mercoledì 22 gennaio 2014

Repubblica 22.1.14
La fiaba moderna della grande trattativa
di Barbara Spinelli


DIFFICILE pensare che un politico accorto, abituato a vincere, usi le parole a casaccio. Che si spinga fino a dire, come Renzi dopo l’incontro con Berlusconi al Nazareno, che nel colloquio è emersa «profonda sintonia». Sintonia si ha quando il suono che emetti s’accorda perfettamente con un altro. Se poi è addirittura profonda, ogni incongruenza diventa schiuma delle cose. Schiuma la condanna giudiziaria del Cavaliere; schiuma l’imperio della legge.
Armonia regna. La Grande Trattativa può iniziare. Se fosse una fiaba, e non un pezzo emblematico di storia italiana, le incongruenze sarebbero normali: la montagna che scali è in realtà una pianura, i sassolini bianchi che raccogli nel bosco ti fanno dimenticare che la madre ti ha scacciato e gettato nella notte. Stoffa delle fiabe è anche il ripetersi del perturbante, che risbuca uguale a se stesso finché l’incanto si spezza.
Non così in politica, dove il perturbante stride: per alcuni insopportabile, per altri incomprensibile. Quando la politica prescinde così platealmente dalla giustizia, quest’ultima evapora. Negoziare non solo la legge elettorale ma anche la Costituzione con un pregiudicato è difficilmente giustificabile perché gli italiani si diranno: ma come, Berlusconi non era interdetto? incandidabile? Che ne è, della maestà della Legge?
La fiaba, dice Cristina Campo, è una professione di fede; è «incredulità nella onnipotenza del visibile». Non fidarti di quel che vedi, credi piuttosto nell’invisibile, nel sotterraneo. Non è successo nulla nei tribunali, Berlusconi s’è candidato alle europee e nessuno inarca il sopracciglio. Quel che hai visto al Nazareno, la favola lo rende possibile: la politica più che autonoma è sconnessa dalla giustizia, Berlusconi ha milioni di elettori e solo questo conta. Lui l’ha sempre preteso.
La sintonia affiorò subito, quando il manager entrò in politica col suo enorme conflitto di interessi e gli fu condonato. A più riprese fu poi protetto; in momenti critici Napolitano gli diede tempo per rialzarsi; ogni volta lo scettro gli fu restituito. Lo stesso accade oggi, sei mesi dopo la sentenza: il condannato s’accampa sugli schermi come cofondatore, addirittura, di nuove Costituzioni. «La pacificazione che non è riuscita a Letta è andata in porto con Renzi», si compiace Forza Italia.
La pacificazione copre punti cruciali, a cominciare dalla legge elettorale. Per Berlusconi l’Italia deve essere bipolare, perfino bipartitica: sempre ha detto che l’esecutivo non va imbrigliato. Solo di recente ha accettato, per convenienza, larghe intese. Renzi gli fa eco: l’accordo «garantisce la governabilità, il bipolarismo, ed elimina il ricatto dei partiti piccoli». La rappresentatività neanche è menzionata. Forza Italia recupererà Alfano, ma il Pd chi recupererà? Non solo: Berlusconi ha sempre voluto Camere di nominati, e con le liste boccate (sia pur piccole) i nominati torneranno. Forse Renzi ci ripenserà. Al momento, anch’egli sogna deputati controllabili. Ha tirato fuori il doppio turno: che evita gli inciuci, non i parlamenti blindati.
Una minoranza del Pd s’indigna («Mi sono vergognato », ha detto Fassina, e Cuperlo si è dimesso da Presidente). Ma anche qui regna l’infingimento fiabesco. Chi s’offende ha fatto le stesse cose, per vent’anni, senza vergogna in eccesso. Agì nell’identico modo Veltroni, quando nel gennaio 2008 proclamò a Orvieto che il Pd rompeva le alleanze e «correva da solo» contro Berlusconi. Meno di quattro mesi dopo il governo Prodi cadeva, Berlusconi saliva al trono. Né furono meno corrivi D’Alema, Violante, che ignorarono la legge sul conflitto d’interessi aprendo le porte al capo d’un impero televisivo. Dicono alcuni che Renzi può patteggiare, essendo «nato-dopo» questa storia di compromessi. Ma i nati-dopo sono responsabili della Storia (compresa la non elezione di Prodi e Rodotà al Quirinale, compreso il tradimento dei 101) anche se personalmente incolpevoli. Da quando guida il Pd, l’incolpevole risponde del passato, e di un’autocritica storica che tarda a venire.
Sostiene Renzi che tutto è diverso, oggi: la sintonia è semplice accordo, obbligato e «fatto alla luce del sole». La consolazione è magra. Berlusconi esce dalla notte ed entra nel giorno, con lui si rifanno leggi elettorali e anche costituzioni. Smetterà d’essere considerato un pregiudicato e dunque infido. Già ha smesso: è il senso simbolico-fatato dellaGrande Trattativa.
Conta a questo punto sapere l’oggetto del patto. Per alcuni è la salvezza del boss dai giudici, vil razza dannata. Più nel profondo, è la consacrazione di nuovi padri costituenti. Tra loro ha da esserci chi, anche se condannato, s’ostina a definire desueta la Costituzione del ’48. L’ha ribadito l’11 gennaio: «Abbiamo fiducia, con una legge elettorale che dia il premio di governabilità del 15%, di arrivare da soli ad avere la maggioranza in Parlamento, per poter fare quello di cui l’Italia ha bisogno dal 1948 a oggi». Il ’48, in altre parole, fu un inizio nefasto. Non si sa se la sintonia profonda copra anche questo. Renzi parla solo di Senato e regioni, ma quel che succederà dopo non è chiaro. Chiaro è però l’approdo: l’Italia deve essere bipolare, bipartitica, e i governi non destabilizzabili da coalizioni insidiose. Un’ambizione legittima, se l’Italia politica fosse davvero divisa in due. Ma è divisa in tre: la crisi ha partorito Grillo. Semplificare quel che è complesso è la molla di Berlusconi, di Renzi, di Letta, anche del Colle. Il fine è un comando oligarchico, non prigioniero delle troppo frammentate volontà cittadine. La soglia elettorale dell’8 per cento per i partiti solitari è una mannaia. Grillo non temerà concorrenti.
Nel suo ultimo libro, Luciano Gallino dà un nome alla nuova Costituzione cui tanti tendono: la chiama costituzione di Davos. Il termine lo coniò in una riunione a Davos Renato Ruggiero, ex direttore dell’Organizzazione mondiale per il commercio: «Noi non stiamo più scrivendo le regole dell’interazione tra economie nazionali separate. Noi stiamo scrivendo la costituzione di una singola economia globale». Un obiettivo non riprovevole in sé (anche Kant l’immaginò), se lo scopo non fosse quello di «proteggere un’unica categoria di cittadini, l’investitore societario globale. Gli interessi di altre parti in causa — lavoratori, comunità, società civile e altri i cui diritti duramente conquistati vennero finalmente istituzionalizzati nelle società democratiche — sono stati esclusi» (Gallino, Il colpo di Stato di banche e governi, Einaudi 2013).
Non stupisce che 5 Stelle (o altri movimenti alternativi) disturbino i semplificatori. Sia pure caoticamente, la società civile — quella vera — s’interessa alla politica perché vede minacciati non interessi di parte ma il pubblico bene, come definito da Machiavelli: proprio il bene ignorato dalla costituzione di Davos. Non stupisce nemmeno che nelle mappe raffiguranti l’odierno Parlamento, lo spicchio di 5 Stelle perda spesso il nome: è occupato da «Altri». Era così nelle mappe del decimo secolo. Dove cominciavano terre sconosciute, specie asiatiche, si scriveva:
Hic abundant leones, qui abbondano i leoni. Questo forse intendeva il capo dello Stato, dopo le amministrative del ‘12, quando di Grillo disse: «Non vedo boom».
I leoni sono ora in Parlamento, e ci torneranno. Possono dire qualcosa, difendere la Costituzione del ’48, la legalità. È grave che non agiscano, lasciando che la Sintonia sia ancor più vasta. Il loro sbigottimento di fronte all’incontro che ha rilegittimato un politico condannato lo si può capire. È vero, «l’Italia è in preda alle allucinazioni e ai déjà-vu». Ma lo stato di stupore non è sufficiente. Alla lunga paralizza. La Grande Trattativa non è scongiurata: davanti a tanti volti trasecolati, può proseguire nei più imprevedibili dei modi.

Repubblica 22.1.14
Risposta a Galli della Loggia sul liberismo
Quando la prevalenza dell’economia è una scelta politica
di Roberto Esposito

Sul Corriere della sera del 20 gennaio Ernesto Galli della Loggia, interloquendo con un mio precedente articolo su queste pagine del 7 gennaio, apre una discussione di sicuro interesse, centrata sul ruolo del neoliberalismo nell’attuale crisi, ma allargata ad un orizzonte storico assai più ampio e profondo. Lo fa con la consueta verve polemica, mescolando con sapienza notazioni acute e presupposti ideologici. La sua tesi di fondo è che una certa sinistra “radicale” e “antagonista” assegni all’economia un ruolo eccessivo, attribuendo al capitalismo effetti perversi che derivano dal processo di secolarizzazione moderna. Ricerca del guadagno con ogni mezzo e dominio incontrollato sulla natura sarebbero conseguenze non di una data politica economica, ma dell’“alambicco faustiano” della modernità in cui si fondono primato dell’individuo e razionalità tecnico-scientifica. Costi e benefici della civilizzazione moderna sono dunque talmente intrecciati che non è possibile evitare gli uni senza rinunciare agli altri. Anziché fare propria questa amara saggezza – che il nostro male deriva dalla secolarizzazione e dunque è per molti versi inevitabile – la sinistra radicale se la prende con avversari di comodo.
Posso apprezzare la coerenza interna di questa prospettiva. Che però va misurata alla prova dei fatti. Mi verrebbe di invitare Galli della Loggia a fare più storia e meno filosofia. E non perché sia sbagliato inquadrare questioni contemporanee entro blocchi temporali di lungo periodo. Fino a quando, però, i paradigmi generali non cancellino le distinzioni e le discontinuità. La modernità non è un flusso continuo che scorre dal Quattrocento ai giorni nostri. Essa ha significato molte cose, spesso in contrasto tra loro. Al suo interno si sono incrociate, e anche scontrate, politica, economia, tecnica in vicende alterne. L’uscita dall’orizzonte teologico non ha portato solo egoismi e conflitti, ma anche responsabilità e vita civile. All’interno del Moderno ci sono fenomeni diversi come l’umanesimo italiano, lo Stato assoluto, il repubblicanesimo olandese, la rivoluzione francese, il liberalismo ed il socialismo. C’è la richiesta di libertà, ma anche l’esigenza di uguaglianza. Non mi sembra che sindacalismo, New Deal e Welfare siano antimoderni. Schiacciare tale complessità sul primato dell’individuo e il trionfo della tecnica, mi pare quantomeno riduttivo. Si può dire che i nostri problemi nascono dalla modernità, ma anche che derivino dal suo mancato compimento.
Come spesso accade, le cose non si oppongono mai come il bianco al nero, ma si combinano in una proporzione che poi fa la differenza. Questo vale anche per quanto è accaduto nell’ultimo settantennio. Che politica ed economia siano sempre intrecciate è fuori dubbio. Ciò non significa, però, che i loro rapporti di forza restino immutati. In questo senso il liberalismo ottocentesco non è lo stesso del neoliberismo. Due sono state le fratture decisive che hanno segnato la storia di questi decenni. La prima va individuata alla fine degli anni Settanta, quando in nome della liberazione da vincoli oppressivi si è smantellato lo Stato sociale prima nei Paesi anglosassoni e poi nel resto di Europa. È stato allora che l’economia è sembrata prevalere fino a spingere la politica ai margini del quadro.
L’altro passaggio decisivo è stato segnato dal dispiegamento della globalizzazione, che ha indebolito le prerogative politiche degli Stati nazionali senza rafforzare – almeno nel caso nostro – quelle del continente che li contiene. Anch’esso ha contribuito al dominio incontrastato della logica mercantile, piegata alla finanza e allargata allo spazio globale, rispetto alle regole che nel primo trentennio del dopoguerra hanno protetto le fasce più deboli. Certo, neanche allora i regimi occidentali erano “il regno dell’autenticità e della solidarietà”. Ma mi pare ci sia una differenza tra una società che si prefigge l’obiettivo della piena occupazione e un’altra che rende il mercato del lavoro una corrida in cui chi vince prende tutto e chi perde si può anche suicidare. Nella storia uno stesso fenomeno assume un senso diverso a seconda del contesto spaziale e temporale in cui si verifica. Se degli uomini vengono frustati a morte finché annegano in mare non è la stessa cosa se ciò accade a fine Settecento sulle coste della Virginia o nel 2013 non lontano dalla Sicilia.
Ciò ha a che vedere con la centralità dell’individuo e lo sviluppo impetuoso della scienza? Forse ha più a che fare con il modo con cui entrambi vengono intesi e praticati. Personalmente, pur considerando decisiva la rivendicazione dei diritti individuali, ho sempre insistito sul polo della comunità. Quanto poi alla relazione tra tecnica e vita mi esprimerei con prudenza. Premesso che l’uomo è l’animale tecnologico per eccellenza, sono lontano dall’idea ingenua che gli enormi problemi che abbiamo di fonte possano essere risolti dalla tecnica. I cui effetti politici dipendono comunque da coloro che ne gestiscono gli accessi e il controllo. Essere di sinistra, non so se “radicale”, significa pensare che ciò che ci aspetta non è mai del tutto determinato da quanto ci precede.

Repubblica 22.1.14
Il pericolo Porcellinum
di Gianluigi Pellegrino


C’È UN rischio grande che deve preoccupare innanzitutto Matteo Renzi. Che la montagna del volano riformatore che ha meritoriamente innescato, alla finenon partorisca un topolino.
Edopo tanti buoni propositi, dall’inguardabile Porcellum si passi al beffardo Porcellinum.
Ed allora per poter giudicare quel che accade è bene guardare con attenzione il merito delle cose che in fondo è più semplice di quanto possa apparire.
Non esiste una legge elettorale buona per sempre. Per questo non è blindata in Costituzione. Oggi, nel-l’Italia sfregiata dal Porcellum e immobilizzata dal ventennio berlusconiano, l’esigenza è buttare alle spalle gli orrori principali della legge porcata e di conciliare al meglio rappresentanza e governabilità.
Quali siano stati gli sfregi del Porcellum è presto detto. Un sistema di liste bloccate che ha sfigurato il Paese sin dentro al midollo, elevando a sistema istituzionale l’abbandono del merito e delle competenze. Un moltiplicatore di mediocrità e di decadenza che ci ha dato non solo i peggiori parlamenti che la storia recente ricordi, ma anche, a cascata, un precipizio di qualità a tutti i livelli, corpi di vertice e intermedi.
Bisogna allora stare lontani mille miglia da qualsiasi ipotesi di liste ancora una volta bloccate, corte o lunghe che siano. Perché comunque mantengono intatti i caratteri peggiori a prescindere da ogni valutazione di costituzionalità. Chi vuole votare il quarto della lista è costretto a sostenere anche gli altri, espressione magari di pura fedeltà alle segreterie dei partiti con il rischio peraltro che solo quelli risultino eletti. Così il voto viene letteralmente scippato all’elettore.
Ma c’è dipiù: le liste bloccate mortificano ogni ambito di autonomia dei parlamentari, riducendoli a quella schiera di soldatini che ha solennemente proclamato “Ruby rubacuori nipote di Mubarack”.
Né vale impegnarsi a svolgere le “parlamentarie” che si sono già rivelate una bufala (e sono state l’inizio della sconfitta del Pd alle ultime elezioni) per la banale ragione che le primarie sono strumenti forgiati per designare un candidato, non già un’untuosa classifica consegnata poi a vergognose notti di lunghi coltelli nelle segreterie nazionali e regionali (come avvenuto a febbraio).
Né si dica che l’alternativa sarebbero le preferenze, appiccicose e nefaste, quando la soluzione semplicissima è quella già sperimentata per il Senato ancor prima del mattarellum e per le province, senza patchwork da inventare, come giustamente ha sottolineato Massimo Giannini: collegi piccoli e uninominali fermo tutto il resto dell’impianto tracciato da Renzi. In quel caso sì le primarie svolgerebbero la loro precipua funzione e i parlamentari tornerebbero ad essere degni del ruolo e del mandato.
La seconda gigantesca anomalia del Porcellum è stata l’assenza di soglia per accedere al premio di maggioranza. Un buco nero nel tessuto democratico sanzionato dalla Consulta, che ancora deforma Camera e Senato.
Il progetto del segretario del Pd registra senz’altro quest’esigenza insieme a quella della governabilità e meritoriamente prevede un secondo turno nazionale per legittimare l’assegnazione del premio con il raggiungimento di almeno il 50% più uno dei voti. E però poi, con una contraddizione davvero macroscopica stabilisce che invece al primo turno per prendere tutto e sfuggire alla verifica del ballottaggio, basta un ben modesto 35%. Sul punto, persino a prescindere dal rinnovato contenzioso costituzionale che ciò inevitabilmente innescherà, il paradosso è che risulta più legittimato democraticamente chi vince al secondo turno da chi dovesse prevalere al primo. Peraltro una soglia così bassa scatena le pressioni e i ricatti dei piccoli partiti vanificando proprio uno degli obiettivi che Renzi ha detto di voler perseguire e premiando a dismisura la capacità berlusconiana di fare una nuova ammucchiata pur di tornare a vincere contro ogni previsione e con il voto di poco più di un elettore su tre.
In realtà se un sistema giustamente prevede il secondo turno, deve coerentemente stabilire che ad escluderlo possa valere solo il raggiungimento, al primo passaggio, di una soglia coerente con quella previsione; e quindi se non del 50% come avviene nei comuni e come sarebbe dovuto, almeno molto prossima a quell’indice di democraticità. Basti ricordare che il regime fascista impose la famigerata legge Acerbo che fissava la soglia al 25% non lontana dal 35 che ora sorprendentemente si prospetta. E la “legge truffa” fu chiamata così pur prevedendo il premio solo alla metà più uno dei voti.
Né si dica che liste bloccate e soglia bassa sarebbero stati prezzi chiesti dal Cavaliere in cambio del doppio turno, perché questo addebitare agli altri i peggiori compromessi al ribasso è stato il triste leitmotive della palude della larghe intese a partire dal colpo di spugna sulla concussione. In realtà Berlusconi non è mai stato contrario al ballottaggio nazionale (congeniale del resto ad ogni partito liederistico) ma solo al doppio turno alla francese limitato all’interno del collegio, pertanto non ha fatto nessuna concessione.
In conclusione non esistono ragioni, almeno ostensibili, per non mantenere l’intesa effettuando però le due piccole decisive correzioni nel senso dell’uninominale al primo turno e soglia democratica per il premio. Passa a ben vedere da qui il confine sottile tra la riforma che serve e il rischio di una beffa per i cittadini ben poco utile al sistema Paese. Oggi può sfuggire ai non addetti ai lavori, ma davanti alla scheda il pasticcio sarebbe svelato. Con Grillo che già si frega le mani.

l’Unità 22.1.14
La democrazia non si taglia
Tagliare gli sprechi, non la democrazia
di Nadia Urbinati


«Via i Senatori, un miliardo di tagli alla politica». Con questo argomento Renzi giustifica la sua proposta di riforme costituzionali a complemento della riforma elettorale; per entrambe scopre di avere una «profonda sintonia» con l’ex senatore Berlusconi. Alle critiche rivolte da più parti per l’incontro che ha messo in luce questa sintonia, vorrei proporne un’altra sull’argomento che motiva la riforma. L’argomentazione è pessima perché le istituzioni si dovrebbero riformare per ragioni politiche, non perché sono costose. La democrazia non è costosa: essa esiste o non esiste.
E per esistere, poiché coloro che praticano la democrazia sono ordinari cittadini che vivono del loro lavoro, deve mettere in conto di usare i soldi pubblici per far fronte alle sue spese di funzionamento. La politica è un bene pubblico che si autoalimenta con i soldi dei suoi cittadini. Non c’è spreco in questo. Se ci sono sprechi (e ce ne sono certamente), questi devono essere cancellati, eliminando i comportamenti inutili o male organizzati non «tagliando la politica».
Il Senato non è uno spreco e non è rubricabile tra le spese da eliminare, neppure da parte dei riformatori, se è vero che verrebbe più che eliminato, sostituito con un diverso Senato. Se lo si cambia non può essere quindi perché costa troppo. Dunque, eliminarlo perché? E sostituirlo con che cosa?
Circola nei media l’idea (con pochi argomenti ragionevoli e nessun contro argomento) che il bicameralismo sia un orpello ereditato dal passato, dal liberalismo ottocentesco che lo ha desunto dalla tradizione anglosassone, la quale fece con esso la sua battaglia contro i rischi di nuova tirannia della maggioranza parlamentare. Il bicameralismo è nato con lo scopo di limitare il potere elettivo mediante la lentezza, contro l’argomento sofistico dell’emergenza e della velocità decisionale (lasciateci governare, diceva Berlusconi quando era a Palazzo Chigi).
A leggere le note in favore dell’abbandono del bicameralismo sembra di essere tornati sulle barricate giacobine, se non che a proporlo oggi sono tutt’altro che radicali o comunisti: semmai sono leader plebiscitari che vogliono rafforzare il potere dell’esecutivo sfoltendo sia le assemblee legislative (riduzione del numero dei parlamentari) sia il numero dei partiti rappresentati in assemblea (con un sistema elettorale che rappresenti prima di tutto la maggioranza). In sostanza, un sistema mono-assemblea con non più di 400 o 450 deputati espressione idealmente di due partiti o poco più: questa è l’ingegneria nella quale si inserisce la volontà di abolire il Senato della Repubblica. Una replica a livello nazionale del governo dei sindaci che godono di un potere simile per intensità a quello di un amministratore delegato, e nessun consiglio comunale può controllare efficacemente o fermare, perché la sua piccola opposizione può difficilmente fare da argine alla volontà della maggioranza. Il costi del Senato della Repubblica non sarebbe annullati come si è detto ma impiegati per rendere possibile un Senato delle autonomie, che non dovendo condividere con la Camera dei deputati il potere di dare e togliere la fiducia al governo, non dovrebbe né potrebbe essere formato con suffragio diretto. Il voto dei cittadini non può infatti essere all’origine di due Camere ineguali in potere; pertanto la proposta di un Senato delle autonomie si combina a quella della sua formazione per voto indiretto. Parte dei senatori deriverebbero dai Consigli regionali o dalle aree metropolitane (quando ci saranno) o da altri organi di governo dei territori. Insomma la crisi delle istituzioni democratiche – di cui lamentiamo da anni la gravità – verrebbe risolta togliendo potere diretto ai cittadini e aumentando i poteri indiretti di quei cittadini che hanno già funzioni pubbliche.
Si porta a modello la Germania che ha una camera dei Länder (Bundesrat) i cui membri non sono eletti a suffragio universale diretto ma sono esponenti dei governi dei vari Länder e inoltre vincolati al mandato ricevuto dai loro governi locali di cui sono parte, in violazione del generale principio del divieto di mandato imperativo. Tuttavia, non si tiene contro del fatto la Germania ha mantenuto questa sua tradizione dall’Ottocento e non ha fatto marcia indietro dal voto diretto a quello indiretto, come invece faremmo noi. La questione è anche di ragionevolezza e prudenza politica: si può dire agli italiani di devolvere il loro potere di nomina a funzionari ed eletti locali? È il risparmio una ragione sufficiente per rispolverare il voto indiretto?
Il metodo dell’elezione indiretta ebbe successo nell’Ottocento come argine alla democrazia. Il liberale Benjamin Constant lo suggerì per questa ragione, volendo contenere l’egualitarismo che il diritto di suffragio portava con sè. La proposta si attirò prevedibilmente la critica di generare e proteggere un’oligarchia, di dar vita a una classe di notabili o di auto-referenziali, un club di cittadini con più potere. Inoltre non si può non mettere in conto un incremento di sprechi e corruzione, come mostra la storia degli Stati Uniti, i quali avevano all’origine un Senato nominato dagli Stati che divenne in pochi decenni un luogo di grandissima corruzione, traguardo per politicanti e interessi locali famelici. E così alla fine dell’Ottocento gli Stati Uniti si risolsero a restituire il potere elettivo ai cittadini per toglierlo ai potentati locali. Insomma, chi in Italia si ostina a legare questa riforma all’abbattimento dei costi della politica usa essenzialmente un argomento retorico.
Per valutare l’opportunità di riformare le istituzioni occorrerebbe avere come idea regolativa l’accountability democratica (il rendere conto a coloro che eleggono). Se il nostro scopo è di rendere il sistema delle istituzioni più, non meno, coerente con i principi democratici allora non si comprende perché dobbiamo prendere questa strada. Ecco quindi che la questione «perché ci proponiamo questa riforma» diventa cruciale, un canovaccio interpretativo delle proposte e una guida di selezione delle stesse. L’elezione indiretta del Senato non sembra essere la strada giusta. Se dobbiamo riflettere sull’accusa di autoreferenzialità rivolta alla classe (casta) politica in questi anni e che ha tante parte nei sentimenti antipolitici diffusi, allora risulta difficile da giustificare una proposta che va addirittura nella direzione di costituzionalizzare la formazione di livelli gerarchici di cittadinanza elettorale.

il Fatto 22.1.14
Patto a due
Legge elettorale, il dettaglio è peggio
di Paolo Flores d’Arcais


Che la riforma elettorale Renzi-Berlusconi sia pessima o resti invece nell’ambito della decenza dipende da un paio di dettagli, che i due non hanno discusso e che saranno decisivi.
Il modello spagnolo (comunque ribattezzato) favorisce infatti smodatamente ogni lista locale. Incoraggerebbe perciò non solo la nascita di “Forza Trinacria”, “Forza camorra” o “Forconi emiliani”, ma poiché i collegi sarebbero 118, su base ben più piccola delle dimensioni regionali, anche di “Benevento con Nunzia”, “Salerno ama De Luca” e “Forconi della Brianza”, in un’orgia di potentati locali di ogni specie e abiezione. La prospettiva sarebbe devastante per il paese, perché consegnerebbe definitivamente e strutturalmente le istituzioni in mano a ogni lerciume di società incivile, spingendo anche i grandi contenitori nazionali (che già sono strumenti di una indifendibile “casta”) a diventare meri collettori di tutti gli spurghi affaristici e gli intrecci corruttivi, clientelari e mafiosi.
A meno che la riforma Renzi-Berlusconi non stabilisca che solo le liste che presentano il loro simbolo in tutti i collegi (o comunque in un numero altissimo, minimo i tre quarti) e superino in tutti una determinata soglia, possano concorrere al premio di maggioranza, sia da soli sia come componenti di un’alleanza.
Sembrano questioni di lana caprina, ma mai come in fatto di leggi elettorali “il diavolo è nei dettagli”. Qualche esempio. Se per concorrere al premio di maggioranza bisogna aver presentato il simbolo in (quasi) tutti i collegi, e aver raggiunto in tutti almeno il 5%, è evidente che a Berlusconi non converrà allearsi con liste di capi-bastone locali, perché così disperderebbe una parte dei suoi voti. In questo caso, anzi, non potrebbe allearsi neppure con la Lega, che al sud il 5% non lo raggiunge in nessun collegio. Se però per concorrere al premio di maggioranza basta superare quella soglia in un numero limitato di collegi (ad esempio un terzo) i voti di Berlusconi e della Lega possono sommarsi. Cui si aggiungerebbero quelli delle infinite listerelle dei boss locali, se bastasse superare una soglia anche alta ma in un singolo collegio.
A UNA TALE accozzaglia e anzi orgia di intreccio affaristico-partitocratico-delinquenziale basterebbe raggiungere un totale del 35% per ottenere un illimitato potere parlamentare. Che definire raccapricciante sarebbe zuccheroso eufemismo. Come si vede alcune minuzie, che quasi nessun cittadino nota e di cui i tg non parlano, decidono di una differenza colossale.
Dunque, la questione cruciale è proprio questa: al premio di maggioranza potranno contribuire solo vere liste nazionali, e in alleanze che non possano turlupinare gli elettori, oppure l’esproprio della volontà dei cittadini conoscerà un nuovo e più efferato diapason? La direzione della riforma Renzi-Berlusconi sembra proprio questa. E del resto se non fosse questa Berlusconi non la firmerebbe (nel calcolare con esattezza i proprio interessi il delinquente di Arcore non ha eguali). Staremo comunque a vedere, se sarà Berlusconi a fregare Renzi o viceversa (oltretutto, una norma democratica ovvia dovrebbe essere la proibizione di nomi e cognomi nei simboli). Infatti con il sistema spagnolo aggravato dal premio di maggioranza, e senza le clausole anti liste locali che ho richiamato, Renzi sarebbe fregato, esattamente come lo fu D’Alema, che pensava di aver messo nel sacco il futuro pregiudicato con gli amorosi sensi della bicamerale. Oggi Renzi ha la vittoria in tasca, il “suo” Pd ha dieci punti di vantaggio su Forza Italia, il partito di Berlusconi è dilaniato dalle lotte delle varie componenti (falchi e superfalchi, politici e aziendalisti, giovani e vecchi, ecc., una regione contro l’altra, e dentro ogni regione una cordata contro l’altra), e con Berlusconi per molti mesi agli arresti imploderebbe.
Di conseguenza, con un sistema elettorale a doppio turno e collegi uninominali, Berlusconi e il suo partito sarebbero definitivamente spazzati via, e la partita, almeno per la prossima legislatura, si giocherebbe tutta e sola tra Renzi e Grillo, tra il Pd e il M5S (al secondo turno, tra un berlusconiano e un grillino quasi ogni elettorale Pd sceglie il grillino, e tra un berlusconiano e un Pd quasi ogni elettore M5S sceglie il Pd). Resta perciò enigmatico perché sia Renzi che Grillo continuino a osteggiare il collegio uninominale a doppio turno (con eventuali primarie incorporate, come ho illustrato più volte su MicroMega) che oltre a essere oggi come oggi decisamente migliore dal punto di vista dell’interesse generale del paese (perché quando le forze in campo sono tre tutti i maggioritari a turno unico espropriano la volontà degli elettori avvicinando il risultato elettorale a una roulette) sarebbe anche più vantaggioso per il “particulare” di entrambi.
INFINE: quale miglioramento porti la riforma Renzi-Berlusconi rispetto al Porcellum resta un mistero gaudioso. I parlamentari sarebbero sempre dei nominati dai vertici dei partiti. Che lo siano in tanti collegi o in pochi o in un solo collegio nazionale, cosa cambia per l’elettore? E ogni coalizione/accozzaglia, con poco più di un terzo dei voti arrafferebbe la maggioranza assoluta in entrambe le Camere.
Ma se il “passo avanti” è tutto qui, tanto valeva tenersi il Porcellum, estendendo al Senato il meccanismo premiale della Camera. Perché questo realizza la riforma Renzi-Berlusconi.
Che conferma la legge italiana fondamentale: “Al peggio non c’è mai fine”. Senza i radicali emendamenti alla riforma Renzi che ho descritto sopra, perciò, sarebbe di gran lunga meno peggio votare col proporzionale puro che, dopo la sentenza della Corte costituzionale, è il sistema attualmente vigente.

il Fatto 22.1.14
Furio Colombo
Berlusconi e Renzi, perché?


CARO COLOMBO, la grande giustificazione di Renzi sarebbe: condannato o no, nella destra comanda lui e bisogna incontrare lui. Ma è la stessa logica della trattativa Stato-mafia. Possibile che sia la mossa giusta per cominciare?
Matteo

PENSANDOCI BENE la “missione impossibile” e dunque molto celebrata quasi da tutti di Matteo Renzi, che incontra pubblicamente Silvio Berlusconi, associandolo al ruolo di salvatore della Patria, non è così estranea a una consolidata tradizione del Pd ricevuta in eredità dagli ex e dagli “ex ex” di una parte e dell’altra (Pci e Dc ). Il Pd, infatti, ha continuamente guardato con tolleranza e mitezza a venti anni di berlusconismo, di conflitto di interessi, di compravendita di giudici e parlamentari. Parlo di un Pd che, per dirla con Francesco Piccolo, ha sempre voluto essere come “tutti”, cioè garantista e tollerante verso uno che sarà anche un po’ fuori legge, ma piace. E comunque ha potere. Chi si è trovato nella fossa Pd, vuoi perché aveva a che fare con“l’Unità”, vuoi perché faceva parte del gruppo parlamentare alla Camera o al Senato, veniva regolarmente pregato di non sollevare certe questioni di “berlusconismo viscerale” sul quotidiano Pds, Ds, Pd, o di non fare certi interventi in aula. Non si trattava di questioni politiche complicate. Si trattava di decidere se, per un partito che vuole avere un rapporto leale con i cittadini, è bene dire la verità, fattuale, politica e giudiziaria su Berlusconi (che stava creando stupore nel mondo di amici e alleati) oppure era doveroso fingere che il perenne imputato (dal traffico di prostituzione minorile all’abbordaggio della Mondadori, con acquisto, quando necessario, di giudici e senatori e –intanto– frode fiscale continuata e amicizia dichiarata con il pluriassassino Mangano) fosse un normale statista da cui, di tanto in tanto, mitemente si dissente. Certo, “tutti” preferivano Berlusconi o per affari o per prudenza (perché si poteva anche perdere il posto mettendosi contro, come Biagi alla Rai, come me e Padellaro a “l’Unità”). Invece, essere come “tutti” (ovvero smettere di sollevare grane dette pomposamente “denunce”) è un sentimento naturale, a giudicare dalle reti Rai e dall’eroico conformismo di tanti nostri colleghi che si sono mantenuti rigorosamente dalla parte di “tutti” per un tempo così lungo. Ma l’evento Renzi è forse un caso a parte, come lo è quasi ogni iniziativa del Supergiovane fiorentino. È accaduto tra una sentenza passata in giudicato per reato grave, e la decisione del giudice di sorveglianza sulla pena accessoria (domiciliari o servizi sociali?) e dopo l’espulsione di B. dal Senato. Possibile che il nuovo Pd di Renzi intenda aprire il futuro con uno “storico incontro” con il condannato che arriva scortato dalla polizia, che intanto svuota le strade, invece di arrestarlo come da sentenza? Voi potete sgridare il Pd per la mite tolleranza sempre dimostrata da tutto l’apparato dirigente verso Berlusconi e i suoi reati, prima della condanna definitiva. Ma dovete ammettere che Renzi è stato molto più audace: ha nominato Berlusconi interlocutore unico e co-autore dell’unica soluzione giusta e vera che salverà il Paese, dopo la condanna. Depone bene sul carattere vitalistico e impulsivo, capace di decisioni rapide, del ragazzo. Ma che roba è politicamente? E giuridicamente? E moralmente?

l’Unità 22.1.14
Cuperlo lascia la presidenza. Nel Pd è alta tensione
Minoranza in allarme. Fassina: «Matteo non sopporta le critiche, ma niente scissione»
Per la successione si pensa a Epifani
I bersaniani studiano emendamenti sulle preferenze
di Andrea Carugati


ROMA Sono durate poco più di un mese le “larghe intese” tra Renzi e Cuperlo alla guida del Pd. Anche stavolta, come era avvenuto per Stefano Fassina, una uscita polemica del segretario ha fatto tracimare il vaso. «Gianni, tu parli di preferenze ma sei arrivato in Parlamento senza fare le primarie...», gli aveva detto Renzi nel corso della direzione di lunedì. Cuperlo si era alzato di scatto e aveva lasciato il banco della presidenza. Nella serata in tanti avevano provato a convincerlo a restare, durante la cena in un ristorante del centro di Roma.
Ma ieri all’ora di pranzo, verificato che dal segretario non arrivava neppure un accenno di retromarcia, Cuperlo ha deciso. E alle 14 ha messo i suoi parlamentari riuniti a Montecitorio davanti al fatto compiuto. All’inizio dell’assemblea ha comunicato la sua decisione «irrevocabile» e ha letto la lettera di dimissioni, indirizzata a Renzi, che negli stessi minuti compariva nella sua pagina Facebook. «Il punto è che ancora ieri, e non per la prima volta, tu hai risposto a delle obiezioni politiche e di merito con un attacco personale. Ritengo non possano funzionare un organismo dirigente e una comunità politica dove lo spazio e l’espressione delle differenze finiscono in una irritazione della maggioranza e in una conseguente delegittimazione dell’interlocutore». Prosegue Cuperlo: «Mi dimetto perché sono colpito e allarmato da una concezione del partito e del confronto al suo interno che non può piegare verso l’omologazione».
In tanti, tra i parlamentari della minoranza, provano a fargli cambiare idea. Ma quasi tutti ammettono che «al posto tuo avrei fatto lo stesso». La minoranza si sente nell’angolo come mai prima d‘ora. Nei corridoi di Montecitorio aleggia la parola “scissione”, di cui le dimissioni del presidente sarebbero solo una prima pietra, quella che dà vita alla valanga. Ma tutti la respingono come fantapolitica. «Non esiste», taglia corto Alfredo D’Attorre, giovane bersaniano, uno dei più duri verso Renzi. «Non è all’ordine del giorno», spiega Davide Zoggia, che ricorda «quanto noi teniamo a questo partito. Ma per evitarlo queste aggressioni devono lasciare spazio a un clima più sereno». Anche Fassina esclude ipotesi di scissione, ma usa toni severi: «Le dimissioni di Cuperlo segnalano un problema molto serio e allarmante. Renzi ha confermato che non è in grado di sopportare le critiche. È un segnale di debolezza che non fa bene al Pd. Qui non c’è una minoranza livorosa che vuole sabotare, quella è solo una caricatura. Noi vogliamo migliorare le proposte che vengono presentate, non funziona l’idea che non si possa disturbare il manovratore».
La risposta di Renzi arriva verso le 17, e non lascia spazio a chi ancora auspicava una mediazione e una ricucitura, come Fassino e la vicepresidente Sandra Zampa. Il segretario prende atto della scelta dell’ex rivale delle primarie e accetta le dimissioni: «Siamo un partito vivo e appassionato, dove le critiche si fanno, come hai fatto tu, ma si possono anche ricevere. A me hanno dato anche del fascistoide...». «Mi spiace che ti sia sentito offeso a livello personale», è l’unica concessione di Renzi all’ormai ex presidente del Pd.
Pratica chiusa, dunque. E infatti la discussione tra i parlamentari della minoranza passa rapidamente oltre. Al tema bollente della legge elettorale. In tanti fanno notare che l’accordo, presentato da Renzi come allargato anche a Ncd, Scelta civica e Popolari, comincia a scricchiolare, come dimostra la discussione di ieri mattina in Commissione Affari Costituzionali della Camera. Critiche, proposte di modifica, che vanno dalle soglie di sbarramento al tema delle preferenze, che è quello che sta più a cuore alla minoranza dem. D’Attorre sta seriamente pensando a emendamenti contro le liste bloccate, ma c’è anche l’ipotesi di votare analoghe proposte da parte di altre forze di maggioranza. Non dei Cinquestelle: «Con loro abbiamo già dato...», sorride Davide Zoggia.
L’argomento è molto dibattuto, perché i Giovani Turchi, con Matteo Orfini, dicono no ad emendamenti fuori dalla linea del partito decisa in Direzione. «Io un emendamento per le preferenze non lo voto, a meno che non sia l’emendamento del Pd. Mi attengo alle decisioni del gruppo, perché questo è il modo per tenere unito il Pd. Altrimenti il partito si sfascia». «Dobbiamo provare fino in fondo a convincere il Pd che le preferenze sono un elemento fondamentale per fare una buona legge», spiega Fassina. Su questa linea converge anche D’Attorre, che per ora congela il suo emendamento, in attesa di vedere come proseguirà il dibattito in commissione. «Esiste l’autonomia del Parlamento nel fare le leggi», spiega lo stesso Cuperlo.
Resta il tema della presidenza Pd. Difficile che vada a un esponente dell’area Cuperlo. «Non ci sarebbero le condizioni per accettare», taglia corto Fassina. «Deciderà l'assemblea. A me piacerebbe che fosse ancora qualcuno che non sia del mio giro perché il partito è di tutti», dice Renzi. Circola il nome dell’ex segretario Epifani, una figura considerata da tutti di garanzia. O l’ipotesi di una promozione di Sandra Zampa, civatiana, portavoce di Prodi e attuale vicepresidente. La tensione però resta molto alta. «L’atteggiamento di Renzi fa male a tutto il Pd e anche allo stesso segretario», dice Cuperlo a Ballarò. «C’è una differenza tra dirigere e comandare, un leader dirige...». Anche l’ex presidente esclude scissioni: «In modo categorico, io voglio bene al Pd».

l’Unità 22.1.14
«Mi dimetto perché mi allarma questa idea del partito»
«Mi dimetto perché voglio bene al Pd e per rafforzare al suo interno idee e valori di una sinistra ripensata»
«Voglio poter criticare e dissentire senza che ciò appaia un abuso della carica di presidente»
«In direzione hai risposto a delle obiezioni politiche e di merito con un attacco di tipo personale. Ma così un partito non può funzionare»
di Gianni Cuperlo


Caro Segretario,
dal primo minuto successivo alle primarie ho detto due cose: che quel risultato, così netto nelle sue dimensioni e nel messaggio, andava colto e rispettato, e che da parte mia vi sarebbe stato un atteggiamento leale e collaborativo senza venir meno alla chiarezza di posizioni e principi che, assieme a tante e tanti, abbiamo messo a base della nostra proposta congressuale.
Ho accettato la presidenza dell’Assemblea nazionale con questo spirito e ho cercato di comportarmi in modo conseguente. Prendendo parola e posizione quando mi è sembrato necessario, ma sempre nel rispetto degli altri a cominciare da chi si è assunto l’onere e la responsabilità di guidare questa nuova fase.
Nella direzione di ieri sono intervenuto sul merito delle riforme e sul metodo che abbiamo seguito. Ho espresso apprezzamento per l’accelerazione che hai impresso al confronto e condiviso il traguardo di una riforma decisiva per la tenuta del nostro assetto democratico e istituzionale.
Non c’era alcun pregiudizio verso il lavoro che hai svolto nei giorni e nelle settimane passate. Lavoro utile e prezioso, non per una parte ma per il Paese tutto.
Ho anche manifestato alcuni dubbi – insisto, di merito – sulla proposta di nuova legge elettorale. In particolare gli effetti di una soglia troppo bassa – il 35 per cento – per lo scatto di un premio di maggioranza. Di una soglia troppo alta – l’8 per cento – per le forze non coalizzate e di un limite serio nel non consentire ancora una volta ai cittadini la scelta diretta del loro rappresentante. Dubbi che, per altro, ritrovo autorevolmente illustrati stamane sulle pagine dei principali quotidiani da personalità e studiosi ben più autorevoli di me.
Infine ho espresso una valutazione politica sul metodo seguito nella costruzione della proposta e ho chiuso con un richiamo a non considerare la discussione tra noi come una parentesi irrilevante ai fini di un miglioramento delle soluzioni.
Nella tua replica ho ascoltato la conferma che le riforme in discussione rappresentano un pacchetto chiuso e dunque – traduco io – non emendabile o migliorabile pena l’arresto del processo, almeno nelle modalità che ha assunto. Sino ad un riferimento diretto a me e al fatto che avrei sollevato strumentalmente il tema delle preferenze con tutta la scarsa credibilità di uno che quell’argomento si è ben guardato dal porre all’atto del suo (cioè mio) ingresso alla Camera in un listino bloccato.
È vero.
Per il poco che possano valere dei cenni personali, sono entrato per la prima volta in Parlamento nel giugno del 2006 subentrando al collega Budin che si era dimesso. Vi sono rientrato da “nominato” nel 2008 e nuovamente nel listino da te rammentato a febbraio di un anno fa. La mia intera esperienza parlamentare è coincisa con la peggiore legge elettorale mai concepita nella storia repubblicana. Sarebbe per altro noioso per te che io ti raccontassi quali siano stati la mia esperienza e il mio impegno politico prima di questa parentesi istituzionale. Però la conosco io, e tanto può bastare.
Quanto al consenso non so dire se in una competizione con preferenze ne avrei raccolte molte o poche. So che alcuni mesi fa, usando qualche violenza al mio carattere, mi sono candidato alla guida del nostro partito. Ho perso quella sfida raccogliendo però attorno a quella nostra proposta un volume di consensi che io considero non banali.
Comunque non è questo il punto.
Il punto è che ancora ieri, e non per la prima volta, tu hai risposto a delle obiezioni politiche e di merito con un attacco di tipo personale.
Il punto è che ritengo non possano funzionare un organismo dirigente e una comunità politica – e un partito è in primo luogo una comunità politica – dove le riunioni si convocano, si svolgono, ma dove lo spazio e l’espressione delle differenze finiscono in una irritazione della maggioranza e, con qualche frequenza, in una conseguente delegittimazione dell’interlocutore.
Non credo sia un metodo giusto, saggio, adeguato alle ambizioni di un partito come il Pd e alle speranze che questa nuova stagione, e il tuo personale successo, hanno attivato.
Tra i moltissimi difetti che mi riconosco non credo di avere mai sofferto dell’ansia di una collocazione.
Ieri sera, a fine dei nostri lavori, esponenti della tua maggioranza hanno chiesto le mie dimissioni da presidente per il «livore» che avrei manifestato nel corso del mio intervento.
Leggo da un dizionario on line che la definizione del termine corrisponde più o meno a «sentimento di invidia e rancore».
Ecco, caro Segretario, non è così.
Non nutro alcun sentimento di invidia e tanto meno di rancore. Non ne avrei ragione dal momento che la politica, quando vissuta con passione, ti insegna a misurarti con la forza dei processi. E io questo realismo lo considero un segno della maturità.
Non mi dimetto, quindi, per «livore». E neppure per l’assenza di un cenno di solidarietà di fronte alla richiesta di dimissioni avanzata con motivazioni alquanto discutibili.
Non mi dimetto neppure per una battuta scivolata via o il gusto gratuito di un’offesa. Anche se alle spalle abbiamo anni durante i quali il linguaggio della politica si è spinto fin dove mai avrebbe dovuto spingersi, e tutto era sempre e solo rubricato come «una battuta».
Mi dimetto perché sono colpito e allarmato da una concezione del partito e del confronto al suo interno che non può piegare verso l’omologazione, di linguaggio e pensiero.
Mi dimetto perché voglio bene al Pd e voglio impegnarmi a rafforzare al suo interno idee e valori di quella sinistra ripensata senza la quale questo partito semplicemente cesserebbe di essere.
Mi dimetto perché voglio avere la libertà di dire sempre quello che penso. Voglio poter applaudire, criticare, dissentire, senza che ciò appaia a nessuno come un abuso della carica che per qualche settimana ho cercato di ricoprire al meglio delle mie capacità.
Auguro buon lavoro a te e a tutti noi.
Gianni

l’Unità 22.1.14
Renzi rilancia: «Ho preso il 70%, potevo dirgli ciao»
Il segretario replica a Cuperlo senza attenuare la polemica
Sul governo: «Se Letta vuole una mano la chieda»
Sul gruppo parlamentare: «Deve fare quel che decide la direzione»
di Vladimiro Frulletti


La strada delle riforme «adesso è in discesa», ma attenzione perché «accordi del genere stanno insieme se tutti i tasselli vengono mantenuti». Togliere anche un solo «mattoncino» può far crollare tutto. Il segretario Matteo Renzi, torna ad avvertire la minoranza a pensarci bene prima di fare mosse controproducenti per il Pd. E lo fa (con una lunga e-news e con una intervista a Porta a Porta) poche ore dopo le dimissioni (tanto polemiche quanto inaspettate) di Cuperlo dalla presidenza del partito e la decisione della sinistra di dare battaglia in Parlamento, e poche ore prima di incontrare i deputati. Ai quali ripete lo stesso concetto: questo è il massimo che possiamo ottenere, forse non è l’ottimo, ma rispetto all’immobilismo degli ultimi 20, è parecchio. E soprattutto è un’occasione che il Pd non può permettersi di sprecare.
Certo anche a lui sarebbero piaciute le preferenze, ma, ammette, «non sono riuscito a ottenerle» a causa della «netta ostilità di Forza Italia». E si stupisce dell’accanimento «pretestuoso» su questo punto da parte di chi nel Pd da sempre è contrario alle preferenze. Tanto più che nei collegi con liste corte il rapporto eletto-elettore «torna a essere quello del Mattarellum». Quindi i no sono frutto di una posizione strumentale per stoppare una legge elettorale che pur con lacune, nel complesso è però «un’ottima legge». La prova? Sta nel fatto che con l’Italicum lo scorso febbraio non sarebbero nate le larghe intese fra Pd e Berlusconi. Ma Bersani e il Cavaliere sarebbero andati al ballottaggio e uno dei due avrebbe vinto e governato. Inevitabile anche l’accordo con Berlusconi. Sia perché Grillo, pur cercato, gli ha chiuso la porta in faccia decidendo di non uscire dal suo blog. Sia perché senza le regole si fanno assieme agli altri e senza Forza Italia e i suoi parlamentari non è possibile avere i numeri. «In politica si scelgono gli alleati, non gli avversari». Certo, avvisa, se poi c’è «qualcuno in grado di convincere Berlusconi sulle preferenze o Alfano sul sistema spagnolo» lui è pronto a lasciargli posto e ufficio in via del Nazareno. «Chiamate Goldrake» è il suo invito. «Si poteva fare di più? Certo. Ma resta il fatto che noi l’abbiamo fatto e in un mese, non in vent’anni» rivendica. Il che dovrebbe tranquillizzare anche Letta (che probabilmente incontrerà stamani). Il pacchetto riforme per essere completato ha bisogno di un anno se non due. Ora «che abbiamo dimostrato che la politica quando vuole decide», la legislatura e il governo possono andare avanti senza più alcun alibi, dice. E così già avvisa che adesso per il Pd c’è da approvare con la maggioranza le cose da fare (Impegno 2014 come lo chiama il premier) e da realizzare il piano per il lavoro («non ci faremo fermare dai sindacati») e la campagna per la scuola. E così conferma il suo oramai consueto scartare di lato di fronte al possibile rimpasto ministeriale o al LettaBis chiesto da Alfano. «Ho detto a Enrico, e la discussione è durata dai 17 ai 18 secondi, per me fai te. Se vuoi chiedere una mano ce la chiedi, ma dal segretario del Pd non avrai mai la richiesta di uno sgabello, di un ministero» racconta a Porta a Porta.
Renzi dunque vedo lo striscione d’arrivo vicino, ma davanti a Vespa si fa trappattoniano: «non dire gatto se non l’hai nel sacco». E più che scaramanzia si tratta del timore di eventuali trappole parlamentari. La minoranza, o almeno una buona parte di essa, è decisa a dare battaglia cercando un’intesa con quelle forze, come Nuovo centrodestra e Scelta Civica («Non è che se sei all’1% puoi stare dalla mattina alla sera a fare la morale» la dura risposta renziana al partito montiano), che hanno detto sì a Renzi, ma mantenendo forti riserve su alcuni punti, ricorda l’ex viceministro Cesare Damiano. Non a caso l’ex responsabile giustizia della segretaria Bersani, Danilo Leva, rivendica con forza «l’autonomia dei gruppi parlamentari», e il bersaniano Alfredo D’Attorre si dice pronto a scrivere un emendamento anti liste bloccate. Il rischio è alto tanto che la vicepresidente della Camera Marina Sereni invita «la minoranza del Pd a non fare da sponda a richieste che oggettivamente rischiano di far saltare tutto». Evento traumatico che inevitabilmente colpirebbe sì Renzi ma anche tutto il Pd. La pensa così anche il cuperliano (ma di rito “Giovane Turco”) Matteo Orfini: «mi atterrò alle decisioni della direzione e del gruppo, altrimenti si sfascia il Pd». Certo Renzi dice che è ovvio che il Parlamento possa cambiare le proposte, ma i parlamentari del Pd devono fare «quello che ha deciso la direzione». E ricorda che «in direzione, nemmeno uno, neanche Cuperlo, ha votato contro. Adesso ci tiriamo indietro noi?». Tradotto: modifiche si potranno introdurre solo se ci sarà il sì di tutti i contraenti, non certo con blitz nel segreto dell’urna, magari dettati dai «giochi di corrente» del Pd. E non c’è una questione di democrazia interna: «Ho vinto le primarie con il 70%, potevo fare ciao ciao e invece sono andato in ginocchio da Cuperlo per dirgli fai tu il presidente perché voglio dare un segnale a tutto il partito».

il Fatto 22.1.14
L’“Italicum” sfascia i democratici
Cuperlo lascia ma Renzi se ne infischia e avverte il Pd: “O la mia riforma o si va a votare”
di Wanda Marra


CIAO CUPERLO, RENZI AVVISA: “SENZA RIFORMA ADDIO LEGISLATURA”
IL PRESIDENTE SBATTE LA PORTA DOPO LA DIREZIONE, MA IL SEGRETARIO DEMOCRATICO PROCEDE: “SU SBARRAMENTO E PREMIO NON TRATTO. SE RIUSCITE A FARE MEGLIO PROVATECI”

Senza riforme, la legislatura è a rischio”. Matteo Renzi l’arma finale la esplicita sul tavolo dell’assemblea del gruppo alla Camera a tarda sera. “E se non si infila la prima, tutto può succedere”. Esprimendo dopo una giornata che ha visto le dimissione di Cuperlo una verità incontestabile: a tenere in vita il governo in questo momento è il suo pacchetto di proposte. E dunque, se va male, c’è solo il voto.
“IL PD È UNA “comunità” dove “ci si può sentire offesi perché uno ti dice che sei livoroso (così è stato definito Cuperlo da una senatrice renziana in direzione, ndr). E dove si può rimanere con un sorriso anche se ti danno del fascistoide (definizione data dal-l’Unità a Renzi pre-segretario, ndr) ”. E dunque, “Caro Gianni, rispetto la tua scelta”. Ciao Cuperlo, ciao. Così Matteo Renzi con lettera pubblica alle 16 e 54 risponde alle dimissioni di Cuperlo (arrivate sempre per lettera, via Facebook) da presidente del partito. Il giorno dopo la direzione i toni si alzano, gli animi si surriscaldano, le reazioni si estremizzano. La minoranza (o forse sarebbe meglio chiamarle minoranze visti i distinguo tra dalemian-cuperliani, Giovani Turchi, bersaniani, fassiniani) è riunita più o meno ininterrotta dalla mattina, fatti salvi gli obblighi d’aula. Cuperlo è irraggiungibile. D’altra parte l’attacco in direzione (“Come fai a difendere le preferenze, tu che non hai voluto fare le primarie per i parlamentari? ”) lo ha messo all’angolo, lo ha lasciato senza parole. Brutale, insultante, eccessivo: le critiche a Renzi si sprecano, ma lui ribadisce il diritto di dire le cose “guardandosi negli occhi e non affidandosi alle agenzie di stampa”. Uno schiaffo per una politica abituata a mandarsi messaggi in codice. E nessuna pietà per le motivazioni di Cuperlo: “Mi dimetto perché sono colpito e allarmato da una concezione del partito e del confronto al suo interno che non può piegare verso l’omologazione, di linguaggio e pensiero”. Ancora: “Tu hai risposto a delle obiezioni politiche e di merito con un attacco personale”. Cuperlo se ne va. Ma è più solo che mai. La minoranza è divisa anche sull’atteggiamento da tenere rispetto al voto sull’Italicum, tra chi vorrebbe presentare emendamenti alla legge elettorale in atto (come D’Attorre) e chi invece dice che alla disciplina di partito non si deroga (come Or-fini). L’argomento non è secondario, visto che la legge in Commissione Affari costituzionali è arrivata stanotte, ma già ieri c’è stato un fuoco di sbarramento di contrari. I Democratici sono 19, i renziani 3. È evidente, se si aggiungono la contrarietà di Sel, e i distinguo di Ncd e Scelta civica, che il percorso parlamentare è quanto meno accidentato. Per dirla con Orfini: “Noi non presenteremo emendamenti, ma se c’è ci sono perplessità anche nella maggioranza allora è un altro discorso”. L’accordo per le grandi riforme sembra sempre di più blindato solo con Berlusconi. Ed è unendo i loro malumori a quelli di altri che i dem potrebbero complicare la vita a Renzi. Ma per ora oltre le minacce non si va. Tanto è vero una giornata che inizia burrascosa, finisce semi-riappacificata. Nell’assemblea del gruppo che le critiche restano contenute. Se è per il capogruppo Speranza “nessuno ha in mente di far saltare l’accordo”. Se è per Fassina nel complesso valuta “positivamente” l’operato del segretario. Persino D’Attorre apprezza le aperture fatte dal segretario in giornata. Insomma, minoranze asfaltate. Per ora.
RENZI tira diritto come un treno. Dopo aver mandato la lettera a Cuperlo e prima dell’assemblea va a registrare Porta a Porta. I partitini sono arrabbiati? “Si arrangino”. Le correnti del Pd? “Certo non si blocca tutto per loro”. Le preferenze? “Se Alfano convince il Cavaliere, va bene”. Contemporaneamente manda pure la Enews. Qualche notizia in più. Per esempio: “Lo confesso: sono un sostenitore delle preferenze. Purtroppo sul punto si è registrata una netta ostilità di Forza Italia”. Un’apertura e una provocazione, in tipica modalità renziana: se chi protesta è in grado di portare a casa una modifica dell’accordo, bene. Una linea di trattativa per inserire la possibilità di esprimere una doppia preferenza di genere. Poi si leva qualche sassolino dalle scarpe: “Sul sì alle preferenze fino a un anno fa nel Pd ero in netta minoranza. Tutti o quasi tutti quelli che oggi mi stanno attaccando sul punto erano contro”.

Corriere 22.1.14
Ma il leader rischia tra i parlamentari
La minoranza del partito divisa e quello strappo deciso prima
di Maria Teresa Meli


Alla Direzione pd, Gianni Cuperlo lo aveva anticipato: «Sarà il mio ultimo intervento da presidente». Era infatti andato in minoranza tra gli oppositori pd: voleva un no a Renzi, ma la linea dell’astensione era prevalsa.
Le dimissioni di Gianni Cuperlo sono di ieri. Ma in realtà il presidente dell’Assemblea nazionale del Pd aveva già deciso di dimettersi il giorno della direzione. Non dopo la replica di Matteo Renzi, però, bensì prima. Ossia al termine di una tormentata assemblea della minoranza che aveva preceduto la riunione del Nazareno.
Già, tormentata, perché a quell’appuntamento Cuperlo si era presentato sposando la linea dura. E proponendo di votare contro la relazione del leader. Ma quell’idea non ha fatto breccia. La maggioranza dei partecipanti a quell’incontro ha preferito la strada dell’astensione. Di fatto, anche se non formalmente, perché non c’è stato nessun voto interno in questa occasione, la proposta del presidente non ancora dimissionario, l’altro ieri, è finita in minoranza. Cuperlo, perciò, non era dell’umore migliore per affrontare la direzione. E infatti, entrando nella sala della riunione, ha confidato subito le sue intenzioni: «Questo sarà il mio ultimo intervento da presidente». A sera, di fronte all’insistenza dei suoi, che tentavano di dissuaderlo, aveva promesso di «pensarci la notte».
Perciò non è stato l’affondo di Renzi a convincere allo strappo Cuperlo. La dinamica dei fatti spiega quindi perché il segretario non si sia dato troppo da fare per convincere Cuperlo a ripensarci. Primo, ha capito che le dimissioni sarebbero state date a prescindere. Secondo, vedendo che la minoranza è divisa tra i duri e i dialoganti e che questi ultimi hanno la meglio dal punto di vista numerico, il sindaco di Firenze non ritiene necessario dover tenere per forza tutti insieme. Tra l’altro, in quell’area le differenziazioni si basano anche sui personalismi. A nessuno è sfuggito, per esempio, il fatto che proprio quando Cuperlo ha indurito i toni, Fassina li ha ammorbiditi. E tutti scommettono sul fatto che si sia già aperta una contesa per la leadership di quell’area. Per questo motivo, Renzi non sembra fermarsi e sta già cercando di individuare un nuovo presidente con la parte «dialogante» della minoranza. Circola il nome dell’ex segretario Guglielmo Epifani, ma c’è anche chi assicura che sarà una donna a sedere su quella poltrona.
Questa, però, è la fotografia della minoranza in direzione. E non è sovrapponibile a quella dei gruppi parlamentari. Alla Camera come al Senato Renzi non ha la maggioranza dei parlamentari. In quei due palazzi i rapporti di forza sono rovesciati. Il che rappresenta un’insidia, come sa bene lo stesso segretario, che per questa ragione ha voluto incontrare ieri i deputati del Pd. Tocca a loro occuparsi della legge elettorale adesso. Ma le prese di posizione di bersaniani e dalemiani sono tutt’altro che rassicuranti. Anche quella fetta della minoranza che è disposta a confrontarsi con il segretario, propone degli aggiustamenti alla revisione del Porcellum, concordata con Berlusconi. E siccome alla Camera c’è il voto segreto, il rischio è che passi qualche emendamento non gradito né al leader del Pd, né al gran capo di Forza Italia. Non quelli sulle preferenze, perché anche Alfano, nell’ultimo colloquio che hanno avuto, ha lasciato chiaramente intendere a Renzi che su quel fronte la sua sarà una battaglia di bandiera, su cui non spingerà l’acceleratore. No, il problema è un altro. È quello della soglia del 5% per i partiti che si coalizzano. Troppo alta. Su questo punto più di un esponente del Pd spinge il sindaco di Firenze, a trattare. Il rischio, infatti, è che, come dice un renziano della seconda ora, il Parlamento si trasformi in un «Vietnam per il segretario».
Finora, il leader del Pd ha sempre avuto la meglio perché ha giocato nel partito, forte del risultato ottenuto alle primarie. Ma nei palazzi della politica, dove i riti e i trucchi sono gli stessi della prima Repubblica, il segretario potrebbe impantanarsi e con lui potrebbero affondare anche le riforme. Però Renzi non teme questo scenario, che pure gli dipingono anche alcuni fedelissimi. La sua convinzione è che, alla fine, avrà la meglio: «Non ci sarà la palude». Tanta sicurezza gli deriva da due motivi. Il segretario è convinto che alla fine «prevarrà la disciplina di partito», perché gli ex pci l’hanno nel Dna. E il leader potrebbe avere ragione, da questo punto di vista, almeno sentendo parlare Matteo Orfini: «Non si possono presentare emendamenti di corrente alla riforma. Dopodiché quando si è scelta una linea, votandola a maggioranza, ci si attiene a quella». Già, per dirla con il veltroniano Walter Verini «la legge elettorale non è come la fecondazione assistita, non sono previsti casi di coscienza».
Però la vera carta su cui punta Renzi è un’altra. Come ha avuto modo di confidare ai suoi: «Tireranno la corda, però non fino a far saltare tutto, seppellendo il governo sotto le macerie e andando alle elezioni». Anche perché, pure se si votasse con la legge elettorale, frutto della sentenza della Consulta, le candidature le deciderebbe il segretario. E quelli che gli hanno teso una trappola in aula, difficilmente rivedrebbero i loro scranni parlamentari...

La Stampa 22.1.14
Cuperlo, D’Alema, Fassina
Tutte le stoccate degli anti-Renzi
di Jacopo Iacoboni
qui

La Stampa 22.1.14
Bindi: attento Matteo che in Commissione non hai i numeri
«Siamo maggioranza e se presenteremo degli emendamenti, il segretario
li dovrà accettare»
di Franesca Schianchi
qui

Il Sole 22.1.14
Affari costituzionali
Ma in Commissione Renzi è minoranza
di Lina Palmerini


ROMA. Gianni Cuperlo batte Matteo Renzi tredici a otto. Il rapporto di forza tra maggioranza e minoranza Pd è totalmente invertito nella commissione Affari costituzionali, cioè il primo passaggio cruciale per la proposta di riforma presentata dal segretario del Pd. E dunque questa sarà la prima arena per lo scontro tra minoranza e maggioranza se davvero l'area che fa riferimento a Cuperlo (ma anche ai giovani turchi) deciderà di trasformare il cammino parlamentare in un Vietnam per Renzi presentando addirittura degli emendamenti di corrente. Un obiettivo davvero facile da raggiungere per il presidente dimissionario del Pd che in commissione può contare su nomi come quelli di Alfredo D'Attorre, Barbara Pollastrini, Cuperlo medesimo e poi Andrea Giorgis, Maria Gullo, Enzo Lattuca e Giuseppe Lauricella. E poi c'è anche Pierluigi Bersani – che solo ieri è uscito dall'ospedale di Parma e verosimilmente non parteciperà ai lavori – e Rosy Bindi fiera oppositrice della proposta renziana in particolare sull'aspetto delle liste bloccate.
Proprio ieri, nella seduta di inizio della Commissione si è avuto un assaggio di quanto sarà complicata la vita per la riforma targata Renzi. E infatti dopo l'intervento del capogruppo Emanuele Fiano, franceschiniano, che ha tenuto un discorso istituzionale di sostegno al progetto di riforma, sono intervenuti la Bindi, Giorgis e Lauricella che hanno affossato quel disegno renziano proiettando sullo schermo di Montecitorio il trailer di quello che sarà il film delle riforme, almeno in casa Pd.
Dalla sua Matteo Renzi ha Maria Elena Boschi (che sta scrivendo il testo con Bressa e con i funzionari della Affari costituzionali), Matteo Richetti, Luigi Famiglietti e Daniela Gasperini ma a loro si possono aggiungere i nomi dei franceschinani Fiano, Gianclaudio Bressa ed Ettore Rosato e pure il "lettiano" Francesco Sanna che si è avvicinato alle posizioni del segretario mentre l'altro "lettiano" Marco Meloni è distante dal segretario ed è critico con la sua proposta di riforma anche se non vuole essere annoverato tra i fedelissimi di Cuperlo.
Dunque un panorama frastagliato in cui Renzi dovrà giocare di sponda e cercarsi degli uomini di confine che sappiano mediare tra le diverse posizioni in minoranza. Senza "pontieri" è difficile che il pacchetto di riforma resti intatto o addirittura che non perda quasi del tutto la sua fisionomia, a partire dalla soglia del 35% per prendere un premio del 18% – giudicato dalla minoranza incostituzionale – per finire alla battaglia sulle preferenze o sull'abbassamento della soglia di sbarramento dal 5% almeno al 4%. Questi giorni di lavori in Commissione saranno la palestra di come si organizzerà la minoranza, se prevarrà o no l'area dialogante, e di come si assesteranno i rapporti di forza con il segretario Pd. Già perchè in Aula i giochi si faranno più duri e quei numeri di svantaggio per Renzi si riprodurranno in una versione meno sbilanciata ma comunque "minoritaria". È vero che che il segretario Pd può contare sui parlamentari franceschiniani e alcuni lettiani ma è anche vero che ogni passaggio sarà soggetto a una contrattazione che molto avrà a che fare con la vita del Governo Letta. Anche nella sua scadenza più ravvicinata, quella del rimpastino o del Letta-bis.

«L’affondo renziano fatto apposta per dividerci»
La Stampa 22.1.14
La minoranza accusa ma è già spaccata in tre
Spuntano quattro candidati per la successione alla presidenza
di Carlo Bertini
qui

Repubblica 22.1.14
Gianni e la telefonata mai arrivata “Bastava che Matteo mi chiamasse”
L’ombra della scissione. L’incontro tra D’Alema e Bersani

RISTORANTE lucano Il Grano, dietro il Senato. Musi lunghi e rabbia. S’infilano in una saletta 20 dirigenti della minoranza. È appena finita la direzione. «Matteo è un arrogante. Vuole comandare e basta. Il rischio è che nel Pd non ci sia più libertà», dice Cuperlo.
A MODO suo è furioso. Lo schiaffo di Renzi è ancora fresco. «Parli delle preferenze ma tu sei stato eletto nel listino bloccato», ha detto nel pomeriggio il segretario. In streaming. «Mi aveva promesso che sarei stato libero di criticare. “La massima agibilità politica, Gianni. Non ti preoccupare, accetta la presidenza, teniamo unito il partito”. Erano chiacchiere», ricorda il presidente del Pd. Un mese soltanto e il patto è saltato. «Sono già ex», insiste Cuperlo nella sala riservata del locale. «Mi dimetto », annuncia,. «E non so davvero come potremo andare avanti tutti insieme. Lo dobbiamo fare. Ma l’allarme c’è. Con la delegittimazione politica e personale di chi dissentenon si fa molta strada insieme». Cuperlo non evoca la scissione. Ma il tema c’è. Può emergere in qualsiasi momento anche se la forza dell’area cuperliana è ridotta e al suo interno le divisioni sono evidenti.
Il freddo Cuperlo è colpito. Si aspettava un segnale da Renzi. Lunedì notte o ieri mattina. Una telefonata di scuse. La presa di distanza pubblica da quei renziani che ne avevano chiesto le dimissioni ancora prima dello scontro frontale con il segretario. Niente. Silenzio assoluto. Il sindaco non ha mai chiamato. I suoi non hanno fatto marcia indietro. È arrivata invece la chiamata di Enrico Letta: «Pensaci bene, non mollare ». Lo farò, ha risposto Cuperlo. Pensare intendeva. Determinato ad andare fino in fondo. «Questa aggressività èdura da digerire».
Il problema è che le truppe degli anti-Renzi, dei contrari al patto sulla legge elettorale stretto con Forza Italia e Nuovo centrodestra vanno organizzate, guidate. In Parlamento e nel partito. Altrimenti il decisionismo del sindaco asfalterà tutto il dissenso. In segreto, senza strombazzamenti e senza telecamere, Massimo D’Alema lunedì mattina ha fatto visita a Pier Luigi Bersani. Entrando da un ingresso secondario dell’ospedale di Parma, l’ex premier è salito nella stanza dell’ex segretario che proprio ieri è tornato a casa. Dunque, Bersani sta bene e ha potuto parlare a lungo con D’Alema. I due si salutavano a stento, da sette mesi a questa parte, dai giorni del voto per l’elezione del presidente della Repubblica. L’operazione al cervello di Bersani li ha riavvicinati. Ma non solo.C’è una storia da difendere, quella della sinistra post comunista. Una storia alla quale Renzi non fa sconti e dalle primarie è uscita con le ossa rotte.
Bersani adesso è a riposo a Piacenza. Si rivedranno presto, a Roma. L’influenza dei due però conta sui gruppi parlamentari. «Daremo battaglia a viso aperto sugli emendamenti alla legge elettorale», avverte Alfredo D’Attorre, bersaniano. Al vertice del ristorante il Grano ci sono Andrea Orlando, Barbara Pollastrini, Davide Zoggia, Stefano Fassina, Maurizio Martina e altri. La strategia è quella di un raccordo con Alfano e Scelta civica. «Se fanno sul serio, contro le liste bloccate e sul premio di maggioranza, i voti per cambiare l’Italicum si trovano», è il ragionamento della minoranza. Cuperlo annuisce, nella riunione a cena. «Ditemi voi cosa devo fare».Non dimetterti, è la richiesta dei più. «Impossibile fare finta di niente», ribattono altri. L’ex presidente ha già deciso. «Parlamento e partito per Renzi sono dei passacarte. No, non posso rimanere al mio posto». I cuperliani ora vogliono rifiutare altre offerte di collaborazione. «Si è capito che con Matteo non c’è spazio per la critica. Che c’è un vincolo tra carica e l’adesione alle tesi del segretario — commenta D’Attorre —. In queste condizioni chi di noi può accettare la presidenza? A Renzi direi: più sintonia con il popolo dell’8 dicembre e meno sintonia con Berlusconi».
E la scissione? Tutti dicono che la scissione «non sta né in cielo né in terra». A cominciare da Cuperlo. Non ci sono le condizioni. Eppoi le divisioni interne sono lampanti. Matteo Orfini non condivide l’Aventino della minoranza. Si dice che Orlando, altro Giovane turco, potrebbe essere il nuovo presidente, secondo l’identikit disegnato dal segretario: «Non dev’essere uno dei miei stretti ». Girano anche i nomi di Guglielmo Epifani e di Walter Veltroni, nell’ottica del fondatore del Partito democratico. Cuperlo non interviene sul futuro, almeno per il momento. Riunisce di nuovo la sua area alle 2 di ieri pomeriggio alla Camera. Comunica la sua decisione finale, con un sorriso. Ma non può ritirarsi. «Dobbiamo fare la battaglia sulla legge elettorale e sul governo. Per il patto di coalizione e per un eventuale Letta bis». Si parte in svantaggio, ma il match nel Pd è solo agli inizi.

La Stampa 22.1.14
Ma è difficile che la minoranza democratica si saldi col M5S
i Marcello Sorgi

Dopo quelle del viceministro Fassina, le dimissioni di Gianni Cuperlo dalla presidenza del Pd, per protestare contro il modo in cui Matteo Renzi dirige il partito e la decisione del segretario di ricevere Berlusconi nella sede del Nazareno, contrassegnano la nascita di una minoranza organizzata tra i Democrat. Piccola ma agguerrita, visto che nel corso della direzione che ha dato il via libera all’accordo sulla legge elettorale e sulle riforme istituzionali altri esponenti dell’opposizione interna avevano preferito schierarsi con Renzi. E decisa a rendere più difficile l’approvazione della nuova legge elettorale in Parlamento.
Ma Renzi non si preoccupa. Ha accettato con una lettera agrodolce, nel suo stile, le dimissioni di Cuperlo, ed è convinto che difficilmente nascerà alla Camera un fronte del no in grado di bloccare la riforma. L’idea di un collegamento tra la minoranza del partito che punta a muovere la maggioranza dei parlamentari, scelti da Bersani, e gli altri gruppi che non condividono l’intesa raggiunta tra i leader del Pd e di Forza Italia non sta in piedi. L’accordo è stato costruito in modo che tutti, non solo Pd e Forza Italia, perdessero e allo stesso tempo incassassero qualcosa. Ncd, che con il ministro delle riforme Quagliariello ha sottolineato il rischio di un testo che contenga ancora elementi di incostituzionalità ha ottenuto il doppio turno di coalizione e avuto assicurazioni che il governo durerà. Anche chi non ha siglato l’intesa, come la Lega, potrebbe ottenere il diritto di aggirare la soglia di ingresso in Parlamento riservato ai partiti a forte rappresentanza locale. Allo stesso modo è difficile che i dubbi e le riserve che attraversano anche altri gruppi possano saldarsi con l’opposizione frontale dei 5 Stelle.
Riassumendo: in vista dell’approdo del testo della riforma a Montecitorio, un po’ di cautela è legittima, visto che un incidente parlamentare può sempre capitare. Ma è impossibile, a giudizio di Renzi, che l’intero pacchetto delle riforme sia rimesso in discussione o possa arenarsi nelle secche di manovre parlamentari trasversali.

Corriere 22.1.14
Il paradosso dei Democratici
di Antonio Polito

Una «profonda sintonia» con Berlusconi sulle riforme, e una profonda incompatibilità con la minoranza del suo partito. Il paradosso di Renzi è tutto qua: oggi come oggi il vero nemico ce l’ha in casa. Non era immaginabile che Renzi segretario e Cuperlo presidente convivessero a lungo; solo un residuo della vecchia abitudine consociativa poteva partorire l’idea che il capo dell’opposizione interna faccia anche il garante dell’unità del partito.
Nel Pd di Renzi non è più possibile, e per una ragione molto semplice: il nuovo segretario pensa che vincere equivalga a comandare, non sa governare il dissenso, con lui sarà sempre «prendere o lasciare»; mentre i dalemiani e i bersaniani sono abituati a comandare fin dalla notte dei tempi, e non sanno stare in minoranza. Così dalla crisi di anarchia dei tempi di Bersani si è passati a una crisi da monarchia con Renzi.
Nello scontro tra due concezioni quasi agli antipodi di che cos’è un partito, il vaso di coccio è però la minoranza. Non solo perché in Direzione è ridotta numericamente a una virtuale irrilevanza. Non solo perché è divisa anche al suo interno, e infatti non è riuscita a produrre neanche un voto contrario alla relazione del segretario, pur così criticata. Non solo perché non ha leader, e la vera ragione per cui Cuperlo si è dimesso da presidente è proprio per fare il portavoce della sua area. Ma anche perché la prima conseguenza della legge elettorale che è in gestazione consiste proprio nello spazzare via il potere di veto delle minoranze interne ai partiti, rendendo impossibile col meccanismo degli sbarramenti non solo le scissioni, ma anche le minacce di scissione. Non a caso la lettera di Cuperlo comincia esplicitamente con la promessa di continuare la battaglia «all’interno» del partito.
In queste condizioni a dalemiani e bersaniani è rimasta una sola arma in mano, e non da poco: i gruppi parlamentari. È lì che sono ancora forti e in maggioranza. E l’iter delle riforme è ancora lungo e ricco di imprevisti. Un drappello di oppositori di Renzi che volesse organizzare agguati in Aula nel voto segreto e palese potrebbe davvero far saltare l’intesa.
Ma è ipotizzabile una tattica di guerriglia da vietcong? Difficile. Innanzitutto perché sarebbe un vero e proprio suicidio: si dimostrerebbe così che il Pd è la vera cerniera debole del sistema politico italiano, quella che cede a ogni passaggio decisivo. Renzi ne uscirebbe a pezzi, ma nessun altro potrebbe festeggiare. In secondo luogo la bandiera che ha impugnato Cuperlo per guidare la resistenza al progetto Renzi-Berlusconi è alquanto improbabile: la riscoperta delle preferenze suona davvero curiosa da parte di una sinistra che vent’anni fa le condannava nei referendum come il male assoluto, la causa prima delle degenerazioni di Tangentopoli e delle pratiche clientelari. E anche il tentativo di cavalcare lo slogan del «Parlamento dei nominati» rischia di trascinare gli eredi del Pci al fianco della propaganda antiparlamentarista dei grillini, davvero uno strano destino per gente come Cuperlo e Fassina.
Ma anche se la battaglia della minoranza appare di retroguardia, c’è da chiedersi se convenga a Renzi provocarla di continuo, quasi spingendola su una deriva di risentimento e frustrazione. In fin dei conti Cuperlo aveva sollevato nel suo intervento problemi reali: quello delle liste bloccate e quello, anche più serio, della soglia fissata per ottenere il premio di maggioranza, che è forse troppo bassa per poter garantire la rappresentatività del Parlamento così come richiesto dalla Corte costituzionale. Senza contare che c’è alle viste uno scoglio molto pericoloso, il voto dei senatori per abrogare il Senato, un passaggio così delicato che dovrebbe consigliare a Renzi prudenza e diplomazia, e indurlo a tenere il più possibile unito il suo partito per evitare che un incidente parlamentare faccia esplodere tutto.
Del resto ricordare a Cuperlo che è stato eletto in Parlamento senza passare per le primarie non è un argomento sufficiente a zittirlo: nella sua condizione ci sono infatti numerosissimi parlamentari, molti dei quali renziani della prima ora.

il Fatto 22.1.14
Da Togliatti a Renzi: la verità non serve più
di Oliviero Beha

ORFANO come tanti di Claudio Abbado, della sua musica, del suo magistero, della sua persona, ragionavo sulle polemiche che ne hanno accompagnato la nomina a senatore a vita, in agosto. E poi sul concetto di “sinistra”, sulla distanza tra parola e azione, sullo sfarinamento alla moviola del Pd di fronte all’Italicum, sull’etichetta di “destra” applicata a Renzi ecc. ecc. E sulla dose di verità che c’è in tutto ciò. A proposito di Abbado, a bocce purtroppo ferme è possibile misurare dal buco che lascia la qualità della sua vita, artistica e personale: di sinistra, sì, ma non della sinistra bottegaia a cui siamo abituati. E anche nella nomina del Quirinale, oggettivamente preziosa dal punto di vista contabile per una maggioranza in Senato “di sinistra” dopo la defenestrazione del Reprobo, la speculazione strumentale pare davvero sproporzionata al valore del Maestro. Detto altrimenti: che ce ne frega della dicitura “di sinistra” di fronte a una figura di tale spessore? Lo è nelle cose, non nelle formule. E la domanda sempre più pesante oggi su “che cosa significa essere di sinistra” si misura dai comportamenti, dalle scelte, dalla direzione presa, dalle responsabilità assunte. Sembra politicamente molto più attuale la famosa giaculatoria dell’ultimo Gaber ormai di una dozzina d’anni fa su che cosa è di destra e che cosa di sinistra, delle voci che fanno fuggire dai poco turgidi seni oggi, nel centro e ai margini della direzione del Pd con relativo corollario mediatico. Si scopre che “Renzi è un uomo di destra”, e come tale è sospetto nel ruolo di segretario pigliatutto del Pd specie dopo il meeting privato con uno come il Caimano risorto.
CURIOSO davvero: veniamo dal ventennio berlusconiano che ha segnato gli italiani assai più in profondità di quello mussoliniano, con uno come Berlusconi che non era affatto di destra né tantomeno di sinistra ma “semplicemente” un uomo d’affari privo di qualunque scrupolo, che alla bisogna avrebbe volentieri guidato anche il Pd se glielo avessero proposto, e ricadiamo nei confronti di Renzi in un errore analogo? La sua colpa, per la vetero-nomenklatura del partito che ritiene democratico dilaniarsi sulle formule invece che prendere di petto la realtà di un Paese semiaffondato, sarebbe quella di essere di destra: embè, anche fosse perché non dovrebbe? Ha forse mai mentito agli italiani? Non ha preso più voti di tutti alle primarie dopo una lunga cavalcata elettorale cominciata da giovanissimo nella Dc? Non ha tutto il suo seguito di “ramazzatore” ex-rottamatore proprio per quello che sta facendo? E dunque frignare perché sarebbe di destra parrebbe perlomeno contraddire un briciolo di principio di realtà con cui tutti, a cominciare dalla politica, siamo tenuti a fare i conti. E forse una considerazione un po’ meno partigiana e strumentale di tale principio di realtà renziano potrebbe suggerirci altri paradigmi di valutazione: e se non fosse di destra e neppure di sinistra, perché nei fatti l’insieme politico è diventato ormai per tutti un’altra cosa? Se fosse invece che l’uomo d’affari all’occaso con cui si è incontrato sabato “semplicemente” un ottimo pubblicitario con alle spalle decenni di tradizione familiare che coincidono con la sua personalità mostrata autenticamente, senza remore, appunto in un’idea della politica come “show”? Insomma un perfetto contemporaneo del vuoto di ideali così come Berlusconi lo è stato per ogni genere di business? Tra i padri della patria, che i due del Nazareno non riconoscerebbero se non a livello di battuta, c’è uno come Togliatti, con tutto il corredo della sua “doppia verità”: e se con Renzi lo stato delle cose ci avesse precipitato nello stadio di “nessuna verità” giacché pare che non se ne senta più alcun bisogno?

La Stampa 22.1.14
L’Italicum era già scritto nel disegno dei saggi
A settembre nel documento finale si poteva leggere dello spagnolo corretto e del doppio turno “ballerino”
di Antonella Rampino
qui

La Stampa 22.1.14
L’autore del ricorso finito alla Consulta
Bozzi: “Questa legge è una vergogna. Un super Porcellum” di Marco Bresolin
qui

il Fatto 22.1.14
Nuove battaglie Gli avvocati Bozzi e Tani: ricorreremo
“Vogliono i nominati, fanno carta straccia della Consulta”
di Antonella Mascali

L’esultanza per la sentenza della Corte costituzionale che ha bocciato il Porcellum, grazie alla loro ostinazione, sembra ormai lontanissima. E “l’Italicum” agli avvocati Claudio Tani e Aldo Bozzi è apparso come uno spettro che può rovinare tutto. Proprio la loro battaglia giuridica, insieme ai colleghi Giuseppe Bozzi e Felice Besostri, li ha portati prima in Cassazione e poi davanti alla Consulta, che ha dato loro ragione. Ora, però, il progetto Renzi-Berlusconi li fa infuriare. “È anticostituzionale”, dicono all’unisono mentre li intervistiamo: “Non è cambiato nulla, anzi l’Italicum è peggio della legge Calderoli”.
E anche se i toni, sia di Tani sia di Bozzi, sono appassionati, l’analisi giuridica non ne risente di certo: “Siamo al bipartitismo totale e assoluto che è in contrasto con la Costituzione, se quello che leggiamo dai giornali dovesse diventare legge produrrà solo due forze politiche di grande dimensione. E con un’operazione puramente aritmetica la coalizione che otterrà il 35% dei voti si accaparrerà un premio di maggioranza del 18%, arrivando al 53%. L’effetto parallelo, negativo, sarà che il 65% di coloro che avranno votato contro la coalizione che incassa un premio, si divideranno solo il restante 47%, le spoglie. Se il divaricatore è di questa natura siamo fuori dalla Costituzione”.
CHIEDIAMO ai due avvocati se l’Italicum ignori la sentenza della Consulta. Il giudizio è senza appello: “La sentenza se la saranno anche letta ma se ne fregano, per loro è come se non ci fosse stata. Non hanno alcun interesse ad applicarla perché l’obiettivo non è ridare la parola ai cittadini, non è far pesare ogni voto allo stesso modo, o quanto meno in modo proporzionale, l’obiettivo è l’eliminazione dei piccoli partiti, spazzarli via”.
State parlando di Pd e Forza Italia? “Esattamente. La loro proposta non solo si fa beffa della sentenza della Corte costituzionale, ma è fatta a uso e consumo di quei due partiti, come se tutto il resto del pluralismo politico, sociale, economico e così via non esistesse. Vogliono passarci sopra”. Per gli avvocati Bozzi e Tani l’Italicum viola l’articolo 49 della Costituzione che stabilisce il diritto dei cittadini di associarsi in partiti. “Dove sta scritto che non devono essere più di due? ”.
Ci facciamo spiegare perché, a loro avviso, la proposta Renzi-Berlusconi ignora la sentenza della Corte costituzionale: “La Consulta ha stabilito che ciascun voto deve contribuire potenzialmente, e con pari efficacia, alla formazione degli organi elettivi e, quindi, il margine di differenza tra voti e seggi non può compromettere il principio dell’uguaglianza del voto”.
I FAUTORI dell’Italicum hanno parlato di proporzionale, quasi a voler evocare la Consulta. “C’è un grande inganno perché questo progetto di legge sceglie il proporzionale ma dice che con il 35% una coalizione può arrivare al 53% con un premio di maggioranza. Quindi, rispetto al Porcellum, nella sostanza, non cambia nulla, alla faccia del pluralismo”. Forse, però, un punto della sentenza della Consulta è stato recepito: liste bloccate ma corte: “In realtà neppure quello perché la Corte ha detto solo che le liste bloccate corte, riferendosi alla loro formazione in elezioni locali, garantiscono maggiore conoscibilità dei candidati. Ma la stessa Corte ha stabilito con chiarezza che una cosa è la conoscibilità e un’altra è la possibilità di scelta del candidato che – sempre secondo la Corte – deve essere garantita. Il cittadino deve poter scegliere raggruppamento e candidati. Così non è”. Ancora un Parlamento di nominati? “Esattamente”. E a chi ribatte che le preferenze hanno generato candidati controllati dalla mafia o da altri gruppi di potere, entrambi gli avvocati respingono l’obiezione: “Non ci sono mai stati tanti indagati come da quando è entrato in vigore il Porcellum”. E se l’Italiacum diventerà legge così com’è, Bozzi e Tani sono pronti a dare ancora battaglia: “Siamo riusciti con gran fatica a passare un vaglio di costituzionalità, ma la causa è ancora pendente in Cassazione. Dunque, se non ci sarà una riforma che rispetti i principi costituzionali, i partiti devono sapere che non è finita. Torneremo a chiedere il ricorso davanti alla Corte costituzionale”. Partiti avvertiti mezzo salvati. Forse.

l’Unità 22.1.14
I giuristi, dubbi su sbarramenti premio e liste
di Gigi Marcucci

Dubbi, perplessità e alcune critiche severe. La proposta di riforma elettorale licenziata da Renzi e Berlusconi non conquista il fronte dei costituzionalisti. L’Italicum, come è stata ribattezzata, per alcuni è un’indigeribile miscellanea di sistemi diversi pescati qua e là, oltre a essere esposta a vizi di incostituzionalità. Piero Alberto Capotosti, presidente emerito della Consulta, valuta «negativamente» soprattutto il premio di maggioranza sommato al doppio turno elettorale nel caso nessuno raggiunga la soglia fatidica del 35%. «Il secondo turno spiega Capotosti non è una competizione elettorale vera e, in questo caso, ci troveremmo un numero ridotto di elettori e con un vincitore che magari raggiungendo quote di consensi tra il 25 e il 28% otterrebbe un premio di maggioranza che lo porta al 53%». Di qui un possibile profilo di incostituzionalità. Meno problemi, secondo il costituzionalista, presenta il problema delle liste bloccate. «Su questo sarei meno preoccupato spiega Capostosti credo che il problema si possa superare anche perché nel ‘93 un referendum ha abrogato il meccanismo delle preferenze,che oltre tutto si prestava, come si disse da più parti, a manovre di condizionamento dell’elettorato. Non riesco a capire per quale motivo, dopo vent’anni, bisognerebbe rimettere mano alla materia».
Più drastico Massimo Villone, titolare della cattedra di Diritto costituzionale all’Università Federico II di Napoli, alle spalle una lunga carriera parlamentare iniziata nel Pds. Oggetto principale della sua critica al modello Italicum, il premio di maggioranza. «Qualunque meccanismo determini un eccesso di disproporzionalità va contro il ragionamento che la Consulta ha fatto con la sentenza sul cosiddetto Porcellum». Insomma, il premio di maggioranza senza soglia minima, caratteristico della legge cassata a dicembre, aveva come vizio proprio quello di non garantire una proporzione tra voti raccolti e seggi ottenuti in Parlamento. Come dismostrano, secondo Villone, alcune delle simulazioni già prodotte. «Con questo meccanismo, entrano in Parlamento tre, forse quattro, formazioni politiche, e quindi si toglie la rappresentanza a una larga fetta d’Italia. Abbiamo soglie di sbarramento altissime e il premio di maggioranza. L’effetto combinato è micidiale». Non va meglio per la questione liste bloccate: la libertà di scelta, spiega Villone, non è stata affrontata dalla Consulta come una questione tecnica. «La lista bloccata su tutta la rappresentanza, impedisce qualsiasi scelta. Non importa che la lista sia corta, come è stato da qualcuno argomentato: corta o lunga non fa nessuna differenza», taglia corto Villone. Né, a giudizio del costituzionalista, un’eventuale lesione della libertà di scelta può essere mitigata dalle primarie. «Le elezioni primarie significano comunque che sceglie qualcuno che non è l’elettore. Che poi sia l’oligarchia di partito o il popolo sovrano che partecipa alle primarie, comunque l’elettore non sceglie. In sostanza, le primarie non eliminano l’incostituzionalità perché comunque non concedono la scelta a chi poi si trova a mettere la scheda nell’urna».
Severissimo il giudizio di Roberto Zaccaria, ordinario di Diritto pubblico all’Università di Firenze ed ex presidente della Rai. La sentenza con cui la Consulta ha bocciato il Porcellum, spiega, «ha giudicato negativamente le distorsioni che si possono formare quando i sistemi elettorali mettono insieme principi molto diversi. Il sistema risultante sostanzialmente coniuga istituti eterogenei. E questo è un primo elemento di dubbio di costituzionalità».Per quanto riguarda il premio di maggioranza, dice Zaccaria, «sarebbe più logico collegarlo a soglie più alte di quella del 35% ipotizzata nella proposta di Renzi». Anche nel caso di Zaccaria le perplessità investono anche la questione preferenze-liste bloccate. «L’osservazione che liste più piccole garantiscano il diritto di scelta non mi convince affatto. Per quale motivo io devo votare una lista in blocco e non scegliere uno per uno i candidati da mandare in Parlamento?. Le primarie sono soluzioni interne alle vite dei partiti e che non sono generalizzate. La Corte infatti aveva detto “almeno una preferenza”». Ultima questione, soglie di sbarramento. «Sono troppo alte dice Zaccaria -. Se una forza nuova si affaccia sulla scena politica e non ha alleati deve arrivare all’8%. In Germania la Corte costituzionale ha detto che una soglia ragionevole di sbarramento non può essere superiore al 5%. . Direi che alla luce della sentenza sul Porcellum, il sistema proposto presenta molti dubbi di costituzionalità».

Corriere 22.1.14
Il nodo delle liste bloccate e la strada per le primarie
di M. A. C.

ROMA — È necessario prevedere le primarie in Costituzione, in modo che i partiti non diventino «autocratici» e «padroni» del voto popolare , visto che anche con l’Italicum si voterà con le liste bloccate, sia pure «corte»? «Non penso», risponde sicuro il professor Cesare Mirabelli, presidente emerito della Consulta. Anche se aggiunge: «Basterebbe prevedere le primarie in un disegno di legge che accompagni la nuova legge elettorale. Bisogna intendersi, però, su che cosa si intende per primarie». Cioè? Risponde Mirabelli: «Le primarie non devono servire per scegliere i candidati alle segreterie dei partiti: con un procedimento pubblico e secondo regole certe devono servire proprio a scegliere i candidati da inserire nella scheda elettorale: altrimenti non serviranno a garantire che l’eletto rappresenti effettivamente il corpo elettorale, come ha chiesto la Corte costituzionale».
La Consulta ha però anche detto espressamente che le liste bloccate, «se corte», sono pienamente legittime. «E come avrebbe potuto dire diversamente?», si chiede Augusto Barbera. «Le preferenze sono una singolarità italiana, sconosciuta in Paesi ai quali la Corte non poteva certo pretendere di dare lezioni di liberaldemocrazia. I partiti, bisogna ricordarlo — continua Barbera — sono riconosciuti dall’articolo 49 della Costituzione italiana, non sono degli inquilini abusivi».
Del resto, il problema si ripropone anche con le preferenze, ed è sempre lo stesso: chi decide l’inserimento dei candidati in una lista? Per Barbera «due comunque sono i possibili correttivi: uno di ispirazione americana, l’altro di ispirazione tedesca. Si potrebbero incentivare i partiti — Renzi lo ha preannunciato — ad attivare forme di elezioni primarie oppure, come in Germania, si potrebbe disporre che le assemblee che decidono le candidature si svolgano sulla base di regole prefissate e alla presenza di funzionari pubblici».
Stefano Ceccanti ricorda che lunedì scorso, nella direzione del Pd che ha dato il via libera all’Italicum, Walter Veltroni ha sottolineato la necessità di dare corso alla proposta di legge di cui è stato primo firmatario, ma che «era frutto di un lavoro collettivo di vari parlamentari pd, e intendeva dare concretezza giuridica e politica al concetto di “metodo democratico” previsto dall’articolo 49 della Costituzione».
«In primo luogo — spiega Ceccanti — il progetto prevedeva la personalità giuridica dei partiti, la pubblicità degli statuti e un loro contenuto obbligatorio, a cominciare da una carta dei diritti e dei doveri degli iscritti». E poi «incentivava primarie pubbliche aperte agli elettori da svolgersi in luoghi pubblici e secondo standard comuni, in modo da distinguere bene la fase della competizione democratica interna da quella tra partiti e coalizioni come accade nelle principali democrazie stabilizzate». Le primarie di tipo americano sono «da anni operative in Toscana, l’unica Regione che ha eliminato le preferenze dalla legge elettorale regionale prevedendo liste bloccate corte», conclude Ceccanti, sottolineando che «la Toscana non ha avuto scandali per l’accumulazione illecita di risorse e ha il record di donne elette».

il Fatto 22.1.14
Legge elettorale
Il bidone a Sel (e ai perdenti Pd)
di Marco Palombi

Nichi Vendola e gli altri hanno capito senza ombra di dubbio che Matteo Renzi - si perdoni la brutalità del termine - li ha fregati. Il combinato disposto tra alta soglia di sbarramento (il 5 per cento) e premio di maggioranza garantisce che i piccoli partiti - e infatti la protesta riguarda tutti, da Scelta civica a Fratelli d’Italia in giù, spalleggiati peraltro da parecchi deputati del Pd in commissione Affari costituzionali - daranno il loro sangue e i loro voti con l’esito di restare fuori dalle Camere ma contribuendo contemporaneamente ad eleggere i parlamentari di Pd e Forza Italia (e magari pure a fargli prendere il premio di maggioranza, cioè altri cento e passa deputati).
IL PRESIDENTE della regione Puglia, per dire, ieri se n’è andato al Tg3 per chiarire due cose. La prima è che non intende entrare nel Pd: “È solo chiacchiericcio. Un conto è costruire una coalizione, un conto è fondersi.... C’è un muro da abbattere: il governo Letta, non per Enrico Letta, ma per quelle politiche che danno risposte sbagliate alla crisi”. Va detto che non è chiaro se per Renzi quello sia un muro portante, per così dire, comunque c’è anche un altro motivo di insoddisfazione: “L’Italicum è inaccettabile per l’abnorme premio di maggioranza e la soglia di sbarramento molto alta che non ha nessun paese europeo ad eccezione della Grecia: questo è un modo per esprimere l’ingordigia dei grandi partiti”. Non era questo, è il sottotesto, che mi avevi promesso durante il nostro incontro della settimana scorsa. E infatti, ieri mattina, quelli di Sel si rivolgevano ai renziani del Transatlantico proprio dicendo: “Ci avete fregato”.
Quelli di Forza Italia, per parte loro, si godono lo spettacolo - compreso quello del ministro Gaetano Quaglieriello che mette a verbale “i rischi di incostituzionalità” della proposta del segretario del Pd - e svelano un retroscena: “È stato Renzi a volere a tutti i costi soglie di sbarramento così alte: non vuole nessuno a dargli fastidio a sinistra”. Sinistra Ecologia e Libertà, insomma, per il sindaco di Firenze deve entrare nel listone del Pd. Proposizione che incontra una delle preoccupazioni massime della fu area cuperliana: “Ci vuole togliere anche il ruolo di sinistra interna”, si lamentavano nei giorni scorsi, quando sembrava che Vendola stesso avesse dato il suo assenso all’operazione.
PREOCCUPAZIONE secondaria, per il momento, visto che tra i perdenti del recente congresso democratico ieri è iniziata una sorta di rottamazione 2.0 accelerata dalle dimissioni di Gianni Cuperlo dalla presidenza del Pd. Il gruppo che fu noto come “Giovani Turchi” - Matteo Orfini, Andrea Orlando, Fausto Raciti e, in meno decisa navigazione, Stefano Fassina - ieri ha abbandonato la nave e - di conseguenza - il patronage dei leader più âgée Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema. L’idea è che il loro futuro è nel partito e passa dunque per un rapporto politico - anche dialettico - con Matteo Renzi: “Anche sulla legge elettorale il segretario dovrà confrontarsi, nel merito, con le perplessità che nei nostri gruppi e in quelli degli alleati di governo sono parecchie, come s’è già visto in commissione”, spiega Raciti.
I rumors di Transatlantico vogliono il gruppo dei giovani ex Ds - tutti o quasi, incidentalmente, usciti dalle “parlamentarie” - in rapida riorganizzazione: se il segretario si comporterà saggiamente, cioè lo chiederà con gentilezza, Orfini potrebbe entrare in segreteria con la delega alla Cultura e il ministro Orlando assumere la presidenza del Pd (ieri Renzi ha ribadito che quella carica spetta alla minoranza). Quanto all’ex viceministro Fassina, punta alla guida della minoranza interna.

l’Unità 22.1.14
Pippo Civati
«Cuperlo non poteva fare altro che dimettersi, nel Pd va trovato il modo di discutere in modo diverso. Italicum? Piuttosto è un Florentinum. . .»
«Si andrà per le lunghe, meglio se Matteo fa il premier»
intervista di Rachele Gonnelli

ROMA «Dispiace». Per Pippo Civati le dimissioni di Gianni Cuperlo dalla carica di presidente del Pd erano inevitabili. Però non ne fa una colpa a Cuperlo, anzi. «L'atteggiamento di Renzi – sottolinea il terzo contendente delle passate primarie – non mi è proprio piaciuto. Matteo si esalta nel contraddittorio duro – è la spiegazione di uno che lo conosce da tempo – eppure da segretario potrebbe essere più sereno ed equanime invece di continuare a buttarsi in polemiche così aggressive». Non è la prima volta, fa notare ricordando la lite con Stefano Fassina. Quindi ha ragione Cuperlo?
«Diciamo che era obbligato alle dimissioni dopo l'episodio della direzione, che ha sancito una rottura sia personale sia politica tra i due. Certo, anche Cuperlo ha fatto una scelta a mio avviso non giusta accettando la presidenza, un ruolo molto delicato, senza rinunciare a fare il leader della sua componente. Mi permetto di ricordare che glielo avevo detto. Essendoci tra i due posizioni politiche abbastanza irriducibili fin dall'inizio, era chiaro che alla prima grossa difficoltà si sarebbero scontrati. È bastato un mese ed eccoli là».
Cosa succederà adesso?
«Invece di scindersi, come qualcuno paventa, bisogna trovare il modo di discutere in modo diverso. Neanche io potrei fare il presidente, ci vuole un nome più di garanzia. In ogni caso non mi è piaciuto Renzi quando ha fatto riferimento a un accordo assolutamente blindato, prendere o lasciare. Capisco che abbia timore di uno stravolgimento, ma anche il lavoro parlamentare non è così residuale, via. Il dibattito deve essere pluralistico, anche le opinioni minoritarie devono essere rispettate».
Sembra che lo spartiacque tra Cuperlo e Renzi stia in una concezione del partito, della democrazia interna, molto distante. Si tende ad una omologazione o si può ancora votare contro?
«La mia posizione era contraria alla proposta di legge elettorale presentata da Renzi e l'ho detto. Anche se apprezzo la sua grinta e non contesto la scelta, perciò d'intesa con gli altri non intendevo esprimere un no secco. Quando abbiamo visto cosa è successo abbiamo fatto una nuova valutazione sulla possibilità di un voto contrario ma alla fine abbiamo mantenuto l'astensione per tenere il punto politico, di merito, e non apparire pregiudizialmente contrari a tutta l'operazione. Sono sempre un po' in imbarazzo perché con le primarie così vicine non vorrei apparire tout court contro Renzi o in qualche modo rancoroso nei suoi confronti».
L'intervento di Cuperlo è stato tacciato di essere livoroso, era così?
«No, però io ho fatto una scelta diversa. I maliziosi dicono che sono d'accordo con Renzi. Non è vero. Tant'è che la sua proposta di riforma elettorale piace a Berlusconi, ma a me no».
È una critica all'opportunità di incontrare Berlusconi?
«Avrei fatto un'altra scelta, diciamo che tra Dudù e Berlusconi avrei preferito una via di mezzo. Non so, i capigruppo di Forza Italia in Parlamento? Però non voglio drammatizzare l'accordo con Berlusconi quando con lui abbiamo fatto un governo o volevamo fare le riforme costituzionali e io ero uno dei pochi, ma proprio pochi, a non volerlo. Non è sulla modalità che si incentrano le mie critiche, è sulla sostanza dell'accordo».
Quali i punti critici del sistema Italicum?
«Anche il nome andrebbe cambiato, questo qua ricorda troppo la strage dell’Italicus. Propongo Florentinum, mi sembra meglio, e poi è nato dai colloqui tra due fiorentini, Verdini e Renzi. Di scuola sono per la legge Mattarella. Ero l’unico a avere una proposta specifica sulla legge elettorale alle primarie e su questo ho messo a lavoro un gruppo di persone tra cui il costituzionalista Andrea Pertici dell’Università di Pisa. Quindi noi avremmo voluto collegi uninominali, una sfida tra un candidato di destra e uno di sinistra. A questo punto non vedo speranza di tornare al Mattarellum o a un’altra proposta con interlocutori diversi. Il M5S ha perso un altro treno, purtroppo. Ciò che mi convince meno della proposta rimasta in campo è che alla fine riproponga delle lunghe liste bloccate. Perché anche se le circoscrizioni sono piccole e le liste brevi, con la ripartizione nazionale dei seggi, di fatto si ripristina un’unica lunga lista».
E le soglie? Troppo alte (5 e 8%) quelle d’accesso? Troppo basse (35%) quelle del premio?
«Secondo me specialmente sulle soglie d’entrata si interverrà. L’idea che sia un pacchetto prendere o lasciare è una forzatura perché anche i gruppi parlamentari hanno un’autonomia dal partito. In ogni caso il lavoro sarà lungo perché questa legge non può funzionare se prima non si abolisce il Senato. S’immagina un doppio ballottaggio? Il caos. Serve una modifica costituzionale e non si voterà con il sistema nuovo fino a tutto il 2015».  Le fibrillazioni con il governo continueranno così?
«Per questo propongo un Renzi 1 al posto di un Letta bis».
Renzi premier? Ma si è appena ricandidato sindaco, quante cariche deve avere?
«Questo va chiesto a lui. Secondo me però potrebbe essere una soluzione».

Corriere 22.1.14
Civati: c’è un’atmosfera da resa dei conti surreale
intervista di Daria Gorodisky

ROMA — «Le dimissioni di Cuperlo? Erano inevitabili, dopo quello che è successo in direzione. Era ovvio da subito che sarebbero arrivate». Pippo Civati, deputato del Pd e, nelle scorse primarie, candidato a guidarlo, non è sorpreso dagli atteggiamenti di nessuno dei suoi due ex rivali: «Avevo sconsigliato Cuperlo di accettare la presidenza del partito perché conoscevo il modo assoluto e decisionista di Renzi di interpretare la leadership».
Decisionismo, o toni offensivi?
«Renzi avrebbe dovuto evitare di trattare Gianni da avversario invece che da interlocutore, di scendere così sul personale… Chi è forte non ha mai motivo di farlo. Però si vede che in lui c’era anche un sentimento di rivalsa, come a dire “prima i prepotenti erano altri, e adesso…”»
È una giustificazione?
«Non mi va di commentare con degli “io avrei detto, io avrei fatto”. Voglio avere un rapporto di dialogo con Renzi, è lui che ha vinto le primarie».
E nel merito della proposta di riforme?
«Renzi ha fatto bene a utilizzare la spinta del successo alle primarie per imprimere un’accelerazione. Però lo schema che ne è scaturito non mi trova d’accordo, è congeniale soprattutto a Berlusconi».
È con lui che Renzi ha scelto di fare un accordo privilegiato .
«Gli elettori del Pd dovevano aspettarselo da lui, chi lo ha votato immaginava già che avesse canali di un certo tipo. Comunque, l’unica soluzione alternativa sarebbe stata se Grillo avesse parlato con Renzi prima di Berlusconi. Invece il Movimento 5 Stelle si chiama sempre fuori da tutto: ha ripetuto adesso l’errore di un anno fa, non c’è stata intelligenza politica. Il postino suona sempre due volte, ma loro non aprono mai la porta».
La scelta di stringere un accordo preventivo con Berlusconi non rischia di procurare danni al Pd, in termini di futuri consensi elettorali?
«Non lo so. Vedo che la cosa è stata vissuta malissimo, peggio di quanto non pensassi. Ma Renzi ha puntato tutto sul risultato».
Ha intenzione di votare il modello di legge elettorale presentato alla direzione?
«Ora non voglio mettere i bastoni fra le ruote, non possiamo certo fermare la riforma del sistema di voto. Spero che, con un dibattito alla luce del sole, in Parlamento sia possibile fare modifiche. Credo che sia difficile, ma vedremo che cosa si potrà fare. Abbiamo la responsabilità verso il Paese di trovare una forma e anche una misura fra di noi. Se salta anche questa, salta tutto».
La legge elettorale è legata alle riforme costituzionali.
«Ecco, questo è il punto. Mi sembra impossibile usare quel tipo di sistema elettorale senza il superamento del Senato. Significa che il governo dovrà restare in carica almeno un anno, e questo non mi vede d’accordo. Sembra di essere tornati al primo discorso di Enrico Letta, quando vincolava alle riforme la fiducia al suo esecutivo. Siamo di nuovo allo stesso punto… Mi preoccupa l’idea di una durata indefinita di questo governo».
Le larghe intese ora sono più forti?
«Sono rafforzate, e la maggioranza è tornata ampia come prima che Forza Italia dichiarasse di andare all’opposizione».
Crede che ci saranno scissioni nel Partito democratico?
«C’è un clima pessimo, un’atmosfera da resa dei conti surreale: ma no, non ci sarà scissione».

Repubblica 22.1.14
L’intervista
Stefano Fassina: quando si sconfina sul piano personale si mostra insofferenza verso le opinioni diverse dalle proprie
“Così rischiamo una deriva plebiscitaria non ce ne andremo, ma serve rispetto”

ROMA — «Il Pd rischia una deriva padronale e plebiscitaria». Stefano Fassina, l’ex vice ministro all’Economia, attacca Renzi.
Fassina, ha fatto bene Gianni Cuperlo a dimettersi?
«Dopo quell’affermazione di Renzi in direzione, così pesante sul piano personale, è comprensibile la scelta di Gianni di dimettersi, anzi è in qualche modo obbligata. Non è un problema di critiche nel merito, ma di uno sconfinamento sul piano personale che dimostra una insofferenza alle posizioni diverse dalle proprie ».
Lei si è dimesso da vice ministro per meno, per una battuta di Renzi su “Fassina chi?”.
«Che sia una battuta piuttosto che una frase compiuta, è l’assenza, lo scarso rispetto per l’interlocutore la cosa più grave».
Per la minoranza è sempre più difficile stare nel Pd?
«Sempre più difficile sì, ma il problema è del Pd non della minoranza: è una difficoltà a discutere. Un conto è la franchezza e l’innovazione, che è assolutamente benvenuta, altro è l’intolleranza verso le critiche».
Il malessere può diventare
scissione?
«No assolutamente no, siamo tutti convinti che il Pd è la nostra casa, dobbiamo imparare il rispetto reciproco per potere essere una comunità utile all’Italia».
Farebbe il presidente al posto di Cuperlo, se glielo proponessero?
«Assolutamente no, è fuori discussione».
È un ruolo che spetta però alla minoranza?
«Credo che anche le reazioni da parte di coloro che sono molto vicini a Renzi e che hanno chiesto le dimissioni di Cuperlo, rendano poco praticabile per un uomo o una donna della minoranza il ruolo di presidente. Nel Pd renziano si chiede un allineamento a prescindere.
Diventerete quindi una sorta di “correntino”?
«No. Mi rifiuto di cadere nella cristallizzazione degli schieramenti congressuali. Abbiamo assolutamente bisogno di toglierci le magliette congressuali».
Non funzione la riforma elettorale proposta dal segretario, o non funziona il fatto che nasca da un patto con Berlusconi?
«Riconosco a Matteo il merito di avere riavviato il treno delle riforme. Noi abbiamo fatto rilievi di merito, non per sabotare ma per migliorare il testo su alcuni punti. Un comunicato delle Acli ha ben sintetizzato: “Tra Renzi e Berlusconi un accordo per conservare la Seconda Repubblica, non per superarla”, sottolineando la continuità della proposta con il Porcellum. Non sono cuperliani livorosi. Noi non vogliamo fare saltare il banco, ma speriamo che il treno arrivi a destinazione il prima possibile. Però...»
Però?
«Deve essere alzata la soglia per il premio di maggioranza, ma soprattutto i cittadini devono scegliere di non avere le liste bloccate in cui le segreterie dei partiti continuano a scegliere gli eletti».
Possono portare a casa la riforma elettorale il Pd e Fi da soli?
«No, bisogna andare oltre, non solo per attenzione alle forze politiche che sostengono il governo ma perché le regole devono essere il più possibile condivise. Altrimenti indeboliamo il governo».
Questi scossoni faranno cadere il governo Letta?
«Il rapporto tra Pd e governo resta tutto da chiarire: non possiamo cavarcela con l’assicurazione sulla vita rappresentata dalla necessità delle riforme costituzionali. Il governo Letta non è un esecutivo di intrattenimento mentre si fanno le riforme istituzionali».

Repubblica 22.1.14
Pd, la diaspora della minoranza su cambi dell’Italicum e rimpasto
I Giovani Turchi: rischio di sfascio
Bersaniani decisi a presentare emendamenti al testo di Renzi

ROMA — «Come il burro d’estate. .. «. Alla fine dell’ennesima riunione, la minoranza del Pd più che granitica appare burrosa. E sul punto di squagliarsi. I cuperliani, già divisi in più clan, affrontano il da farsi sulla riforma elettorale, l’Italicum, proposto da Renzi. Sotto botta per le dimissioni di Gianni Cuperlo da presidente del partito, si avviano a diventare un “correntino”, un’opposizione interna al Pd come lo fu nei Ds quella di Mussi, Giovanni Berlinguer e Cofferati.
Più piccola, ovviamente. Soprattutto assai divisa. Da un lato ci sono i bersaniani che hanno annunciato una lotta dura e senza paura: se la legge elettorale nata dal patto tra Renzi e Berlusconi non cambia nel punto che riguarda le liste bloccate, non va votata. Polemicamente, Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro, ha ricordato che non esistono pacchetti di riforme sigillate con il super Attak: «Abbiamo il diritto e il dovere di cambiare quel testo». Alfredo D’Attorre, altro bersaniano, pensa che sia indispensabile presentare emendamenti e, se non passano, non votare come vuole il partito. Però il “correntino” si spacca subito, o meglio rischia di squagliarsi su questo. E su molto altro ancora. I “giovani turchi” sono di tutt’altro avviso.
Matteo Orfini, portavoce dei “turchi”, fa sapere subito, nella prima riunione mattutina della minoranza che non vota emendamenti di corrente: «Io un emendamento per le preferenze non lo voto, a meno che non sia l’emendamento del mio partito. Mi attengo alle decisioni della direzione e del gruppo, perché questo è il modo per tenere unito il Pd. Altrimenti, per questa via, il Pd si sfascia». La scissione è il convitato di pietra. Tanto forte è la tensione, tra accuse reciproche. A Cuperlo che in quell’appuntamento legge la sua lettera di dimissioni dalla presidenza del Pd, Orfini risponde: «Se io fossi stato al tuo posto avrei dato le dimissioni, ma non essendolo, ti chiedo di ritirarle». Tuttavia i “giovani turchi” sono accusati dal resto della minoranza si essere ormai «praticamente renziani ». Il fronte anti segretario perde effettivamente pezzi.
La posizione di Pippo Civati, l’altro sfidante di Renzi alle primarie, sul fronte della riforma elettorale non è intransigente. Ai civatiani l’Italicum non piace. «È pasticciato, apprezzo il dinamismo di Renzi, ma sul risultato sono molto negativo. La legge elettorale proposta piace soprattutto a Berlusconi e ha un sacco di vizi:riprende molto parzialmente quanto ha deliberato la Consulta e allontana invece di avvicinare gli elettori dagli eletti», osserva Civati, ammettendo che «Matteo con Gianni l’ha fatta un po’ grossa ». Però è proprio con Cuperlo che se la prende: «L’avevo già detto che non era il caso di fare il presidente e il capocorrente insieme, soprattutto se non si è d’accordo con la segreteria».
Le divisioni riguardano le questioni del governo e del rimpasto, ma corrono anche sul filo dell’offesa di Renzi a Cuperlo. «Un attacco personale, una osservazione fuori dalle righe e un metodo che non va, perché non si comincia a discutere con Forza Italia all’opposizione e poi si passa alle froze di maggioranza», secondo il bersaniano Nico Stumpo. «È stato troppo... «, ragiona Sesa Amici. La minoranza parla di una diversità profonda, culturale, che separa e lacera oggi il Pd. Molti parlamentari cuperliani nell’assemblea serale del gruppo si preparano a prendere la parola e ad elencare il numero di preferenze prese alle parlamentarie, le primarie cioè che i Democratici hanno fatto tra gli iscritti per scegliere i candidati alle politiche. Renzi ha segnalato che Cuperlo non le aveva fatte, essendo stato messo nel listino protetto e che perciò era strumentale ora la battaglia per le preferenze. I lettiani, quelli che si erano schierati con Cuperlo al congresso, tentano la mediazione. Paola De Micheli: «Grande amarezza per Gianni, però parliamo nel merito dell’Italicumsenza far saltare l’accordo».

il Fatto 22.1.14
Berlusconi: “Mica possono arrestare padre della patria”


SILVIO BERLUSCONI è ben contento di aver riacquistato una centralità nel sistema politico nazionale. Certo l’iscrizione nel registro degli indagati per il Ruby ter (il sospetto è quello che abbia pagato per mentire una gran parte dei testimoni del processo Ruby), non deve avergli fatto piacere. Tanto che fa trapelare - la notizia viene ripresa con prontezza sull’Huffington Post - una dichiarazione da padre della patria a rischio condanna: “Voglio vedere - dice - se arrestano un padre della patria”.

Corriere 22.1.14
E da Arcore Berlusconi detta la linea: niente attacchi al sindaco
Forte dei sondaggi che danno il cetrodestra in vantaggio
Il leader scommette sulla scissione del Pd: con le riforme possiamo solo crescere
Nel mirino sinistra dem e l’ex delfino Alfano: «Quali preferenze, ma se l’ho nominato io»
di Tommaso Labate


ROMA — Primo, «chiunque dei nostri vada in tv deve difendere Renzi in tutti i modi. Nessuna ironia, nessun attacco contro di lui». E soprattutto secondo, «la nostra controffensiva mediatica deve essere incentrata contro la sinistra del Pd e contro il governo Letta». Stavolta nessuna black list . Stavolta, direttamente da Arcore, Silvio Berlusconi impartisce ai suoi le regole d’ingaggio su come tarare la comunicazione forzista, «su cosa dire in televisione» all’indomani dell’accordo sulle riforme. Poche regole ma chiare. Attacchi contro Renzi no, mirino contro l’ala bersanian-dalemiana del Pd e contro il tandem Letta-Alfano sì. Tanto che vedendo il vicepremier in tv mentre protestava contro «il Parlamento dei nominati» e chiedeva a gran voce le preferenze, il Cavaliere avrebbe quasi perso le staffe. «Ma di che cosa sta parlando? Ma se l’ho nominato io, lui? Quali preferenze? Avesse almeno la decenza di tacere».
Berlusconi l’aveva detto già la settimana scorsa, durante una cena, che «alla fine dentro il Pd ci sarà la scissione». E quando lunedì s’è accomodato sulla poltrona per assistere allo streaming della direzione dei Democratici, le sue convinzioni si sono trasformate in certezze. «Il cammino delle riforme deve essere avviato in Parlamento senza intoppi», ha spiegato ai suoi. E «nessuno di noi deve mostrarsi diffidente o critico. Perché questi del Pd si separano davvero e, contemporaneamente, lo spazio per partitini di centro sarà cancellato. È la nostra occasione d’oro…».
È per questo che, tra il vertice al Nazareno di sabato e la notte di domenica, Berlusconi s’è rimangiato tutte le perplessità su quel «ballottaggio» previsto dall’Italicum che inizialmente aveva respinto. «Perché quello che abbiamo da guadagnare è più di quello che abbiamo da perdere», è stata la spiegazione ufficiosa. Il resto è chiaro. Difendere il leader Renzi significa acuire lo scontro interno al centrosinistra. Mantenere il patto siglato nella sede del Pd vuol dire riaccreditarsi come «leader politico» e allontanare — in vista della campagna elettorale — la Grande Ombra della sentenza della Cassazione, di cui non a caso nessuno parla più.
Le «tavole di Arcore» sono state prese alla lettera da tutti. Renato Brunetta, che pure era un acceso sostenitore del Mattarellum e un arcigno censore del sindaco di Firenze, adesso la mette così: «Ho ascoltato Renzi alla direzione del Pd e sono d’accordo con quello che ha detto. L’accordo raggiunto non si può correggere e io mi fido di lui». Per non parlare di Daniela Santanché, prima fila dell’ala dei falchi, che adesso di «falco» mostra ben poco: «La legge elettorale sui cui s’è trovato l’accordo con Renzi deve essere approvata così com’è e al più presto». Mentre Raffaele Fitto, lanciando la kermesse di Forza Italia di domenica prossima in Puglia, parla di un Cavaliere «che ha riaperto scenari di enorme interesse per il Paese». E questa è soltanto la prima parte del piano. Per la seconda, cioè gli attacchi ad alzo zero contro l’ala anti-renziana del Pd, basta dare un’occhiata al profilo Twitter del «Mattinale», l’house organ del gruppo forzista alla Camera. «Cuperlo è arrabbiato con Renzi solo perché gli ha ricordato che si è fatto piazzare sul burro del listino fabbricato per gli ultragarantiti», «Cuperlo si dimette dunque esiste», «Cuperlino listino», «Cuperlativo assoluto», e via dicendo, con attacchi anche a Letta e Alfano.
Perché, citando (inconsapevolmente) Bettino Craxi, dopo sabato Berlusconi è sicuro di avere in mano «il poker d’assi». L’ultima rilevazione di Euromedia dà il centrodestra (34) in vantaggio di 0,6 punti sul centrosinistra (33,4). Un vantaggio che Tecné rivede addirittura al rialzo, con la coalizione berlusconiana (37,1) che, al contrario degli avversari (33,4), supererebbe il quorum dell’Italicum. «Con le riforme in Aula, noi possiamo solo crescere. Al contrario del Pd», è la scommessa che fanno ad Arcore. Non a caso nessuno, tra i berlusconiani, ha in mente ritocchi all’accordo. «Abbiamo dato il via libera a quello. Se salta, per noi salta tutto. E non sarebbe certo colpa nostra…», sorride Paolo Romani. Come hanno sorriso in serata anche gli avvocati del Cavaliere, quando hanno saputo che la Corte di Straburgo ha dichiarato «ricevibile» il ricorso di un candidato alle regionali del Molise sulla retroattività della legge Severino. Che potrebbe essere la breccia verso quel muro normativo che l’ex premier conta ancora di sfondare. Per ritornare in campo, in prima persona.

Corriere 22.1.14
M5S: l’Italicum peggio che con Mussolini

«L’Italicum è peggio della legge Acerbo, la legge elettorale del Duce». Il Movimento 5 Stelle conferma la guerra contro la legge elettorale proposta da Renzi e sostenuta da Berlusconi. I pentastellati presenteranno alla Camera emendamenti che rispecchino «la proposta di legge sul modello svizzero spagnolo già depositata».
Con «preferenza sia positiva che negativa». In ogni caso, la proposta finale del movimento dovrà essere approvata dalla Rete. «Oggi Renzi — dice il deputato Danilo Toninelli — in profonda sintonia con Berlusconi, fa peggio dello stesso Mussolini, che aveva sì previsto una soglia bassissima per il premio, ma che si era guardato bene dall’inserire il doppio turno, voluto invece da Renzi: qualsiasi partito, anche col 20%, può vincere e governare». Quanto alla capogruppo Paola Taverna, sul settimanale Oggi , dice che «i partiti fanno a gara per stancare la gente e regalarci voti». Non tutti sono d’accordo. Il senatore Luis Alberto Orellana twitta: «Gli avversari politici sono come i parenti. Non li scegli ma li gestisci. Gli parli, magari solo ai battesimi o ai funerali, ma gli parli...». E il leader? Beppe Grillo parlerà domani a Roma, ai giornalisti della stampa estera.

il Fatto 22.1.14
Opposizioni
5Stelle, il movimento immobile è la specialità della casa
di Andrea Scanzi


Dove sta andando il Movimento 5 Stelle? La sensazione, ora più che mai, è che stia fermo. Percezione tanto pericolosa quanto in buona parte sbagliata. Affermare che M5S sa dire solo no è un falso storico: le loro proposte sono continue e la fase costruttiva esiste. Non si può neanche accusare il Movimento di essere incoerente, anzi l’errore è casomai quello di perseguire una ipercoerenza così granitica da sfociare talora nel duropurismo un po’ autistico. Matteo Renzi, al contrario, non è coerente. Sia perché ha le fondamenta ideologiche di Peppa Pig e sia perché ha unicamente a cuore la vittoria. E Renzi vince solo se riconquista anche quei voti di confine che un anno fa abbandonarono il Pd per premiare una forza del tutto inedita.
UNA FORZA CHE, oggi, per molti è restata troppo a guardare. Bravissima a fare opposizione, e non è poco (nessuno, tranne Di Pietro, l’ha fatta veramente durante il ventennio berlusconiano). Ma troppo immobile, e pure compiaciuta nel suo autocongelarsi, ogni volta che poteva realmente incidere: per esempio nel secondo giro di consultazioni a marzo, quando non venne fatto il nome di Rodotà (o Zagrebelsky, o Settis) ; e per esempio in questi giorni. Grillo e Casaleggio non hanno imposto alcuna scelta: la maggioranza dei parlamentari 5 Stelle è d’accordo con la loro linea dura. Non è d’accordo invece la maggioranza degli elettori, e una delle anomalie del M5S è proprio questa sfasatura tra rappresentanti e votanti. Non c’è nulla di strano nell’incontro di Renzi con Berlusconi: è solo l’allievo che omaggia il maestro, nei confronti del quale prova “profonda sintonia”. Berlusconi non ha bisogno di chiedere alla figlia Marina di candidarsi per avere un erede in politica: lo ha già trovato nel sindaco part-time di Firenze. Renzi ha però ragione, e tanta, quando dice che prima di incontrare Berlusconi ha bussato alla porta dei 5 Stelle. I quali, con aria saputella, hanno risposto sdegnati: “Le leggi si discutono in Parlamento e non al Nazareno”, “Renzi caccia i soldi”, bla bla bla. É molto bella, e molto nobile, l’idea dei 5 Stelle di consultare la base online per capire quale legge elettorale sia preferibile. Se lo facesse anche Renzi, scoprirebbe che il suo “Italicum” (o piuttosto “Verdinum”) piace assai poco a chi un mese fa gli ha regalato una investitura plebiscitaria.
Solo che, mentre i 5 Stelle stanno sopra gli alberi come tanti baroni rampanti di calviniana memoria, gli altri non perdono tempo: nuova legge elettorale, e già che ci sono Titolo V da cambiare, e pure il Senato da abolire. Sotto la foto del Che Guevara, al Nazareno, si è seduto Berlusconi: se Ernesto lo avesse saputo, avrebbe certo evitato di andare in Bolivia (se non in villeggiatura). Se al suo posto ci fossero stati Di Maio o Morra, Di Battista o Taverna, avremmo ora una storia diversa: una storia migliore. E il bluff renziano sarebbe oggi manifesto. Invece, mentre buona parte dei giornalisti si esibisce nel suo sport preferito (l’inchino al potente, ieri Berlusconi e oggi Berluschino), i 5 Stelle stanno alla finestra. Come a marzo. Non solo: ora che Renzi prosegue spedito nella sua guerra lampo, così accecato dalla sua ambizione da non accorgersi che il “Verdinum” può regalare un’altra vittoria a Berlusconi (costringendo Ncd e Lega ad accordarsi con lui), Grillo fa ironia. Parla di “Pregiudicatellum”, e fa bene, perché è allucinante che la cosiddetta Terza Repubblica abbia come padre costituente un pregiudicato. Ieri Piero Calamandrei, oggi Silvio Berlusconi: roba da suicidarsi.
C’è però poco da ironizzare, perché quello dei 5 Stelle è se va bene cinismo sperticato e se va male miopia politica clamorosa. Se l’obiettivo dei 5 Stelle è fare opposizione in eterno, o vincere il premio dei mejo fighi del bigoncio, hanno pochi rivali; se però si intende anche cambiare davvero le cose, ogni tanto occorrerebbe essere appena elastici. Per meglio dire concreti. E – sì – anche un po’ furbi (che non vuol dire incoerenti). Il “Verdinum” è un obbrobrio, ma sono stati anche i 5 Stelle a consegnare Renzi all’abbraccio di Berlusconi. Grillo e Casa-leggio tutto sono fuorché stupidi. Sanno, per esempio, che il “Verdinum” potrebbe paradossalmente agevolarli. Al ballottaggio potrebbero finirci pure loro, se nel frattempo Renzi e Renzi (pardon Berlusconi) deluderanno. E al ballottaggio tutto è possibile. Grillo, dal canto suo, pare orientato a un nuovo tour (a pagamento). Forse perché si sta annoiando della politique politicienne, forse perché ha bisogno dell’adrenalina da palcoscenico, forse - come sostengono i detrattori - per far cassa. I “dissidenti”, come Lorenzo Battista, ammettono che una grande occasione è stata persa, e nel loro dissenso non si scorgono le fattezze del voltagabbanismo à la Favia o Gambaro, ma piuttosto un naturale buon senso. Sono giorni decisivi, e spiace che i 5 Stelle si siano messi all’angolo da soli. Hanno meriti enormi e potenzialità considerevoli. Ogni tanto, però, quando il treno passa, bisognerebbe provare a salirci. Non solo limitarsi a prendere a schiaffi i viaggiatori che si sporgono dal finestrino, come tanti Ugo Tognazzi 2.0.

l’Unità 22.1.14
Immigrazione clandestina il reato verrà cancellato
Chi entra irregolarmente in Italia non verrà sottoposto a procedimento penale
Il provvedimento scatterà solo per chi è recidivo dopo l’espulsione
di Masimo Solani


Non è l’abrogazione tout court che in molti avevano invocato a lungo ma è comunque un primo cambio di rotta rispetto alle norme da «faccia feroce» volute negli scorsi anni dai governi di centrodestra. Il Senato, infatti, ha dato ieri il primo via libera al disegno di legge sulla messa in prova (195 voti a favore, 15 contrari e 36 astenuti) recependo anche l’emendamento presentato dal governo per l’abrogazione del reato di immigrazione clandestina. A legge approvata, quindi, chi entrerà in maniera irregolare in Italia per la prima volta non commetterà più alcun reato penale (resta invece l’illecito amministrativo a cui deve far seguito l’espulsione), che sarà invece limitato ai casi di recidiva come il fatto di rientrare in Italia una volta allontanati o la violazione di procedimenti amministrativi come l’obbligo di presentarsi in Questura. Una «sintesi», quella del testo approvato, che tiene conto delle diverse posizioni che interne alla maggioranza. «Da un lato il reato viene abrogato ha spiegato il relatore del testo, il sottosegretario alla giustizia Cosimo Ferri dall’altro viene trasformato in illecito amministrativo». Ciò significa «che chi per la prima volta» entra clandestinamente nel nostro paese «non verrà sottoposto a procedimento penale, ma verrà espulso». Ma, se rientrasse, a quel punto «commetterebbe reato». «Nessun passo indietro», ha assicurato Ferri in Aula, il governo ha semplicemente «voluto specificare espressamente quanto già contenuto nella norma».
Un passo in avanti che, comunque, soddisfa il ministro per l'Integrazione Cecile Kyenge. «Il Senato abroga il reato di clandestinità che viene sostanzialmente trasformato in illecito amministrativo: chi per la prima volta entra clandestinamente nel nostro Paese non verrà più sottoposto a procedimento penale il suo commento L’ampia maggioranza espressa al Senato è indice di civiltà e rispetto delle diversità. Un ulteriore passo in avanti che ci avvicina all’Europa». Esulta anche Khalid Chaouki, il deputato Pd che a cavallo di Natale si era barricato nel centro di prima accoglienza di Lampedusa. «Finalmente abbiamo vinto la prima battaglia dichiara È caduta la prima bandierina ideologica piantata dalla Lega Nord negli anni bui della gestione cattivista dell’immigrazione. Con questo atto importante si abbatte uno dei pilastri dell'ideologia securitaria che ha per troppo tempo criminalizzato gli immigrati e reso un cattivo servizio all'immagine dell’Italia in Europa e nel mondo. Lavoriamo ora per una nuova legge sull’immigrazione che tenga insieme il principio di legalità e di rispetto del diritto internazionale con quello dei diritti umani».
LA LEGA A TESTA BASSA
Durissime, come prevedibile del resto, le reazioni della Lega. «L’approvazione del disegno di legge delega sulle pene alternative, ovvero il così detto svuota-carceri o l'ennesimo indulto mascherato, ivi compresa la cancellazione del reato di immigrazione clandestina, è un vero e proprio crimine contro l’umanità», l’attacco di Roberto Calderoli. Promette battaglia, invece, il segretario del Carroccio Matteo Salvini. ««Reato di immigrazione clandestina, cancellato. Solo la Lega ha votato contro ha scritto via Twitter Nel Palazzo hanno vinto loro,
per ora. Prepariamoci a portare la battaglia nelle piazze. E lì, fra la gente perbene, vinceremo noi». Stizzito anche il commento di Ignazio La Russa, presidente di Fratelli d’Italia: «Hanno risolto il problema dell’immigrazione abolendo il reato di ingresso clandestino ha ironizzato Attendiamo ora con maggiore fiducia gli aspetti benefici di questo illuminante provvedimento: niente più barconi nel Mediterraneo, niente più vittime degli scafisti che trafficano esseri umani, niente più ghetti e soprattutto più sicurezza nelle nostre città».
Voto contrrario all’emendamento del governo, però, è arrivato anche dal senatore del Pd Luigi Manconi che, con il proprio no, ha voluto evidenziare «un’esigenza precisa». «Quella ha spiegato di segnare una forte discontinuità rispetto alle politiche del centrodestra che hanno reso l’immigrazione terreno privilegiato di applicazione del diritto penale e della limitazione della libertà, in forme anche contrarie a costituzione come per i Cie. In particolare, non condivido la scelta di ribadire in un provvedimento che riduce l’area del penale la rilevanza penale a fattispecie caratterizzate da scarsa offensività e di mera inosservanza, quale l’inottemperanza all’ordine di espulsione».

l’Unità 22.1.14
«Monsignor Scarano e l’amante - don Luigi Noli - riciclavano soldi per i D’Amico»
Nuovo arresto per l’ex amministratore del patrimonio pontificio
«Persona inquietante e spregiudicata»
di Felice Diotallevi


ROMA E dire che stava per essere consacrato arcivescovo. L’ex capo contabile del’Apsa (Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica), Nunzio Scarano, arrestato nuovamente ieri mattina con l’accusa di riciclaggio da parte del Procura di Salerno, era in procinto di compiere un salto di «carriera» quando è scattato il primo arresto a fine giugno 2013. È questo che si legge nell’ordinanza che ha portato «Monsignor 500» di nuovo alla ribalta della cronaca giudiziaria con l’accusa di riciclaggio. Questa volta in compagnia di un altro sacerdote, don Luigi Noli, 55 anni, che con Scarano (che ieri ha accusato un malore) condivideva lo stesso tetto e, sostengono i magistrati, anche lo stesso letto visto che i due erano amanti. Non solo. I due condividevano la stessa passione per gli affari. Con la collaborazione di alcuni parenti anche Noli riciclava denaro preso dal sacerdote direttamente allo Ior (disposto il sequestrato di 2 milioni nella casse dello Ior) . Nelle mani gli inquirenti hanno una ricevuta dell’Istituto per le opere religiose per il prelievo di 588mila euro in contanti. Soldi che Scarano ha portato personalmente a Salerno, suddiviso in piccole cifre e consegnato a parenti e imprenditori affinché li versassero sui propri conti correnti così da fare da schermo al riciclaggio. Il tutto secondo l'apparente forma di donazioni. In questo modo Scarano avrebbe anche estinto il mutuo sull’abitazione.
Gli inquirenti hanno trovato anche 10 sotto conti correnti, tra i quali quello «Fondo anziani». Scarano utilizzava come schermo anche quattro società, due fantasma e due off shore con sede nelle Isole Vergini britanniche.
Dell’amore dei due si sapeva da tempo. La loro relazione era emersa già nella prima inchiesta. Don Noli, da quando monsignor Scarano ha ottenuto i domiciliari per motivi di salute, risulta essersi trasferito in pianta stabile a casa del compagno, ufficialmente per poter accudire il recluso. Ed effettivamente emerge dagli atti un sentimento di affetto e un rapporto di mutua assistenza tra i due preti. Annotano i finanzieri a margine dell’informativa su una telefonata intercorsa alle dieci di sera tra Scarano e don Noli, il 9 febbraio del 2013: «Scarano e Noli ricordano di un’esperienza particolare vissuta laddove Scarano parla della relazione di ...omissis.. che gli diceva: “A bello allora vuol dire che quello che ti ho dato quella sera non ti basta, ti devo dare il resto?». E Luigi risponde: «.... Mamma mia, quella sera indimenticabile, un animale è diventato!» E ad un certo punto Nunzio definisce ...omissis.. possessivo nei suoi confronti e Noli risponde: «Ti vuole tutto per sé. Immaginati se sapesse che con me...». Scrive ancora la Finanza: «Dunque questo particolare rapporto tra Nunzio Scarano e Luigi Noli, che porta quest’ultimo a sentirsi un tutt’uno con il primo, superiore pertanto ad un mero rapporto di fraterna spiritualità e affettuosa amicizia, non può che implicare, a ragione, la piena consapevolezza, da parte di costui, degli affari illeciti in cui Scarano è versato».
Nell’ordinanza il gip Dolores Scarone accusa in maniera pesante Scarano. «È una persona inquietante. Alto prelato e formale uomo di chiesa del Vaticano eppure soggetto dedito alla vita mondana in grado di ricorrere a ingannevoli e spregiudicati artifizi per non figurare nelle operazioni finanziarie». «Un alto prelato si legge ancora che stava per essere nominato arcivescovo e che aveva l’incarico di amministrare il patrimonio della Santa Sede, avrebbe consentito «in modo sistematico» ai componenti della famiglia di armatori D’Amico, di riciclare rilevantissimi importi di denaro di «dubbia provenienza», ovvero che secondo la Guardia di Finanza sarebbe frutto di evasione fiscale. Il prelato avrebbe consentito agli armatori di trasferire per anni somme di denaro sui propri conti accesi presso l'Unicredit di Via della Conciliazione e presso la banca vaticana dello Ior. Somme che sarebbero state poi prelevate in contanti per centinaia di migliaia di euro e utilizzate per l'acquisto di immobili a Salerno, investimenti societari, acquisto di quadri d'autore. Parte delle ingenti somme sarebbero state invece restituite «pulite» ai titolari. Il giudice si sofferma sugli «incredibili» espedienti per evitare che risulti in possesso di cosi' grandi disponibilità economiche. «Ciò che è allarmante scrive il gip è che illeciti di cosi' grave portata e l’artificio e l’inganno che li sorreggono, vengano perpetrati da un alto prelato del Vaticano, da un uomo di chiesa il cui agire nella società è o dovrebbe essere, per insegnamento della stessa Chiesa di Roma, ispirato ai valori dell'onestà, della verità, dell'umiltà e della povertà». «Non è ben chiaro osserva il gip il motivo di tanta disponibilità dimostrata dal prelato verso la famiglia di armatori D'Amico, che si spinge ai punti estremi per consentire loro di poter ripulire i capitali illeciti prodotti all’estero».

Corriere 22.1.14
La vita mondana di monsignor Scarano
Tele di Van Gogh e De Chirico in casa
Patrimonio e amici del monsignor mondano
I pm: Scarano ha 14 appartamenti, frequenta Alberto di Monaco e Hunziker. Nuovo arresto
di Fulvio Bufi e Fiorenza Sarzanini


Un monsignore con la passione per la bella vita e gli oggetti preziosi. Abbronzato, ben vestito, frequentatore del principe Alberto di Monaco e di Michelle Hunziker. Anche queste attitudini hanno convinto il giudice di Salerno a ordinare un nuovo arresto per l’ex responsabile dell’Amministrazione del Patrimonio della Santa Sede, Nunzio Scarano. L’accusa è riciclaggio e falso in atto pubblico: con i conti Ior avrebbe «ripulito» 6 milioni di euro.

ROMA — Per comprendere la personalità di monsignor Nunzio Scarano bisogna guardare l’elenco dei beni sequestrati ieri. Oppure la lista delle persone con le quali l’alto prelato amava trascorrere il tempo. Perché la sua passione per la bella vita e per gli oggetti preziosi è uno degli elementi che ha convinto il giudice di Salerno Dolores Zarone a ordinare un nuovo arresto dell’ex responsabile dell’Apsa, l’amministrazione del Patrimonio della Santa Sede, per riciclaggio e falso in atto pubblico. Accusato di aver «ripulito» grazie a passaggi sui suoi conti correnti aperti presso lo Ior oltre sei milioni di euro.
Le telecamere abusive
«Una persona inquietante», lo definisce il gip nell’ordinanza e poi aggiunge: «Alto prelato e formale uomo di chiesa del Vaticano eppure soggetto dedito alla vita mondana, in grado di ricorrere a ingannevoli e spregiudicati artifizi per non figurare nelle operazioni finanziarie; in grado di corrompere un alto funzionario del governo per aiutare i D’Amico (gli armatori suoi amici, ndr ) a rimpatriare 20 milioni di euro; in grado di distribuire, i generi alimentari ricevuti per scopi caritatevoli, tra amici e parenti; legato da strane e particolari amicizie con uomini con cui sistematicamente si accompagna, con il sacerdote Luigi Noli (suo convivente e anche lui mandato ai domiciliari, ndr ) che si dichiara un tutt’uno con lui; in grado di coinvolgere in un’operazione di false donazioni circa 60 soggetti tutti compiacenti, tutti pronti a soddisfare le sue richieste; in grado addirittura di far predisporre, su richiesta di Paolo D’Amico, telecamere e apparati all’interno degli uffici della società D’Amico Navigazioni spa per registrare abusivamente le conversazioni di Cesare D’Amico e del suo factotum Carlo Lomartire».
Van Gogh e De Chirico
E ancora: «È allarmante che illeciti di così grave portata, che l’artificio e l’inganno che li sorreggono, vengano perpetrati da un alto prelato del Vaticano, da un uomo di Chiesa, il cui agire nella società è o dovrebbe essere, per insegnamento della stessa Chiesa di Roma, ispirato ai valori dell’onestà, della verità, dell’umiltà, della povertà».
Il 31 gennaio dello scorso anno, Scarano aveva denunciato di aver subito un furto nella sua casa di Salerno. La lista degli oggetti rubati rende bene l’idea di quale fosse la sua passione: «Circa 20 quadri di Guttuso, De Chirico, un calco del crocifisso dell’altare di San Pietro, una pergamena ad olio, argenteria e posateria varia del valore di svariati milioni di euro». Quell’irruzione nell’appartamento rimane misteriosa. Ma non sembra aver intaccato l’intero patrimonio del monsignore, che comprende anche sei tele originali di Vincent Van Gogh.
Durante l’interrogatorio dell’11 giugno scorso, al momento di giustificare il possesso dei beni, Scarano «esibisce una certificazione di donazione datata 8 dicembre 2011 sottoscritta da Maria Cristina D’Amico in cui è scritto che, in occasione dell’ordinazione sacerdotale, lo zio Antonio D’Amico regalava a Scarano un crocifisso del Bernini, ella personalmente un servizio di caffè, i cugini posateria e sottopiatti di argento; dopo la morte di zio Antonio, Cesare e Paolo gli anno regalato un quadro caravaggesco; ella ancora gli regalava due quadri di La Bella ed uno di Tafuri; alla morte di zio Antonio gli sono stati consegnati, tra i beni del defunto, quadri di Tafuri, tappeti orientali, argenteria mentre ella provvede a donargli spontaneamente circa 40mila euro annui».
Case e garage
E poi ci sono gli immobili, le proprietà che risulta aver comprato negli ultimi anni, anche affidandosi a prestanome che simulavano finte donazioni per consentirgli di estinguere il mutuo. Evidenzia il giudice: «Il reddito dichiarato da Scarano negli anni di imposta correnti dal 2007 al 2011 è oscillato tra i 6 mila e gli 8 mila euro cui va aggiunta la diaria di 30mila euro annue percepita dal Vaticano. A fronte di tali modesti redditi il prelato risulta: titolare del 99 per cento del capitale sociale della società immobiliare “Nuen srl”; titolare di un terzo del capitale sociale della immobiliare “Effegi Gnm srl; fino al 5 agosto 2010 è stato titolare di quote della società “Prima Luce” srl; nei confronti di tale società risulta vantare il credito di € 483.341,40 di non chiara provenienza, credito che il 2 ottobre 2012 trasferisce alla “Nuen” srl; risulta proprietario di un appartamento in via Tanagro 20 di Salerno; di un box in via Sant’Eremita 30 di Salerno; dell’unità immobiliare di via R. Guama 5 di Salerno, di diverse centinaia di metri quadrati e di un locale deposito del valore complessivo di € 1.155.000,00; di un locale adibito ad autorimessa sito in Piazza Sedile di Porta Rotese 12 di Salerno; ha la disponibilità di numerosi conti correnti e rapporti finanziari; è titolare di 12 appartamenti a Paestum che intende vendere per investire nell’opera pubblica del Crescent».
La Hunziker e il principe
Proprio per delineare la personalità del sacerdote è stato interrogato il suo amico Landi Magno. Così il giudice sintetizza il suo verbale: «Il testimone ha dichiarato di ignorare la provenienza delle enormi disponibilità economiche dello Scarano, di sapere che egli amministra i beni della Santa Sede presso lo Ior e che può vantare crediti illimitati in ragione del diritto che ha di poter accedere alle stanze del Papa; di sapere che è molto legato agli armatori D’Amico, che frequenta numerose personalità tra cui la cognata di Gianni Agnelli, la principessa Frescobaldi e molti personaggi dello spettacolo e della televisione tra cui Michelle Hunziker; che il monsignore sembra avere una doppia personalità perché quando celebra Messa o è nella funzione di religioso sembra mite e umile mentre quando si sveste è ben vestito, abbronzato, diviene amante della vita mondana e si accompagna a personaggi noti quali il Principe di Monaco». Non solo. Secondo quanto accertato dalle indagini affidate alla Guardia di Finanza «Scarano parla spesso al telefono anche con tale Emilio Zanotti che sarebbe una sorta di indovino con il quale il prelato si confronta quotidianamente, anche per più volte al giorno, rendendolo partecipe del suo stato d’animo di particolare preoccupazione per le indagini in corso e richiedendogli di continuo rassicurazioni al riguardo».

«Il principale accusatore del Papa è lo scrittore e giornalista argentino Horacio Verbitsky, per il quale esistono prove documentali che attestano le responsabilità di Bergoglio, che è giunto a considerare la sua elezione una “disgrazia per l’Argentina e il Sud America”»
il Fatto 22.1.14
Bergoglio, da benefattore a star di Voyager
di Luigi Galella


Come può un programma che fa del sensazionalismo la sua cifra stilistica accordarsi con chi si muove sul versante opposto della disarmante semplicità? E come può la normalità esser rivestita di eccezionalità senza intimidirsi o contraddirsi? Chi ama la normalità rifugge dalla stessa idea della straordinarietà, ma questo in fondo è una delle tante feconde contraddizioni dello stesso racconto cristiano, che eleva l’umiltà a valore assoluto e la povertà a via d’accesso nel regno dei cieli. È che l’appello all’umiltà, nella fattispecie, viene dal soglio più alto della Chiesa di Roma, e sembra quasi un paradosso il radicale abbassamento, che sovverte la storia e le gerarchie consolidate, e idealmente si spoglia di ogni manto e sovrastruttura ieratica, per donarsi alla collettività dei credenti. E questo, in fondo, è già sensazionale. Come sapere che in Cina hanno compilato una lista dei dieci uomini più influenti al mondo, che pone papa Francesco, il pontefice che viene dalla “fine del mondo”, al terzo posto – per la prima volta un religioso occidentale occupa una simile prestigiosa posizione – e come intimamente paradossale è apprendere che Time ha premiato Bergoglio e la sua rivoluzione, edificata appunto sull’umiltà, a uomo e valore dell’anno.
SEBBENE IL PAPA, avvertendo la “stranezza” della condizione in cui si trova non ami ostentare alcuna eccezionalità, anzi cerchi di dissimularla, la fanfara di “Voyager” (Rai2, lunedì, 21.10) e il suo facondo conduttore Roberto Giacobbo si occupano del caso. La vicenda presenta aspetti controversi. Uno negativo, l’altro positivo. Il primo riguarda l’accusa infamante all’indirizzo del nuovo pontefice, ricordata da alcuni organi di stampa e dal nostro stesso giornale all’indomani dell’elezione, di essere stato una specie di fiancheggiatore del regime di Videla in Argentina, facendo arrestare due gesuiti, sospettati di essere vicini ai comunisti; il secondo, che non si accontenta di una piena riabilitazione, ma aggiunge argomenti che trasformano di segno la stessa accusa, per cui Bergoglio da complice della sanguinaria dittatura – responsabile di torture stupri e uccisioni dei “desaparecidos” – si trasforma in vittima, e da delatore in benefattore dei perseguitati.
Il principale accusatore del Papa è lo scrittore e giornalista argentino Horacio Verbitsky, per il quale esistono prove documentali che attestano le responsabilità di Bergoglio, che è giunto a considerare la sua elezione una “disgrazia per l’Argentina e il Sud America”. Voyager smonta le critiche sostenendo che ai gesuiti catturati fu fatto credere dagli stessi militari che a fare il loro nome fosse stato il loro diretto superiore, il futuro Papa, ma in realtà si trattava semplicemente di una tecnica di tortura e di una strategia rivolta a indebolirne la fede e le certezze, perché entrambi diventassero collaborativi. Successivamente, a seguito di suoi stessi “approfondimenti” il gesuita sopravvissuto dei due ha scagionato delle colpe il Papa e si è con lui riconciliato. C’è poi un’intervista ad Alfredo Somoza, catturato nel 1978 in Argentina e aiutato a fuggire proprio grazie a Bergoglio. Infine il presidente della Corte Suprema argentina, che lo ha scagionato da ogni accusa, dichiarandolo “assolutamente innocente”.

il Fatto 22.1.14
Stato-Mafia
Il sostegno a Di Matteo: quello che gli altri (giornali) non dicono
di Angelo Cannatà


Domenica 12 gennaio c’è stato un convegno a Palermo – “A che punto sono la mafia e l’antimafia” –, la società civile ha partecipato in massa, il teatro era strapieno. La gente ha ascoltato attenta le analisi di Roberto Scarpinato, Barbara Spinelli, Antonio Padellaro; ha riso alle ironie acute, lucide, amare di Marco Travaglio. I giornali? Silenzio. Un silenzio che colpisce soprattutto alla luce delle intercettazioni complete, pubblicate lunedì, di Totò Riina su Di Matteo: “Di Matteo deve fare la fine del tonno”. Ecco il punto. Per Repubblica , La Stampa... non c’è stato un incontro a Palermo. Non ha parlato Nino Di Matteo – “so di rischiare la vita, ma vado avanti” – non ha chiesto sostegno alla società civile, aiuto ai giornali. Quando è partito l’applauso e ci siamo alzati in piedi per Di Matteo, l’emozione era forte. È stata una serata “particolare”, carica di tensione e sentimenti. Ma Repubblica non aveva spazio lunedì 13 gennaio per tutto questo. Doveva urgentemente dirci delle scappatelle di VittorioEmanueleIII(“Ilsegreto alpino dei figli illegittimi del Re d’Italia”, pag. 38); e delle storie di letto di Hollande (pagg. 12-13). Il sesso anzitutto.
CHE VUOLE il Fatto! Ancora la Trattativa! Su scelte, censure, impaginazione, evidenza di certi temi e silenzio su altri, si misura la storia, l’evoluzione e la decadenza di un giornale. E dell’intellighenzia italiana. Formidabile Sartre. Oggi direbbe: “Io ritengo Eco, Magris, Arbasino... responsabili dell’isolamento dei magistrati di Palermo perché non hanno scritto una riga per impedirlo. Non è affar loro, si dirà. Ma il processo di Calas era affare di Voltaire? La condanna di Dreyfus era affare di Zola? Eccetera”. Barbara Spinelli è una rara eccezione – con Dario Fo, Aldo Busi... – nel panorama della cultura italiana. Non tace. Prende posizione, scrive, racconta. A Palermo pronuncia parole forti: “Siamo qui per dire che questo vogliamo, difendendo i magistrati: un clima ‘costituente’. Il che vuol dire: la verità sui patti stretti tra mafia, P2, servizi deviati, anti-Stato”. La conclusione è di quelle che fotografano l’abisso in cui viviamo: “Se esiste un anti-Stato, e se i poteri politici non lo ammettono e denunciano lo strapotere delle procure, come risvegliare nel cittadino uno spirito pubblico? Vogliamo essere – osserva – le sentinelle dei magistrati”, perché cercano di svelare gli “indicibili accordi” di cui scrive D’Ambrosio a Napolitano. “Chi vuole che le cose restino indicibili per forza è attratto dal silenzio (...) sceglie il mutismo, che non è segreto di Stato, ma mutismo omertoso”. Questa donna piccola e riservata, timida, con un corpo esile e gracile, dimostra un coraggio che incute rispetto. Analizza. Attacca. Svela. È un Io che accusa, contro l’ipocrisia dominante. Ha dentro il demone di Zola: “Io accuso il generale Mercier di essersi reso complice, non fosse che per debolezza di spirito...”. Quanti, ancora oggi, tacciono per debolezza di spirito? Grazie Barbara. Post scriptum. Se c’è una cosa certa è il senso delle parole conclusive. Significano: la lettera di D’Ambrosio è una denuncia, contro gli “indicibili accordi” (illeciti accordi) che “si sanno”, ma il segreto di Stato – mutismo omertoso – non permette di dire. Interpretare ciò – cfr. Ernesto Lupo, il Fatto Quotidiano, 19 gennaio 2014 – come un attacco a D’Ambrosio (“non merita di essere trascinato nel disonore”), è quanto di più assurdo abbia letto negli ultimi anni. Ernesto Lupo, consigliere presso la Presidenza della Repubblica, dovrebbe leggere qualche pagina su “i limiti dell’interpretazione”: l’ermeneutica “infinita” trova in realtà il limite in una qualche aderenza dell’interpretazione al testo. In questo caso l’aderenza non c’è, e l’interpretazione non ha fondamento. Genera solo confusione. E deturpa –senza volerlo,certo - l’immagine di una giornalista che cerca “soltanto” la verità.

il Fatto 22.1.14
Ecco quanto guadagna Marchionne (davvero)
250 milioni in otto anni
Non solo Fiat: tutta la galassia Agnelli contribuisce allo stipendio del manager, da Chrysler 1 milione per stare in cda
di Camilla Conti


Il 26 giugno 2012 la Juventus degli Agnelli chiude l’accordo con il Manchester City e compra Carlos Alberto Tevez: 9 milioni più altri 6 al raggiungimento di alcuni obiettivi sportivi (qualificazione alla Uefa Champions League, vittoria del Campionato e/o della Uefa Champions League) nelle prossime tre stagioni sportive. Tevez deve fare il suo lavoro. E dunque segnare, se vuole guadagnare di più. Il primo giugno 2004 la Fiat degli Agnelli compra Sergio Marchionne. Che di mestiere deve fare il manager di un grosso produttore di automobili. E quindi vendere più macchine. Passando dal pallone alle quattro ruote, l’equazione “più vinci/vendi, più guadagni” si complica. Sulla carta, nei piani di incentivazione i bonus vengono assegnati in base a risultati di performance determinati annualmente dal cda “su proposta del Comitato per la Remunerazione e strettamente correlati ai target stabiliti dal piano industriale” e sono tesi al perdurare dei rapporti professionali con il gruppo.
Ma quanto guadagna Marchionne? E che ha fatto per meritarsi stipendio e incentivi? Partiamo dalla sua busta paga nel 2012, l’ultima disponibile (i bilanci 2013 della galassia torinese non sono stati ancora approvati). Come amministratore delegato del gruppo Fiat Marchionne ha ricevuto nel 2012 un compenso fisso di 2,5 milioni di euro (uguale a quello del 2011). Il compenso variabile è stato di 2 milioni. Si aggiungono poi le stock grant, cioè l'assegnazione gratuita e programmata di azioni, e le stock option che danno invece il diritto di acquistare azioni di una società a un determinato prezzo d'esercizio. Nel 2010 Marchionne ha ottenuto una modifica al piano di incentivazione in base al quale ha incassato, gratis, 2 milioni di azioni per il solo fatto di non lasciare l’azienda fino alla primavera del 2012. Come stock grant, a inizio 2012 e a seguito del raggiungimento degli obiettivi di performance per gli anni 2009/2010/2011, gli sono stati assegnati 4 milioni di azioni Fiat e 4 milioni di azioni Fiat Industrial. 980.000 azioni di Fiat e 980.000 azioni di Fiat Industrial sono state vendute sul mercato per far fronte alle obbligazioni fiscali derivanti dall’assegnazione, mentre le restanti sono tuttora detenute da Marchionne. Nell’aprile 2012 è stato approvato un nuovo piano di incentivi in base al quale l’ad riceve, a partire dal 2013 e in ciascun anno del triennio 2013-2015, 7 milioni di azioni Fiat (un terzo in ciascun anno), a condizione che rimanga in carica in ognuno dei tre esercizi.
POI C’È FIAT Industrial, oggi Cnh Industrial: come presidente esecutivo Marchionne nel 2012 ha ricevuto un fisso di 1,3 milioni, in linea con il 2011. Il compenso variabile è stato di 1,6 milioni (1,2 milioni nel 2011). Totale: 2,9 milioni. Il presidente potrà inoltre ricevere sino a un massimo di 2.100.000 azioni Fiat Industrial, delle quali un totale di 1.100.000 in tre tranche uguali negli anni 2013, 2014 e 2015 a condizione che rimanga in carica in ognuno dei tre esercizi e 1 milione nel 2015, “solo nel caso in cui siano raggiunti predeterminati obiettivi finanziari di performance dal 1° gennaio 2012 al 31 dicembre 2014”. Nessun compenso, è invece riconosciuto a Marchionne per l’attività di Chief Executive Officer di Chrysler. Nel 2012 gli sono stati attribuiti, in ragione della sua posizione di consigliere di amministrazione, degli “unit appreciation right” e “restricted stock unit” che hanno la funzione di assicurargli un trattamento equivalente a quello spettante agli altri membri del cda di Chrysler. Tali diritti sono esercitabili solo al momento della cessazione dalla carica. Alla data dell’assegnazione, il valore teorico complessivo di questi diritti è di circa 1 milione di dollari e l’eventuale futuro effettivo realizzo dipenderà dalla performance di Chrysler. Infine, come consigliere di Exor, la cassaforte di casa Agnelli, nel 2012 Marchionne ha intascato altri 40 mila euro.
Secondo i calcoli di Gianni Dragoni del Sole24Ore, dal 2004 al 2012 Marchionne avrebbe guadagnato oltre 250 milioni al lordo delle tasse (che il capo della Fiat paga solo in parte in Italia essendo residente in Svizzera). Niente male per un “metalmeccanico”, come ama definirsi. In cambio cosa hanno ottenuto gli Agnelli in termini di risultati? L’azienda si è salvata. E dall'arrivo del manager al Lingotto, nel 2004, i conti finanziari sono migliorati, anche per l'effetto-Chrysler, ma a livello industriale dal 2009 al 2012 la quota di mercato Fiat in Italia è scesa dal 32,8 al 29,6 per cento. Fiat è sempre più americana perché il suo mercato è soprattutto quello oltre Oceano dove oggi è il quarto produttore. Le vendite in Europa sono asfittiche: l’intero gruppo Fiat, che comprende Alfa, Lancia, Chrysler, Maserati, Ferrari e la stessa Fiat, è ormai il settimo produttore del Vecchio Continente, con solo il 5,6% del mercato in novembre. Perfino Skoda, che fa parte del gruppo Volkswagen, ha venduto più auto.
A CAPODANNO Marchionne ha brindato per la conquista della Chrysler. Un colpo da maestro: il 41,6% della casa americana rimasto in mano al fondo Veba è stato comprato usando, per oltre la metà dell’importo, la liquidità della stessa Chrysler attraverso un dividendo straordinario. La famiglia ringrazia. E nel frattempo continua a incassare dividendi, soprattutto quelli pagati dalla ex Fiat Industrial (dove sono custoditi gli utili di trattori, camion e macchine movimento terra) di cui Exor possiede la maggioranza.
Tevez segna, Marchionne fa l’americano. E gli Agnelli pagano, felici. Perché di auto se ne venderanno pure poche, ma i forzieri restano pieni.

Corriere 22.1.14
Sull’aborto scontro Parigi-Madrid
I francesi: ritorno all’età della pietra La Spagna pensa a restrizioni, Oltralpe si liberalizza ancora
di Stefano Montefiori


PARIGI — Conquiste sociali contro «età della pietra». Non ha fatto ricorso a troppa diplomazia Marisol Touraine, ministro francese degli Affari sociali e della Sanità, quando ieri ha duramente criticato il progetto di legge spagnolo che punta a limitare il ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza.
Touraine se l’è presa con la Spagna, ma parlava soprattutto all’opposizione francese, che in questi giorni si batte in Parlamento contro la legge sulla parità uomo-donna e la nuova, più liberale, disciplina dell’aborto.
«Se il testo spagnolo dovesse essere adottato riporterebbe le donne all’età della pietra»; «Sarebbe una regressione senza precedenti»; «Occorre mobilitarsi per fare in modo che quella legge non passi», sono alcune delle frasi pronunciate dal ministro, che ha tralasciato la circospezione di solito osservata dagli uomini di governo a proposito della vita politica e sociale degli altri Paesi.
Il testo spagnolo è stato proposto dal ministro della Giustizia Alberto Ruiz-Gallardón e approvato a fine dicembre dal Consiglio dei ministri. Più restrittivo rispetto alla legge precedente del 1985, riconosce la possibilità di interrompere la gravidanza solo in presenza di una di queste due condizioni: pericolo per la vita e la salute fisica o psicologica della donna, violenza sessuale seguita da una denuncia.
In Spagna il progetto di legge arriverà in Parlamento entro due mesi per l’approvazione definitiva, ma viene già salutato come la strada da seguire nelle manifestazioni dei militanti francesi contro l’aborto: domenica migliaia di persone sono scese in piazza a Parigi per sostenere la politica spagnola ed esporre manifesti provocatori che raffiguravano un feto e la scritta «dovremo andare in Spagna per tenerlo?».
Quanti in Francia si erano opposti al mariage pour tous , il matrimonio aperto agli omosessuali voluto da Hollande, hanno trovato un nuovo fronte di contrapposizione con la maggioranza socialista: lunedì è cominciato all’Assemblea nazionale il dibattito sul progetto di legge per la parità uomo-donna, fortemente voluto dal ministro Najat Vallaud-Belkacem.
Oltre alle misure per incoraggiare gli uomini a prendere il congedo di paternità, due articoli puntano a facilitare il ricorso all’aborto, sopprimendo il requisito di «donna in situazione di difficoltà» previsto dalla legge Veil del 1975, e sanzionando chi intralcia l’interruzione di gravidanza (per esempio negando alla donna le informazioni necessarie).
Nel centrodestra francese c’è chi cavalca la marcia indietro spagnola per ipotizzare un mutato clima sociale in tutta Europa e opporsi alla nuova disciplina dell’aborto proposta in patria. Il ministro Touraine (54 anni, figlia del sociologo Alain) ha chiesto a Jean-François Copé, segretario del partito di opposizione Ump, se l’emendamento per il «no al rimborso dell’aborto» presentato da una ventina di deputati rappresenti la posizione ufficiale del partito: «È importante, i francesi hanno il diritto di sapere».
A quattro mesi dalle elezioni europee di maggio, Touraine sostiene che «il diritto delle donne dovrà essere un tema della campagna elettorale», e invoca una mobilitazione transnazionale.

l’Unità 22.1.14
Kiev, dopo gli scontri varata legge anti-proteste
La diplomazia russa accusa l’Ue
Yulia Tymoshenko ai dimostranti dal carcere: «Siete eroi, se fossi libera sarei con voi»
Duecento i feriti di cui 120 poliziotti e almeno 35 giornalisti
di Sonia Renzini


Dopo due giorni di scontri ininterrotti tra polizia ucraina e 10mila manifestanti pro Ue ieri è stato il giorno della tregua a Kiev. Ma non c’è da farsi illusioni, la tensione rimane altissima. E non solo perché piazza Maidan è ridotta a un vero e proprio campo di battaglia che ha prodotto il triste bilancio di 32 arresti e 200 feriti, di cui 120 poliziotti e almeno 35 giornalisti.
Ma anche perché ciò che avviene a Kiev rischia di trasformarsi in una miccia in grado di infiammare e non poco la diplomazie delle cancellerie estere. A cominciare da quella russa. «La situazione sta sfuggendo ad ogni controllo», dice senza mezzi termini il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov che assicura l’impegno della Russia per evitare la destabilizzazione del Paese, mette in guardia dalle «interferenze esterne» e accusa senza girarci troppo intorno l’Occidente di fomentare le proteste da
quando il presidente Viktor Yanukovych ha respinto l’accordo di coooperazione con l’Unione europea a favore di uno con la Russia.
«Preferiremmo che alcuni dei nostri colleghi europei evitassero di agire in modo indelicato, rispetto alla crisi ucraina» ha ribadito con riferimento esplicito alla partecipazione «dei membri di alcuni governi a manifestazioni anti-governative in un Paese, col quale hanno relazioni diplomatiche» che ha prontamente definito «indecente». Non ha fatto nomi, ma non è un mistero per nessuno che il capo della politica estera dell’Unione Europea Catherine Ashton e l’allora ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle abbiano fatto visita ai dimostranti a dicembre, così come ha fatto il segretario di Stato Victoria Nuland.
Di segno opposto il giudizio della Casa Bianca che si dice preoccupata per le violenze, ma punta il dito sulle responsabilità esercitate dal governo ucraino in relazione all’intensificarsi delle tensioni, ritenute «una conseguenza diretta del fallimento del governo di riconoscere le legittime richieste del suo popolo». E aggiunge: «Al contrario ha agito per indebolire le fondamenta della democrazia ucraina inasprendo le pene per le proteste pacifiche e togliendo alla società civile e all’opposizione politica le protezioni giuridiche di base della democrazia».
NUOVE NORME
Ora, nel mirino degli Stati Uniti, così come dell’Ue, ci sono proprio quelle leggi anti-manifestazioni firmate venerdì scorso da Yanukovich e pubblicate ieri sulla Gazzetta ufficiale che prevedono pene fino a 5 anni di carcere per chi occupa un edificio pubblico e l’arresto per i dimostranti che utilizzano maschere ed elmetti. Norme che hanno già sollevato le proteste dell’opposizione interna così come di alcuni paesi, come Usa e Ue che ne hanno chiesto il ritiro (ma Ashton esclude che Bruxelles stia pensando a sanzioni nei confronti di Kiev), nonché una manifestazione di 200 mila persone che non a caso ha segnato l’inizio degli scontri delle ultime 48 ore: fuochi d’artificio e bombe molotov sono state lanciate dai manifestanti contro la polizia che ha risposto con granate stordenti, gas lacrimogeni e proiettili di gomma, smantellando perfino una catapulta e una barricata, ma non riuscendo neppure per una manciata di minuti a svelenire il clima politico.
Il leader dell’opposizione ed ex pugile Vitali Klitschko ha accusato il governo di aver pagato persone perché si mischiassero alle proteste e le delegittimassero con azioni violente, tanto che alcuni dimostranti pare siano stati costretti a cacciarli dopo che questi avrebbero iniziato a «frantumare finestre e dare fuoco a veicoli». E certo non usa toni concilianti nemmeno la sua alleata, la ex premier Yulia Tymoshenko, che dal carcere continua a invitare i cittadini a scendere in piazza: «Proteggete l’Ucraina e non abbiate paura di nulla. Voi siete gli eroi e se fossi libera sarei con voi». Dunque se di tregua si tratta è di sicuro armata, non a caso nonostante il freddo siderale migliaia di persone continuano a restare attorno alla zona di via Grushevsky, che conduce al parlamento ucraino. Il leader di opposizione Vitali Klitschko ha informato i manifestanti di aver cercato di vedere senza successo il presidente perché occupato e ha annunciato di essere in attesa in attesa di una telefonata del capo dello Stato. In compenso Yanukovich ha discusso della situazione del Paese con il premier Mykola Azarov e il vice premier Serhiy Arbuzov e pare anche che ci sia stato un primo contatto tra opposizione e governo. Per sapere con quali esiti non resta che aspettare.

La Stampa 22.1.14
Putin riabilita la Prima guerra mondiale
E gli zaristi tornano nel Pantheon
Con l’installazione della lapide in ricordo del generale Mikhail Drozdovsky si apre una nuova epoca: con 100 anni di ritardo viene recuperata la memoria di quanto avvenne nel 1914-18, oggi funzionale alla tenuta politica del Cremlino
di Anna Zafesova

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Repubblica 22.1.14
Intervista
“Assad sta vincendo e non cederà il potere l’unica speranza è la tregua”
Vali Nasr: “Ma l’Iran non può essere escluso”


«È inevitabile che l’Iran abbia una parte a Ginevra. Magari all’inizio sarà poco visibile ma, più prima che poi, il ruolo diverrà ufficiale. È solo questione di tempo. Se si vuole risolvere la crisi siriana, bisogna accettare che il peso di Teheran è determinante; è superiore persino a quello di Mosca ». Vali Nasr, consulente del Dipartimento di Stato, esperto di mondo islamico alla Brookings, autore de La rivincita sciita, non a caso è tutto preso a fare la spola fra Davos e Ginevra dove s’alternano ricchi e potenti assieme a sciami di delegati iraniani. Nel viavai di elicotteri dal Forum economico a quello diplomatico, gli emissari di Teheran da un lato combinano affari, incassando il premio dell’accordo nucleare con gli Usa sotto forma di investimenti; dall’altro osservano dietro le quinte la partenza a singhiozzo della Conferenza di pace per la Siria.
Professore Nasr, l’Iran è tanto centrale da oscurare, nientemeno, la Russia?
«Il motivo è semplice: senza l’Iran, il presidente siriano Bashar al Assad non sarebbe più al potere. La Repubblica islamica è il suo più importante e potente sostenitore. Se non fosse per i finanziamenti in arrivo da Teheran, per il contributo alle forze di combattimento sul campo, per il supporto logistico, il regime di Damasco non avrebbe retto. Il punto è questo: Teheran è il motivo per il quale Assad è sopravvissuto».
Il peso diplomatico di Mosca al Consiglio di sicurezza non vale altrettanto?
«Certo, che vale: il Cremlino non abbandonerà il rais, e continuerà ad appoggiarlo finché lui è al potere. Però, questo non basta a garantirgli la tenuta. Serve il pilastro essenziale dell’Iran. Per questo a Ginevra non può esserci accordo in sua assenza. Del resto, la pace dev’essere trattata fra rivali: al tavolo devono sedere il governo siriano coi suoi sosteni-tori, e l’opposizione con i propri ».
Lei cosa s’aspetta dalla Conferenza?
«Un risultato modesto. Il meglio che ci si possa aspettare è che si arrivi a un consenso internazionale riguardo a un cessate-ilfuoco. Ma s’illude chi spera in un governo di transizione in Siria».
Perché tanto pessimismo?
«Le rigiro la domanda: perché Assad dovrebbe cedere il potere? Sta vincendo sul terreno, è saldo in sella al potere, che interesse avrebbe nel farsi da parte? E poi, c’è un secondo quesito fondamentale: a chi passerebbe il governo del Paese? Manca platealmente un interlocutore: l’opposizione che si presenta al tavolo è un’armata Brancaleone; non rappresenta nemmeno le formazioni armate sul campo, e tantomeno il popolo siriano. Questo è chiaro a chiunque: la transizione non si farà».
È chiaro anche a Washington?
«Sì, infatti il linguaggio della Casa Bianca è cambiato. C’è una sorta di epifania politica a Washington ad Ankara a Londra: è la graduale consapevolezza della comunità internazionale d’avere costruito la politica estera su un calcolo sbagliato, l’assunto che Assad cadesse entro pochi mesi. Ora ciascuno riformula le proprie posizioni: la Turchia s’è messa da sola all’angolo, si ritrova con schiere di jihadisti e di profughi, e la prospettiva di un governo ba’athista a Damasco per chissà quanto. Infatti, anche lei ricorre a Teheran in cerca d’aiuto.
«Mi segua ancora: c’è poi la questione delle armi chimiche: l’America è soddisfatta dell’accordo con la Siria per la distruzione dell’arsenale. Questo fa di Assad, nei fatti, un partner: senza la sua collaborazione, salterebbe il progetto. Ora la Casa Bianca vuole un accordo nucleare con l’Iran. Ecco il vero proposito di Washington».
Lei sta dicendo che la pace è marginale?
«Dico che al di là della retorica del vertice, le aspettative sono molto limitate. Un buon risultato sarebbe quello di arginare la guerra, impedire che sfugga al controllo. La verità è che l’America non è impegnata a raggiungere un successo diplomatico a Ginevra: per convincere Assad a mollare, dovrebbe schierare truppe in Siria, e questo non lo farà».
Se a suo avviso Assad non cederà, né esiste una controparte, chi imporrà una tregua?
«Già, così si torna al punto di partenza. Bisognerebbe negoziare direttamente con Assad, e questo è escluso. In più, Russia e America, Iran e Arabia Saudita sono su posizioni troppo distanti. Oggi s’inaugura Ginevra II, ma se prevalgono queste condizioni non si arriverà da nessuna parte».

Repubblica 22.1.14
Le multinazionali straniere sono responsabili di un quarto dell’inquinamento che sta distruggendo il paese
Ma l’Onu avverte: la delocalizzazione selvaggia è un boomerang. Perché i venti portano i veleni pure nello Spazio
La nube ora contagia Europa e Usa così la Cina esporta anche lo smog


PECHINO La Cina non esporta solo gli oggetti del desiderio del consumismo mondiale. Esporta ormai anche l’inquinamento della grande delocalizzazione industriale, globalizzando per la prima volta gli effetti drammatici delle emissioni tossiche nazionali. L’Occidente, oltre alle merci, importa anche lo smog che sperava di aver esternalizzato in Oriente e i veleni lanciati nell’atmosfera tornano come un boomerang assieme ai beni prodotti nei Paesi costretti ad accettare la violazione sistematica delle norme di tutela della salute. A rivelare la proporzione diretta tra la fuga del lavoro e il ritorno dell’inquinamento in Europa e Usa, due rapporti di Nazione Unite e “World Resources Institute”, che analizzano le illusorie distorsioni dell’«outsourcing delle emissioni».
Tre le conclusioni più importanti. Sostanze tossiche emesse dalle industrie in Cina sono state rilevate nelle regioni occidentali degli Stati Uniti, ma anche in Giappone, Corea del Sud, Russia ed Europa. Le multinazionali straniere sono responsabili di quasi unquarto dell’inquinamento che sta distruggendo la Cina. Elementi velenosi come polveri sottili e ossido di carbonio, fino ad oggi misurati in Cina solo al livello del suolo, per la prima volta sono stati infine trovati anche nello spazio. La concentrazione dei residui produttivi nell’atmosfera cinese è tale che l’inquinamento, spinto da venti occidentali sempre più forti, segue ormai le stesse rotte delle merci, trasformando l’antica «Via della seta» nella contemporanea «Via dello smog». «Se consideriamo solo i dati nazionali per misurare la tendenza delle emissioni – ha detto la climatologa Cyntia Cummis – non possiamo più vedere il quadro completo dell’impatto di uno Stato. Oggi è necessario valutare l’intero ciclo di vita di beni e servizi acquistati e venduti».
Il dato essenziale è che la delocalizzazione delle multinazionali, che nelle regioni mondiali a basso costo del lavoro non si limitano più ad assemblare prodotti, ma trasferiscono tutto il processo industriale, è responsabile dell’esternalizzazione senza precedenti sia delle emissioni tossiche che del consumo delle risorse naturali. La Cina è il primo inquinatore mondiale, il primo consumatore di energia e il primo esportatore di merci: dietro a tali primati si nascondono però altre potenze industriali, come Usa, Europa, Giappone e Corea del Sud. Fino a ieri il ricco Occidente, pagando il prezzo della crisi occupazionale, si era illuso di essersi disfatto anche delle sostanze tossiche, confinandole in Asia, Africa e America Latina. La scienza certifica oggi che non è più così. Nove studiosi di tre nazioni, lanciando l’allarme del calo dell’attesa di vita in Cina a causa dell’inquinamento, aprono l’era degli studi sulle «conseguenze ambientali delle economie interconnesse », invitando i governi ad analizzare «gli effetti transfrontalieri delle emissioni industriali». «Il commercio – sostiene il professor Jintai Lin, autore principale di uno dei rapporti – cambia la localizzazione della produzione, ma i danni ambientali sono tali da ripercuotersi comunque su tutti». Gli studi hanno scoperto che l’inquinamento cinese,in pochi giorni, grazie alle correnti raggiunge il Pacifico e la costa Ovest degli Usa. Polveri sottili, ozono e carbonio si accumulano ad esempio in California e sono causa almeno di un giorno in più all’anno del superamento dei limiti dello smog a Los Angeles. Sostanze tossiche emesse dalle multinazionali in Cina, a partire da acciaierie, cementifici, industrie chimiche e meccaniche, ma soprattutto aziende alimentate dal carbone, a distanza di poche ore sono state rilevate attorno al monte Fuji in Giappone, sopra gli arcipelaghi oceanici, o sulla Siberia, in viaggio verso l’Eurozona. La Cina nel 2013 ha causato circa il 16% dell’inquinamento globale, ma il 22% di questo è stato prodotto da multinazionali straniere e almeno il 5% dello smog cinese ha colpito i Paesi esteri. Sotto accusa, oltre a Pechino, finiscono le multinazionali delocalizzate, che oltre ai costi per manodopera e fisco, tagliano anche quelli per depuratori ed energia pulita, complici gli Stati nazionali d’origine. «Dobbiamo capire – scrive Alex Wang, docente di diritto all’università della California – che l’inquinamento cinese è collegato ai prodotti acquistati ogni giorno in Usa e Ue e che lo stesso inquinamento, che oggi uccide i cinesi, si appresta a mietere vittime anche nel resto del mondo». L’impatto delle emissioni globali, raccomanda l’Onu, non va dunque più misurato solo nei luoghi della produzione, ma anche in quelli del consumo, seguendo le rotte dei venti e delle merci. Un’équipe franco-belga, grazie all’avveniristico «interferometro atmosferico di sondaggio infrarosso», nei giorni scorsi ha rilevato ossido di carbonio, anidride solforosa, ammoniaca e solfati di ammonio, fino ad oggi misurati in Cina solo a pochi metri da terra, anche nello spazio. E’ il prezzo che il mondo paga all’esplosione di apparecchi elettronici, automobili, videogiochi, elettrodomestici, beni di lusso e abbigliamento low-cost: il 60% delle industrie cinesi, in gran parte sotto controllo straniero, viola le norme anti-inquinamento, sforando di 10 volte il limiti di sicurezza. Smog e veleni industriali in Cina uccidono circa 1,5 milioni di persone all’anno, riducono di 8 anni l’attesa di vita, surriscaldano il Pacifico e causano cicloni sempre più distruttivi per l’Asia, costringono milioni di persone a vivere tappate in casa, superando fino a 40 volte i limiti raccomandati dall’Oms. Questa Cina tossica, bomba ecologica ad orologeria e prima potenza produttiva del pianeta, è però a sua volta un prodotto dell’Occidente e assieme all’usa e getta sparge ora sul mondo i veleni globalizzati che non riesce più a contenere. Gli scienziati la definiscono «airpocalypse»: quella che in queste ore costringe Pechino, inghiottita nello smog, a proiettare alba e tramonto su un maxi-schermo in piazza Tienanmen, a pochi metri da un inivisibile mausoleo di Mao Zedong.

l’Unità 22.1.14
Sos Fondo Sanguineti
Il lascito del poeta senza pace: i libri ancora a rischio
Ben quarantamila volumi abbandonati, senza scaffali, mentre l’umidità avanza e attacca le pagine
La famiglia chiede nuovamente aiuto per salvare un patrimonio prezioso
E intanto è stata annunciata l’inaugurazione della nuova Biblioteca universitaria di Genova, che aprirà a giugno
di Francesca De Sanctis


LETTERE APERTE, APPELLI E ARTICOLI A QUANTO PARE NON SONO SERVITI A MOLTO. Ricordate il fondo libraio di Edoardo Sanguineti? In una lettera all’Unità, più di un mese fa, il figlio del poeta, Federico, aveva denunciato lo stato di abbandono dei 40mila volumi che un tempo appartenevano al padre, libri preziosi che purtroppo sono rimasti chiusi in scatola nella nuova sede della Biblioteca Universitaria di Genova in via Balbi 40. E ora? Cosa succede? Proprio un bel nulla. L’edificio, l’ex lussuosissimo Hotel Colombia, è ancora non del tutto inagibile, come aveva già denunciato la direttrice della Biblioteca Cetta Petrollo. Le infiltrazioni d’acqua costituiscono un danno enorme per il patrimonio librario, la segatura ricopre ormai da troppo il pavimento e degli scaffali neppure l’ombra.
Due cose però sono accadute nel frattempo: il presidente della Regione Liguria Claudio Burlando ha convocato una conferenza stampa; e si è tenuta la prima riunione del Comitato scientifico, che ha deciso come disporre le opere di Sanguineti.
Cosa è successo durante la conferenza stampa? È stata annunciata l’apertura al pubblico della Biblioteca universitaria per il prossimo ottobre. Bene. Questo significa che l’edificio (acquistato dal Mibac negli anni Novanta per una spesa complessiva di 22 milioni di euro) potrà finalmente ospitare i 650mila volumi complessivi. L’inaugurazione della «Biblioteca nazionale statale Edoardo Sanguineti» (così si chiamerà, e la scritta sarà realizzata con caratteri luminosi...) avverrà in due tappe: a maggio-giugno il piano terra che accoglierà la collezione Sanguineti (40mila volumi) e ad ottobre il trasferimento di tutti i 650mila volumi dalla vecchia sede di via Balbi 3. Secondo quanto risulta dalla seduta del 10 gennaio della Giunta regionale ligure l’ex albergo Colombia sarà un struttura polivalente con i suoi 27mila metri quadrati di scaffalatura (tuttora però inesistenti...) e spazi destinati ad attività complementari (book-store, caffetteria, sala per conferenze e all’ultimo piano perfino una terrazza con vista su Genova). Per completare il progetto è prevista anche una struttura emisferica in acciaio e vetro di copertura da realizzare successivamente. Secondo la tabella fornita ai giornalisti i fondi destinati ai lavori ammontano a 24milioni di euro, ai quali si aggiungono 2milioni di euro per gli arredi egli allestimenti. Dunque ammesso che i conti siano giusti se le risorse sono state assegnate perché i libri del Fondo Sanguineti sono ancora chiusi in scatola, rischiando di deteriorarsi? Perché gli scaffali non sono stati ancora acquistati? E soprattutto come si può pensare che tutto sia pronto entro giugno?
«Questo progetto di valorizzazione secondo Rossana Rummo, direttore generale delle biblioteche e degli archivi del ministero dei Beni culturali fu pensato con un’ipotesi di gestione. Credo che fu subito chiaro a chi in quel momento stava investendo che la gestione di una struttura di queste dimensioni aveva bisogno di un conto economico sostenibile. Si sa che il pubblico delle biblioteche diminuisce perché sta cambiando il modo di fruire la cultura e la conoscenza, internet da qua a dieci anni probabilmente farà diminuire -.
Per questo è fondamentale valorizzare il nostro patrimonio, quello che abbiamo dentro le biblioteche. Valorizzare un museo è più semplice: fai un mostra, appendi un quadro, fai vedere Antonello da Messina... tre su dieci vanno in un museo in Italia, e tre su dieci leggono almeno un libro all’anno. Noi stiamo parlando di una realtà imbarbarita rispetto a 10 anni fa. Quando si pensa a un progetto di valorizzazione si deve tenere presente questo contesto in cui si opera». L’importante è non dimenticare i libri. Già, i libri.
Nel corso della prima riunione del Comitato scientifico (formato da due ex direttori della Biblioteca e l’attuale Cetta Petrollo, Niva Lorenzini, Franco Contorbia, Erminio Risso, Margherita Rubino, l’ex sindaco di Genova Marta Vincenzi, Maurizio Galletti, Giuliana e Luciana Sanguineti, ma non Federico né la bibliotecaria Graziella Grigoletti che si sta occupando del fondo) è stato deciso di conservare la disposizione che i volumi avevano nello studio dell’autore e nel corridoio dell’abitazione, lasciando una disposizione generica per materia tutti gli altri volumi collocati negli altri ambienti. È stata quindi abbandonata, almeno in parte, l’idea di creare una “casa d’autore”, cioè una suddivisione che riproponga esattamente la disposizione dei libri così com’era nell’appartamento di Sanguineti. Resta un grosso dubbio su tutto: riusciranno a rendere agibile l’ex Hotel Colombia e a sistemare scaffali e libri entro giugno? Per ora, quel che è certo è che la lettera di Federico Sanguineti non ha avuto risposta e che i volumi continuano a stare all’umido.

l’Unità 22.1.14
Democrazia. Bobbio dixit
L’eredità del grande filosofo nella sua opera cardine
Si sono appena concluse le celebrazioni in sua memoria
Qui una riflessione sui suoi insegnamenti scritta da un suo allievo
di Luigi Bonante


BOBBIO È (O È AVVIATO A DIVENTARE) UN CLASSICO? E SE SÌ, QUALE ASPETTO DELLA SUA OPERA LO RENDERÀ TALE? CI AIUTERANNO ALCUNI STATI STATISTICI.Ricorda Marco Revelli, nella sua introduzione al «monumento» che ha eretto a Bobbio con il «Meridiano» che
raccoglie parte degli scritti di Bobbio, come si possano mettere in scala le dieci voci più ricche dell’immensa bibliografia bobbiana. Graduatoria che già ci consente di incrociare le tematiche maggiormente affrontate con gli approcci più frequentemente adottati.
Questi ultimi sono la filosofia del diritto e la storia della filosofia, la scienza politica e la storia del pensiero politico, tra i quali risulta la prevalenza di una tematica: la democrazia che nel soggettario della bibliografia compare 462 volte e nei titoli degli scritti 208 volte (vedere Etica e politica, pagina 1665). Alla democrazia Bobbio ha dedicato non soltanto una parte importante dei suoi scritti, dunque, ma direi che si sia trattato della parte prevalente dei suoi interventi di impegno politico-culturale (un’altra delle chiavi di lettura possibili).
Tra gli scritti dell’ultima parte della sua vita (quelli che Revelli chiama «gli anni della riflessione», 1980-2004), due raccolte dominano il campo: Il futuro della democrazia (1984) e L’età dei diritti (1990). Non intendo ridurre gli scritti sulla democrazia a questi due soli (tant’è vero che tra un attimo farò riferimento anche a un altro che non ne fa parte); ma il loro semplice intreccio basterebbe, da solo, a illustrare la portata della riflessione di Bobbio.
È proprio intorno a questo programma essenziale ma minimo che Bobbio osserva che la democrazia, che pure è il massimo successo dello sviluppo politico del XX secolo, non ha saputo mantenere le sue promesse (che dovevano riguardare una società integrata e non dominata da piccole e potenti oligarchie, e non fondata sulla difesa di interessi corporativi, libera dalle pastoie dei poteri segreti e invisibili, da cittadini indifferenti e apatici, dominati da tecnocrazie specialistiche e ottuse) ed è crollata di fronte a tre tipi di ostacoli: la complessità (di cui tanto favoleggiano i sociologi), la burocratizzazione del mondo, l’ingovernabilità universale. Che cosa sarà della democrazia reale in queste circostanze? La fuga (da Bobbio contrastata fino agli ultimi anni, come dimostra destra e sinistra) dalle ideologie, il conseguente populismo che si fonda sulla personalizzazione della politica e la videocrazia: tutte ragioni che allontanano i cittadini dalla politica (dall’interesse per la «cosa pubblica») e dalle urne, quando ne è il momento.
Fenomeni e pericoli per la democrazia che conosciamo ormai, purtroppo, sin troppo bene, e di cui Bobbio aveva intuito l’avanzare e la pericolosità. Si potrebbe anche concludere che si tratta di tendenze che si vanno imponendo in tutto il mondo occidentale ma questa non è una consolazione. Bobbio ci ha lasciato un’indicazione strategica di straordinaria suggestione, che riguarda, ancora una volta, la democrazia e che ci fa dire che forse la fiducia in una «certa» concezione della democrazia è il lascito più importante che egli ci abbia lasciato. Si tratta di quella famosa definizione della democrazia, che egli trasse dai suoi dibattiti sulla nonviolenza, e che riprese ne Il futuro della democrazia: «Che cosa è la democrazia se non un insieme di regole (le cosiddette regole del gioco) per la soluzione dei conflitti senza spargimento di sangue? e in che cosa consiste il buon governo democratico, se non innanzi tutto, nel rigoroso rispetto di queste regole?»
Chi volesse far finta di non capire pensi al trionfo degli interessi personali su quelli collettivi, al modo in cui le leggi (non tutte ugualmente ben fatte, ma quelle che ci sono) vengono calpestate o aggirate, alla violenza (seppure disarmata) con cui il mondo della finanza ci innalza a privilegi insensati e può precipitarci nella precarietà, nell’indigenza, nella povertà.
Bobbio lanciava allora un avvertimento, che evidentemente non soltanto non è stato ascoltato,ma ha sviluppato fenomeni inquietanti: si tratta della tensione che nei regimi politici contemporanei si è aperta tra il «governo delle leggi» e il «governo degli uomini». Non è forse vero che abbiamo assistito tra la fine della Prima repubblica e l’inizio della Seconda (che della prima tuttavia sembra essere una coda ben più che un rinnovamento) al trionfo degli uomini sulle leggi?
Certo non è questo il «futuro della democrazia» che Bobbio sognava, ma è per dargliene uno all’altezza delle sue aspettative che la sua lezione è lì a nostra disposizione: basta che la impariamo e la applichiamo.

La Stampa 22.1.14
“Come si arrabbierebbe Bobbio per la politica dell’Italia d’oggi”
di Beppe Minello

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l’Unità 22.1.14
Vattimo: sionismo e frottole forti
di Bruno Gravagnuolo


L’ANTISEMITISMO È VIVO E VEGETO. E occorre cautela in materia di ebraismo e questione ebraica. Perciò registriamo due episodi avvilenti (nella settimana antecedente al giorno della memoria) che possono rinfocolare la sindrome. Il primo: la rissa tra ebraismo di destra e di sinistra a Roma. Giovani ostili a Sharon che staccano manifesti in suo onore. E giovani con mazze da baseball che li aggrediscono. Poi tafferugli ad un dibattito, con ventilate scissioni da sinistra. Ora Sharon fu figura negativa e controversa. E, benché alla fine abbia moderato il suo oltranzismo, inneggiarvi è sbagliato. Poi la diaspora ebraica non va identificata con Israele, e ci vuole sempre una certa distinzione. Altrimenti si salda un doppio cerchio integralista. Quello di chi rinuncia ad ogni critica politica ad Israele, o di chi aggredisce l’ebraismo, con la scusa della politica di Israele. E l’antisemitismo ritorna, magari con la scusa dell’«antisionismo». Come accade con Gianni Vattimo, e veniamo al secondo episodio. Anche lui ripete il ritornello: «sono antisionista e non antisemita» (ma si dice anche maoista, catto-comunista, castrista, chavista, dipietrista, grillino!). Lasciamo da parte tutte queste giravolte, indici di confusioni forti e non «deboli». Vattimo ignora che il sionismo ebbe una forte anima socialista e solidarista, prevalente all’inizio. Certo ragioni di sicurezza militare hanno generato anche un’anima integralista in una Israele, contestata nel suo diritto ad esistere. Ma il sionismo, coi suoi kibbutz originari, non è una parolaccia, anzi! Può esserlo solo per gli antisemiti, che ci vedono un complotto mondialista e plutocratico. Come nei Protocolli dei Savi di Sion, storia di un complotto ebraico inventato dalla polizia zarista e feticcio di tutto l’antisemitismo. Vattimo sa che i Protocolli erano falsi, però dice al Corsera del 17 «sono stati ben inventati». Falsi ma logicamente veri? Lo dicono tutti gli antisemiti più «furbi»! Avvilente.

l’Unità 22.1.14
Per non dimenticare
I giorni dell’orrore
«Non sapevo che sopravvivere ad Auschwitz sarebbe stato peggio che morirci»
di Patrick Fogli


Anticipiamo un capitolo del libro di Patrick Fogli «Dovrei essere fumo»
La storia di Emile, giovane ebreo nato a Parigi, e quella di Alberto ex agente dei servizi segreti, si incrociano del tutto casualmente
Un romanzo sulla vendetta e sul perdono

SONO NATO IL 25 LUGLIO DEL 1921, MI CHIAMO EMILE RIEMANN E SONO EBREO. EBREI ERANO MIO PADRE E MIA MADRE, ebrei i loro genitori e così indietro per chissà quante generazioni. Sono nato a Parigi e sono francese, mia madre era italiana e i genitori dei miei nonni erano emigrati molti anni prima dalla Galizia, una regione a metà fra Polonia e Russia, finita nell’impero austroungarico e poi di nuovo alla Polonia. Oggi, per quanto ne so, una metà dovrebbe essere Ucraina.
Tutto questo per dire che la mia nazionalità è un accidente della storia, come in fondo, anche la mia vita. Italiano e francese sono le mie lingue madre, non le uniche che conosco, e tutto il mescolarsi di vocaboli diversi che ha attraversato la mia giovinezza mi ha consentito, in qualche modo, di poter sopravvivere. Nulla si crea, tutto si trasforma, ne sono la prova vivente.
Abitavo con i miei genitori, avevamo una bella casa e abbastanza soldi per garantirci una vita tranquilla. Mio padre gestiva l’impresa di famiglia, una fabbrica di scarpe ereditata da suo nonno e piuttosto conosciuta a quei tempi, mia madre si occupava di me e di mio fratello François, più piccolo di dieci anni. Non ricordo con esattezza quando cominciammo ad avere paura e, se ci ripenso, mi viene ancora più difficile ricordarlo. Sotto forme diverse, la paura è stata una compagna fedele di tutta la mia vita, ma se devo mettere un punto di inizio alla storia che ti sto raccontando, allora è la fine del 1939.
Avevo diciassette anni e studiavo in un collegio di Parigi, lo stesso che aveva ospitato mio padre e suo padre prima di lui. Tre pomeriggi alla settimana il signor Rivière veniva a casa nostra per darmi lezione di tedesco e inglese. Due lingue che odiavo, con la feroce costanza con cui a quell’età si può odiare tutto ciò che ti distrae dalle cose che vuoi fare davvero.
Un pomeriggio il mio precettore mancò all’appuntamento.
Mia madre spiegò che non sarebbe più venuto, aveva dei problemi di famiglia e avrebbero cercato un sostituto. Capii che mi aveva mentito quando se ne andò anche Claudette, la governante che lavorava da noi da prima che nascessi. Mancavano pochi giorni alla fine dell’anno e festeggiare era solo un modo semplice per immaginare che il mondo camminasse ancora sulla stessa strada.
La guerra era cominciata a settembre, ancora non era chiaro che piega avrebbe preso. O almeno non era chiaro per me. Hitler aveva conquistato la Polonia in poco tempo, l’Austria era già stata annessa da un anno e così la Cecoslovacchia. Noi eravamo rimasti a guardare, la Francia, il più grande esercito del mondo, e non riuscivo a spiegarmi il motivo. Pensavo comunque che la nostra forza militare ci tenesse al sicuro, lontani dai nazisti e da tutto quello che si raccontava stesse accadendo agli ebrei nei territori annessi. Sapevamo pochissimo con certezza e potrà sembrare strano oggi, ma allora non c’erano che giornali e radio.
Proprio ora che scrivo, dalla televisione che ho lasciato accesa, sento qualcuno blaterare di censura, un termine che mi fa sorridere, se penso allo stato d’animo di allora. In Germania l’unica voce ammessa era il Partito Nazionalsocialista, le informazioni che arrivavano erano di terza o quarta mano e assumevano spesso, per molti di noi, il tono della leggenda.
Pochi giorni dopo la partenza di Claudette, mio padre mi disse che stava cercando di vendere l’azienda. Con il ricavato saremmo andati in America, al di là dell’oceano, dove la guerra non avrebbe mai potuto raggiungerci. Siamo una famiglia abituata a cambiare nazione, lingue, luogo in cui vivere, mi disse, sapremo ricominciare in un posto nuovo. Dovevamo risparmiare più denaro possibile, il viaggio era lungo e costoso e il ricavato della vendita avrebbe dovuto garantire la nostra esistenza futura. Mi chiese di parlare del progetto con Sara, se lo volevo e lo voleva lei, avrebbe potuto venire con noi insieme a sua madre.
«Dille che non si preoccupi per i soldi» aggiunse e non fece che aumentare la mia confusione. Sara era la mia ragazza. Un fidanzamento annunciato in casa da almeno un anno. La amavo, non c’è altro da dire e forse ti sembrerà strano o crudele, con quello che è accaduto, ma non ho mai smesso.
Viveva con sua madre, suo padre era morto un anno prima, di una brutta polmonite. Non se la passavano male, ma non avrebbero mai potuto affrontare le spese del trasferimento e mio padre lo sapeva.
Prima di parlare con lei, però, chiesi a mia madre le spiegazioni che non potevo chiedere al babbo, anche fornite. Immagino che il mio sguardo rivelasse alla perfezione lo stato d’animo, mia madre mi venne incontro chiedendomi se mi sentivo male.
«Ho parlato con papà» dissi soltanto e lei mi invitò a sedermi sul divano.
«Tuo padre pensa che arriveranno tempi molto tristi» disse. «La guerra potrebbe arrivare fino a noi. E sarebbe una disgrazia insuperabile.»
Non capivo, cercai di spiegarle che i tedeschi non sarebbero mai riusciti a battere il nostro esercito, ma lei mi interruppe.
«Sai quello che si dice in giro su quello che accade in Germania, non è vero? Sono voci, notizie confuse, ma tuo padre non vuole correre il rischio che siano vere. Quando finirà la guerra, ritorneremo a Parigi, se lo vorremo ancora. Tutti insieme. Io, tuo padre, tuo fratello, tu, Sara e i vostri figli, se ne avrete avuti.»
Ero disorientato, stranito, non sapevo cosa pensare.
Uscii di casa veloce come un gatto e andai da Sara. Le dissi del progetto di mio padre, di quello che mi aveva detto, parlai con sua madre, cercai di non offendere il suo orgoglio, di fare in modo che la nostra offerta non sembrasse carità, ma un aiuto a tempo determinato che ci avrebbe restituito col tempo, quando avrebbe potuto. Alla fine accettò, aveva appena vissuto un’altra guerra, erano rimaste sole.

Dovrei essere fumo, di Patrick Fogli pagine 292 euro 15,50 Piemme

il Fatto 22.1.14
La “grande bufera” della Shoah nelle lettere di Rita
Tre missive inedite del futuro Premio Nobel
di Leonardo Coen


IN TRE MISSIVE INEDITE SCRITTE NELL’IMMEDIATO DOPOGUERRA, IL FUTURO PREMIO NOBEL RICORDA CON AFFETTO E RINGRAZIA LA FAMIGLIA FIORENTINA CHE LA OSPITÒ E LA PROTESSE DALLE RETATE NAZIFASCISTE

“Carissimo signor Ferruccio, dunque ci si ricorda sempre e con la stessa simpatia che noi sentiamo per lei, per la signora Consilia e per tutti i suoi cari. Anche noi non dimenticheremo mai quei mesi passati insieme di tanta trepidazione, né potremo certo dimenticare con quanta ospitalità e gentilezza ci hanno accolto mentre fuori infuriava la grande bufera”: quando Rita Levi Montalcini scrive questa affettuosa lettera indirizzata a Ferruccio Galducci, padre di Consilia, proprietario dell’appartamento fiorentino di via Cavour 84 dove Rita, la sorella Paola e la madre Adele trovarono provvidenziale rifugio nel 1943, la “grande bufera” è terminata da 20 mesi ma le sue devastazioni fisiche e morali sono ancora maledettamente impresse nella memoria di tutti.
La missiva firmata dalla Montalcini è inedita, datata 20 gennaio 1947, un lunedì. E non è l’unica spedita dal premio Nobel per la Medicina. Ce n’è un’altra, del maggio 1946, si intuisce che deve essere una risposta tardiva a una lettera d’auguri dei Leoncini, “non vorrei che pensassero che abbiamo dimenticato via Cavour 84. Le ricordiamo moltissimo e con immutato affetto e simpatia”. Una terza e breve lettera è firmata da Paola Levi Montalcini, la sorella pittrice, ed è più recente, del 1990. Laura Leoncini, discendente di Ferruccio, le ha scovate poche settimane fa mentre rovistava dentro un vecchio cassettone. Ne ha parlato con l’amico Adam Smulevich che lavora per il mensile Pagine Ebraiche e quei fogli ingialliti per l’usura del tempo hanno assunto la dimensione di una testimonianza, “quella di un’epoca tormentata in cui il coraggio si pagava a prezzo della vita”, come sottolinea lo stesso Smulevich.
SI ERANO FATTE PASSARE PER TRE CATTOLICHE PUGLIESI
Accogliendo le tre fuggitive ebree, i Leoncini avevano infatti consapevolmente rischiato la pelle: fu Consilia che decise, d’accordo coi suoi, di accogliere le Montalcini, nonostante fosse evidente che non si trattava di tre cattoliche pugliesi dirette a sud per ritornare a casa come avevano (maldestramente) detto ma di una famiglia ebraica braccata dagli sgherri del regime per motivi razziali.
Rita rievoca i momenti di serenità, un terrazzino, il calore del sole, i bei gerani rossi, e nelle sue parole c’è già la distanza storica, come se quegli angosciosi giorni della clandestinità fossero ormai lontani anni e anni. Invece è soltanto appena ieri, e pure ancora troppo fresco è il doloroso periodo delle persecuzioni nazifasciste, la paura d’essere catturate e deportate... Rita Levi Montalcini evita ogni accenno.
Non ce n’è bisogno. Basta dire quanto fossero preziose le ore di serenità e di normalità, rare e godute di nascosto... “mamma ricorda sempre con molta nostalgia la sua camera di via Cavour 84. Allora si viveva tutte insieme, e non capitava come adesso che io adesso mi assenti per tutta la giornata – anche troppo assorbita dal mio lavoro – e appena ci si veda un momento a cena. Credo che se potesse vorrebbe ritornare a quei tempi e baratterebbe volentieri la grande stufa (sempre affamata di legna) con lo scaldino a carbone preparato con tanta cura dall’ottimo signor Ferruccio. E io ripenso molto sovente alla terrazza fiorita dove ho passato tante ore serene in contemplazione, sdraiata al sole come una lucertola, e mi chiedo quando ritornerò, almeno di passaggio per salutare lei, la signora Consilia e i bei gerani rossi. Saranno fioriti allora? Io partirò per l’America (St. Louis, Missouri) quasi certamente in agosto, ma come ho scritto a Stefania vorrei tanto prima di imbarcarmi (rimarrò in America un anno) passare a Firenze e salutare i cari amici di via Cavour 84. Per i mesi invernali non mi è possibile pensare a un viaggio, ma verso Pasqua o nei mesi successivi spero vivamente di poter fare una scappata”.
In quel gennaio del 1947 la Montalcini fa ricerca presso l’Istituto di Anatomia Umana Normale dell’università di Torino, “Io sono sempre in laboratorio, circondata da una bella famigliuola di embrioni di pollo che crescono sani e prosperosi malgrado i miei interventi chirurgici molto demolitivi. Le scrivo appunto dal mio tavolo di lavoro vicino a una grande stufa da legno che manda un gradevolissimo tepore, mentre dalla finestra vedo il parco del Valentino e la collina coperta di neve. Il freddo che è stato molto intenso nei giorni scorsi, adesso si è notevolmente mitigato e si sente già il soffio della primavera”.
I MESI DELLA COSTITUENTE E DEGLI AIUTI USA
A Roma le commissioni parlamentari lavorano febbrilmente per dare al Paese una nuova Costituzione, De Gasperi è tornato dall’America con un assegno di 100 milioni di dollari per puntellare la nostra economia e rafforzare la Democrazia cristiana, la miseria è drammatica (sul francobollo da 4 lire della missiva di Rita l’annullo dispensa speranze, “Lotteria Italia vi farà milionari”...), in Sicilia la mafia uccide i sindacalisti, il Papa se la prende con l’eccessiva libertà dei film, i criminali nazisti spariscono grazie a connivenze e protezioni. Gli ebrei reclamano la Palestina come patria e proprio in quei giorni Primo Levi ha appena terminato Se questo è un uomo, “che lavora nel fango/ che non conosce pace/ che lotta per mezzo pane/ che muore per un sì o per un no”.
PAURA E UNITÀ
Mamma ricorda sempre con molta nostalgia la sua camera di via Cavour 84. Allora si viveva tutte insieme. Baratterebbe volentieri la grande stufa con lo scaldino a carbone

Repubblica 22.1.14
Diversamente Italiano
La lingua segreta che usiamo davvero
Lo studioso Enrico Testa ricostruisce la vicenda di un idioma parlato da “semicolti” a metà strada fra Dante e gli analfabeti ma che, per quanto povero, è utile alla comprensione reciproca

L’amministratore delegato che esordisce: «Innanzitutto vorrei fare una postilla»; il giornalista che dice «paventare » e intende «prospettare» e «schernirsi » al posto di «schermirsi»; l'innamorato che scrive su Facebook «Vorrei baciarti sulle tue dolcissime l'abbra»; il ministro dell'Istruzione che inciampa rovinosamente su un congiuntivo; i personaggi di Corrado Guzzanti e le persone reali (conduttori, politici, mafiosi, studenti) di cui sono la parodia. Tutti loro, tutti noi: che italiano parlano e parliamo? Forse Tommaso Landolfi, grande e coltissimo scrittore, lo avrebbe definito «italiano pidocchiale», come quello che in un suo romanzo del 1939 (Pietra lunare)uno studente universitario sente usare malamente dai suoi incolti famigliari. Solecismi, anacoluti, costruzioni per analogia, proposizioni sbilenche, che incominciano in un modo e finiscono in un altro, irruzioni del dialetto o della varietà regionale, parole mal scelte e peggio accozzate.
Un po' a sorpresa il linguista, e poeta, Enrico Testa non sarebbe d'accordo con la diagnosi. L'immagine della lingua «pidocchiale » si staglia proprio all'inizio del suo ultimo libro, ma nelle conclusioni una netta separazione viene posta fra le varianti più rozze dell'italiano del passato e quelle presenti. Queste sono sfacciate e degenerative e quello che dà il titolo al libro è invece L'italiano nascosto (Einaudi, pagg. 328, euro 20,00) e generativo. Ma per fortuna il fulcro dello studio di Testa non è la deprecazione dei nostri tempi, bensì la riconsiderazione di cosa sia stata la lingua nei tempi andati.
Secondo l'ipotesi storiografica comunemente accettata (e anzi data spesso per pacifica), il volgare italiano è stato nobilitato da Dante, pulito e codificato come lingua letteraria da Petrarca, discusso nel Rinascimento e mantenuto come lingua dei colti, a fianco del latino, sino a Manzoni e poi all'Unità d'Italia. In questo quadro la vera unificazione linguistica avrebbe dovuto attendere la televisione. Testa si rifiuta con una certa nettezza di affiancare Mike Bongiorno all'Alighieri, fra i padri della lingua italiana, ma non sovverte del tutto questo modo di vedere le cose. La sua tesi centrale è che fra l'italiano dei colti (dotto, letterario e scritto) e i dialetti del popolo (incolti, pratici, orali) sia sempre esistito un italiano comune, «per quanto rozzo, povero e variegato». Una lingua senza alcuna mira estetica, riferita a circostanze molto concrete e rivolta a un interlocutore ben identificato. Italiano di mercanti, notai, mezzadri, artigiani, monaci e soprattutto monache di cui recano testimonianza lettere, diarie, scritti autobiografici, atti, cartelli, ex voto, scritte murali. A proposito di queste ultime, si può cogliere la continuità con il presente: «Un altro segno della diffusione dell’italiano è il proliferare a Roma di cartelli infamanti: scritti, epitaffi (talvolta in versi e spesso osceni) affissi pubblicamente e anonimamente per colpire qualcuno (soprattutto i potenti) descrivendone colpe, delitti o difetti» (da Pasquino a Twitter, ogni alfabetismo fa emergere il rimosso ostile del discorso popolare).
È la lingua dei «semicolti». Nati analfabeti, sono riusciti a entrare a contatto con l'insegnamento dell'italiano, per esempio tramite le scuole religiose (Testa dedica un capitolo a catechismo, predicazione e alfabetizzazione da parte della Chiesa), e hanno frequentato i libri, a diversi livelli di fruizione (dalla lettura vera e propria alla consultazione o all'ascolto di letture ad alta voce). I popolani trecenteschi che deturpano i versi di Dante nelle novelle del Sacchetti testimoniano quanto precoci fossero i contatti fra cultura alta e supposta incultura. Nel Cinquecento gli stampatori provvedevano edizioni povere, «in ottavo» dei libri che stampavano lussuosamente e«in quarto» per il pubblico di ceto alto. Praticamente, i tascabili: «onde hora tutti possono imparare», si rallegrava il poligrafo Tommaso Garzoni nel 1587. Invisa alla Chiesa, la letteratura cavalleresca incendiava fantasie popolari.
Di questo italiano nascosto si sono accorti gli stranieri prima che gli italiani. Il primo a studiarla fu il filologo austriaco Leo Spitzer. Durante la Grande Guerra era incaricato di censurare le lettere dei prigionieri italiani: la corvée militare non lasciò insensibile l'animus del ricercatore. Le trascrisse e nel dopoguerra pubblicò un'antologia di questi campioni di lingua né colta né analfabeta. Ma già Stendhal scriveva: «La lingua scritta d'Italia è anche lingua parlata a Firenze e Roma». E Ugo Foscolo, nell'esilio londinese definiva questo italiano comune («tal quale tanto da farsi intendere») una «lingua d'espediente». Quale lingua avrebbero dovuto usare i predicatori vaganti, per parlare ai fedeli di zone lontane dalla loro nativa? Non certo il latino. E i mercanti? E le monache costrette dai superiori a mettere per iscritto le loro visioni mistiche?
Se una lingua serve per comunicare con gli altri, deve mettere in comunicazione anche l'alto e il basso della società. Il servo di Vittorio Alfieri, Francesco Elia, scriveva ai ricchi parenti dello scrittore per informarli della vita che egli conduceva nei suoi viaggi: «Abiamo fatto più miglia per indare in una picola isola deserta, dove mi fece ancora suonare molto il violino, e faceva belisimo tempo, che in diffetto di questo non so come se ne saresimo tiratti noj due soli a remare, che sul principio indava molto male...». Ma Testa trova tracce di italiano comune o «pidocchiale» persino negli scritti di «backstage» di squisiti maestri dell'italiano letterario: nelle lettere di Baldassar Castiglione al suo fattore, persino in quelle di Pietro Bembo, il più classicista dei teorici della lingua, o in quelle di Ludovico Ariosto, rigettate perché «tirate di fretta» da Benedetto Croce, e a Testa utili per il medesimo motivo. Sono le «lettere rubate» dell'italiano comune: nascosto, e sotto gli occhi di tutti.

IL LIBRO L’italiano nascosto di Enrico Testa (Einaudi, pagg. 328, euro 20)

«il film di Bellocchio ispirato al suo caso, La condanna, fu premiato a Berlino»
il Fatto 22.1.14
La versione del Popi, trent’anni dopo
di Malcom Pagani


GIUSEPPE SARACINO, EX LEADER MILANESE DEL MOVIMENTO STUDENTESCO, FU CONDANNATO NEL 1981 E POI ASSOLTO NEL 1986 PER VIOLENZA SESSUALE AI DANNI DI UNA SUA GIOVANE STUDENTESSA. UNA PAGINA DOLOROSA DELLA FINE DEL ‘68 RIVIVE ORA IN UN LIBRO AUTOBIOGRAFICO

Tre vite e una sola morte, incontrata all’improvviso quando a metà degli anni 80, Giuseppe Saracino decise di sparire dal mondo. Dimettendosi da giovane “terrone” naufragato fuori rotta, da ex ascoltato leader del Movimento Studentesco milanese, da professore e in ultimo, anche da mostro. Lo chiamavano Popi e nella prima esistenza, quella indirizzata da suo padre, dannunziano di Bitonto folgorato “dall’emozione di Addis Abeba”, esule in Lombardia con una figlia a carico e lì sfidato a duello dall’amore (la nuova moglie ebrea cattolica conosciuta a un tè danzante al Diana), gli era toccato in sorte il peggio. Qualche momento di trascurabile felicità subito dopo le bombe: “Nacqui contento con tanto di casa diroccata di fronte per giocare” e poi via, in collegio, dove il Popi era stato spedito a 9 anni. “Qualcosa non aveva funzionato in famiglia” dice oggi. Chiudendo un lunghissimo silenzio personale con un libro sorprendente (La versione del Popi, Vanda. epublishing, casa editrice digitale) che tra memorie, frammenti kafkiani e scritti dal carcere sventola più dolori che rimpianti. Popi Saracino si costituì e venne arrestato nel 1980. Il processo partì nell’ottobre dello stesso anno. Sul collo, un’accusa per il più odioso dei delitti. Violenza carnale su una sua studentessa, Simonetta (i cognomi come molto altro godono del diritto all’oblio) che a casa del professor Saracino era finita “per bere qualcosa” il 28 maggio, in una Milano spettrale e profondamente turbata dall’omicidio Tobagi. Fu tragico anche l’epilogo di un episodio minore della Storia, l’incontro tra Saracino e Simonetta, culminato dopo tre giorni di tormenti e biglietti rabbiosi: “A questo serve la sua grande cultura? ” in una denuncia per stupro. Cinque anni di udienze, collettivi rissosi, femministe in guerra, aule di giustizia sopraffatte da particolari morbosi, vis-à-vis tra vittima e presunto carnefice, amici, nemici, grandi firme e barricate. Il Pci ne approfittò per vendicare anni d’insuccessi e reclute in fuga dalle sezioni della Figc. Li persuadeva a mollare quello che con le parole ci sapeva fare e dietro le sbarre, finalmente, sarebbe stato costretto a tacere.
Imputato Saracino, Si alzi
Sul filo spinato, come unico imputato un “compagno”, un ex sessantottino, un cattivo maestro che avrebbe pagato fuori tempo massimo: “Un ex giovane scoppiato male che finiva come si meritava”. Quando alle 19 e 40 del 21 gennaio 1985 Popi Saracino venne definitivamente liberato da un giudice donna, pianse: “... ecco qua Saracino, la tua ultima chance. In piedi e non pensare. In nome del popolo italiano, visto questo e visto quest’altro, si dichiara l’imputato assolto con formula piena perché il fatto non costituisce reato”.
Richiesto di un commento sulla sua ex allieva fu laconico: “Penso cose che un gentiluomo non può dire”. Poi evaporò, a neanche 40 anni, lasciandosi alle spalle le discussioni fumose, il cortocircuito a sinistra, gli attacchi di Scalfari e Natalia Aspesi, la convinta difesa di Montanelli, il film di Bellocchio ispirato al suo caso (La condanna, premiato a Berlino), gli editoriali per regolare i conti, la voglia di gogna per quel figlio di un’era in cui “a forza di sostenere che fosse vietato vietare” si erano smarriti limiti, confini e frontiere da non superare. Il feroce Saracino da punire perché “chi semina vento, raccoglie tempesta” dopo la burrasca non fu più lo stesso.
Saracino ieri, Saracino oggi
Non il talento che dominava le assemblee della sua Armata Brancaleone (“un gruppo poco compatto e tantomeno allineato di compagni universitari” a dar retta al ricordo di Anna Foà nel Gossip online sul sito del libro): “Si parla per ultimi. Prima bisogna far sfogare tutti i cazzoni, poi, quando le stronzate del tipo “la base che non parla mai” e “la crisi del movimento” sono finite, si alza il ditino e gli si spiega che cazzo bisogna fare” né il retore che nasconde la ferita e riguarda al “buiolo” e al suo ruolo da capro espiatorio con relativa leggerezza: “Ormai purtroppo non c’era più niente da riparare. Avevo avuto i miei incubi, questo sì: tipo Uomini e topi per intenderci, se tutti ti accusano di essere un mostro, qualche dubbio ti viene”. Ma un’altra persona. Che guarda alla fantasia al potere con analitico disincanto: “In Francia De Gaulle aveva già chiarito che la ricreazione era finita... a novembre era morto Annarumma... Lotta Continua era uscita di testa e titolava: “La violenza riapre tutto”. Infatti arrivarono le bombe in piazza Fontana, a 10 metri da via Larga, dove era morto l’agente”. E alle occasioni svanite, riserva una nostalgia non retorica. Per usare le parole di Monica Maimone e Antonello Nociti (ancora nel Gossip), Saracino era un tipo che non si “commiserava”, un prisma indefinibile di curiosità: “Era stato maoista, guevarista, mickjaggerista, persino simpatizzante della reaganomics”, uno che “si innamorava sempre e ostinatamente con gli occhi suoi, e mai e poi mai con quelli degli altri”, uno che era rimasto al primato del dubbio sulla certezza, rifiutava di servire l’ideologia e con i suoi “cani sciolti” aveva già minato alle radici la rigida disciplina dei marxisti-leninisti. Quando uscì, dopo 60 mesi di limbo equamente condiviso con l’inferno, non trovò paradisi ad attenderlo: “ mio amico – scrive Nociti – tornò a vivere all’aria libera e si trovò in un mondo nel quale parlare del ‘68 e delle lotte operaie e studentesche, era alla moda come ricordare le carrozzelle coi cavalli o poesie di Giosuè Carducci”. Così si reinventò con successo nell’urbanistica, ridisegnando le perife rie degradate, senza moralismi né fondamenta stabili. E ora architetto della sua biografia. Lampi accelerazioni, frenate, divagazioni. Un risarci mento. Un fine pena mai. Così ne La versione del Popi passano il detenuto per caso Giuliano Pisapia o il La Russa” che alla Statale “comandava il plotone assalitore” che per poco non rese Saracino orbo, ma come in un esorcismo rovesciato, professore che in giudizio fu trascinato non viene mai, neanche per un istante, la tentazione di ve dere il film dell’esistenza sua con le lenti del pre giudizio: “I debiti è meglio pagarli che averli” Saracino, da ultimo della fila, ha scontato anche quelli di una generazione. Quando decise di la sciare la scuola, terrorizzati dalle implicazioni, gli porsero un foglio da firmare: “L’amministrazione mi chiese di chiarire che lo facevo per motivi personali, non ebbi difficoltà a dichiarare il vero” È la frase finale del libro. La versione del Popi. L’ultima, prima dell’immersione definitiva.
LA VERSIONE DEL POPI di Giuseppe “Popi” Saracino Vanda.epublishing 2,99 €

l’Unità 22.1.14
Bellezze ritrovate
In mostra al Quirinale preziose opere classiche
di Marcella Ciarnelli


SONO OLTRE CENTO LE OPERE D’ARTE RECUPERATE DAL COMANDO TUTELA PATRIMONIO CULTURALE DEI CARABINIERI E CHE da domani al 16 marzo saranno esposte al Quirinale nella mostra La memoria ritrovata promossa dalla presidenza della Repubblica e curata da Luis Godart, consigliere del presidente per la conservazione del patrimonio artistico.
I capolavori che caratterizzano l’esposizione vanno dal quarto secolo avanti Cristo fino alla fine del Settecento». Cento opere ritrovate che, ha detto Godart alla presentazione dell’iniziativa, «dimostrano l’estrema fragilità del nostro patrimonio» dal momento che non tutti i furti si concludono con il recupero «ma una parte dei nostri beni viene rubata e scompare irrimediabilmente». Ma testimoniano anche «l’entusiasmo e la professionalità dei Carabinieri che riescono a recuperare la nostra memoria “rubata”».
La mostra è stata allestita in due sezioni e tra i pezzi più importanti propone una serie di urne funerarie, per la precisione 23, che provengono da uno scavo clandestino effettuato a Perugia. Scolpite in modo raffinato su di esse si intravedono i segni della patina d’oro e dei colori accesi che le caratterizzavano, «una delle scoperte più straordinarie degli ultimi cinquant’anni anche perché si tratta di un intero mausoleo» ha spiegato Godart.
Da ammirare anche il Tesoro di Loreto, tutto in oro, coralli e ametiste che Marianna, regina di Spagna, aveva regalato al suo confessore nel 1699 e che è stato ritrovato pochi mesi fa a Campione d’Italia. C’è anche la testa dell’imperatore Tiberio, rubata ad Anacapri nel 1971 e ritrovata dopo vent’anni e la Leda e il cigno recuperata mentre stava per sparire per sempre negli Stati Uniti.
I ritrovamenti effettuati sono di grande valore ma ci sono opere sottratte alla collettività al cui recupero i carabinieri lavorano con particolare impegno nella consapevolezza, ha detto il generale Mariano Mossa, che attorno al nostro patrimonio «c’è un giro d’affari che è il quarto al mondo dopo armi, droga e prodotti finanziari». L’opera che più si vorrebbe ritrovare è la Natività di Caravaggio rubata a Palermo nel ‘69.
È la terza mostra di capolavori ritrovati che si svolge al Quirinale. Nel 2007 c’è stata Nostoi con le opere acquistate illegalmente da quattro musei americani e poi, nel 2013, la Tavola Doria, da molti attribuita a Leonardo, riportata in patria dopo oltre 70 anni.

il Fatto 22.1.14
Fotografia
L’occhio di Nomachi in viaggio nel Sacro
200 scatti dal Sahara, Nilo, Etiopia, La Mecca, Gang, Tibet e Ande in mostra a Roma
di Claudia Colasanti


Viaggiare su poltrone con le ali. È il primo, non indifferente, effetto collaterale dei reportage di viaggio, in particolar modo quando nascono dalle visioni dei maestri della fotografia documentarista. Una sintesi efficace è visibile, fino ai primi di marzo, presso il Palazzo delle Esposizioni di Roma, con la mostra National Geographic. La grande avventura, il cui magazine celebra i 125 anni, dai primi scatti di numerosi autori internazionali apparsi sulla rivista americana (compresi i 15 dell’edizione italiana) fino ad oggi. Le sale accolgono grandi stampe che narrano momenti geograficamente centrali e la scoperta di abissi naturali inimmaginabili: l’intero globo in un colpo di scena dietro l’altro, simile ad un infinito libro di storia illustrata. È invece alla Pelanda del Macro Testaccio che uno fra loro, il giapponese Kazuyoshi Nomachi, nato nel 1946 a Kochi (Le vie del Sacro. Sempre a Roma, Piazza Giustiniani. Fino al 4 maggio 2014), permette, con il suo sguardo chirurgico – conquistato in oltre 40 anni nei luoghi più aspri del mondo – di conoscere i lati più estremi dell’evoluzione, soprattutto visiva, del concetto di sacralità.
CELEBRE più all’estero che qui, Nomachi pubblica da decenni le sue immagini – realizzate nel Sahara, lungo il Nilo, in Etiopia, in Tibet e in Arabia – sulle principali riviste di fotografia del mondo, dal National Geographic fino a GEO. Questa è la sua prima mostra antologica in Occidente, con circa 200 scatti divisi in 7 sezioni, ognuna riguardante un’area geografica (Sahara, Nilo, Etiopia, Islam, Gange, Tibet, Ande). Ciò che crea la differenza rispetto ad altre incursioni nel mondo è il centro del suo interesse, rivolto all’atteggiamento delle popolazioni rispetto alla spiritualità: “Volevo cogliere l’ultima occasione per fotografare luoghi in cui le forme originarie di cultura tradizionale erano ancora integrate alla religione, in un mondo che la globalizzazione omologa con grande rapidità”. Si tratta di panorami multipli, come quelli asiatici – con gruppi etnici che vivono in Tibet (1988) – nei quali paiono indistinguibili l’anima religiosa e l’attitudine quotidiana alla preghiera con la durezza del paesaggio: “Ho avuto la fortuna di catturare immagini del Tibet, che da allora è molto cambiato a causa della rapida crescita economica e dell’oppressione politica cinese”. Nomachi, dal 1995 al 2000, ha ripreso le città sacre dell’Islam, viaggiando per cinque anni in Arabia Saudita ed è stato il primo a documentare l’impressionante pellegrinaggio dei musulmani verso la Mecca. Scattare fotografie in quei luoghi è proibito, e il fotografo si è convertito: “Una scelta conflittuale, ma è corretto definirmi musulmano”. Gli scatti che riguardano il culto islamico, dopo i desertici luoghi del Nilo e del Tibet, posseggono una natura differente, che sembra riguardare il flusso umano e la sua cieca devozione. Un tratto che accomuna invece tutte le tappe riguarda la quasi totale assenza di icone, immagini, oggetti e orpelli devozionali. Un motivo in più, da parte di Nomachi, per evocare l’operato del nuovo papa: “Il messaggio di papa Francesco cerca di suscitare consapevolezza rispetto ai desideri accesi del capitalismo, ed è un appello alla concordia tra le fedi”.

La Stampa 22.1.14
Per la prima volta nel nostro Paese il ritratto “con l’orecchino di perla”
La ragazza di Vermeer conquista l’Italia
di Franco Giubilei

qui

La Stampa 22.1.14
Vermeer può scalzare Monna Lisa
di Francesco Bonami


Tutti vorremmo essere in un dipinto di Vermeer il fuoriclasse della pittura olandese delquale sono rimaste pochissime opere. Vorremmo essere dentro uno dei suoi quadri per il semplice motivo che la luce e le atmosfere dei suoi ambienti sembrano essere di una comodità e tranquillità uniche.
Immaginarsi due che litigano nella cucina della ragazza che versa il latte è praticamente impossibile. La pittura di Vermeer non è eroica ma intima e familiare ed è questo che alla fine noi spettatori nascostamente cerchiamo nell’arte, un’intimità ed una quotidianità che la nostra società dello spettacolo sembra averci tolto. Ma allora come mai impazziamo quando un’opera d’arte diventa famosa proprio come una diva del cinema o dello spettacolo, come sta accadendo alla Ragazza con l’Orecchino, capolavoro del nostro maestro fiammingo, che dopo un trionfale tour negli Stati Uniti arriva a Bologna dove ha già fatto il tutto esaurito? Cosa ci attrae in modo quasi ossessivo di una piccola tela grande appena 44 centimetri e mezzo al di là delle sua sublime qualità pittorica?
Sicuramente il mistero che sta attorno al quadro e anche le poche informazioni che abbiamo sul suo autore, poche anche perché, a parte dipingere, Vermeer non ha avuto, a differenza di Caravaggio, una vita avventurosa. Ci attrae la squisita normalità del soggetto e quella del suo artefice. Ma non è abbastanza per mettersi in fila per vederla. Le opere d’arte a volte diventano celebrità esattamente come un attore o un’attrice, un calciatore o una cantante. Di que-
sti tempi la Gioconda sarà molto invidiosa di questa ragazza con l’orecchino che sembra avere preso il suo posto nel cuore di quelli che un tempo erano i suoi fans e la consideravano l’opera d’arte più celebre dell’universo.
Oddio, la Gioconda non è sempre stata cosi famosa. Lo è diventata dopo che l’imbianchino Vincenzo Peruggia la rubò nel 1911 e se la tenne sotto il letto per due anni. Come l’attrice Greta Garbo, la Gioconda diventò celebre scomparendo. La ragazza con l’orecchino non è mai scomparsa ma in un certo senso anche lei deve la sua celebrità al fatto di essere stata rubata. Non rubata dal muro del museo Mauritshuis all’Aia dove di solito sta, ma rubata dalla cultura popolare. Prima diventando la protagonista del romanzo di Tracy Chevalier intitolato appunto «La ragazza con l’orecchino di perla» del 1999 e poi del film tratto dal libro del 2003 dove la ragazza con l’orecchino è interpretata da Scarlett Johansson che trasforma la giovane di Vermeer anche in un oggetto di desiderio erotico. Rubata, o meglio presa in prestito, dalla letteratura e poi dal cinema, la ragazza è stata riconsegnata alla storia dell’arte e ai musei ma la sua fama era oramai esplosa. Molti di coloro che vanno a vedere il dipinto non lo guardano come tale ma piuttosto come guarderebbero l’attore protagonista di Harry Potter seduto al tavolino di un caffè. Se potessero gli chiederebbero l’autografo, potendo gli scatteranno tantissime foto con il telefonino.
Il successo di un quadro però non è solo dovuto alla sua fama mediatica, c’è sempre
qualcosa che colpisce l’immaginazione dello spettatore che solo un dipinto ed un grande pittore sono capaci di dare. Non mi sorprenderebbe che l’opera di Vermeer scalzasse definitivamente la Mona Lisa di Leonardo dal gradino più alto del podio. Infatti mentre la Gioconda è un ritratto classico e statico, la ragazza olandese è un’istantanea. Proprio come quelle prese con il telefonino. Ci guarda sorpresa come sorpresa e indispettita ci guarderebbe Scarlett Johansson se le scattassimo una foto di nascosto. Per questo la giovane di Vermeer è molto più contemporanea ma anche molto più umana della Gioconda. L’opera d’arte e per questo anche le persone che sanno mostrare meglio di altri la loro umanità hanno più successo. La ragazza con l’orecchino anziché essere bloccata nella storia e nel suo tempo ci trasmette l’eternità dell’attimo, l’umanità della sorpresa e dell’insicurezza. Tutte qualità o piccoli difetti che ce la fanno diventare amica.
Hugh Hefner inventò il successo Playboy mettendo al centro della sua rivista la «ragazza della porta accanto» capendo che era quella che il maschio moderno e comune in fondo desiderava, non la supermodel. Vermeer senza saperlo ha pure lui dipinto la ragazza della porta accanto. Noi in un’epoca di maschi e femmine superdotati è proprio quella che stavamo aspettando. Per questo siamo disposti ad aspettare qualche ora in più pur di riuscire ad andare a vederla.

Repubblica 22.1.14
Il museo in poltrona
Google Il giro dell’arte in un clic
Dai quadri di Warhol ai paesaggi di Turner La più grande galleria d’arte del mondo fruibile da casa In digitale 57 mila opere


PARIGI Uno sguardo ai quadri di Andy Warhol al Moma, un giro davanti ai paesaggi di Turner dentro alla Tate Britain, la contemplazione dei più famosi impressionisti al Museo d’Orsay. Ma anche, con un salto nello spazio, la visita nella galleria d’arte moderna di Istanbul, oppure in quelle di Hong Kong e Sydney. Dalla poltrona di casa, senza muoversi. È il più grande museo del mondo. Anzi è il museo dei musei: oltre 57mila opere disseminate in 50 Paesi. Neppure Walter Benjamin, che aveva incominciato la sua riflessione sull’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica, poteva immaginare che saremmo arrivati a tanto.
La nuova frontiera è in una palazzina elegante di rue de Londres, nono arrondissement. Dentro all’Istituto culturale di Google lavorano una trentina di ingegneri che hanno messo a punto software e tecniche interattive per catalogare ma anche vedere e avvicinarsi (virtualmente) ad alcuni dei più grandi capolavori dell’umanità.
Nella sede del gigante americano non ci sono opere, solo schermi, computer, scanner. Un luogo asettico e molto professionale che ha poco a che vedere con l’emozione estetica. Direttori e conservatori di musei vengono qui dal mondo intero per discutere della digitalizzazione delle opere e dell’esperienza immateriale che se ne può avere davanti a un computer. «Era necessario avere un luogo fisico. Comunicare di persona è molto meglio che per email» spiega con una battuta Laurent Gaveau, già responsabile dei contenuti digitali del Castello di Versailles e ora direttore del Lab, il nuovo spazio di 340 metri quadrati inaugurato a dicembre ma disertato polemicamente dal ministro della Cultura, Aurélie Filipetti.
È uno dei tanti segnali di come il progetto artistico del gruppo americano sia tutt’altro che consensuale. Alcuni musei francesi, come il Louvre e il Pompidou, sono ancora scettici sull’iniziativa e non hanno autorizzato Google a fotografare la loro preziosa collezione. La Francia, tra l’altro, è il paese che ha più osteggiato il colosso di Mountain View. Ha aperto un contenzioso fiscale, ha inflitto una multa di 150mila euro per violazione della privacy, e ha costretto il gruppo a versare agli editori una somma,seppur ridotta, per l’uso dei contenuti giornalistici.
Eppure è qui, nella “tana del lupo”, che Google ha deciso di aprire uno dei suoi progetti simbolo. «La Francia è la Silicon Valley della cultura» ha commentato Nick Leeder, direttore di Google France. Il gruppo americano insiste sul fatto che si tratta di una piattaforma no profit. «Forniamo gratuitamente i tool ai musei che ce lo chiedono. Nessuna ingerenza, ogni partner usa la piattaforma in perfetta autonomia » racconta Gaveau. «Quando ho iniziato questo lavoro, due anni fa, molti temevano che la visita virtuale avrebbe sostituito quella fisica. Ora sappiamo che non è così. Anzi più si possono trovare opere online e più si provoca il desiderio di vederle dal vivo. Sono due esperienze complementari».
Nel Lab di Google l’atmosfera è tipicamente californiana. Ragazzi trentenni che sorseggiano bibite all’open bar. All’ingresso si ritrova la solita ossessione per i segreti industriali del gruppo. Prima di entrare bisogna firmare la dichiarazione: «Tutto ciò che vedrete o sentirete durante la vostra visita deve restare confidenziale». Non sono autorizzate fotografie né riprese all’interno della palazzina di rue de Londres. Al pianterreno c’è un “Big Wall”. Sullo schermo interattivo di 65 metri quadrati — «il più grande del mondo» — vengono proiettati quadri che, nella realtà, sono dieci volte più piccoli. L’occhio della Venere di Botticelli, che misura pochi millimetri, si allunga su un’intera parete. È così che si riescono a vedere dettagli invisibili normalmente, come il volto di un ragazzo disegnato dentro alle minuscole lacrime della donna ritratta in “No Woman, No Cry” dell’artista Chris Ofili, esposto alla Tate Modern di Londra. Sul Big Wall appare “La Mietitura”, l’olio su tavola dipinto nel 1565 da Pieter Bruegel il Vecchio. In scala ingrandita si scopre che, in fondo al quadro, c’è un gioco medievale: il tiro a bastone contro l’oca. Una scena che nella realtà è grande come un’unghia. Con un clic, ecco lo zoom su un altro dettaglio: dei monaci che fanno il bagno. Nel dipinto originale, così come lo vedono milioni di persone al Metropolitan Museum of Art di New York, sarebbe quasi impossibile accorgersene.
«È un modo inedito di immergersi nell’opera» spiegano i responsabili del Lab. Gran parte delle opere nei musei non si possono toccare, maneggiare. Sullo schermo viene proiettata una maschera vecchia di 9mila anni esposta al museo di Gerusalemme. Con un altro clic si può girare a 360 gradi, scrutare sotto diverse prospettive. Google propone adesso una digitalizzazione in gigapixel, la migliore definizione possibile. Ci sono già 73 opere disponibili con questa qualità. È una sorta di realtà aumentata, con informazioni e dettagli che non sono percettibili nel consueto approccio alle opere d’arte. Molti musei utilizzano anche il robottino del famoso Street View, ribattezzato Museum View, per registrare una visita virtuale attraverso la loro collezione. Ci si può muovere in libertà tra stanze e piani, senza il frastuono e la ressa dei turisti. Un’»esperienza», dicono a Google, che raramente si può sperimentare nei grandi musei del mondo.
La sede parigina di Google è chiusa al pubblico ma ospita periodicamente visite di studenti delle scuole d’arte. La visione ravvicinata delle opere permette di esaminare meglio la tecnica utilizzata da grandi artisti. Al primo piano c’è un grande atelier con stampante 3D, scanner, laser cutter, strumenti per forgiare, persino il prototipo di un robot capace di fare dei pancake. Cosa c’entra con l’arte? Lo dovranno scoprire i primi due artisti invitati a lavorare in questo “Bateau Lavoir” del ventunesimo secolo. Le giovani promesse della creazione interattiva saranno in residenza per sei mesi, selezionate da Hans Ulrich Obrist e Simon Castets, promotori del progetto “89plus” che riunisce una nuova generazione di creatori nati nel 1989, anno della caduta del Muro di Berlino e dell’avvio del World Wide Web. Nel Lab di Google saranno anche organizzati seminari e conferenze. Il prossimo appuntamento, in primavera, è dedicato alle donne nell’arte e nell’ingegneria informatica, in nome di una parità che ancora non c’è.
La piattaforma interattiva è stata lanciata due anni fa ed è già stata visitata da milioni di persone: 7,4 milioni di abbonati al Google Art Project, che comprende anche l’iniziativa World Words Project per visitare monumenti e luoghi archeologici, da Pompei alla Tour Eiffel. Alcuni partner, come il museo d’Orsay, hanno deciso di mettere in linea i loro archivi, normalmente non accessibili al pubblico. «Non siamo un museo, né una galleria» puntualizza il direttore del Lab di Google. «Abbiamo solo messo a disposizione di chi lo desidera un luogo d’incontro e formazione ». Il dibattito con gli esperti del settore è spesso acceso, polemico. «I conservatori di musei sono molto esigenti » riconosce Gaveau. Il lavoro degli ingegneri è più volte affinato, migliorato. Il software deve procedere per sottrazione. «Il nostro obiettivo — dice il manager Google — è cancellare il più possibile la tecnologia per valorizzare al massimo le opere». Un tempo esistevano i musei immaginari. Ora c’è la possibilità, grazie alla piattaforma, di creare una “galleria personale”, selezionando ai quattro angoli del mondo le opere preferite, riunendole tutte in un unico luogo virtuale. Che sia davvero questo il futuro, o la morte, dell’arte per come l’abbiamo conosciuta,nessuno ancora può dirlo.

Repubblica 22.1.14
Anche la Venaria Reale e l’Archeologico di Ferrara sono già in Rete
Dagli Uffizi a Palazzo Grassi “Così la cultura è globale”


FIRENZE C’è anche chi, della Rete, non ha avuto paura. E all’appello di Google Art ha risposto subito, e senza tentennamenti. Sul progetto di raccolta di immagini ad alta risoluzione delle opere e di tour virtuale dei più importanti musei mondiali hanno scommesso fin dall’inizio, e senza tentennamenti, gli Uffizi, la più visitata galleria italiana (oltre un milione e 875 mila le presenze nel 2013), entrata a far parte fin da febbraio 2011 della lista dei diciassette pionieri dell’iniziativa insieme alla Tate di Londra, al Metropolitan di New York e al Van Gogh Museum di Amsterdam. Un ruolo di apripista, quello dell’istituzione fiorentina, la quale, in virtù di un accordo tra il Mibac e l’azienda di Mountain View, ha aperto i propri corridoi e offerto ai tecnici di Google la propria consulenza sulla scelta delle collezioni da fotografare, le indicazioni sull’angolatura degli scatti e tutte le informazioni tecniche e storico-artistiche necessarie a corredo dell’operazione. Un esempio seguito, l’anno successivo, dai Musei Capitolini di Roma, entrati a far parte del progetto nell’aprile del 2012 e, successivamente, da Palazzo Grassi a Venezia, dalla Venaria Reale di Torino e dal Museo archeologico di Ferrara, tutti oggi visitabili totalmente o parzialmente, con un clic, dalla propria scrivania, grazie alla tecnologia Street View, la stessa usata da Google Maps e Google Earth.
Il direttore degli Uffizi, Antonio Natali, racconta di non aver avuto alcun dubbio: «Voglio che la Galleria sia al passo con i tempi», afferma, per poi spiegare: «Indipendentemente dal mio personale rapporto con la tecnologia, la mia concezione di museo è quella di un luogo il più aperto, democratico possibile. Questo non significa criticare le scelte e le perplessità di chi svolge il mio lavoro altrove, anche perché credo che, sull’opportunità finanziaria di far parte di un progetto come questo, debba essere il ministero competente a decidere. Per quanto mi riguarda — aggiunge però — sono convinto che un’iniziativa del genere abbia un valore educativo, oltre che di promozione. Sono sicuro che chiunque si trovi di fronte una sala come quella della Niobe o la Tribuna, da poco restaurate, non possa non aver voglia di venire a vederle dal vivo. E se questo, oltre che in un input culturale, si traduce in un vantaggio economico per lo Stato italiano, non posso certo disprezzarlo».
Della visita virtuale al museo fiorentino fanno parte, al momento, i due lunghi, iconici corridoi al secondo piano, e le sale attigue. Mancano, perché inaugurati dopo il 2011, i nuovi ambienti al Piano nobile, comprese le Sale cremisi dedicate al Manierismo fiorentino o quelle gialle del Barocco, ma in compenso fanno bella mostra di sé, per esempio, la Sala di Botticelli, quella di Leonardo, quella di Giotto e quella di Filippo Lippi, sede di alcune delle principali attrazioni della Galleria, a cominciare dalla celeberrima Primavera. Ai Capitolini, il tour virtuale non risparmia capolavori come l’Annunciazionedi Garofalo, la cui fotografia, tra l’altro, è disponibile in qualità “giga pixel”, un’altissima risoluzione che permette ai fruitori di apprezzarne ogni minimo dettaglio, più di quanto sia possibile fare ad occhio nudo. Tra gli altri musei italiani, hanno aderito in parte al Google Art Project, fornendo non la possibilità di effettuare una vera e propria visita, ma scatti di tutte o di alcune delle opere più importanti delle proprie collezioni, anche Ca’ Pesaro, il museo Correr e il museo del Vetro di Murano a Venezia, la Fondazione Musei Senesi, il museo di Strada Nuova a Genova, il Diocesano e il Poldi Pezzoli di Milano e, sempre a Firenze, il museo di Palazzo Vecchio. Tra i grandi assenti, spiccano — almeno per il momento — Brera, la Reggia di Caserta, l’Archeologico di Reggio Calabria, Capodimonte.

La Stampa 22.1.14
“Così abbiamo creato l’antimateria”
L’annuncio del Cern
Prodotto e intrappolato al Cern il primo fascio di «antimateria»
L’esperimento è frutto di una collaborazione internazionale alla quale
partecipano anche scienziati italiani: «Una svolta per gli ultimi studi»
di Daniela Lanni

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La Stampa 22.1.14
Luca Venturelli
Il ricercatore: “Si spalanca una nuova finestra sui misteri dell’Universo”
intervista di Valentina Arcovio

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