliere comunale dell’Ukip sottolinea ancora una volta l’estremismo dei suoi membri.
L’Ukip, che si batte per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea e per chiudere le porte agli immigrati, ha al momento 9 deputati al Parlamento europeo di Strasburgo sui 73 in totale del Regno Unito. Non ha mai avuto un parlamentare alla Camera dei Comuni a Londra, ma alle elezioni regionali dello scorso anno ha ottenuto sorprendentemente un quarto dei voti, registrando il più forte aumento mai realizzato da un partito politico britannico da un’elezione all’altra. Lasua avanzata riflette un movimento assai più ampio in tutta Europa di partiti con diverse gradazioni di populismo, xenofobia e dissenso verso la Ue, che ha portato a risultati altrettanto inaspettati in Olanda, Francia, Italia, Grecia e altri paesi. Un problema sottolineato da una recentecopertina del settimanale
Economist sul pericolo rappresentato dai Tea Party europei, variante del Tea Party che ha spostato a destra l’asse della politica americana.
Nel sondaggio sull’Independent, il leader dell’Ukip, Nigel Farage, risulta il secondo politico più popolare delregno con il 22 per cento dei consensi, alle spalle di Cameron con il 27 ma davanti al laburista Ed Miliband al 18. Richiesti di un’intenzione di voto se si andasse domani alle urne per il Parlamento britannico (anziché per le Europee), gli interpellati assegnano al Labour il 35, ai Tory il 30,ai lib-dem l’8, ma l’Ukip ottiene comunque un 19 per cento che mette in dubbio una maggioranza assoluta per uno dei due maggiori partiti e prospetta l’eventualità di un altro governo di coalizione come quello attuale, in cui i conservatori hanno dovuto allearsi con i liberaldemocratici. Non è escluso che i libdem possano allearsi con il Labour, se questo risultasse il primo partito alle legislative dell’anno prossimo.
Ma a far discutere sono anche le dichiarazioni di David Silvester, consigliere comunale dell’Ukip a Henley-on-Thames, il quale ha detto che le recenti alluvioni in Inghilterra sono un «castigo divino» per l’approvazione del matrimonio gay da parte del parlamento britannico: «Le sacre scritture affermano chiaramente che quando una nazione cristiana agisce contrariamente al Vangelo verrà colpita da disastri naturali».

La Stampa 20.1.14
Kiev, notte di barricate e guerriglia
Proseguono i violenti scontri tra i manifestanti antigovernativi e la polizia.
Ieri 150.000 manifestanti in piazza e decine di feriti. E Ianukovich media

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Corriere 20.1.14
Cina, un Capodanno magro
Stop a banchetti e regali
La direttiva del Partito contro l’edonismo e gli sprechi
di Guido Santevecchi


PECHINO — Xu Hao ha 27 anni, dal 2010 è dipendente pubblico nella provincia dello Zhejiang e guadagna 5 mila yuan al mese, circa 600 euro. I suoi coetanei compagni di università che hanno trovato impieghi nel settore privato prendono 9 mila yuan al mese, ma Xu finora era appagato, pensava di «essere qualcuno». Alla fine del 2012 Xu aveva ricevuto un bonus di 20 mila yuan (2.500 euro): carte prepagate per lo shopping, biglietti per il cinema, cesti di frutta, stecche di sigarette, liquori. L’ufficio di Xu organizzava anche qualche viaggio premio all’estero, con la scusa dell’aggiornamento. Una sorta di tredicesima non scritta nei contratti, ma scolpita nella tradizione della enorme burocrazia cinese.
«Quest’anno ho ricevuto meno della metà», dice quasi vergognandosi Xu Hao. Quest’anno ci sono le «otto direttive» del Comitato centrale del Politburo, emanate per ordine del compagno presidente Xi Jinping. Basta con «l’edonismo, la stravaganza», la corruzione. Basta banchetti di fine anno, basta regali costosi, gite finanziate, uso di auto di servizio a scopo privato. In una parola, addio benefit più o meno illeciti e tollerati.
Il nuovo anno lunare cinese, quello del Cavallo, comincia il 31 gennaio. Queste celebrazioni sono definite «festa di primavera», un inno all’ottimismo che quest’anno molti hanno ribattezzato «l’inverno dello statale». Dice un altro dipendente pubblico: «Io lavoro da dieci anni e ricordo bene quando non si doveva andare al mercato per fare la spesa, perché a casa arrivava di tutto, dal riso all’olio di semi».
Questi sfoghi non sono segreti, non arrivano alla stampa occidentale attraverso incontri clandestini (ai membri del partito è vietato discutere questioni «sensibili» con gli stranieri). Basta sfogliare i giornali cinesi per trovare titoli sul nuovo corso. Il Beijing News ha pubblicato i risultati di un sondaggio tra dipendenti pubblici di vario grado in cinque province compresa Pechino: il 93 per cento ha risposto che il lavoro è diventato più duro e che per effetto del taglio dei «bonus» il salario reale è diminuito. L’80% del campione non ha ricevuto alcun regalo nel 2013.
I primi a essere tagliati sono stati i banchetti degli uffici, chiamati «nianhui». China Mobile, gigante statale della telefonia, fino all’anno scorso festeggiava in un albergo a cinque stelle. Ora si scende nella mensa aziendale. Al ministero delle Finanze di questi tempi l’anno passato il grande tavolo della portineria era circondato da pacchi dono per i dipendenti: ora sulle scrivanie dei ministeriali c’è solo un cavallo di legno, gentile e inutile pensiero della direzione. La parola d’ordine è frugalità. Come si fa a riunirsi a pranzo a spese del contribuente quando il presidente Xi Jinping a Natale si è presentato in un fast food di Pechino, ha ordinato ravioli ripieni di maiale con cipolla e una zuppa di verdure, spendendo 21 yuan (2 euro e 50)?
Un impiegato è finito sotto inchiesta per aver messo su Weibo (il Twitter cinese) la foto di una serata al karaoke: gli hanno contestato di aver dato un’immagine di «lusso edonista» a tutto il suo ufficio. Casi come questo preoccupano anche Xi Jinping. Informato del disagio nell’armata della pubblica amministrazione, il presidente ha dichiarato: «Noi vogliamo tagliare i banchetti lussuosi, i brindisi infiniti tra funzionari che appesantiscono il servizio al popolo, ma ogni azienda ha le sue feste a fine anno, che servono al morale. Non dobbiamo abolire tutto».
Il dato più interessante dal sondaggio di Beijing News è questo: il 64‰ degli statali dice che «senza i doni e i benefit della nostra posizione ufficiale, ci dobbiamo adattare a essere persone ordinarie». Insomma, Xi Jinping sta dando un segnale forte al Paese, ma un conto è rimettere sotto controllo la corruzione grave dell’alta burocrazia, un altro umiliare e demotivare i quadri. Passare di colpo da una carta prepagata a un cavallo in miniatura, può far imbizzarrire gli statali nell’anno del Cavallo.

Corriere 20.1.14
Svolta nella vicenda Peugeot
La famiglia apre ai cinesi e allo Stato
di Stefano Montefiori


PARIGI — Alla fine di un tormentato consiglio di amministrazione, nella notte la famiglia Peugeot che controlla il gruppo PSA Peugeot Citroën ha deciso di ricorrere al partner cinese Dongfeng e allo Stato francese per il necessario aumento di capitale di 3 miliardi. I dettagli non sono stati ancora definiti, ma la riunione di ieri è servita a scegliere tra le due ipotesi attorno alle quali si era spaccata la famiglia.
Robert Peugeot, 63 anni, presidente della holding FFP che gestisce la partecipazione in PSA, proponeva di rivolgersi al secondo costruttore cinese Dongfeng e allo Stato francese per avere maggiori probabilità di salvare il gruppo in crisi, a costo di perderne il controllo; suo cugino Thierry Peugeot, 56 anni, presidente del consiglio di amministrazione, faceva sbarramento ai cinesi e si batteva per mantenere il dominio della dinastia sull’azienda, puntando sul carisma e la capacità di persuasione del nuovo manager Carlos Tavares per raccogliere investimenti sul mercato. La linea di Robert sembra avere vinto, anche se temperata dall’idea di Thierry di rivolgersi alla Borsa. Secondo il quotidiano economico Les Echos un’ipotesi di riorganizzazione dell’azionariato potrebbe essere la seguente: un primo aumento di capitale di 1,5 miliardi, sottoscritto a parti uguali (750 milioni di euro ciascuno) da Dongfeng e Stato, in modo da arrivare alla soglia del 14 per cento, la stessa per i tre azionisti principali. In seguito, gli altri 1,5 miliardi verrebbero raccolti sul mercato. Avrebbero più o meno la stessa quota Dongfeng, Stato francese e famiglia Peugeot; quest’ultima però avrebbe accettato il principio di perdere la presidenza del consiglio di amministrazione, una svolta storica.
Il nome di cui si parla con più insistenza per sostituire lo sconfitto Thierry Peugeot è a questo punto quello di Louis Gallois, grande manager pubblico, che è già entrato nel consiglio di amministrazione PSA nel dicembre 2012 in cambio della garanzia di sette miliardi offerta dallo Stato alla banca del gruppo PSA Finances. Se l’ingresso dei cinesi è fondamentale dal punto di vista finanziario ma soprattutto industriale (la Cina è il primo mercato automobilistico al mondo, nel 2013 il marchio Citroën ha venduto più auto in Cina che in Francia), i ministri Pierre Moscovici e Arnaud Montebourg hanno cercato di attenuarne le conseguenze politiche assicurando che ciò nonostante «PSA resterà un gruppo francese».

La Stampa 20.1.14
Thailandia, la rivolta infinita per tornare al passato
Escalation a Bangkok: bombe sui manifestanti
Ieri in piazza anche i pacifisti con il cartello “rispetta il mio voto”
di Alessandro Ursic

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l’Unità 20.1.14
Farmaci e morale, a volte viaggiano su binari diversi
di Carlo Flamigni


In materia di salute è un errore comune quello di considerare gli addetti ai lavori non solo i medici, ma anche chi sperimenta i farmaci, chi li produce e chi li vende come persone coinvolte in una attività nella quale prevale la dimensione morale, e come se questo forte coinvolgimento impedisse loro di ragionare, agire e pianificare il proprio lavoro secondo altre possibili considerazioni.
L’ultima considerazione, in ogni caso, sarebbe sempre quella del profitto, una vera e propria eresia. Eppure leggo sul Corriere della Sera di venerdì scorso che in Italia ci sono 150 farmaci, alcuni dei quali appartenenti alla categoria dei cosiddetti «salvavita» che non sono facilmente reperibili in farmacia, perché il farmacista o il grossista che dovrebbe provvedere alla loro distribuzione trova economicamente vantaggioso dirottarli sui mercati di alcuni Paesi stranieri, nei quali costano persino tre volte di più. Federfarma ha commentato questa notizia sottolineando che non c’è niente di illegale, mi piacerebbe avere un suo giudizio sulla moralità di queste scelte.
Ma i farmacisti e i grossisti non sono certamente gli unici a fare scelte moralmente eccepibili nel campo della farmacologia. Scelgo a caso qualche esempio tra i più significativi.
Il mifepristone, il farmaco che si usa in tutto il mondo (un po’ meno in Italia) per interrompere le gravidanze, è stato sintetizzato dai ricercatori francesi della Roussel Uclaf nel 1980 nel corso di studi sugli antagonisti dei recettori per i glucocorticoidi. Ottenuta la licenza, ma prima che il farmaco fosse messo in vendita, la Roussel Uclaf ne annunciò il ritiro, motivandolo con le forti pressioni subite da parte dei movimenti pro-vita che minacciavano di boicottare tutti i farmaci prodotti dall’industria. Due giorni dopo il governo francese, comproprietario della Roussel Uclaf, intervenne in favore della ripresa della produzione e della distribuzione del farmaco. Il ministro della salute (Claude Evin, un socialista) in quella occasione, dichiarò: «Non posso permettere che il dibattito sull’aborto privi le donne di un prodotto che rappresenta un progresso della medicina. Dal momento in cui il governo francese ne ha approvato l’impiego, l’Ru486 è diventato di proprietà morale delle donne».
Ancora un esempio. Negli Stati Uniti (ma la stessa cosa poteva accadere in molti Paesi europei) lo scorso secolo è stato segnato da una grande numero di scandali relativi alla sperimentazione di nuovi farmaci su persone inconsapevoli. Vittime di questi indegni soprusi sono stati soprattutto i bambini, e in particolare i bambini che vivevano negli orfanotrofi o erano ricoverati in ospedali per bambini senza famiglia, e ciò perché questi soggetti erano considerati ideali per sperimentare i nuovi vaccini. Ho letto la dichiarazione di uno dei medici chiamati in causa che si giustificava dicendo che quei bambini avevano ricevuto molto dalla società e che era giusto che questa generosità fosse ripagata in qualche modo.
Gli scandali hanno frenato, ma non hanno del tutto impedito che la ricerca continuasse nelle società industrializzate, e contemporaneamente ne hanno spostato una buona parte nei Paesi più poveri, in Africa e in Asia. Scrive a questo proposito Carl Elliott (Better than Well. American Medicine Meets American Dream, Beacon Press, Boston 2008) che la ricerca sperimentale sull’uomo sta cambiando, anche perché inseguita dalle critiche e dalle proteste: abbandonate in buona parte le ricerche eseguite nelle università, si svolge nei Paesi del terzo mondo, in Istituzioni private, controllate da Comitati etici «for profit», sovvenzionati dall’industria del farmaco. In questi luoghi si arruolano pazienti attirandoli con somme di denaro importanti e offrendo loro ulteriori bonus se sono in grado di convincere qualche amico a farsi arruolare nella ricerca.
Il fatto che la sperimentazione farmacologica si sia spostata almeno prevalentemente nei Paesi in via di sviluppo, è stato oggetto di analisi anche da parte del Comitato Nazionale per la bioetica (La sperimentazione farmacologica nei Paesi invia di sviluppo, approvato il 27 maggio 2011). Scrive il documento: «Purtroppo è emersa, con sempre maggiore frequenza a livello internazionale, la preoccupazione che la globalizzazione degli studi clinici nasconda soltanto una delocalizzazione o esternalizzazione della sperimentazione, per ridurre i costi e semplificare le formalità burocratiche, per reperire con maggior facilità e rapidità “corpi” da utilizzare, per penetrare in nuovi mercati».
Appelli, documenti, richiami all’ordine, proteste su questo problema ne sono giunte da tutte le parti ma, a quanto ci consta, hanno ottenuto risultati mol-
to modesti. Del resto anche le richieste, alcune delle quali presentate dallo stesso Comitato di bioetica italiano, relative alla rinunzia al segreto nelle procedure riguardanti il sistema regolatorio dei farmaci, segreto che continua a essere un privilegio dell’industria farmaceutica europea sono rimaste senza risposta; e lo stesso si può dire per la richiesta di rinunciare ai protocolli di ricerca basati anche sulla somministrazione di placebo o svalutazione dell’attività dei farmaci basata anche sul principio di «non inferiorità», tutte metodologie altrettanto astute quanto scorrette. Nel documento che ho già citato il Cnb ha scritto testualmente: «Da tutto ciò nasce il timore, di cui si fa interprete il Cnb, che gli interessi commerciali possano nascondersi dietro gli interessi scientifici e possano prevalere sul rispetto dei diritti umani fondamentali, traducendosi in forme di colonialismo e imperialismo bioetico, di indebito sfruttamento e strumentalizzazione a causa della differenza nelle conoscenze scientifico-tecnologiche e delle diseguaglianze economico-sociali oltre che culturali».
Il problema è che nella maggior parte dei casi chi si occupa dei farmaci della produzione e del commercio agisce all’interno della legalità, anche se abbiamo tutti l’impressione che alcune delle norme che li contengono gli vadano un po’ strette e che altre siano state approvate con il loro diretto contributo. Comportamenti legalmente amorali. Solo che non è vero che noi dobbiamo subire supinamente questi soprusi: se il mondo, brutto com’è, ci viene venduto senza apparenti alternative, proviamo a dire di no. C’è un po’ di dignità nazionale da difendere; c’è l’esempio di Claude Evin; e avete mai sentito parlare del boicottaggio?

Corriere 20.1.14
Come fare del liberismo un facile capro espiatorio
Replica a un intervento di Roberto Esposito, molto aspro verso l’ideologia che esalta il profitto
Il pensiero antagonista si ostina a fare sempre dell’economia il centro motore di tutto
La sinistra radicale addebita alle scelte economiche recenti fenomeni molto antichi e legati all’essenza della modernità:
dimentica che sete di denaro e pensiero laico sono in realtà due facce della stessa medaglia
di Ernesto Galli della Loggia


Non c’è niente da fare, nell’oggi siamo destinati ad essere governati in permanenza dai «cattivi»: così vuole un’antica regola del pensiero forte di sinistra. I «buoni», infatti, quando ci sono, appartengono regolarmente al passato. E in genere il pensiero forte di cui sopra li scopre solo molto tempo dopo. A cose fatte: vedi il caso della socialdemocrazia del dopoguerra europeo, o i keynesiani degli anni Quaranta-Sessanta, oggi — ma solo oggi — rimpianti entrambi dalla sinistra come il paradiso perduto.
A vestire oggi i panni del «cattivo» è il «neoliberismo». Di esso ci ha fornito un quadro decisamente polemico Roberto Esposito con la sua consueta nettezza, sulla «Repubblica» del 7 gennaio. Non me ne vorrà se gli risponderò — se non altro per meglio delineare gli opposti punti di vista — con lo stesso tono polemico.
Dopo essersi impadronito del governo di questa parte del mondo (perché e con quali arti non è detto, e invece, forse, sarebbe stato utile chiederselo: non c’era il suffragio universale?), il «regime neoliberale», scrive Esposito, non ha certo messo lo Stato stesso in un angolo, né tanto meno lo ha smantellato. Aveva detto, sì, che questo era il suo obiettivo, ma in realtà il «neoliberismo» — come del resto aveva già fatto due secoli fa il liberismo: vedi la lezione di Karl Polanyi — si è servito dello Stato per imporre le sue regole nefaste. «Non sono i mercati ma gli Stati ad aver introdotto il modello concorrenziale dell’impresa in tutte le dinamiche sociali», afferma dunque il nostro autore, così come sono sempre «gli Stati che competono tra loro nell’attrarre gli investimenti delle multinazionali abbassando il livello dei salari e della previdenza sociale» (per la verità, è la concorrenza internazionale dei nuovi mercati del lavoro che produce l’abbassamento dei livelli salariali, i quali, a quel che mi risulta, in nessun Paese capitalistico del mondo sono decisi da una qualche autorità politico-statale).
Non basta. Grazie «all’estendersi della competitività a principio generale di governo», «il governo neoliberista» diviene « produzione attiva di norme di vita sul piano giuridico, etico e prima ancora antropologico (…). Oggi tutti i rapporti con gli altri e perfino con se stessi sono orientati al principio mercantile del guadagno. Così (…) il neo liberalismo si configura come l’insieme degli atti e dei discorsi che governano gli uomini secondo il principio della loro concorrenza». Secondo un collaudato modello teorico, insomma, è l’economia a governare sia la cultura che l’antropologia: sicché, anche per Esposito, dall’abbassamento dei salari alla mercificazione universale il passo è obbligato. Segue infine la polemica di prammatica contro «i danni sociali dell’alta finanza», e contro l’idea «neoliberista» di «ripianare i deficit pubblici a colpi di tagli alla spesa sociale» (senza dire però che si tratta della ricetta dettata da quell’Europa che da una trentina di anni è carissima a tutta la sinistra continentale, a cominciare dal nostro presidente della Repubblica. Una ricetta, tra l’altro, per la prima volta messa in pratica a suo tempo dalla socialdemocrazia tedesca con Schröder: o no?).
Merita di soffermarsi sul quadro schizzato da Esposito, perché esso va sostanzialmente al di là di una critica certo non nuova alla situazione odierna. Ciò che in esso colpisce soprattutto, infatti, è la tenacia con cui il pensiero radicale che si vuole a tutti i costi antagonista, continui — pur da parte di un suo esponente così acuto come Esposito — a confondere disinvoltamente la modernità con il capitalismo. Come esso continui ad attribuire per intero i meccanismi sociali e psicologici, tipici della prima, agli effetti del mercato e del profitto, tipici del secondo. In particolare, è sorprendente come il pensiero radicale antagonista continui a sottovalutare l’autonoma portata della secolarizzazione — cuore pulsante decisivo della modernità — preferendo tuttora, invece, fare sempre dell’economia il centro motore di tutto. O meglio, più che dell’economia addirittura della politica economica e delle diverse fasi del ciclo. Stando alla ricostruzione di Esposito e di tanti altri, dovremmo infatti pensare che fino agli anni Sessanta, per esempio — quando di «neoliberismo» neppure si parlava, quando i tagli alla spesa sociale erano ancora di là da venire — dovremmo pensare che a quel tempo l’antropologia delle società occidentali fosse ancora il regno dell’autenticità e della solidarietà (e invece non c’erano già allora intere biblioteche dello stesso pensiero radicale che dicevano il contrario? La scuola di Francoforte ce la siamo sognata o è realmente esistita? E che dire dello stesso Marx?). Dovremmo pensare, insomma, che solo quando sono apparsi la signora Thatcher, Reagan, e poi i problemi dell’euro, solo allora avrebbe cominciato a dilagare l’egemonia del «principio mercantile del guadagno» e della concorrenza tra gli individui.
Le cose evidentemente non stanno affatto così, e in realtà sembra più utile su questo piano un’analisi che si muova a un livello più alto, guardi a orizzonti più ampi e consideri tempi più lunghi. Si vedrà allora che, mentre l’umanità è sempre stata esposta alla tentazione del guadagno a ogni costo, mentre essa è sempre stata tentata dal fare di tutto per conseguirlo, solo in Occidente, però, si sono verificati due processi di portata deflagrante che hanno cancellato progressivamente gli argini culturali che in tutti gli altri contesti storici bene o male frenavano o disciplinavano tale tentazione. Due processi, ho detto. Da un lato un processo di razionalizzazione assoluta di ogni ambito della realtà e della vita, di espulsione di qualunque aspetto magico-spirituale, che ha avuto il momento-chiave nella scoperta della scienza e nel suo sviluppo. Dall’altro una vita collettiva sempre più penetrata dalla centralità del singolo individuo, alla quale centralità ha provveduto a dare di certo un contributo non piccolo anche il Cristianesimo.
L’Occidente è stato una sorta di alambicco faustiano dove questi due processi si sono combinati, crescendo e rafforzandosi vicendevolmente. Dalla scienza sono nate le migliaia di scoperte che sappiamo, hanno tratto origine il mondo delle macchine, l’accrescimento inaudito delle merci, la più cruda e assoluta possibilità per gli esseri umani di avere a propria disposizione la natura. Dall’originario individualismo, invece, si è sviluppata la soggettività moderna, sempre più libera e insofferente di ogni legame personale e collettivo, l’io moderno critico di ogni regola, desideroso solo di affermarsi, di avere, di prevalere, di godere, di espandersi, obbedendo esclusivamente al proprio demone. Per parlare alla buona e farla breve, la modernità non è altro che la somma e l’intreccio di questi due ingredienti, la loro esplosiva combinazione.
Dunque, e per tornare all’argomento iniziale, tutto ciò che si manifesta nel capitalismo e che non ci piace (non piace al pensiero radicale di Esposito, ma non piace neppure al mio liberale e «moderato», così come non piace a tutto il pensiero religioso e — diciamolo pure — a nessun essere umano convinto che «non di solo pane» con quel che segue), quel che non ci piace del capitalismo altro non è alla fine che il prodotto dei due ingredienti del terribile alambicco faustiano di cui dicevo sopra.
La vera differenza tra il punto di vista di Esposito e quello di altri che pure, come lui, non amano particolarmente lo spettacolo attuale, sta nel fatto che in realtà la tradizione del pensiero radicale che Esposito abbraccia ha fortissime difficoltà a criticare alcuni tratti fondanti della modernità a prescindere da ogni risvolto di tipo economico, cioè in quanto tali, nonché a criticare l’orientamento, tipico della stessa modernità, alla dilatazione della sfera soggettiva. E allora, piuttosto che andare al cuore e all’origine delle cose attuali che non gli piacciono, trova più facile addebitarle per intero al capitalismo. O meglio — poiché oggi, dopo la crisi del comunismo e il conseguente appannamento del marxismo, il puro e semplice anticapitalismo ha perso il suo smalto ideologico — addebitarle per intero al «neo-liberismo».
In maniera ancora più contraddittoria, anzi, il pensiero critico che si vuole antagonista cura di scegliere con acribia «politicamente corretta» tra tutti gli effetti riconducibili alla modernità e alla espansione del soggetto. Sicché mentre da un lato stigmatizza al massimo quegli effetti che riguardano i comportamenti di tipo economico (connessi per l’appunto alla sfera dell’«utile», alla «sete di guadagno» o alla «centralità del denaro»), dall’altro lato, invece, auspica lo sviluppo di quelli non economici, e li saluta ogni volta come luminose conquiste di un necessario progresso. Penso, ad esempio, a tutti i fenomeni che riguardano la secolarizzazione e la perdita di rilievo simbolico decretata nella sfera pubblica alla religione e in particolare al Cristianesimo, ovvero alla sempre più straordinaria enfasi posta sui diritti soggettivi, sulla loro estensione e moltiplicazione, sulla carica ideologica che li accompagna. Si direbbe insomma che, mentre la modernità della laicità e la soggettività e dei diritti vanno benissimo, e sarebbero quanto mai encomiabili, viceversa la modernità e la soggettività che si manifestano nel «neo-liberismo» o nella «sete di guadagno» vanno male e sarebbero riprovevolissime.
Eppure dovrebbe essere evidente che tutto si tiene. Che concettualmente — ed ancora di più sul piano della ricostruzione genetica dei fenomeni — è di fatto impossibile separare una modernità buona (quella dei diritti) da una modernità cattiva, (quella del profitto, delle banche e della «sete di guadagno»). Così come dovrebbe essere evidente che tra le due c’è un ovvio rapporto di intrinsichezza e di necessità. Che senza l’indirizzo impetuoso verso il «moderno» e l’individualismo, che è il tratto fondante della nostra cultura — un tratto, lo ripeto, che affonda nei secoli ben prima di qualunque capitalismo, ma che è consustanziale al capitalismo e da esso riceve un continuo incentivo —, a nessuno sarebbe mai venuto in mente di chiedere l’asportazione dei crocefissi dalle aule scolastiche, così come a nessuno sarebbe mai venuto in mente di immaginare l’esistenza di un diritto all’autodeterminazione sessuale o alla «genitorialità», alla «buona morte» o altri simili diritti. Le due modernità — quella capitalista, o neoliberista che sia, della «sete di denaro» e della «mercificazione», e quella del libero pensiero e dei diritti individuali — non sono state due cose diverse che hanno proceduto, chissà come, su due binari paralleli. Si è trattato sempre della stessa cosa: di quella mistura che si agita e ribolle nell’alambicco faustiano dell’Occidente, distillando indifferentemente un insieme di fenomeni i più diversi, ma tutti legati strettamente tra di loro.
Tra i quali, mi sia consentito quest’ultimo accenno, c’è anche la democrazia: con i suoi alti ideali di eguaglianza e di libertà da una parte, ma dall’altra pure la maledetta necessità di trovare i soldi per riuscire a dare a tali ideali una qualche concretezza. La democrazia di continuo travagliata dalla soggettiva ansia di reddito, di sempre più reddito, di tutti i suoi cittadini, e insieme dal vincolo del prelievo fiscale, del debito, dei mercati. Piuttosto però che sporcarsi le mani con l’insieme di queste vere e aspre questioni, piuttosto che fare i conti con le contraddizioni profonde della modernità, il pensiero radicale antagonista trova più facile abdicare a una reale funzione critica, sostanzialmente buttarla in politica, e addebitare tutto ciò che qui e ora non gli garba, all’Uomo Nero del «neo-liberismo».

Corriere 20.1.14
Alfabeto e ricordi, la stanza di Franca
Desaparecida a 18 anni. «Voleva fare la maestra, finì su un volo della morte»
di Alessia Rastelli


BUENOS AIRES — Al muro ci sono, uno di seguito all’altro, Alberi, Bambini, un Cavallo. Fino ad arrivare a due Zebre: una adulta e un cucciolo. Un alfabeto grande quanto una parete, dipinto oltre cinquant’anni fa in una cameretta di Buenos Aires da due giovani genitori in attesa di una bambina. La prima, e l’unica. «Mi avete condannato a studiare già prima di nascere» dirà quella bambina diventata ragazza, una pagella piena di dieci al Colegio Nacional, la scuola superiore dove si sono formati numerosi politici argentini. Solo un giudizio negativo, alla voce condotta: «mala» (cattiva). «Perché fin dal primo ginnasio mia figlia era rappresentante degli studenti» spiega la madre, Vera Vigevani Jarach, protagonista della web serie del Corriere della Sera , «Il rumore della memoria».
Entriamo con lei nella cameretta colorata, piena di quadri e fotografie. Una, grande, ritrae una ragazza «sorridente ma pensativa (pensierosa)». «Lei è mia figlia, sempre presente. Si chiama Franca. Si chiama, non si chiamava», precisa Vera.
Franca, detenuta desaparecida vittima della dittatura di Jorge Rafael Videla, è stata uccisa a 18 anni, poco dopo che il suo secondo fidanzato («come sono contenta che ne abbia avuti due!», dice la madre) le scattasse quella foto. Sequestrata il 25 giugno 1976, rinchiusa alla Esma, la scuola ufficiali della Marina usata come centro di prigionia clandestina, caricata meno di un mese dopo su un «volo della morte», drogata e gettata viva nel Río de la Plata. Il corpo disperso e nessuna tomba, come per i trentamila che scomparvero durante il regime militare, dal 1976 al 1983.
«Credo che l’abbiano presa perché era potenzialmente una leader» ipotizza la madre. «L’anno prima che la portassero via — racconta — il preside del Colegio era stato minacciato di essere rimosso e Franca fu tra gli organizzatori di un’occupazione per difenderlo. All’arrivo del nuovo dirigente venne espulsa. Offesa, anche quando in seguito ci fu la possibilità di rientrare, non volle più tornare in quell’istituto». Spirito indipendente, la figlia di Vera abbracciò la politica tardivamente, aderendo alla sinistra peronista, che poi si oppose alla dittatura: studentessa dell’ultimo anno, si iscrisse alla Unión de Estudiantes Secundarios (Ues); in seguito, quando dopo la maturità conseguita in un’altra scuola di Buenos Aires volle provare il mestiere di grafica, militò nella Juventud Trabajadora Peronista (Jtp).
Vera è stata per quarant’anni giornalista all’Ansa di Buenos Aires, redazione Cultura. La sua casa è piena di libri e di arte. Si respirano sapere, ideali, senso critico. Gli stessi con cui è cresciuta Franca. Come affrontarono, allora, una madre e un padre intellettuali le scelte — rischiose, ma frutto di quell’educazione — della figlia? «Mio marito le parlò, la mise in guardia quando decise di occupare la scuola — ricorda Vera —. Ma lei disse: “Papà, non lo hai fatto anche tu ai tempi dell’università?”. E lui non poté ribattere». «Più volte — continua la madre — le proponemmo di andare per un po’ all’estero, magari in Italia, ma lei rifiutò. Un genitore non vuole mai che un figlio sia in pericolo però poi deve accettare la sua volontà e il fatto che ha degli obiettivi».
Fino al punto che adesso Vera li ha fatti propri e cerca di portarli avanti. «Non si può essere genitore di qualcuno che non c’è più. Ma io sono ancora una madre, una madre di Plaza de Mayo» osserva l’ex giornalista, tra le fondatrici di quel gruppo di donne che lottarono per ritrovare i figli desaparecidos e che lottano, anche oggi, per ottenere giustizia e per non dimenticare.
E proprio in quella stanza — che è ancora così tanto, dopo oltre trent’anni, la cameretta di Franca — Vera ha ricavato il suo studio. «Questo è diventato il posto dove lavoro. E sono ben accompagnata — confida —. Perché sento che mia figlia mi sta vicino. Molte volte ho con lei dei dialoghi interiori. So cosa avrebbe pensato su tante questioni. Anche recenti».
Franca sperimentò per qualche tempo la grafica «ma voleva diventare una maestra — racconta la madre — perché pensava che la base del cambiamento fosse nell’educazione». Vera oggi ha 85 anni e attraversa l’oceano — Argentina-Italia, più volte l’anno — per parlare ai ragazzi delle scuole e testimoniare. Militante, come Franca. Della Memoria.

il Fatto 20.1.14
Ipocondria, se fa rima con genio
di Emiliano Liuzzi


Il suo nome compare nella storia della musica, del cinema e della letteratura, tanto da aver spinto qualcuno ad associarla quasi automaticamente al genio e alla creatività. E sono talmente numerosi e bizzarri gli aneddoti che si raccontano, che si fa fatica a distinguere la linea che separa la verità dalla leggenda. In realtà il disturbo è molto più esteso, il 2% di uomini e donne ne è colpito. Stiamo parlando della paura di ammalarsi, che alcuni medici traducono in nosofobia, mentre altri riconducono alla sfera più ampia dell'ipocondria, ossia la convinzione esagerata e a tratti ossessiva di patire malattie. Tradotto significa che una banale tosse può essere interpretata come l'inizio di una fatale polmonite.
Nel 1600 Molière ci costruì una commedia senza tempo, il “Malato immaginario”, opera che ruota attorno ad Argante, perfetto prototipo dell'ipocondriaco: “È andata che in questo mese ho preso uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto medicine e uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci, undici e dodici lavativi". Più avanti nella storia incontriamo Charles Darwin, Marcel Proust, Andy Wahrol, tutti ossessionati dalla propria salute. Si racconta che il pianista canadese Glenn Gould, morto nel 1982, detestasse il contatto con gli estranei e viaggiasse anche d'estate bardato con cappotto e guanti per proteggere se stesso e soprattutto le sue mani così preziose. Woody Allen sintetizza il concetto a modo suo: “Non è che mi senta malato di continuo, ma quando mi ammalo penso subito sia la volta buona”. Arrivando poi fino in Italia, dove hanno ammesso la convivenza con la paura di ammalarsi due mamma-santissima del cinema: Paolo Villaggio e Carlo Verdone. Quest'ultimo ha raccontato la propria ipocondria in decine di film, quasi attore di se stesso.

Corriere 20.1.14
Scrittori a meno di mille dollari, a rischio la qualità dell’editoria
di Livia Manera


La Digital Books World Conference, che si è appena chiusa a New York dopo tre giorni di lavori, ha presentato una ricerca su quanto guadagnano gli scrittori. Il risultato è scioccante. Il 77 % degli autori auto-pubblicati e il 53,9 % di quelli pubblicati tradizionalmente guadagnano oggi meno di 1000 dollari l’anno, vale a dire meno di 740 euro. Solo il 2% supera i 100 mila dollari l’anno. Questo significa che la situazione di chi svolge un lavoro intellettuale o d’informazione riflette in modo addirittura peggiorativo il divario tra ricchezza e povertà che negli ultimi anni è diventato sempre acuto nella società contemporanea. Con effetti tangibili anche sulla qualità dell’informazione.
Ormai i giornalisti free lance, sempre più numerosi e sempre meno pagati, cercano di scrivere più in fretta possibile per produrre di più. E le redazioni decimate non sono più in grado di fornire controlli all’altezza. Come dimostra il caso di questa settimana di una nota giornalista americana, Janine di Giovanni, che ha firmato su Newsweek un articolo sul declino della società francese dal titolo «The fall of France» (la caduta della Francia), ed è stata colta in castagna da Le Monde e Le Figaro con dieci errori gravi oltre una quantità di meno gravi, che hanno gettato discredito non solo su di lei ma sullo stesso Newsweek .
La mancanza di risorse per pubblicare libri e giornali di qualità è un problema molto serio. Non solo per l’editoria ma anche, e soprattutto, per la democrazia. La stampa dovrebbe esercitare una funzione vitale di controllo sulla politica e l’operato dei governi. Ma come può farlo se perde mezzi e credibilità? Meno di 800 euro l’anno non è solo una cifra che scandalizza, è una cifra pericolosa.
Tutto questo offre un motivo di più per osservare con attenzione quali saranno le proposte di due maghi dell’era digitale che si sono lanciati nell’editoria tradizionale, stupendo non poche persone: Jeff Bezos di Amazon che ha comprato il quotidiano The Washington Post e Chris Hughes di Facebook che ha rilevato il settimanale conservatore The New Republic . Mezzi ne hanno. Idee pure. Staremo a vedere.

Repubblica 20.1.14
“Così, tra apatia e manipolazioni, i partiti sono entrati in crisi
di Norberto Bobbio


L’appuntamento domani a Torino
“L’eredità di Norberto Bobbio a 10 anni dalla scomparsa”. Così la Città di Torino e il Centro studi Piero Gobetti lo ricordano domani alle 17 nell’aula del Consiglio comunale. Interverranno Giovanni M. Ferrraris (presidente del Consiglio comunale), il sindaco Piero Fassino, Pietro Polito (direttore del “Gobetti”), il rettore dell’Università Gianmaria Ajani, Luigi Bonanate, il direttore diRepubblica Ezio Mauro e Marco Bobbio. Dopo l’incontro, alle 19, verrà riaperta (a inviti) la casa di Bobbio

Come tutte le espressioni correnti del linguaggio politico, anche l’espressione “crisi di partecipazione politica” viene comunemente adoperata in diversi significati. Credo che il miglior modo d’avviare una discussione sul tema sia quello di cominciare a fare qualche distinzione. A mio parere, conviene distinguere tre usi diversi dell’espressione. Il che val quanto dire che il fenomeno di cui intendiamo occuparci ha (almeno) tre diverse manifestazioni.
Nel senso più generale e anche più facile, quando si parla di crisi di partecipazione, s’intende fare riferimento al fenomeno dell’apatia politica, cioè al diffondersi di un certo disinteresse per la politica, che sembra una delle caratteristiche della società di massa. L’apatia politica è un aspetto del fenomeno più ampio della “depoliticizzazione”. La quale, a sua volta, sembra connessa, da un lato, allo sviluppo della società tecnocratica, dall’altro, all’ingigantirsi e al rafforzarsi, nella società delle grandi organizzazioni, degli apparati burocratici. E infatti, una delle caratteristiche dell’ideologia tecnocratica è di credere e di far credere che le grandi decisioni siano di natura tecnica e non politica. Orbene: se le grandi decisioni possono essere prese construmenti tecnici, non c’è più bisogno dei politici generici e tanto meno della partecipazione popolare ancor più generica; bastano i competenti specifici. [...] Tecnocrazia e burocrazia si congiungono al di sopra della sfera tradizionale riservata alla politica. La conseguenza di questa congiunzione è appunto la depoliticizzazione. Un’altra variante di questa crisi della partecipazione politica come crisi dellapolitica tout court è il fenomeno della crisi delle ideologie: in genere si crede che alla depoliticizzazione si accompagni la deideologizzazione come sua ombra. Volendo stringere in un solo nesso tecnocrazia,burocrazia e crisi delle ideologie, si può dire così: più si tecnicizza il processo di decisione, più si burocratizza il processo di potere; più si burocratizza il processo di potere, più si de-ideologizza il processo delle scelte fondamentali.
In un secondo senso si parla di crisi di partecipazione per indicare non già il fenomeno della mancanza di partecipazione bensì il fenomeno della partecipazione distorta o deformata. [...] La partecipazione distorta o deformata è la partecipazione ottenuta con le tecniche della manipolazione del consenso. È una partecipazione non attiva ma passiva, non libera ma coatta, non spontanea ma forzata, non autodiretta ma eterodiretta. Ci si domanda se si possa ancora parlare appropriatamente di partecipazione: alcuni vorrebbero chiamarla piuttosto mobilitazione, usando un termine con un evidente significato emotivo negativo che serva a metterne immediatamente in luce il carattere di fenomeno deviante. Sotto questo aspetto, crisi di partecipazione vuol dire risoluzione della partecipazione in mobilitazione. Questa crisi di partecipazione è l’effetto del sempre maggior rilievo che nella moltiplicazione e nella diffusione delle comunicazioni di massa acquista il potere ideologico accanto ai tradizionali poteri economico e politico. Intendo per potere ideologico il potere che si esercita attraverso il dominio dei mezzi di comunicazione di massa, cioè dei mezzi con cui chi detiene il potere cerca di ottenere il consenso dei soggetti ad esso sottoposti. [...] Vi è infine un terzo significato in cui si parla di crisi di partecipazione politica: la partecipazione ha luogo, e quindi non vi è mancanza di partecipazione; si può anche ammettere che sia libera e quindi non manipolata, cioè sia vera e propria partecipazione (e non, per esempio, mobilitazione). Ma vi può essere un’altra ragione per cui la partecipazione sia insoddisfacente, e pertanto sia legittimo parlare di crisi: la partecipazione non produce gli effetti che da essa ci si attende, cioè è inefficace e quindi inutile. Si partecipa e quindi non si resta assenti dalla competizione politica; ci si può anche muovere nell’ambito delle scelte politiche con una certa libertà, e quindi non si può parlare di vera e propria manipolazione (dove vi è concorrenza tra le varie parti che si contendono il potere, rimane sempre un certo spazio per il formarsi di una opinione personale). Ma la partecipazione non raggiunge il proprio scopo che è quello di dare all’individuo partecipante una parte effettiva nel processo al cui termine c’è la decisione politica. È un fatto che nella misura in cui aumenta il numero degli elettori nelle società di massa sembra che le grandi decisioni vengano prese indipendentemente dalla maggiore o minore partecipazione di coloro al cui interesse quelle decisioni sono rivolte. [...] Appare subito chiaro che una soluzione adatta per risolvere la crisidi partecipazione politica nel primo senso non è detto che sia adatta per risolvere anche il problema aperto dalla crisi di partecipazione politica nel secondo senso, e così di seguito. [...] Tanto per cominciare, è noto che uno dei grandi rimedi proposti per risolvere l’attuale crisi della partecipazione politica è l’estensione della partecipazione dai centri di potere politico ai centri di potere economico. Giustamente si osserva che nelle società industriali avanzate le grandi imprese sono Stati nello Stato, e le loro scelte hanno un valore condizionante per tutta la collettività: se per decisioni politiche s’intendono quelle decisioni che incidono sulla redistribuzione delle risorse nazionali, non c’è dubbio che le decisioni delle grandi imprese sono decisioni politiche. Perché ci sia corresponsabilità di tutti alle grandi decisioni non basta la partecipazione al potere politico, come avviene nelle democrazie di tipo tradizionale, occorre anche una qualche partecipazione, nelle forme più convenienti ed efficaci, al potere economico. L’allargamento della democrazia dalla sfera politica alla sfera economica è uno dei temi ricorrenti della pubblicistica di sinistra. Benissimo. Però è subito evidente che una riforma di questo genere può risolvere il problema dell’assenteismo o dell’apatia ma non certo quello della manipolazione né quello dell’inefficacia della partecipazione. [...] L’altro grande rimedio — un vero e proprio toccasana dal modo con cui è presentato — è quello della democrazia diretta. In ogni discussione sulla crisi della partecipazione, gira gira, si torna sempre alla riproposta della democrazia diretta. I regimi democratici non funzionano perché sono fondati sulla democrazia rappresentativa, che è un inganno cui non crede più nessuno, e così via discorrendo. Eppure, a ben guardare, anche la democrazia diretta, posto che sia attuabile, e nei limiti in cui è attuabile, non è un rimedio universale. Delle tre malattie della partecipazione essa è in grado di curare quasi esclusivamente la terza, cioè la partecipazione inutile. [...] Non vedo invece come possa venir meno, per il solo fatto che la democrazia diventi diretta, l’inconveniente della manipolazione. I plebisciti ne sono una prova. [...] Il problema della partecipazione — lo vediamo sempre più chiaramente — non è un problema di quantità ma di qualità: o per lo meno non è soltanto un problema di quantità. Non si tratta tanto di sapere chi partecipa (problema dell’apatia) e neppure riguardo a che cosa (problema dell’efficacia della partecipazione); ma come. [...] Mai come oggi ci si accorge che attraverso le tecniche di manipolazione del consenso la più grande democrazia (proclamata) può coincidere con la più grande autocrazia (reale). [...] Accettare senza una verifica storica e razionale i miti correnti serve soltanto ad aumentare la confusione.

Repubblica 20.1.14
La scuola delle emozioni
Bambini Lezione e sentimento
di Massimo Vincenzi


Bambini a lezione di sentimenti. Succede in America, dove gli alunni possono imparare a riconoscere e gestire felicità e rabbia Rabbia, felicità, malinconia o amore. Come riconoscerli, gestirli e infine usarli per migliorare. Un compito arduo per gli alunni e gli insegnanti che da qualche tempo in America si trovano alle prese con una materia in più, forse la più difficile: l’educazione emotiva

NEW YORK È mezzogiorno, c’è finalmente un bel sole quasi caldo, dopo i giorni della tempesta polare i bambini possono mettere il naso fuori dalle loro classi. Sono una ventina, stanno in cerchio tenendosi la mano nel cortile della Corlears School a Chelsea nella parte bassa di Manhattan. In mezzo a loro LaTasha, la maestra, parla con tono quasi musicale: «C’è qualcosa che volete raccontare? Qualcosa che non va come vorreste a casa o a scuola? O con i vostri amici?». Tim è intabarrato dentro un giubbino troppo largo, ha otto anni, abbassa lo sguardo e alza un filo di voce: «A me non piace mio fratello più grande: mi ruba sempre i giochi».
Vengono assegnati i ruoli: uno più alto degli altri interpreta il “cattivo” e in mezzo al cerchio va in scena la riproduzione del “furto”. La maestra guida tutte le fasi sino a quando Tim non ritrova il sorriso, il finto fratello chiede scusa e tutti si dondolano avanti e indietro nel loro palcoscenico immaginario.
Quello di La Tasha non è un esperimento empirico ma segue alla lettera uno dei tanti programmi per “quella materia fondamentale che ancora mancava nelle scuole americane”: l’educazione emotiva. Ovvero insegnare ai bambini a gestire quello che capita loro attorno, comprendere i propri sentimenti, quelli degli altri, sviluppare l’empatia, domare rabbia e nervosismo. La piccola rivoluzione che mette al centro della didattica l’intelligenza emotiva, secondo la definizione del best seller dello psicologo Daniel Goleman, si appoggia su basi scientifiche e sta conquistando sempre più consensi. Marc Brackett, dell’università di Yale, è uno dei più attenti studiosi del fenomeno: “Dopo anni di ricerche ed esperimenti non ci sono più dubbi: sappiamo che le emozioni possono migliorare o ostacolare la capacità di apprendimento”, spiega ad un convegno. Il concetto è semplice ma non scontato: se un alunno ha problemi a casa certo faticherà a concentrarsi sui libri, se litiga con i compagni non riuscirà a stare attento, se è sospinto dall’euforia o zavorrato dalla tristezza sarà impossibile farlo progredire negli studi. La scuola è un’enorme pentolone che ribolle, dall’infanzia all’adolescenza le emozioni viaggiano alla velocità della luce: imparare a governarle diventa decisivo. Per molto tempo gli insegnanti (e pure i genitori) non si sono preoccupati di questo aspetto: l’idea generale era che queste capacità si sviluppano naturalmente con il tempo, attraverso l’esperienza. Ma gli studi confermano che non è affatto così: molti non riescono mai a controllare i propri stati d’animo, attraversano in una sorta di altalena emotiva tutta la loro carriera scolastica sino a diventare giovani uomini e donne problematici. “Sono percezioni naturali mi ripete ancora qualcuno, i bimbi le apprendono guardandosi attorno in famiglia. È un’assurdità: come tutte le doti vanno allenate”, dice ancora Brackett, che poi aggiunge: “Non basta urlare calmati per ottenere l’effetto sperato, bisogna spiegargli come fare a riprendere il controllo: va riconosciuto il problema, affrontato, risolto”.
I benefici sono assicurati, giurano gli esperti. Non solo nell’immediata carriera da studenti ma anche nel futuro: secondo uno studio dell’università della Virginia l’educazione emotiva è la chiave per avere successo nella vita e nel lavoro, poi ci guadagnano le relazioni di coppia e persino la salute. “Gli effetti positivi vanno ben al di là di un bel voto in un test: so-no talmente tanti da dare quasi le vertigini”, esulta Maurice Elias della Rutgers University.
Nascono molti siti dove si trovano manuali di comportamento, nei blog padri e madri smarriti davanti ad un terreno sconosciuto trovano le risposte che cercano, su Google ci sono più di 8mila link collegati (ce n’era uno nel 1981). Edutopia, la fondazione di George Lucas, quello di Guerre Stellari, stanzia milioni di dollari ogni anno per promuovere questi programmi, altre organizzazioni no profit fanno pressione sul Congresso e sui singoli Stati perché la materia diventi obbligatoria per legge. L’Illinois, dal 2003, è il primo stato ad averla adottata, adesso si muovono anche altri: dalla California a New York. Tutti convinti che questa sia la strada per prevenire l’incubo dei professori americani: il bullismo, compreso la sua versione cyber: “Se riusciremo ad insegnare ai nostri ragazzi l’autocontrollo, tra vent’anni avremmo un mondo migliore”, assicura Jessica che insegna anche lei alla Corlears. La fiducia nella prevenzione conquista anche la politica: tanto che da Washington parte la direttiva di cambiare linea sulla “tolleranza zero” a scuola.
Sino ad ora gli studenti indisciplinati venivano puniti con severità, dall’espulsione sino al carcere nei casi di reati violenti: adesso si mettono in atto corsi di recupero, non perdere ragazzi per strada diventa prioritario e nelle ore passate con gli insegnanti di sostegno, va da sé, l’educazione emotiva è la materia regina.
Billy fa il preside in una scuola di Sacramento, racconta la sua esperienza al New York Times, che dedica al tema una copertina del suo magazine: “Andava tutto male, pessimi risultati, indisciplina, risse e guai simili. Allora ho cambiato molti professori, rifatto i programmi didattici ma ancora niente: le cose non miglioravano. Poi ho messo nella didattica il corso e dopo pochissimo la situazione è migliorata. Anche io sto meglio,me lo dice pure mia moglie”.
Gli esercizi e le tecniche di insegnamento variano: il tratto comune è la fisicità, il tentativo di far visualizzare ai bambini le loro emozioni in modo da imparare a riconoscerle dunque a domarle. Gli alunni devono ricordarsi che faccia avevano quando si sono arrabbiati con la mamma, oppure quando hanno fatto festa per un bel voto: ritrovata quell’espressione la ricreano e stanno immobili per un po’. Oppure devono colorare quadrati con diverse tonalità, ognuna legata ad uno stato d’animo particolare e poi incollarli al muro in modo da avere un grafico aggiornato del proprio umore. E anche viene chiesto di animare i libri, di recitare quello che hanno letto o i temi che hanno scritto. La respirazione è l’altro filo che li tiene assieme: passa da qui infatti molta della nostra capacità di gestire i diversi stati animi, soprattutto la paura. Poi i vari programmi lasciano molto libertà ai professori, che devono capire quale tipo di bambino hanno davanti: c’è chi dimentica una sensazione dopo pochi secondi e chi se la porta dietro per mesi. “Bisogna fare attenzione, si cammina in un campo delicato: addestrare bene i docenti diventa decisivo”, avvertono gli psicologi.
Ma non tutti applaudono la novità. La scrittrice Elizabeth Weil lancia l’allarme su New Republic: “Vogliono uniformare i nostri figli. Io difendo il loro diritto di essere esuberanti, originali, anticonformisti anche a costo di farsi male. Già le nostre scuole non brillano per fantasia: adesso andiamo incontro al rischio di un’ortodossia emotiva”. E una attenta studiosa delle scuole americane, Diane Ravitch le dà ragione: “Il guaio del nostro sistema educativo è che non abitua alla libertà di pensiero, altro che controllare le emozioni: andrebbero scatenate”.
L’ombra si allunga sul cortile della scuola di Chelsea. Fa freddo e i bambini rientrano in fretta, si spingono e urlano nella strettoia della porta, LaTasha li sgrida sorridendo: “Non penso che creiamo dei robot, offriamo uno strumento per aiutarli a stare meglio. Prendi l’inglese, insegniamo la grammatica poi ognuno di loro, grazie a Dio, in quello che scrive ci mette il cuore, la vita e la propria personalità”.

Repubblica 20.1.14
La libertà dei piccoli per difendersi dal mondo adulto
di Mariapia Veladiano


«Quanto libero può essere un bambino a scuola» è ovviamente una domanda tendenziosa. Di quelle che vogliono scatenare risse. Perché a scuola si va per imparare, e se una bambina si rifiuta di fare il disegno delle foglie il lunedì mattina dalle dieci alle undici, in qualche modo disturba la propensione più o meno spontanea degli altri bambini a obbedire alla consegna, e in una interpretazione piuttosto circoscritta del suo bene, disturba anche il suo processo di apprendimento dell’arte del disegno e quindi è una libertà solo apparentemente innocua la sua e a scuola diventa un problema da affrontare se si ripresenta
Ese poi è lo studente delle superiori a mancare un giorno sì e uno no dalle lezioni, anche questa è una libertà pericolosa, il perché qui non è così evidente e luminoso, ma il fatto è tanto grave da farlo escludere dallo scrutinio per legge, bocciato d’ufficio. Quali che siano i risultati scolastici.
Poi ci sono le emozioni. Anche la domanda “quali emozioni possono abitare a buon diritto le aule di scuola” è tendenziosa. Fare un elenco è stupido, entrano tutte, insieme alle persone che la frequentano. Sollevare un mare di distinguo, tipo: amichevole sì, affettuoso sì, grato sì, ribelle meglio di no, o con moderazione, odioso forse, però solo in privato, amichevole sì anche in pubblico purché si agisca poco poco, e già ci si trova sommersi dal politicamente scivoloso. Ma da Daniel Goleman in poi anche i non addetti sono più o meno informati circa l’esistenza dell’intelligenza emotiva, che ha a che fare con la capacità di affrontare con successo la vita e anche la scuola, e infatti la tesi che le abilità emozionali siano strategiche per i risultati scolastici ha portato a un investimento importante sui programmi di Social Emotional Learning (SEL) all’interno dell’istruzione in ambito anglosassone. Con risultati, dopo decenni di monitoraggio, sconfortantemente diseguali, discussi, eclatanti e deludenti a seconda dell’indagine o dell’esperienza che si va a scegliere per parlarne.
Ci son questioni così grandi dentro. C’è il punto di vista bambino ad esempio: la sua individualità, se sconfina la composta vita d’aula, va coltivata oppure normalizzata? E poi, un’educazione alle emozioni corre sempre il rischio di esprimere una visione standardizzata di gestione delle emozioni, addirittura funzionale banalmente al mondo di scuola, dove i tagli di organico rendono più conveniente la disciplina e quasi ingestibile le diversità. Picchiare, far danni alle cose, dire parolacce e impedire la lezione, per semplicità e un po’ all’ingrosso si può dire che non sono problemi né di libertà né di emozione, ma di maleducazione, almeno fino a una certa età. Poi è delinquenza e basta, sempre parlando all’ingrosso, perché a pensarci poi la scuola raccoglie quel che il mondo le consegna e a volte è proprio difficile mettere il confine fra la reazione adolescenzialmente sgangherata a situazioni di vita ferita e il reato ben deliberato.
Di sicuro le emozioni sono tema di scuola, insieme alla libertà che ciascuno, fin da bambina e da bambino, ha il diritto di vedere riconosciuta, libertà di essere unico e di difendersi. E di ribellarsi a manipolazione, depressione, frustrazione, stanchezza, sfiducia del mondo adulto come ce lo descrivono le indagini e come ce lo consegna la letteratura oggi. Perché è evidente che le emozioni a scuola sono anche quelle degli adulti, eppure non c’è programma di formazione dei docenti che preveda un lavoro sulle proprie emozioni d’aula e su come fare a fidarsi e affidarsi all’empatia, che è sentire quel che sente chi ci sta davanti, e così entrare in relazione, senza perdersi. Bisogna non perdersi quando si è in aula.
Sulla scuola tutti hanno da dire ed è giusto, perché la scuola è il bene di tutti. Però in virtù dell’essere stati studenti o di avere figli studenti, il dire di scuola è spesso un dire (troppo) assertivo.
Beati quelli che son sicuri di quel che si deve fare.
Pazzi quelli che son sicuri di quel che si deve fare.