giovedì 23 gennaio 2014

Corriere 23.1.14
La generazione Goldrake in prima fila
di Luca Mastrantonio


La battuta di Matteo Renzi su Goldrake può ricordare Walter Veltroni imitato da Corrado Guzzanti. Ma rivela, a chi va oltre le pavloviane ironie di Twitter, un genuino tratto distintivo della sua generazione, che rivendica con naturalezza un proprio immaginario. «Oh ragazzi, — ha detto il neosegretario del Pd rispondendo alle critiche sulla legge elettorale — chiamate Goldrake, ve la fa lui». Della serie: non vi va bene? Chiamate un supereroe, uno che viene da un altro pianeta. Come Actarus, il protagonista di «Ufo Robot. Goldrake», cartone animato giapponese degli anni 70. Fuggito dal suo pianeta attaccato da Re Vega, Actarus difende la Terra grazie al suo robot da combattimento, Goldrake, dotato di armi speciali, tra cui l’Alabarda spaziale. In Italia il cartone debuttò il 4 aprile 1978, sulla Rai, pochi giorni dopo il sequestro Moro (16 marzo); le puntate furono spesso interrotte dalle finestre di informazione. Così, mentre la prima Repubblica perdeva la sua innocenza, nasceva l’infanzia robotica di un’intera generazione. Sulla violenza della serie, di grande successo, non mancarono polemiche, anche politiche, ma furono superate; Gianni Rodari nel 1980 su «Rinascita» si schierò «Dalla parte di Goldrake» (e di Fonzie, di «Happy Days»). Negli anni Ottanta scoppia la robot-mania, tiene fino ai Novanta, si fa sentire anche negli anni Zero, quando ci si trova a ballare la sigla di Goldrake: «Si trasforma in un razzo missile con circuiti di mille valvole fra le stelle sprinta e va... mangia libri di cibernetica, insalate di matematica e a giocar su Marte va. Ma chi è? Ma chi è?». Veniamo all’oggi. Qualche giorno fa, su Twitter, Jovanotti scherzava con Fiorello su Lady Gaga, vestita da Goldrake. Nel 2012 toccò a un altro amico e supporter di Renzi, il regista Fausto Brizzi, animare il robot nipponico: «Io e Matteo siamo la generazione Goldrake». Che è il titolo di un saggio del 2011, edito Mimesis («Generazione Goldrake»), scritto da Marco Teti e Marcello Ghilardi. Il revival è in atto: tra blog, gruppi Facebook e aziende di giocattoli tornati a sfornare modellini. Tra le frasi più citate da Goldrake, una è perfetta per chi volesse invocarlo: «Non posso salvare l’umanità da se stessa».

La Stampa 23.1.14

L’arroganza in politica
“Matteo somiglia a Craxi”
Le parole con cui lo descrivono i detrattori sono le stesse usate per il leader socialista
di Mattia Feltri

qui

Repubblica 23.1.14
Da “Fassina chi?” a Goldrake la politica scopre il “renzese”
Dopo la rottamazione, il lessico spiazzante del sindaco


INNANZITUTTO l’inglese, o quello che a spizzichi e bocconi assomiglia all’inglese: «Cool», «smart», «finish», «game over», «job act». Du yu spik «renzese»?
«Venendo qua - questo si è potuto ascoltare dal leader del Pd la scorsa settimana - ho incontrato una signora che mi ha preso in giro: “Oh Renzi, falla finita con questi nomi strambi!”. Questa dunque la conclusione del breve racconto: la signora «ha ragione»; insieme a una promessa: «Basta anglicismi».
Quest’ultima parola, «anglicismi», suona in verità piuttosto colta, perciò colpisce. Di norma il lessico del personaggio è piano, molto colloquiale, anzi per certi versi un modello di quotidianità che qualche volta sconfina nella bullaggine: «Fassina chi?», «li asfaltiamo», «lo rivolto come un calzino». Già più elaborate formule di offesa e difesa quali: «Deve farsivedere da uno bravo», inteso un medico; come pure, ma su twitter, a proposito di un utente sconsiderato: «Spero che chi lo ha fatto, dopo aver parlato, abbia posato il fiasco», nel senso dell’ubriachezza molesta.
Questa lingua tutto sommato lineare e non di rado contundente - si pensi alla contagiosa energia della «rottamazione» ha tutta l’aria di essere una delle ragioni del successo di Renzi. Ecco comunque il giudizio complessivo che su di lui ha espresso qualche giorno fa un grande esperto del ramo comunicazione, Silvio Berlusconi: «È moderno, non è un politico tradizionale, è brillante, telegenico, ha la battuta pronta, usa un linguaggio comprensibile dalla gente, e insomma è un avversario temibile da non sottovalutare».
Ciò detto, tutto sommato il «renzese» rimane ancora un oggetto da approfondire. Di sicuro,com’è ovvio, vi si colgonotracce di fiorentinismo come quando, per la verità senza rendersi conto che il microfono era aperto, ha definito il povero Bersani «spompo». Per poi correggersi: «Dài, m’è scappata un’espressione che era anched’affetto».
Ora, è inutile soffermarsi su quanto sia stata decisiva Firenze per l’italiano. Ma come tutte le cose importanti, ganze o meno che siano, la fiera e consapevole impostazione municipale gioca a doppio taglio. Così per taluni riecheggia, più che Dante, la commedia di Pieraccioni e Panariello, mentre per altri, come Antonio Martino, assegna a Renzi un sovrappiù di eloquenza «che fa sembrare oro colato qualsiasi sciocchezza».
Sempre proseguendo un’indagine necessariamente empirica, un’ulteriore caratteristica che colpisce è quella dei giochi di parole, tipo «serve un partito pensante, non pesante», oppure «il Pd non esiste, ma resiste», o anche «Berlusconi non è da imprigionare, ma da pensionare», «dico Andreatta e non Andreotti» e così via.
Uno dei pochi studiosi che si è avvicinato alla materia, il professor Giuseppe Antonelli, dell’Università di Roma, ha notato slogan «visivi», parecchie contrapposizioni ad effetto e riferimenti pop «spinti molto a fondo». Abbastanza persuasiva èla valutazione di fondo, secondo cui Renzi condivide e fa sua «l’intuizione secondo cui è la cultura televisiva a fondare la nostra identità nazionale». E in qualche modo, si può aggiungere, anche quella generazionale.
Ecco perciò Goldrake, Sanremo, Miss Italia, il mago Zurlì, il mago Otelma e l’innominato Califano che conclude «tutto il resto è noia», ognuno dei quali chiamati a raccontare significati e rafforzare concetti. Da questo punto di vista gli esempi sono abbondanti.
La battuta in «renzese», d’altra parte, è prodigiosamente rapida, forse anche troppo. Ma a detta di Antonelli ce ne sono di «già impacchettate» che secondo le logiche del marketing tendono a inglobare diversi pubblici. Per cui il leader del Pd punta sui giovani non solo con una comunicazione calda «dài, ragazzi!» - ma richiamando anche, per dire, l’allenatore Pep Guardiola, mentre il richiamo a Bartali è dedicato alle zie e ai nonni.
Lo sport, o meglio il calcio, è infine una chiave fondamentale, tanto che nell’inarrestabile chiacchiera renziana rasenta quasi l’ossessione. Il campo della politica si risolve identificandosi pienamente nel campo da gioco in una continua e rutilante evocazione di maglie, panchine, calci di rigore, «io sono trapattoniano» per dire che gioca in difesa, «se mi avete dato la fascia da capitano - questo nel discorso della vittoria alle primarie - non farò passare giorno senza lottare su ogni pallone». L’altro giorno, dopo l’incontro con Berlusconi, ha superato se stesso chiedendo ai suoi: «Vi è piaciuto il cucchiaio?». Che sarebbe un gol segnato con un pallonetto - là dove il virtuosismo sfiora l’evanescenza, ma qualche punto porta a casa.

il Fatto 23.1.14
Occupy tv. Ritorno al passato
Matteo, monologo catodico: il nulla (ma detto bene)
di Andrea Scanzi


Sta sempre in tivù, e fa bene. C’è da capirlo. È l’uomo del momento, quasi tutti i giornalisti fanno a gara a chi lo celebra di più. Matteo Renzi sa usare il piccolo schermo e non ignora che i suoi apostoli non siano altrettanto capaci. Maria Elena Boschi, la Karina Huff di Jerry Calà Renzi, ha candidamente ammesso a Ballarò che le mancate preferenze del “Verdinum” sono una concessione al maestro Berlusconi (“C’è un veto di Forza Italia, convincetelo voi”). Una titanica Simona Bonafè, a Piazzapulita, ha rivelato che i renziani votarono contro la mozione Giachetti (che lei stessa aveva firmato) “per agevolare le riforme con Berlusconi”. E la tenera Alessia Morani, a Ballarò, ha deliziato oltremodo con le sue perle economiche (criticata in merito, ha risposto piangiucchiando e gridando al complotto: “Tutti noi renziani dobbiamo abituarci ai giornalisti di parte, di destra, pagati per infangarci, per demolire subito il nuovo che nasce, che cresce”). Ovvio, dunque, che Renzi preferisca andare personalmente in tivù: per evitare i danni altrui. Per quanto uno e trino, a volte anche lui sbaglia. Una volta dice che ha il treno che gli parte e quindi non può dilungarsi, un’altra rifiuta di commentare le dimissioni di Cuperlo perché “ha già risposto la Madia” (la qual cosa, a ben pensarci, costituisce un’aggravante più che un’attenuante).
SOLITAMENTE, PERÒ, Renzi è assai efficace. La sua tecnica televisiva è molto semplice: entrare in uno studio e occuparlo. Il suo sport preferito è il monologo catodico con supercazzola prematurata: a destra, ovviamente. Due sere fa era a Porta a Porta. Con lui, oltre a Vespa, un solitamente spumeggiante Marcello Sorgi. Il direttore dell’Avvenire, drammaticamente ossessionato dal tema delle coppie gay. E Paolo Scaroni, amministratore delegato Eni, impegnatissimo a plaudire qualsivoglia pensiero (parola impegnativa) di Renzi. Il segretario Pd rappresenta certo il nuovo, e guai a chi non lo sostiene. Guardandolo da Vespa, colpiva però una volta di più l’analogia con Berlusconi. La “profonda sintonia” non è solo nelle idee, nella claque (da Lele Mora a Briatore), nel personalismo, nel decisionismo, nel superomismo: è pure nella logorrea mediatica. Fiumi di parole, neanche fosse il leader di una cover band dei Jalisse. La zuppa del Renzi non cambia mai. Un po’ di iconoclastia rubacchiata al discount (“I partitini si arrabbiano? Si arrangiano. Basta al potere di ricatto”). Una spruzzata di numeri distribuiti a caso, per dare l’idea che lui è competente e ne sa (quando un politico è in difficoltà, nove volte su dieci si rifugia in una percentuale buttata là come una ciliegina rancida su una torta scaduta). Citazionismo diffuso, battutine da Pieraccioni debole, inchini al compagno riformista Tony Blair. E il mantra eterno delle primarie vinte (il consenso elettorale usato come clava contro i contestatori: anche questo, se è lecito asserirlo, ricorda vagamente i sillogismi berlusconiani). Quando Renzi va in tivù, più che argomentare dilaga. Più che disquisire, tracima. Più che il nuovo che avanza, sembra il vecchio che indietreggia. Decisionista come Craxi, logorroico-catodico come Berlusconi. È una (presunta) Terza Repubblica che somiglia tanto alla Seconda, e pure alla Prima. Nelle idee labili, nei concetti sdruccioli: nel dire niente, ma dirlo bene. Sembra quasi di essere tornati indietro di vent’anni. Ci si sente tutti più giovani, osservando e ascoltando Renzi. Forse perché il più vecchio è proprio lui.

Massimo Salvadori, fin qui apprezzato storico socialista, oggi scrive che Matteo Renzi è come Nelson Mandela, e anche come Togliatti...
E noi l'avevamo anche stimato...
Repubblica 23.1.14
Il dovere di trattare
di Massimo L. Salvadori


Se aver fatto entrare Berlusconi nel tempio di via del Nazareno avesse solo indotto l’ex viceministro Fassina a levare un grido di indignazione nei confronti di Renzi e a denunciare un senso di profonda vergogna per un atto che offende i valori più profondi del popolo Pd, la faccenda potrebbe essere tranquillamente archiviata. La cosa assume invece un maggiore rilievo dal momento che il presidente dimissionario del partito Cuperlo — pur astenendosi dagli eccessi retorici di Fassina — ha rilanciato l’accusa a Renzi di aver seminato «smarrimento» nelle file diessine per aver aperto la strada alla «piena rilegittimazione politica» di un Berlusconi «fuori gioco».
È ovvio che l’indignazione di Fassina e Cuperlo non va considerata in termini angustamente moralistici. Va intesa e discussa a livello propriamente politico, ragionando se Renzi abbia effettivamente la responsabilità di aver rilegittimato e riportato al centro della scena il Cavaliere trattando con lui (lasciando da parte la sciocchezza di fargli anche carico di averlo fatto incontrandolo nella sede del Pd). Nel novembre 2011 furono moltissimi, a partire da berlusconiani di prima fila, a ritenere che il Cavaliere fosse politicamente defunto. Poi le cose andarono per il verso opposto. Egli risuscitò per forza propria, per l’ingresso del suo partito e dei suoi uomini nei governi delle larghe intese, per la capacità di riconquistare un ragguardevole consenso elettorale, per essere quindi rientrato in gioco come soggetto di cui non si poteva non tenere conto. Altra sorpresa fu che la scissione del Popolo della libertà non indebolì il Cavaliere in modo da metterlo ai margini. Ma — dicono i Fassina e i Cuperlo — la sentenza della magistratura che ne ha fatto ufficialmente un condannato e la decadenza dal Senato lo hanno reso un intoccabile, anzitutto sul piano morale, con cui il segretario del Pd non avrebbe dovuto aprire trattative: averlo fatto è motivo di scandalo. Qui siamo all’ipocrisia per un verso e all’inettitudine politica per l’altro. All’ipocrisia perché non si doveva certo attendere la sentenza dei giudici per condannare Berlusconi, ormai noto da anni all’universo mondo per averne fatte di cotte e di crude; all’inettitudine politica poiché, non avendo purtroppo tutto ciò avuto quale esito di renderlo anche solo parzialmente ininfluente al fine di varare la riforma elettorale e le riforme istituzionali — che, ripetiamolo, le sinistre avevano sempre proclamato doversi realizzare cercando il rapporto con tutte le forze parlamentari — è stata ed è la realtà dei rapporti di forza a rendere necessarie le trattative col Cavaliere. Peccato che sia andata così, ma il realismo politico ha un sapore aspro. Se di vergogna si vuole parlare, allora bisogna dire che la grande vergogna è che troppi elettori abbiano continuato a rivolgersi a lui e che gli oppositori non siano stati finora capaci di sottrargli quel consenso; tanto da costringere l’uno e gli altri a sedere a un tavolo che certo scotta e a cercare le vie del compromesso.
Un compromesso è un atto compiuto da forze diverse e persino antagoniste per raggiungere uno scopo che è giudicato utile per entrambe e, se si vogliono usare i toni alti, per il bene comune, alla luce della massima di Machiavelli che la politica non si fa con ipater noster. I leader sono coloro che, partendo dalla considerazione realistica dei fatti, ne sanno tirare le conseguenze. Ed è sempre accaduto che compromessi di questo tipo siano stati accompagnati da accuse di cedimenti insopportabili. Due soli esempi — si parva licet componere magnis — . Quando Togliatti strinse il patto con Badoglio, vi furono coloro che, scandalizzati, si domandarono come fosse possibile che il capo del Partito comunista accettasse di accordarsi con il maresciallo che era stato il capo dell’esercito fascista ed era diventato l’uomo della monarchia che aveva portato l’Italia alla catastrofe. Eppure Togliatti lo strinse, sbloccando una situazione altrimenti senza sbocco. Quando venne liberato, Mandela, per aver trattato con Botha e de Klerk le condizioni della fuoriuscita del Sudafrica dall’apartheid, si trovò di fronte a membri dell’Anc i quali disapprovavano che egli avesse potuto accordarsi con i capi del sistema segregazionista. Costoro — racconta Mandela nella sua autobiografia Long Walk to Freedom — dicevano: «Mandela si è rammollito. È stato comprato dalle autorità. Indossa abiti a tre pezzi, beve vino e mangia buon cibo». E aggiunge: «Sapevo di questi mormorii, e intendevo confutarli. Sapevo che la via migliore per smascherarli era semplicemente essere franco e onesto circa tutto ciò che avevo fatto».
Orbene, tornando alle cose di casa nostra, nessuno può non ammettere che Renzi — e ha ragione di rivendicarlo — ha seguito la strada del leader sudafricano: aver trattato con l’indigesto Cavaliere alla luce del sole. Altra questione è naturalmente il pieno diritto dei suoi avversari politici, dentro e fuori il Pd, di avanzare tutte le critiche nel merito dei contenuti e dei loro effetti: a patto di non farci tornare al punto di partenza. Ma si lasci da parte il moralismo anti-politico. Il dovere del leader politico, la sua responsabilità nei confronti del popolo è di trattare a porte aperte.

Repubblica 23.1.14
È alto il rischio che la nuova legge possa finire di nuovo davanti alla Corte
Perplessità anche sulla soglia per il premio
Alla Consulta già affiorano i dubbi “Mai dato l’ok alle liste bloccate”


ROMA — Una riflessione che pesa. Ovviamente se a farla è un giudice della Consulta. E soprattutto se la sua opinione è condivisa da molti suoi colleghi. Praticamente da tutti quelli, un’ampia maggioranza della Corte, che il 4 gennaio hanno confermato la bocciatura del Porcellum. Decisa il 4 dicembre, confermata e motivata un mese dopo. La riflessione è questa: «Non sarei troppo sicuro nel ritenere che c’è un nostro pieno via libera a una legge elettorale in cui non sia prevista almeno una preferenza». E allora quel riferimento alle liste corte, alla spagnola, quindi con candidati riconoscibili? «Quello era un esempio per dimostrare quanto grande fosse lo svarione contenuto nel Porcellum, con le sue liste lunghe e bloccate».
L’interrogativo seguente è d’obbligo: quindi c’è il rischio che la futura legge elettorale,quell’Italicum frutto dell’incontro Renzi-Berlusconi, possa finire di nuovo davanti alla Consulta per un vizio di costituzionalità almeno sulla questione delle preferenze? Qui si raccolgono affermazioni convinte. E preoccupanti. Sulle quali riflettere. Del tipo: «La Corte ha aperto una porta importante per porre subito la questione di costituzionalità. Se il ricorrente Bozzi è dovuto arrivare in Cassazione per veder recepita la sua istanza, adesso la faccenda è cambiata. Un nuovo ricorso potrebbe arrivare sui nostri tavoli anche subito». Come andrebbe a finire? Anche in questo caso la risposta è assai pregnante: «La Corte, sta scritto nelle carte, non ha sdoganato un sistema senza preferenza».
È settimana “bianca” alla Consulta. Ma i giudici lavorano ugualmente. È troppo fresca labocciatura del Porcellum per non interrogarsi su che sta succedendo adesso. Anche se la premessa è necessaria: «La Corte non dà patenti di costituzionalità sulle leggi in itinere o approvate nella loro interezza. Igiudici valutano il singolo punto. Su quello si pronunciano. Proprio com’è avvenuto per il Porcellum». Già, sul premio di maggioranza e sulle preferenze, giusto i due fantasmi di potenziale incostituzionalità che cominciano ad agitarsi in queste ore. La preferenza che non c’è. La soglia minima per il premio di maggioranza, quel 35%, valutato come «ancora troppo basso».
Ma è la preferenza il vero scoglio. Perché, come dicono alla Corte, il passaggio che riguarda la necessità che ce ne sia almeno una viene considerato del tutto inequivoco. Anzi, chiaris-simo. Ovviamente i giudici sono stati attenti, nelle motivazioni, a non “sposare” un sistema elettorale, né avrebbero potuto farlo. Ma hanno valutato il diritto costituzionale di un cittadino ad esprimere un suo pieno voto e quindi una sua scelta. Per questo, alla Corte, ci si meraviglia sulla convinzione del palazzo della Politica che, sin dal primo momento, ha ritenuto che i giudici avessero sponsorizzato il sistema spagnolo e dato il via libera a quelle liste corte, da 3 a 6 candidati, che adesso fanno bella mostra di sé nel nuovo testo della legge elettorale. Ma questo via libera invece non c’è. «Quello era solo un esempio di un sistema diverso da quello previsto dal Porcellum». Tutto qui. «Ma non significava affatto che un sistema senza le preferenze sia costituzionale».

Il Sole 23.1.14
I costituzionalisti
Rischio premi «distorsivi»
di Lina Palmerini


Il punto dirimente di questa riforma, su cui ragionano i costituzionalisti, è l'effetto distorsivo creato dal mix tra premio di maggioranza e soglie di sbarramento che agirebbero da "moltiplicatore" a beneficio dei grandi partiti.

ROMA Se la battaglia politico-parlamentare ha messo nel mirino tre aspetti cruciali della proposta di riforma elettorale – liste bloccate, soglie e premio di maggioranza – negli ambienti istituzionali più alti e tra i costituzionalisti si ragiona essenzialmente su un solo aspetto. Quello dell'effetto distorsivo e disproporzionale causato dalla combinazione di due meccanismi: da un lato un premio di maggioranza del 18% che scatta se si supera la soglia del 35%, dall'altro una soglia di sbarramento al 5% per le forze politiche che gareggiano in coalizione. Insomma, chi arriva anche al 4,9% sarà fuori dal Parlamento. Allora, il dilemma è questo: cosa succede se la lista riesce a superare la soglia del 35% – incassando il premio – grazie anche al contributo di un partito che però arriva solo al 4,8% o di due partiti che arrivano al 4%? In pratica, le forze politiche più piccole sarebbero fuori dal Parlamento pur facendo guadagnare – con i loro voti – il premio di maggioranza al partito più grande con un'evidente esasperazione dell'effetto maggioritario. E provocando ciò che la Consulta censura, cioè la disproporzionalità tra rappresentanza parlamentare e rappresentanza reale.
Insomma, se alla Camera si affilano le armi sulle preferenze per scalzare le liste bloccate, il vero punto debole dal punto di vista costituzionale sono invece le soglie di sbarramento combinate col meccanismo del premio di maggioranza. È quella la battaglia che – se cavalcata dai partiti (e lo sarà) – avrà la sponda dei costituzionalisti e ambienti vicini alla Consulta che in queste ore vengono ascoltati dal Colle. Dunque, anche il Quirinale, che ha la funzione di vigilare sul rispetto del dettato costituzionale, potrebbe essere coinvolto su questo aspetto. Ricordiamo, infatti, che nel dispositivo della sentenza che ha bocciato il Porcellum, la Consulta censura espressamente «una eccessiva divaricazione tra la composizione dell'organo della rappresentanza politica e la volontà dei cittadini». E pur ammettendo la legittimità di un premio di maggioranza per perseguire «un obiettivo di rilievo costituzionale, qual è quello della stabilità del governo», mette però al bando «una disciplina tale da produrre un'alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica».
C'è perfino chi ieri si è messo a fare i calcoli di questa "alterazione profonda", come spiega Andrea Mazziotti di Scelta civica, membro della Commissione Affari costituzionali: «Ipotizziamo un'alleanza di FI con Ncd, Lega, Udc e Fratelli d'Italia: secondo sondaggi pubblicati oggi, tutti insieme arriverebbero al 35%, con FI al 22% e gli altri quattro partiti tutti sotto il 5%. Se si applicasse l'Italicum, FI, vincendo le elezioni, prenderebbe il 53% degli eletti, e quindi seggi aggiuntivi corrispondenti al 30% dei voti, i piccoli neanche un seggio: una chiara violazione della sentenza».
Un'opinione che si sta facendo strada già in Parlamento dove tutti danno per scontato che le soglie cambieranno (del 5%, dell'8% e del 12%) e verranno ritoccate verso il basso almeno dell'1% proprio per non creare quell'inciampo di incostituzionalità che invaliderebbe tutta la proposta. Ci sarebbe anche il placet di Matteo Renzi che considera intoccabili solo due punti: premio e ballottaggio.
Più dura sarà la battaglia sulle preferenze su cui non pare ci possa essere una sponda "costituzionale" visto che la logica delle liste bloccate non è di per sè illegittima se risponde al principio di «conoscibilità dell'eletto». E nel testo base presentato ieri, oltre le liste corte, si è scelto di "cambiare" le circoscrizioni in collegi plurinominali, e questo comporta che su ogni scheda sono scritti i nomi dei candidati di ciascuna lista. Dunque potrebbe essere più dura la battaglia parlamentare per il partito di Alfano, centristi e un pezzo di Pd.

Corriere 23.1.14
Legge elettorale, firma a tre. Anche Alfano con Renzi
In commissione democratici spaccati
Un penalista di Forza Italia guida i lavori
di Dino Martirano


ROMA — Il presidente della I commissione (Affari costituzionali), Francesco Paolo Sisto di Forza Italia, suona il pianoforte (pare che si sia esibito con il Cavaliere in una prova canora memorabile) e di professione fa l’avvocato penalista a Bari dove è molto quotato. Nel capoluogo pugliese, appunto, lo chansonnier Sisto ha avuto la ventura di difendere l’allora governatore Raffaele Fitto e da quel patrocinio legale gli è poi venuta voglia di tuffarsi in politica. Così — dopo aver fatto parte della «squadra giustizia del Cavaliere» insieme ai colleghi Ghedini e Longo — Sisto ha fatto il salto di qualità quando la sua vicinanza a Denis Verdini ha facilitato l’ascesa alla presidenza della I commissione, che conta ben 47 poltrone. Penalista più che costituzionalista, il galante Sisto (talvolta in Transatlantico si inchina e mima il baciamano con le colleghe) si è ritrovato dunque a dirigere il traffico sulla legge elettorale. Presidente e relatore, Sisto è stato contestato per il doppio incarico ma poi il Pd ha mollato la presa perché aveva altre gatte da pelare.
Infatti il partito che fu di Bersani schiera in commissione due squadre. La prima, soccombente nei numeri, è fedele al sindaco di Firenze: guida il drappello Maria Elena Boschi, la giovane avvocatessa fiorentina — membro della segreteria e responsabile del Pd per le Riforme (il posto che fu di Violante) — che di recente è stata ricevuta anche da Napolitano. Boschi ieri pomeriggio non era in commissione perché impegnata dietro le quinte a tenere i contatti con il segretario durante le ore convulse in cui è stata decisa la sorte della norma salva Lega. La Boschi, ma anche il portavoce di Renzi, Lorenzo Guerini (che non è in commissione ma è sempre nei paraggi), hanno avuto un bel daffare con il collega Alfredo D’Attorre che incarna più degli altri lo spirito dell’ex segretario Pier Luigi Bersani (anche lui membro della prima commissione). Come un’ombra accanto a D’Attorre, si muove il professore Andrea Giorgis, torinese vicino a Chiamparino, docente di diritto costituzionale — che in questi giorni ha organizzato il riavvicinamento tra «renziani» e «cuperliani», tant’è che gli iniziali rapporti di forza in commissione (13 a 8) vanno via via smussandosi: «Bisogna fare presto e bene sulla legge elettorale. Per cui non c’è nulla di male, e Renzi ci ha dato atto di non volersi mettere di traverso, se discutiamo di soglia di accesso al premio di maggioranza, di sbarramento e di liste bloccate». Col passare dei giorni D’Attorre e Giorgis hanno intessuto una tela grazie anche a un eccellente interlocutore in commissione che si chiama Gianclaudio Bressa (franceschiniano schierato con Renzi), uno che mastica pane e legge elettorale fin dalle elementari. Così hanno iniziato a ragionare intorno a un percorso finalmente unitario anche gli altri commissari del Pd non schierati con Renzi: Roberta Agostini (archivista, nominata da Bersani come responsabile Pari opportunità), l’ex popolare Maria Gullo, il bersaniano Enzo Lattuca (il più giovane deputato del Pd, classe 1988, dottorando in diritto costituzionale a Bologna), il palermitano Giuseppe Lauricella (docente di diritto pubblico e figlio dell’ex ministro socialista Salvatore Lauricella), il lettiano Marco Meloni (responsabile università con Bersani), il padovano Alessandro Naccarato (vicino al ministro Zanonato), Barbara Pollastrini (parlamentare da molte legislature, moglie del banchiere Piero Modiano), e l’ex ministro Rosi Bindi.
Resta difficile la posizione di Gianni Cuperlo che ancora ieri sera, dopo una fugace apparizione in commissione, diceva che non tollera l’accusa di «comportamento strumentale» mossagli da Renzi. I renziani della commissione (Ettore Rosato, Emanuele Fiano, Luigi Famiglietti, Daniela Gasparini e Matteo Richetti, più il lettiano Francesco Sanna) sanno però che dovranno trattare con i «pontieri» di Cuperlo. Sanna, per esempio, ha contestato la parte in cui la legge sottrae al Viminale il compito di disegnare i collegi e li affida al Parlamento. Come dire che anche chi appoggia Renzi non considera tutto il testo base come oro colato. A bordo campo, comunque, osservano e sono pronti a intervenire altri membri della commissione che non hanno nulla da invidiare in quanto a preparazione: Pino Pisicchio (Centro democratico), l’ex ministro Ignazio La Russa (Fdi), l’ex ministro Maria Stella Gelmini (FI), il vendoliano Gennaro Migliore, il costituzionalista del Movimento 5 Stelle Danilo Toninelli, l’avvocato Gregorio Gitti (Per l’Italia).

Repubblica 23.1.14
Italicum, anche Alfano firma il testo ma M5S, sinistra Pd e piccoli partiti promettono battaglia sulle preferenze
D’Alema: si può correggere. Giallo sulla norma salva-Lega
Quel fronte che vuole Matteo a Palazzo Chigi


IN QUESTI giorni lo schema “politico” sembra chiaro. Tutti si attengono o fanno finta di attenersi ad un binario piuttosto lineare. Matteo Renzi lavora al rilancio del suo partito, il Pd, e si è impossessato del gioco sulle riforme: la legge elettorale, la trasformazione del Senato e la modifica del Titolo V della Costituzione.

C’è un testo base dell’Italicum. Un documento ufficiale, articolo per articolo, presentato ieri sera alla commissione Affari costituzionali della Camera e firmato dai partiti del patto a tre: Pd, Forza Italia e Nuovo centrodestra. La bozza di legge ricalca alla lettera l’accordo sottoscritto da Renzi, Berlusconi e Alfano. Ma la battaglia è appena iniziata e si consumerà nello scontro tra i favorevoli alle liste bloccate e i sostenitori del voto di preferenza. Con numeri, in commissione, che lasciano prevedere pericoli per la formula studiata dal segretario del Partito democratico.
Gianni Cuperlo annuncia emendamenti «di singoli parlamentari» al testo base. «Non saranno iniziative di corrente ma libere scelte dei deputati». I “non renziani” di varie anime, nella commissione, sono 12. Insieme agli 8 di Grillo, ai 2 di Ncd, ai 3 di Sel, ai 2 di Scelta civica, ai 2 della Lega e ai solitari esponenti di Fratelli d’Italia e Popolari per l’Italia possono costituire una maggioranza capace di frenare la bozza sul punto chiave concordato tra Renzi e Berlusconi: il no alle preferenze. Sarebbe un’asse molto trasversale e naturalmente molto teorico. Un primo segnale di caos però è evidente: la mancata firma al testo di due componenti della maggioranza di governo, i montiani e il gruppo di Casini. Ecco perché l’attenzione è massima. I tempi stretti possono peggiorare il quadro. La legge dovrebbe arrivare in aula lunedì. Anche lì le modifiche sono sempre possibili, ma è evidente che un voto compatto in commissione sarebbe importantissimo per la tenuta dell’impianto. Per questo le prossime ore sono decisive.
Da lontano è intervenuto anche Massimo D’Alema. «Che si sia arrivati a un’intesa è un fatto positivo — ha detto l’ex premier —. Certo, ora il Parlamento ha la libertà di approfondire, correggere, decidere, secondo le regole democratiche normali». Ma quali correzioni sono accettabili e salvaguardano l’Italicum e quali no? Il bersaniano Alfredo D’Attorre prepara le sue modifiche: «Si chiama testo base apposta. Può e deve essere corretto». Da qui comincia la battaglia. In realtà Scelta civica e Sel vengono considerati “alleati” non solidissimi per condurre una partita contro le liste bloccate. Possono diventarlo invece i 5 stelle.
Il lettiano Francesco Sanna, sostenitore dell’intesa iniziale, è convinto che gli emendamenti arriveranno. «E non riguarderanno la soglia del premio al 35 per cento o la soglia di sbarramento. Ma le preferenze o un sistema simile. Forse le primarie dei candidati stabilite per legge e per tutte le forze politiche». L’altro scoglio è la clausola di salvaguardia studiata per “salvare” la Lega, che un radicamento territoriale e oggi nei sondaggi è distantissima dallo sbarramento al 5 per cento. «Non vogliamo aiutini», dice il segretario Matteo Salvini. Però quella clausola ha creato il primo stop in commissione che hadovuto riunirsi di nuovo in serata. La norma “salva-Lega” è scomparsa dal testo base. Ma Forza Italia ha promesso al Carroccio, in cambio di un via libera, aggiustamenti in corso d’opera per recuperare la clausola. L’altro dubbio è sui tempi. Sel ha chiesto una sospensione dei lavori per il suo congresso che si celebra nel week end. Si parla di un invio in aula il 29, mercoledì, invece di lunedì. Renzi e Forza Italia però vigilano anche sul calendario. Perché un slittamento rischia di vanificare il patto.

Corriere 23.1.14
Renzi vuole il sì alla Camera per avere più forza al tavolo del programma
E propone a Orlando il posto di Cuperlo
di Maria Teresa Meli


ROMA — Matteo Renzi non si ferma. Sa che lo stop per lui sarebbe duraturo. Non si vuole far imbrigliare, né intende arretrare. «La palude, no!», è il suo slogan. Soprattutto da quando ha capito che il gioco dei suoi avversari interni è quello di ingabbiarlo tra «i lavori parlamentari» e le «liturgie di partito».
Su questo secondo fronte, il segretario del Pd è preparato. Sa già cosa sarà e cosa potrà essere. Perciò ha proposto ad Andrea Orlando di prendere la presidenza dell’assemblea nazionale del Partito democratico. È un ministro, è vero, e ha anche altro da fare, ma per Renzi sarebbe una polizza di non poco conto. Soprattutto se Matteo Orfini, come pare, è disposto a entrare in segreteria. Equivarrebbe a dichiarare al partito che Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani, che spingono per la rottura, contano poco, o quasi nulla.
Ma in realtà è un altro il vero obiettivo del segretario del Partito democratico: non accettare i tempi che il presidente del Consiglio vorrebbe imporgli. Letta ha provato a forzare, una volta incassato l’accordo sulla riforma elettorale. Il premier pensava di risolvere la situazione con un rimpasto. Il sindaco di Firenze, però, non gli ha dato sponda. I due si sono sentiti per telefono, anche se entrambi negano ufficialmente questo contatto. Renzi, infatti, non vuole chiudere tutto adesso. E non gli interessa che il presidente del Consiglio voglia andare a Bruxelles al vertice europeo con un accordo di maggioranza sicuro in tasca. Prima, a suo avviso, è necessario percorrere delle tappe, ineludibili per lui. Lo ha spiegato ai fedelissimi, senza prenderla alla larga: «Io voglio portare le proposte per il patto di governo in direzione, prima di andare da Enrico». Non è ostruzionismo, dice lui. E non è nemmeno un modo per ostacolare il premier: «Figuriamoci, Letta mi deve ringraziare, perché sto facendo di tutto per dare un senso a questa legislatura, che non lo avrebbe se non ci fossero le riforme. Perciò mi aspetto un grazie». Che difficilmente arriverà, visto che il sindaco di Firenze sta cambiando il percorso immaginato dal presidente del Consiglio.
Già, perché non solo sta allontanando il traguardo del 29, quando Letta andrà a Bruxelles, ma sta facendo di più. Come ha spiegato ai fedelissimi: «Le proposte che dobbiamo mettere in campo non sono le mie, sono quelle del Partito democratico, non c’è solo il segretario del Pd, ma c’è tutto il partito, che deve decidere». Di più: i tempi vengono dilatati perché il sindaco di Firenze vuole «arrivare al tavolo delle trattative di governo con la legge elettorale». Con i suoi il sindaco è stato più che esplicito: «Sul programma di governo si tratta dopo che la legge elettorale nuova è stata votata alla Camera». Così, solo così, «noi partiamo con un altro peso al tavolo delle trattative». E ancora: in questo modo il Partito democratico avrà «un altro peso nel confronto».
E allora il ruolino di marcia di Letta, secondo il sindaco di Firenze, quale deve essere? Non certo quello di un rimpasto veloce, né di un Letta bis da fare «pronti e via». Come spiega il segretario del Pd ai suoi: «Capisco le aspirazioni di Enrico, ma il timing è quello che ho detto». Ossia, prima la direzione che deve discutere sui «Jobs act», poi il resto. Tradotto: prima di febbraio non firmo niente. Ri-tradotto: se fosse per Renzi fino a metà del prossimo mese il patto di governo non va firmato. Perché «per qualche poltrona io non cambio il mio punto di vista». Perché, il sindaco di Firenze non vuole farsi «imbrigliare» in un gioco che «non è il mio»: «La palude no, assolutamente no», quello è l’imperativo di Renzi e ogni sua mossa prossima ventura va decrittata con questa chiave di lettura. Ma siccome il segretario è pragmatico e realista non esclude un incontro a breve con il premier per discutere di tutto ciò. Forse anche oggi.

Repubblica 23.1.14
Renzi vorrebbe “spiazzare” e intanto litiga con Epifani, uno dei candidati alla carica. Cuperlo: “Il partito non è una caserma”

E per la presidenza del Pd spunta l’ipotesi Bersani

ROMA — Botte da orbi nel Pd. Le dimissioni di Gianni Cuperlo e la corsa per la sua successione, i veleni e le recriminazioni si fondono dando vita a un lacerante braccio di ferro interno. A largo del Nazareno è già partita la corsa per la poltrona di Presidente. E nelle ultime ore è iniziata a farsi largo un’ipotesi suggestiva: affidare la guida dell’assemblea dem a Pierluigi Bersani, da poco rientrato a casa dopo l’intervento.
Matteo Renzi gioca in queste ore la delicatissima partita della legge elettorale. Eppure ha già iniziato a mettere la testa sul dossier. Convinto, il segretario, della necessità di rilanciare: «Voglio spiazzare». Ecco allora l’idea fatta trapelare da ambienti della maggioranza dem - di proporre all’ex segretario l’incarico appena abbandonato da Cuperlo.
Non è escluso che Bersani alla fine accetti. Ammesso che il clima interno migliori, ammesso che davvero ottenga garanzie - come sottolineato in mille contesti - per un Pd capace di mostrarsi «comunità politica nella quale tutti possono dire quel che pensano». Sulla pagina Facebook del candidato premier alle ultime Politiche, intanto, si moltiplicano i messaggi di incoraggiamento, accompagnati dalla richiesta di tornare in pista: «Mai come in questo momento c’è bisogno di te»,scrivono. Oppure ancora l’ala dura: «Riposati che poi c'è da rimediare ai danni di quel moccioso».
La rosa di nomi vagliata in queste ore per individuare il dopo Cuperlo non si esaurisce con Bersani. C’è innanzitutto Andrea Orlando, ministro dell’Ambiente in quota “giovani turchi”. A loro, per ragione di equilibri,potrebbe spettare la Presidenza. Anche se Matteo Orfini gioca in difesa: «Io? Non credo di essere adatto. E Orlando fa il ministro». Circolano anche i nomi di Walter Veltroni e dell’attuale vicepresidente Sandra Zampa.
Più difficile invece che possa spuntarla Guglielmo Epifani, protagonista due sere fa di un durissimo botta e risposta con Renzi. «Caro Matteo - ha tuonato l’ex leader della Cgil durante la riunione del gruppo - con Cuperlo sei stato screanzato». «I miei genitori mi hanno insegnato bene l’educazione», l’infastidita replica del sindaco di Firenze. I tempi della successione, in ogni caso, restano comunque incerti.«Per l’assemblea deve venire la gente da tutta Italia - sottolinea Zampa - Ci vorrà qualche settimana. Credo che entro febbraio chiuderemo la vicenda».
Non accenna a placarsi, intanto, lo scontro interno. Ieri, poche ore dopo le dimissioni di Cuperlo, si è riunita la segreteria del Pd. Poi è toccato proprio al candidato sconfitto alle recenti primarie affondare il colpo: «Mi sono dimesso perché ho posto delle questioni di merito, dei dubbi. Mi aspettavo che nella replica del segretario ci fosse la possibilità di ascoltare delle opinioni che rispondessero a quei dubbi. Invece c'è stata una denigrazione dell'interlocutore, non funziona così nella vita di un partito». Poi, per chiarire ancora meglio il concetto: «Non sono particolarmente permaloso, ma sono stato un po’ colpito e un po’ ferito. Il Pd non può essere una caserma, dove chi dice una cosa viene apostrofato non per quel che dice, ma per quel che si pensa voglia sottendere».

l’Unità 23.1.14
Tensione nel Pd su gestione del partito e legge elettorale
Guerini: «Nessun pericolo di scissione»
Epifani a Renzi: «Tra di noi serve rispetto»
Il segretario: «Non mi insegnate voi l’educazione»
Bindi: «Correggeremo l’Italicum in commissione»
di Andrea Carugati


ROMA Di buon mattino il portavoce della segreteria Pd e renziano di ferro Lorenzo Guerini s’incarica di sgombrare il campo da qualunque ipotesi di scissione. «Assolutamente no, supereremo questa situazione, non mi pare molto drammatica. La democrazia nel Pd è sicuramente praticata...».
Parole che arrivano il giorno dopo le dimissioni di Cuperlo, una ferita che non si è ancora rimarginata. La minoranza è in subbuglio, ferita e anche divisa al proprio interno, tra chi si prepara a dare battaglia sulla legge elettorale e chi, come i Giovani Turchi, intende attenersi alla disciplina di partito. Il gruppo che fa riferimento al ministro Andrea Orlando e a Matteo Orfini non condivide la linea del muro contro muro contro Renzi, e si pone in modo più dialogante verso il nuovo segretario. Non ultimo, il dalemiano Enzo Amendola plaude al raccolto di Renzi e ricorda ai compagni della minoranza che «sulla legge elettorale abbiamo portato a casa il doppio turno, non si può certo parlare di un compromesso al ribasso». Guerini, dal canto suo, ridimensiona la scelta di Cuperlo: «Credo che si trovasse un po’ stretto nella doppia funzione di presidente e leader della minoranza interna...». «Mi sono dimesso perché denigrato, il Pd non può essere una caserma, bisogna saper costruire una convivenza», ha ribadito ieri il presidente dimissionario.
Negli stessi minuti in cui il portavoce cerca di dare l’immagine di un Pd un po’ rasserenato, arriva la bordata di Debora Serracchiani, membro di punta della segreteria, contro il ministro bersaniano Flavio Zanonato, con tanto di richiesta di dimissioni. Un’altra tegola, un’altra stilettata che colpisce al cuore la minoranza. «Non è certo un bel modo per ricostruire un clima di serenità», commenta Davide Zoggia, che chiede al segretario «una parola chiara» su questa vicenda. Che non arriva, e anche questo è un segnale del clima. Renzi, consapevole che la minoranza sta vivendo la sua stagione più difficile, non accenna a frenare le intemperanze. Nella notte tra martedì e mercoledì, alla riunione con i deputati Pd, ha spiegato che se salta il patto sulle riforme si torna dritti al voto. E in chiusura ha avuto un duro scambio di battute con Gugliemo Epifani. L’ex segretario ha bacchettato il suo successore per il caso Cuperlo: «C’è stata mancanza di rispetto». Il sindaco ha replicato: «Non accetto questa critica, l’educazione me l’hanno insegnata i miei genitori». E ha aggiunto: «Mio nonno, che faceva il sensale alle vendite di maiali, mi ha anche spiegato che una stretta di mano vale più di tante parole, se io faccio un accordo poi lo rispetto... Poi, se siete tanto bravi, perché in questi mesi non avete raggiunto uno straccio di intesa sulla legge elettorale?».
Altra benzina sul fuoco. Anche perché il nome di Epifani da martedì circolava insistentemente per la successione a Cuperlo alla presidenza, e negli ultimi tempi i rapporti con Renzi erano sempre stati buoni. Presto per dire che questa ipotesi sia tramontata. L’assemblea Pd non sarà riconvocata prima di marzo, e fino a quella data ci saranno i due vicepresidenti Sandra Zampa e Matteo Ricci. Pippo Civati ieri si è chiamato fuori dalla corsa «per la mia incolumità», ha scherzato, e anche l’ipotesi di una promozione della Zampa viene considerata prematura. Sullo sfondo l’ipotesi che la presidenza vada un giovane turco come Andrea Orlando o Francesco Verducci. Barbara Pollastrini, il cui nome era circolato, spiega che «prima di fare nomi bisogna risolvere il problema politico che ha posto Gianni con le due dimissioni».
In questa fase il fronte principale della minoranza resta quello della legge elettorale. In molti, compreso Alfredo D’Attorre, danno atto a Renzi di aver aperto a modifiche quando ha fissato solo due paletti irrinunciabili: doppio turno e premio di maggioranza. «Ci muoveremo in questo solco», assicura il deputato bersaniano, che conferma l’intenzione di presentare emendamenti contro le liste bloccate. «Anche i renziani lo facevano, ad esempio sulla legge per il finanziamento dei partiti. Poi si cercherà una sintesi». Sulla stessa linea anche Cesare Damiano, che assicura «battaglia» per le preferenze, e Rosy Bindi che annuncia: «Anch’io presenterò delle proposte di modifica».
Certo, in molti spiegano a microfoni chiusi di non voler tirare troppo la corda, «non possiamo essere noi i responsabili del fallimento della proposta di riforme». Altri come Zoggia guardano alle mosse di Forza Italia con il sospetto che alla fine sarà il Cavaliere a far saltare tutto. Doris Lo Moro, capogruppo Pd in commissione Affari costituzionali al Senato, arriva a minacciare le dimissioni nel caso in cui il testo della riforma elettorale dovesse arrivare blindato. E Damiano avverte: «Non vogliamo un partito a comando unico. Abbiamo una nostra autonomia, non siamo dei passacarte...»

Il Sole 23.1.14
Pd. La minoranza di sinistra si riunisce oggi, chiede chiarezza e avverte: siamo più del 18%
Cuperlo: «Il Pd non è una caserma»
di An. Mari.


ROMA Non accenna a placarsi lo stato di agitazione della minoranza di sinistra del Pd, dopo le dimissioni dalla presidenza dell'Assemblea di Gianni Cuperlo e la risposta ferma del segretario Matteo Renzi. «C'è stata una denigrazione dell'interlocutore, non funziona così nella vita di un partito. Il Pd non è una caserma». Così Cuperlo è tornato ieri sera a Otto e mezzo sull'episodio. Oggi tutta la sua area terrà una riunione alle 14, nella sala Berlinguer dei Gruppi Parlamentari. Un'occasione per guardarsi in faccia e fare il punto della situazione. C'è la consapevolezza di aver perso alla causa i Giovani Turchi che ormai hanno avviato un dialogo continuo con il segretario sulle riforme. Ma, assicurano fonti della maggioranza, l'obiettivo vero è quello di ottenere un incarico in segreteria. C'è quello della Cultura, ad esempio, ancora nelle mani del segretario che ne ha mantenuto l'interim all'inizio del mandato.
Quello che si esclude, al momento, è che ci sia la tentazione di qualcuno di lasciare il partito, di «guardare a sinistra», magari a un nuovo soggetto da far federare con Sel. «Nulla di tutto questo», viene assicurato. C'è invece la necessità di «avere parole di chiarezza su quanto accaduto», ha spiegato Danilo Leva, «che non può essere liquidato come una battuta. La nostra posizione è chiara. Il nostro punto di riferimento, per quanto mi riguarda, rimane Gianni Cuperlo. Le sue dichiarazioni hanno un valore politico e riguardano il modo di stare in un partito e di discutere all'interno dei suoi organismi». Per Alfredo D'Attorre, «Renzi non è stato in grado di garantire il gesto apprezzabile fatto quando ha chiesto a Gianni Cuperlo di presiedere l'assemblea». Certo, ha ammesso D'Attorre, l'immagine che la minoranza dem sta dando di sé è di una realtà disomogenea. Tuttavia, ha sottolineato l'esponente cuperliano, «i temi posti in questi giorni, come la ritrovata centralità di Berlusconi e la resurrezione del Porcellum sotto mentite spoglie, sono avvertite da una fetta ben più larga del 18 per cento» del partito.
La scelta del successore di Gianni Cuperlo «è l'ultima cosa a cui sta pensando il segretario in questo momento», dicono dalle parti di Renzi e anche la suggestione di nomi evocativi per quell'incarico è destinata a rimanere tale. Walter Veltroni, ad esempio, ha fatto sapere a chi gli è più vicino di non avere alcuna intenzione e di non aver ricevuto proposte di occupare la sedia appena lasciata vacante da Cuperlo: «Non esiste», è stato il laconico sms inviato a chi gli riferiva le indiscrezioni delle ultime ore. «Impercorribili, al momento» vengono definite anche le strade che portano al Matteo Orfini e Guglielmo Epifani (con cui martedì Renzi ha avuto uno scontro, nella riunione del gruppo, sul caso Cuperlo). Per quello che riguarda Pippo Civati, «non gli conviene accettare l'incarico perché, finita la partita delle riforme, si comincerà a discutere dei temi veramente divisivi all'interno del partito: dal fisco alla politica industriale, passando per i diritti civili», dicono parlamentari vicini al politico brianzolo

Il Sole 23.1.14
Il duello. D'Alema: Camere libere di correggere
Cuperlo: solo emendamenti condivisi da tutto il partito
«Piccoli» e minoranza Pd pronti a dare battaglia sulle modifiche
di Li.P.


ROMA In serata approda il testo alla Commissione Affari costituzionali dopo l'ennesimo fermento in Translantico sui motivi dello slittamento. Un rinvio condito da un giallo politico sulla presenza o meno di una norma salva-Lega che ha suscitato l'ira dei piccoli partiti esclusi dal patto tra Forza Italia e il Pd di Matteo Renzi. Un patto che si estende anche al Ncd che firma il testo base mentre Scelta civica se ne tiene fuori pur considerandolo un buon punto di partenza. In realtà, il tema di scontro politico restano alcuni punti della proposta e se su questi scatterà o no il fuoco amico dentro al Pd. Sembra dare il via alla battaglia una dichiarazione di Massimo D'Alema, perfetta dal punto di vista delle regole democratiche, ma che da alcuni nel Pd viene interpretata come il "la" al Vietnam parlamentare contro Renzi. «Sulla legge elettorale il Parlamento è chiaramente libero di correggere – ha detto Massimo D'Alema al Tg3 – ora si è aperto un processo che io spero si concluda con le migliori soluzioni. Certo, è nella libertà del Parlamento di approfondire, correggere, decidere. Secondo le regole democratiche normali».
Ma è proprio su queste modifiche che si accende il dibattito soprattutto nella minoranza Pd. Ieri Gianni Cuperlo a Otto e mezzo su La7 ha dichiarato che non ci saranno emendamenti di corrente ma «emendamenti migliorativi al testo e proporremo che sia tutto il gruppo a farli propri». Questo però non vuol dire ritirarsi perchè – come si sa – i numeri del gruppo parlamentare non danno la maggioranza a Renzi. E il primo fronte che apre Cuperolo è la "restaurazione" delle preferenze. A definire il perimetro del dibattito parlamentare è stato Dario Nardella, renziano che chiarisce come le «modifiche dovranno essere accolte da tutti i contraenti del patto, altrimenti non solo accettabili». Un modo per sbarrare la strada a maggioranze trasversali in Parlamento fatte con pezzi di Pd e Ncd e i piccoli partiti. Ad agitare la giornata c'è stato pure il giallo sulla clausola cosiddetta "salva Lega" su cui il presidente Sisto, ancora prima della presentazione del testo base aveva detto che si trattava «notizie prive di fondamento». Una notizia che probabilmente era già arrivata alle orecchie di Matteo Salvini che – contrariamente a quanto diceva Bossi che chiamava già allo scontro – respingeva la "mano tesa" di FI. «Avviso ai dis-informatori: la Lega non ha bisogno di "aiutini"».
Ora si aprono i giochi, prima in Commissione dove già Ncd si prepara all'offensiva per il ritorno delle preferenze come diceva Renato Schifani: «La nostra firma al testo comporta la condivisione dell'impianto complessivo ma non le liste bloccate». E sulle barricate c'è pure il Movimento 5 Stelle che ieri ha dato filo da torcere al presidente di Commissione di FI Sisto sia sulla violazione del regolamento che sul testo arrivato incompleto per la mancanza delle tabelle sui collegi. Ma se in Parlamento si battagliava, sulla rete Beppe Grillo ha ringraziato: «La consultazione del M5s sul primo punto della legge elettorale si è conclusa. Grazie a tutti!». E il primo quesito era sulla scelta tra maggioritario e proporzionale. «Hanno votato per il proporzionale in 20.450 E per il maggioritario in 12.397. I votanti in tutto sono stati 32.847», si legge sul blog di Grillo.

Corriere 23.1.14
Dall’Unità a Youdem, la stampa di partito all’opposizione
Legge elettorale, governo, strategie: le bordate dei media dem al segretario
di Alessandra Arachi


ROMA — Dall’avvento di Matteo Renzi alla guida del Pd c’è un’anomalia che accompagna gli organi d’informazione vicini al partito: succede che in gran parte non appaiono in linea con il segretario.
Non fa velo, ad esempio, che a dirigere Youdem , la web tv del partito, c’è una bersaniana di ferro come Chiara Geloni. Non è un mistero, poi, che l’editore di riferimento dell’Unità , Matteo Fago, prima delle primarie del Pd fece una dichiarazione chiara e netta: «Non voterò Matteo Renzi». Eppure il segretario non sembra curarsi della questione. Non ancora, perlomeno.
Mentre Europa condivide per lo più la sua linea, per il momento Renzi non si è occupato di cambiare qualcosa dentro Youdem . Racconta Chiara Geloni: «Io sto dirigendo la televisione con un contratto scaduto, un contratto in proroga: avevo concordato con Epifani di rimanere fino alle primarie. Sto andando avanti in attesa di una sostituzione. Faccio la riunione tutti i giorni e tutti i giorni do indicazioni ai nove giornalisti che lavorano a Youdem , ma da tempo ho chiesto a Renzi un incontro».
Chissà, probabilmente il segretario non ha trovato il tempo per decidere di sostituire un direttore di una televisione o di modificare l’assetto societario di un quotidiano che da quando Renzi ha preso le redini del Partito democratico non gli ha risparmiato critiche, soprattutto in prima pagina.
È di quattro giorni fa l’editoriale di Claudio Sardo, l’ultimo direttore del giornale prima dell’attuale, Luca Landò, dal titolo eloquente: «Il fratello del Porcellum». E un attacco del pezzo altrettanto sferzante: «Altro che sistema spagnolo. Da queste convulse trattative sembra venir fuori una fotocopia del Porcellum...». Ed è di ieri l’articolo di Nadia Urbinati che contesta la riforma del Senato annunciata da Matteo Renzi. Un occhiello su sfondo colorato: «La polemica» e sotto un titolo non certo morbido: «La democrazia non si taglia». Nelle prime righe che partono dalla prima pagina Nadia Urbinati non dimentica di polemizzare anche per la «profonda sintonia» di Renzi con l’ex senatore Berlusconi.
Luca Landò, direttore del quotidiano fondato da Antonio Gramsci (nel 1924) rivendica l’autonomia dell’Unità . Dice: «Da quando siamo tornati in edicola nel 2001 con i finanziamenti di editori privati abbiamo sempre agito con autonomia. Ricordo quando ci fu il G8 di Genova nel 2001, il giornale prese una posizione netta in favore degli studenti, che non era quella del partito». Vero.
Anche l’Unità di Furio Colombo (Piero Fassino segretario) marcò più volte l’autonomia del partito coniando la parola «regime» riferendosi al governo di Berlusconi. Ma l’anomalia, questa volta, è che gli attacchi del quotidiano sono spesso diretti al cuore del proprio partito, ovvero il segretario. Luca Landò non si scompone: «La nostra impostazione è questa: il Pd ha tante anime e ne ha così tante che alla fine confondono il povero elettore. Dunque pensiamo che non ci sia niente di meglio che offrire il quotidiano come luogo di discussione. Come succederà ad esempio sul giornale che domani andrà in edicola». Sull’Unità di oggi infatti ci sarà una critica firmata da Gianfranco Pasquino e un articolo a favore, del costituzionalista Francesco Clementi. Chiosa il direttore: «Non è colpa mia se il clima che viviamo è questo. Volenti o nolenti siamo infatti in un clima da primarie perenne».

l’Unità 23.1.14
Stiamo attenti al conformismo
Valorizzare il dissenso
di Gianfranco Pasquino


Eppure, coloro che erano stati preventivamente tanto criticati da Renzi per la loro voglia di proporzionale, hanno avuto moltissimo. Alla fine, l’82% dei parlamentari sarà eletto con un sistema proporzionale con alcune soglie di sbarramento per scoraggiare i partiti piccoli. Chiedo scusa, non saranno «eletti», ma nominati dai segretari dei partiti (e/o dai capi corrente, se forti).
Il bipolarismo, che non è (mai stata) una delle aspirazioni più diffuse fra i protagonisti della politica italiana, viene artificialmente garantito dal premio di maggioranza, quasi inevitabilmente alquanto eccessivo in numero di seggi. Meglio sarà se la sua attribuzione avverrà attraverso uno specifico turno di ballottaggio, a prescindere dalle percentuali di voto ottenute nel primo turno. Seppure tutt’altro che ottima, la proposta elettorale approvata dalla Direzione, accompagnata dalla riforma del bicameralismo tutt’altro che perfetto, consentirebbe di iniziare un percorso riformatore nella speranza che tutti abbiano il fiato per portarlo a termine. Meglio sarebbe, quindi, che il fiato, anche del segretario del partito e dei suoi sostenitori non si disperdesse in affermazioni sbagliate e in attacchi personali irrispettosi.
No, il 68 per cento degli elettori di Renzi non gli hanno dato nessun mandato imperativo a qualsivoglia proposta elettorale, né alle tre presentate il 2 gennaio né all’ultima, frutto di un negoziato con il solo Berlusconi. Quindi, nessuna delle proposte può essere né rivendicata come legittimata dal voto né imposta con il diktat «prendere o lasciare». Qui entra in gioco la concezione del partito, ovvero che cosa è e che cosa debba essere un partito. Qui bisogna interrogarsi sui compiti e sul ruolo della Direzione e dell’Assemblea nazionale la cui decisione a favore del doppio turno di collegio non è mai stata abrogata. Qui, infine, bisogna riflettere sui rapporti fra maggioranza e minoranza (opposizione) negli organismi dirigenti.
Renzi ha vinto alla grande la battaglia politica per la segreteria. Se vuole trasformare il partito, magari ricordandosi di avere anche detto che dall’affollatissimo «carro del vincitore» avrebbe fatto scendere gli opportunisti (non m’importa quante orecchie staranno fischiando), deve procedere ad una battaglia culturale nella quale conteranno le sue idee (anche quelle condivise con Berlusconi) confrontate, nel rispetto reciproco, con quelle di coloro che hanno votato Cuperlo e Civati.
L’ambizioso disegno del percorso elettorale e costituzionale formulato da Renzi potrà dare dei frutti soltanto se l’intero Partito democratico lo sosterrà, pure accettando qualche necessaria modifica. Un Parlamento di nominati può piacere solamente ai nominati, ma deve essere respinto da coloro che vogliono cambiare il rapporto fra elettori e politica, e sarà certamente osteggiato da coloro che sanno di non venire ri-nominati da Renzi.
Non basteranno le primarie per i parlamentari in un clima di conformismo e di palese ostilità nei confronti del dissenso che spesso è il sale della politica. Tuttavia, il dissenso interno non è motivato soltanto da carriere probabilmente concluse (con perdita di esperienze e competenze per il Pd e per il Parlamento). Discende anche da una visione del partito, non come «ditta», ma come organismo collettivo capace di produrre idee e di conquistare consenso. In qualsiasi modo, il Partito democratico finisca per essere indebolito, le chances di approvazione delle riforme di Renzi saranno drasticamente ridimensionate. Il rischio più grande, per tutti, è che il governo Letta non riuscirà a mangiare il panettone 2014. È indispensabile «cambiare verso». Presto.

il Fatto 23.1.14
Guerre sindacali: Maurizio Landini
“La Cgil è snaturata ora un referendum”
di Salvatore Cannavò


Maurizio Landini riprende il suo ruolo di spirito critico dentro la Cgil. Dopo il riavvicinamento con la segreteria di Susanna Camusso verso un congresso nazionale unitario, il segretario della Fiom ha attaccato molto duramente l’accordo siglato recentemente da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria sulla rappresentanza sindacale. “Rischia di snaturare la storia della Cgil”, dice Landini che ripete una richiesta fondamentale: la consultazione di tutti i lavoratori.
Perché è grave quello che è successo in Cgil?
La cosa grave è che si impedisce ai lavoratori di poter valutare e decidere. Si viene a verificare una mancanza di democrazia.
Non c’è un congresso in corso?
Una cosa è il congresso, che discuterà dei documenti e degli emendamenti da noi presentati, un’altra è la consultazione tra tutti i lavoratori o tra gli iscritti sulle norme sancite da quell’accordo. Esattamente come fu fatto riguardo al pre-accordo del 28 giugno 2011.
Quali sono i punti che considera davvero gravi?
Innanzitutto il fatto che vengano stabilite sanzioni per i sindacati che non rispettano quell’accordo. Inoltre, si inserisce un “collegio arbitrale” a livello confederale che, di fatto, riduce il ruolo delle categorie. C’è poi un ridimensionamento del ruolo delle Rsu. Ricordo che la Cgil, nel 2009, non firmò un accordo che andava nella stessa direzione.
Si sente commissariato dalla decisione di stabilire un arbitrato?
Quel meccanismo rischia di essere esercitato in questo modo. In ogni caso, eventuali sanzioni di atteggiamenti dei delegati saranno considerati da noi inaccettabili.
Sta facendo un’accusa molto netta alla democrazia interna.
Quello che viene messo in atto è un modello sindacale chiuso: la Corte costituzionale ha stabilito che ci sono diritti non comprimibili. Ma ora dei soggetti privati, tali sono i sindacati, si riservano il diritto di decidere su quelli. È un’idea proprietaria dei diritti di chi lavora che snatura la storia della Cgil e apre una pericolosa deriva autoritaria.
Senta Landini, ma come fa a stare in una Cgil che ha queste caratteristiche?
Io non abbandono la Cgil, anzi voglio condurre una battaglia per il diritto a una consultazione democratica. In ogni caso, rivendico l’autonomia della Fiom.
Separati in casa?
Nella sua storia la Cgil ha sempre avuto tanti momenti di discussione e di confronto interno.
Potrebbe essere deferito al Comitato di garanzia interno in caso di non applicazione degli accordi?
In astratto sì. Che ci provino pure, vedremo.
Quale pensa possa essere oggi una soluzione positiva di questo scontro?
La consultazione dei lavoratori e poi una legge sulla rappresentanza.
Si fida della promessa di Renzi di vararla con il suo Jobs Act?
Non mi fido di nessuno, sto ai fatti. Renzi ha detto sì a una nuova legge, una discussione è già aperta in Parlamento. E anche la Cgil si è detta favorevole a una legge. Si è posta una questione di democrazia, spero ci sia una risposta.
Ma una legge potrebbe ricalcare l’accordo che lei contesta.
La legge deve garantire i diritti sanciti dalla Costituzione, cosa che l’accordo non fa. Se strutture private vogliono firmare degli accordi tra loro, facciano pure. La legge è un’altra cosa.
Chiederebbe le primarie anche nel sindacato?
Le primarie rimandano a una contesa per la segreteria che non mi interessa. Il problema non è chi fa il segretario, ma le politiche che si scelgono. Voglio comunque il massimo della democrazia possibile con una consultazione vincolante ogni volta che si renda necessario.
Anche con il referendum?
Sì.
Voterà Camusso alla segreteria nazionale?
Quello che è avvenuto non lascia le cose come stavano prima. C’è stato uno strappo. Ma, ripeto, il problema non è chi fa il segretario.

il Fatto 23.1.14
Cattive compagnie
Il condannato B. resta Cavaliere e il conte s’infuria
Il ministro Zanonato non revoca l’onorificenza e così Pietro Marzotto si autosospende dall’Ordine
di Daniele Martini


Di questo passo non solo nessuno oserà togliere l’onorificenza di Cavaliere a Silvio Berlusconi, ma se ne dovranno inventare una nuova di zecca tutta per lui, un titolo ad personam. Altisonante al massimo, ovviamente, come si addice a cotanto personaggio. Lesto e lungimirante come al solito, Lui, del resto, si è portato avanti con il lavoro facendo capire quale nuova medaglia idealmente gli spetta e gli piacerebbe esibire sul risvolto della giacca: quella di Padre della Patria. Non più solo costruttore di palazzi e imprenditore esimio, come scrissero nelle motivazioni 37 anni fa quando gli assegnarono la prima onorificenza, ma edificatore di un nuovo ordine politico ed istituzionale, riformatore costituzionale, architrave della democrazia per il suo alto, fattivo ed imprescindibile contributo alla formulazione di una nuova legge elettorale per la designazione del Parlamento sovrano. Scherzi a parte, la storia del mancato ritiro del titolo di Cavaliere al dottor Berlusconi Silvio è un piccolo campionario italiano del tartufismo nazionale o - se volete - un esempio preclaro della raffinatezza cui si è spinta la nobile arte dello scaricabarile. La cosa in sé, il cavalierato, sarebbe di poco momento, ovviamente.
QUANDO C’ERANO ancora i Savoia che quell’onorificenza istituirono alla fine dell'Ottocento, con spocchia regale ripetevano che un titolo di cavaliere e un sigaro toscano non si negano a nessuno. In età repubblicana la croce di Cavaliere è stata come nobilitata, il Presidente della Repubblica di Cavalieri ne nomina non più di 25 o 30 l’anno e in tutto quelli in carica sono 530 e dovrebbero rappresentare l’eccellenza della nazione. Ma insomma, anche con queste premesse di merito, alla fine sempre e solo di un titolo onorifico si tratta. Toglierlo a chi non ne è più degno non dovrebbe rappresentare un’impresa titanica, ma l’ovvia conseguenza della banale applicazione della legge che in uno stato di diritto è il presupposto di una libera e civile convivenza. E invece per il Cavalier Berlusconi tutto questo non vale. Dal primo agosto, da quando è stato condannato definitivamente per frode fiscale, la sua decadenza avrebbe dovuto essere già passata all’archivio come effetto automatico dell’articolo 28 del codice penale, quello sull’interdizione dai pubblici uffici che al comma 6 prevede che il condannato perde “ogni diritto onorifico”. Ma tutti, dai ministri ai prefetti che avrebbero dovuto far rispettare la legge, hanno girato la testa dall’altra parte. L’unica voce nel deserto è quella del conte Pietro Marzotto, che più vicino agli 80 anni che ai 70, il 19 agosto si è rivolto con una lettera alla sua associazione veneta della Federazione nazionale dei Cavalieri del lavoro, organizzazione privata che rappresenta tutti gli insigniti, sollecitando i dirigenti ad assumere i provvedimenti del caso.
PER QUASI 4 mesi ha aspettato che succedesse qualcosa: che Berlusconi si dimettesse o che lo dimettessero d’imperio i dirigenti per salvaguardare il buon nome dell'organizzazione. Ma non è successo niente e allora il primo dicembre il conte si è polemicamente autosospeso. E ora al Fatto dice: “Credo di non aver compiuto niente di eccezionale. L’associazione ha uno Statuto, un codice etico e sono chiarissimi, basta applicarli. Se perfino noi Cavalieri non rispettiamo le regole che ci siamo dati, che esempio diamo, che credibilità ci resta? ”. La Federazione dei cavalieri è pur sempre un’associazione privata e le sue omissioni o negligenze riguardano una sfera ristretta anche se autorevole di persone. Ma che dire del comportamento delle istituzioni nei confronti di questa faccenda del cavalierato di Berlusconi? Fino a questo momento non hanno mosso paglia il prefetto di Milano, Francesco Paolo Tronca, e il ministro dello Sviluppo economico, Flavio Zanonato, che in forza della legge istitutiva dell’Ordine dei Cavalieri avrebbero il diritto-dovere di avviare la procedura formale per la revoca dell’onorificenza sottoponendola alla firma finale del Quirinale. Il ministro del Pd va ancora a dire in giro che prenderà una decisione “non appena si conoscerà la sentenza su Berlusconi”. Come se le tre sentenze già emesse e passate in giudicato fossero acqua fresca.

l’Unità 23.1.14
Sel, domani le assise ci sarà il leader Pd
di Rachele Gonnelli


ROMA Ci sarà anche Matteo Renzi al secondo congresso nazionale di Sinistra ecologia e libertà che si inaugurerà domani nel Palacongressi di Riccione. Il segretario del Pd ha confermato il suo arrivo non per la giornata inaugurale, quella della relazione del presidente Nichi Vendola, ma per sabato, il che fa pensare che abbia accettato l’invito più per intervenire che per ascoltare. «Dipenderà da lui, se vuole parlare, parlerà», si è lasciato sul vago ieri il coordinatore nazionale di Sel Ciccio Ferrara presentando il programma dei lavori congressuali.
Di certo, se parlerà, Renzi dovrà cercare di ricomporre una ferita ulteriore che divide il Pd e Sel, cercare di convincere i 900 delegati (al 47 per cento donne) della bontà della riforma elettorale che chiama Italicum e che al momento sembra dare a Sel come unica opzione
la confluenza in una lista unica con il Pd o una disperata rincorsa verso una soglia altissima l’8 percento che significherebbe dover quasi triplicare i consensi. È proprio la collocazione di Sel, non solo nel panorama continentale a pochi mesi dalle elezioni europee ma sulla scena politica italiana, l’obiettivo del congresso. Ciò che Ciccio Ferrara chiama «una scelta politica di fondo». Per il coordinatore uscente a livello europeo «l’approdo naturale di Sel è nel Pse, tuttavia aggiunge quel luogo oggi esprime anche cose lontane dai nostri pensieri, dalle larghe intese a politiche sostanzialmente liberiste. È un luogo stantio e noi ci vogliamo stare ma portandoci dietro tutti quelli che hanno un’altra idea d’Europa, quindi con tutto il portato di innovazione politica e culturale, dall’ambientalismo al femminismo». Quanto alla prospettiva del centrosinistra in Italia Sel dice ancora Ferrara non si rassegna né a finire nel Pd né a ricoprire i panni logori di una sinistra di mera testimonianza. In linea con questi assunti, al congresso sono stati invitati, oltre a moltissime associazioni da Libera alla Coldiretti a Sbilanciamoci , i partiti del centrosinistra da Scelta Civica a Rifondazione e dal Pd al Psi di Nencini -, i sindacati confederali ma è l’intervento del segretario Fiom Maurizio Landini uno di quelli più attesi mentre da Strasburgo dovrebbero partecipare rappresentanti del Pse, della Gue e dei Verdi.
Così, se a Renzi viene lasciato il tappeto rosso della tribuna, il premier Enrico Letta non è stato neanche invitato. «Siamo all’opposizione...», spiega Ferrara. Ma è qualcosa di più. Il governo delle larghe intese da lui presieduto è nato dalla brusca rottura del patto elettorale con il Pd e continua a essere visto da Vendola e dai suoi come «un muro» che ostacola ogni possibile riapertura di dialogo. Da questo punto di vista il sindaco fiorentino è sempre stato visto con occhi più benevoli rispetto al collega di partito pisano. Ora però si è aggiunto il macigno dell’Italicum con quella soglia molto alta per «evitare il potere di ricatto dei piccoli partiti» Renzi dixit che per Sel rischia di essere fatale se non sarà emendato nei prossimi giorni alla Camera, in Commissione Affari Costituzionali dove il testo dell’Italicum è arrivato ieri sera.

il Fatto 23.1.14
Oltretevere
Chi si stupisce della “lobby gay”
di Marco Politi


Era cominciata come una storiella di cronaca: le confidenze osé di un ex guardia svizzera al domenicale di Basilea Schweiz am Sonntag. Poi è sceso in campo l’ex comandante del corpo Elmar Maeder, denunciando l’esistenza di una sorta di “società segreta” gay capace di mettere a rischio la sicurezza del papa. Finché la vicenda è arrivata ai piani alti della Segreteria di Stato. Mons. Sostituto (vicesegretario di Stato) Angelo Becciu ha dichiarato: “Papa Francesco vuole chiarezza e verità”. Chi sa, parli.
Ora, se si pensa alla cosiddetta lobby gay vaticana come a una specie di Spectre in grado di influenzare i destini della Chiesa, si è certamente fuori strada. Non esiste “un” gruppo, che agisca compattamente per oscuri fini, ma è stranoto che in Vaticano ci sono gruppi di mutua assistenza omosessuale così come ci sono (e molto più pericolose) cordate miste italiane-vaticane, dedite ad affari più o meno torbidi, a volte con intrecci di sfrenatezza sessuale. Non è stato un pettegolo qualunque, ma un personaggio grave come l’esorcista padre Gabriele Amorth a dichiarare anni fa che Emanuela Orlandi poteva essere morta, perché entrata in un giro di orge tra monsignori e diplomatici stranieri. Papa Francesco, quando glielo hanno chiesto, ha dichiarato che finora non aveva visto nessuno con il “tesserino” di gay ma che qualsiasi lobby all’interno della Chiesa era un fenomeno negativo. Francesco parla in stile colloquiale quasi fosse un parroco sul sagrato, ma ogni parola è pesata. Il succo è che non lo preoccupano tanto le scappatelle individuali, ma le manovre di potere che non ci devono essere in una struttura, come la curia, al servizio della Chiesa universale e in ultima istanza all’annuncio del Vangelo.
A questo punto, l’unica sorpresa è che il Sostituto segretario di stato si sorprenda. I vertici vaticani hanno tutti gli strumenti per appurare rapidamente i fatti. L’ex guardia svizzera ha dichiarato di avere ricevuto durante il suo periodo di servizio almeno una ventina di profferte sessuali da alti prelati. Comprese telefonate di invito a mezzanotte come in un filmetto rosa. Rintracciarlo non è difficile e nemmeno indagare discretamente per fare luce sui fatti.
Ancora più facile è invitare in Vaticano l’ex comandante Elmer, in carica dal 2002 al 2008. Elmer, una persona responsabile selezionata accuratamente prima di invitarlo a dirigere il piccolo esercito incaricato di difendere la vita dei pontefici, ha dichiarato nero su bianco che la rete gay segreta è fatta di persone che “tendono a essere più fedeli l’uno con l’altro piuttosto che verso l’istituzione” e quindi rappresentano un pericolo per la sicurezza del capo della Chiesa.
L’ALTRA COSA significativa che ha detto Elmer è di avere invano tentato, quando era in carica, di avvertire i superiori. Anche questo è facile da acclarare. Invece di interviste sarebbe meglio un comunicato stampa, che informasse che il comandante Elmer è già stato ricevuto in Segreteria di Stato e ha fornito gli elementi per un’indagine già avviata. In realtà in Vaticano si stanno trascinando dietro da oltre un anno un macigno destinato a ritorcersi prima o poi contro la credibilità della Santa Sede. Il “buco nero” di tutto l’affare è il rapporto steso dai tre cardinali Herranz, Tomko e De Giorgi in seguito allo scandalo Vatileaks. Perché le indagini sulle lobby sporche (che si tratti di sesso, soldi o carrierismo) ci sono già state! I tre porporati hanno interrogato decine di ecclesiastici e laici, che operano in curia, e hanno raccolto un materiale ponderoso di oltre duecento pagine.
Per ordine di Benedetto XVI le informazioni contenute nel dossier furono negate persino ai cardinali venuti per eleggere il successore. Invano furono chieste spiegazioni, nessuno volle darle e il malloppo è passato direttamente nella mani di papa Francesco. Il mondovisione è stato possibile vederlo soltanto quando il pontefice si è recato per la sua prima visita al predecessore a Castel Gandolfo. Era sul tavolo – un castelletto di fascicoli bianchi – tra Bergoglio e Ratzinger.
Dice mons. Becciu che recentemente due persone oggetto di dicerie malevoli in curia sono state del tutto scagionate. È giusto. Francesco parla spesso contro le “chiacchiere” di curia. Ma se si seguirà la via della trasparenza, si farà rapidamente pulizia delle porcherie passate o presenti. È facile. Allo Ior si è cominciato così.

Corriere 23.1.14
Quel mio viaggio a Medjugorje e il verdetto del Vaticano
Verso una scelta aperta: non è dimostrato (sinora) il soprannaturale
di Vittorio Messori


Léon Bloy — il «cattolico belva», come amava definirsi — gridava che non c’è fede nell’andare a Lourdes come malati che sperano nella guarigione. Fede, ululava, è solo quella di chi, sano, vada a bagnarsi alla Grotta pregando di ammalarsi, possibilmente di un morbo ripugnante, per partecipare così meglio alla croce del Cristo. Paradosso che mi è capitato talvolta di citare a chi mi chiedeva di dire la mia su Medjugorje. In effetti fui tra i primi a recarmi in quella pianura allora semideserta, al centro della quale si ergeva un chiesone parrocchiale costruito da poco e chiaramente eccessivo per il luogo. Dimensioni da santuario, che insospettivano: quasi che i committenti francescani avessero voluto creare lo spazio adeguato per folle di pellegrini. Non ero mosso, in quel blitz, dal fervore del devoto bensì dalla curiosità del giornalista: volevo vedere cosa stesse succedendo in un posto sconosciuto sul quale, negli ambienti cattolici, giravano da qualche tempo strane voci.
Al ritorno, però, l’auto sulla quale ero ospite slittò sulla neve attraversando l’Istria, finimmo in una scarpata, fummo tirati su con le funi dai pompieri, poi sommariamente medicati da medici divenuti brutali quando scoprirono delle Bibbie nei nostri bagagli. Ce ne andammo malridotti, insalutati, con lesioni tamponate alla bell’e meglio. A casa, quando mi riuscì di arrivarci, discendendo dal letto caddi a terra per un violento capogiro che si sarebbe poi ripetuto ad ogni levata. Nell’auto che più volte si ribaltava, avevo battuto la testa, ci vollero tempo e terapie adeguate per rimette le cose a posto. Insomma, qualcosa che mi fece ritornare alla mente il paradosso di Bloy, nonostante non avessi certo pregato di partire in gran forma, da quel quarantenne che ero, e di tornare con la testa fasciata come da un turbante e acciaccato al punto da dover camminare reggendomi a un bastone. In cambio, va detto, ebbi un privilegio che — per tanti pellegrini entusiasti di oggi — è degno di «santa invidia»: essere, cioè, tra i pochi che, ammassati nella piccola sagrestia della chiesa, assistettero all’estasi — vera o presunta che fosse — di tutti e sei gli allora bambini o adolescenti e tra coloro che ebbero modo di scambiare qualche parola, in un misto di lingue, sia con i «veggenti» che con i francescani che mostravano ancora stupore nonché timore per le attenzioni di cui erano oggetto da parte della polizia politica del regime. È un aspetto che spesso si dimentica: Tito era morto da un anno, i successori già annusavano lo sfascio che si sarebbe poi verificato e, dunque, per salvarsi, invece di allentare i freni li stringevano, anche a proposito di lotta antireligiosa. Non erano di certo tempi favorevoli, quelli, per chi avesse voluto organizzare una sceneggiata di false apparizioni dal Cielo, utilizzando per giunta ben sei piccoli e piccolissimi: troppi e troppo giovani per giocare in modo attendibile una commedia che il primo interrogatorio di una polizia famosa per la brutalità poteva smascherare.
Se mi capita, lo dicevo, di narrare l’aneddoto del mio «miracolo rovesciato» (partire sano e tornare malridotto) è anche per cercare di attutire, con un sorriso, le passioni — a favore o contro — che spesso esplodono quando si parla di Medjugorje .
Passioni che hanno, peraltro, una loro giustificazione. In effetti, in una prospettiva cattolica, non si esagera definendo drammatico il dilemma. Da un lato si dice: la Chiesa non trascura, da ormai 33 anni (l’inizio dei fatti è del 1981) di riconoscere e dare autorità ufficiale a quelle che la Gospa , la signora, la Madre del Cristo, annuncia come le ultime apparizioni della storia e che sono gravide di esortazioni, di consigli, di messe in guardia? Ma, dall’altro lato si replica: la Chiesa non è forse colpevole per non essere intervenuta, dopo tanti anni, per smascherare una superstizione e, forse, una truffa contro le quali hanno tuonato con parole terribili i vescovi della diocesi, senza riuscire a stroncare un pellegrinaggio che ha ingannato e inganna milioni di ingenui fedeli?
Ma, seppure con i suoi tempi, la Chiesa ha finito col muoversi. Proprio la settimana scorsa, dopo quasi quattro anni di lavoro, la Commissione d’inchiesta presieduta dal cardinal Camillo Ruini ha presentato il suo voluminoso fascicolo alla Congregazione per la dottrina della fede. Questa esaminerà il tutto e presenterà le sue conclusioni al Papa cui spetterà, ovviamente, la decisione.
Se si è atteso così a lungo — e se ancora si attenderà — il motivo principale sta certamente nel fatto che le «apparizioni» sono ancora in corso e che dunque è impossibile giudicarle, non sapendo come andrà in futuro. Dunque, per ora ci si è limitati a provvedimenti (peraltro poco seguiti dai devoti, qualche vescovo e almeno un paio di cardinali compresi) di divieto di pellegrinaggi «ufficiali», organizzati e guidati dal clero. Ma ciò che preoccupa la Santa Sede è che, in ogni caso, la decisione non sarà indolore. Se negativa , il danno pastorale sarà immenso, visti i milioni di pellegrini recatisi a Medjugorje da tutto il mondo e che si scopriranno vittime di un inganno. Se positiva , sarà devastante per il diritto canonico che lascia ai vescovi del luogo il giudizio su presunti fatti sovrannaturali nella loro diocesi. A Medjugorje ci si trova di fronte al rifiuto categorico e polemico dei presuli che si sono succeduti a Mostar, capoluogo ecclesiastico. Smentendoli, la Chiesa dovrebbe smentire la sua stessa legge e la sua gerarchia, con conseguenze gravissime.
È facile prevedere che, alla fine, si starà per un interlocutorio non constat de supernaturalitate : non consta (sinora) della soprannaturalità dei fatti. Ci si asterrà, a noi pare sicuro, dal secco e definitivo constat de non supernaturalitate : consta (con certezza) che i fatti non sono soprannaturali. Così, in attesa di eventi nuovi e chiarificatori, suggerisce la Chiesa, i cattolici continuino a raccogliere gli abbondanti frutti spirituali da un albero che — va pur detto — si è rivelato davvero fecondo. Preghino, si confessino, si accostino alla eucaristia, lasciando per ora da parte la questione delle origini. Gli scettici — ad essi pure, va detto, non mancano gli argomenti da opporre ai convinti — potranno riflettere su quanto mi disse un famoso mariologo: «Non so se, all’inizio, la Madonna ci fosse davvero, a Medjugorje. Ciò che constato, vedendo queste folle devote che l’hanno invocata e l’invocano da più di trent’anni, ciò che vedo è che ora c’è, che non può non esserci».

Corriere 23.1.14
Condoni fiscali, rate e giudici distratti
L’Italia degli evasori senza punizione
Angiola Armellini accusata di nascondere 1.243 immobili e gli altri casi
di Gian Antonio Stella


Le tasse le pagano solo i plebei», diceva Leona Helmsley, l’anziana imperatrice immobiliare di New York. Quando la incastrarono, si offrì in cambio della libertà di donare i suoi alberghi alla città: le diedero 16 anni di galera, le fecero la foto segnaletica e la misero dentro. E aveva evaso molto meno di quanto è contestato ad Angiola Armellini, accusata d’aver nascosto al fisco oltre due miliardi.
Sia chiaro: la figlia del palazzinaro Renato Armellini, il «re del mattone» per il quale fu adattato («Quod non fecerunt barbari, fecerunt Armellini») un antico e feroce adagio contro la famiglia Barberini, è innocente finché non sarà condannata nei tre gradi di giudizio. Auguri. Come ricorda il Messaggero , tuttavia, non solo il padre finì in numerose inchieste giudiziarie per bancarotta e truffa, e si sa che le colpe non possono ricadere sui figli, ma lei stessa «nel 1991, assieme al padre e alla sorella Francesca, era rimasta coinvolta in una frode fiscale e falso in bilancio per oltre 500 miliardi di lire. E ancora, nel 1996, la donna fu coinvolta, assieme all’ex marito Alessandro Mei, in una bancarotta fraudolenta da 200 miliardi di lire». Insomma, non è nuova a grattacapi del genere.
Un’Ansa del 1996 ricorda: «Un’amnistia “salva” dal Fisco gli eredi del costruttore Armellini. La settima sezione del Tribunale di Roma ha infatti concesso l’amnistia ad Angiola, Francesca ed Alessandra Armellini, figlie di Renato, imputate di evasione fiscale e falso in bilancio per avere occultato — secondo quanto afferma l’associazione Codacons in un comunicato — profitti per circa 1000 miliardi di lire. In seguito ad una denuncia di un collaboratore di Armellini gli inquirenti indagarono su quattro società che attraverso un gioco di fusioni e accorpamenti e false partecipazioni avrebbero occultato profitti di un’attività edilizia molto vasta: ben 2.500 appartamenti costruiti e venduti nella Capitale. La Guardia di finanza accertò nel 1988 l’evasione fiscale e le falsità compiute per nascondere i profitti. Le eredi di Renato Armellini hanno ottenuto un condono per 10 miliardi rateizzati al posto dei 350 miliardi evasi. Nel corso del processo i difensori hanno sostenuto che la somma sborsata dagli Armellini era sufficiente perché nessun ufficio fiscale aveva inviato un avviso di accertamento dei redditi evasi. Così come nessun giudice aveva inviato entro il novembre ‘92 un decreto di citazione a giudizio. In casi del genere, hanno spiegato gli avvocati, il condono si ottiene pagando un’imposta sul 20% di quanto dichiarato nella denuncia dei redditi».
Come mai, chiedeva furente l’associazione dei consumatori avvertendo che avrebbe denunciato tutti, «queste fortune capitano solo ai palazzinari? Come mai l’ufficio delle imposte ha omesso di notificare agli Armellini gli avvisi di accertamento per i profitti occultati? Come mai il giudice istruttore ha lasciato trascorrere due anni prima di ordinare il rinvio a giudizio? Come mai il presidente della settima sezione ha lasciato passare un altro anno prima di citare a giudizio gli Armellini?».
Dice oggi la Finanza che la signora, pur avendo portato nel 1999 la residenza a Montecarlo e risultando cittadina monegasca fino al 2010, risulta aver vissuto dapprima «senza dichiararlo, in un’ampia villa all’Eur e, successivamente, in un lussuoso appartamento su due piani intestato a società lussemburghesi» nel centro di Roma, neppure «classificato come civile abitazione».
Se Angiola Armellini abbia davvero nascosto negli ultimi anni al Fisco, attraverso un giro di società, due miliardi e cento milioni di euro frutto della rendita di 1.243 immobili sui quali non sono mai state pagate neppure l’Ici e l’Imu, così come risulta dalle accuse del sostituto procuratore Paolo Ielo e dei finanzieri che hanno «proceduto al disconoscimento degli effetti scriminanti di 10 scudi fiscali presentati nel 2009», lo accerteranno i giudici. Ma certo stupisce la velocità con cui la notizia della (presunta) mega-evasione sembra essere stata cotta, mangiata, ruminata, digerita e rimossa dall’opinione pubblica. Come se gli italiani dessero ormai per scontata, anche in momenti come questi di difficoltà pesanti, la presenza di furbetti e furboni che sottraggono risorse alla collettività.
Pochi mesi fa la Guardia di finanza comunicò di avere scoperto dal 1 gennaio alla fine di agosto 4.933 evasori totali (poi saliti a oltre ottomila in tutto il 2013) e di avere denunciato 1.771 protagonisti dei casi più scandalosi, che avevano nascosto al Fisco redditi per almeno 17 miliardi e mezzo di euro. Una cifra che da sola vale quattro volte l’Imu sulla prima casa. E più del doppio di quel margine di flessibilità per 7,5 miliardi promessoci dall’Europa che a luglio fece scattare verso Enrico Letta una standing ovation in Parlamento.
Eppure, su 62.536 persone detenute a fine dicembre 2013 nelle patrie galere di evasori fiscali diciamo così «semplici» praticamente non ce n’è uno. La legge, infatti, prevede il carcere solo per chi è colpevole, in base all’articolo 2 della legge 74/2000, di «dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti». Traduzione: chi non fa fatture false ma finge semplicemente di non esistere («Non ho mai pagato le tasse e me ne vanto. Le tasse sono come la droga, le paghi una volta e poi entri nel tunnel», dice Antonio Albanese nei panni di Cetto La Qualunque) in galera come evasore non ci va. Una situazione che i cittadini perbene, che si trovano a sopportare il peso di un’evasione che si collocherebbe tra i 120 miliardi stimati dalla Corte dei Conti e i 180 calcolati dalla britannica «Tax Research», trovano insopportabile. E che certo non può essere giustificata dall’eccesso (che c’è) di pressione fiscale.
All’Agenzia delle entrate contano le ore: proprio in questi giorni potrebbe finalmente passare in Parlamento la delega al governo «alla revisione del sistema sanzionatorio penale tributario secondo criteri di predeterminazione e di proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti, prevedendo la punibilità con la pena detentiva compresa fra un minimo di sei mesi e un massimo di sei anni, dando rilievo, tenuto conto di adeguate soglie di punibilità, alla configurazione del reato per i comportamenti fraudolenti...».
In bocca al lupo. Sarebbe bene, tuttavia, che i cittadini restassero con gli occhi aperti sul cammino reale di questa iniziativa. C’è una notizia dell’agenzia Ansa, infatti, che ricorda come la promessa fosse già stata fatta: «L’omessa dichiarazione sarà punita con la reclusione da uno a tre anni: il limite di punibilità sarà più basso: 100 milioni di imposta evasa. Per le dichiarazioni fraudolente sarà previsto il carcere da sei mesi a sei anni (ridotti a 2 anni se l’evasione è sotto i 300 milioni). La dichiarazione infedele, invece, diventerà reato e sarà punita da uno a tre anni di carcere se supera i 150 milioni di imposte evase e un reddito imponibile occultato pari al 10 per cento...». Non si parlava di euro, ma di lire. E quella promessa di mettere le manette agli evasori fu fatta il 3 marzo del 2000. Da allora sono passati quattordici anni.

l’Unità 23.1.14
La legge Fornero e i prof bloccati nel limbo
di Mila Spicola


FORSE SONO IO CHE NON CAPISCO. E, SE NON CAPISCO, QUALCUNO MI SPIEGHI LE RAGIONI. Da un lato ci sono giovani laureati che vogliono diventare insegnanti, che hanno seguito tutto il percorso richiesto loro dallo Stato per diventarlo. Percorso che negli ultimi 30 anni è variato quasi ogni anno: devi fare un concorso, no, ti devi iscrivere alle Sissis e abilitarti così, no, puoi insegnare come supplente, però per avere la cattedra devi fare un concorso, e torni alla casella di partenza, no, ti facciamo fare un tirocinio formativo abilitante, no, però, se hai il vecchio diploma magistrale ti facciamo fare un altro percorso, che si chiama pas, no, se hai anche il titolo del sostegno, hai un altro canale, ma tu sei prima, seconda o terza fascia? Scusi? In che senso? E questo è il versante «come divento insegnante oggi» che ha condotto, in questa follia amministrativa priva di ogni logica di semplificazione ma che continua ancora adesso, mentre scrivo, a complicarsi, ha condotto insomma a ingigantire ogni anno il grande pentolone del precariato scolastico.
Un precariato molto particolare perché composto di docenti a tutti gli effetti con una caratteristica: sono bravi, sono molto bravi, perché negli anni, di propria o altrui sponte, hanno continuato a formarsi per aumentare i titoli. Altre lauree, dottorati, specializzazioni. E anni di servizio. Dall’altro lato ci sono i docenti prossimi alla pensione. Alcuni di loro, quasi o già sessantenni, c’erano quasi. Avevano chiesto e ottenuto il permesso di ritirarsi e mi ricordo della mia adorata Marisa, una collega d’Italiano che per me è stata un’altra di quei maestri che cambiano la vita, che era già con un piede fuori, con le lacrime ogni giorno. Sarebbe rimasta però «Mila, mia madre ormai non la reggono nemmeno le badanti, io rimarrei, ma la vedi Clelia (una collega precaria bravissima)? Che ci faccio ancora io a 60 anni e con 35 anni di servizio a inseguire Macaluso nei corridoi quando lo incrocio fuori dalla classe, mentre giovani come Clelia non possono nemmeno farsi una famiglia e aspettano che io me ne vada?». Così parlava Marisa due anni fa. Cosa è accaduto in questi due anni? È accaduto che Marisa sta ancora in classe e Clelia è ancora a spasso. Marisa è distrutta per le notti insonni che le fa passare la madre e l’ansia del non capire quando andrà in pensione e Clelia è ancora precaria ma in un’altra scuola, in un paesino sulle Madonie e tutti i giorni si fa 90 chilometri all’andata e 90 al ritorno. Per quanto tempo sarà così brava come lo era due anni fa e lo è ancora?
La legge Fornero, oltre al guaio esodati, ha prodotto un altro guaio, i docenti quasi in pensione della cosiddetta Quota96, coloro che stavano andando in pensione due anni fa e per un errore di valutazione amministrativa sono rimasti ingabbiati nel limbo «non so se ci devo andare o meno». Non sono tanti, sono meno di quattromila persone. Che diventano ottomila se pensiamo alle quattromila Clelie pronte a prendere il loro posto. Siamo il Paese con la classe docente più vecchia del mondo. Non d’Europa, del mondo. Roba da brividi nella schiena. E siamo il Paese con la più alta disoccupazione giovanile. Docenti di 62 anni si ritrovano a inseguire bambini di 4 anni nelle scuole materne e a confrontarsi con mamme piccole quanto le loro nipoti. Insegnanti d’italiano dei licei, al di là della buona volontà e capacità immutata si ritrovano a non capire nemmeno quello che dicono i loro allievi quindicenni e a leggere elaborati che descrivono passioni, problemi e tensioni vissute però in un luogo e in un tempo completamente diverso. Poco male qualcuno mi dirà, i divari generazionali ci son sempre stati. Mentre docenti bravissimi, straformati e aggiornati stanno a casa mentre ci affanniamo a scrivere i jobs act. E aggiungo se ti ritrovi un docente stanco, che non ce la fa più e non ce la vuole fare, perché a sessantanni è costretto in classe, i quattromila quota 96 e le quattromila Clelie, dobbiamo moltiplicarle ciascuna per 30 alunni scontenti di perdere Clelia e afflitti di fronte a una prof che non li guarda più negli occhi, e la vedi già vecchia e cadente raccontar del suo vero incidente.
E intanto viene fuori che il livello di burn out (l’insegnamento è un lavoro altamente usurante e sarebbe il caso di finirla con la retorica del privilegiato che persino qualche onorevole un po’ superficiale ogni tanto riprende) dei docenti italiani è tra i massimi al mondo e non ci facciam mancare manco questo come podio. Io dico, risolvere il problema tutto adesso non si può, ma intanto, a questi quattromila permettiamo di andarsene in pensione visto che gli spettava? Qualcuno penserà che l’emergenza siano quei pensionati da far andare via e qualcun altro che sia Clelia e tutti i precari come lei. Cambiamo prospettiva. Cominciamo a pensare che l’emergenza vera nella scuola siano gli alunni di Clelia, bravissima, che non voglio perderla e di Macaluso che scappa sempre mentre Marisa, bravissima anche lei ma ormai stanca, ha smesso di inseguirlo? La scuola in cima al Paese. Io direi: i nostri alunni, i nostri figli in cima al Paese. Un docente stanco e sfatto, se dopo i sessantenni non ce la fa più, e magari è in pieno burn out, cosa volete che insegni? Ripeto, forse sono io che non capisco, ma non lo capiscono nemmeno i 9 milioni di studenti italiani le loro famiglie.

il Fatto 23.1.14
Prof, test col trucco: nomi già scritti prima della selezione
Più candidati hanno inviato al “Fatto” e al Ministero dell’istruzione una raccomandata contenente l’elenco dei 15 docenti che poi sono stati scelti
di Carlo Di Foggia e Francesco Ridolfi


“Volevo complimentarmi con voi...”. Sono i primi di maggio quando iniziano a circolare email in cui compaiono i nomi degli abilitati alla prima fascia (professore ordinario) nella materia di Storia antica. È uno dei 180 settori che compongono l’abilitazione scientifica nazionale (Asn): si tratta del nuovo sistema di reclutamento voluto dall'ex ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini per evitare lo scandalo dei concorsi truccati, dove spesso passava chi aveva il cognome giusto. Lo scandalo, invece, si ripete e il copione è sempre lo stesso: i vincitori si conoscono in anticipo, in palese violazione delle regole. Con studiosi di profilo internazionale con decine di pubblicazioni bocciati e modesti concorrenti promossi. I risultati della commissione esaminatrice sono stati infatti pubblicati solo molti mesi dopo, per la precisione, lo scorso martedì. Eppure gli scambi di complimenti sono continuati ben prima della chiusura della selezione, tanto che tutti i nomi degli abilitati sono usciti fuori. A quel punto la rabbia dei candidati è esplosa, anche alla luce di giudizi contraddittori e rapporti tra commissari ed esaminati.
IN OTTOBRE, una lista con 15 nominativi viene spedita con raccomandata al ministero dell'Istruzione, all'attenzione del ministro Maria Chiara Carrozza e al direttore generale per l'Università, Daniele Livon. La stessa lista viene spedita anche al Fatto Quotidiano, anticipata da una email, datata 18 dicembre, cioè quasi un mese prima che i risultati fossero resi pubblici. L'incertezza è durata fino a martedì, poi la clamorosa scoperta: i nomi combaciavano tutti. “Si è verificata una situazione deplorevole - si leggeva nella lettera - e, per più ragioni, di grave irregolarità: ancora prima che fosse avviata la procedura di valutazione dei candidati, già circolavano i nomi dei ‘fortunati’ che avrebbero ottenuto l’abilitazione. I sospetti sono divenuti certezza da almeno sei mesi, anche se a tutt’oggi gli esiti del Concorso di abilitazione non sono pubblici, circola la lista degli abilitati”. I firmatari sono pronti a recarsi dai magistrati perché indaghino sulla selezione. Mentre dal ministero prima negano di aver ricevuto la lettera, poi chiedono lumi sulla ricevuta di ritorno. Appurato che sulla lettera c'è il timbro ministeriale, non commentano.
Tra i mittenti della missiva, ci sono diversi nomi di candidati che pur avendo i titoli per ottenere l'abilitazione, sono stati bocciati. Tra questi, un ricercatore con oltre 80 pubblicazioni e esperienze di insegnamento all'estero, tra cui la Sorbona di Parigi . Oltre al profilo penale ipotizzato, infatti, c'è n’è anche uno amministrativo. “In questo stesso periodo, è ampiamente noto che intensi sono stati i contatti tra i candidati e i loro commissari ‘sostenitori’ - continua il testo -. È facile capire che l’attribuzione dell’abilitazione non è sempre avvenuta su base meritocratica. Alcuni studiosi, con un curriculum ricco e articolato e di profilo internazionale sono stati esclusi, pur rispondendo ai criteri adottati dal Miur e dalla stessa Commissione; mentre altri, di produttività scientifica più modesta, hanno conseguito l’abilitazione”. Le anomalie sono le stesse segnalate in molti altri insegnamenti, come i rapporti pregressi tra commissari (5 nomi sorteggiati in una lista di idonei), e tra questi e gli stessi candidati. Qui il commissario esterno, di norma uno straniero, è italiano, ed è stato allievo del presidente della commissione. Un altro commissario risulta relatore della tesi di laurea di uno degli abilitati, nell’elenco di titoli compare anche un “diploma in Chitarra Classica” e nessuna esperienza d'insegnamento.
Ma le segnalazioni di irregolarità, brogli, parentele e favoritismi pesano sull’intero sistema, e si ripetono ormai da settimane , con diverse interrogazioni parlamentari. A Lecce, durante un convegno, sarebbero stati anticipati i risultati del settore “Organizzazione aziendale”, violando il segreto. In “Storia medievale” 38 studiosi hanno accusato i commissari di aver truccato i propri curricula. A “Scienze del libro e Scienze storico-religiose”, nessuno dei commissari aveva competenze in quest’ultima, e in alcuni curricula compaiono pubblicazioni che nulla hanno a che fare con il settore, come libri di poesia e romanzi. A “S ociologia” diversi candidati stanno studiando i risultati con un supporto legale. Qui i commissari avrebbero dedicato solo 50 secondi per valutare ogni singolo candidato. Tutta materia per i giudici. Dubbi sull’i n- tero sistema erano già stati avanzati dal Consiglio di Stato, ma ignorati dalla Gelmini. La scientificità dei parametri (le mediane) era stata contestata dal mondo accademico.
NEL GENNAIO del 2013 una circolare dell’allora ministro Profumo ha lasciato ampio margine ai commissari, creando caos. Il 16 gennaio due commissioni hanno congelato i risultati e riaperto i lavori con la procedura di “autotutela”. In meno di una settimana se ne sono aggiunte altre otto.
Ma non quella di “Storia” di cui ci stiamo occupando.

il Fatto 23.1.14
Lo statistico Tommaso Gastaldi
“Io rovinato dalla guerra contro i concorsi truffa”
di C.D.F.


“Ho pagato con la vita”. Il 12 aprile 2006 Tommaso Gastaldi, docente di Statistica all’Università La Sapienza di Roma, spedisce due lettere, una per sé, l’altra per il suo avvocato, il fratello Davide. Su quelle missive “prevede” l’esito di un concorso per la cattedra di professore ordinario di Statistica alla Facoltà di Sociologia del suo Ateneo, di cui era stato appena pubblicato il bando. Fa il nome di chi poi effettivamente risulterà vincitrice del concorso. È il primo di una lunga serie di scandali per l’Università italiana. Da lì parte la sua lunga battaglia legale, con inchieste dei magistrati e querele. Finisce isolato. Poi denuncia in anticipo i vincitori di un altro concorso, e invita centinaia di candidati a partecipare, ma l’esito non cambia e il concorso non viene annullato. Ora è sconsolato, la notizia che alcuni studiosi hanno usato il suo metodo per denunciare un’anomalia, non lo scompone. “Questo è il dato di fatto - spiega - della maggior parte dell'università italiana. Un’istituzione che nell'immaginario collettivo appare di taglio scientifico, ma dove relativamente pochi individui, in posti chiave, trovano modi e creano meccanismi per ottenere benefici privati. Ho pagato con la vita. Quella professionale naturalmente. Ma anche un bel pezzo di esistenza”.
Professore, che cosa ha ottenuto?
La mia stanza chiusa per anni e anni. Ormai non ci vado più. Volevano anche togliermi il corso, dopo vent’anni che lavoro lì. Emarginazione, disprezzo, discredito, diffamazione. Con pesanti cause civili di tutti i tipi, e colleghi pronti a mentire sotto giuramento, per omertà o complicità. Ripercussioni sulla vita familiare, tempo e soldi.
Sta dicendo che ne ha abbastanza?
Se si mettono insieme tutti gli atti, denunce e sistematiche opposizioni ad altrettante sistematiche richieste di archiviazione, si ottiene una pila di carta che arriva al soffitto. Ora preferisco dedicarmi ad attività meno mortificanti, anche considerati i risultati. Tanto il sistema è blindato.
Non è riuscito a cambiare proprio nulla?
Ti scontri contro la disonesta intellettuale e un'immoralità diffusa, con totale disprezzo di qualunque valore scientifico o forma di onestà professionale. Omertà diffusa, paura di subire ripercussioni nella carriera, interessi privati. È la rapina quotidiana nell'istituzione. Ho visto un professore ordinario di 70 anni girare porta a porta e telefonare per chiedere il voto dei commissari e far passare chi ha già deciso lui. Altri mentire spudoratamente sotto giuramento davanti a un giudice; un membro del Csm e senatore intimare al giudice la corretta interpretazione della normativa concorsuale. Ovviamente quella che scagiona i propri assistiti; una sentenza contenente dettagli di cui il giudice non poteva essere a conoscenza, per giustificare che se anche sei assolutamente preminente scientificamente, i commissari del concorso non possono di fatto mai commettere abuso d’ufficio, nemmeno se vi è una dettagliata perizia del Gip. Ho visto il mio ricorso bloccato da ormai un decennio al ministero dell'Istruzione, e ministri che mai ti rispondono. Ho visto, in verità, abbastanza da far sparire qualsiasi speranza di cambiamento.
Ha ancora senso denunciare le anomalie, i brogli, i favoritismi?
Ha senso se si hanno gli strumenti per poterlo fare. Ci vorrebbe una volontà politica, ma portata avanti da persone dotate di onestà intellettuale. Altrimenti è solo folklore, per citare un famoso Rettore. Per un singolo la battaglia può avere valore simbolico. Ma subisce enormi conseguenze, se non è sostenuto.
Chi avrebbe dovuto sostenerla?
Il ministero, ad esempio. Nel processo era stato citato come parte lesa e non si è costituito in giudizio. La verità è che non gliene importa niente a nessuno. In dieci anni mai una risposta.
Ieri si sono rifiutati di commentare
Se si fanno vivi chiedetegli che fine ha fatto il mio ricorso. Ditemi voi se è un paese civile questo.

l’Unità 23.1.14
Quei ricercatori che non meritiamo
di Pietro Greco


I ricercatori italiani fanno sempre di più, con sempre meno. O, se volete, continuano a celebrare con fichi sempre più secchi nozze di sempre maggiore successo. Tre recentissimi rapporti internazionali ci danno la misura di questa condizione paradossale in cui ormai verso la scienza italiana.
Il primo è il rapporto sulla «Consolidator Grant 2013 Call» con cui l’European Research Council (Erc) ha finanziato 312 progetti di ricerca scientifica, europei e non, sulla base unicamente del merito.
La dotazione della Call era notevole: 575 milioni di euro. Il finanziamento per singolo progetto presentato da un ricercatore era piuttosto alto: in media 1,84 milioni di euro con un picco massimo di 2,75 milioni di euro. La competizione è stata al massimo livello.
Questi i risultati. La Germania ha visto premiati 48 suoi ricercatori. Subito dopo, l’Italia: con 46 ricercatori. Seguono, nettamente distaccate, la Francia (33), la Gran Bretagna (31) e l’Olanda (27). Poi ancora il Belgio e Israele (17) e la Spagna (16). Per avere un’indicazione di quanto sia straordinaria la performance dei ricercatori italiani basta ricordare che l’Italia ha ottenuto praticamente lo stesso numero di successi della Germania, sebbene spenda in ricerca meno di un quarto della Germania (17 miliardi di euro contro i 71 della Germania). E ha ottenuto il 39% di successi in più della Francia, sebbene la Francia investa in ricerca una cifra (40 miliardi nel 2013) che è quasi due volte e mezza quella italiana. Lo stesso vale per la Gran Bretagna: con un investimento in R&S doppio rispetto a quello italiano, ha visto finanziati un terzo in meno di progetti di suoi ricercatori rispetto a quelli degli italiani.
Pochi giorni prima il rapporto International Comparative Performance of the UK Research Base – 2013, elaborato dagli esperti della Elsevier per conto del Department of Business, Innovation and Skills (Bis) del governo della Gran Bretagna registrava l’avvenuto sorpasso dei ricercatori italiani su quelli americani in termini non solo di produttività, ma in termini di qualità. La performance può essere racchiusa in poche cifre: nell’anno 2012 con l’1,1% dei ricercatori del mondo, con l’1,5% della spesa totale mondiale (che, secondo la rivista R&D Magazine ha superato i 1.150 miliardi di euro; l’Italia ha prodotto il 3,8% degli articoli scientifici del pianeta che hanno ottenuto il 6% delle citazioni.
Le citazioni sono considerate, appunto, un indice di qualità. E, dunque, la qualità media degli articoli scientifici di autori italiani è cresciuta costantemente negli ultimi anni e ora è 6 volte superiore alla media mondiale. I nostri ricercatori hanno fatto meglio degli americani. E sono stati superato solo dagli inglesi e dagli svizzeri.
Possiamo riassumere queste due notizie con un piccolo slogan: i ricercatori italiani sono pochi, ma buoni. Lavorano molto e hanno stoffa.
Ma qui iniziano le dolenti note. Lo stesso rapporto dell’Erc sui suoi Consolidator Grant riporta che dei 46 assegni staccati per i ricercatori italiani, solo 20 saranno spesi in Italia: 26 ricercatori (il 57% dei vincitori) lo andranno a spendere all’estero. Perché all’estero trovano un ambiente migliore.
In nessun altro Paese la diaspora è stata così alta. I tedeschi che spenderanno all’estero il loro grant sono 15 (il 31%); i francesi 2 (il 6%); gli inglesi 4 (il 13%). Inoltre la capacità di attrarre ricercatori dall’estero è sfacciatamente contraria al nostro Paese: 10 stranieri andranno a spendere il loro grant in Germania e altrettanti in Francia; addirittura 34 stranieri andranno in Gran Bretagna. Cosicché la classifica dei Paesi dove verranno spesi i soldi dell’Erc è completamente ribaltata: 62 progetti saranno realizzati nel Regno Unito; 43 in Germania; 42 in Francia e solo 20 in Italia.
Il succo è chiaro: i ricercatori italiani sono bravi – più bravi di quasi tutti gli altri – ma l’Italia non è un Paese adatto per fare scienza.
D’altra parte per avere buone idee non occorrono soldi. Ma per creare un ambiente adatto alla scienza, occorrono investimenti. E gli investimenti italiani in ricerca scientifica stanno crollando. Secondo la rivista americana R&D Magazine, che ogni anno redige un rapporto sugli investimenti mondiali in ricerca, l’Italia è decima al mondo per produzione di ricchezza (Pil), ma solo quattordicesima per investimenti assoluti in ricerca scientifica. Eravamo dodicesimi nel 2012. Lo scorso anno ci hanno superato anche Australia e Taiwan. I due Paesi hanno un Pil pari alla metà di quello italiano, ma investono di più in ricerca. Non solo in termini relativi, ma assoluti.
Questo, dunque, è il paradosso della scienza italiana. Da un lato aumenta la produttività e la qualità della ricerca, dall’altro diminuiscono i finanziamenti. In pratica l’Italia sta disperdendo la risorsa che conta di più nell’era della conoscenza. L’unica, forse, che sarebbe in grado di tirarla fuori dal percorso di declino in cui si è incamminata da due o tre decenni. Se solo ce ne accorgessimo anche noi, oltre che gli esperti stranieri.

l’Unità 23.1.14
Morire per l’Europa a Kiev È battaglia nelle strade
Il pugno di Yanukovich: 5 morti, 300 feriti
L’opposizione: «O il presidente concede elezioni o passeremo all’attacco» Prime sanzioni Usa, shock Ue
di Marco Mongiello


BRUXELLES Per ironia della sorte il giorno più tragico delle proteste in Ucraina è stato il giorno dell’unità nazionale, quello che commemora l’accordo del 1919 che unì l’est e l’ovest del Paese e che l’anno scorso è stato celebrato a Kiev con una festosa catena umana sul ponte sul fiume Dnepr. Quest’anno nessuno ha pensato di festeggiare. Ieri il centro della capitale ucraina, su cui ha continuato a cadere la neve, era un campo di battaglia: carcasse di autobus bruciati, barricate, scarpe, caschi, bastoni e sangue. Quello che resta dopo gli scontri tra polizia e manifestanti che da domenica hanno imboccato una spirale di violenza crescente e che sono continuati anche ieri, quando la città si è svegliata con la notizia di tre manifestanti morti negli scontri della notte. Notizia che le autorità provano a smentire, forse uno dei tre è ancora in vita. Ma nel pomeriggio fonti mediche segnalano che le vittime sono 5 e i feriti 300.
Uno shock. Sono i primi morti da quando a fine novembre sono iniziate le proteste dopo la decisione del presidente Viktor Yanukovich di non sottoscrivere l’accordo di associazione con l’Unione europea e di siglare invece un’intesa economica con Mosca. Dopo due mesi di moniti internazionali, incentivi e discorsi diplomatici i timori sono diventati realtà e la situazione è precipitata.
Uno dei tre manifestanti morti è caduto da 13 metri d’altezza nello stadio della Dinamo. Gli altri due sono stati colpiti da pallottole. Lo hanno confermato i medici locali. Il più giovane Sergueï Nigoyan, un ragazzo di vent'anni, era diventato un volto noto della protesta e all’Ukrainska Pravda aveva spiegato che era in piazza «per il suo avvenire». I vertici delle forze dell’ordine hanno negato di aver utilizzato armi da fuoco, ma alcuni dimostranti sostengono che a sparare sarebbero stati i cecchini delle forze speciali Berkut, la polizia anti-sommossa. Martedì sera il premier ucraino Mikola Azarov aveva ammonito i manifestanti a non continuare con le «provocazioni» altrimenti avrebbe «utilizzato la forza». Yanukovich mette in guardia contro derive violente, ieri è stato comunicato che 167 poliziotti sono rimasti feriti.
24 ORE PER DECIDERE
Le violenze a Kiev gelano la comunità internazionale. A Bruxelles in mattinata il presidente della Commissione Ue José Manuel Barroso ha iniziato la conferenza stampa sulla riduzione delle emissioni di gas serra parlando della situazione a Kiev: «Siamo scioccati dalle ultime notizie dall’Ucraina ha detto deploriamo nei termini più forti possibili l’uso della forza e della violenza e chiediamo a tutte le parti di astenersene immediatamente e di prendere provvedimenti che aiutino a calmare la situazione». Barroso non esclude il varo di sanzioni contro il regime di Yanukovich, anche se non entra in dettagli. Alle domande dei giornalisti si limita a rispondere che «se c'è una sistematica violazione dei diritti umani, come sparare su manifestanti pacifici o gravi attacchi alle libertà fondamentali allora dobbiamo ripensare le nostre relazioni con l’Ucraina e forse ci saranno delle conseguenze». L’Alto rappresentante Ue per gli affari esteri, Catherine Ashton, si è detta «molto preoccupata per gli attacchi ai giornalisti e per le notizie di persone scomparse». Gli Stati Uniti intanto sono già passati ai fatti e ieri l’ambasciata americana a Kiev ha annunciato che «in risposta alle azioni contro i manifestanti a piazza Maidan a novembre e dicembre dello scorso anno l'ambasciata Usa ha revocato i visti di diversi ucraini legati alle violenze». La lista è confidenziale ma si dice che questa includa il ministro dell’interno Vitaliy Zakharchenko e altri 19 alti funzionari. Secondo fonti diplomatiche europee gli Stati Uniti starebbero facendo pressioni sulla Ue affinché prenda una linea più dura, ma a Bruxelles alcuni sperano ancora di poter convincere Yanukovich a firmare l’accordo di associazione con la promessa di aiuti economici. Domani il commissario Ue per l’Allargamento Stefan Fule si recherà nuovamente a Kiev.
Di fronte all’escalation della violenza il presidente Yanukovich ha detto pubblicamente di essere «contro il bagno di sangue, contro l’uso della forza e contro l'incitamento alla violenza». Ieri per la prima volta dall’inizio delle proteste il presidente ucraino ha accettato di incontrare i tre leader delle opposizioni, ma al momento questi primi contatti non sembrano aver portato a nessuna conclusione. Se non ci saranno concessioni, ha detto uno dei tre leader dell’opposizione, l’ex campione di boxe Vitali Klitschko, dopo l’infruttuoso incontro con il presidente, «domani andremo all’attacco». L’opposizione chiede elezioni anticipate.

l’Unità 23.1.14
I soldi dei «principi» cinesi nascosti nei paradisi fiscali
Le isole Vergini rifugio delle fortune accumulate Dal 2000 usciti dalla Cina tra 1000 e 4000 miliardi
L’élite rossa tra i 22mila titolari di conti offshore, inclusi parenti del presidente Xi Jinping
di Gabriel Bertinetto


Imbarazzante coincidenza temporale. Un dettagliato rapporto solleva il velo sui tesori nascosti nei paradisi fiscali dai più ricchi uomini d’affari cinesi, alcuni dei quali strettamente imparentati con le massime autorità del Paese. Lo scandalo scoppia nello stesso giorno in cui a Pechino inizia il processo all’attivista democratico Xu Zhiyong, leader di un movimento che ai dirigenti politici chiede proprio di dichiarare pubblicamente redditi e patrimoni personali.
La denuncia, che coinvolge fra gli altri il cognato dello stesso presidente Xi Jinping, nasce da un’iniziativa congiunta del quotidiano britannico Guardian e del Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (Icij). Con l’aiuto di talpe piazzate in due società offshore delle isole Vergini, i reporter hanno raccolto ben 200 gigabyte di dati riservati, che illustrano nel dettaglio i segreti vizi finanziari di 22mila paperoni cinesi. Non è chiaro fino a che punto la massiccia esportazione di capitali all’estero sia avvenuta violando le leggi della Repubblica popolare. Ma è certo che come minimo lo scopo era di evadere il fisco, registrando fittiziamente le proprie attività in Stati in cui la tassazione è vicina allo zero: dalle centroamericane isole Vergini sino a Samoa in pieno Oceano Pacifico.
Spicca nell’elenco la figura di Deng Jiagui, marito della sorella del numero uno cinese Xi Jinping. Deng e consorte sono specializzati nell’industria del lusso, dagli yacht ai campi di golf. Il loro teatro d’azione reale è la madrepatria, ma sulla carta le loro società operano ai Caraibi. Chissà se hanno mai informato dei loro affari il presidente Xi, che ha messo la lotta alla corruzione e al malcostume finanziario al centro dell’agenda politica.
Scorrendo le pagine del documento divulgato dal Guardian e dall’Icij si ha l’impressione che nessuna delle più illustre casate del comunismo cinese sia indifferente alle tentazioni del capitalismo moderno. Troviamo nell’elenco la figlia dell’ex-premier Li Peng, il cugino di Hu Jintao (che sino all’anno scorso sedeva sulla stessa poltrona ora occupata da Xi Jinping al vertice dello Stato e del partito), e anche il genero di Deng Xiaoping, l’uomo che ha legato il suo nome sia alle riforme economiche sia alla strage sulla Tiananmen.
Un anno fa un’inchiesta del New York Times aveva messo a nudo i rapporti fra l’azienda americana JPMorgan e una compagnia di consulenze finanziarie che sembrava fare capo alla figlia dell’allora primo ministro Wen Jiabao. I sospetti di attività svolte nell’ombra vengono confermati dal documento diffuso ieri, da cui risulta che la donna era titolare occulta della ditta attraverso una società delle isole Vergini.
OLIGARCHIA RAPACE
Il quadro che emerge è quello di un’oligarchia politica e imprenditoriale impegnata ad occultare le proprie ricchezze grazie a una rete di relazioni personali, familiari e affaristiche e a un complicato intreccio di scatole cinesi che portano ai paradisi fiscali. Secondo alcune stime, a partire dal 2000 hanno lasciato la Cina verso destinazioni offshore somme comprese fra mille e quattromila miliardi di dollari.
Il governo cinese tenta di impedire la circolazione di notizie così sgradite. Ieri i siti online del Guardian e dell’Icii sono stati oscurati, così come in passato è accaduto ad altre testate straniere. Ma è sempre più difficile evitare che i connazionali si rendano conto di certi fenomeni. Anziché diminuire, le disuguaglianze sociali crescono. I cento cittadini più abbienti dispongono di patrimoni superiori a 300 miliardi di dollari, mentre trecento milioni di persone vivono con meno di due dollari al giorno.
La campagna contro la corruzione e il malaffare lanciata da Xi Jinping nel momento stesso in cui circa un anno fa prendeva in mano il timone del Paese, nasceva anche dalla consapevolezza di quanto siano sentiti questi problemi nella società cinese. Ma il modo in cui è stata condotta sinora la lotta alla criminalità politico-finanziaria è ambiguo. Emblematico il caso di Xu Zhiyong, l’avvocato comparso ieri in tribunale a Pechino sotto l’accusa di avere promosso «manifestazioni contro l’ordine pubblico». In realtà al potere disturba la vigoria con cui il Movimento dei Nuovi Cittadini, lanciato da Xu, si batte nella denuncia di certi crimini. Ad esempio assistendo legalmente i familiari delle vittime del commercio di latte in polvere adulterato. O chiedendo la massima trasparenza sui redditi e patrimoni dei funzionari pubblici.

Corriere 23.1.14
Cina
A processo l’avvocato che chiede trasparenza
di R.E.


È rimasto in silenzio di fronte ai giudici per sei ore, l’avvocato e docente di diritto Xu Zhiyong, fondatore del Movimento dei Nuovi Cittadini che si batte contro l’inquinamento e la corruzione e per la trasparenza dei patrimoni dei funzionari. Proprio nel giorno in cui emergevano i dati sui conti offshore miliardari di molti cinesi, compresi nomi vicini all’élite politica della Repubblica Popolare, Xu è stato processato ieri a porte chiuse alla Corte intermedia del Popolo N.1 di Pechino per «assembramento finalizzato al disturbo dell’ordine pubblico». Una pena di cui sarà quasi sicuramente ritenuto colpevole con una condanna a cinque anni di carcere, come chiesto dall’accusa. «Non vogliamo prendere parte a questa commedia, non siamo attori», ha dichiarato fuori dal tribunale l’avvocato di Xu Zhiyong, Zhang Qingfang, per motivare la scelta del suo assistito e dell’intero team legale di rimanere in silenzio durante l’udienza. La richiesta dell’imputato di ascoltare cinque testimoni a sua difesa era stata infatti respinta e per Zhang «il processo si preannunciava talmente iniquo che solo rispondere alle domande sarebbe sembrata una confessione. Il silenzio era l’unica difesa, la nostra protesta». Xu, 40 anni e professore all’Università di Pechino, da anni impegnato sul fronte sociale e politico e già arrestato per questo in passato, si trova in stato di detenzione da luglio. Era stato fermato con altri attivisti per avere chiesto ai leader politici maggiore trasparenza nella lotta alla corruzione che il governo si è impegnato a lanciare, chiedendo la pubblicazione dei loro stessi patrimoni. Una sfida aperta al Partito comunista, nonostante alcuni obiettivi siano comuni, che è costata ai Nuovi Cittadini e ad altre organizzazioni della società civile una dura repressione. Dall’aprile 2013, le autorità hanno arrestato 17 persone legate al movimento di Xu, tre di loro sono sotto processo e altri sei compariranno in aula nei prossimi giorni. Ieri, mentre fuori dal tribunale si teneva una manifestazione di sostenitori dei Nuovi Cittadini, l’ambasciata americana a Pechino ha chiesto l'immediato rilascio di Xu Zhiyong. Critiche al processo sono arrivate anche dalle organizzazioni internazionali a partire da Amnesty International.

Repubblica 23.1.14
Nuova “purga” contro la tangentopoli turca
Erdogan rimuove centinaia di poliziotti e giudici


ANKARA — Seicento funzionari di polizia di Ankara, Istanbul e Smirne, 96 giudici e procuratori sono stati rimossi in ventiquattr’ore: è il nuovo capitolo della purga colossale scatenata dalla “Mani pulite” del Bosforo, che fa tremare il governo di Recep Tayyip Erdogan. Il capo dell’opposizione, Kemal Kilicdaroglu, accusa il premier di essere «pronto a tutto» per di restare al potere e mettere a tacere i magistrati anti corruzione. Dall’esplosione dello scandalo tangenti, che coinvolge decine di personalità vicine al partito islamico Akp di Erdogan, sono stati silurati più di tremila dirigenti e funzionari della pubblica sicurezza e almeno 120 magistrati, fra cui i titolari delle inchieste.
Le nuove purghe sono scattate all’indomani della trasferta di Erdogan a Bruxelles, in cui ha assicurato ai leader Ue che garantirà il pieno rispetto del primato della legge, dell’indipendenza della giustizia, e la separazione dei poteri. Ma le nuove purghe sembrano indicare una linea ben diversa, e la Ue ha espresso preoccupazione. In parlamento è iniziato l’esame della contestata riforma della giustizia, che pone il sistema giudiziario sotto il controllo del governo mettendo a rischio le trattative di adesione della Turchia alla Ue. Erdogan dice che le tensioni con l’Ue sono dovute alla «disinformazione». E dopo dieci anni di boom, intanto, la lira turca è in picchiata, e i capitali esteri iniziano a fuggire.

Repubblica 23.1.14
Israele attacca l’Italia “Troppo vicini a Teheran”
Il giallo della missione a Roma del ministro Steinitz


GERUSALEMME — Israele è preoccupata dal nuovo corso politico ed economico di Italia e Russia nei confronti dell’Iran. Per questo qualche giorno fa, mentre alcuni funzionari israeliani prendevano la strada di Mosca, a Roma è arrivato in «missione segreta» il ministro degli affari strategici Yuval Steinitz. Scopo del viaggio — ha rivelato il quotidiano Maariv— «frenare» questo riavvicinamento, nel timore che, grazie agli affari, si possa giungere ad un crollo delle sanzioni contro Teheran.
Un quadro complessivo — secondo il giornale — al quale ha dato il via la recente visita in Iran del ministro degli Esteri Emma Bonino, primo responsabile europeo dopo lungo tempo a Teheran. Visita, inoltre, che potrebbe essere presto bissata — perMaariv— da quella del primo ministro Enrico Letta.
Dal Forum mondiale di Davos ha replicato subito la stessa Bonino: «Non si tratta — ha detto il ministro — di bloccare o non bloccare i rapporti economici tra Italia e Iran. Noi — ha spiegato — abbiamo messo sul sito del ministero cosa significa l’alleggerimento delle sanzioni all’Iran e quali sanzioni rimangono in vigore. A partire da ciò, gli imprenditori traggono le loro conseguenze». «L’Italia — ha scritto invece Maariv— non vede l’ora di rilanciare le relazioni economiche con l’Iran». E un alto funzionario statale, citato dal giornale in forma anonima, ha rincarato la dose spiegando che «l’Italia aiuta l’Iran a creare la sensazione che l’isolamento e le sanzioni neisuoi confronti crolleranno presto».

Repubblica 23.1.14
Le guerriere anti aborto
Aborto La controriforma delle donne


In una ventina di Stati (e alla Camera) sono state inasprite le leggi: in America si respira un’aria reazionaria. E anche l’Europa è agitata da venti di riforma
Più di 20 Stati americani restringono le norme sull’interruzione di gravidanza.
Sembra di essere tornati indietro di 40 anni. E nel giorno dell’anniversario della sentenza della Corte Suprema, scendono in campo Papa Francesco e Obama.
Il pontefice benedice la Marcia per la vita, il presidente ribadisce la sua linea: “Ogni donna deve essere libera di scegliere riguardo al suo corpo e alla sua salute”

NEW YORK «Sembra di essere tornati agli Anni Settanta, anzi al Dopoguerra in quella società bigotta e moralista che inorridiva solo alla parola aborto, dove le donne timorate di Dio si facevano il segno della croce quando la sentivano. Purtroppo scopriamo che nell’America di oggi, moderna ed evoluta, un bene fondamentale come questo è messo in pericolo»: Vanessa Cullins parla veloce attacca le parole, usa come intercalare: «Incredibile, incredibile». È una delle leader della Planned Parenthood Federation, la principale organizzazione che si batte «per il diritto delle donne ad una scelta libera senza pressioni o vincoli», le sue parole raccontano «la più grande crociata anti-abortista da quarant’anni a questa parte» che sta scuotendo ilpaese. Nel giorno dell’anniversario della sentenza della Corte Suprema che rese legale l’aborto il 22 gennaio del 1973 scendono in campo Barack Obama e papa Francesco. Il pontefice usa il suo account twitter per benedire la tradizionale Marcia per la vita, dove centinaia di manifestanti sfilano per le strade di Washington: «Prego per loro, dobbiamo imparare a rispettare ogni forma di esistenza, soprattutto quella dei più deboli: per la Chiesa è un valore sacro». Il presidente ribadisce in un discorso la sua linea: «Noi dobbiamo dare ad ogni donna la possibilità di prendere scelte consapevoli riguardo al suo corpo e alla sua salute. Per questo ci impegniamo ad abbassare ancora i conti della sanità per mettere tutte nelle stesse condizioni: questa deve essere la nostra battaglia».
Negli ultimi mesi quasi venti Stati hanno rimesso mano alla legislazione, alla Camera dove i Repubblicani hanno la maggioranza è stata votata una norma che vieta l’interruzione di gravidanza dopo le 20 settimane, che non passerà mai al Senato dove invececomandano i Democratici, ma tanto è bastato per mettere in allerta la Casa Bianca che in più occasioni conferma: «Il presidente è pronto a mettere il suo veto». Lo scontro è culturale, la politica lo cavalca. Con la competizione del Midterm alle porte, l’ala dura del partito conservatore, il Tea Party è deciso a sventolare la bandiera antiabortista per prendere consensi in un elettorato sempre più smarrito e dunque smanioso di nuovi totem a cui aggrapparsi. I Democratici vanno ovviamente in direzione opposta e contraria: «Se pensano di farci tornare indietro nel tempo sono pazzi o degli illusi. Lotteremo con tutte le forze per impedirglielo», spiega alle tv la deputata liberal di New York Louise Slaughter, una delle protagoniste sulle barricate. «Siamo ad una svolta, non sono lesolite scaramucce che ci sono sempre state. I prossimi mesi saranno decisivi per capire in quale Paese vivremo: se vincono i divieti, sarà un danno irrimediabile da cui sarà difficile riprendersi per molto tempo», spiega Suzanne Goldberg che guida il Center of Gender and Sexuality Law alla Columbia.
A Washington nonostante il sole tira un vento gelido, gli oratori provano a riscaldare la folla: gli slogan sono quelli di sempre, come i cartelli. Dietro il palco si muovono anche Lila Rose e Kristan Hawkins: loro non erano nemmeno nate nel 1973 ma il
Washington Post le incorona come simboli del nuovo movimento anti abortista, che — contro ogni previsione — conquista sempre più giovani.
Lila, californiana, ha 25 anni, i capelli neri lunghi lisci, racconta di essere stata «folgorata dalla rivelazione» a 9 anni quando le capita tra le mani un libro contro l’interruzione di gravidanza. Decide in quel momento che quella sarebbe stata la sua missione: «Una bambino è sempre un regalo, la vita che Dio ci dona va sempre salvata» è il suo mantra. A 15 anni fonda la prima associazione “pro life”, James O’Keefe è il maestro e guida, la loro azione è ai confini del crimine (lui verrà spesso arrestato): si introducono nelle cliniche e filmano con telecamere nascoste quello che accade oppure i colloqui con medici e infermieri che, secondo l’accusa, invogliano le donne a farsi operare. Lei compie blitz a Los Angeles e Santa Monica, si finge incinta e interroga i dottori poi posta i video su YouTube dove diventano in breve virali. Carol Joffe, ha scritto un libro sulla «guerra dell’aborto», osserva preoccupato: «Sono comportamenti pericolosi. Gli specialisti non sono più tranquilli e faranno sempre più fatica a svolgere bene il loro lavoro per il terrore di finire alla berlina». La minaccia è tale chealcune critiche mettono in piedi delle vere e proprie zone di sicurezza per tenere lontani i contestatori (e su questo si sta pronunciando la Corte Suprema).
Kristan ha 28 anni, porta gli occhiali, ha il viso tondo, cresciuta in una famiglia molto religiosa della West Virginia si definisceaborto abolizionista e il riferimento è evidente: «Non c’è alcun differenza tra quelli che hanno lottato per liberare uomini e donne messi in catene per il colore della loro pelle e chi adesso lotta per salvare la vita dei bambini». La sua organizzazione è attiva nelle università americane e persino nella New York che ha appena eletto Bill de Blasio trova consensi. Jeannette ha 22 anni e studia alla Nyu, è in treno, di ritorno dalla marcia di Washington: «Non mi interessa se qualcuno dei miei amici mi prende in giro: io sono fiera del mio impegno». Lei passa almeno due pomeriggialla settimana in giro per le cliniche e gli ambulatori della città cercando di parlare alle donne intenzionate ad abortire: «Spiego loro che ci sono altre strade, che questa scelta non è una libertà ma una condanna».
Il Texas è l’epicentro della lotta. Qui il governatore Rick Perry riesce a far passare senza molti problemi la legge che vieta l’interruzione di gravidanza dopo le 20 settimane, poi riduce la vendita di farmaci e con una serie di cavilli burocratici rende sempre più complesso il rapporto medico paziente e la sopravvivenza delle cliniche specializzate: «Molte stanno già chiudendo e nei prossimo mesi oltre un terzo delle strutture sarà in disarmo», spiega ancora Vanessa Cullins. Il clima è da caccia alle streghe, lungo le strade di Houston, Austin, SanAntonio spuntano continuamente picchetti di militanti anti abortisti: “Pray to end abortion”, preghiamo per mettere fine all’aborto è la frase di rito che apre e chiude le manifestazioni: preghiamo. La democratica Wendy Davis che provò con un ostruzionismo di oltre 11 ore a fermare la legge viene dileggiata su siti e tv: «Ha mentito sulla sua storia», la accusano adesso.
La creatività dei legislatori è sconfinata, tanto che la battaglia con i vari tribunali a suon di sentenze contradditorie è pressoché costante. In Ohio vengono tolti fondi agli ospedali e dirottati su programmi di educazione sessuale dove l’astinenza è la regola base, i medici hanno l’obbligo di illustrare la possibilità delle adozioni alle donne che vanno da loro. In Wisconsin la paziente si deve sottoporre ad un’ecografia perché così vede il feto, in North Carolina, Pennsylvannia e altri Stati la copertura assicurativa non funziona per l’interruzione di gravidanza, in Kansas i dottori che praticano l’aborto non possono insegnare nelle scuole.
Nicole Stewart ha 34 anni e fa l’attrice, il Dallas News racconta la sua storia. Lei e il marito vogliono un figlio, esultano alla gravidanza, lei pensa già ad un monologo dove racconterà la sua gioia. Ma la vita non sempre prevede lieto fine e applausi, l’ecografia rivela malformazioni cerebrali devastanti sul feto e lei decide di abortire dopo la 22esima settimana. Nel suo spettacolo non ci sono sorrisi e urla di neonati, ma solo il suo sguardo impietrito nel vuoto, la voce che si inceppa, le unghie conficcate nel leggio: «Ho deciso di rendere pubblica la mia esperienza quando ho sentito alla radio le parole di militanti integralisti. Io sono stata fortunata, ho avuto assistenza, i medici e gli psicologici mi hanno sostenuto, ma cosa succederà adesso alle altre ragazze? Chi le aiuterà?». Poi conclude: «Io non sono contro la vita, ho amato con tutto il cuore mio figlio ogni attimo che l’ho avuto dentro di me. Proprio per questo, anche se è straziante, rifarei quello che ho fatto: per lui, per il diritto ad una vita felice».

Repubblica 23.1.14
Protesta su Twitter in Francia “Il mio corpo, il mio diritto”


PARIGI «Il mio corpo, il mio diritto». Migliaia di fotografie con uno slogan antico, improvvisamente tornato d’attualità. È la protesta virale delle ragazze francesi per appoggiare la riforma del governo che rende più semplice l’interruzione di gravidanza. Gli autoscatti hanno invaso Twitter, con il popolare hashtag #Ivg-moncorpsmondroit proprio durante la discussione in parlamento di una nuova riforma del diritto all’aborto. Mentre la Spagna ha da poco ristretto la normativa, la Francia ha deciso di cancellare dalla storica legge del 1975, che porta il nome di Simone Veil, all’epoca ministra della Sanità, la condizione per cui una donna debba essere in stato di «estremo disagio» per ricorrere all’aborto. Una menzione giudicata ormai “obsoleta” dalla ministra socialista delle Pari opportunità, Najat Vallaud-Belkacem.
La riforma della legge solleva un nuovo dibattito sociale in Francia, dopo quello sul matrimonio gay. Domenica una “marcia per la vita” ha portato nelle strade di Parigi migliaia di persone per dire no all’aborto. Un corteo che Papa Francesco ha appoggiato apertamente, invitando i manifestanti a «mantenere viva l’attenzione su un tema così importante». Proprio domani François Hollande incontrerà per la prima volta il Pontefice. Ma la riforma francese, hanno assicurato dall’Eliseo, non sarà discusso.
Era da tempo che in Francia non ripartiva una mobilitazione per il diritto all’aborto. La prima a postare la sua foto su Twitter è stata, lunedì, l’attrice Frédérique Bel. Un nudo integrale con una bocca al posto del pube. Una foto che è rimbalzata in poche ore sulla rete, fino ad essere censurata da Twitter perché considerata oscena. Ieri invece la protesta è ricomparsa sul social network con il popolare hashtag inventato da una giornalista del magazine Elle,Laurent Bastide. Il suo scatto è meno spinto di quello di Bel. Bastide è vestita e tiene un cartello in cui è scritto: “I love mon droit all’Ivg”, l’abbreviazione per l’interruzione volontaria di gravidanza. Molte altre donne seguono, facendo autoscatti con lo stesso cartello. Altre scrivono sulla pancia, su una mano, sulla guancia. Il concetto è quello delle femministe negli Anni ‘70: «Il corpo è mio». C’è preoccupazione sull’ondata internazionale che rimette in discussione l’aborto, dalla Spagna agli Stati Uniti. «Non possiamo essere tornate a questo punto» commentano alcune ragazze su Twitter. «Simone, svegliati», dice un’altra ragazza a proposito di Simone Veil. Al movimento online aderiscono alcuni uomini. «È la loro scelta, il loro diritto» dicono. Molte citano il manifesto delle 343 “salopes”, sgualdrine, che apparse sul Nouvel Observateur negli Anni ‘70. Allora, le femministe autodenunciarono il loro aborto, sfidando il divieto dello Stato. Oggi la situazione è diversa. In Francia più di 220.000 gravidanze vengono interrotte volontariamente ogni anno. Circa una donna su 3 ha fatto ricorso all’aborto almeno una volta nella sua vita.
Il progetto di legge francese segue un percorso inverso rispetto a quello spagnolo, che intende restringere il diritto all’aborto, limitandone la legalità ai soli casi di stupro e di rischio reale per la salute della donna. Una legge che secondo la ministra francese della Sanità, Marisol Touraine, rappresenta «un ritorno all’età della pietra». In Francia, invece, l’emendamento alla legge Veil renderà più semplice interrompere la gravidanza. Il nuovo testo prevede che una donna possa abortire perché «non intende portare a termine la gravidanza» e non più perché, come vuole il testo originale, «si trova in una situazione di estremo disagio». Contro la riforma si è schierata una parte della destra che teme la “banalizzazione” dell’aborto. L’Ump ha presentato a sua volta un emendamento contro il rimborso delle spese di aborto da parte dell’assistenza sanitaria.

l’Unità 23.1.14
L’addio. L’ingiusta distanza
Ci lascia Carlo Mazzacurati Ed è un grande dolore
Padovano, 57 anni, aveva vinto il Leone d’argento nel 1994 Tra commedia all’italiana e sguardi malinconici sul presente ha dato molto al cinema. Il suo ultimo film uscirà ad aprile
di Alberto Crespi


CARLO MAZZACURATI È MORTO. A 57 ANNI, PER UN MALE CHE LO ATTANAGLIAVA DA ALCUNI ANNI. SAPEVAMO CHE PRIMA O POI QUESTA NOTIZIA SAREBBE ARRIVATA, e al tempo stesso speravamo non arrivasse mai, come se distanziarla col pensiero potesse servire a esorcizzarla. Sembrava impossibile che un uomo così forte, così imponente, così buono potesse soccombere. Ora che il rovello è diventato certezza, rimane solo rabbia. Troppo presto, Carlo, e comunque non così. Ci mancherai. Ci mancherà quel tuo cinema così originale, lieve e al tempo stesso profondo, allegro e insieme dolente. Ci mancherà quella tua verve dialettica, nel nome della quale – quando ti dicevamo che i tuoi film non assomigliavano a nulla del cinema italiano corrente – ribattevi sempre «E allora? È per quello che non ti piacciono? Se un film non si capisce bene cos’è, allora è un film di Mazzacurati?». In realtà molti tuoi film ci piacevano eccome, e segnalarne l’anomalia nel panorama del nostro cinema ci sembrava un complimento. Ma forse sbagliavamo, forse il tuo carattere schivo e timido cercava un riconoscimento di critica e di pubblico che a volte sembrava non arrivare. Chissà. Non lo sapremo mai.
Carlo Mazzacurati sapeva cosa stava accadendo. Al Torino Film Festival, un paio di mesi fa, è stato presentato il suo ultimo film La sedia della felicità, che a questo punto uscirà postumo (è previsto per aprile). L’abbiamo visto, e abbiamo capito. Non si tratta di un film-testamento, no: è una cosa molto più bella. È il saluto di un uomo che sa di dover andare altrove, e fa un giro a salutare i vecchi amici perché la sua mancanza sia, dopo, più lieve. Rifacendosi a Il mistero delle 12 sedie, celebre racconto degli umoristi sovietici Ilf e Petrov già portato al cinema da Mel Brooks, raccontava l’odissea di due spiantati del Nord-Est (Isabella Ragonese e Valerio Mastandrea) che cercano un tesoro nascosto nell’imbottitura di una sedia. La ricerca li porta in contatto con un’umanità assortita e buffa, e in quei piccoli ruoli Mazzacurati aveva radunato tutta la banda: Silvio Orlando, Antonio Albanese (doppio, nel ruolo di due gemelli, e bravissimo), Fabrizio Bentivoglio, Roberto Citran, Giuseppe Battiston... tutti i complici di una filmografia lunga e affascinante, che si sono prestati al gioco sapendo di salutare un amico.
Quando vedrete il film, osservate il finale, con quell’orso e quel motociclista magicamente uniti nello scenario delle Dolomiti che Carlo amava tanto. Se non è un congedo quello... ed è un congedo sereno, quasi Zen, degno di quell’Ermanno Olmi che era sicuramente fra i suoi maestri.
Carlo Mazzacurati era figlio della generazione dei cineclub. A Padova, dov’era nato il 2 marzo 1956, era stato folgorato dal cinema grazie al magistero di Piero Tortolina, mitico collezionista e programmatore del cineclub Cinema Uno. Era stato uno dei primi italiani laureati in un Dams (quello storico, di Bologna). Esordì nel 1987 con Notte italiana, uno dei primi due film (l’altro era Domani accadrà di Luchetti, con cui collaborò alla sceneggiatura) prodotto dalla Sacher di Nanni Moretti.
Seguirono Il prete bello, Un’altra vita, Il toro (uno dei più belli, con la strana ma azzeccatissima coppia Abatantuono/Citran), Vesna va veloce, La lingua del santo (il più «padovano», forse il più complesso e riuscito), A cavallo della tigre (remake non molto risolto di un classico di Comencini), lo splendido La giusta distanza con la rivelazione di Valentina Lodovini e il meno compiuto, ma particolarissimo, La passione con un raro e sulfureo cammeo di Corrado Guzzanti. Tutti titoli che girano intorno al «grande film» forse senza mai arrivarci (La giusta distanza è quello che ci va più vicino), ma a nemmeno 60 anni un regista ha tutto il diritto di essere ancora alla ricerca di se stesso, no?
TRA SOGNATORI E PERDENTi
Che cinema era, alla fin fine, quello di Carlo Mazzacurati? Riusciamo oggi, in deplorevole ritardo rispetto alle sue rimostranze, a definirlo? Non è facile, proprio perché Carlo era un artista riservato e pieno, ci giureremmo, di zone misteriose. Costeggiava la commedia all’italiana senza mai entrarci davvero, e non è un caso che rifacendo un film di Comencini avesse scelto un titolo poco «comico». Parlava del suo Nord-Est, ma in modo tutt’altro che documentaristico, rifuggendo dai cliché (anche i suoi «ritratti» di scrittori, dedicati a Rigoni Stern, Zanzotto e Meneghello, non erano documentari in senso classico). Inseguiva, forse, una commedia umana che – come quella, enorme, di Balzac – trova la propria dimensione nel complesso dell’opera, più che nel singolo titolo.
Raccontava sognatori e perdenti, uomini e donne strampalati o semplicemente spiazzati di fronte alla vita. Non sottolineava mai il dramma, ne cercava sempre i lati buffi. In almeno due dei suoi film migliori (Il toro e La lingua del santo) si ride molto, ma si ride amaro.
Che fosse un uomo dotato di grande ironia, è testimoniato dalle sue prove d’attore per l’amico Nanni Moretti: lo si vede in Palombella rossa, in Caro diario e nel Caimano (è il cameriere divorato dalle aragoste in uno dei film-trash del produttore Silvio Orlando), ma ci piace ricordarlo in uno dei tagli di Aprile poi resi pubblici da Nanni, Il grido d’angoscia dell’uccello predatore, dove fa un tizio capace di cacciare gli storni che ricoprono di guano alcuni quartieri di Roma. Un pezzo che fa morir dal ridere: espressione che è un bieco luogo comune, ma che per salutare Carlo ha un suo perché.

Corriere 23.1.14
Ideologie. Il catechismo del rivoluzionario russo: distruggere tutto, anche se stessi
Per Sergej Necaev il combattente non doveva avere né case né amori
Storia del più feroce teorico del nichilismo: voleva cambiare il mondo, ma fu un assassino e tradì anche l’amico Bakunin
di Pietro Citati


Il catechismo del rivoluzionario, un piccolo libro composto nel 1869, probabilmente da Sergej Necaev, (a cura di Michael Confino, traduzione di Giséle Bartoli, Adelphi pp. 268 e 9,30), è uno degli scritti capitali del nichilismo russo. Ho letto pochi testi animati da uno spirito di distruzione così feroce, spietato e assoluto, che occupa completamente la mente e il cuore di chi scrive, e si incide in una forma memorabile, che prescrive l’imitazione dei lettori. Secondo Necaev, bisognava distruggere tutto: lo stato, l’aristocrazia, la borghesia, la chiesa, i kulaki, gli stessi contadini, se la loro esistenza possedeva una qualsiasi forma. I rivoluzionari dovevano raccogliersi e concentrarsi: fare propaganda nei bassifondi, tra i pezzenti, i ladri e i briganti che occupavano il vasto mondo sotterraneo della Russia, scagliandoli contro il potere. Non doveva restare più niente: nessuna organizzazione sociale e politica, come poi pensò il comunismo sovietico, doveva prendere il posto del mondo distrutto.
Una sola cosa esisteva sulla terra, un solo pensiero, una sola passione: la rivoluzione, che escludeva ogni altra passione, interesse e sentimento. La rivoluzione si introduceva in tutte le classi della società, medie ed infime, nella bottega del mercante, in chiesa; e via via si allargava, insinuandosi nella casa signorile, nel mondo burocratico, militare, letterario, nella polizia segreta, e persino nel Palazzo d’Inverno, cioè nel luogo dove il potere si concentrava. La rivoluzione aveva una prodigiosa ubiquità: era dovunque, e si impadroniva di tutto. Gli uomini, secondo Necaev, vivevano di pregiudizi. Solo la rivoluzione non conosceva pregiudizi: perché, per affermarsi, usava ogni mezzo possibile — la forza, la violenza, la menzogna, l’inganno, la mistificazione, — e li usava contro i potenti e contro gli stessi compagni, che la preparavano.
Nel Catechismo Necaev descriveva stupendamente il carattere dei rivoluzionari. Anzi del rivoluzionario: perché non gli interessava il carattere del partito, del gruppo, del comitato segreto, ma esclusivamente quello del singolo, che agiva da solo e compiva una serie di azioni distruttive, immaginate e inventate nella sua mente sovrana. Dagli studenti e dai seminaristi affiliati, il rivoluzionario esigeva una sottomissione totale, una incondizionata partecipazione all’impresa, i cui scopi restavano loro completamente sconosciuti. Egli creava un piccolo circolo, composto da quattro o cinque persone: questo circolo generava un secondo circolo; il secondo ne generava un terzo, e così via, senza fine, attraverso il vasto corpo della Russia, senza che si potesse mai risalire al nucleo originario.
«Il rivoluzionario — diceva Necaev — non ha interessi propri, affanni privati, sentimenti, legami personali, proprietà. Non ha neppure un nome». Egli era spaventosamente duro verso sé stesso, come se fosse un pezzo di ferro o di legno. Ma era molto più duro verso gli altri: tutti i sentimenti terreni, che ammorbidiscono l’animo, come l’amicizia, l’amore, la gratitudine, l’onore, dovevano essere soffocati dall’unica, fredda passione per la causa. Per lui esisteva soltanto un’unica gioia: il successo della rivoluzione. Due sole inclinazioni variavano la freddezza della sua anima. La prima era l’odio, che provava non soltanto verso il governo e le classi dirigenti, ma verso gli stessi giovani che aveva trascinato con sé: per loro non aveva che avversione e disprezzo. La seconda era la mistificazione. Mentre abitava la società, egli si faceva passare per ciò che non era: tutte le sue parole non erano che menzogne ed inganno.
Il tempo precipitava verso la guerra all’ultimo sangue. «Quando si deve fare la rivoluzione?» si chiedeva un amico di Necaev, Tkacev. «Adesso, rispondeva, perché fra poco sarà troppo tardi». Anche Necaev credeva nell’assoluta imminenza della rivoluzione, che sarebbe accaduta tra pochi giorni. O almeno fingeva di crederci, quando, a Locarno, parlava con Bakunin, raccontando dei comitati immaginari che tendevano le loro fila nella Russia zarista.
* * *
Prima di lasciare la Russia, Necaev aveva compiuto un delitto. Ivanov, suo compagno politico, era un uomo agiato, che più volte gli aveva dato denari. Alla fine, gli disse che aveva perduto qualsiasi fiducia in lui, e non l’avrebbe più finanziato. Allora Necaev mentì: disse ai compagni che Ivanov era un agente della polizia segreta russa e si accingeva a denunciare l’organizzazione alla giustizia. Il 21 novembre 1869, i cinque compagni della Narodnaja Rasprava attrassero Ivanov, di notte, nel parco dell’Accademia dell’Agricoltura di Mosca e lo uccisero. Dimenticarono di avere una pistola: lo colpirono coi pugni e le pietre, e finirono per strangolarlo. L’uccisione avvenne in un clima sinistro e farsesco, che Dostoevskij raccontò mirabilmente in un capitolo dei Demòni.
Inseguito dalla polizia russa, Necaev fuggì in Svizzera, a Locarno. Lì viveva Michael Bakunin, famoso profeta della rivoluzione anarchica. Da trent’anni era lontano dalla Russia; la gioventù di Mosca e di Pietroburgo era per lui una terra incognita; si sentiva vecchio, debole, impotente; era pieno di rimpianti, e sognava disperatamente la patria che aveva lasciato nella giovinezza. Continuava a descrivere il suo programma. Secondo lui, il popolo russo conservava nella memoria l’ideale dell’antico comune libero. Ogni villaggio sentiva l’urgenza di un cambiamento assoluto, e nascondeva in fondo all’animo il desiderio di impadronirsi di tutta la terra dei nobili e dei kulaki.
Quando Necaev arrivò a Locarno, Bakunin lo accolse con profondissima ammirazione, credendo in lui come in un’immagine ritrovata della sua giovinezza. «Sono ammirevoli — diceva — questi giovani fanatici-credenti senza Dio, eroi senza frasi fatte». Venerava la sua passione rivoluzionaria, la sua energia scatenata, la sua volontà, il suo disinteresse, la sua instancabile alacrità, la sua abnegazione assoluta, il suo fascino. Non aveva mai incontrato — disse — nessun giovane così prezioso e santo; e lo riteneva capace di riunire intorno a sé, non per sé ma per la causa, tutte le forze rivoluzionarie della Russia.
A Locarno, si ripeté quello che era accaduto a Mosca: la forza della rivoluzione rivelò di non essere altro che mistificazione e inganno. Necaev aveva una sconfinata fiducia nella propria infallibilità, e un totale disprezzo per gli altri esseri umani, anche se erano suoi amici e compagni. Cercava di carpire i segreti di Bakunin e degli altri rivoluzionari; rimasto solo nelle loro camere, apriva i cassetti, leggeva la corrispondenza; se veniva presentato a un amico, la sua prima cura era di seminare discordie, pettegolezzi, intrighi; e cercava di sedurre le mogli e le figlie, violando ogni amore ed amicizia.
Bakunin fu profondamente offeso. «Dunque voi mi avete sistematicamente mentito», scrisse a Necaev. «Dunque la vostra impresa era marcia di menzogne… Credevo incondizionatamente in voi, ma voi mi stavate ingannando… Ora basta. I nostri rapporti passati e i nostri mutui obblighi sono finiti. Li avete distrutti voi stesso». Quando vide la rivoluzione incarnata in un essere umano, Bakunin si accorse di avere davanti a sé un mostro spaventoso; e rimpianse tutti gli anni che aveva dedicato al suo ideale impossibile.

Corriere 23.1.14
Il fantasma del voto di popolo
Quando Gaetano Mosca si opponeva al suffragio universale
di Luciano Canfora


«Con la vittoria dell’ostruzionismo dopo le elezioni generali del 1900 il liberalismo fu sopraffatto dalla democrazia: sopraffatto a tal segno che questa assorbì quello e le si sostituì, mentre sono termini sostanzialmente antitetici». Così scriveva Antonio Salandra nel volume di «ricordi e pensieri» edito da Mondadori nel 1928, La neutralità italiana . Salandra continuava additando Giolitti come «maggior rappresentante» della tendenza democratica, «colpevole» di credere e sostenere «essere i democratici i veri liberali».
Non a caso Salandra indicava nell’anno 1900 lo spartiacque, l’anno di svolta che aveva aperto le porte alla deriva in senso democratico, giacché quello fu il momento, nella storia dell’Italia da poco unita, in cui la «destra storica» fu, e per un lungo tratto, travolta a seguito della repressione feroce dei moti di Milano del 1898 e dell’indignazione popolare contro Bava Beccaris, Di Rudinì e consorti. Dopo Zanardelli, pacificatore, fu l’ora di Giolitti e si avviò un’era — quella «giolittiana» appunto — in cui non solo non si rispose più con le fucilate agli scioperanti, ma si cominciò a porre seriamente la questione di allargare significativamente il suffragio in direzione quasi «universale», come poi accadde — escluse rimanendo pur sempre le donne — nel 1912, ad opera appunto di Giolitti.
Nel 1892 aveva ancora diritto al voto solo il 9,4% della popolazione e solo il 56% di tale 9% andò effettivamente a votare. Nel 1912 Giolitti, superando resistenze e perplessità (anche di autorevoli suoi consiglieri come Croce), allargò di molto il suffragio, pur lasciando fuori coloro che, «maggiorenni sotto i 30 anni», non avessero prestato il servizio militare o non corrispondessero a determinate condizioni di censo (Siotto-Pintor, voce «Elezione» dell’Enciclopedia italiana, vol. XIII, del 1932). E il corpo elettorale salì da 3 milioni e 300.000 a 8.700.000 di cui circa due milioni e mezzo di analfabeti.
Giolitti intuì che il suffragio allargato si poteva concedere perché non era più un pericolo. In questa svolta epocale della nostra storia si colloca la riflessione di Gaetano Mosca (1858-1941), docente di Diritto costituzionale, sottosegretario alle colonie con Salandra (1914-1916), senatore del Regno dal 6 ottobre 1919, ammiratore del Di Rudinì. L’elogio che egli ne tesse in uno scritto importante apparso nel «Corriere della Sera» l’8 agosto 1908 è raccolto nel bel volume, da poco in libreria, Gaetano Mosca e il «Corriere della Sera» , curato egregiamente da Alberto Martinelli per la Fondazione Corriere della Sera.
La ricchezza del volume impone di trascegliere qui solo alcuni temi. Quello cruciale dell’allargamento del suffragio campeggia. E Mosca si impegna, con argomenti assiduamente proposti, nel corso degli anni, al grande quotidiano milanese, contro il voto alle donne e contro il suffragio universale.
Nel primo caso i suoi argomenti sono talvolta comici, come quando mostra aperture verso le professoresse (cui è difficile opporre l’argomento dell’inconsapevolezza e dell’eventuale analfabetismo) o quando evoca l’influenza dei «parroci» sul voto allargato. E in questo caso l’allarme riguarda l’influenza degli uomini di Chiesa non solo sulle donne, ma anche sugli analfabeti. Contro il suffragio universale (che a un certo punto osserva non essere neanche più tanto desiderato dagli stessi socialisti) i suoi argomenti sono quelli «classici» delle aristocrazie di tutti i tempi. È sarcastico verso Salvemini, che chiama con ironia «il geniale storico pugliese», il quale vorrebbe dare il voto ai contadini analfabeti della Basilicata, della Puglia o della Calabria. L’argomento più pungente che adduce è però quello dell’effettivo assenteismo: anche chi avrebbe diritto al voto non va a votare, non va a richiedere il certificato elettorale. (Si è visto che nel 1892 aveva votato poco più della metà degli aventi diritto).
È tema ritornante, anche in tempi di suffragio universale, e in particolare nel tempo presente, che potremmo definire l’età della «stanchezza del suffragio universale». Una tale massiccia rinuncia a esercitare il diritto di voto è, per Mosca, la prova dell’assurdità di voler imporre a masse ancora più grandi l’esercizio del voto.
Egli non poteva immaginare che, oltre un secolo dopo l’introduzione in Italia di quel suffragio semi-universale che tanto lo allarmava, si sarebbero sviluppate ingegnerie elettorali più o meno sofisticate, più o meno arbitrarie, miranti a creare de facto , con leggi di tipo maggioritario, una differenza e un diverso valore civile tra voto «utile» e voto «inutile». Allarmante distinzione contro cui sapientemente si espresse Michele Ainis su questo giornale il 6 febbraio 2013. Le escogitazioni «maggioritarie» miranti a dare il governo in mano ad una minor pars del corpo elettorale possono apparirci oggi come la forma attuale dell’antico sogno «elitistico» di dare il potere effettivo soltanto a una minoranza qualificata.
Come ben scrive Martinelli in prefazione, Mosca, con Albertini, guardava al declino dello Stato liberale «col disincantato pessimismo del conservatore». Essi «condividevano una analoga fedeltà all’eredità e al mito della Destra storica». Le aperture riformiste di Giolitti li allarmavano: e ritennero di fare un gran passo quando approvarono (1901) il riconoscimento giuridico dei sindacati.
Le questioni che Mosca affronta, e che ritornano costantemente pur nel cambiamento, spesso apparente, dei contesti storici, possono ridursi a una sola grande difficoltà: la rappresentanza della «volontà generale». Non è perciò forse privo di significato che un esponente importante della sinistra italiana del Novecento, Palmiro Togliatti, per un verso raccomandasse (teste Italo De Feo) la lettura di Gaetano Mosca e per l’altro elogiasse Giolitti, nel celebre saggio a lui intitolato. La questione dei modi di attuazione e di funzionamento del suffragio universale è tuttora aperta.

Repubblica 23.1.14
Salviamo gli archivi
Usiamo le ex caserme per custodire la memoria
Rischiano di andare perdute le carte dei grandi processi di terrorismo, mancano fondi e personale
Per preservare la coscienza che il paese ha di sé, ecco il senso di una proposta rivolta al governo
di Benedetta Tobagi


Grande emozione suscitò il recupero e successivo restauro delle lettere autografe di Aldo Moro dalla prigionia: avrebbero subito un deterioramento irreversibile se fossero rimaste nel ventre dell’archivio del tribunale di Roma ad aspettare il termine di quarant’anni previsto per il versamento all’archivio centrale di Stato. E meno di una settimana fa hanno rischiato di finire nel rogo delle procedure di scarto periodico alcuni delicati documenti riservati contenuti negli incartamenti del processo del 1967 contro Scalfari e Jannuzzi, quando fecero esplodere sull’Espresso lo scandalo Sifar e il caso del “piano Solo” del generale De Lorenzo, il primo di una lunga serie di sussulti golpisti: secondo il protocollo standard, infatti, solo la Corte d’Assise conserva i fascicoli interi. Ma l’eccezionale complessità delle pagine criminali della storia dell’Italia repubblicana esige che alle carte in cui lacrime e sangue di quella storia sono racchiuse sia riservata un’attenzione particolare: non si può continuare a confidare solo nella coscienziosità e buona volontà di singoli archivisti o cancellieri illuminati.
Si ripropone ancora una volta, insomma, l’annoso problema degli archivi italiani, parte organica di un patrimonio storico-artistico più che mai bisognoso di tutele, a dispetto della crisi. Come chiarisce Michele Di Sivo, che per l’Archivio di Roma cura il versamento delle carte dei processi per terrorismo ed eversione celebrati a partire dalla fine degli anni Sessanta, i problemi di spazio, inventariazione, conservazione (l’obiettivo a tendere è una completa digitalizzazione dei fascicoli, come s’è fatto già fatto con i processi di Milano e Catanzaro per la strage di piazza Fontana) si saldano alle gravi criticità della gestione ordinaria dell’immenso patrimonio archivistico della storia d’Italia. Si parla di oltre duemila chilometri di carte: due volte la lunghezza della Penisola. Le sedi degli archivi di Stato non hanno più spazio, perché la mole dei documenti, nel Novecento, è cresciuta di pari passo con l’espandersi della burocrazia statale; l’esigenza emersa, non solo a Roma, di un versamento anticipato delle carte dei tribunali per salvaguardarle dal deperimento non fa che rendere più urgente il problema. Gli antichi palazzi in cui dimorano spesso non sono più adeguati a garantire condizioni ottimali di conservazione. E comincia a porsi un problema serio di personale: l’età media degli archivisti ormai è elevata (la media è circa 58 anni), mancano le risorse per assumerne di giovani e trasmettere loro le conoscenze sul campo, oltre che per dotarsi di competenze adeguate ad affrontare le nuove sfide poste dall’archiviazione nell’era digitale.
La crisi morde e le risorse, è noto, scarseggiano. Che fare, dunque, per uscire da un perenne stato d’emergenza e scongiurare danni irrimediabili? Serve una politica culturale coraggiosa. Serve una strategia di tutela dei beni culturali — beni comuni, ricordiamolo — che, accanto al taglio dei costi, si preoccupi del costo dei tagli, ed elabori piani per garantire non solo la sopravvivenza, ma anche la valorizzazione degli archivi. Una proposta concreta è stata portata ieri al tavolo del ministro Bray da alcuni rappresentanti della “Rete degli archivi per non dimenticare”, che comprende sessanta soggetti, tra archivi di Stato e centri di documentazioni privati (capofila quello creato dall’ex senatore Flamigni), artefici di una prima mappatura dei fondi documentali rilevanti per la ricostruzione della storia dei terrorismi e della criminalità organizzata. Ad oggi, quasi 19 milioni di euro, pari ai 4/5 del budget risicato della Direzione archivi, servono a pagare gli affitti delle sedi storiche. Un costo che potrebbe essere abbattuto trasferendo gli archivi in sedi demaniali. Le ex caserme militari, per esempio: come denunciava ieri su queste pagine Salvatore Settis, in larga parte dismessi, abbandonati al degrado oppure oggetto di discussi e discutibili piani di alienazione. Gli ampi spazi di questi edifici, opportunamente attrezzati, potrebbero garantire alle carte in cui è iscritta la nostra storia collettiva una casa adeguata. Nel corso della discussione per la legge di stabilità, il deputato Pd Paolo Bolognesi (già presidente dell’associazione vittime della strage di Bologna), ha presentato un ordine del giorno, approvato dal governo, per assegnare parte delle risorse destinate agli investimenti in favore dei beni culturali proprio alla riqualificazione delle ex caserme dismesse, oggetto di accordo interistituzionale per il loro utilizzo come nuove sedi degli archivi di Stato,in primis quelli che già “scoppiano”. Uno spiraglio, insomma, è aperto. Certo, servono risorse per la ristrutturazione, il trasloco: soldi da spendere mentre ancora ci sonogli affitti da pagare. Tuttavia si tratterebbe di un investimento circoscritto e limitato nel tempo. In cambio, oltre ad assicurarsi una sede pienamente adeguata, senza più canone di locazione si liberano nel tempo ingenti risorse da destinare ad altri scopi. Tra cui, l’investimento sul personale, sulla tutela e valorizzazione delle carte. L’archivio di Roma potrebbe essere l’esperienza pilota. Oggi spende un milione d’affitto l’anno per la sede succursale di via Galla Placidia. Una sede alternativa è già stata individuata, l’ex caserma del Trullo. Bisogna quantificare i costi e avviare il processo. Ci vuole un impulso politico chiaro, per passare alla fase operativa.
Il ministro Bray auspica la creazione di una sorta di commissione scientifica per un’ampia mappatura delle fonti, non solo giudiziarie, rilevanti per lo studio della storia repubblicana. Pare altrettanto auspicabile che si crei anche un tavolo attorno a cui possano confrontarsi i ministeri e le amministrazioni interessate: accanto al Mibact, Difesa, Giustizia e Infrastrutture, come sottolinea Rossana Rummo, a capo della Direzione generale per gli archivi. In casi come questi, l’inerzia è esiziale. Si può fare molto, anche con poche risorse, con l’intelligenza e una forte volontà. Invece di disperdere denaro tamponando le emergenze, aprire una strada. Avviare un processo, magari lento e graduale, ma capace gettare le basi per uno sviluppo sostenibile e una vera valorizzazione degli archivi.

Repubblica 23.1.14
Perché le élite non sanno più costruire il futuro
Esce il saggio “Il popolo e gli dei” di De Rita e Galdo


È una costante della storia che i generali tendano a combattere la guerra di ieri, non quella che dovrebbero vincere oggi, e il terremoto sociale che l’Italia vive da anni non fa eccezione. Economisti e politici, leader sindacali o degli imprenditori, intellettuali di ogni segno sono spesso scivolati nella trappola tipica delle fasi in cui il tempo impone un’accelerazione. Il rischio è che ognuno si scelga una guerra preferita dagli album del passato e preferisca fingere di combattere quella piuttosto che affrontare la realtà.
Non che sia un fenomeno puramente italiano. Economisti liberal, esecutori testamentari autodesignati di John Maynard Keynes, eredi della scuola austriaca o allievi di quella di Chicago da anni discutono dell’euro come fosse il protagonista della Grande Depressione degli anni ’30 o degli choc petroliferi degli anni ’70. Non la moneta di una società europea frammentata e divisa, ma che ha bisogno di trovare un nuovo compromesso: un punto di equilibrio fra tenuta sociale, consenso politico e innovazione nelle strutture portanti dell’economia.
Combattere le guerre di ieri significa condannarsi a perdere oggi e a Giuseppe De Rita e Antonio Galdo preme metterlo a fuoco nel loro ultimo saggio, Il popolo e gli dei. Così la Grande Crisi ha separato gli italiani(Laterza). Il sociologo e il giornalista usano i loro strumenti diversi soprattutto per raccontare il fallimento collettivo delle élite nella trasformazione in cui il Paese è precipitato senza averla vista arrivare. Se c’è un gruppo che non ha capito né saputo interpretare ciò che stava accadendo, sostengono De Rita e Gualdo, è proprio quello che doveva esercitare la leadership. “Gli dei”, nella loro metafora, che per l’occasione si sono rivelati divinità tanto vanesie quanto cieche: un tratto comune ai dirigenti di qualunque segno e parte politica e del mondo produttivo, accusano De Rita e Galdo.
Qui gli autori registrano una differenza importante – in peggio – rispetto ad altri momenti spartiacque nei quali leader diversi riuscirono a trasformare una crisi in un punto di svolta. I loro modelli sono De Gasperi e Adenauer in politica, ma colpisce di più il confronto che De Rita e Gualdo tratteggiano fra le élite tecnocratiche in tre fasi decisive nell’Italia del dopoguerra. Il primo esperimento di guida tecnica coincise con la nascita della Repubblica, protagonista una generazione di banchieri ed economisti cresciuti discretamente nel fascismo sotto Beneduce e poi impostisi con altrettanta discrezione con la democrazia: Enrico Cuccia, Raffaele Mattioli, Donato Menichella, Sergio Paronetto o Pasquale Saraceno. «La loro azione fu molto efficace perché, pur esercitando un potere enorme – osservano gli autori – ebbero l’intelligenza di non sovrapporsi ai partiti ma di accompagnarli sotto traccia». Promossa da De Rita e Gualdo anche la seconda grande generazione di tecnici, quella guidata da Carlo Azeglio Ciampi, Giuliano Amato e Lamberto Dini con la crisi del debito dei primi anni ’90. «La chimica funzionò anche grazie a un messaggio di futuro e non solo di gestione in emergenza del presente», è il giudizio.
Diversa è la valutazione sulla terza stagione “tecnica”, quella impersonata da Mario Monti chiamato nel 2011 a gestire un paese sull’orlo di un catastrofico default. Monti doveva, si legge, «evitare il baratro e gettare le basi per il futuro. Ma se la prima parte della missione può essere considerata compiuta, la seconda si è infranta di fronte a una serie di resistenze e di errori». La critica a quella che gli autori chiamano “la terza élite” è diretta anche all’establishment della politica e dei ceti produttivi e ciò che viene detto del gruppo di governo di Monti vale, per gli autori, anche per tanti capi partito e leader della rappresentanza sindacale, industriale o corporativa. «La terza élite si è mostrata scollegata dal popolo che governava – scrivono – e incapace di dare un orizzonte in termini di emozioni collettive e di futuro». Ciò vale anche per ciò che ha fatto seguito all’esperimento “tecnico” perché, si legge, «abbiamo bisogno di classi dirigenti che nascano dal basso, cespugli della realtà, e non attraverso i filtri della cooptazione imposta dall’alto».
Il divorzio fra i popolo e i suoi “dei” è così radicale, così distruttivo di quel capitale sociale chiamato fiducia, che De Rita e Gualdo raccomandano ai due fronti qualcosa di simile a una tregua per poi provare a riannodare i fili spezzati. Parte della colpa è nelle diseguaglianze, che concentrano una quota crescente del reddito e dei patrimoni in un numero ristretto di cittadini: non è un fenomeno solo italiano, prodotto dalla tragica inadeguatezza del sistema dell’istruzione e della cultura a seguire la trasformazione delle tecnologie e delle strutture produttive globali. Per questo De Rita e Gualdo puntano l’indice contro lo «spostamento della sovranità verso i gironi opachi e infernali della grande finanza internazionale, quella che orienta, giorno per giorno, secondo dopo secondo, il nuovo dominus: il mercato». Non è un’accusa infrequente da quando il mercato ha iniziato a “vendere” l’Italia. Meno frequente è stata l’accusa quando invece il mercato “comprava” a poco prezzo, permettendo che gli squilibri italiani crescessero. Per recuperare sovranità, occorre ridurre il debito che la consegna a coloro di cui poi abbiamo bisogno per finanziarlo: ma questa, ricordano gli autori, dev’essere una decisione di “popolo e dei” insieme. Il resto è ricerca di capri espiatori.
IL LIBRO Il popolo e gli dei di Giuseppe De Rita e Antonio Galdo (Laterza pagg. 103 euro 14)