martedì 21 gennaio 2014

Repubblica 21.1.14
Nel mondo ci sono 85 uomini d’oro in tasca la ricchezza di metà popolazione
Hanno il reddito di 3,5 miliardi di abitanti


LONDRA — Immaginate una bilancia: su un piatto ci sono ottantacinque persone, sull’altro ce ne sono tre miliardi e mezzo, ma l’ago è in perfetto equilibrio. E’ la metafora con cui l’Oxfam, una della più importanti associazioni di beneficenza internazionali, misura il gap ricchi-poveri sul nostro pianeta: 85 miliardari possiedono 1.200 miliardi di euro, l’equivalente di quanto detenuto da metà della popolazione terrestre. Se fosse un film, bisognerebbe intitolarlo “La Grande Diseguaglianza”. La stima fa parte di un rapporto pubblicato alla vigilia del World Economic Forum di Davos per dimostrare come l’estrema disparità tra ricchi e poveri rappresenti non solo un’ingiustizia dal punto di vista morale, ma una minaccia per la democrazia e la stabilità sociale. Non è la prima volta che circolano cifre simili: la ragione fondatrice del cosiddetto movimento 99 per cento, quello di “Occupy Wall Street”, era appunto l’idea che l’1 per cento della popolazione mondiale fosse più ricco di tutti gli altri. “Plutocrats”, un libro- inchiesta della giornalista Cinthya Freeland uscito lo scorso anno, andava oltre, sostenendo che il vero oltraggio non è la ricchezza dell’1 per cento contro il 99 per cento, bensì quella dello 0,1 per cento, la crema della crema, il club dei miliardari. Proprio su questi si concentra lo studio di Oxfam: gente come il messicano Carlos Slim, il fondatore della Microsoft Bill Gates, Larry Page di Google e Warren Buffett. O come Michele Ferrero, Leonardo Del Vecchio e Miuccia Prada, i tre italiani presenti tra gli 85. In Africa,nota il rapporto, le grandi multinazionali sfruttano la propria influenza per ridurre la pressione fiscale, riducendo le risorse che i governi locali potrebbero usare per combattere la povertà. Lo stesso viene fatto dai giganti della rivoluzione digitale, che sfruttano scappatoie e sotterfugi per pagare zero o quasi tasse sui loro immensi profitti. In 29 su 30 paesi sviluppati o in via di sviluppo esaminati dall’indagine la tassazione per i ricchi non fa che diminuire. E l’1 per cento dei piùricchi delle terra detiene complessivamente un patrimonio di 180 trilioni di dollari. «Le pari opportunità stanno diventando un miraggio a livello globale», afferma l’Oxfam, accusando le élite economiche mondiali di agire sulle classi dirigenti politiche per truccare le regole del gioco economico, erodendo il funzionamento delle istituzioni democratiche. «Viviamo in un mondo in cui chi detiene il potere economico ha ampie opportunità di influenzare i processi politici, rinforzando così un sistema nel quale la ricchezza e il potere sono sempre più concentrati nelle mani di pochi, mentre il resto dei cittadini del mondo si spartisce le briciole», sostiene Winnie Byanyima, direttrice di Oxfam International. «Un sistema che si perpetua, perché gli individui più ricchi hanno accesso a migliori opportunità educative, sanitarie e lavorative, regole fiscali più vantaggiose, e possono influenzare le decisioni politiche in modo che questi vantaggi siano trasmessi ai loro figli. Se non combattiamo la disuguaglianza, non solo non potremo sperare di vincere la lotta contro la povertà estrema, ma neanche di costruire società basate sul concetto di pari opportunità, in favore di un mondo dove vige la regola dell’asso pigliatutto».
Negli ultimi anni il tema della disuguaglianza è entrato con forza nell’agenda globale: Obama lo ha identificato come una priorità del 2014, e proprio l’ultimo World Economic Forum ha identificato le disparità di reddito eccessive come il secondo maggior pericolo per la stabilità sociale e la sicurezza globale. Ora la Oxfam chiede ai partecipanti alla nuova edizione del convegno di Davos di assumere un impegno solenne a fare di più per ridurre questa ingiustizia sommaria. Per limitare, se non far scomparire, la Grande Diseguaglianza.

il Fatto 21.1.14
Gli 85 super-ricchi valgono quanto 3,5 miliardi di poveri
Al Forum di Davos la Ong Oxfam censisce: possiedono metà del mondo
di Alessio Schiesari


Politiche fiscali, paradisi off-shore, contributi anti-crisi: tutto sembra concorrere a rendere i ricchi sempre più ricchi. La denuncia arriva dal nuovo rapporto dell’ong britannica Oxfam, che sarà presentato al World economic forum al via domani a Davos. Il dato che lascia sgomenti riguarda la ricchezza detenuta dagli 85 paperoni del pianeta: “Starebbero dentro un autobus, ma possiedono quanto i 3,5 miliardi di persone più povere”, spiega Winnie Byanyima, direttrice dell’ong. La somma degli 85 super patrimoni ammonta a 1.685 miliardi di dollari, quasi quanto il Pil italiano. Sul podio Carlos Slim, magnate delle telecomunicazioni messicano, il fondatore di Microsoft Bill Gates e Amancio Ortega, proprietario di Zara. Nella lista anche gli italiani Michele Ferrero, Leonardo Del Vecchio e Miuccia Prada.
Il rapporto di Oxfam dal titolo “Lavorando per pochi” rischia di essere una delle poche voci fuori dal coro a Davos. Negli ultimi anni l'incontro cui partecipano gli uomini più influenti del pianeta era stato accompagnato da manifestazioni e proteste. Quest’anno invece la polizia si aspetta un'edizione tranquilla, merito anche della nuova strategia che permette di bloccare i potenziali manifestanti a 20 chilometri di distanza dalla cittadina svizzera.
SECONDO IL RAPPORTO Oxfam, il 70% dell’umanità vive in Paesi che hanno visto crescere la diseguaglianza sociale negli ultimi decenni. Trend che riguarda tutti i continenti, con l'eccezione dell'America Latina. Non si tratta però di un’inevitabile conseguenza del mercato, ma di precise scelte politiche. “Le élite economiche mondiali agiscono sulle classi dirigenti politiche per truccare le regole del gioco economico, erodendo il funzionamento delle istituzioni democratiche”, si legge nel rapporto. Emblematico il dato della pressione fiscale sui più ricchi, che è scesa in 29 dei 30 Paesi presi in esame (in attesa che entri in vigore la super tassa voluta da Hollande, l’unica eccezione è la Danimarca) rispetto al 1975. In Regno Unito la tassazione sui redditi più alti è scesa dall’83 al 40%, in Italia dal 72 al 44,9%, negli Usa dal 70 al 41,9%. Ci sono poi le quote di patrimonio nascoste nei paradisi fiscali: secondo le stime, 21mila miliardi di dollari, quanto il Pil di zona Euro e Cina sommati.
I manifestanti di Occupy Wall Street avevano centrato il problema con lo slogan: “Siamo il 99%”. Il problema è che, negli Usa, il restante 1% ha intercettato la quasi totalità di risorse a disposizione dopo la crisi dei subprime: il 95%. La situazione in Europa non sembra essere molto migliore: i 10 uomini più ricchi del continente hanno un patrimonio (217 miliardi di dollari) superiore al totale degli stimoli all’economia stanziati dall'inizio della crisi, che ammonta a 200 miliardi.

Repubblica 21.1.14
L’economista De Grauwe è scettico: c’è un timore reverenziale ad agire contro di loro
“Ci vuole una conferenza targata Ocse per studiare la tassazione dei miliardari”


«NON mi sorprendono affatto i risultati dello studio dell’Oxfam». Paul De Grauwe, già senatore per i Flemish Liberale oggi capo del dipartimento Europa della London School of Economics, cita a memoria i titoli di almeno una dozzina di ricerche che nel corso degli anni hanno confermato la polarizzazione della ricchezza in un numero sempre inferiore di mani.
Ma cosa bisogna fare per arginare questo fenomeno che accresce le diseguaglianze?
«Occorre una presa d’atto collettiva dei governi, che viceversa sono sempre più indifferenti. Sui maggiori redditi, tranne in pochissimi casi come forse in Francia, c’è un timore reverenziale ad agire. Invece serve uno sforzo corale per introdurre tassazioni che progressivamente vadano a incidere sui profitti maggiori per ridurre almeno le più inaccettabili fra le diseguaglianze».
Ma perché non viene fatto?
«Me lo chiedo da una vita. Potere delle lobby? Paura di perdere base impositiva? Forse quest’ultimo è il problema, e per questo dico che i Paesi dovrebbero agire all’unisono. Magari con il coordinamento di qualche organismo internazionale».
Quale? L’Onu, la Commissione europea?
«No, l’Ocse è in posizione ottimale per farlo. Dovrebbe convocare una conferenza internazionale dedicata alla riduzione delle disuguaglianze, e dettare le linee delle riforme per tutti i Paesi. Sinceramente non ho molte speranze che ciò accada. Ho sondato personalmente i governi europei e ho avuto riscontri disastrosi. Non c’è il minimo consenso su un’operazione del genere. E se è contraria l’Europa, culla della più antica civiltà e della democrazia, figuriamoci quale aiuto potremo avere dagli americani o, peggio ancora, da qualche Paese di nuova industrializzazione».

Corriere 21.1.14
«Famiglia Cristiana»: via alla Terza Repubblica


Per Famiglia Cristiana , il faccia a faccia tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi è, in qualche modo, epocale. Perché configura vere e proprie «prove tecniche di Terza Repubblica». Secondo il settimanale dei Paolini, la legge elettorale proposta dal segretario pd, il cosiddetto «Italicum», dovrebbe «cementare il bipolarismo». Detto questo, «il governo è più che mai in bilico». Dalla stampa cattolica, lo sguardo più favorevole è quello arrivato da padre Giacomo Costa, il direttore di Aggiornamenti Sociali , il mensile dei gesuiti.
Il sacerdote, pur non entrando nel merito delle questioni tecniche legate alla proposta, da Radio Vaticana osserva che «è sicuramente una chiave per tornare a fare politica. È uno dei criteri, un punto di riferimento che si è dato: ovvero superare una situazione a larghe intese, tornare politicamente a una situazione più vivace che rispetti l’agone politico e i confronti per lo meno tra i grossi partiti».
Promosso dall’esponente gesuita anche il faccia a faccia tra il segretario pd e Berlusconi: «È uno degli altri obiettivi di questa manovra, ovvero: uscire da un’impasse in cui non si decide niente. È una mossa che cerca di interpretare la situazione e prendere una posizione». Il meno favorevole è il presidente delle Acli Gianni Bottalico: «L’accordo fra Renzi e Berlusconi sulla legge elettorale appare come un duplice tentativo di conservazione della vecchia politica».

Corriere 21.1.14
Così ha svuotato la superiorità morale
Lo strappo della gratitudine
di Pierluigi Battista


Matteo Renzi esprime la propria «gratitudine» a Berlusconi per aver accettato l’invito nella sede pd. Avevano detto, quelli della minoranza, che se ne «vergognavano». Lui, baldanzosamente, contrappone sentimento a sentimento: gratitudine contro vergogna
Spezza il monopolio dei sentimenti. Non dice: per realismo politico sono costretto a parlare con il Nemico, ma guardate che ne provo disgusto come voi. No, infrange l’ultima remora psicologica a riconoscere il Nemico come avversario da combattere, ma da rispettare. E non manifesta ribrezzo nei confronti del popolo che in questi anni ha scelto Berlusconi: svuota il vizio della «superiorità morale» che ha fatto dire a sinistra di essere eticamente e antropologicamente migliori dell’«altra» Italia che ha votato Berlusconi. No, Renzi si dice «grato» per la cortesia di Berlusconi. L’argomento della condanna definitiva di Berlusconi era del resto un pretesto per riaffermare che con Berlusconi non bisogna avere nessun tipo di interlocuzione. Certo, hanno fatto insieme il governo delle larghe intese (e per tre mesi, dall’inizio d’agosto con la sentenza della Cassazione fino alla decadenza dal Senato, anche quando la condanna era diventata definitiva). Ma era chiaro che il disagio adesso è stato per una visita vissuta come una profanazione. Si «vergognavano», come ha detto Stefano Fassina. E forse avrebbero voluto qualche strumento decontaminante per disinfestare l’aria del Nazareno saturo di germi etici berlusconiani. E invece, Renzi è andato oltre, ribaltando un paradigma coriaceo in cui tanta sinistra si è crogiolata per vent’anni. Certo, avevano già invitato Berlusconi a un congresso: ma è nella liturgia dei congressi che siano presenti le delegazioni degli altri partiti. Certo, invitarono Gianfranco Fini nel ’95 a una festa dell’Unità: ma, per quanti malumori «antifascisti» circolassero, quella presenza non fu vissuta come uno sfregio. Fini era più accettabile di Berlusconi. È Berlusconi che il popolo della sinistra ha sempre percepito come il capo dei barbari usurpatori. E dunque, mitigato dal senso dell’umorismo che certo non gli fa difetto («e che con chi devo parlare, con Dudù?»), Renzi con quella inattesa «gratitudine» ha compiuto un altro strappo. Uno strappo psicologico, che forse è più importante di ogni formulazione teorica e di ogni astrazione politologica. L’idea che con l’avversario si entra in conflitto quando si parla di programmi di governo, ma nei confronti del quale prima o poi si deve fermare la giostra stucchevole dell’eterna delegittimazione. Un altro strappo. L’ennesimo.

Corriere 21.1.14
Legge elettorale, dal Pd ok all’Italicum di Renzi
«Entro maggio approvazione in Parlamento»
In direzione 111 a favore, 34 astenuti e nessun contrario.Le modifiche: doppio turno per le coalizioni se nessuno supera il 35%
Berlusconi: «Esprimo sincero e pieno apprezzamento per l’intervento del segretario del Partito Democratico Matteo Renzi davanti alla direzione del suo partito, che ha rappresentato in modo chiaro e corretto il contenuto dell’intesa»
Renzi: «Esprimo a Silvio Berlusconi gratitudine per aver accettato di venire nella nostra sede»
di Maria Antonietta Calabrò e Alessandro Sala

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l’Unità 21.1.14
Cuperlo: «Prendere o lasciare? Un partito non si guida così»
Poi l’attacco del segretario e il presidente lascia il Nazareno senza votare
Minoranza spaccata
di Maria Zegarelli


Inizia con l’Inno alla Gioia, lanciato da Gianni Cuperlo per ricordare il maestro Abbado e finisce con il presidente del Pd che si alza dal tavolo della presidenza, si siede tra i delegati dopo l’ultimo colpo che il segretario gli sferza nella replica sulle preferenze: «Gianni, avrei voluto sentirti parlare di preferenze quando vi siete candidati senza fare le primarie. Se me lo dice Fassina che ha preso 12 mila preferenze ok, ma non chi è entrato con il listino, non è accettabile aprire il tema della preferenza in modo strumentale adesso, non lo accetto». «Inaccettabile è questo attacco a Cuperlo», commenta immediatamente Stefano Fassina, quando il clima ormai è già bollente. «È uno schifo, come gli è venuto in mente di sollevare una questione come quella dei nominati? Doveva cominciare a parlare dei suoi nominati, a partire da Scalfarotto», attacca un esponente della sinistra. Rosa Maria Di Giorgi, renziana, arriva a chiedere le dimissioni del Presidente e la minoranza subito dopo la direzione si riunisce per discute proprio di questo. Ha senso mantenere un ruolo come quello di presidente se poi non è possibile esercitare la propria funzione di leader di un’area? Su questo Cuperlo era stato chiaro con Renzi quando questi gli aveva offerto la Presidenza. Promesse labili, che si frantumano davanti alla richiesta di dimissioni di Di Giorgi (da cui si dissocia Pina Picierno a nome della segreteria) e mandano all’aria quel richiamo all’unità del partito lanciato da Dario Franceschini prima e da Franco Marini poi (che di fatto appoggia la linea del segretario e quindi quella di Areadem).
Ma se finisce male tra maggioranza e minoranza del partito, tanto che lo stesso Enrico Letta guarda con grande preoccupazione a quanto sta accadendo, non finisce tanto bene neanche per la stessa minoranza, che si astiene compatta (34 voti)e resta, però, divisa tra chi vorrebbe il muro contro muro, come i bersaniani, e chi, come i Giovani turchi sono più dialoganti.
L’INTERVENTO CRITICO
D’altra parte Cuperlo con il suo intervento, l’unico della sua area come era stato deciso in una riunione precedente «per non acerbare i toni e non spaccare la direzione», non è certo stato morbido. Tutt’altro. Nel passaggio in cui contesta al segretario quel «prende-
re o lasciare», quel pacchetto tutto compreso su cui non si tratta e non si discute perché frutto delle profonde sintonie con gli altri interlocutori politici e diretta conseguenza di quel «mandato di oltre tre milioni di elettori alle primarie». «Si è già deciso tutto con le primarie? Discutere una singola vite del macchinario fa esplodere la macchina? chiede il presidente Pd E vuol dire impedire una riforma storica dell’assetto dello Stato e del futuro della Repubblica? Ok, bene. Ma se è così perché convocare una nuova direzione tra 15 giorni? Via così: spediti sull’autostrada, coi 3 milioni delle primarie e ci vediamo direttamente in una riunione, quando sarà, per convocare nuove primarie. Ma un partito funziona così? Temo di no». È questo l’affondo che lancia Cuperlo dopo aver apprezzato l’accelerazione del segretario sulle riforme, aver condiviso la riforma del titolo V e il superamento del Senato. Ma è sulla legge elettorale che la minoranza punta i piedi. «Qui non c’è una maggioranza che spinge per le riforme dice e una minoranza che vuole restare ferma» o boicottare. «Non convincente» l’Italicum con doppio turno senza preferenze, una proposta «che si discosta, in certa misura, dai criteri di fondo indicati dal segretario nelle tre ipotesi che lui stesso ha proposto», e che presenta «alcuni profili di dubbia costituzionalità». Se il doppio turno «è un passo avanti» rispetto a due giorni, per Cuperlo il 35% «è una soglia troppo bassa», che verrà superata inevitabilmente e che riprorrà, argomenta, quel premio che «la Corte ha raccomandato non deve essere irragionevole». Meglio alzare al 40% per il presidente Pd, così come sarebbe coerente con le battaglie del Pd restituire la possibilità agli elettori di scegliere i parlamentari attraverso le preferenze. Critico anche sulla soglia all’8%, «che spingerà tutto il centrodestra e forse una parte del centro a coalizzarsi attorno al perno rivitalizzato di Fi», e deciso a chiedere una consultazione tra gli iscritti e i gruppi parlamentari.
Ultimo sassolino: a Renzi che risponde a chi nel suo partito lo critica di aver incontrato Berlusconi, «voi lo avete portato a Palazzo Chigi» dice: «Non abbiamo stretto un patto politico con Berlusconi. Abbiamo risposto a uno stato di necessità, eravamo tutti d’accordo, al punto che l’attuale segretario si era detto anche disponibile a presiederlo quel governo». Difficile parlare di Pd unito. Davvero.

Corriere 21.1.14
Cuperlo esce di scena per protesta
La sinistra va alla battaglia in Aula
Il presidente lascia il tavolo mentre parla il segretario: è rottura

Minoranza tentata da un asse in Parlamento con chi dissente
di Monica Guerzoni

qui


Repubblica 21.1.14
La minoranza sale sulle barricate Il presidente: “Pronto a dimettermi”
Lite con il segretario: “Mi ha offeso”. Ora la resa dei conti


ROMA — «Offeso sì...». E anche arrabbiato, furente. Gianni Cuperlo si è preso una notte per riflettere. Ma la lettera di dimissioni da presidente del partito, se non ci sarà un chiarimento con Renzi, è quasi scontata. Non è stato solo uno scatto di nervi, bensì una tensione che covava. Per questo il compagno Gianni - appena il segretario gli ha lanciato contro l’accusa di avere parlato a sproposito sulle preferenze, dal momento che Cuperlo manco ha fatto le parlamentarie ed è stato messo nel listino dei candidati alle politiche - si è alzato di scatto dal tavolo della presidenza e se n’è andato.
Si è accomodato in platea, per la verità. Ma è stato subito caos. Stefano Fassina si è dimesso da vice ministro dell’economia per molto meno quindici giorni fa. Renzi in una conferenza stampa aveva ironizzato: “Fassina chi?”. E la sera stessa Fassina aveva lasciato il governo. In direzione è proprio l’ex vice ministro a mormorare: «Gianni si deve dimettere...», anche se più tardi smentisce, lascia la direzione, senza votare, e commenta: «Sono inaccettabili le conclusioni di Renzi su Cuperlo». La minoranza alla fine si astiene. Sono quindi 34 gli astenuti sul sistema elettorale “modello Italicus” che Renzi ha proposto dopo un patto con Berlusconi. Si astiene anche D’Alema. Però è diviso e in subbuglio tutto il “correntino” del Pd. La posizione oltranzista è quella dei bersaniani, mentre i “giovani turchi” sono per contestazioni di merito e per l’astensione e non per votare contro. Davide Zoggia fa da mediatore. La riunione dei cuperliani si protrae a lungo nel pomeriggio a Montecitorio prima della direzione.
«Avrei capito Fassina, che ha preso 12mila voti...», è la stoccata di Renzi a Cuperlo. «Irridere non è mai una bella cosa», commenta Zoggia. In molti cercano di rimettere insieme i cocci. Però la renziana Rosa Maria Di Giorgi ancora prima che la vicenda esplodesse aveva dettato una nota alle agenzie di stampa invitando Cuperlo a lasciare la presidenza del Pd: «Il livore e l'astio che hanno caratterizzato il suo intervento contro il segretario Renzi rendono evidente che non è in grado di garantire la terzietà richiesta da un ruolo di garanzia, come quello che ricopre».
In direzione infatti è un j’accuse quello mosso da Cuperlo nel merito e per il metodo adottato dal segretario: «La proposta di legge elettoralenon è convincente perché non garantisce né una rappresentanza adeguata. Né il diritto dei cittadini a scegliere i propri rappresentanti. Né una ragionevole governabilità. Temo che sussistano alcuni profili di dubbia costituzionalità che non possiamo ignorare alla luce della sentenza della Consulta». Seguono altre contestazioni. Sull’incontro con Berlusconi: «La questione non è di galateo politico o istituzionale - avverte Cuperlo - E nemmeno del luogo più o meno simbolico dove gli incontri si svolgono. Ma una cosa è discutere con un leader di una forza politica, altro è stringere un patto politico su questioni di rilevanza costituzionale con un esponente politico che è fuori gioco». Sottolinea anche «lo smarrimento» del popolo democratico di fronte «alla piena rilegittimazione politica» di Berlusconi. La direzione è in piena fibrillazione. Francesco Verducci, portavoce dei “giovani turchi”, vorrebbe intervenire per svelenire il clima e annunciare l’astensione, ma viene stoppato: «Un segretario di partito non può affrontare con battute i temi politici», denuncia. Non ci sono dichiarazioni di voto. In serata continuano le riunioni. Il “correntino” si aggiorna a oggi. Cuperlo attende le scuse di Renzi.

il Fatto 21.1.14
Renzi asfalta i democratici: “Prendere o lasciare”. Cuperlo si alza e se ne va
La Direzione approva: 111 Sì e 34 astenuti
di Wanda Marra

“O SI FA COSÌ O SALTA TUTTO”
IL SEGRETARIO DIFENDE IN DIREZIONE L’ACCORDO CON SILVIO: “DOVEVO PARLARE CON DUDÙ?”. POI SVENTAGLIA LE SUE RIFORME E AVVERTE: “NIENTE MODIFICHE”

Alla fine Gianni Cuperlo si alza e se ne va. Nel giorno in cui Matteo Renzi chiede alla direzione il voto su un pacchetto di riforme costituzionali da prendere o lasciare, la minoranza democratica tradisce insofferenza. Berlusconi plaude (“sincero” e “pieno” apprezzamento nei confronti di Renzi), Ncd con Quagliariello esulta (ma con Alfano mette qualche paletto) e il Pd prepara ostacoli prossimi-venturi. “Gianni te lo dico con amicizia, questo tuo riferimento alle primarie e alle preferenze, lo avrei voluto sentire la volta scorsa, quando tu e altri siete stati candidati nel listino. Questa critica è accettabile da chi, come Fassina ha preso 12 mila preferenze, non da chi non ha fatto le primarie”. L’attacco frontale a Gianni Cuperlo che nel suo intervento in direzione aveva criticato il sistema elettorale proposto dal segretario (prontamente battezzato “Italicum”) chiedendo le preferenze, arriva direttamente da Renzi nella replica. L’interessato non ci sta. Raccoglie le sue cose, si alza dal banco della presidenza, e si va a sedere in platea
CASUALMENTE – peraltro – in mezzo a un gruppo di fedelissimi renziani. “Gianni se vuole rispondere per correttezza può farlo”, dice il sindaco, che pare non essersi accorto di nulla. Poi alza la testa, si guarda intorno: “No, Gianni se n’è andato”. Al presidente si avvicina Alfredo D’Attorre, che era arrivato in direzione annunciando il voto contrario della minoranza bersaniana in Parlamento alle liste bloccate. Renzi dal palco li ha appena sfidati: “Spero che Cuperlo voti contro la mia relazione, per coerenza con quello che ha detto. Ma dopo il partito viaggia compatto”. Invito non accolto: la relazione passa con 111 voti favorevoli e 34 astenuti. Nessun contrario. Le minacce sono palesi, ma Renzi va diritto per la sua strada: neanche aspetta l’esito del voto e se ne va anche lui. Fedele alla linea: si fa come dico io. Intanto la senatrice renziana doc, De Giorgi, chiede le dimissioni di Cuperlo. Lui per ora non le dà.
Prima di arrivare in direzione Renzi incassa un via libera di massima da Alfano. Camicia bianca, è il solito ciclone in piena, e spiega nel merito il pacchetto di riforme costituzionali che “o si fanno tutte insieme o non si fanno”. “Primo, superamento del Senato. I paletti sono: il superamento del bicameralismo perfetto, l’eliminazione di ogni indennità. Entro il 15 febbraio la segreteria chiude il pacchetto di proposte”. Poi, riforma del Titolo V, riforma Delrio che consente di non votare più sulle Province e adeguamento delle indennità dei consiglieri regionali affinché guadagnino quanto i sindaci dei comuni capoluogo e che sia superato il finanziamento della loro attività politica. “Terzo punto, la modifica del sistema elettorale”.
La mediazione finale comprende collegi plurinominali (e dunque liste bloccate), assegnazione di un premio di maggioranza massimo del 18%, che e che sia assegnabile dal 35%. Se nessuno ci arriva, “ballottaggio secco, non tra due candidati premier ma tra due coalizioni senza possibilità di apparentamento”. Soglie del 5% per chi si coalizza, 8 per chi non si coalizza, 12 per le coalizioni. Renzi replica così a chi chiede le preferenze: “L’accordo politico raggiunto non le prevede, ma se toccherà a me, mi impegno a indire le primarie e al vincolo assoluto della rappresentanza di genere”. Mentre parla non risparmia battute. Ringrazia Berlusconi per essere andato al Nazareno, “ho detto profonda sintonia, avreste preferito convergenze parallele? ”. E a chi lo critica per aver ricevuto il Caimano: “E con chi dovevo parlare, con Dudù? ”. Ancora una volta elogia i Cinque stelle, che sarebbero disponibili a collaborare e attacca Grillo: “Lui dice showman a me? ”. Avverte con chiarezza, che prima si fa la legge e poi la riforma del Senato. E dunque, chi manda a monte la legge manda a monte tutto. Nessun margine di mediazione. Intervento decisamente contrari, solo quello di Cuperlo, che però ci va giù durissimo, sia sulla soglia di sbarramento (l’8% è troppo alto), sia sul limite per accedere al premio al primo turno il 35%. E soprattutto l’affondo: “Si deve discutere, parlare. Non è così che si gestisce un partito”. Il segretario incassa il sì non solo di Fassino e di Veltroni, ma anche di Marini. D’Alema è in sala, ma non parla. Letta non si presenta neanche questa volta. Mentre Matteo parla dai suoi arrivano segnali di ostilità: “Mi pare che di accordi ce ne siano pochini”, dice un fedelissimo del premier. Che il rapporto tra i due è pessimo ormai è conclamato.
IL PRESIDENTE del Consiglio non si fida: Renzi ha parlato di una “norma di salvaguardia” per far sì che la legge elettorale possa applicarsi anche al Senato. A Palazzo Chigi lo vedono come una conferma che, approvato il nuovo sistema, voglia andare al voto: smentirebbe le elezioni a voce, ma lavorerebbe nei fatti per arrivarci. I bersaniani (riuniti già ieri sera) annunciano battaglia. Se Ncd tiene, le insidie verranno dagli scontenti di FI ma soprattutto dal Pd. Nessun passaggio parlamentare sarà scontato. Renzi non lascia possibilità di replica: o si fa come si dice lui, o nulla. È un’operazione “win win” (vincente comunque): o è quello che cambia il Paese e fa le riforme costituzionali o, se si vota contro il suo pacchetto, Letta cade e si va a elezioni. Oggi si riunisce il gruppo Dem a Montecitorio. Tensione garantita.

il Fatto 21.1.14
I rischi (mortali) che il sindaco non cita
La sua legge obbliga Lega e Ncd a coalizzarsi col Cavaliere
Una nuova vittoria di B. non è impossibile
di Marco Palombi


Renzi ha vinto. Di più: ha stravinto. Col più classico dei Blitzkrieg s’accorda con Berlusconi, silenzia la minoranza interna, incassa il sì riluttante delle varie frasche politiche centriste. Nelle magnifiche sorti e, va da sé, progressive del Paese c’è una nuova legge elettorale maggioritaria, l’abolizione del Senato, la sottrazione alle Regioni di poteri e stipendifici. Niente è precluso al giovane segretario benedetto dalle primarie democratiche. Ma siamo sicuri sia così? Più di qualcuno, in realtà, sottolinea che i rischi della guerra lampo iniziata dal sindaco di Firenze sono enormi e, potenzialmente, mortali. Intanto la questione della data delle elezioni. Renzi sul punto è piuttosto contradditorio: in pubblico e in privato il nostro ha ribadito che andare al voto a maggio non è la sua prima opzione, eppure con alcuni parlamentari a lui vicini ha sostenuto il contrario. Fatto secondario, si dirà, se la strategia del sindaco è coerente. Eppure restano alcuni punti oscuri in questa manovra e due, in particolare, rischiano di trascinare a fondo il frettoloso stratega democratico.
IL PRIMO PROBLEMA che si porrà al sindaco è quello della tenuta parlamentare dell’accordo in relazione al modello elettorale scelto. Tradotto: il doppio turno rende necessaria l’abolizione del Senato. Senza la riforma costituzionale, la legge elettorale non è applicabile: significherebbe andare ad una competizione
- il secondo turno - che ha due platee elettorali diverse per Camera e Senato e dunque presuppone l’esistenza di maggioranze diverse nei due rami del Parlamento. “A me sembra - spiega una fonte del Pd - che chiedere l’abolizione del bicameralismo perfetto attraverso l’eliminazione del Senato e un taglio deciso anche a poteri e poltrone delle Regioni significhi chiedere ai parlamentari di bocciare le riforme”. Che in Senato, in particolare, i trecento rottamandi stiano preparando le loro Termopili è facilmente accertabile da chiunque faccia una telefonata agli interessati: sinistra Pd, centristi vari, berluscones titubanti. Gli andasse bene, il risultato sarebbe uno solo: andare al voto a maggio con la legge disegnata dalla Consulta (proporzionale puro e preferenze). “E a noi andrebbe benissimo - dicono da Forza Italia - perché dopo saremmo comunque determinanti”.
L’ALTRA INCOGNITA è di ordine più generale e riguarda il modello elettorale scelto. Un indizio. Come ne parla la nostra fonte berlusconiana? Così: “A noi ci ha fatto un favore della Madonna”. Perché? “In primo luogo perché rendendo praticamente obbligatorio coalizzarsi consente a Forza Italia di riportare nella sua orbita tutti i molti cespugli del centrodestra a partire dalla Lega”. Senza il Carroccio, vale la pena ricordarlo, Berlusconi non ha mai vinto le elezioni.
Anche Angelino Alfano e i democristiani usciti da Scelta Civica sono probabilmente destinati al rientro a corte: anche facendo una lista unica, l’8 per cento è un obiettivo rischioso per loro, mentre il 5 per chi si coalizza pare più alla portata. Nel centrosinistra, al contrario, tanto Sel che l’episodica formazione di Bruno Tabacci (Centro democratico) che i cespugli extraparlamentari non hanno alcuna speranza di superare lo sbarramento: Renzi - come pare intenzionato a fare almeno con Nichi Vendola - potrebbe ospitare qualche “oriundo” nelle liste del Pd, ma questo significherebbe perdere per strada i voti di quell’elettorato di sinistra che non metterebbe mai il suo segno sul simbolo dei democratici. Insomma, la fiducia di Renzi nella capacità di Renzi di prendere voti è enorme: “La verità? Nel 2015 questo è capace di riconsegnarci la vittoria”, commentano ancora increduli i berluscones.

il Fatto 21.1.14
Tra preferenze e nominati la casta salva la poltrona
La battaglia che si annuncia è tra chi rimpiange la Prima Repubblica e chi vorrebbe tornare a un “porcellum” senza badare alla Consulta
di Antonello Caporale


Restaurare il sistema delle preferenze avrebbe fatto la felicità di gente come Fiorito, vero. Ma lasciare a un padrone solo la gestione della vita di ciascun eletto e finanche delle sue presenze in tv conferma che non ci sarà scelta malgrado la richiesta della Consulta: in Parlamento si entra per nomina. E da deputato si trasformerà in pigiabottoni. Ciò che ordina il capo si vota. Ciò che lo turba si respinge. O sei cooptato oppure pedalare.
PER ARRIVARE a questo risultato Matteo Renzi ha dovuto stringere un patto d’acciaio con Silvio Berlusconi (e forse anche con Dudù). Riesumarlo, restituirgli il cavalierato, l’onore perduto, il vestito da statista e l’opportunità di divenire in zona Cesarini, quando tutte le stelle sotto il suo cielo si erano offuscate, il nuovo padre della Patria. Immaginiamo lo sforzo che ha dovuto fare B. nell’accettare la dura proposta di far vergare da Denis Verdini (in linea retta quarto padre della Patria) la lista dei candidabili del centrodestra. Tu entri e tu no. Tu vai in Liguria e tu in Piemonte. “Intanto però noi cambiamo l’Italia”, ha detto Renzi alla riunione della direzione del Partito democratico. Chi meglio di lui conosce il suo partito? Nessuno. Perciò ha zittito il dissenso, dissoltosi in un pugno di voti di astensione, quando ha offerto la chiave della pacificazione: “Noi faremo le primarie per la selezione dei candidati. Le ho trovate già, le ha inventate Bersani, non è certo merito mio, e vi garantisco fin quando ci sarò io qua che confermerò questo sistema”. Per magia tutte le rimostranze sulla restrizione della principale libertà elettorale, indicare con un voto il candidato che ci dà fiducia o respingerlo se quella fiducia viene meno, si sono appannate, affievolite e fatalmente ripulite. Renzi ha offerto ai maggiorenti del Pd, non all’Italia, un papocchio a uso interno, una corrida selezionatrice per criterio correntizio nella quale sviluppare la contesa. La selezione dei candidati al Parlamento attraverso le cosiddette “parlamentarie”. Si sono effettivamente svolte nel gennaio dello scorso anno.
Doveva essere un libero esercizio di democrazia, si è rivelato, nella maggioranza dei casi, una nomination con esito pregiudicato. Si sapeva chi vinceva e nella maggioranza dei casi chi perdeva. Il capocordata investiva i suoi voti (filiazione verticale della dotazione interna del segretario) sul volto di questo o di quello, meglio se giovane. E il giovanotto prescelto dall’alto, magicamente, si è trovata spalancata la porta di Montecitorio. Belle queste primarie! E infatti in sala è calata improvvisa la timidezza degli annunciati oppositori, mentre ad avanzare in grande stile la prossima battaglia sulla restituzione delle preferenze è rimasto solo Angelino Alfano e il suo Ncd, partito di macinatori di tessere dal curriculum specchiatamente democristiano.
E SE È VERO, perchè è vero, che la riforma elettorale risulta un elemento significativo di una più generale riforma della Costituzione (riduzione del Senato ad assembnlea consultiva, taglio dei costi della politica attraverso l’eliminazione delle indennità dei nuovi senatori) è certo che Renzi rinuncia nei fatti a ogni elemento di democratizzazione del mercato politico. Le primarie sono apparse come una concessione ai capicorrente del Pd e non un impegno, un criterio di selezione a cui tutti i partiti, di destra come di sinistra, in alto e in basso, avrebbero dovuto ubbidire per legge. Ma era questo l’obiettivo di Rebnzi? Pare di no, e permette perfino al leghista Calderoli, il patron del Porcellum, di gigioneggiare: “La montagna ha partorito un Porcellinum”.
Un po’ è così, ed è fuori dal conto un’altra domanda a cui Renzi non ha risposto. Non l’aveva in mente, vero, ma nessuno neanche l’ha interrogato. Si parla di legge elettorale: ma chi potrà candidarsi? Il conflitto d’interessi, urgenza democratica sulla quale il segretario del Pd ha da subito convenuto, è nei fatti restituita alla selezione che ne farà Silvio Berlusconi, l’altro grande attuatore della riforma. Si presume che B. rifletterà mentre sarà ai servizi sociali (il prossimo 10 aprile i giudici dell’esecuzione si ritroveranno per decidere) su chi potrà candidarsi. Possibile che scelga la figlia Marina, e dunque?
E niente. Alla spicciolata, cinque minuti per ciascuno, i maggiorenti di largo del Nazareno hanno tributato a Renzi le loro perplessità che nel corso della seduta si sono affievolite fino quasi a divenire un romantico coro d’amore.
Tutti insieme e (quasi) appassionatamente verso l’Italicum, un sistema che salva i nuovi potenti e i vecchi perdenti.

l’Unità 21.1.14
Lega
Calderoli: «Una legge quasi uguale alla mia Un “Porcellino”»

Secondo Calderoli «la montagna ha partorito il Porcellino», un sistema elettorale «Calderoli bis», con due differenze: «Io avevo proposto che il premio di maggioranza scattasse ad una soglia più alta, il 40 per cento e prefigurato uno sbarramento al 4%». Troppo alto l’8%, «troppo turco», secondo il senatore leghista, che boccia l'ipotesi di doppio turno nel caso in cui non vi sia alcuna coalizione che raggiunga il 35% dei voti. «È incostituzionale e amputa la rappresentatività democratica».
E il 4 maggio il nuovo segretario della Lega, Matteo Salvini, guiderà per la prima volta il raduno a Pontida.

La Stampa 21.1.14
Berlusconi molto soddisfatto
Ma teme la rabbia dei cespugli
Esclusi dalla soglia, potrebbero fargli mancare i voti in caso di ballottaggio
di Ugo Magri

qui

Repubblica 21.1.14
Berlusconi stringe l’asse con Renzi “Bravo a resistere sulle preferenze”


ROMA — Il via libera da Arcore arriva in mattinata. Attraverso mail, ma c’è di mezzo anche un giro vorticoso di telefonate. Alla fine Silvio Berlusconi cede, complice la mediazione del solito Denis Verdini. Disco verde all’Italicum di Matteo Renzi, disco verde soprattutto al tanto vituperato (a destra) doppio turno. È una partita di giro, alla fine. I due ne avevano iniziato a parlare nel faccia a faccia di sabato, il Cavaliere aveva subito alzato il prezzo con un iniziale rifiuto. Ci sono volute 36 ore di pressing dal segretario Pd. «Noi non cediamo sul listino» gli ha fatto presente Verdini per conto del capo. «Non vogliamo che poi con qualche scherzetto compaiano anche le preferenze». Punto due: «La quota per accedere al premio deve essere bassa, non deve superare il 35 per cento».
Il leader di Forza Italia nontransige sul potere di stilare le liste della prossima competizione. Altro che diritto di scelta dell’elettore. E dal numero uno del Pd non vengono opposto barricate, anzi. Vada per il listino. Così in tarda mattinata la seconda parte del patto è sancita, siglata. Dai banchi forzisti è tutto un coro entusiasta di sostegno al “coraggio” di Renzi. «Una sinistra finalmente dialogante e senza pregiudizi sotto la guida di Matteo è un bene per il paese» sostiene la vice capogruppo al Senato Anna Maria Bernini, ma è solo una tra le tante. Poi, è lo stesso Berlusconi a sentire il segretario Pd in Direzione e a decidersi a scrivere per sottoscrivere il successo dell’accordo ed elogiare l’avversario. «Esprimo sincero e pieno apprezzamento per l’intervento del segretario del Pd Renzi davanti alla direzione del suo partito che ha rappresentato in modo chiaro e corretto il contenuto dell’intesa». E continua: «Vogliamo realizzare, in un clima di chiarezza e di rispetto reciproco, un limpido sistema bipo-lare, che garantisca una maggioranza solida ai vincitori delle elezioni, che riduca impropri poteri di veto e di interdizione». E a chi tra i suoi gli faceva notare come il doppio turno non sarà affatto una passeggiata, Berlusconi ha replicato sicuro: «Se torno al centro della politica, come sta avvenendo, torno a essere catalizzatore di consensi al centro e non dovremo preoccuparci del secondoturno». È altro a preoccuparlo, nella giornata trascorsa ad Arcore, da dove sembra non si muoverà per tutta la settimana («Ho bisogno di riposare, di rimettermi in forma»). A gettarlo di nuovo nello sconforto, la notizia già nell’aria dell’udienza per la decisione sull’affido ai servizi sociali: sarà a Milano il 10 aprile. Un timing «sospetto», lo ha definito. «Non mi vogliono far fare la campagna per le Europee, è l’unico strumento che hanno per farmi fuori e vedrete che proveranno a gettarmi ai domiciliari». Il Cavaliere per l’occasione potrebbe cambiare residenza, pur restando a Roma. Troppo grande e dispersivo (e dispendioso) Palazzo Grazioli. Di certo c’è che nel fine settimana avrebbe visionato un appartamento di pregio, a dir poco,in via in Arcione, molto vicino alla Fontana di Trevi e a due passi dal Quirinale. Anche se nella cerchia ristretta per ora non confermano.
Il leader forzista si tiene lontano da Roma, ma i guai del partito lo inseguono fino a Villa San Martino. A cominciare dalla rivolta dei campani vicini a Cosentino. I consiglieri regionali che dopo la nomina del nuovo coordinatore locale hanno deciso di dar vita a “Forza Campania”. Tutta gente vicina a all’ex ras finito nei guaigiudiziari, ma anche a Verdini. Berlusconi ha preso di petto la situazione e ha scritto una nota, in cui mette in guardia: «Non è accettabile, né politicamente né legalmente che si utilizzi, come sta avvenendo in Campania, un logo che si richiama a Forza Italia per darne vita a versioni più o meno fedeli al fine di confondere l’elettorato. Chi dovesse rendersi responsabile di simili manovre va de facto considerato fuori dal nostro movimento».

Repubblica 21.1.14
Una svolta di sistema


SCOMODARE la Storia è sicuramente una montatura mediatica, oltre che una forzatura politica. Ma bisogna riconoscerlo, senza alcun imbarazzo: il pacchetto di riforme «chiavi in mano» che Renzi ha illustrato al Pd, negoziato con Berlusconi e fatto ingoiare ad Alfano, può rappresentare oggettivamente una svolta «di sistema». Non tutto funziona e non tutto è condivisibile, dentro la formula magica della «profonda sintonia» che si è miracolosamente creata intorno a quel pacchetto. Ma è un fatto che quelle tre riforme, collegate e incardinate l’una all’altra, rappresentano i tre piloni di un ponte non più sospeso inutilmente nel vuoto, ma gettato finalmente verso la Terza Repubblica.
Il superamento del bicameralismo perfetto con la «riconversione» del Senato, la riscrittura del Titolo V sulla disciplina delle autonomie locali, una nuova legge elettorale dopo gli orrori del Porcellum e gli errori del proporzionale puro. Sono innovazioni che il Paese capisce ed aspetta da troppo tempo, e che per troppo tempo il Palazzo non ha saputo né voluto progettare. Il taglio del nastro è ancora lontano. Ma aver aperto formalmente il «cantiere», e aver convinto tutti a venirci a lavorare (ad eccezione degli irriducibili a Cinque Stelle) è già di per sé un enorme passo avanti, per una democrazia bloccata per cinquant’anni dal Fattore K, e per 20anni dal Fattore B.
Renzi si è giocato e si sta giocando l’osso del collo. Ne è consapevole. Com’è consapevole che, dopo aver vinto le primarie del Pd nella stagione delle Intese prima Larghe poi Strette, si porta sulle spalle non solo una «missione», ma anche una «maledizione»: è condannato al cambiamento. Molto più di Letta, che per ora ha comunque la chiave di Palazzo Chigi, l’inquilino di Palazzo della Signoria sa che non può perdere questa partita sulle riforme istituzionali e costituzionali. Per questo ha deciso di rischiare tutto. Mettendo in riga la «vecchia» sinistra del suo partito, e con le spalle al muro il Nuovo Centrodestra. E infine accettando il padre di tutti i rischi: l’accordo con il Cavaliere. Cioè l’intelligenza con l’Arci-nemico, il patto con il diavolo che è già costato la «carriera» a D’Alema ai tempi della Bicamerale e a Veltroni alla vigilia del voto del 2008.
Nel metodo, si può discutere finché si vuole sull’opportunità di questo azzardo compiuto dal segretario. Ci si può chiedere perché per un quasi Ventennio lo stesso tentativo esperito dai suoi predecessori fu bollato con l’enorme scelleratezza dell’«inciucio», mentre oggi viene esaltata la grande bellezza del «patto». E ci si può anche giustamente dolere per quella formula spiccia e quasi ultimativa che Renzi ha sbattuto in faccia alla direzione, rimproverando ingenerosamente la minoranza per aver «portato Berlusconi a Palazzo Chigi», descrivendo un accordo «prendere o lasciare» e avvertendo che se dal pacchetto riformatore si toglie anche solo una «tessera» viene giù l’intero mosaico.
Nel merito, si può obiettare finché si vuole sulla natura ibrida della riforma elettorale, opportunamente ribattezzata «Italicum», perché appunto all’italiana mette tutti gli ingredienti nello stesso piatto, conservando un pizzico di spagnolo (con le circoscrizioni ridotte), insaporendolo di tedesco (con il proporzionale e lo sbarramento) e condendolo di francese (il doppio turno «eventuale»). Si può dubitare sulla legittimità costituzionale di un premio di maggioranza ancora molto consistente, e forse non tale da soddisfare le esigenze poste dalla sentenza della Consulta.
Soprattutto, ci si può e ci si deve rammaricare perché ancora una volta (per un vetoa quanto pare insormontabile di Forza Italia) si salvano le liste bloccate, e si continua a privare il cittadino elettore del sacrosanto diritto di scegliere i propri eletti, lasciando di nuovo che a farlo al suo posto siano le segreterie di partito. Questo è il vero «buco nero» della riforma. Il segretario non può non saperlo, e infatti ha già indicato le contromisure. Tuttavia il numero limitato dei candidati in lista e le primarie per scegliere i singoli candidati leniscono solo in parte le ferite lasciate dal Porcellum sulla carne viva della Repubblica.
La svolta di sistema, com’è dunque evidente, si porta dietro i suoi aspetti critici. Ma al fondo, stavolta quello che conta è il risultato finale. E al di là dell’enfasi retorica usata da Renzi, il risultato finale è che forse in un mese è riuscita l’operazione che la politica insegue vanamente dal 1993, cioè dai referendum di Mario Segni. Di questo, al Giamburrasca fiorentino va dato obiettivamente atto. Sarà mosso anche dai suoi interessi personali, e cioè dalla necessità di non lasciarsi logorare dai piccoli cabotaggi della maggioranza e dai grandi sabotaggi delle opposizione. Ma mai come in questa occasione l’interesse di un singolo coincide con gli interessi del Paese. Allora «l’Italia cambia verso», secondo lo slogan renziano? È ancora presto per dirlo con certezza. Le insidie restano, proprio perché il traguardo riformatore sembra così vicino.
La prima insidia riguarda l’esito stesso dell’accordo sulle riforme, ora che parte il confronto in Parlamento. Renzi adesso ha sulla carta i numeri per portarle a casa. Ma il suo accordo con Berlusconi deve reggere, e questa rimane tuttora un’incognita micidiale. È vero che grazie a questa operazione, sia pure da pregiudicato in attesa dell’affidamento ai servizi sociali, il Cavaliere è tornato sulla scena nei panni del «padre costituente», e se non ha ottenuto la piena agibilità politica si è quasi rifatto un’insperata verginità mediatica. Ma è altrettanto vero che l’uomo di Arcore resta un maestro nelle clamorose «rotture» dell’ultimo miglio.
La seconda insidia riguarda il governo. Letta, suo malgrado, esce con le ossa rotte da questa vicenda. E l’hashtag «enricostaisereno» che Renzi gli ha propinato suona poco più che una presa in giro, per un premier che per conoscere i dettagli della trattativa ha dovuto chiamare suo zio Gianni, visto che il segretario del suo partito non gli ha neanche risposto al telefono. Ora Letta, se vuole rilanciare e non farsi travolgere, deve mettere davvero sul piatto qualcosa di buono e di utile per il Paese. E non può più tirarsi indietro, per quello che vale, neanche di fronte a un rimpasto. Se non fa questo, si condanna all’irrilevanza, e forse anche all’inesistenza dal momento che, approvata la nuova legge elettorale, nulla può più ostacolare il ritorno alle urne.
La terza insidia riguarda il partito. La sinistra pd si è astenuta, e il presidente del partito Cuperlo se n’è andato, dopo aver fatto un discorso in forte ma rispettoso dissenso verso la linea del segretario. Uno strappo non conviene a nessuno, proprio ora che il Pd prova a ritrovare la sua «vocazione maggioritaria». Di questo deve farsi carico la minoranza bersaniandalemiana, che deve rinunciare a tentazioni frazioniste o a pulsioni revanchiste nel segreto del voto parlamentare sulle riforme. Ma, allo stesso modo, deve farsene carico la maggioranza renziana, che deve rinunciare al gusto delle sottili umiliazioni, non solo culturali ma anche solo lessicali, nei confronti della sinistra interna. Renzi sta forgiando la sua leadership nel fuoco della battaglia. Sarebbe assurdo se, per coronare il suo successo, dovesse pagare il prezzo di una «pacificazione» con i suoi avversari, e di una scissione con i suoi «compagni».

Il Sole 21.1.14
Renzi vince, il Pd decide In Parlamento si vedrà
di Stefano Folli


Matteo Renzi vince sul piano politico, non convince del tutto nel merito della proposta. Però il Pd alla fine lo segue, come è ovvio, e l'opposizione interna si scopre più debole e impacciata di quanto avesse previsto. Ne deriva che il segretario ieri ha fatto un altro passo avanti, giocando con abilità la carta del doppio turno di coalizione e delle "primarie" per scegliere i candidati.
In ogni caso non c'è dubbio che la vittoria renziana è soprattutto di natura politica, anche per le sue modalità. Il segretario ha accelerato sabato nell'incontro con Berlusconi, dando forma a un inedito binomio spiegato agli elettori come l'avvio della Terza Repubblica. Poi ha dedicato le ore del week-end a recuperare un minimo di coesione interna alla maggioranza.
Il tutto all'insegna della "politique d'abord", con quel fare sbrigativo e spesso ruvido che sta diventando la sua cifra. Per cui Alfano un giorno viene maltrattato in pubblico e il giorno dopo è rassicurato in privato. Nella sostanza i centristi non ottengono il ritorno alle preferenze, ma possono essere soddisfatti se sarà introdotto il secondo turno di coalizione. Specie se la soglia per accedervi sarà alzata dall'ipotesi attuale (un 35 per cento davvero molto basso) a un più realistico 38-40 per cento.
Quanto alla minoranza interna, il presidente del partito Cuperlo viene invitato senza mezzi termini a votare contro la relazione insieme ai suoi. Come dire che Renzi non si preoccupa affatto se qualcuno, nei giornali o in tv, comincia ad adombrare la scissione del Pd. Sotto sotto magari se la augura. Ma naturalmente è la minoranza a volersi tutelare e infatti si astiene, mentre i renziani cominciano a pretendere le dimissioni di Cuperlo da una carica che gli era stata offerta con insistenza dal suo competitore appena poche settimane fa.
Ne deriva che sempre più le brusche accelerazioni del segretario impongono ai democratici una secca alternativa: adeguarsi o andarsene. Con un leader che punta, è palese, a conquistare un elettorato trasversale, parlando a tutti gli italiani al di là e al di sopra delle barriere partitiche. Sotto questo profilo la giornata di ieri può essere davvero di svolta rispetto ai vecchi rituali. Si tratta però di verificare se il "veni, vidi, vici" di Renzi è una formula che può reggere in Parlamento, dal momento che l'architettura della nuova Repubblica non è ancora consolidata a sufficienza.
Lo capiremo presto. Il confronto alle Camere sulla legge elettorale si annuncia duro, specie se avverrà all'ombra del voto segreto. Si capisce allora perché Renzi e i suoi alleati di Forza Italia sottolineano il punto chiave: il «pacchetto» delle riforme, compresi gli interventi di natura costituzionale sul titolo V, il Senato eccetera, va tenuto insieme così com'è, in omaggio alla sua logica intrinseca. Non si può sottoporlo a un assedio analogo a quello subìto ogni anno, per fare un esempio, dalla legge finanziaria. Ed è chiaro che il destino di Renzi si lega al passaggio parlamentare non solo della riforma elettorale, ma anche dei ritocchi costituzionali in prima lettura.
La novità, questa sì davvero storica, è che il centrosinistra ha oggi un leader che ama rischiare. Persino con una punta d'incoscienza. Da quanto non avveniva? Negli ultimi vent'anni il re del rischio, con lo stile quasi del giocatore di poker, è stato Berlusconi. E ora in prospettiva Renzi lo soppianta, trasformando il centrosinistra.
Aspettiamo adesso di vedere come risponde Enrico Letta. Una certa "vulgata" dà per morto il suo governo dopo il patto Pd-Forza Italia. Eppure è chiaro che la legislatura finirà, salvo sorprese, non prima del 2015. E dunque il premier ha ancora delle carte da giocare, se appena decide di calarle sul tavolo. Anche prendendo dei rischi, come Renzi insegna.

Il Sole 21.1.14
Ecco perché può funzionare
di Roberto D'Alimonte


La riforma elettorale non c'è ancora. Ma l'accordo su quale debba essere c'è. La fine di questa storia ci sarà quando il Parlamento avrà varato il testo e il presidente della Repubblica lo avrà promulgato. Sono passaggi delicati e non scontati. Ma quello che comincia oggi in commissione Affari costituzionali della Camera è un processo che ha buone chance di arrivare a una conclusione positiva.
Ha buone chance perché Pd e Fi, ma è il caso di dire Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, condividono lo stesso obiettivo. Entrambi si sono schierati fermamente a favore del bipolarismo e della democrazia della alternanza. Chi temeva che un Berlusconi indebolito volesse puntare a una riforma non maggioritaria sfruttando la decisione della Consulta che ha reintrodotto un sistema proporzionale si deve ricredere.
Con il nuovo sistema elettorale saranno i cittadini a decidere chi debba governare. Le elezioni saranno, come diceva Popper, «il giorno del giudizio» su chi ha governato e su chi si candida a governare. Le coalizioni dovranno formarsi prima del voto, e non dopo. E spetterà agli elettori valutare la qualità e la credibilità delle alleanze proposte dai partiti. In questa prospettiva il nuovo sistema elettorale si colloca nell'alveo dei sistemi che hanno caratterizzato la Seconda Repubblica.
Fa parte di quel "modello italiano di governo" inaugurato dalla legge sui sindaci nel 1993. La novità sta nel fatto che non è stato imposto da un referendum come la legge Mattarella e non è il frutto di una decisione di maggioranza come la legge Calderoli nel 2005, ma è il risultato dell'iniziativa condivisa di larga parte della classe politica. Come tutti i sistemi elettorali della Seconda Repubblica è un sistema misto, che ricalca in larga misura la terza proposta di Renzi, quella che impropriamente viene indicata come il "sindaco d'Italia" e che in realtà è un doppio turno di lista.
Premio di maggioranza e doppio turno. Questi sono gli elementi centrali del nuovo sistema. La loro combinazione rende il sistema majority assuring, cioè garantisce che le elezioni diano al vincitore – partito singolo o coalizione – la maggioranza assoluta dei seggi. Chi ottiene un voto più degli altri incasserà un premio di maggioranza del 18% se arriverà al 35% dei voti. Se nessuno arriverà a questa soglia le due formazioni più votate si sfideranno in un ballottaggio. Il vincitore avrà diritto alla Camera al 53% dei 617 seggi in palio (327). Nessuno ne potrà avere più del 55% (340) grazie al premio.
Quindi l'esito del voto si collocherà tra questi due valori a meno che una lista non conquisti da sola più del 55% dei seggi. Con la soglia e un premio non più illimitato la Consulta è accontentata. Fino all'ultimo non era previsto che ci fosse un doppio turno. Berlusconi lo ha accettato perché la soglia per far scattare il premio è bassa. Con il 35% il centro-destra ha la possibilità di vincere le elezioni in un turno solo senza quindi dover rischiare una sconfitta al ballottaggio per via della pigrizia dei suoi elettori. È la soglia che differenzia questo modello da quello proposto tempo fa sulle pagine di questo giornale.
Il Senato. Il sistema elettorale è identico a quello della Camera. Finalmente sparisce la lotteria dei 17 premi regionali. Infatti anche in questo ramo del Parlamento il premio sarà nazionale. Era ora. La sentenza della Consulta in questo caso ha aiutato. Questa modifica non annulla il rischio di maggioranze diverse tra le due camere, ma lo riduce sensibilmente.
Con il fatto che i diciottenni non possono votare al Senato il rischio resta. Verrà definitivamente eliminato con la radicale trasformazione del Senato prevista dal pacchetto di riforme di cui il nuovo sistema elettorale è una parte. Alle prossime elezioni si voterà per una camera sola. Salvo sorprese.
Formula elettorale e soglie. A parte i seggi del premio gli altri verranno assegnati con formula proporzionale a livello nazionale. Non a tutti però. Per avere seggi i partiti che scelgono di far parte di una coalizione devono superare la soglia "tedesca" del 5%. Era il 2% nel vecchio sistema. Per chi sta fuori dalle coalizioni la soglia è dell'8%. Ma per poter utilizzare la soglia più bassa del 5% occorre che la coalizione arrivi al 12 %.
In caso contrario è come se la coalizione non esistesse. Questo sistema di soglie serve a scoraggiare tentazioni terzopoliste. Questo è il prezzo che i piccoli partiti devono pagare. Sopravvivono, ma solo se accettano di allearsi prima del voto con i grandi. Per la Lega è prevista una clausola di salvaguardia che le consentirà di sopravvivere nei suoi territori anche nel caso in cui non arrivi al 5 % a livello nazionale.
Liste bloccate. Non ci sono né i collegi uninominali né il voto di preferenza. Restano le liste bloccate ma saranno corte e i nomi dei candidati saranno visibili sulla scheda elettorale. Sulla lista bloccata si è fatta tanta retorica. La realtà è che sono solo uno strumento. Non sono il male assoluto. Se usate bene, i risultati sono positivi. È grazie alle liste bloccate che oggi nel nostro Parlamento siedono più donne che in quello tedesco o francese.
Queste sono le caratteristiche essenziali del sistema elettorale presentato alle Camere. Non è il migliore dei sistemi. È il punto di incontro tra i desideri e la realtà. Chi scrive ha collaborato sul piano tecnico a questa riforma. Avrebbe preferito un sistema con i collegi uninominali maggioritari e il doppio turno. In questo modello c'è il doppio turno ma non ci sono i collegi. Però è un sistema che può funzionare bene.
Ma le regole elettorali – lo abbiano detto tante volte – non sono una bacchetta magica. Le buone regole sono una condizione necessaria del buon governo. Ma non sono una condizione sufficiente. Per il buon governo ci vuol la buona politica. È questa la prossima scommessa.

Corriere 21.1.14
La simulazione di YouTrend
Che Parlamento avremmo se si fosse votato con l’Italicum

qui

Nichi Vendola: «Non avremo dif­fi­coltà a dia­lo­gare con Renzi, vedo un tratto di spi­glia­tezza, di moder­nità, in un orga­ni­smo gio­vane e non ple­to­rico»
il manifesto 16.1.14
Sinistra sotto l’effetto Renzi


«Non avremo dif­fi­coltà a dia­lo­gare con Renzi, vedo un tratto di spi­glia­tezza, di moder­nità, in un orga­ni­smo gio­vane e non ple­to­rico». Ieri Nichi Ven­dola ha inviato l’ennesimo segnale di fumo in dire­zione del neo­se­gre­ta­rio del Pd. I cro­ni­sti distratti segna­lano la novità di accenti del tipo: «Va dato atto con fran­chezza a Mat­teo che ci aiuta a scrol­larci di dosso la pol­vere del pas­sato». Ma non è così: da mesi, dalla fine dell’estate e pre­ci­sa­mente dalla festa nazio­nale del Pd, Ven­dola ha ’sdo­ga­nato’ fra i suoi l’alleanza con quello che già allora appa­riva l’ineluttabile nuovo Pd ’a voca­zione Matteo’.
La novità sem­mai è che in Sel l’effetto Renzi smuove le acque sta­gnanti del con­gresso di gen­naio, fin qui semi­clan­de­stino nono­stante la cro­naca riporti per­sino una denun­cia di doping tes­sere a Roma, sul modello dei fra­telli mag­giori dem.A casa Sel nes­suno è con­tra­rio al ’dia­logo’ con Renzi. Piut­to­sto la pre­oc­cu­pa­zione è che il tema dell’alleanza è da mesi scom­parso dai discorsi di Renzi e vi farà rien­tro — secondo i piani del segre­ta­rio — solo nell’autunno 2014 in vista delle ele­zioni 2015. Sto­ria a parte sarà quella delle ammi­ni­stra­tive di pri­ma­vera, che però a Firenze non ini­ziano bene: i ven­do­liani fio­ren­tini hanno annun­ciato di voler restare all’opposizione del sindaco.
Ma sulla futu­ri­bile alleanza i toni sono molto diversi. Per l’ex par­la­men­tare Ful­via Ban­doli «fin­ché ci sarà il governo di lar­ghe o medie intese non esi­ste pos­si­bi­lità di rimet­tere in campo il cen­tro­si­ni­stra. Dun­que per 15 mesi: un’eternità, e con le euro­pee in mezzo, alle quali non pos­siamo certo andare con una lista con il Pd. Dire che rimet­tiamo in campo il cen­tro­si­ni­stra non vuole dire quasi nulla almeno adesso. Soprat­tutto se vogliamo un cen­tro­si­ni­stra che non sia a esclu­siva tra­zione Pd dob­biamo ripren­dere la strada di una sini­stra più forte».In casa Sel, Ban­doli è all’opposizione. Ma anche nella mag­gio­ranza le scuole di pen­siero diverse, insomma le cor­renti, si fanno sen­tire. Alla dire­zione di ieri si sono mar­cate le dif­fe­renze. Per esem­pio fra chi pensa che il Pd ren­ziano apra auto­strade per un raf­for­za­mento a sini­stra, magari a patto di non farsi sca­val­care sull’innovazione dal ’rot­ta­ma­tore’. Come Mas­si­mi­liano Sme­ri­glio, vice­pre­sin­dente del Lazio: «Lui attacca la Cgil, mezza Cgil applaude, e noi ne difen­diamo il gruppo diri­gente. Qual­cosa non fun­ziona, spe­riamo che il sin­da­cato raf­forzi l’autonomia, e però noi par­liamo solo di lavoro, par­titi e sin­da­cato: sem­briamo la sini­stra degli anni 70». E chi invece come Peppe De Cri­sto­faro, sena­tore, è scet­tico: «Non fac­ciamo finta di non sapere che alcuni dei nostri sono andati a votare le pri­ma­rie. La strada di un sog­getto auto­nomo a sini­stra, seconda gamba del cen­tro­si­ni­stra, c’è: ma non è un’autostrada, è un vicolo stret­tis­simo. Pos­siamo com­pe­tere con Renzi sulla cul­tura poli­tica, sapendo che lui strizza l’occhio al popu­li­smo di Grillo: basta pen­sare alle spa­rate sull’amnistia». Anche il rap­porto con il Movi­mento 5 stelle infatti è un ter­reno sci­vo­loso. De Cri­sto­faro con­si­dera la cul­tura dei «black bloc in tastiera» avver­sa­ria e alter­na­tiva alla sini­stra, né più né meno di quanto non fanno i col­le­ghi demo­cra­tici. Ven­dola invece si pre­oc­cupa che i par­la­men­tari «non si chiu­dano nel palazzo, sarebbe un Aven­tino al con­tra­rio», e li sprona al ritorno nei territori.
Ma il tema di mag­giore scon­tro interno sono le euro­pee del 24 mag­gio. Sel ha chie­sto da mesi di ade­rire al gruppo socia­li­sta euro­peo, ma la rispo­sta ancora non è arri­vata. L’ipotesi di liste con il Pd non è più rea­li­stica — causa lar­ghe intese nostrane — anche se non è escluso che per quell’appuntamento, cru­ciale per i demo­cra­tici, il neo­se­gre­ta­rio non tenti qual­che ope­ra­zione di ’ade­sca­mento’ poli­tico. C’è chi pro­pone comun­que l’adesione al Pse. E chi invece frena. Come Nicola Fra­to­ianni, depu­tato, brac­cio destro di Ven­dola e ala sini­stra di Sel: «A me viene dif­fi­cile indi­care come pre­si­dente della com­mis­sione euro­pea Mar­tin Schulz, quello delle lar­ghe intese fra Spd e Cdu, cioè quello che con­di­vide le ricette rigo­ri­ste di Mer­kel. E non credo che sia un pro­blema solo mio. Allora: chie­diamo a Schulz impe­gni con­creti. Ma apriamo un dia­logo anche con Ale­xis Tsi­pras e costruiamo un per­corso diverso». Per la cro­naca però, Tsi­pras è il lea­der della greca Syriza, che la scorsa dome­nica i par­titi della sini­stra euro­pea (il Gue), comu­ni­sti e affini, hanno indi­cato come loro pre­si­dente. In Ita­lia Prc, Pdci, Alba e sini­stre sparse pro­vano a rian­nu­sarsi, dopo i disa­stri elet­to­rali recenti, per even­tuali liste di soste­gno al fasci­noso gio­vane lea­der greco. Che per que­sto n pri­ma­vera bat­terà a tap­peto l’Italia.Se quella di Fra­to­ianni non è la richie­sta di un cam­bio di col­lo­ca­zione in Europa poco ci manca. Quanto a Renzi «dia­logo, certo. Ma è sicuro che è stata l’ideologogia del lavoro, come dice lui, e non quella del mer­cato a distrug­gere l’Italia? E come si fa ad essere per un red­dito minimo e votare la sua ver­sione mac­chiet­ti­stica nella legge di sta­bi­lità? Oppure come si fa ad essere per le civil part­ner­ship e a Firenze non riu­scire a fare nean­che il regi­stro delle unioni civili?».

Pippo Civati: “ieri non è stata una bella giornata. Detto questo non penso sia il caso di fare la guerra a Renzi nel Pd, sennò ci suicidiamo tutti"
Il Mondo 21.1.14
Italicum, Fassina apre a Renzi. Civati: lo chiamerei "Fiorentino"

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il manifesto 20.1.14
Oggi il voto sul reato di clandestinità
Immigrazione. Salta l’accordo con il Ncd, il Pd vota l’abolizione. Presentato ddl sullo ius soli
di Carlo Lania

I ten­ta­tivi di tro­vare un accordo si sono esau­riti senza por­tare a nulla. Que­sta mat­tina, quando al Senato ripren­derà la discus­sione del dise­gno di legge sulla messa in prova, il Pd voterà per l’abrogazione del reato di clan­de­sti­nità senza tener conto della richie­sta, avan­zata dagli alleati del Nuovo cen­tro­de­stra, di stral­ciare la norma riman­dan­done la discus­sione. Salvo sor­prese, dun­que, una delle norme sim­bolo della legge Bossi-Fini sull’immigrazione già oggi potrebbe essere archi­viata defi­ni­ti­va­mente gra­zie ai voti di Pd e Movi­mento 5 Stelle. «Per quanto ci riguarda non pre­ve­diamo nes­sun tipo di accordo con il Ncd di Alfano, e quindi vote­remo per l’abrogazione del reato», spiega nel pome­rig­gio il sena­tore Giu­seppe Lumia, che ha sosti­tuito il rela­tore Felice Cas­son assente per­ché malato.Il dise­gno di legge è slit­tato a oggi dopo le pro­te­sta messe in atto la scorsa set­ti­mana dalla Lega, quando è arri­vata a occu­pare gli uffici della pre­si­denza di palazzo Madama per bloc­care l’imminente abro­ga­zione del reato di clan­de­sti­nità. Ma insieme alle pro­te­ste del Car­roc­cio, attuate anche con l’ostruzionismo, in reatà c’era anche il ten­ta­tivo di evi­tare una peri­co­losa spac­ca­tura nella mag­gio­ranza, con Pd e Ncd schie­rati su posi­zioni oppo­ste. Per il par­tito di Alfano la can­cel­la­zione del reato di clan­de­sti­nità rap­pre­senta una scon­fitta agli occhi del suo elet­to­rato, spe­cie se si tiene conto che a difesa dell’intero impianto della Bossi-Fini, e quindi anche del reato, si è speso più volte lo stesso vice­pre­mier. Da qui la neces­sità di rag­giun­gere a tutti i costi con il Pd un accordo che per­met­tesse al Ncd di sal­vare la fac­cia. E una pos­si­bile solu­zione sem­brava essere stata tro­vata nella scelta di eli­mi­nare il reato di clan­de­sti­nità ma solo nel caso di man­cata rei­te­ra­zione. Man­te­nen­dolo quindi per l’immigrato fer­mato per due volte senza docu­menti o che non abbia rispet­tato l’obbligo di rim­pa­trio. Ma il capo­gruppo dei sena­tori Ncd, Mau­ri­zio Sac­coni, aveva anche chie­sto di non arri­vare pro­prio alla discus­sione, stral­ciando la norma e rin­viando così ogni decisione.
Trat­ta­tive che, però, sem­brano essere nau­fra­gate, vista la volontà del Pd di arri­vare al più pre­sto al voto. Del resto è stato pro­prio Mat­teo Renzi a indi­care tra le prio­rità delle nuovo corso demo­cra­tico anche l’abrogazione del reato di immi­gra­zione clandestina.Intanto è arri­vato alla com­mis­sione Affari costi­tu­zio­nali della Camera il dise­gno di legge di riforma della cit­ta­di­nanza. Ad annun­ciarlo è stato ieri il mini­stro dell’Integrazione Cecile Kyenge. Non si tratta di un dise­gno di legge del governo, bensì di una pro­po­sta (primi fir­ma­tari Pier­luigi Ber­sani, Kalid Chaouki e Roberto Spe­ranza oltre alla stessa Kyenge, e uguale a un’analoga ddl pre­sen­tato al Senato da Luigi Man­coni) che par­tendo dalla pro­po­sta di legge di ini­zia­tiva popo­lare avan­zata dal comi­tato «L’Italia sono anch’io» potrebbe rap­pre­sen­tare un buon punto di media­zione con tutte le altre pro­po­ste di legge in mate­ria pre­senti in par­la­mento. Il testo, nell’ottica di uno ius soli tem­pe­rato, pre­vede che la cit­ta­di­nanza ita­liana venga rico­no­sciuta a chi è nato nel ter­ri­to­rio nazio­nale da geni­tori stra­nieri di cui almeno uno sia nato in Ita­lia o vi risieda legal­mente e senza inter­ru­zioni da non meno di un anno; a chi è nato in Ita­lia da geni­tori stra­nieri di cui almeno uno vi risieda legal­mente da almeno cin­que anni; ai bam­bini nati nel nostro ter­ri­to­rio da geni­tori stra­nieri o che vi abbiamo fatto ingresso entro il decimo anno di età a con­di­zione che abbia com­ple­tato un ciclo di studi.

l’Unità 21.1.14
Parola di boss: «Per Di Matteo la fine del tonno»
Depositate le intercettazioni tra Riina e Lo Russo
«Napolitano? È meglio se non testimonia»
di Franca Stella

ROMA Fanno venire i brividi le parole che Totò Riina, il boss di Cosa nostra, ha pronunciato contro il magistrato di Palermo Nino Di Matteo. Fanno venire i brividi perché riportano a un’epoca che si pensava lontana. Fatta di bombe, di stragi e di trattative. A leggere quelle intercettazioni c’è da immaginare che la forza distruttiva della mafia palermitana sia ancora intatta.
Sono le 9.30 del 16 novembre 2013 e il boss mafioso Totò Riina parla con il boss della Sacra Corona Unita Alberto Lo Russo durante l’ora della cosiddetta «socialità» nel carcere milanese di Opera. I due parlano del pm antimafia Antonino Di Matteo, che rappresenta l’accusa nel processo per la trattativa tra Stato e mafia che vede tra gli imputati proprio il boss corleonese, e la cui scorta è stat rinforzata nelle scorse settimane proprio per le minacce di Riina. «L’ultimo (attentato, ndr) se mi riesce sarà più grosso... se mi ci metto con una bella compagnia di anatroccoli (gli uomini della scorta, secondo i magistrati ndr). Così chi peschiamo, peschiamo e non se ne parla più. Non devo avere pietà di questi, come loro non hanno pietà».
I poliziotti non registrano solo le parole, riprendono quest’incontro in un video. «E allora organizziamola questa cosa! Facciamola grossa e non ne parliamo più» dice Riina e mentre tratteggia l’operazione tira fuori la mano dal cappotto e gesticolando mima il gesto di fare in fretta, come scrivono gli uomini nella Dia nella parte delle intercettazioni depositate questo pomeriggio dai pm nel processo per la trattativa.
Riina dimostra di non avere paura di Di Matteo: «Vedi, vedi dice si mette là davanti, mi guarda con gli occhi puntati ma a me non mi intimorisce...». Poi sul progetto di attentato: «Questo Di Matteo non se ne va, gli hanno rinforzato la scorta e allora, se fosse possibile, ad ucciderlo... Una esecuzione come eravamo a quel tempo a Palermo con i militari». «Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono», continua Riina con Lorusso. «Questo pubblico ministero di questo processo che mi sta facendo uscire pazzo».
Riina nei dialoghi intercettati nel carcere di Opera con il boss Lo Russo è incontenibile: «Se io restavo fuori, io continuavo a fare un macello, continuavo, al massimo livello. Ormai c’era l’ingranaggio, questo sistema e basta. Minchia, eravamo tutti, tutti mafiosi». Ma Riina, aggiornato in tempo da Lorusso, apprende della richiesta di testimonianza del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al processo sulla trattativa. Lorusso lo informa che le tv rilanciano le dichiarazioni del vice presidente del Csm Vietti e di altri politici che ritengono che il capo dello Stato non debba testimoniare. Riina approva: «Fanno bene, fanno bene... ci danno una mazzata... ci vuole una mazzata nelle corna... a questo pubblico ministero di Palermo». Al che Lorusso dice: «Sono tutti con Napolitano dice che non ci deve andare. Lui è il presidente della Repubblica e non ci deve andare». Riina afferma: «Io penso che qualcosa si è rotto...» E poi: «Di più per questo, per questo signore che era a Caltanissetta, questo che non sa che cosa deve fare prima. È un disgraziato... minchia è intrigante, minchia, questo vorrebbe mettere a tutti, a tutti, vorrebbe mettere mani... ci mette la parola in bocca a tutti, ma non prende niente, non prende...». «Mi viene una rabbia continua Riina ma perché questa popolazione non vuole ammazzare a nessun magistrato? A tutti... ammazzarli, proprio andarci armati e vedere...». Si ingalluzziscono , proprio si ingalluzziscono... perché c’è la popolazione che li difende, che li aiuta. Quelli però che devono andare a fare la propaganda là, sono quelli che devono andare a fare la propaganda. Hanno lo scopo in testa per uno strumentìo (strumentalizzazione ndr) completamente e le persone sono con loro...».
Nei dialoghi con Lo Russo c’è anche un accenno alla strage Chinnici: «Quello là salutava e se ne saliva nei palazzi. Ma che disgraziato sei, saluti e te ne sali nei palazzi. Minchia e poi è sceso, disgraziato, il procuratore generale di Palermo». Chinnici fu ucciso da un’autobomba il 29 luglio del 1983. Infine Riina si dice deluso da Matteo Messina Denaro: «A me dispiace dirlo, questo signor Messina Denaro, questo che fa il latitante, questo si sente di comandare, ma non si interessa di noi. Questo fa i pali della luce aggiunge riferendosi al business dell’energia eolica in cui Messina Denaro è coinvolto ci farebbe più figura se la mettesse in c... la luce».

il Fatto 21.1.14
“Deve succedere il manicomio” Così Riina minaccia Di Matteo
Il capo dei capi in carcere parla con il boss della Sacra corona unita
Su Napolitano sentenzia: “Non deve andare a testimoniare”
Riportiamo integralmente alcuni stralci delle conversazioni tra Totò Riina e Angelo Lorusso.

“Mi sono divertito”
RIINA: (...) Disgraziati e miserabili, meschini che sono. Dite ma che volete voi di quelli, quelli Magistrati sono, sono Magistrati quelli sono... inc... fanno i carrieristi a spese dei poveri detenuti, carrieristi e denaro
LORUSSO: Denaro, ecco
RIINA: Carrieristi e denaro... inc... il direttore, chi minchia sono
LORUSSO: Carriera, soldi
RIINA: Il giusto... poi saltano in aria, perché saltate in aria... state... inc... statevi zitti, no quello che fate... figli di puttana che sono esaltati... che sono romanzati... (...) Quello là saluta e se ne saliva nei palazzi. Ma che disgraziato sei, saluti e te ne sali nei palazzi. Minchia truuuu... e poi è sceso, disgraziato, il Procuratore Generale era di Palermo (Rocco Chinnici, ucciso da un’autobomba il 29 luglio 1983, ndr) Minchia, però, dovevo essere... a bella a verità, vi siete divertiti, però, mi sono divertito, per un paio d’anni mi sono divertito, sono stato grande. Quando ci mettevamo quella (verosimilmente si riferisce all’esplosivo), va suona, va suona, a quello vai a suonare tu... minchia che gli ho combinato, che cosa gli ho combinato, minchia (...)
“Buttate le chiavi”
LORUSSO: Sì, perché la popolazione, la popolazione è... è fatta così, è fatta così
RIINA: È fatta così, è fatta da vigliacconi
LORUSSO: Esatto, quando toccano a loro saltano tanto, quando poi toccano a uno di loro si alzano tanto... ma finché non tocano a loro, toccano l’altro, per loro va tutto bene. Il popolo italiano è fatto così (...) Non se ne fregano niente, anzi sono a favore dei Magistrati, dei Giudici, fino a quando non tocca a loro
RIINA: Sì, a favore dei Magistrati.. e lo dicono, bello, lo dicono
LORUSSO: Contro i detenuti, buttate le chiavi, buttate. Però poi quando tocca a loro cambiano versione, cambiano (...)
“Qualcosa si è rotto”
LORUSSO: La televisione ieri dicevano, però, forse stamattaina, non mi ricordo (...) dicevano che il Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, un sacco di politici dicono: il Presidente della Repubblica non deve andare a testimoniare, ci sono un sacco di politici, partiti che dicono che non ci deve andare a testimoniare RIINA: Fanno bene, fanno bene... ci danno una mazzata... ci vuole una mazzata nelle corna... LORUSSO: A questi cosi.... questi di Palermo RIINA: A questo pubblico ministero di Palermo LORUSSO: Sono tutti con Napolitano dice che non ci deve andare. Lui è il Presidente della Repubblica e non ci deve andare RIINA: Io penso che qualcosa si è rotto... (...) LORUSSO: Penso pure io... ma solo che non prendono mai provvedimenti. La rottura che era successa con Palermo con questo Ingroia per l’intercettazione, cose uh... alla fine si è conclusa così... La Costituzione ha detto che si devono distruggere, punto e basta... è finita. Adesso gli stanno facendo di nuovo la citazione a testimoniare, si devono prendere provvedimenti a questi Magistrati, si deve togliere un po’ di potere
RIINA: Di più per questo, per questo signore che era a Caltanissetta, questo che non sa che cosa deve fare prima. È un disgraziato... minchia è intrigante, minchia, questo vorrebbe mettere a tutti, a tutti, vorrebbe mettere mani... ci mette la parola in bocca a tutti, ma non prende niente, non prende...
“Mi sento ancora in forma”
RIINA: C’è questo Pubblico Ministero che...
LORUSSO: Questo sta facendo carriera sul processo della trattativa
RIINA: Di questo processo, questo pubblico ministero di questo processo che mi sta facendo uscire pazzo, per dire, come non ti verrei ad ammazzare a te, come non te la farei venire a pescare, a prendere tonni. Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono. LORUSSO: Sì, sì
RIINA: Ancora ci insisti? Minchia.... perchè me lo sono tolto il vizio? Me lo toglierei il vizio? Inizierei domani mattina
LORUSSO: Daccapo, di nuovo
RIINA: Sì
LORUSSO: Lo so. A me lo dite, io la rabbiam che nutro verso questa gente
RIINA: Minchia, ho una rabbia
LORUSSO: Perciò vi dico io, se era possibile una cosa di quella
RIINA: Mi sento ancora in forma, mi sento ancora in forma, porca miseria LORUSSO: C’è chi sta in forma, che è più giovane che... RIINA: Perché speranza dei giovani no... no... no... A me non devono insegnare nulla... io pure che ho cento anni... sono un uomo e so quello che devo fare, pure che ho cento anni LORUSSO: Certo, certo RIINA: Minchia, pensate, dice, mi veniste a trovare ed incomincia a fare caldo. E chi... minchia... un pesce... gli butterei l’amo, lo butterei a mollo, lo annegherei (...) LORUSSO: Sì, sì RIINA: Fa uscire a questo di docu, esci di qua. Io cerco la grazia, ma chi me la deve dare la grazia? Come me la devono dare la grazia? Ah? LORUSSO: No, grazia non ve ne danno (...) vi devono uscire perché siete anziano
“Gli costerà caro”
RIINA: Questo Di Matteo, questo disonorato, questo prende pure il Presidente della Repubblica LORUSSO: Questo, questo prende un gioco sporco che gli costerà caro, perché questo sta facendo carriera su questo processo di trattativa (...) RIINA: Io penso che lui la pagherà pure LORUSSO: Se gli va male questo processo lui viene emarginato (...) RIINA: Ci finisce... lo sapete come gli finisce a questo la carriera? Come gliel’hanno fatta finire a quello palermitano LORUSSO: A Castiglione (Scaglione, l’ex procuratore di Palermo ucciso dalla mafia, ndr) RIINA: Sì LORUSSO: Castiglione, così, così gli finisce esattamente RIINA: A questi gli finisce lo stesso.
“Deve succedere per forza”
RIINA: Io ve l’ho detto tannu (l’altra volta) io ve l’ho detto ieri... deve succedere un manicomio, deve succedere per forza, perché vedete deve succedere per forza!
“Il palo se lo mettesse... ”
RIINA: A me dispiace dirlo questo... questo signor Messina (Matteo Messina Denaro, ndr) questo che fa il latitante che fa queste.... LORUSSO: pali... pali eolici... RIINA: eolici... i pali della luce, se la potrebbe mettere nel culo la luce! LORUSSO: Sì, sì RIINA: Ci farebbe più figura se la mettesse nel culo la luce e se lo illuminasse LORUSSO: pensa a se stesso e basta... pazienza (...) RIINA: no, ma per dire che questo si sente di comandare, si sente di fare luce dovunque, fa luce, fa pali per prendere soldi, ma non si interessa di... LORUSSO: perciò dico, non si interessa, si interessa solo di lui stesso, non si interessa delle questioni...
“Ci saranno tutti”
LORUSSO: Hanno detto che alla prossima udienza ci saranno tutti i Pubblici Ministeri all’udienza saranno presenti tutti i Pubblici Ministeri RIINA: Ah... tutti? LORUSSO: Tutti (...) RIINA: Ah... perché mi devono fare spaventare.. io che debbo fare, io che devo fare... LORUSSO: Devono predisporre... RIINA: Gli debbo dire.. e io, e io, scusatemi, devo chiamare e gli devo dire: chi è il più cprnuto di tutti... ride... LORUSSO:... ride... eh, questo bisognerebbe, certo
“Questo Papa è bravo”
LORUSSO: Se vedete la televisione, l’ultima, questo, la propaganda che ganno, calabrese, questo Procuratore calabrese, questo che affaccia sempre, questo Procuratore della Calabria (Nicola Gratteri, ndr) RIINA: Sì, sì LORUSSO: È affacciato ieri in televisione, è affacciato e ha detto: siccome il Papa ha parlato contro i politici (...) ma hga parlato pure contro i traffici di droga, la criminalità. Dice: adesso il Papa deve stare attento, l’ha detto ieri, sta montando la tragedia che la ‘ndrangheta, la mafia gli può fare qualcosa a lui, al Papa (...) RIINA: Vanno a cercare pure il Papa (...) LORUSSO: Ci strumentalizzano, fanno propaganda (...) RIINA: Questo è buono, questo Papa è troppo bravo
“Organizziamola grossa”
RIINA: E allora organizziamola questa cosa! Facciamola grossa e non ne parliamo più (Riina esce la mano sinistra dal cappotto e gesticolando mima il gesto di fare in fretta)
LORUSSO: eh eh
RIINA: perchè questi, Di Matteo non se ne va, ci hanno chiesto di rinforzare, gli hanno rinforzato la scorta e allora, se fosse possibile, ad ucciderlo... Una esecuzione come eravamo a quel tempo a Palermo con i militari (il fallito attentato al vicequestore Rino Germanà, ndr)
(...)
RIINA: A questo punto gli avrei detto dobbiamo prendere un provvedimento per voialtri, uno che vi fa ballare la samba così che vi fa salire nei palazzi e vi fa scendere come vuole, come se fossero formiche, ma questo chiè? uno, la potenza nazionale?

il Fatto 21.1.14
Trattativa: dieci a processo per il patto Stato-mafia

LA DECISIONE sul rinvio a giudizio per una delle inchieste più difficili e lunghe della storia di questo Paese è arrivata il 7 marzo scorso, quando il gup di Palermo Piergiorgio Morosini ha rinviato a giudizio dieci imputati. Tra loro, ex ufficiali del Ros, capimafia, Massimo Ciancimino, l’ex senatore Marcello Dell’Utri e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino. Al centro dell’indagine il patto tra Stato e Cosa Nostra per fermare le stragi. La Procura di Palermo infatti ha passato in rassegna tutti gli elementi raccolti nell’indagine condotta dalla Procura di Palermo negli ultimi anni: dall’uccisione dell’europarlamentare Salvo Lima, primo atto di guerra di Cosa Nostra allo Stato, fino all’incarico di contattare Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri che l’ex stalliere di Arcore Vittorio Mangano avrebbe ricevuto da Leoluca Bagarella. È a quel punto che, secondo gli inquirenti, si sarebbe siglato un nuovo patto tra la mafia e lo Stato. Insieme a Bagarella, sono imputati per violenza o minaccia a corpo politico dello Stato anche i boss Totò Riina e Antonino Cinà, considerato il “postino” del papello, il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, autore secondo i pm del primo input per aprire un contatto con Cosa Nostra, il senatore del Pdl Dell’Utri e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato soltanto di falsa testimonianza dopo la sua deposizione al processo Mori–Obinu del febbraio scorso. Alla sbarra anche tre alti ufficiali dei carabinieri: i generali Mario Mori e Antonio Subranni e l’ex colonnello Giuseppe De Donno. Oggetto della trattativa sarebbe poi divenuto l’alleggerimento del 41-bis, obiettivo che si sarebbe realizzato nel novembre del 1993, quando l’allora guardasigilli Giovanni Conso non rinnovò oltre 300 provvedimenti di carcere duro a detenuti mafiosi . Ed è proprio per proseguire la trattativa che, secondo il pm, i carabinieri del Ros non arrestarono deliberatamente il boss Nitto Santapaola, “intercettato nella zona di Barcellona Pozzo di Gotto senza che ne venissero informati i magistrati”. La posizione del boss Bernardo Provenzano è stata stralciata per motivi di salute.

il Fatto 21.1.14
Stato e mafia
Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino
di Roberto Scarpinato

Pubblichiamo l’intervento di Roberto Scarpinato in occasione dell’anniversario del compleanno di Paolo Borsellino

Quel che non cessa di interrogarmi della vicenda di Paolo è la rassegnazione impotente all’ineluttabile che lo pervase nell’ultimo mese di vita. È come se a un certo punto si fosse reso conto – lui che era stato un indomito combattente per tutta la vita – che nulla e nessuno avrebbe potuto salvarlo. Il senso di questa solitudine impotente emerge da vari indizi.
Ad esempio l’avere sentito la necessità di confessarsi pochi giorni prima del 19 luglio 1992, non in Chiesa, ma nel Palazzo di Giustizia di Palermo, luogo certo inusuale per una confessione. Qui infatti convocò un sacerdote suo amico per confessarsi, compiendo un gesto di grande valenza simbolica che va, io credo, interpretato.
In quel luogo egli aveva vissuto insieme a Giovanni Falcone quella che il 23 giugno 1992, nel suo ultimo discorso pubblico prima della morte, aveva definito una “lotta d’amore” per liberare Palermo dal sistema di potere mafioso, modo straordinario di Paolo di qualificare il senso del proprio impegno antimafia e che dice tanto della sua umanità. In quello stesso luogo, sentendo che la sua lotta d’amore stava volgendo al termine per forze superiori, con quella confessione si apprestava a entrare nella morte vivendo, a occhi aperti, come un martire cristiano che sta per entrare nell’arena dove sa che sarà divorato da bestie feroci sotto lo sguardo di un paese che quasi attendeva la sua fine, come quella di una vittima sacrificale predestinata; sotto lo sguardo impotente di uno Stato che lo aveva consegnato alla sua solitudine e che neppure si era curato di imporre una zona rimozione sotto la casa dell’abitazione materna dove Paolo aveva l’abitudine di recarsi, per rendere almeno più difficile lo sporco lavoro degli assassini.
Altro segnale della rassegnata impotenza di Paolo è la frase che egli nella intimità degli affetti affidò alla memoria della moglie Agnese, e ora consacrata negli atti processuali: “Mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere”.
Chi erano questi altri che volevano la sua morte e che Paolo, mente lucidissima, aveva ritenuto di poter individuare e che riteneva talmente potenti da non aver scampo dinanzi ad essi? Forse le tracce per dare un volto a costoro erano in quell’agenda rossa che era divenuta per Paolo una sorta di promemoria sull’indicibile. Quell’indicibile che lui aveva intravisto e che lo aveva lasciato sgomento.
QUELLO stesso sgomento che aveva segnato Giovanni Falcone quando dopo l’attentato all’Addaura nel 1989, aveva compreso che le forze che volevano la sua morte andavano ben al di là degli uomini della mafia, semplici esecutori di disegni di menti raffinatissime, come egli le definì.
E fu allora che Giovanni coniò l’espressione “gioco grande” per alludere al gioco grande del potere che, come un gorgo malefico, ha inghiottito nelle sue spire le vite di tanti.
Un gioco grande che ha attraversato come un vento impetuoso la storia martoriata di questo nostro povero paese sin dalla fondazione della Repubblica il cui atto di nascita è segnato da una strage di mafia – quella di Portella della Ginestra la cui matrice politica è ormai acclarata – e che ha visto concludere la fase terminale della prima Repubblica con le convulsioni dello stragismo del 1992-1993.
E tra l’inizio e la fine è una catena ininterrotta di altre stragi e di omicidi politici che non ha eguali nella storia di alcun altro paese europeo.
Nell’agosto del 2012 mi recai a fare visita ad Agnese Borsellino già gravemente segnata dalla malattia che l’avrebbe condotta a morte nell’anno successivo. A un certo punto mi disse: “Non so se sia stato peggio quello che abbiamo vissuto prima della strage, quando ogni giorno temevamo che Paolo potesse essere ucciso, o quello che siamo stati costretti a vivere dopo”.
E nel dire quel “dopo” i suoi occhi si riempirono di lacrime e la sua mano cominciò ad agitarsi nell’aria come ad alludere a una verità indicibile di cui era stata costretta a rendersi conto, forse quella stessa verità che aveva lasciato sgomento e rassegnato Paolo.
Credo che per rendere onore a Paolo, per strapparlo almeno nella memoria alla terribile solitudine che lo pervase negli ultimi giorni di vita, occorre che in giorni come questi, non solo nelle commemorazioni private, ma anche in quelle ufficiali, cominciamo a dire a noi stessi che egli non è stato solo vittima di personaggi come Riina e i suoi sodali, ma anche della storia malata di un paese democraticamente immaturo che non ha mai saputo fare i conti con il proprio passato, non ha mai avuto la forza di guardare dentro la propria realtà, e che per questo motivo ha lasciato morire nella solitudine alcuni dei suoi figli migliori, rischiando così di far morire insieme a loro anche la parte migliore di sé.

l’Unità 21.1.14
«Stamina, anche noi giornalisti siamo responsabili»
«È difficile occuparsi di questi temi, bisogna essere competenti»
Parla Piero Angela dopo il caso de «Le iene»: «C’è un’attenzione eccessiva verso certi “inventori”»
di Cristiana Pulcinelli

ROMA L’ACCUSA MOSSA A «LE IENE» DALLA LETTERA DI ELENA CATTANEO, GILBERTO CORBELLINI E MICHELE DE LUCA suona un campanello d’allarme: quali responsabilità hanno stampa e Tv (o, almeno, una certa stampa e una certa Tv) nella triste vicenda di Stamina e in tutte le altre storie di cure miracolose che ciclicamente si ripropongono rischiando di fare del male ai pazienti e creando un ulteriore distacco tra il Paese e la Ragione? Piero Angela da anni si occupa di cure miracolose e pensiero magico e ha anche fondato il Cicap, un comitato di controllo sulla pseudoscienza: «Gli errori della stampa in questo campo non sono di oggi – dice ma oggi, nella società dell’informazione e della conoscenza, noi giornalisti siamo ancora più responsabili». C’è un legame antico tra i venditori di fumo e la stampa?
«Mi ricordo che una trentina di anni fa l’American Cancer Society, per mettere in guardia i giornali, aveva disegnato un identikit di chi dice di aver scoperto la cura miracolosa. Quali sono i tratti principali di questi personaggi? Non appartengono alla comunità scientifica, ma ne sono ai margini o, a volte, fuori del tutto; dicono di avere una cura miracolosa ma non presentano mai le loro ricerche secondo le regole della scienza; invece di rivolgersi a riviste specializzate si rivolgono a stampa e tv; accusano la comunità scientifica e i baroni di avere paura della loro scoperta e di ostacolarla per i loro interessi personali; mobilitano i parenti dei malati; non rivelano in cosa consiste la cura miracolosa; minacciano di andare all’estero perché il loro Paese non li sostiene; infine, trovano nella stampa e nella televisione persone che li aiutano, di solito giornalisti che non hanno competenze in campo scientifico».
Ha constatato personalmente la veridicità di quest’ultimo punto?
«Negli anni Novanta, durante il caso Di Bella, a parlare della questione erano opinionisti, cronisti, giornalisti politici. I giornalisti scientifici, invece, vennero tagliati fuori perché era diventato un caso di cronaca e i ragionamenti troppo complicati non interessavano. La stessa cosa accade quando si parla di omeopatia: la gente la sente come una scelta salutare, contro la tossicità dei farmaci. In realtà non è così, ma proprio per questo chi ne parla dovrebbe essere competente. Del resto, se non sei un giornalista sportivo non ti manderebbero mai a seguire una partita di calcio, invece su questi temi possono scrivere tutti».
Quali sono gli errori principali?
«La mobilitazione che si è creata è dovuta al fatto che si insiste sull’aspetto umano. Una cosa importante, certo, ma pericolosa perché può illudere i pazienti. Non so se in buona o in mala fede, ma da parte della stampa c’è un’attenzione eccessiva verso questi “inventori” che, invece, dalla comunità scientifica sono stati espulsi perché non rispettano le regole. A volte, si pensa di dover applicare anche in questi casi la par condicio mettendo a confronto le opinioni dello scienziato riconosciuto con quelle del venditore di miracoli. Forse siamo abituati alla politica, dove si può dire quello che si vuole e ogni opinione è rispettabile. Nella scienza però non ci sono opinioni, ma solo fatti, ovvero dati. E la pubblicazione dei dati deve essere controllata. Se il cronista non mi spiega questo è irresponsabile».
Ci vorrebbe un codice deontologico per chi si occupa di informazione?
«Senz’altro perché ci va di mezzo la salute della gente. Occuparsi di questi temi è complesso. Ad esempio, chi appoggia queste scoperte si basa sul fatto che i pazienti dicono di sentirsi meglio. Ma questo è un fenomeno studiato. Ci fu una indagine sul paranormale svolta da un giornalista della Bbc che andò a seguire i guaritori a mani nude delle Filippine. I loro pazienti sostenevano di aver avuto un beneficio dal trattamento, ma poi morirono tutti, esattamente come quelli che non erano stati trattati. Credevano di stare meglio perché avevano ritrovato la speranza, ma si trattava di un’esperienza soggettiva. Poi c’è il fatto che alcune persone si aggrappano a quest’ultima possibilità. Durante il caso Di Bella, un mio amico che insegnava genetica – e che sapeva dunque di che si stava parlando mi chiamò per chiedermi un contatto con il medico di Modena, mi disse: “Ho un tumore con metastasi, che altro devo fare?”. A livello personale tutto si può fare, ma a livello professionale no».
Sarà che non siamo abituati a ragionare secondo il metodo scientifico?
«Nelle scuole italiane si insegnano le materie scientifiche, ma non si insegna quasi mai la scienza, ovvero le regole di base che permetterebbero di capire se chi annuncia di aver fatto una scoperta è credibile o no».

il Fatto 21.1.14
Repubblica. Sciopero delle firme al giornale
I giornalisti di Repubblica protestano ancora contro gli esuberi decisi dal Gruppo Espresso, dopo mesi di scontro con l’azienda, e oggi sarà sciopero delle firme, cioè gli articoli (anche quelli dei collaboratori) usciranno anonimi. A dicembre la redazione aveva approvato con un referendum, 48 prepensionamenti obbligatori. Ma pochi giorni fa un secondo voto ha rimesso in discussione quanto deciso e ora si rischia il contratto di solidarietà (una riduzione generalizzata degli stipendi) o la cassa integrazione. Tre membri del comitato di redazione, la rappresentanza dei giornalisti, si sono dimessi. E ora che la trattativa si sposta lontano dalla redazione su un tavolo nazionale tra Fieg (gli editori) e Fnsi (sindacato), parte lo sciopero delle firme.

il Fatto 21.1.14
Rifiuti e giornali. Guerra infinita Zingaretti-Caltagirone
Il governatore del Lazio ha molti nemici e ha trovato una microspia nella poltrona
Da mesi si scontra con il potere più forte di Roma: il costruttore-editore
di Daniele Martini

Vallo a scoprire di chi è la manina o la manona che ha infilato la cimice nell'imbottitura della poltrona nella sala riunioni della Regione Lazio per carpire ogni soffio degli incontri del governatore Nicola Zingaretti. Un avversario politico? Uno spione? Un ricattatore? Un qualche maneggione di palazzo? Di certo non un suo amico. Questa banale constatazione non facilita di una virgola la ricerca del responsabile perché di nemici il presidente del Lazio ne ha diversi. Proprio negli ultimi giorni dal mazzo ne è spuntato uno che sembra essere addirittura più nemico degli altri: il costruttore romano Francesco Gaetano Caltagirone. I due si detestano caldamente. L’antipatia è sfociata addirittura in una guerra legale: Zingaretti ha querelato il Messaggero di cui Caltagirone è editore per alcuni articoli ritenuti diffamatori sul tema caldo del momento a Roma e nel Lazio, la gestione dei rifiuti. Un affarone gigantesco, gestito per più di trent’anni in regime di monopolio da Manlio Cerroni, il “Supremo” della monnezza, arrestato alcuni giorni fa. La sua uscita di scena sta rimescolando le carte e stimolando tanti appetiti nella Capitale.
LA FINE DELLA MANOMORTA di Cerroni è un’occasione di possibile riscatto per la politica romana, per decenni accucciata all’ombra del “Supremo”, nel peggiore dei casi scodinzolando ed eseguendo i suoi ordini a pagamento, nel migliore adagiandosi sul fatto che concentrare la spazzatura nell'enorme discarica cerroniana di Malagrotta era facile e conveniente perché si pagava poco. Per i nuovi dioscuri di Roma e del Lazio, il sindaco Ignazio Marino e il governatore Zingaretti, il superamento del sistema Cerroni può essere il momento buono per dimostrare che ci sanno fare e sono di un'altra pasta rispetto ai predecessori. Non solo quelli di centrodestra, Gianni Alemanno e Renata Polverini, ma anche quelli di centrosinistra, i Walter Veltroni e i Piero Marrazzo, che non hanno mai osato mettere davvero in discussione lo strapotere di Cerroni nella Capitale.
La fine dell’era del “Supremo” costituisce però anche un richiamo eccezionale per chi fiuta l’odore dei soldi e accarezza il progetto di sostituirsi all’anziano Immondezzaro partendo dalla constatazione che, ormai inesorabilmente fermo il mattone e tutta la fiera che gli fa corona, la monnezza è diventata il vero affare romano. Caltagirone non disdegna i rifiuti, anzi, c’è dentro con sue società a Istanbul e in Inghilterra mentre il Fatto ha svelato l'esistenza di una serrata trattativa tra lui e Cerroni non andata a buon fine perché non si sono trovati d'accordo sul prezzo. A caldo il negoziato è stato categoricamente smentito dai portavoce di Caltagirone, i quali poi hanno invece dovuto ammettere che gli incontri c’erano stati, fornendo ovviamente una loro versione dei fatti, e cioè che era Cerroni a tampinare Caltagirone per mollargli quell'impero della monnezza costruito nell'arco di una vita, non Caltagirone a voler acquistare.
COMUNQUE SIA ANDATA, la faccenda si lega a filo doppio alla gestione dell'Acea, la municipalizzata della luce e dell'acqua di Roma, posseduta al 51 per cento dal Campidoglio, ma in cui Caltagirone comanda con il 16 per cento appoggiandosi a due manager di fiducia, Giancarlo Cremonesi e Paolo Gallo. Nella testa di Marino e Zingaretti il superamento di Malagrotta e il possibile avvio di un ciclo virtuoso di gestione dei rifiuti si basa sulla fusione tra l'Acea e l'Ama, l’azienda comunale di raccolta dell'immondizia. Caltagirone è di tutt’altro avviso e anche questo lo spinge in rotta di collisione con i due amministratori romani. La sua avversione è molto mirata, diretta non tanto alla parte politica di cui i due sono espressione, il centrosinistra, ma ad personam. Non a caso Caltagirone ci tiene a far sapere che Romano Prodi è tra i collaboratori eccellenti del suo Messaggero, giornale che sostiene volentieri Matteo Renzi.
ZINGARETTI METTE a confronto questo endorsement con il trattamento ruvido ricevuto dallo stesso quotidiano sia di recente con Cerroni e i rifiuti, sia qualche tempo prima con un altro episodio che ha segnato il rapporto tra il governatore e il re dei costruttori romani: l'affare della sede della Provincia all'Eur. Per Roma quella vicenda apparentemente secondaria è stata uno spartiacque. La storia è questa: quando ancora era presidente della Provincia di Roma, Zingaretti decise di spostare la sede dal centro a un palazzo nuovo e scelse una delle due torri dell’Eur tirate su dal giovane costruttore Luca Parnasi. Poi, per gestire il patrimonio immobiliare della Provincia con cui finanziare l’acquisto, invece di far entrare in campo Fabrica di Caltagirone, si rivolse a Bnl-Paribas. Da quel momento il Messaggero cominciò a cannoneggiare Zingaretti senza pietà accusandolo di essere uno sprecone con i soldi dei romani. Erano le settimane in cui il centrosinistra stava scegliendo il suo candidato per il Campidoglio da contrapporre ad Alemanno. Da anni Zingaretti stava studiando per quel posto da dove contava di spiccare il salto per la guida del Pd. Invece rinunciò a sorpresa accontentandosi della Regione.

«è stata a lungo la compagna di Bruno Tabacci»
La Stampa 21.1.14
La figlia del “re del mattone”
e quei 1200 immobili fantasma Roma, denunciata Angiola Armellini: ha nascosto al Fisco di esserne la proprietaria
di Grazia Longo
qui
http://issuu.com/segnalazioni.box/docs/angiola_armellini

Corriere 21.1.14
Roma sporca, caotica, insicura: la caduta di una capitale senza governo
Ogni 100 abitanti 67 auto, 56 pedoni uccisi l’anno. Un residente produce 660 kg di rifiuti, 113 più di Napoli. Abusi edilizi per 1 su 4. Dipendenti comunali: il doppio della Fiat
di Paolo Conti e Sergio Rizzo
qui
http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/14_gennaio_21/roma-sporca-caotica-insicura-caduta-una-capitale-senza-governo-1e621a4c-826b-11e3-9102-882f8e7f5a8c.shtml

La Stampa 21.1.14
I periti: per lui l’Opg
Ammazzò a picconate.  “Deve uscire dal carcere”

Adam “Mada” Kabobo, il ghanese che lo scorso maggio a Milano ammazzò a piccona- te tre passanti, potrebbe uscire nei prossimi giorni dal carcere di San Vittore per es- sere trasferito in un ospedale psichiatrico giudiziario, ma sempre in regime di custodia cautelare. Questo se lo stabi- lirà il tribunale del Riesame sulla base della perizia, depo- sitata ieri dal medico legale nominato dai giudici, che ha accertato l’incompatibilità delle condizioni di salute mentale dell’immigrato con la detenzione in carcere. Il medico legale Marco Scaglio- ne ha fatto pervenire la sua relazione dopo poco più di una decina di giorni di visite e accertamenti su Kabobo, detenuto a San Vittore dallo scorso 11 maggio quando uc- cise con un piccone Daniele Carella, 21 anni, Alessandro Carolè, 40 anni, e Ermanno Masini, 64 anni. Secondo il medico legale è necessario che l’uomo venga collocato in un opg, dove potrebbe riceve- re cure più adeguate.

Corriere 21.1.14
Riciclaggio, arrestato monsignor Scarano
Sequestrati immobili e conti correnti
Salerno, finte donazioni alla chiesa per far sparire  denaro contante
Ai domiciliari anche un altro sacerdote
di Angela Cappetta
qui

Corriere 21.1.14
Prelati, politici e 007 «Così lavoravo per i servizi segreti»
Un milione di file nel pc del fiscalista dei potenti
Oliverio è finito in carcere per aver compiuto alcune operazioni considerate illecite per conto dell’ordine dei Camilliani
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Faceva affari con alti prelati, con funzionari di Finmeccanica, con politici, con ufficiali della Guardia di Finanza. Ma Paolo Oliverio, 47 anni, il fiscalista finito in carcere per le attività illecite compiute con l’ordine religioso dei Camilliani, faceva affari soprattutto con i servizi segreti. Perché a loro passava informazioni riservate ottenute attraverso la rete dei suoi clienti, comprese quelle su un traffico d’armi che gli fu svelato da una «fonte» interna a Equitalia. Lo racconta lui stesso al pubblico ministero Giuseppe Cascini in un interrogatorio del 20 novembre scorso. Nel computer del suo studio sono stati rintracciati oltre un milione di file . Molti sono contenuti nell’archivio segreto che adesso fa tremare molti potenti. Perché il sospetto è che in quelle schede ci siano soprattutto notizie personali. Proprio su questo si concentrano le verifiche affidate ai finanzieri guidati dal colonnello Cosimo de Gesù. Controlli che riguardano anche i numerosi conti aperti all’estero.
Tra 007 e Finmeccanica
Racconta Oliverio: «Nella mia pen-drive ci sono note riservate dirette all’Aisi. Io ho avuto un rapporto dal 2009 al 2011. In un fascicolo verde ci sono documenti relativi a un traffico d’armi di cui avevo avuto notizia da Alliegro di Equitalia. Tutte le note da me redatte sono state inviate all’Aisi. Il mio rapporto con Lorenzo Borgogni (ex responsabile dei rapporti istituzionali di Finmeccanica) nasce nel 2010 per assisterlo in una pratica di scudo fiscale».
«Borgogni mi disse che aveva una società a Firenze che mi voleva affidare per la parte fiscale. Si chiamava “Vulci”, la trasformammo in “Reb Venture” e divenni amministratore. Io la utilizzavo per le mie esigenze personali, cioè emettevo assegni della società per i miei pagamenti. Nel 2012 Borgogni uscì da Finmeccanica e insieme costituimmo la “System Plus”, società di consulenza che ha stipulato un contratto con la General Construction riferibile ad Alfonso Gallo (uno degli imprenditori coinvolti nell’inchiesta napoletana sulla P4, ndr ). Borgogni e Gallo nel 2013 hanno costituito la società “Poiel” con sede in Roma che svolge attività in campo cinematografico. Io ero coamministratore di questa società insieme con il fratello di Gallo ma ci furono attriti tra i soci e nell’ottobre scorso la società è stata messa in liquidazione».
Durante il 2012 Borgogni mi presentò Giuseppe Ioppolo, ex colonnello della Finanza con legami con la Cia e capo segreteria del senatore Sergio De Gregorio. Mi era stata data in gestione la vendita di un immobile dei Camilliani in viale Bruno Buozzi a Roma e lui mi presentò Ioppolo. Venne a vedere l’immobile con un calabrese. Ioppolo sapeva che avevo in gestione un bar a piazza San Cosimato a Roma. Nel 2011 ho conosciuto l’onorevole Vincenzo Maruccio (il capogruppo Idv alla Regione arrestato per i rimborsi gonfiati, ndr ) perché avevo un contratto di consulenza con una società della Regione. Mi doveva aiutare per ottenere il rinnovo del contratto. Poi mi chiese assistenza per un mutuo e io lo portai alla Banca delle Marche. Maruccio mi presentò l’avvocato Sergio Scicchitano (il legale di Antonio Di Pietro e dell’Italia dei Valori, ndr ) il quale mi incaricò di seguire un’indagine fiscale a suo carico».
Politici e faccendieri
«Conobbi Flavio Carboni negli anni ‘90 in quanto avevo ceduto alla moglie due società e delle automobili che avevo in leasing. Lo rincontrai nel gennaio 2010 tramite il figlio Marco. Mi disse che voleva attivare una società per l’energia eolica. Mi chiese di costituire una società, la Itr, per la gestione del brevetto e dell’affitto. Mi parlò delle sue iniziative nell’eolico, ma io non ho mai avuto contatti con nessuno per questa società. Durante le indagini sulla P3 furono intercettati miei contatti con soggetti calabresi che mi avevano detto che in cambio di un milione di euro avrebbero potuto risolvere i problemi giudiziari di Carboni. Dopo l’arresto di Carboni rimasi ancora qualche mese a collaborare per la società, poi la moglie mi consegnò 96 mila euro per pagare un contenzioso tributario che io non pagai e per questo fui denunciato».
I prelati e i conti esteri
Oliverio parla dei rapporti con i Camilliani e con altri prelati, affari, ma anche favori, compreso quello di evitare i controlli negli aeroporti. «Ho conosciuto padre Renato Salvatore (il superiore generale dell’ordine religioso, ndr ) tramite padre Vincenzo Carucci, ex titolare della parrocchia di piazza Capranica a Roma, che frequentavo. Lo conobbi in occasione di una cena organizzata da padre Carucci dai Camilliani. Nell’agosto fui contattato da padre Renato per una problema relativo a una parrocchiana oggetto di stalking. A padre Carucci avevo detto che ero un ex colonnello della Guardia di Finanza e lavoravo per i servizi segreti. Nell’ottobre 2012 fui nominato procuratore generale della Provincia siculo-napoletana dei Camilliani».
Poi parla di un ufficiale dell’Aise «conosciuto nel 2009 e rincontrato con Ioppolo nel settembre 2012. Nel luglio 2013 ci siamo sentiti in quanto avevo chiesto a Ioppolo di avere assistenza aeroportuale a Roma e a Bari perché dovevo accompagnare il cardinale Amato a una celebrazione a Francavilla. Ci consentì il passaggio al varco di servizio».
Le indagini hanno accertato trasferimenti di denaro dei Camilliani all’estero. Dichiara il fiscalista: «Ho un conto a San Marino presso la Banca Agricola Commerciale intestato a me e uno alla “P.O. srl”. Li ho aperti tra il 2006 e il 2007 per poter scontare assegni postdatati. Ho avuto conti in Svizzera fino al 2004 e uno in Liechtenstein nel 1997 oggetto di indagine sulla vicenda Sme». Anche su questo i finanzieri hanno già avviato nuovi controlli.

il Fatto 21.1.14
Ma che crisi di vocazioni... La Rai è piena di tonache
di Patrizia Simonetti


Un pozzo senza fondo, un buco nero, un tunnel di cui non si scorge la fine, il cilindro di un mago. Non c’è più termine o immagine ormai che possa rendere giustizia alla creatività e alla prolificità della Rai nei confronti delle fiction in tonaca che se digiti su Google “Rai serie religiose” sullo schermo del computer appare la borsa magica di Mary Poppins con l’effige del cavallo di Viale Mazzini. Solo ad aprile avevamo salutato Suor Angela di Che Dio ci aiuti, due stagioni un successo che è già pronta la terza serie, ma nel frattempo come restare senza un suora in TV? Ecco quindi Sorella Virna Lisi alias Suor Germana, eroina in lungo di Madre, aiutami, straziante titolo della “nuova” fiction in 4 puntate di Rai1 prodotta da Endemol e diretta da Gianni Lepre, da venerdì in prima serata sulla rete dei monasteri e dei reality umanitari.
Dopo 30 anni nella missione congolese di Walungu, Suor Germana, che non si occupa di cucina, è ora una fervente e coraggiosa madre superiora di un convento di missionarie, con un passato che include una storia d’amore turbolenta e un fratello ex pugile (Francesco Salvi) coinvolto nella malavita. Quando viene a sapere di un cruento e misterioso attacco in Africa in cui cinque consorelle sono rimaste uccise mentre una sesta risulta dispersa, decide di affiancare nelle indagini il magistrato Lucia Cimeca (Vanessa Gravina). Un po’ Mission un po’ Suor Nancy Pereira, la fondatrice indiana della Banca dei poveri che la Lisi peraltro interpretò nel 2000 come Sister Beth in Un dono semplice di Zaccaro, stesso anno de Le ali della vita su Canale 5 dove fu Sorella Alberta, la direttrice di un collegio femminile che tra un’ora pro nobis e un altro si divertiva a frustare le allieve disobbedienti con il rosario, perché anche le suore devono avere un hobby.
ANCHE SE l’antesignana fu Suor Angelina di Zanna Bianca nel 1973. Insomma, velo e tonaca li porta da tempo con disinvoltura la diva anconetana che nel 1958, mega chignon e perle a gogò, conquistò l’Italia di Carosello con la réclame del Chlorodont dove relegava le donne alla calzetta e definiva cani e gatti “piccoli sfruttatori”, ma era sempre perdonata perché “con quella bocca può dir ciò che vuole”, che se lo ricorda pure D’Alema quando parla di Renzi. A lei dunque il premio alla vocazione a pari merito con Terence Hill. Certo è che dopo giovedì con Don Matteo e venerdì con Suor Germana, sabato lo show di Ranieri ci sembrerà un tuffo nella trasgressione.

Repubblica 21.1.14
“Lobby gay, il Papa vuole chiarezza ma basta denunce anonime: chi sa parli”
Becciu, numero due della segreteria di Stato: le accuse vanno provate


CITTÀ DEL VATICANO — «Ancora una volta si parla dell’esistenza di una “lobby gay” in Vaticano, ma come altre volte è capitato non si fanno né nomi né cognomi. Troppo facile agire in questo modo. Il mio ufficio è aperto. Se Elmar Mäder vuole venire a dire a chi esattamente si riferisce sono qui».
Risponde così, monsignor Angelo Becciu, sostituto della segreteria di Stato vaticana, alle parole pronunciate dall’ex comandante della Guardia svizzera Mäder — 51 anni, ha guidato il mini esercito del Papa dal 2002 al 2008 — , che in un’intervista al settimanale svizzero Schweiz am Sonntag ha dichiarato che esiste in Vaticano una lobby gay talmente potente da essere pericolosa per la sicurezza del Pontefice. Di questa, ha detto, «posso parlare per esperienza personale».
Monsignor Angelo Becciu, come reagisce a questa accusa?
«Da ex guardia svizzera Mäder sa bene che le dicerie, le accuse, per non dire le calunnie vanno sempre circostanziate e provate. Troppo facile parlare in generale, accusare il Vaticano di avere qualcosa che non va al suo interno senza fare nomi. Quando era in servizio, egli aveva dei sospetti? Questi sospetti sono ancora presenti? È questo che va sostenendo? Benissimo, venga qui e ci dica esattamente a chi si riferisce. Siamo disposti ad ascoltarlo e a prendere nota. Papa Francesco per primo vuole chiarezza e verità, e così tutti noi».
Tuttavia, non era stato lo stesso Francesco a parlare dell’esistenza di una lobby gay in Vaticano?
«Lo scorso luglio, sul volo di ritorno da Rio de Janeiro al termine del viaggio in Brasile, il Papa ha avuto l’occasione di spiegarsi in merito. E occorre ritornare a quello che allora aveva dichiarato per capire quale sia il suo punto di vista: “Si scrive tanto della lobby gay — disse — . Io ancora non ho trovato chi mi presenti la carta d’identità in Vaticano con scritto gay. Dicono che ce ne sono. Credo che quando uno si trova con una persona così, deve distinguere il fatto di essere un gay dal fatto di fare una lobby, perché nessuna lobby è buona”. Insomma, c’è chi ha parlato di lobby gay ma nessuno ancora ha capito dove sarebbe questa lobby».
Di lobby gay si dice parlasse la relatio dei tre cardinali incaricati di indagare su Vatileaks?
«Come si possono fare simili affermazioni? Il contenuto dell’indagine lo conosce solo il Papa ed è sotto segreto. Nulla si può dire né sapere».
Vi è mai capitato di dover verificare la veridicità di calunnie su persone al vostro servizio?
«Recentemente due persone in servizio nella Curia sono state oggetto di dicerie. Siccome le dicerie non si fermavano, abbiamo dovuto fare le opportune verifiche. E l’esito di questo lavoro è stato che queste due persone sono state scagionate del tutto. Ciò insegna che occorre fare attenzione prima di lanciare accuse, perché si rischia di calunniare e non c’è peggiore cosa che colpire un innocente con false accuse».
Secondo lei l’ex comandante Elmar Mäder sta soltanto calunniando?
«Voglio solo dire che mi stupisce molto il fatto che proprio ora che viviamo un tempo spirituale bello e importante, e proprio ora che dopo il prezioso lavoro di papa Benedetto XVI anche papa Francesco sta lavorando di buona lena per una Chiesa missionaria e un Vaticano trasparente e pulito, ci sia qualcuno che torni alla ribalta delle cronache con accuse generiche. Questo tempismo mi insospettisce molto. Se l’ex comandante ha parlato in questi termini, la cosa non gli fa onore e offende il Corpo della Guardia svizzera pontificia, di cui è stato guida per alcuni anni».
Al di là della lobby gay e della sua presunta esistenza, il Papa ha avuto comunque parole di apertura verso le persone omosessuali. Cosa pensa in merito?
«Il Papa ci ricorda continuamente l’insegnamento evangelico: rispettare e amare tutti, non giudicare nessuno. Da questo però fargli dire che approva i “matrimoni gay”, come certuni sostengono, significa forzare le sue parole, cosa che lo ferisce profondamente. Il Papa è figlio della Chiesa ed è fedele alla sua dottrina, come egli stesso ebbe a dire».

l’Unità 21.1.14
Europee, Schulz dà il via «Rifarò l’Ue da capo a piedi»
A giorni l’investitura della Spd e il 1° marzo a Roma al Congresso di socialisti e democratici
di Paolo Soldini


Martin Schulz vuole diventare presidente della Commissione europea. Diciamo che si sapeva, perché la sua candidatura è nota da tempo e verrà formalizzata nei prossimi giorni dalla Spd e il 1° marzo nel congresso del partito dei socialisti e democratici europei che è stato convocato a Roma, nonostante qualche dichiarato mal di pancia degli esponenti meno «socialisti» (per così dire) del Pd. Quel che non si sapeva, e che il presidente del Parlamento europeo ha detto in una lunga intervista alla Süddeutsche Zeitung, è perché. Insomma: qual è il suo programma. L’obiettivo è ambizioso: «L’Unione europea deve cambiare del tutto», dice Schulz. Deve essere rinnovata «da capo a piedi» per adeguarsi ai tempi duri presenti e a quelli ancor più duri che l’aspettano, alle prese non solo con una pesantissima sfida economica mondiale, ma anche sotto pressione per quanto riguarda l’ambiente. Dentro l’Eurozona ci sono «estreme diseguaglianze economiche», un tasso di disoccupazione giovanile micidiale e Paesi nei quali la debolezza della crescita sfiora già la deflazione. Secondo il presidente dell’Europarlamento il progetto per uscire da questa crisi deve articolarsi su tre punti.
TRE SFIDE
La prima sfida è rappresentata dalla paura diffusa tra i cittadini che la loro identità nazionale venga sostituita dall’Europa. «Noi dobbiamo dire a queste persone che nessuno vuole portar via la loro identità. Anch’io da giovane pensavo che stavamo facendo gli Stati Uniti d’Europa ammette Schulz ma dopo vent’anni di Parlamento europeo so che gli stati nazionali restano e che “va bene così”». La seconda sfida è la necessità di definire quel che può essere fatto a livello nazionale, regionale e locale meglio che a Bruxelles. «Il mio primo atto, se sarò presidente annuncia il futuro candidato non sarà di chiedere ai commissari se c’è qualcosa di cui ancora non si sono impicciati. Chiederò che cambino proprio il modo di considerare i loro compiti. Oggi come oggi mi pare che nella Commissione Ue ci siano, estremizzando un po’, due scuole di pensiero: quella “che non si dà pace finché non è stato privatizzato l’ultimo cimitero comunale” e quella di chi non smette di agitarsi finché in Europa non si instaura “un ordinamento sepolcrale unitario”». La terza sfida è il corollario della seconda: «agli Stati nazionali vorrei dire: avete fatto l’Europa perché eravate coscienti che ci sono compiti che i singoli stati da soli non possono adempiere. E allora dotate le istituzioni europee della forza e degli strumenti necessari perché possano fare quello per cui sono state create».
Schulz ricorda ai suoi interlocutori che le prossime elezioni europee saranno le prime in cui, dando seguito a una norma del Trattato di Lisbona, verranno indicati dagli elettori i possibili presidenti della Commissione. Si tratta di una novità importantissima. Non è obbligatorio, ma tutte le grandi famiglie politiche europee sembrano orientate a presentare un candidato per la presidenza. Le sinistre lo hanno già fatto, i liberali lo faranno tra qualche settimana, i popolari si sono dati appuntamento all’inizio di marzo e tra i socialisti e democratici pare a questo punto scontato che a correre sarà lui, Martin Schulz. Ma con quali chances? Quanto è conosciuto l’attuale presidente del Parlamento europeo nell’opinione pubblica dell’Unione? «Abbastanza», risponde lui, e non solo in Germania ma anche in altri Paesi. E all’intervistatore che chiede quali risponde «l’Italia, per esempio». Certo una parte di questa notorietà italiana si deve ad una delle peggiori gaffe di Silvio Berlusconi che in piena assemblea a Strasburgo gli diede del kapò, ma, sostiene lui, «sono abbastanza conosciuto anche in Francia e in Spagna». Rispetto ai candidati che potranno mettere in campo le altre famiglie politiche europee è vero che Schulz appare, al momento, quello che ha più chance. I sondaggi dicono che socialisti e popolari combatteranno testa a testa e lui pensa di poter contare «su una maggioranza che mi presenti come candidato alla presidenza della Commissione» e questo, pare di capire, anche nel caso che il partito dei socialisti e democratici non prevalga sui popolari. C’è da ricordare, a questo proposito, che il candidato delle sinistre Alexis Tsipras non ha escluso di appoggiarlo.

Repubblica 21.1.14
La Ue alla prova del voto
di Adriano Prosperi


Le elezioni europee sono imminenti ma sembrano remotissime. Da noi si parla solo delle elezioni italiane e della introvabile formula magica per sostituire l’indecente sistema condannato dalla Cassazione. Ma così il cittadino è autorizzato a pensare che quelle europee non servono a niente. È vero o no? Ci sono due risposte alla domanda, quella della cronaca e quella della storia. La cronaca dice che si procede per forza d’inerzia sull’antico binario dell’uso delle poltrone di Bruxelles come semplice risorsa aggiuntiva o luogo di riposo per politici trombati: sui giornali si legge dell’ipotesi di spostare a Bruxelles il ministro Kyenge (ma perché? Per offrirla ad altri insulti? O per nascondere il fallimento delle buone intenzioni?); e si legge soprattutto che all’Europa mira il pluricondannato Berlusconi come quinta girevole per un rientro in Italia. Ma questa pratica è durata anche troppo a lungo. La scadenza quinquennale che dal 1979 ci porta davanti all’appuntamento non potrebbe essere piuttosto l’occasione per dire davvero per quale Europa si deve votare? Chi ricorda la morte di Enrico Berlinguer sul palco dei suoi appassionati comizi del 1984 aspetta ancora che qualcuno risollevi dalla polvere quella bandiera.
È vero che il sentimento diffuso nell’Italia della crisi è di delusione se non addirittura di rifiuto nei confronti dell’Europa. Nessuna traccia è rimasta dell’entusiasmo con cui fu accolto da noi l’atto dell’ingresso dell’Italia nella pattuglia di testa dell’unità europea. Quali e quanti errori e quali responsabilità abbiano contribuito a cancellare il senso esaltante di quella svolta èla domanda da farci se vogliamo capire perché il cammino successivo è stato piuttosto di allontanamento che di avvicinamento all’obiettivo sognato. E c’è urgente bisogno di una analisi dei fondamenti di questo stato d’animo. Chi ha idee e analisi e non corre dietro a umori e rumori di pancia leghisti dovrebbe cogliere l’occasione di queste elezioni per chiedere il voto su di un programma di cambiamento. Si tratta con ogni evidenza di correggere l’identificazione dell’Europa con l’arcigna idea che ne corre nell’opinione tedesca, anche per impedire alla Germania di portare al disastro europeo per la terza volta in un secolo, come ebbe a dire Joschka Fischer.
Non è certo per caso se l’Europa a gestione tedesca è avvertita come una matrigna, una burbera e avara sorvegliante. Si pensi che la notizia dell’inizio col primo gennaio 2014 della libera circolazione di bulgari e rumeni nei paesi dell’Unione è stata commentata così da un canale televisivo vicino alla Spd: «Chi truffa vola via subito!». È uno dei tanti indizi della diffusione in Germania di uno stato d’animo sospettoso e inclemente: si guarda agli italiani — e non solo a loro — come a una specie umana diversa, inaffidabile, spendacciona, incline alla truffa e alla corruzione, capace solo di spendere male i soldi erogati per sospetta connivenza dal banchiere italiano che governa la banca europea. È un indizio di come stia crescendo di nuovo in Germania quel complesso di responsabilità per un mondo intero da mettere in ordine che ha dato già le prove disastrose a tutti note. Però anche là qualcuno ha tentato di lanciare un progetto di ripresa del cammino verso l’Unione europea: lo hanno fatto gli autorevoli firmatari di un documento pubblicato sullaZeitdel 17 ottobre scorso (Glienicker Gruppe). Vi si leggono precise proposte di riforma del sistema europeo: dalla creazione di uno standard comune per il mercato del lavoro comprensivo di una assicurazione comune contro la disoccupazione a quello del funzionamento del sistema bancario e delle condizioni del credito, dalla creazione di un “esecutivo economico comune”, agile e dotato di mezzi adeguati di intervento nei paesi in crisi, alla formazione di un esercito comune e di una politica estera unitaria. Lo strumento proposto è un nuovo contratto europeo che, partendo dal dato acclarato del fallimento in atto, fissi col consenso di tutti i nuovi patti e le nuove regole mirando alla finale unificazione delle diverse costituzioninazionali. Anche in Italia si sente il bisogno di rimettersi in cammino di nuovo, di rifiutare questa Europa per un’altra e migliore unità europea. E per questo, al di là dei silenzi e delle miserie della cronaca, sarebbe utile rifarsi alla storia: anche perché il nostro continente non ha nessuna ragione naturale o evidenza geografica. La parola di origine greca che lo designa indica una realtà culturale e storica. E fu da queste premesse che nacque nell’800 l’idea dell’Europa dei popoli, una utopia rivoluzionaria che risorse un secolo dopo sulle macerie di un continente due volte distrutto dai demoni dell’altra Europa, quella degli Stati e dei nazionalismi.
Dunque per prepararci alle elezioni converrà rileggere il manifesto di Ventotene per capire come orientarci. Secondo Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi la divisione tra progressisti e reazionari è «tra coloro che concepiscono, come campo centrale della lotta quello antico, cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale, e che faranno, sia pure involontariamente il gioco delle forze reazionarie, lasciando che la lava incandescente delle passioni popolari torni a solidificarsi nel vecchio stampo e che risorgano le vecchie assurdità, e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale». Dove si trova oggi questa linea di divisione nel panorama italiano? Chi può onestamente dire e dimostrare di essere collocato dalla parte dei progressisti?
Di fatto, al di là delle belle parole e degli slogan di rito, il vecchio stampo e le vecchie assurdità occupano tutto l’orizzonte della politica nazionale. Eppure la voce dell’Europa la si è avvertita spesso come l’unica capace di strappare il velo di arretratezza civile che ancora avvolge l’Italia. L’episodio più recente è la cancellazione dell’ultimo tenace simbolo di un modello patriarcale del rapporto genitorifigli, l’eredità del cognome paterno: un dettaglio che non ha più alcun significato, ma che pure ci si sforza di lasciar sopravvivere con le forme ambigue e ingannevoli che la legge in gestazione sta dando alla liberazione da quel feticcio. E non parliamo di tante altre questioni che riguardano i diritti civili, dalla questione della cittadinanza a quella delle unioni matrimoniali tra persone dello stesso sesso.

La Stampa 21.1.14
Ucraina, la guerriglia non si ferma
Feriti 120 poliziotti, 80 in ospedale
Ancora scontri nella notte. Iulia Timoshenko: «Siete eroi, la libertà vale questa lotta». Usa e Ue chiedono di abrogare le leggi “liberticide”. La Russia: «Situazione sfuggita di mano, intollerabile in qualunque Paese Ue»


il Fatto 21.5.14
La rockstar “maledetta” che dice no al Partito
Cui Iian non parteciperà al galà della tv cinese per il capodanno
Il regime comunista aveva censurato la sua canzone su piazza Tienanmen
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Pechino Il re del rock cinese Cui Jian, la cui canzone “Niente in mio nome” fu la colonna sonora della protesta di piazza Tienanmen nel 1989, di cui quest’anno sarà ricordato il 25° anniversario, non apparirà al grande Gala televisivo della Festa di primavera (il 31 gennaio i cinesi entreranno nel nuovo anno, il cui simbolo sarà il cavallo, ndr), un evento seguito da centinaia di milioni di telespettatori (è l’evento televisivo più seguito al mondo, anche se l’audience è in leggero calo: 770 milioni nel 2012, 750 l’anno scorso, ndr).
CUI JIAN era stato inizialmente invitato, in quello che sembrava la fine di un lungo ostracismo da parte della radio e la televisione pubblica. Ma alla fine le esigenze della censura hanno reso impossibile la sua partecipazione. “Cui Jian non può partecipare allo show perché non può cambiare i testi delle sue canzoni”, ha spiegato il suo agente You You in una email al New York Times. Molti si erano chiesti se il rocker, popolarissimo fra i giovani cinesi, avrebbe cantato anche “Niente in mio nome”.
Dopo il successo della canzone per Cui Jian si aprirono le strade del successo. Si dice abbia venduto più di 10 milioni di dischi, ma non è stato un percorso facile. Nel 1990 si presentò sul palco durante i concerti con una benda rossa sugli occhi. “Non ho mai pensato che mi potessero arrestare, perché anche tra i funzionari, ho sempre creduto ci fosse qualcuno capace di apprezzare la buona musica”. Nel 1990 il suo tour Rock’n Roll sulla via della nuova Lunga marcia – dal nome del suo primo vero album uscito nel 1987 – venne interrotto. La riabilitazione arriverà oltre un decennio dopo, nel 2003: a Pechino arrivano i Rolling Stones. E Cui Jian avrebbe dovuto aprire il concerto, che non si svolse per via dell’epidemia di Sars.
Il Galà della festa di Primavera è un programma classico della tv pubblica di Pechino che va in onda alla vigilia delle più importanti vacanze del calendario cinese. Per quanto si tratti di intrattenimento leggero, il programma viene esaminato con grande attenzione dalle autorità.
In alcuni casi il messaggio politico è così sfacciato da ottenere l’effetto opposto: nel 2010 la canzone “Le politiche del partito sono buone”, eseguita da un esponente della minoranza etnica uigura (che sta subendo una dura repressione nello Xiniang, territorio di confine con le ex Repubbliche asiatiche sovietiche a maggioranza musulmana, ndr), fu a lungo sbeffeggiata su Internet.
Anche per questo, malgrado vi sia sempre un’audience nell’ordine di centinaia di milioni di spettatori, il pubblico giovane comincia a stancarsi. Cui Jui era un tentativo di svecchiare lo show, ma evidentemente non al prezzo di allentare la censura. Nel 2010 Liu Qian, un illusionista di Taiwan inviato al Galà, raccontò poi che l'esame dei censori faceva “veramente paura”.

il Sole 21.1.14
Rallenta la crescita cinese: +7,7%
Congiuntura. Incremento a due cifre lontano, segnali positivi dal riequilibrio del sistema economico
Ai minimi da 22 anni in Cina la crescita dei consumi di petrolio
Il quarto trimestre conferma la frenata 2013, ma Pechino è ottimista
di Rita Fatiguso


PECHINO Al cospetto di quel 7,7% di crescita del Pil nel 2013, Ma Jian Tang, direttore del National Bureau of Statistics cinese, si sforza di vedere mezzo pieno il bicchiere dell'economia cinese. «Questo è il consuntivo di un anno difficile, specie nella prima parte - dice l'uomo dei numeri di Pechino durante la conferenza stampa più importante convocata nello State Council Information Office -. Poi abbiamo ripreso la nostra strada nella seconda metà». Come dire, alla fine, ce l'abbiamo fatta.
I tempi d'oro della crescita a due cifre sono lontani, la Cina pragmaticamente incassa le positività della congiuntura senza dimenticare che i suoi veri problemi si chiamano deficit degli enti locali, costi stellari delle abitazioni, overcapacity, guerra dei redditi tra città e immigrati dalle campagne. Anche se, paradossalmente, le capacità di reddito di abitanti delle città e di quelli delle campagne messe a confronto nell'anno che si è appena chiuso rivelano, a sorpresa, che i redditi di questi ultimi hanno guadagnato potere di acquisto rispetto a quello degli abitanti delle città.
Secondo Ma Jian Tang è tra le pieghe delle cifre fornite dal National Bureau che si possono scoprire segnali di quella svolta tanto auspicata anche dall'ultimo Plenum di novembre nella struttura del sistema industriale. Intanto il valore aggiunto del settore secondario è stato del 7,8 rispetto al 4,0 del settore primario e per il terziario il balzo è stato dell'8,3 per cento. La produzione industriale è al 9,7% ma il tasso di crescita delle aree centrali è stato rispettivamente per le aree a Est dell'8,9%, per quelle centrali e a Ovest del 10,7 e dell'11 per cento. Questo implica che la redistribuzione della ricchezza a livello territoriale è innescata.
La crescita dei prezzi al consumo è stata contenuta in quel 2,6% del 2013 rispetto al 2012, con un aumento più alto nelle aree urbane del 2,8 per cento. La crescita media dei salari è stata del 16,8%, un fenomeno piuttosto preoccupante per l'economia cinese, con i guadagni mensili delle aree rurali cresciuti del 13,9 per cento.
Anche il circolante - precisa il documento del National Bureau - è stato tenuto sotto controllo, con nuovi prestiti a 8.890 miliardi di yuan (+687,9% rispetto al 2012).
Ci sono stati momenti difficili nella quantificazione dei dati relativi all'import-export, di competenza delle dogane, nemmeno le autorità negano che ci possano essere state manovre fraudolente sul volume di inflow. «Abbiamo coinvolto, per essere sicuri che i movimenti delle merci siano reali e non manipolati, nelle rilevazioni online 900mila aziende e adottato il sistema PDI per monitorare la reale esistenza delle società - dice Ma -. Sulle case le ultime rivelazioni dicono che i prezzi nelle città più grandi viaggiano a doppia cifra, ma stanno crescendo meno del previsto, ma sulle grandi città c'è poco da fare: un mercato strutturalmente rigido, l'arrivo in città di persone allettate dal benessere, i costi alti della terra: adesso è in quarta fascia che bisogna andare a cercare l'abitazione giusta».
Questo tener duro della Cina in condizioni di temperatura e pressione globali tutt'altro che buone fa sperare per l'anno in corso, l'anno delle riforme decise dal Terzo Plenum. In conclusione: «Ci siamo salvati perché abbiamo cercato di ottenere una crescita stabile, abbiamo mantenuto una politica monetaria prudente e non ci siamo indebitati, pur nel marasma generale».
Ma il resto del mondo dovrà aspettare il 5 marzo, adesso, per sapere quali saranno le linee guida che lo State Council darà all'economia per il 2014 e quali le prospettive di crescita attese.

Il Sole 21.1.14
La Borsa boccia la Peugeot cinese
di Marco Moussanet


Il titolo cede l'11% sull'operazione da 3 miliardi che diluisce la quota della famiglia al 14%, lo stesso livello dei nuovi soci: Stato e Dongfeng
Preoccupano i futuri assetti della governance e la forte flessione delle vendite (-7%) in Europa

PARIGI Il mercato, che ancora non aveva informazioni ufficiali, ha reagito malissimo al clima di incertezza che continua a pesare sul futuro del gruppo Psa (Peugeot-Citroen) e alle indiscrezioni sulle modalità dell'aumento di capitale decise dal cda della società durante la lunga riunione di domenica pomeriggio. Il titolo è stato punito (-11,1% a 10,2 euro) in una Borsa in sostanziale pareggio.
Come confermato dalla società solo ieri sera l'operazione - da circa 3 miliardi, a un prezzo che sarebbe stato previsto in circa 7,5 euro - avverrà in due tappe. La prima sarà riservata al partner cinese Dongfeng Motor. Il quale parteciperebbe anche alla seconda tranche di aumento, utilizzando appositi diritti preferenziali di sottoscrizione. Lo Stato francese, stando alla nota di Psa, «potrebbe accompagnare questi due aumenti di capitale alle stesse condizioni di Dongfeng». Buoni di sottoscrizione «potrebbero infine essere attribuiti gratuitamente agli attuali azionisti, a un prezzo di esercizio pari a quello dell'aumento riservato». In sostanza Dongfeng e Stato sborserebbero circa 750 milioni ciascuno per avere entrambi il 14% del capitale. La stessa quota che resterebbe in mano alla famiglia, la quale parteciperebbe all'aumento con circa 100 milioni.
Si tratta di una soluzione di compromesso. Che consente il salvataggio della società, con l'ingresso del secondo gruppo automobilistico cinese al quale Psa è già legata da una joint venture alla quale fanno capo tre impianti (e un quarto in arrivo). Che, almeno per il momento, evita il passaggio in mani cinesi del gruppo. Che, infine, permette alla famiglia (la quale detiene oggi il 25,5% del capitale e il 38,1% dei diritti di voto) di non essere diluita al punto tale da essere marginalizzata.
Una soluzione con tre soci alla pari che pone evidenti problemi di governance. A cercare di gestirli sarà probabilmente Louis Gallois, l'ex presidente di Eads, che siede nel consiglio in rappresentanza dello Stato da quando Parigi fornì una garanzia da 7 miliardi alla banca captive del gruppo.
Dovrebbe essere lui a sostituire Thierry Peugeot alla presidenza del cda, posto che la famiglia perde per la prima volta. Mentre la guida operativa dovrebbe passare da Philippe Varin al neo arrivato Carlos Tavares fin dal 19 febbraio. Data della presentazione dei conti 2013 e del previsto annuncio ufficiale di tutti i dettagli concernenti l'aumento di capitale.
Bisognerà però capire se questo marchingegno funzionerà. Molto dipende da quello che hanno concordato, e stanno ancora concordando, Dongfeng - interessata al trasferimento di tecnologie, e infatti si parla di un centro ricerche in Cina, oltre allo sviluppo congiunto del sistema "ibrido ad aria" - e lo Stato francese, già presente con il 15% in Renault e deciso, come ha spiegato lo stesso presidente François Hollande, a difendere la nazionalità del "suo" costruttore. Una trattativa che sta gestendo David Azéma, il presidente dell'Ape, l'agenzia che detiene le partecipazioni pubbliche.
Sempre ieri, Psa ha diffuso i dati relativi alle vendite 2013: 2,82 milioni di vetture, in flessione dello 0,1% rispetto al 2012 (al netto della scomparsa, non imputabile al gruppo, del mercato iraniano, cruciale per le vendite di auto in kit). A preoccupare è l'andamento in Europa, dove Psa realizza il 58% delle vendite: il calo è stato del 7,3% rispetto a una flessione generale dell'1,6%, con una quota di mercato scesa dal 12,7% all'11,9% quando all'inizio dell'anno scorso il target era stato fissato al 13 per cento. Male anche la Russia, mentre le vendite sono andate bene in America Latina e soprattutto in Cina, dove Psa ha registrato un aumento del 26,1 per cento.

Il Sole 21.1.14
La morsa di Pechino sull'Europa
La strategia. I due «motori»: fame di tecnologia e produzione in eccesso
di Rita Fatiguso


PECHINO Perfino i cinesi, seguendo il deal tra Dongfeng e Psa Peugeot Citroën, si chiedono chi gliel'avrà mai fatto fare, ai costruttori di auto di medio calibro di Wuhan, nella provincia dell'Hubei, di cacciarsi in un affare tutt'altro che profittevole, visto che a metà del 2013 la casa francese perdeva ben 510 milioni di euro. E poi un negoziato melmoso, complicato da ingombranti partner preesistenti del calibro di General Motors, zavorrato dal peso specifico del governo locale cinese da una parte e dalla mano pubblica francese dall'altra. Ha prevalso, dunque, la conclamata predilezione per le auto francesi di Dongfeng, un'attrazione che rasenta l'infedeltà dato che, mentre trattava su PSA Peugeot Citroën, a metà dicembre siglava con Renault una joint venture da 1,28 miliardi di dollari.
Certo è che a Wuhan in questi mesi non hanno mai mollato l'osso, anzi dal quartier generale avevano annunciato che la vicenda si sarebbe chiusa agli inizi del nuovo anno. E così è stato. E non è detto che, alla fine, non abbiano ragione loro nell'entrare armi e bagagli nel capitale di Peugeot Citroën: in fondo la joint venture è datata 1992, l'accoppiata è di lungo corso, Psa e Dongfeng hanno venduto 550mila auto, con un aumento del 25 per cento. Non sarà solo un bagno di sangue, ma la premessa di un successo che verrà e, magari, non solo in terra cinese.
D'altronde la concorrenza fra le case automobilistiche cinesi è feroce, così come la corsa ad accaparrarsi i partner stranieri: Dongfeng è alleato di Nissan (900mila auto nel 2013) e Honda, mentre Guangzhou Autonomotive (Gac) ha scelto Toyota, e il loro expertise tecnologico. Fa gola, infatti, il centro ricerche Psa di Shanghai creato sei anni fa. Non è l'eccellenza tedesca, ma per i cinesi è un ottimo punto di partenza per migliorare l'offerta di nuovi modelli.
Le auto cinesi sono affamate di tecnologia, ma anche ammalate di sovracapacità, producono troppo e non sapendo come smaltire in casa questo parco macchine guardano sempre più ai mercati stranieri, anche se dal buco della serratura. Come ricorda la vicenda della Chery di Great Wall che imitava la panda di Fiat e che rimase bloccata da un provvedimento del tribunale, l'Europa è terra ostile per le aziende cinesi produttrici di auto. Caratteristiche tecniche e di sicurezza, collaudi e quant'altro non permettono ai cinesi di farvi capolino.
Un milione di auto sono state vendute all'estero, nei cosiddetti mercati emergenti. Non una di più. Il mercato europeo è solo un desiderio per le case cinesi.
Adesso un produttore cinese come Dongfeng mette un grosso piede in Europa. Con questo piede cinese ben piantato nel cuore dell'Europa, far finta di niente sarà praticamente impossibile.

Repubblica 21.1.14
La Costituzione tunisina è rivoluzionaria
di Tahar Ben Jelloun


In Tunisia l’albero della primavera araba ha dato ora i suoi primi frutti. Per la prima volta un Paese arabo e musulmano ha iscritto nella sua nuova Costituzione l’uguaglianza tra uomo e donna («le cittadine e i cittadini sono uguali davanti alla legge, senza discriminazioni») ed è anche riuscito a mettere da parte lashariainstaurando la libertà di coscienza («lo Stato è custode della religione, garante della libertà di coscienza e di fede e del libero esercizio del culto»). Inoltre lo Stato garantisce la libertà d’espressione e vieta la tortura fisica e morale («la tortura è un crimine imprescrittibile»).
Non solo: grazie all’impegno della società civile, e in particolare alle lotte delle donne, la Tunisia è riuscita a rispedire nelle moschee il partito islamista Ennahda, aprendo al tempo stesso il Paese alla modernità, tragicamente assente nel resto del mondo arabo. Uguaglianza di diritti significa che non vi potrà più essere poligamia né ripudio; ma anche che l’eredità non sarà più regolata dalle leggi dell’Islam, che assegnano sistematicamente alle donne una quota dimezzata rispetto a quella degli eredi maschi (Sura IV, versetto 12: «In quanto ai vostri figli, Dio vi ordina di attribuire al maschio una parte uguale a quella di due figlie femmine»).
L’uguaglianza è altresì un passo verso la parità in materia di rappresentanza e di remunerazione. In Europa gli uomini sono tuttora meglio retribuiti delle donne per lo stesso incarico. Sarà forse proprio la Tunisia a dare l’esempio con un cambio radicale, superando pregiudizi e arcaismi.
Ma è precisamente l’uguaglianza di diritti tra uomo e donna che gli islamisti non possono accettare. Di fatto, dietro l’uso politico della religione si nasconde la paura della donna, della sua sessualità liberata; la paura da parte degli uomini di perdere la supremazia codificata da vari versetti del Corano. L’ossessione dell’integralismo religioso è il sesso. Perciò gli uomini cercano di imporre il velo alle donne — mogli, sorelle o madri che siano. Vorrebbero nasconderle, renderle invisibili. Uccidere il desiderio — dato che secondo gli integralisti tutti i problemi della società nascono dalla libertà delle donne. E citano ad esempio l’Occidente, dove la liberalizzazione dei costumi avrebbe provocato la distruzione della cellula famigliare.
La lotta delle tunisine per la liberazione dell’uomo e della donna non data da ieri. Va riconosciuto che fin dagli anni 1960 il presidente Habib Bourguiba (1903 — 2000) lanciò un programma di liberazione della società tunisina, dopo aver dato alla Tunisia il suo primo codice della famiglia, il più progressista del mondo arabo. Il «codice di statuto personale», promulgato il 13 agosto 1956, ha costituito un passo essenziale sulla via della modernizzazione, seguito da un tentativo di laicizzare la società. Bourguiba ebbe il coraggio di presentarsi in tv in un giorno di digiuno del Ramadan con un bicchiere di succo d’arancia per dichiarare: «La Tunisia sta lottando per il proprio sviluppo economico, ma il Ramadan ritarda questa lotta. Quando si è in guerra, ai soldati è concesso di mangiare e bere. Consideriamo che siamo in guerra per il nostro sviluppo». Chi non voleva rinunciare alle proprie convinzioni e pratiche religiose era libero di seguirle; ma gli altri erano altrettanto liberi di mangiare e bere in pubblico. Fu una decisione storica: un gesto che oggi provocherebbe manifestazioni violente. La religione ha preso un posto troppo importante nella vita delle persone, a causa delle frustrazioni e delle delusioni della politica. Perciò la nuova Costituzione tunisina segna una data importante nella storia di una primavera che rischiava di trasformarsi in un inverno da incubo. Peraltro tutto è ancora in gioco. Questo progresso, questa scelta di società dovrà trovare conferma nelle urne alle elezioni legislative e presidenziali. La partita non è ancora vinta. Le forze regressive non hanno abbassato le armi, i salafisti non sono scomparsi dal paesaggio tunisino; di tanto in tanto si manifestano attaccando le forze della polizia o i cittadini che vivono liberamente. Il governo ha classificato il loro movimento, Ansar al Sharia (Difensori della sharia), guidato da un veterano della guerra afgana, il tunisino Abou Iyade, come «un’organizzazione terroristica».
Se la Tunisia riuscirà a consolidare questo cambiamento della propria Costituzione e a metterlo in pratica, sarà tutto il mondo arabo a entrare nel mirino: soprattutto la vicina Algeria, le cui leggi sulla famiglia sono le più retrograde del Maghreb; ma anche il Marocco, che pur avendo cercato di modificare il proprio «codice di statuto personale» non ha osato affrontare la questione dell’eredità.
I Paesi del Golfo, e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita seguono il rigido rito wahabita, dogmatico e retrogrado, che data dal XVIII secolo. Qui, dove tuttora si applica lasharia, le donne manifestano per reclamare il diritto di guidare un’autovettura. L’ipocrisia occidentale, desiderosa di succulenti contratti, finge di non sapere che questi Paesi sono campioni di arretratezza. Nel prossimo futuro vedremo come reagiranno alla straordinaria svolta storica di una nazione che ha scelto la via della laicità. Non il rifiuto della religione, ma la separazione tra la sfera pubblica e quella privata, con la libertà di credere o di non credere. La nuova Costituzione ha altresì vietato il riferimento all’apostasia. In passato l’Egitto, ad esempio, condannò a morte alcuni suoi cittadini accusati di una lettura non ortodossa del Corano e giudicati colpevoli di apostasia: dal punto di vista islamico, un crimine assoluto.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

l’Unità 21.1.14
Addio Abbado, genio e maestro
Aveva 80 anni: un musicista colossale in un Paese che era troppo piccolo per lui
Una carriera strepitosa pari soltanto a quella di Toscanini
di Giordano Montecchi


Adesso il difficile sarà sottrarlo alla retorica dell’agiografia senza ritegno di un’epoca come la nostra che costruisce le proprie fortune (ma anche le proprie sciagure) sulla celebrità e sulla mitografia mediatica. Sarà tanto più difficile perché Claudio Abbado spentosi ieri mattina, ottantenne, è stato veramente grande. Un grande, grandissimo musicista in un Paese che era troppo piccolo per lui. Perché Abbado era un «musicista italiano» con tutto ciò che questo implica, un «tutto» che non si riesce a dire in poche righe senza cadere nei soliti slogan. Ma davanti a lui, ambasciatore di quel binomio «Musica e Italia» che ovunque nel mondo, tranne che da noi, ha ancora un enorme valore, tutti si levavano in piedi, ossia si inchinavano dinanzi all’arte di un interprete che, senza troppe remore né giri di parole, ci sentiamo di definire il più grande direttore d’orchestra italiano insieme a Toscanini. Ambedue accomunati da un curioso destino: essere entrambi nominati senatori a vita della Repubblica, ma anche l’aver deciso entrambi, pur essendo cittadini onorari del mondo, di ritornare alla fine in Italia, obbedendo alla comune aspirazione di contribuire a risollevarne le sorti musicali: il primo dedicandosi al rinato Teatro alla Scala, il secondo cercando di far attecchire anche nella penisola l’idea che i giovani musicisti sono una risorsa di immenso valore, un investimento sicuro per il futuro della società. Comune a entrambi anche una radicata etica civile e una forte passione politica, la stessa che spinse Toscanini a rifiutare la nomina a senatore a vita, poiché riteneva che la Repubblica, pur nata dalla Resistenza, non avesse reciso con sufficiente nettezza i legami col vecchio regime. Ma musicalmente Toscanini e Abbado non avrebbero potuto essere più diversi.
La scomparsa di Abbado ci riporta alla mente l’anno appena concluso, quel 2013 che ha visto un vero ingorgo di anniversari musicali, fra i quali quelli di altri due grandi italiani: Giuseppe Verdi e Luciano Berio. Tre grandi figure che disegnano una sorta di triangolo equilatero: tre vertici inevitabilmente comunicanti fra loro, ma ugualmente distanti, cioè diversi. Diversità: un segno di ricchezza, se non ci fossimo così immiseriti culturalmente in anni recenti. Abbado l’italiano mitteleuropeo, Berio l’italiano americano, Verdi l’italiano e basta (pur con orecchie apertissime). Entrambi, Abbado e Berio hanno avuto l’America come generosa levatrice nella prima fase della loro carriera. Ed entrambi hanno avuto la passione delle sfide impossibili. Di solito vincendole. Ma le loro affinità si fermano qui, a parte uno straordinario comune amico, Renzo Piano, l’architetto dell’utopia musicale.
Milanese, figlio di una delle grandi famiglie musicali d’Italia, Claudio Abbado studia a Vienna con Hans Swarowski, assimila la lezione di Bruno Walter, Scherchen e von Karajan, ma è a Tanglewood con la vittoria al concorso Koussevitzky, e poi a New York, con il premio Mitropoulos nel 1963, che la sua carriera prende il volo sul podio della New York Philharmonic. L’anno fatidico è il 1965. Karajan lo chiama a Salisburgo e gli apre poi la strada per Vienna. Nello stesso anno Abbado sale sul palcoscenico maggiore del Teatro alla Scala. Ma non c’è Verdi sui leggii, né qualche altro maestro dell’opera nazionale. Nel luglio 1965 gli applausi della platea scali-
gera vanno a quel trentaduenne meneghino che inonda la sala del Piermarini con la Seconda Sinfonia di Gustav Mahler, in anni in cui, per parecchi, quel nome suonava inquietante o era poco più che un Carneade.
Il primo sigillo di Abbado alla Scala, di cui sarà direttore musicale dal 1969 al 1986, reca dunque l’impronta di Mahler, e non si resiste alla tentazione di leggere in questa circostanza il segno di una personalità musicale non omologabile alla tradizione nostrana. Ma Scala uguale Verdi. Abbado costituisce senza dubbio un capitolo decisivo della revisione interpretativa del nostro maggior operista. Più che darlo in pasto ai concittadini o ai connazionali, all’uso italiano, Abbado è soprattutto quello che porta Verdi all’estero, che svela un diverso Verdi. Don Carlos innanzitutto, a Londra, poi a New York per il suo debutto al Metropolitan. Un Verdi che discograficamente, a parte Macbeth, saltati a piè pari i titoli più popolari, si limita all’ultimo periodo: Un ballo in maschera Don Carlos, Aida, Simon Boccanegra, Falstaff e Messa da Requiem.
Dire della discografia di Abbado, come per Karajan, Bernstein, Solti e qualche altro, è affondare in un elenco dalla vastità inaffrontabile. Dirne poi i capisaldi è una sfida, nonché un terreno di interminabili discussioni. Il primo gigantesco pilastro è Beethoven, con tre celebri integrali sinfoniche. Ma forse, e senza giocare con le parole, si potrebbe dire che il cuore della discografia e dell’arte interpretativa di Abbado è rappresentato dalla lettera M: Mahler ovviamente, ma ancor più, forse, uno sfolgorante Mozart teatrale e sinfonico, e un altrettanto immenso Musorgskij. E poi Berg, col diamante di un Wozzeck ineguagliato. Ma anche Rossini, lui pure altrettanto ineguagliato. Da buon mahleriano, nell’orizzonte di Abbado manca invece quasi completamente Puccini, mentre si fa rimpiangere l’esigua presenza di Haydn.
Com’è noto il vertice della fama internazionale di Abbado ha coinciso coi quindici anni trascorsi a Vienna e a Berlino, alla guida dei Wiener e in seguito dei Berliner Philharmoniker. Ma per uno che ha sempre avuto una spiccata idiosincrasia per il divismo e ha radicata in sé un’idea della musica come esperienza comunitaria e strumento di emancipazione e di progresso, c’erano altre sfide ancor più impegnative e dense di incognite. È l’Abbado fondatore di nuove orchestre, per lo più giovanili: nel ’78 la European Union Youth Orchestra, nell’81 la Chamber Orchestra of Europe, poi la Gustav Mahler Jugendorchester (1986), quindi la Mahler Chamber Orchestra (1997), e infine, nel 2004, l’Orchestra Mozart con sede a Bologna. È qui infatti che, dopo un terribile calvario, Abbado decide di stabilirsi, tornato in salute e, sul podio, fresco e limpido come non mai.
Mahler e infine Mozart come testimonial di una sfida o di un’utopia: un’orchestra di rinomanza internazionale con base in una piccola città e una ricca fondazione che la sostiene. Ma che oggi resta paurosamente orfana ed esposta alle bufere di una sorte che da queste parti non guarda in faccia a nessuno.
Da sempre Abbado, inutile tacerlo, è stato sinonimo di progetti sontuosi non tanto nell’involucro, come speso succede, ma nella sostanza, e cioè terribilmente esigenti in termini di qualità e di costi. In molti dei Paesi europei nei quali Abbado ha vissuto e lavorato pensare in questi termini è quasi ordinaria amministrazione. Ma in Italia no. Per questo non è una frase fatta dire che l’Italia era ed è troppo piccola per Abbado che, implicitamente, nel dimostrare quella sua olimpica indifferenza per le questioni finanziarie, forse in realtà schiaffeggiava una mediocrità e un’incultura per lui intollerabili, rivendicando la dignità dell’arte con una nonchalance tanto orgogliosa, quanto preoccupante per i suoi ospiti. E non sappiamo, infine, in quanti abbiano colto la sottile umiliazione, per noi tutti, racchiusa nel voler trapiantare in Italia il metodo Abreu, quella miracolosa iniziativa che è riuscita a trasformare il Venezuela in una fucina brulicante di giovani musicisti entusiasti, strappati a un’esistenza di degrado culturale e umano. Adottare il modello venezuelano per vedere se finalmente, grazie ai giovani, si riesce a far partire il volano di una rinascita musicale italiana. Non è certo soltanto questo il testamento di Abbado, che racchiude ben altre ricchezze. Però pensiamoci, nel dire addio al più grande direttore d’orchestra italiano del secondo dopoguerra.

l’Unità 21.1.14
La passione civile come bussola tra le crisi del 900
Dalla Scala contestata agli anni di piombo fino a Berlino mentre crollava il Muro:
senatore a vita non si fece mai usare dalla politica che usò per i suoi progetti
di Luca Del Fra


La commozione che attraversa il mondo musicale e culturale tutto per la scomparsa di Claudio Abbado, pone una domanda: nell’epoca della riproducibilità dell’arte, che al centro della scena all’artista creatore ha sostituito l’artista interprete, quale è l’eredità che lascia Abbado?
Nel caso di un creatore, un compositore per esempio, sarebbero ovviamente le sue partiture, ma nel caso di un musicista direttore d’orchestra la cosa non è così semplice.
Cosa accadrà delle orchestre fondate da Abbado è difficile a dirsi, come delle sue tante meravigliose incisioni discografiche. I connaisseurs sanno bene che nella musica classica un concerto è irriproducibile, e i dischi prima o poi finiscono per sbiadire nello scaffale degli sconti. Tuttavia c’è forse qualcosa di più prezioso che Abbado ci lascia, da uomo di sinistra che ha attraversato la crisi di idee e ideali della fine del Novecento.
Torniamo per un attimo al 7 dicembre 1968: Abbado inaugura la sua prima stagione come direttore musicale della Scala. Fuori Mario Capanna e i contestatori riempiono di uova marce la bella gente impellicciata che lui delizierà di lì a poco con Don Carlo di Verdi.
Di fronte a questa ennesima manifestazione delle profonde fratture che allora attraversavano la società italiana, Abbado con la collaborazione di sovrintendenti del calibro di Paolo Grassi e Carlo Maria Badini, fa concerti nelle fabbriche, apre le prove generali agli operai e agli studenti, riserva una quota di posti del loggione ai meno abbienti.
Esattamente 21 anni dopo, l’8 ottobre del 1989 Abbado viene eletto direttore musicale dei Berliner Philharmoniker: il suo contratto inizia circa 40 giorni dopo. Quando arriva la polvere dei calcinacci del muro che divideva la capitale tedesca non si è ancora del tutto depositata e la città è attraversata da una scossa elettrica ad alta tensione. Abbado inizia subito a fare audizioni con i musicisti di Berlino e della Germania Est e li porta a esibirsi con lui alla Philharmonie. La riunione di due città e di due Paesi avviene tra leggii e spartiti.
Il suo rapporto con la politica non è sempre stato lineare, probabilmente per il timore di essere usato. Non di meno la politica la ha certo usata per progetti, talvolta molto riusciti, come nei due casi citati, altre volte meno: ma la perfezione è solo degli eterni.
Lontano dal magnificare i profondi e fantomatici significati della musica, Abbado sapeva troppo bene che quella Sinfonia n. 9 di Beethoven, di cui un tema dell’ultimo movimento è oggi l’inno dell’Unione Europea, era amatissima dai peggiori gerarchi nazisti.
L’arte dei suoni dunque non come astrazione idealistica, ma più prosaicamente come prassi: di qui la predilezione per quel «far musica insieme», anche con orchestre smisurate che si ammorbidivano in esecuzioni dal gusto cameristico, oppure con le compagini giovanili.
Un senso civile della musica da ritrovare collettivamente, anche con il pubblico: non è importante eseguire Beethoven, Verdi, Mahler, Rossini o Berg, ma come e perché li si esegue.

l’Unità 21.1.14
Da Rossini fino a Berio
Una bacchetta magica e curiosa
Una vocazione ad ampliare il repertorio tradizionale tirando fuori dal cappello opere dimenticate e un notevole interesse per i compositori moderni
di Paolo Petazzi


In Claudio Abbado inquietudine, curiosità, spirito di ricerca si riflettevano anche nella vocazione ad ampliare i limiti del repertorio tradizionale, a scoprire musiche nuove o ingiustamente dimenticate, a mettere in discussione luoghi comuni su capolavori famosi. Nel 1968 fece epoca l’interpretazione di un’opera famosissima come Il barbiere di Siviglia di Rossini riletta attraverso una edizione critica che liberava la partitura dalle pesanti incrostazioni di una lunga tradizione. La tagliente nitidezza del Rossini di Abbado nel 1968 a Salisburgo e subito dopo alla Scala fu una rivelazione. E fu lui a dirigere nel 1984 al Festival di
Pesaro lo spettacolo che segnò la rinascita del ritrovato Viaggio a Reims, una cantata scenica celebrativa per l'incoronazione di Carlo X in cui proprio l’esilità del pretesto drammaturgico diventa per Rossini l’occasione per una prodigiosa serie di invenzioni. Il trionfale successo fu dovuto anche ad una eccellente compagnia di canto, alla geniale regia di Luca Ronconi, alle scene di Gae Aulenti: una delle molte collaborazioni esemplari che possono essere ricordate nell’attività di Abbado, sempre attento al gioco di squadra con interpreti, regista e scenografo. Anche grazie alla sua collaborazione con Giorgio Strehler gli allestimenti scaligeri del Macbeth e del Simon Boccanegra hanno segnato date decisive nella storia della fortuna di questi capolavori, all’epoca ben noti, ma non ancora unanimemente riconosciuti quanto oggi.
Con registi come Ljubimov, Tarkovskij e Wernicke Abbado diede un contributo decisivo alla diffusione del Boris Godunov di Musorgskij nella partitura originale del 1874 e non nella rielaborazione di Rimskij-Korsakov, per un centinaio d’anni molto più eseguita. Pare incredibile che ci sia voluto un secolo; ma tra i grandi direttori di fama internazionale Abbado fu il primo che volle cimentarsi con l’originale (alla Scala nel 1979 e nel 1981, poi al Covent Garden nel 1983, infine a Vienna e a Salisburgo), facendo comprendere quanto i caratteri scabri, spogli, aspri dell'orchestra di Musorgskij siano frutto di una scelta consapevole, e abbiano ben altro significato degli splendori dell’orchestrazione di Rimskij.
Ad Abbado si deve la rivelazione (al Festival di Vienna 1988) dell’eccezionale ricchezza del Fierrabras, l’ultima e forse la più importante, certamente la più trascurata, tra le opere teatrali di Schubert, dove pose in luce fra l’altro una continuità di tensione insospettata, al di là dei limiti dell’impostazione drammaturgica del libretto: una lezione determinante.
Abbado rivendicava spesso la necessità di una apertura senza preclusioni nei confronti della musica di oggi. Nel 1965 diresse a Milano (nella Piccola Scala oggi distrutta) la seconda opera di Giacomo Manzoni, Atomtod. Di Luigi Nono, cui fu legato da grande amicizia, diresse le prime di Al gran sole carico d'amore (Milano 1975) e Prometeo (Venezia 1984), e del pezzo scritto per lui e per Maurizio Pollini, Como una ola de fuerza y luz (1972). Fra gli autori del suo repertorio c’erano Boulez, Stockhausen, Berio, Manzoni, Ligeti, Xenakis e molti altri, anche delle giovani generazioni. Quando, dopo aver lasciato la Scala nel 1986, era divenuto direttore musicale della Staatsoper di Vienna, il sindaco Zilk creò per lui nel 1987 la carica di «direttore musicale generale» della città per la realizzazione di progetti speciali indipendenti dall’Opera. Nel breve periodo di questo incarico Abbado lasciò un segno forte nella vita musicale viennese promuovendo nel 1988 la nascita di «Wien modern», cioè coinvolgendo tutte le istituzioni musicali della città nella creazione del primo festival viennese di musica contemporanea. Nello stesso contesto creò l’Orchestra giovanile Gustav Mahler.
Nel nome di Mahler si può concludere ricordando che non solo in veste di direttore d’orchestra Abbado diede un contributo decisivo alla sua diffusione in Italia. La grandezza di Abbado interprete mahleriano è universalmente riconosciuta; ma non tutti sanno che fu lui il primo a organizzare in Italia il ciclo di tutte le sinfonie, con direttori diversi, in tre stagioni sinfoniche alla Scala tra il 1969 e il 1971.

l’Unità 21.1.14
Un rivoluzionario sul podio che amava i giovani
Averlo come maestro è stata un’esperienza rigorosa ed esaltante. Dirigeva le orchestre formate da noi ragazzi con passione e gioia
di Marcello Bufalini


Nel 1980 entrai a far parte dell’Orchestra dei Giovani della Comunità Europea (ECYO, oggi EUYO), la prima delle orchestre giovanili nate dall’impulso di Claudio Abbado, cui sono seguite la Gustav Mahler Jugendorchester, l’Orchestra Mozart, e poi l’interesse appassionato e partecipe per il Sistema delle orchestre giovanili del Venezuela.
Avevo diciassette anni ed ero uno studente di viola del conservatorio. Non avevo mai fatto parte di una grande orchestra sinfonica, e mi trovai proiettato insieme a ragazzi della mia età o più giovani, di una bravura inaudita, ad affrontare i capolavori più difficili del repertorio sinfonico, ad accompagnare solisti straordinari, e tutto questo sotto la bacchetta di uno dei direttori più famosi del mondo, italiano per di più. Giravamo l’Europa, ci esibivamo nelle sale più leggendarie con un successo strepitoso, perché là dentro ci suonavano i migliori giovani talenti della Comunità Europea, allenati da due settimane di prove durissime (nove ore al giorno), istruiti dalle prime parti delle più grandi orchestre del mondo, e diretti da lui, dal grande Abbado, una specie di idolo per me e tanti altri giovani musicisti, l’unico divo del podio che si dedicava con uguale impegno al grande repertorio e alla musica contemporanea. La cosa che più mi segnò, naturalmente, fu l’esperienza musicale. Abbado era considerato un direttore moderno, di straordinaria lucidità analitica e maestria tecnica, affinate nella frequentazione con le ardue pagine della musica del ‘900. Durante le prove, non sfoggiava la fascinazione di altri grandi del podio, ma seguiva un metodo di lavoro estremamente funzionale e rigoroso. Ma quando arrivava il momento del concerto, suonare sotto la sua direzione si trasformava in un’esperienza viscerale, sconvolgente ed esaltante; non dimenticherò mai quello che provai suonando la Sinfonia n.5 di Mahler diretto da lui, la sensazione quasi medianica che l’energia, il furore, la rabbia addirittura che si sprigionavano dalle nostre mani nel premere l’arco e le dita sulle corde, ci venissero direttamente da lui, che non le avremmo potute riprodurre se non ci fosse stato lui sul podio.
Claudio Abbado era proprio la persona adatta a quella straordinaria invenzione dell’orchestra giovanile. Era palesemente contento di trovarsi tra tanti ragazzi entusiasti e musicalmente agguerriti. Si faceva dare del tu da tutti. E ricordo anche gli scherzi diabolici che i componenti dell’orchestra erano capaci di architettare durante le prove, e con suo gran divertimento.
Nel corso della prova del Te Deum di Verdi, nell’abbazia medievale di Fontevraud, in Francia, mentre dirigeva il coro, Abbado fu inondato dagli spruzzi delle pistole ad acqua brandite dalle prime parti degli strumenti ad arco. Oppure, in occasione di una prova con il pubblico, invertimmo a sua insaputa l’ordine dei brani in programma: dopo aver dato, con un gesto energico, l’attacco da cui doveva scaturire la musica aggressiva e fragorosa del Mandarino miracoloso di Bartók, il Maestro sentì invece risuonare il tema lirico e carezzevole della Seconda di Brahms. Nel 2009, quando Abbado venne a dirigere un concerto con l’Orchestra Mozart nell’Aquila terremotata, io, che nel frattempo sono diventato direttore d’orchestra e insegno al Conservatorio di quella città, ebbi la fortuna di sedere accanto a lui a cena, e rievocai questi e altri episodi del genere, chiamandolo sempre «Maestro»; al che lui disse: «All’epoca mi chiamavi Claudio e mi davi del tu come tutti gli altri, no? Be’, continua a farlo».

Repubblica 21.1.14
Non avrai altro Dio
Processo al monoteismo “È sinonimo di violenza”
di Vito Mancuso


Una Commissione di teologi scelti dal Vaticano assolve il cristianesimo dalle accuse rivolte in Occidente anche a Islam e ebraismo: “Dall’insegnamento di Gesù può scaturire solo l’umanesimo” Ma le conclusioni non convincono

La Commissione Teologia Internazionale (Cti) è un organismo di 30 teologi di ogni parte del mondo scelti dal Papa in quanto «eminenti per scienza, prudenza e fedeltà verso il Magistero della Chiesa» con l’incarico di «studiare i problemi dottrinali di grande importanza» (così gli statuti ufficiali). Pochi giorni fa è stato pubblicato suCiviltà Cattolical’ultimo suo lavoro, disponibile anche nel sito della Santa Sede, dal titolo:Dio Trinità, unità degli uomini. È però il sottotitolo che chiarisce l’argomento: Il monoteismo cristiano contro la violenza. Lo scritto prende infatti spunto da una tesisempre più diffusa in occidente secondo cui vi sarebbe «un rapporto necessario tra il monoteismo e la violenza», con la conseguenza che il monoteismo, prima considerato la forma più alta del divino, ora viene ritenuto potenzialmente violento. Le religioni monoteistiche sono ebraismo, cristianesimo e islam, ma secondo la Cti è soprattutto il cristianesimo a essere sotto tiro da parte di ampi settori dell’intellighenzia occidentale definiti «ateismo umanistico, agnosticismo, laicismo», i quali invece risparmierebbero l’ebraismo per rispetto della shoà e perché privo di proselitismo, e legherebbero l’intolleranza islamica più a motivi politici che teologici. Il che per la Cti dimostra l’aria anticristiana che tira in occidente, ingiustificabile anche alla luce del fatto che è proprio il cristianesimo la religione che oggi cerca di più il dialogo con la cultura laica.
A favore del monoteismo la Cti propone la tesi opposta secondo cui «la purezza religiosa della fede nell’unico Dio può essere riconosciuta come principio e fonte dell’amore tra gli uomini». Ribalta quindi l’equazione: non monoteismo = violenza,bensì monoteismo (trinitario) = amore universale. Con la logica conseguenza che «l’eccitazione alla violenza in nome di Dio è la massima corruzione della religione».
Gli argomenti presentati a sostegno sono molteplici. In primo luogo si contesta l’idea secondo cui il politeismo sarebbe più tollerante, visto che la persecuzione ellenista contro gli ebrei e quella romana contro i cristiani indicano il contrario. Ma è soprattutto il cuore del cristianesimo a mostrare come dall’insegnamento e dalla vita di Gesù non può che scaturire un umanesimo non violento, per cui la rivelazione cristiana «consente di neutralizzare la giustificazione religiosa della violenza sulla basedella verità cristologica e trinitaria di Dio», e per questo vi è un «irreversibile congedo del cristianesimo dalle ambiguità della violenza religiosa». Altri punti importanti sono la distinzione del concetto di monoteismo (ritenuto in sé troppo generico per abbracciare unitariamente ebraismo, cristianesimo e islam), l’ermeneutica delle pagine bibliche colme di violenza, la discussione con l’ateismo contemporaneo, le riflessioni di teologia trinitaria.
Ma il documento della Cti è riuscito nel suo intento principale, cioè rendere convincente la connessione organica tra cristianesimo e non-violenza per quei laici che accusano il cristianesimo di intolleranza? A mio avviso no, e il motivo sta nel non aver preso adeguatamente in considerazione la parte di verità della critica laica. Il documento infatti non indaga a sufficienza le ragioni delle accuse mosse al cristianesimo, basti considerare che fenomeni quali inquisizione, roghi di eretici e di libri, caccia alle streghe,
Index librorum prohibitorum, conversioni forzate di individui e di popoli, neppure sono nominati. È vero che si afferma di «non poter ignorare considerando la storia del cristianesimo i ripetuti passaggi attraverso la violenza religiosa» eche si evoca «un atteggiamento di conversione permanente che implica anche laparresia(ossia la coraggiosa franchezza) della necessaria autocritica», ma invano si cerca tra i 100 paragrafi del documento almeno un esempio di taleparresia.
Al contrario l’argomentare si risolve spesso in una concatenazione di pensieri speculativi con un linguaggio non sempre limpido e perspicuo.
Oltre all’insufficienza a livello storico, in sede concettuale le lacune sono soprattutto tre: 1) la violenza nella Bibbia viene considerata solo per l’Antico Testamento senza mai menzionare il Nuovo, dove pure è presente, si pensi all’Apocalisse e ad alcuni passaggi di san Paolo, con la conseguenza di riprodurre la contrapposizione «Dio di Gesù buono — Dio dell’ebraismo cattivo» altrove condannata dalla stessa Cti; 2) non si spiega perché la Chiesa abbia preso congedo dalla violenza solo in tempi relativamente recenti; 3) vi è una problematica considerazione delle religioni non cristiane.
Tralasciando per motivi di spazio il primo punto, riguardo al secondo occorre chiedersi perché la Chiesa che per secoli praticava e giustificava la violenza ha poi mutato atteggiamento. La risposta è semplice: grazie alle battaglie del mondo laico che, togliendole potere, le hanno permesso di tornare a essere più fedele alla propria essenza. La Cti però non spende una parola su questo, al contrario ripropone la campagna di Benedetto XVI contro il relativismo dimenticando il bene che deriva dal prendere coscienza della relatività delle proprie posizioni. Non è dal relativismo, infatti, ma è dal suo contrario, l’assolutismo, che nascono l’intolleranza e la violenza. Il che non significa che il relativismo non abbia i suoi limiti, ma occorre una saggezza disposta a riconoscere il bene e a denunciare il male ovunque siano, anche e soprattutto a casa propria insegna il Vangelo (Matteo 7,3: «perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?»), mentre tutto ciò nel documento dei teologi prescelti dal Vaticano scarseggia.
C’è poi il punto sulle religioni non cristiane. Con l’affermare più volte che «la rivelazione cristiana purifica la religione», quale immagine delle religioni non cristiane consegna la Commissione? Scrivendo che «la purezza della religione e della giustizia viene dalla fede in Gesù Cristo», quale immagine dei credenti non cristiani propone la Cti? Sembra inevitabile concludere che le religioni senza Gesù siano destinate all’ingiustizia e alla violenza, sennonché la realtà insegna che sono proprio religioni come induismo, buddhismo, giainismo a essere giunte all’ideale della non-violenza (anche a livello alimentare!) secoli prima della nascita di Gesù e millenni prima che vi arrivasse la Chiesa cattolica.
L’intento della Cti è più che lodevole, ma su temi tanto delicati la Chiesa di papa Francesco avrebbe meritato un documento diverso, più umile sul passato e più coraggioso sul presente, capace così di vero dialogo con i non cristiani e di smuovere le acque nella Chiesa, invocando al suo interno quella libertà religiosa che ierila Chiesa negava a tutti,oggi promuove nel rapporto tra credenti e potere politico edomanidovrà giungere a riconoscere in materia teologica, etica e di pratica sacramentale ai singoli credenti se vorrà essere veramente del tutto libera dalla violenza.

l’Unità 21.1.14
Lenin goodbye?
A 90 anni dalla morte, cosa resta di Vladimir Il’ic Ul’janov
Da Diego Rivera alle Pussy Riot: l’icona dell’incarnazione del comunismo oggi
ha un peso difficile da essere portato o sopportato
di Lucio Spaziante


A 90 ANNI DALLA MORTE DI LENIN, AVVENUTA IL 21 GENNAIO 1924, QUALE PATRIMONIO RESTA DELLA SUA ICONA, CHE DA SOLA FINO A NON MOLTISSIMI ANNI FA RAPPRESENTAVA UN SIGNIFICATIVO PATRIMONIO POLITICO E CULTURALE? Mentre nella nostra più stretta contemporaneità ci siamo abituati a vedere icone e miti, da Gandhi a Marilyn Monroe a John Lennon, diventare oggetti di scambio che trasmigrano con facilità dalle t-shirt agli spot pubblicitari, che ne è dell’effigie di Vladimir Il’ic Ul’ja-
nov? La questione a suo modo non può essere separata dal fatto che Lenin almeno per alcuni aspetti (c’è chi direbbe molti, chi pochi) abbia rappresentato «il» comunismo nella sua incarnazione più vivida. Si potrebbe ricordare quando nel 1933 Diego Rivera collocò l’immagine di Lenin all’interno di un murale commissionatogli per il Rockefeller Center di New York. Scelta che portò di lì a poco all’abbattimento di quel muro, dato che per la cultura americana capitalista dell’epoca, per quanto di ampie vedute, una simile presenza non era tollerabile.
Problemi di iconoclastia opposti ma non dissimili stanno attraversando anche l’Ucraina in rivolta nei mesi recenti: i militanti di partiti nazionalisti e di destra come Sloboda (Libertà) più volte, nello scorso febbraio e poi di nuovo a dicembre, si sono resi protagonisti di azioni di abbattimento e distruzione di statue di Lenin, tuttora molto presenti nei paesi dell’ex blocco sovietico. A questo riguardo non si può non ricordare la sequenza di un film tedesco tra i migliori degli ultimi anni, dal titolo significativo: Goodbye Lenin. Nella vicenda, ambientata nella ex Germania Est, la protagonista femminile va in coma durante la caduta del Muro, e per non turbarla le si nascondono gli sconvolgimenti storici sopravvenuti. Ma lei insospettita esce di casa mentre un elicottero trasporta, impietosamente agganciata a un cavo, la statua di Lenin nell’atto della sua rimozione.
L’icona di Lenin dunque ha un peso difficile da essere portato o sopportato. Ne sa qualcosa anche il governo di Putin il quale nonostante da anni abbia annunciato lo spostamento della salma dal mausoleo della Piazza Rossa, evidentemente non ha ancora trovato il momento buono per portarla a termine. Allo stesso tempo invece nel comune di Cavriago, provincia di Reggio Emilia, il busto di Lenin è ancora saldamente al centro dell’omonima piazza, in memoria di un’antica tradizione che lo lega alla rivoluzione sovietica.
L’icona di Lenin ha assunto valori e connotazioni nel tempo molto più limitate e ristrette, se si vuole, rispetto all’universale mito libertario di Che Guevara che è rinvenibile in forma di tatuaggio sul corpo di Mike Tyson così come su quello di Maradona.
Lenin ha però vissuto una meno prevedibile vicinanza con la cultura punk, con la quale c’è da dubitare egli avrebbe avuto una particolare affinità. Ricordiamo, ancora in terra emiliana, che nel 1987 il gruppo dei Cccp Fedeli alla linea, allora autodefinitisi con un misto di fascinazione e provocazione «gruppo punk filosovietico», avevano in repertorio un brano, Manifesto, che recitava così: «I soviet più l'elettricità non fanno il comunismo», invertendo la citazione di Lenin, «Il socialismo è il potere sovietico più l'elettrificazione di tutto il paese». Da allora il tempo è passato più veloce di quanto dicano gli anni; il punk ha mutato forme e di filosovietico (non solo nel punk) rimane poco, anzi.
Se prendiamo il caso attuale delle Pussy Riot, vediamo un gruppo, o forse un movimento o un collettivo, che ha molto del punk, forse nei suoi stessi caratteri mutanti e poco ortodossi. Nelle loro azioni di provocazione spettacolare che hanno sfidato il regime di Putin e la Chiesa ortodossa, e che le hanno condotte alla detenzione fino alla recente amnistia, costoro hanno citato Lenin come possibile eredità positiva e femminista (!) da contrapporre invece a quella di Stalin. Il linguaggio delle Pussy Riot non è certo quello dell’analisi politica circonstanziata, bensì quello del pop, per loro stessa ammissione, ed è dunque questo ciò che rimane più interessante. Un dialogo interno alla cultura russa contemporanea con un’eredità poco più che iconica lasciata da Lenin. Ma se è di puri segni iconici che si parla, allora in ultimo va ricordato il lavoro di contagio operato da Banksy, star internazionale dei graffiti: Lenin raffigurato in giacca e cravatta sui rollerblades, e poi Lenin-punk con capelli a cresta e orecchino. Spiegare ovvero interpretare le opere di Banksy sarebbe forse inutile: il soggetto parla da sé e ci dice, più di altri, cosa rimane oggi dell’icona Lenin.

Corriere 21.1.14
A 90 anni dalla morte di Lenin

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Corriere 21.1.14
Lenin, quelle statue che non ti aspetti

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l’Unità 21.1.14
Scienze
La coscienza interiore
C’è un’area del cervello deputata a «gestire» il flusso di informazioni
La chiamano «l’interprete» e ci fornisce gli strumenti per rispondere a situazioni di pericolo. Il neuroscienziato Michael Gazzaniga nel suo ultimo libro «Chi comanda?» ipotizza un livello superiore della consapevolezza che riguarderebbe la sfera sociale e il libero arbitrio
di Eugenio De Rosa


INSOMMA, SAPPIAMO CIÒ CHE FACCIAMO (PRIMA DI FARLO) O NO? E’ UNA DOMANDA A CUI SI COLLEGANO MIGLIAIA DI ANNI DI RIFLESSIONI DI FILOSOFI CON OPINIONI MOLTO DIVERSE CHE HANNO AL CENTRO IL PROBLEMA DEL LIBERO ARBITRIO: siamo o non siamo liberi di decidere che fare? Oggi al dibattito dei filosofi si aggiungono gli studi rivoluzionari di neurofisiologia, quelli che cercano di capire come funziona il nostro cervello, dove, per l’appunto si troverebbe la sede della nostra capacità di decidere.
Penso al povero Mitja (Dmitrj Fedorovic Karamazov) che sulla carretta dei deportati si avvia verso la Siberia per un parricidio che non ha commesso e con l’anima stravolta invece per il ferimento di Grigorij, il servo che lo ha allevato con amore. I fatti: Mitja, follemente innamorato di una ragazza desiderata anche dal padre, entra nel giardino della casa paterna, vede che la ragazza non è lì, decide di fuggire, cerca di saltare il muro di cinta ma si sente afferrare per una gamba. È Grigorij che gridando erroneamente «assassino di tuo padre!» lo trattiene per una gamba; istantaneamente il braccio di Mitja si leva e un potente colpo di un pestello di bronzo si abbatte sul cranio del poveretto che stramazza al suolo in un lago di sangue.
Ora Mitja è libero ma non fugge, scende dal muro e si precipita ad asciugare il sangue che esce copioso; con disprezzo per se stesso, lancia l’arma lontano. Poi convinto di avere ucciso riprende la fuga. La domanda che ci si può porre oggi alla luce dei nuovi risultati della neurofisiologia è: Mitja era cosciente di quel che stava facendo a Grigorij o no? E dunque è colpevole o no? Nel 1878, quando Dostoesvskij scriveva I fratelli Karamazov l’unico modo di studiare il comportamento del cervello sul piano fisiologico era di osservare eventuali difetti nei cadaveri di persone che da vive avevano manifestato particolari patologie. È così che Paul Broca, medico francese, ha scoperto nel 1861 che il suo paziente incapace di pronunciare una sola parola tranne «tan!» e perciò soprannominato Tan, un’area cerebrale danneggiata che è stata chiamata appunto «centro della parola» e poi «area di Broca», altrettanto fece il tedesco Carl Wernickee rivelando in pazienti che udivano correttamente le parole ma non ne capivano il significato. Progressi importanti che dimostravano che c’erano nel cervello aree dedicate a precise funzioni. Era però impossibile vedere il cervello durante il suo funzionamento.
Ora ci sono diverse tecnologie che invece lo consentono e in particolare la fRM (risonanza magnetica funzionale) che posa sul fatto che quando lavora il cervello usa più ossigeno portato dall’emoglobina del sangue. La risonanza valuta quanto ne affluisce, dove e in quanto tempo: dice cioè quali parti del cervello stanno lavorano in quel momento e quanto. Siccome si tratta di una tecnica non invasiva è molto usata e ha rivelato molte cose alcune molto sorprendenti. Fra queste è che esiste una parte del cervello i cui affluiscono tutte le informazioni provenienti da ciascuna delle altre. Alcuni la chiamano «l’interprete» per non chiamarla «coscienza»: è quella parte infatti che si attiva dopo qualunque atto o informazione ricevuta dai sensi e ne ricostruisce o ne dichiara la storia; l’attivazione si manifesta dopo poco più di mezzo secondo e poi prosegue. Mezzo secondo: sembra poco e invece è molto se si pensa soprattutto alle situazioni di pericolo. E infatti esistono altre parti del cervello che ci hanno salvato la vita nel corso dell’evoluzione. In particolare l’amigdala (o i neuroni a specchio, grande scoperta italiana) che recepito il pericolo ordinano al corpo di reagire senza attendere l’interprete: è la cosiddetta reazione «mordi o fuggi», decisione automatica fuori dal controllo della coscienza. La reazione si manifesta in circa un quinto di secondo, meno cioè della metà del tempo necessario all’attivazione dell’interprete. Il quale poi ricostruirà ciò che è accaduto sulla base delle informazioni ricevute.
Michael Gazzaniga, autore del libro straordinario cui mi ispiro (Chi comanda?, Codice Edizioni, Le Scienze) racconta delle sue esperienze nei deserti americani popolati da serpenti a sonagli: vedo l’erba che si muove, faccio un balzo all’indietro «chissà quante volte sarei morto se non avessi avuto questa rapidissima reazione» che solo dopo l’interprete spiega mettendo insieme erba in movimento, possibile serpente, associazione innata tra serpente e pericolo, anche se poi verificherà che era solo un soffio di vento tra l’erba.
Torniamo a Mitja: sta fuggendo, qualcosa lo trattiene alla gamba mettendolo in pericolo, un quinto di secondo e il colpo di pestello piomba sul cranio di Grigorji, è libero, passa mezzo secondo e solo allora lui si rende conto di cosa ha fatto, non fugge, torna indietro cerca di soccorrere ma sembra impossibile e lui maledice l’arma scagliandola lontano. Colpevole o non colpevole? Il suo libero arbitrio è intervenuto nella sua azione? Dove comincia e dove finisce la responsabilità di un uomo «libero»?
Un grande dilemma di cui comincia ad occuparsi anche qualche tribunale americano. Aggiungiamo che, come per serpente o vento, anche l’interprete (la coscienza) si basa non su certezze ma solo sulle informazioni che altre parti del cervello gli forniscono. Fin qui la scienza sperimentale. Gazzaniga però si spinge oltre facendo intervenire un «livello» superiore che si baserebbe sui rapporti sociali, una coscienza generale che si sovrapporrebbe a quella definita sperimentalmente. A che velocità? Quando? Ospitata da cosa e dove? Nessuno può dirlo: al momento questa più che scienza sembra metafisica. Probabilmente dovremo attendere che alla neurofisiologia si accostino profondi studi di antropologia sociale.

Repubblica Salute 21.1.14
Mente & disturbi
Psiche, cervello e neuroscienze l’evoluzione degli ultimi 40 anni
I quattro decenni raccontati dalla rivista Psicologia Contemporanea che nasceva nel 1974: la fotografia dei mutamenti e i contributi di grandi esperti come Piaget, Musatti o Gardner, i nuovi disturbi e gli approcci psicoterapici
di Valeria Pini


Solo 40 anni fa era una scienza emarginata, sconosciuta ai più. Oggi tutto è cambiato e la psicologia è entrata a pieno titolo nel mondo della scuola, del lavoro, nella famiglia e nei tribunali. Contribuisce al benessere delle persone nelle diverse fasi della vita. In questi quattro decenni la rivista
Psicologia Contemporanea ha fotografato l’evoluzione della psicologia. Nei suoi “primi 40 anni” ha ospitato interventi di autori come, fra i tanti, Jean Piaget, Cesare Musatti, Daniel Goleman, Howard Gardner e Guido Petter. Molto è cambiato da quando nel 1974 l’editore Giuseppe Martinelli, sostenuto da Sergio Giunti, diede vita a
Psicologia Contemporanea. Dopo gli anni del Fascismo, il dopoguerra aveva visto un crescente interesse per la psicologia fino all’apertura dei primi due corsi di laurea all’università di Padova e di Roma, nel ‘71. Al centro della discussione l’evoluzione dei rapporti e le principali novità in questo settore. «Nel '76, la rivista sostenne la necessità di permettere alle madri di stare accanto ai figli appena nati in ospedale, vincendo le resistenze di quegli anni. Nel '97 fu pubblicato il primo studio sul bullismo in Italia, coordinato da Ada Fonzi che sensibilizzò genitori e insegnanti. L’autismo è stata un’altra tematica seguita con attenzione», spiega la direttrice diPsicologia Contemporanea, Anna Oliverio Ferraris. Per molto tempo resterà l’unica rivista di divulgazione in questo campo. Oggi è bimensile. Dal 2003 esisteMente e Cervello, costola diLe Scienze-Scientific American,
che dal 2006 si trasforma nel solo mensile di divulgazione.
Fra le tappe più importanti del dibattito per regolamentare la professione di psicologo, incominciato negli anni '70, c’è il momento in cui, nel 1989, il senatore Adriano Ossicini diede vita alla legge che istituirà l’Ordine degli psicologi. «Durante il fascismo e dopo la guerra esisteva molta diffidenza nei confronti soprattutto della psicoanalisi - spiega Luigi Cancrini, psichiatra e psicoterapeuta - C’erano resistenze da parte della Chiesa, ma anche fra gli stessi medici che non volevano dare spazio ai “non medici”. Un forte impulso a favore della psicologia è stato dato invece nel ‘78 dalla legge Basaglia, che aboliva i manicomi. La cura non è più solo medica e di custodia del paziente. Nasce il tentativo di aiutare gli individui nelle situazioni in cui vivono, nelle loro famiglia. Negli anni '90 ci fu un altro passo avanti: il riconoscimentodelle scuole di psicoterapia».
Negli ultimi anni il ruolo della famiglia è stato al centro di molti studi internazionali, che si sono spesso concentrati sull’infanzia e sull’adolescenza. «Dal dopoguerra ad oggi nella psicologia dell’etàevolutiva si sono ottenuti risultati di grande rilievo. Basti pensare agli studi sull’attaccamento che hanno chiarito quanto contino nella vita di una persona i primi anni di vita e i legami affettivi che in quegli anni si formano con le proprie figure di riferimento - dice Oliverio Ferraris - Si è scoperto inoltre che l’attaccamento non appartiene solo all’infanzia, ma a tutte le età della vita e che può essere all’origine di paradossi. Per esempio, ci si vuole separare ma non si riesce perché si è legati al partner da una forma di dipendenza. Ci si muove su più livelli e spesso non si presta attenzione alla comunicazione implicita, un altro settore in cui si sono acquisite conoscenze importanti». Da un paio di decenni si sono diffuse le tecniche di neuroimagingche permettono di visualizzare quali aree del cervello sono attive in un particolare momento. Un sistema che si è rilevato utile nella cura delle dipendenze. «In questo modo psicologia e neuroscienzehanno interagito e queste ultime hanno gettato una luce nuova e obiettiva sui processi cerebrali collegati ai comportamenti - spiega Oliverio Ferraris - È stato possibile evidenziare i risvolti neurofisiologici di una serie di dinamiche fisiologiche e patologiche che vanno dai meccanismi imitativi all’empatia, dai desideri al gioco compulsivo, dagli effetti a breve e a lungo termine dei maltrattamenti».
Oggi in Italia gli psicologi sono 89.204 (record in Europa) e la psicologia è diffusa in molti settori. «Ha campi di applicazione nelle aziende, nella scuola, negli ospedali oltre che un ruolo centrale in servizi come quelli per la cura delle tossicodipendenze o dei minori. Ma anche per sostenere i malati gravi o le persone colpite da disastri ambientali - conclude Cancrini - Gli psicologi sono entrati anche nei tribunali per sostenere, ad esempio, i bambini e le loro famiglie coinvolte nelle separazioni o nei divorzi».

Corriere 21.1.14
Il sogno breve dei governi partigiani
di Arturo Colombo


Che ci fossero state, fra 1944 e ’45, lo sapevamo: ma solo in termini generici. Un motivo per segnalare ora Le repubbliche partigiane (Laterza, pp. VIII-387, € 22) a cura di Carlo Vallauri e di un nutrito gruppo di studiosi, che illustra bene come siano sorte queste esperienze di autogoverno democratico, abbiano sviluppato rapporti con gli Alleati e poi subìto feroci contrattacchi da parte delle forze naziste occupanti.
Specie in Piemonte le repubbliche partigiane sono state addirittura sette, a cominciare dalla Val Maira, che ebbe breve durata (come tutte, del resto). Fin dal giugno del ’44 i partigiani avevano costituito un Cln di vallata, composto da esponenti del partito d’azione, socialisti e comunisti. Mancavano i cattolici, eppure il Cln ottenne «la collaborazione di tutti i parroci» per i provvedimenti di controllo del mercato alimentare e della distribuzione delle risorse (in primis , burro e carne). Né basta, perché a Marmora si riuscì a impiantare un ospedale partigiano, dopo che altri tre erano stati distrutti dai rastrellamenti nazisti.
Oltre a quella dell’Oltrepò Pavese, significativa è stata la repubblica partigiana della Carnia e del Friuli occidentale, che con la liberazione di ben 45 Comuni e la costituzione della «zona libera» è considerata il modello che meglio prefigurava «i lineamenti di un nuovo Stato democratico». Interessante, nella parte documentaria, il testo che indicava come creare gli organi di governo, con il dettagliato elenco dei relativi compiti. In Emilia tra giugno e luglio del ’44 sorse la Repubblica di Montefiorino con circa 40mila anime, in prevalenza contadine. Seppe mettere capo anche a un tribunale militare, in grado di istituire processi contro i militari rei di aver compiuto forme di violenza durante le requisizioni.
Conclusioni? Non si tratta di micro-storia. Ma di uno straordinario accumulo di documentazione preziosa per chi voglia capire il passato prossimo.

Corriere 21.1.14
Re generoso o flagello di Dio. I due volti del mito di Attila
di Paolo Mieli


La tradizione ungherese lo considera un eroe nazionale Da una recente ricerca si apprende che «Attila» è il nome dato ad un potente tosaerba, a un robot per pulire i tetti, a un micidiale decespugliatore, a uno strumento per la diserbatura termica e ad alcuni altri utensili o sostanze nei cui manuali d’uso è scritto che servono ad ottenere una «totale e radicale devastazione». Uno stereotipo, quello del brutale sterminatore, che viene ora messo in discussione da Attila e gli Unni , un libro di Edina Bozoki che sta per essere pubblicato dal Mulino. La storia del re barbaro — nato nel 395, asceso al trono quarantenne nel 435 assieme al fratello Bleda (di cui si sarebbe liberato, uccidendolo, nel 445) e morto cinquantottenne nel 453 dopo aver attaccato l’intera Europa (o quasi) — risponde solo in parte all’immagine di violenza che ha lasciato dietro di sé. Un discorso, questo, che si può estendere all’insieme dei «barbari». Eccettuate alcune occasioni, scrive Edina Bozoki, quasi mai si è assistito «all’irruzione in massa di orde scalmanate di guerrieri». In molti casi si trattava «di movimenti diffusi, di un’immigrazione pacifica di piccoli gruppi, in altri di vere e proprie incursioni, ma mirate, alla ricerca di un bottino, in altri ancora dell’ingresso di popolazioni accettate dal potere romano». Alcuni di questi gruppi, è vero, iniziarono un «vagabondaggio armato» per i territori dell’impero; ma il loro scopo non era la conquista: cercavano solo di «ottenere introiti e provviste per mantenere le proprie truppe e le famiglie, in cambio di servizi». Quanto al numero, si stima che i barbari del V secolo penetrati nell’impero vadano calcolati in «parecchie decine di migliaia».
Tre secoli prima di Attila, l’imperatore Marco Aurelio aveva condotto (tra il 167 e il 180) campagne contro i Quadi, i Marcomanni, gli Iazigi e i Daci. Reclutò ausiliari tra i barbari e fece insediare gruppi di Germani nelle terre periferiche dell’impero (aveva addirittura in mente di creare due nuove provincie tutte per loro: Marcomannia e Sarmazia). E però fu ai suoi tempi o poco prima che si ebbe un importante cambio di percezione. Riscontrabile tra il 113, quando fu eretta la colonna di Traiano, sulla quale i prigionieri daci vengono raffigurati con dignità e nobiltà, e il 176-192, quando fu realizzata quella di Marco Aurelio, sulla quale i barbari sconfitti vengono rappresentati come feroci, brutali e selvaggi. Dopodiché il primo imperatore che combatté nel territorio (paludoso) dei barbari, fu Massimino di Tracia (235-238), anche lui di origini barbariche. Nel 251 un suo successore, Decio, perse la vita nella piana di Dobrugia scontrandosi con i Goti. Nel 296 Costanzo Cloro insediò prigionieri barbari (Camavi e Frisoni) nella Gallia del Nord. Diocleziano e Galerio ne distribuirono altri (Carpi, Basterni e Sarmati) in Pannonia.
Dal IV secolo alcune personalità barbariche, già profondamente romanizzate, fecero carriera nell’impero; alcuni di loro furono promossi generali, prefetti urbani, consoli. Come il generale vandalo Stilicone (359-408), di cui l’imperatore Onorio sposò la figlia. Talvolta, quando le incursioni dei barbari si erano fatte endemiche e l’esercito non era più in grado di contenerle, i Romani mettevano in campo truppe mercenarie di alleati barbarici. Dal 380 anche Unni, futuri sudditi di Attila. Gli Unni, secondo un’ipotesi formulata nel Settecento da Joseph de Guignes, discendevano da un popolo mongolo, gli Hiung-nu, che, sconfitti nel primo secolo dai Cinesi, sarebbero migrati verso ovest e, dopo un periodo di permanenza nelle steppe dell’Asia centrale, sarebbero arrivati in Europa. La Bozoki, sulla base di risultati di scavi archeologici, non crede a questa tesi. Ritiene che quella degli Unni fosse una popolazione sostanzialmente autoctona e mista, la quale, all’epoca di cui stiamo parlando, aveva un dominio esteso dall’Ucraina e dalla Russia meridionale fino alla Pannonia, il territorio della Romania, dell’Ungheria, della Slovacchia, il Sud della Polonia e l’attuale Repubblica ceca. Di per sé non erano ostili a Roma. Nel 378, è vero, erano stati alleati dei Goti, i quali con la battaglia di Adrianopoli (sul confine tra le attuali Bulgaria, Grecia e Turchia), avevano inferto una dolorosa sconfitta proprio ai Romani. Poi, però, all’inizio del V secolo, Uldino, predecessore di Attila, aveva offerto i suoi servigi a Stilicone, il quale si batteva proprio contro i Goti, che nel 406 avevano invaso l’Italia. In quello stesso 406 era poi iniziata la «grande invasione» della Gallia e della Spagna da parte di Vandali, Alani e Suevi.
Nel 410, il visigoto Alarico era penetrato fino a Roma, mettendola a sacco. Anche se la capitale effettiva dell’impero di Onorio era già Ravenna, il «sacco di Roma» aveva a tal punto impressionato Agostino d’Ippona da indurlo a profezie apocalittiche: «Forse la città non finirà ora», scrisse, « ma un giorno finirà senz’altro». Sant’Agostino aveva però messo in evidenza come i barbari avessero rispettato i santuari cristiani, santuari che poi erano stati utilizzati come asilo dai Romani stessi nei momenti più tragici della devastazione. Per Alarico Roma era una tappa come un’altra, tant’è che non la considerò una meta definitiva, anzi procedette subito in direzione della Sicilia, portando con sé in ostaggio Galla Placidia, figlia di Teodosio e sorellastra dell’imperatore Onorio. Dopodiché, morto Alarico in Calabria, il successore, Ataulfo, aveva sposato Galla Placidia e aveva addirittura offerto (vanamente) i suoi servigi a Onorio contro l’usurpatore gallo Giovino. Nel 429 i Vandali di Genserico erano passati nell’Africa del Nord e si erano insediati nella regione di Cartagine.
Questo per descrivere la complessità della situazione in cui Attila si trovò nel 435, quando succedette al padre Ruga e divenne (assieme al fratello) re degli Unni. Colui che sarà il suo avversario, Ezio, aveva vissuto gli anni giovanili come ostaggio dei Visigoti prima e degli Unni poi. Unni che aveva avuto come alleati tra il 425 e il 427 contro i Visigoti e nel 428 contro i Franchi renani nel Nord della Gallia. Poi, dopo l’ascesa al trono di Attila, Romani e Unni avevano combattuto assieme contro i Burgundi e nuovamente contro i Visigoti intenzionati a conquistare Narbona. Per quel che riguarda la vita ai tempi di Attila, esiste un prezioso resoconto (diretto) di Prisco di Panio, relativo a una sua missione presso la corte del re degli Unni nel 449 al seguito dell’ambasciatore Massimino di Costantinopoli. Se ne è conservato un frammento che nel X secolo l’imperatore Costantino Porfirogenito riportò in un suo libro sulle ambascerie. Prisco, riferisce Edward James nel saggio I barbari (Il Mulino) «evoca con grande efficacia la condizione mentale degli ambasciatori, costretti a dipendere da un interprete di cui diffidavano, disorientati dagli intrighi di corte, obbligati ad attendere per giorni prima di poter avere un incontro e costretti a ritornare continuamente sulle discussioni fatte per cercare di comprenderne il reale significato».
I segretari di Attila erano romani e avevano un papiro su cui erano riportati i nomi di tutti i fuorusciti unni di cui Attila pretendeva la restituzione. Addirittura, Attila era a tal punto furibondo con il messo diplomatico per il fatto che i fuggiaschi non fossero già stati riconsegnati, da dichiarare che lo avrebbe impalato e lasciato in pasto agli uccelli. Non lo fece, disse lui stesso, solo per non infrangere i diritti degli ambasciatori. Dando prova con questo di un grado di civiltà piuttosto elevato. Prisco racconta poi di aver conosciuto a corte un mercante greco che era stato fatto schiavo dagli Unni e successivamente aveva combattuto per loro, riconquistando in virtù di ciò la sua libertà. Costui diceva di aver potuto constatare che tra gli Unni si viveva meglio che sotto i Romani. Al che l’ambasciatore lo avrebbe accusato di aver tenuto un atteggiamento «antipatriottico», provocando in lui una reazione di pianto. Ma successivamente Prisco aveva trovato molte persone in grado di confermare quanto detto dal mercante greco e cioè che si stesse meglio tra gli Unni che sotto l’imperatore Teodosio. Anche a dispetto (o per merito) della severità delle leggi, che prevedevano punizioni assai crudeli. Si ha l’impressione che quello di Prisco fosse (pur camuffato da atto d’accusa nei confronti del mercante greco) un elogio del modello unno. Edina Bozoki, però, tiene a ricordare che la testimonianza di Prisco pecca per due difetti: «Per una certa imprecisione relativa alla geografia dei luoghi che descrive e, soprattutto, per il fatto di essere stata tramandata in modo frammentario e indiretto». In ogni caso quella di Prisco è la descrizione di un mondo civilizzato.
Secondo Lech Leciejewicz, che ne ha scritto in La nuova forma del mondo. La nascita della civiltà europea medievale (Il Mulino), la residenza di Attila, che si intuisce dalle descrizioni di Prisco, era molto «moderna» per quei tempi. Costruita con tronchi d’albero alla foce del Tibisco, in Ungheria, era circondata da una palizzata munita di torrette; in un edificio di legno vicino a quello del re «viveva anche il suo primo consigliere, il quale aveva ordinato ad un prigioniero proveniente da Sirmio di costruirgli un locale da bagno in pietra». Il tesoro di Attila conteneva numerosi gioielli d’oro, ornamenti per le vesti, armi e finimenti per cavalli. Nell’armamento, nell’abbigliamento e nei gusti artistici degli Unni si erano conservate alcune tradizioni asiatiche, che sembrano confermare la fondatezza della loro parziale identificazione con la tribù degli Hiung-nu.
Probabilmente è per il livello di civiltà diffuso tra le sue genti che Attila, come scrive ancora Edward James, è forse l’unico barbaro della sua epoca ancor oggi conosciuto in tutta Europa. Per taluni resta il simbolo stesso della ferocia; in Ungheria invece, è considerato un eroe nazionale e ai neonati viene tranquillamente dato il suo nome. Inoltre non sarebbe stato lui a inventare la «politica del ricatto», consistente nel chiedere ai Romani ingenti somme per evitare invasioni e depredazioni. Lo aveva fatto già il suo predecessore Rua. Inizialmente gli imperatori d’Oriente avevano accettato di versare agli Unni 350 libbre d’oro all’anno, libbre che — dal 438 — raddoppiarono, salendo a settecento. Nel 440, Attila si fece più esigente, minacciò Costantinopoli ottenendo 2.100 libbre d’oro e chiedendo arretrati per altre seimila. È stato calcolato che, fino al «rifiuto di Marciano», agli Unni erano state versate più di nove tonnellate d’oro. E fu quello il momento della svolta.
In che consiste il «rifiuto di Marciano»? Claudio Azzara in Le invasioni barbariche (Il Mulino) fa risalire il cambiamento di strategia degli Unni alla decisione, nel 450, dell’imperatore Marciano — succeduto a Teodosio II — di non versare più somme a quei «nuovi venuti». Edina Bozoki concorda con Azzara: una delle ragioni del cambiamento della politica di Attila, probabilmente la più importante, è nel drastico mutamento da parte di Marciano della strategia che era stata di Teodosio. Quella svolta, riprende Azzara, spinse Attila «a porre termine a ogni ambiguità e a marciare con risolutezza verso occidente, alla ricerca di bottino». Varcato il Reno, Attila aggredì in rapida successione Metz, Reims e Troyes, minacciò Parigi, quindi si diresse verso Orléans, a difendere la quale si compose un esercito, sotto il comando di Ezio, fatto da Romani e da guerrieri delle diverse stirpi barbariche stanziate in Gallia. Inclusi i Visigoti di Aquitania che rispondevano al re Teodorico I. Questi nel 451 sconfissero gli Unni nella battaglia dei Campi Catalaunici. E fu dopo questo smacco che, nel 452, Attila si diresse verso l’Italia, travolgendo dapprima Aquileia, poi Milano e Pavia. Può darsi che in quel momento Attila, accanto al progetto predatorio, coltivasse ambizioni politiche. Prisco racconta che quando Attila giunse a Milano, fu colpito da un dipinto che raffigurava gli imperatori romani assisi in trono con ai loro piedi i corpi di molti Goti uccisi; quindi avrebbe ordinato a un pittore di ritrarre lui stesso seduto sul trono, con gli imperatori che rovesciavano sacchi d’oro ai suoi piedi. Da ciò, Edward James prende in considerazione l’ipotesi che le sue ambizioni andassero molto oltre la semplice estorsione di denaro, «anche se è oltremodo arduo stabilire se dobbiamo considerare la richiesta di aiuto rivoltagli da Onoria, sorella di Valentiniano III, come un indizio del fatto che gli era stata promessa in sposa, o se egli abbia veramente preteso l’impero d’Occidente come dote di Onoria».
Come che sia, l’imperatore Valentiniano III ebbe paura di lui, abbandonò Ravenna e si rifugiò a Roma, mettendosi sotto la protezione di Papa Leone I. Quel Leone I che, in un «incontro provvidenziale» con Attila nei pressi di Mantova (nel 452), avrebbe convinto il sovrano barbaro a desistere dall’intenzione di invadere la città eterna. Il racconto di questo «miracolo» è di Paolo Diacono ed è stato fatto nel IX secolo, cioè quattrocento anni dopo il presunto accaduto. Un lasso di tempo che induce a qualche dubbio circa la veridicità della ricostruzione storica. Inoltre, fa osservare Edina Bozoki, «è abbastanza strano che Papa Leone I, che pure ha lasciato una corrispondenza piuttosto rilevante, non faccia mai allusione al ruolo da lui svolto presso Attila». Strana storia, soprattutto se si pensa che due anni dopo la morte di Attila, nel 455, Roma fu invasa dai Vandali di Genserico a dispetto dell’intercessione di quello stesso papa, Leone Magno. Va inoltre tenuto a mente che il racconto di Attila che si ritrae, dopo aver incontrato Leone, è stato riproposto — identico nel suo impianto fondamentale — per il modo in cui, centoquarant’anni dopo (nel 593), Gregorio Magno avrebbe fermato Agilulfo. Tra l’altro, quando Papa Gregorio agì con Agilulfo più o meno come Leone aveva fatto con Attila, gli fu stranamente rimproverata quella che Azzara definisce «un’ingenua arrendevolezza al cospetto del nemico barbaro». Secondo Azzara, è più probabile che nel 452 Attila si sia ritirato per non affaticare ulteriormente i suoi uomini in un’inutile discesa verso l’Italia meridionale e una città, Roma, che non aveva per lui grande interesse. Quella di Leone Magno va dunque considerata una leggenda o una storia molto ingigantita rispetto a quel che accadde davvero.
In ogni caso nacque a quel tempo il mito del «flagello di Dio» piegato da una Chiesa disarmata. Uno dei più grandi miti di tutti tempi. Un mito coevo di Attila. Già nel 396 san Girolamo aveva identificato le invasioni barbariche come un castigo divino: «Se i barbari sono forti», aveva scritto, «è per i nostri peccati, ed è a causa dei nostri vizi che l’esercito romano subisce sconfitte … E disgraziati noi che ci rendiamo così poco accetti a Dio, la sua ira si abbatte su di noi attraverso la violenza dei barbari». Dopo la devastazione di Roma da parte di Alarico (410), sant’Agostino aveva aggiunto: «La pazienza di Dio invita i cattivi al ravvedimento, come il flagello di Dio (flagellum Dei ) istruisce i buoni alla pazienza». Ma era stato Isidoro di Siviglia (560-636) a compiere l’identificazione tra il flagello (un’arma fatta da un manico di legno munito di una catena metallica alla quale è agganciato un blocco di ferro) e gli Unni: «Essi sono il flagello della collera di Dio, e ogni volta che si produce la sua indignazione contro i fedeli, questi sono da loro flagellati affinché, castigati per mezzo delle loro afflizioni, siano puniti a causa della cupidigia del secolo e del peccato, ed ereditino il regno dei cieli».
Ma nell’Europa centrale furono altri i motivi per i quali Attila passò alla storia e al mito. Julia M.H. Smith, nel suo L’Europa dopo Roma (Il Mulino), ha prestato grande attenzione al Waltharius . Nel Waltharius , opera epica in latino risalente probabilmente alla fine del IX o al X secolo, si narrano le gesta di un eroe — leggendario, non storico — di nome Walther «che diventa adulto mentre è ostaggio presso la corte di Attila. Assieme a lui il re degli Unni aveva preso prigioniera anche l’erede al trono burgundo e promessa sposa di Walther, Hildgund, oltre al nobile franco Hagen, consegnatogli in cambio del principe franco Gunther, all’epoca ancora in fasce». I tre «beneficiano dell’ospitalità di Attila e con il tempo raggiungono posizioni eminenti nella sua corte, Hildgund come dama di compagnia della regina unna, Walther e Hagen come comandanti vittoriosi dell’esercito unno». Quando poi Gunther diventa re dei Franchi, Hagen fugge per unirsi a lui. Qualche tempo dopo anche Walther e Hildgung fuggono dalla corte di Attila, portando con sé il tesoro degli Unni. Ma per raggiungere l’Aquitania devono attraversare il regno di Gunther, il quale, venuto a conoscenza del transito dei due, spedisce contro di loro dodici guerrieri che hanno l’ordine di impadronirsi del prezioso carico. Walther decide di affrontare i dodici guerrieri di Gunther, tra cui è anche il suo amico di gioventù Hagen. E alla fine, morti tutti gli altri, Hagen e Walther saranno costretti a combattere l’uno contro l’altro. Al termine di un combattimento assai violento, Walther prevarrà, sposerà finalmente Hildgung e i due daranno vita a una dinastia regale. Attila qui appare come un sovrano generoso. Un grande, anche a dispetto della successiva rottura con Gunther, Walther e Hildgung.
Ci sono poi altre opere in cui la corte di Attila rivaleggia in celebrità con quella di Artù: il lungo poema Biterolf (composto tra il 1250 e il 1260) fa del re degli Unni un ritratto particolarmente lusinghiero. In ogni caso, alla luce delle fonti dell’epoca, scrive la Bozoki, «niente giustifica la reputazione di estrema ferocia che progressivamente sarà associata all’immagine degli Unni e soprattutto del loro re». Ciò che aveva già intuito nell’Ottocento Amédée Thierry, quando scrisse che «si percepisce che l’Attila della storia non è affatto quello della tradizione». Ma allora a cosa si deve il racconto del «flagello»? A storie «ricostruite» attorno al X secolo, quattrocento anni dopo la morte di Attila, avvenuta, come si è detto, nel 453. Storie edificanti a gloria della Chiesa. Come quelle di santa Genoveffa protettrice di Parigi e di sant’Aniano, vescovo di Orléans, ai tempi della battaglia dei Campi Catalaunici. E ad edificazione del mito dei «vescovi resistenti» (primo tra tutti, Servazio) che avrebbero salvato l’Italia e l’Europa laddove l’amministrazione militare e civile dell’Impero era venuta meno. Tema che si ripropone nel X secolo ai tempi delle invasioni ungheresi (924), quando si sviluppano le leggende di san Lupo, san Geminiano, sant’Albino, sant’Autore e san Liborio, oltre a quelle di sant’Orsola e delle «undicimila vergini martiri di Colonia» violate e in gran parte uccise da Attila e dai suoi (769 delle quali saranno addirittura «identificate», nome per nome, tra il 1183 e il 1187, circa settecento anni dopo il supposto massacro).
Inizia così la storia dell’uso politico della leggenda di Attila. Nell’XI secolo fu redatta una Storia dei vescovi di Liegi , nella quale era esposta la tesi che gli Unni discendessero addirittura dagli Ebrei. Tesi riproposta tre secoli dopo nello Specchio delle storie di Jean d’Outremeuse. Raccontavano questi testi che gli Ebrei, ai tempi di Claudio, Tito e Adriano, avessero riparato nel Catai (in Cina) da dove poi, su disposizione del loro Dio, nel IV e V secolo sarebbero tornati in Europa per distruggerla. Sotto la guida di Attila.
Ma nell’uso di Attila da parte della Chiesa di Roma ce n’è anche per i musulmani. In La guerra d’Attila di Niccolò da Casola (1358) il re degli Unni è chiaramente assimilato ai saraceni maomettani. E tra i paladini che si battono contro il sovrano barbaro si distingue Foresto, principe d’Este. E per tutto il XIV secolo, nota Bozoki, «la popolarità letteraria di Attila, presentato come un nemico pagano assimilato ai saraceni, si spiega con l’atmosfera generale che ridà vigore all’idea delle crociate». Un discorso che continuerà a valere per molti decenni. Torquato Tasso nella Gerusalemme liberata (1581), a gloria della famiglia estense, descrive Foresto che si batte contro Attila nella difesa di Aquileia come l’«Ettore italiano». Ma da tempo ormai, in virtù della demonizzazione cristiana, Attila è ovunque: nella Divina Commedia di Dante (nel XIII canto dell’Inferno, come distruttore di Firenze), in alcuni dipinti di Giotto (oggi scomparsi) dove è raffigurato tra gli eroi pagani. Il massacro delle undicimila vergini di Colonia ispira Jacopo da Varazze, Tommaso da Modena e Carpaccio
Ma ci sono dei cattolici per i quali Attila torna ad essere un mito positivo. È quel che accade in Ungheria, dove nell’XI secolo nasce uno Stato cristiano che è assai potente per ben cinquecento anni, fino al 1526, quando è sconfitto dai turchi ottomani. In questo Stato compare una Storia degli ungheresi (1210) a cura di un anonimo che probabilmente è il notaio del re Béla III, nella quale Arpad, capostipite della dinastia reale, è individuato come un discendente di Attila. Tema su cui torna Simon Kézai, un chierico alla corte del re Ladislao IV, che alla fine dello stesso secolo ribadisce quella linea di discendenza e la collega alla storia della Bibbia. Kézai, scrive la Bozoki, «mette in evidenza le virtù principesche del re unno; era audace ma con giudizio, scaltro e vigile in battaglia, molto forte fisicamente, magnanimo e, soprattutto, di una straordinaria generosità che lo faceva amare dagli stranieri, mentre gli Unni lo temevano per la sua severità». E anche dopo la fine di questo Stato, tra gli ungheresi Attila continua ad essere ben considerato. Nella Cronaca degli ungheresi del notaio János Thuroczy (1486) si traccia una ritratto di Attila, «eletto re con voto unanime», come del più grande sovrano della sua epoca. A questo punto la memoria del «flagello di Dio» è quantomeno riequilibrata.
Nel 1667 Pierre Corneille dedica ad Attila una delle sue ultime opere teatrali, per spiegare quale fosse l’uso (in fondo pacifico) che il re degli Unni faceva, a sua volta, della paura da lui provocata tra i popoli europei: «Egli brama le conquiste, ma odia altrettanto le battaglie. Vuole che il terrore del suo nome sia quello che gli abbatte le muraglie». In buona sostanza, più che una belva è un abile stratega, che inventa la deterrenza. Nel 1734 Montesquieu — nelle Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza — fa un ritratto di Attila piuttosto elogiativo. Mette in risalto che «Attila ha lasciato sopravvivere Roma non per moderazione, ma per seguire i costumi della sua nazione che imponevano di sottomettere i popoli e non di conquistarli». Lo considera come «uno dei maggiori monarchi di cui la storia mai abbia parlato». I suoi sudditi — sostiene Montesquieu — «lo temevano ma non lo odiavano»; era «superbo ma anche astuto»; «collerico e però capace di perdonare o di rimandare la punizione»; «mai faceva la guerra quando la pace poteva dargli bastanti vantaggi; fedelmente servito pure dai re che erano alle sue dipendenze, aveva serbato per sé solo l’antica semplicità dei costumi degli Unni».
Dal XVIII secolo gli Unni e Attila sono celebrati in un numero crescente occasioni. In Ungheria, dal Settecento, il tema dell’origine unna, afferma Edina Bozoki, «è considerato come un fatto acquisito, ma è sfruttato a seconda dell’orientamento politico degli autori, divisi tra l’amicizia e l’ostilità nei confronti degli Asburgo». Nel poema latino di Sigismond Varjù intitolato Divina metamorfosi seu Hungaria e gentili Christiana (1711) gli Unni e Attila si mostrano nei «loro tratti più barbarici e, soprattutto, anticristiani». Altrove ci sono però giudizi molto diversi. All’inizio dell’Ottocento, in De l’Allemagne , Madame de Staël identifica il re degli Unni con Napoleone. Ma, in tempi successivi, nella letteratura patriottica successiva al fallimento dell’insurrezione ungherese del 1848-49, «si manifesta un particolare interesse per le leggende unne, considerate come temi dell’identità nazionale». Poco tempo prima (nel 1846) Giuseppe Verdi nel suo Attila (in un libretto scritto da Temistocle Solera e completato da Francesco Maria Piave) aveva inteso denunciare dietro il regime degli Unni l’oppressione degli Asburgo. Assai velatamente, a dire il vero. Nel 1858, l’Alessandro Manzoni magiaro, Mor Jokai, scrive che Attila fu a tal punto importante che, per volontà di uno sciamano, fu seppellito nel letto del fiume Tibisco affinché «non si potesse mai ritrovare il luogo della sua sepoltura». E il più grande poeta ungherese dell’Ottocento, Janos Arani, nel 1863 compone un poema in dodici canti sull’uccisione di Bleda (o Buda), fratello di Attila, che lo aveva scoperto a tramare contro di lui, per giustificare e nobilitare quella uccisione.
Il culto di Attila si accentua dopo la fine della Prima guerra mondiale e la dissoluzione dell’impero austro-ungarico. In Urss diventa a suo modo un eroe protocomunista. In Unione Sovietica Evgenij Zamjatin, nel 1928, dedica un’imponente opera teatrale proprio al re degli Unni. Il Comitato di lettura del Grande teatro drammatico di Leningrado, affiancato dai rappresentanti di molte fabbriche della città, dà parere favorevole alla sua rappresentazione. Ma, racconta Edina Bozoki, «durante le repliche, lo spettacolo viene improvvisamente vietato». Scritta «in un linguaggio espressionista, laconico e popolare, l’opera di Zamjatin è una metafora della rivoluzione sovietica». Attila è «la fiamma della rivoluzione che sta per sconvolgere il vecchio mondo civilizzato». E a chi gli propone la pace, gli chiede di lasciare il mondo così com’è, evoca le bellezze e le ricchezze di Roma e gli rimprovera i centomila morti di cui è responsabile, Attila risponde «che vuole la vita di tutti, non solo dei centomila romani che hanno sottomesso milioni di schiavi». E gli schiavi stanno ad ogni evidenza per il proletariato mondiale. Ma il personaggio descritto da Zamjatin è contraddittorio: «Benché sia presentato come il liberatore degli oppressi, è crudele e sanguinario; ispira timore». Sotto certi aspetti «fa pensare a Lenin e ancora di più a Stalin». Ad esempio «l’ordine di giustiziare il suo stesso fratello può essere inteso come un’allusione alla lotta senza quartiere condotta da Stalin all’interno del partito bolscevico». E, in ogni caso, così lo percepisce il dittatore georgiano, che fa vietare lo spettacolo.
Zamjatin nel 1931 espatria, va a Parigi, dove inizia a scrivere un romanzo, Il flagello di Dio , che resterà incompiuto. L’autore russo descrive il mondo romano come «decadente e perfino ridicolo». Un mondo nel quale «regna un’atmosfera carica di inquietudine e di crisi; si aspettano guerre, insurrezioni, catastrofi; le fabbriche chiudono; i disoccupati reclamano il pane; gli uomini non si fidano più nemmeno dell’oro, estremo rifugio». Attila, giovane ostaggio a Roma, è sorpreso dall’indolenza dei ricchi portati in lettiga, dall’etichetta e soprattutto dal servilismo che regnano alla corte imperiale… Purtroppo però Zamjatin muore prima di giungere al dunque, cioè al punto in cui descrive, approfondendo i temi della sua precedente opera teatrale, gli effetti della «rivoluzione» di Attila. Per poco — si può asserire — non ha visto la luce un Attila antistaliniano.
Nel frattempo, in Ungheria, tra le due guerre mondiali ci si dedicò a un culto di Attila protonazista e si progettò di innalzare a Budapest una statua equestre che rappresentava Attila rivolto verso l’Occidente in atto di sfida. Un movimento detto dei «nuovi pagani» iniziò poi la costruzione di una torre in memoria di Attila. Tra la fine degli Anni Quaranta e i primi Anni Cinquanta nell’Ungheria socialista questa costruzione fu utilizzata come torre di controllo dalla polizia segreta. Poi fu lasciata andare in rovina. Ma dopo la fine del comunismo, ecco rispuntare una «Santa chiesa degli unni» che sostiene essere stati «gli etruschi una tribù unna, così come i cinesi e i giapponesi». Ed ecco nascere il partito (di estrema destra) dell’«Alleanza unna». E alla fine (nel 2010) viene eretta una statua ad Attila, alla cui inaugurazione sono presenti il presidente del Parlamento, il ministro della Difesa, militari, sindaci, rappresentanti degli ungheresi che vivono oltreconfine. Un sacerdote della Transilvania benedice la statua «in nome di tutti gli ungheresi». A questo punto si può essere certi che la storia di Attila, o meglio del suo mito, non finisce qui. E che il futuro prossimo sarà sempre più generoso nei suoi confronti.