venerdì 24 gennaio 2014

Il Sole 24.1.14
Aumentano i reati fiscali. Omesso uno scontrino su tre


ROMA L'evasione fiscale sconfina sempre più nel penale. Nel 2013 la Guardia di finanza ha contestato circa 1.000 reati in più rispetto a quelli del 2012 denunciando all'autorità giudiziaria 12.726 responsabili di frodi e reati tributari. Di questi 202 sono stati arrestati. Le principali violazioni contestate sono l'utilizzato o l'emissione di false fatture (5.776 violazioni), il mancato versamento dell'Iva (534 casi), l'omessa presentazione della dichiarazione dei redditi (2.903 violazioni) o ancora distruzione od occultamento della contabilità (1.967 casi). È quanto emerge dal bilancio 2013 dell'attività di polizia tributaria condotta dalla Gdf nel contrasto all'evasione fiscale internazionale, all'economia sommersa, ai reati e alle frodi tributarie.
Il bilancio 2013
Nel mirino delle Fiamme gialle sono finiti in modo unitario tutti gli aspetti di illegalità connessi alle violazioni tributarie attraverso verifiche e controlli, indagini, analisi di rischio e controllo del territorio per far emergere anche i responsabili di altre forme di illeciti tributari. «Analisi di rischio – spiega Giuseppe Arbore, Capo ufficio tutela entrate del Comando generale – che è alla base dei 4,2 miliardi di euro recuperati a tassazione dalle Fiamme Gialle in quanto frutto dell'adesione integrale dei contribuenti ai verbali di constatazione». Non solo. Altro dato che viene sottolineato dal Comando generale è quello delle procedure di sequestro, nei confronti dei responsabili di frodi fiscali, di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti: in tutto il 2013 è stato pari 4,6 miliardi di euro con riferimento a cui sono già stati eseguiti provvedimenti per 1,4 miliardi. Lo stesso scostamento che emerge tra i redditi occultati nel 2012 (oltre 22 mila) e quelli fatti riaffiorare nel 2013 (16,1 miliardi), trova giustificazione proprio perché, spiegano ancora dal Comando generale, «si punta sempre più alla qualità delle verifiche e dei controlli andando a recuperare elementi e riscontri certi per tradurre i rilievi in entrate certe».
Gli obiettivi strategici
Due quelli del 2013: la lotta all'evasione con particolare rilievo alla fuga di capitali all'estero e la lotta agli sprechi. Nel contrasto all'evasione fiscale gli sforzi si sono concentrati su fiscalità internazionale e frodi fiscali. Contro la fuga di capitali l'azione di contrasto ha fatto emergere 15,1 miliardi di ricavi non dichiarati e di costi non deducibili (si veda servizio accanto).
Oltreconfine
Nel "traffico" illecito da e per l'estero le Fiamme Gialle hanno intercettato anche oltre 298 milioni di euro in contanti e titoli illecitamente trasportati attraverso i confini nazionali, con un forte incremento (+140% rispetto al 2012) della valuta sequestrata in frontiera, pari ad oltre 258 milioni. Questo anche grazie a un sistema sanzionatorio più severo e incisivo entrato in vigore nel corso del 2012. Le violazioni contestate sono state 4.760.
Le frodi carosello
La regina dell'evasione resta la falsa fattura. E le frodi carosello ne sono la massima espressione con la triangolazione e l'interposizione fittizia di "cartiere" (fornitrici di fatture) intestate a prestanome, vere e proprie "teste di legno". Nel 2013 tra chi emette fatture false e chi le utilizza la guardia di Finanza ha denunciato oltre 12mila soggetti. Il giro di affari svelato dalle Fiamme Gialle e coperto da documenti fiscali fittizi è stato di oltre 11,7 miliardi. E anche in termini di sequestri per equivalente, quindi autorizzati dall'autorità giudiziaria per la piena fondatezza dei riscontri eseguiti, le somme nel 2013 hanno toccato 1,4 miliardi di euro.
Gli evasori totali
Nel bilancio 2013 spiccano anche 8.315 evasori totali che hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi di euro, così come i 20,7 miliardi di euro di ricavi non contabilizzati e di costi non deducibili rilevati con riferimento agli altri fenomeni evasivi. Sul fronte Iva l'evasione scovata ammonta a 4,9 miliardi di euro, di cui 2 miliardi riconducibili a "frodi carosello" basate su fittizie transazioni commerciali con l'estero.
Carburanti e scontrini
La Gdf ha scoperto anche 145 milioni di euro di imposte evase e tutte sul fronte delle accise dovute sui prodotti energetici. Mentre l'eterna lotta agli scontrini fiscali e alle fatture non emesse sembra ormai assestarsi su una percentuale di irregolarità del 32 per cento. In sostanza anche nel 2013 uno scontrino su 3 non viene battuto.
Lavoro nero e giochi
Dalla lotta all'evasione al contrasto del lavoro nero il passo è sempre breve. Nel 2013 sono stati individuati 14.220 lavoratori completamente “in nero” e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Altro fronte sempre più caldo, infine, è quello dei giochi. Complessivamente sono stati effettuati oltre 9.000 interventi tra giochi e scommesse, che hanno fatto emergere violazioni in 3.500 casi a carico di 10.000 responsabili e rilevando scommesse sfuggite a tassazione per 123 milioni di euro.
M. Mo.

il Fatto 24.1.14
La Finanza: 8 mila evasori totali, 52 miliardi nascosti


NEL 2013 gli italiani non hanno pagato le tasse su 51,9 miliardi di euro, una cifra che basterebbe per la copertura di tre manovre finanziarie. E hanno evaso l’Iva per quasi 5 miliardi. Senza dimenticare che un’attività commerciale su tre ha emesso scontrini e ricevute fiscali irregolari; o non li ha emessi proprio. Il bilancio dell’attività della Finanza fotografa un paese in mano ai furbetti. Un paese dove, nonostante i controlli, esistono oltre 8000 soggetti sconosciuti al fisco. Nello specifico, i finanzieri hanno scoperto 15,1 miliardi sul fronte dell’evasione fiscale internazionale: soldi che riguardano i cosiddetti "trasferimenti di comodo", ossia il trasferimento della residenza di persone o società in paradisi fiscali. Dal canto loro, gli 8315 evasori totali hanno nascosto al Fisco redditi per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi ammontano a 20,7 miliardi.  

il Fatto 24.1.14
Il governo venderà Poste e Enav
E intanto regala Bankitalia ai privati


Il governo di Enrico Letta non è poi fermo come si crede. Con un rapido uno-due oggi si appresta, infatti, a cominciare il percorso di alienazione del patrimonio dello Stato così assiduamente caldeggiato da Commissione europea, Bce, Fondo monetario e grande finanza internazionale. Fabrizio Saccomanni non poteva che annunciare a Davos, durante il World Economic Forum, che il Consiglio dei ministri di oggi inizia il percorso di dismissione delle partecipazioni azionarie dello Stato: “Nella riunione ci sarà il decreto privatizzazioni: si comincia con il 40 per cento di Poste. Poi vediamo”, ha detto ai giornalisti il ministro dell’Economia, confermando che l’obiettivo è “raccogliere quattro miliardi entro il 2014”. Ci vogliono circa sei mesi, infatti, per portare a termine la collocazione in Borsa di quel pacchetto di azioni di Poste e il guardiano dell’ortodossia brussellese, il commissario Olli Rehn, ha già fatto ufficialmente presente al governo italiano che mancano almeno otto miliardi al bilancio pubblico di quest’anno.
   È APPENA IL CASO di ricordare che le privatizzazioni non si sono mai rivelate una buona idea se pensate per mettere a posto i conti pubblici e, d’altronde, non si tratta nemmeno di procedere verso una completa apertura dei servizi postali: il Tesoro ha già fatto sapere, infatti, che intende mantenere la quota di controllo di Poste Italiane. Non così, peraltro, dovrebbe andare per Enav, la Spa di proprietà del ministero dell’Economia che gestisce i servizi per il traffico aereo civile: oggi il governo dovrebbe dare il via libera alla privatizzazione integrale. Niente Borsa, in questo caso, ma probabilmente la vendita diretta ad una grande azienda privata: il governo, riportava ieri l’Ansa, ha già riscosso interesse tra fondi di investimento dei Paesi del Golfo ed in Nord Europa. Gli stessi vertici Enav preferiscono questa soluzione, perché un partner industriale “tenderebbe ad orientare a suo favore le scelte aziendali”.
   In via di conversione, infine, il cosiddetto decreto Imu/Bankitalia. Si tratta del testo che abolisce la seconda rata 2013 della tassa sulla casa e, contemporaneamente, ridisegna l’azionariato della Banca d’Italia. Invece di ripubblicizzarla, come prevede una legge del 2005, l’esecutivo rivaluta le quote in mano alle banche private (ma erano pubbliche fino agli anni Ottanta) da 150 mila euro a sette miliardi e mezzo e dà il via ad una operazione che finirà per regalare oltre quattro miliardi ad alcuni istituti di credito (Intesa e Unicredit su tutti). Intanto c’è il problema dei dividendi: nel 2012 palazzo Koch ha pagato agli azionisti 70 milioni, con le nuove regole questa cifra passa a 450 milioni. In secondo luogo c’è il limite al possesso di azioni: nessuno potrà avere più del 3 per cento. Significa che Intesa dovrà cedere il 27,3 per cento, Unicredit il 19,1 e altri (Generali, Carige, eccetera) percentuali tra il 3,3 e l’1 per cento. Sarà la stessa Bankitalia a comprare le azioni e rivenderle: un’operazione che vale per le banche 4,2 miliardi di soldi freschi in cassa. Il guadagno dello stato, che deriva dalle tasse sulla plusvalenza, vale invece solo 900 milioni: l’aliquota, infatti, è quella super-agevolata del 12 per cento.
m.pa.

Repubblica 24.1.14
La sfida di Letta all’asse Renzi-Berlusconi
“Ora facciamo pure il conflitto di interessi”
Il capo del governo: nella legge elettorale servono le preferenze
I renziani: “Legge antitrust? Enrico provoca, se ne ricorda solo ora”
Il sindaco:“Se saltano le riforme si va a votare”
di Sebastiano Messina


ROMA — Io vado avanti, dice Enrico Letta, perché l’ipotesi di un governo Renzi «è stata smentita dall’interessato» e soprattutto perché «io sono assolutamente determinato a continuare l’opera di risanamento». Adesso è importante che la legge elettorale venga varata «presto e bene», ma sarebbe bene correggere quel contestatissimo punto sulle liste bloccate, «in modo che i cittadini siano più partecipi nella scelta dei parlamentari». E già che c’è, dallo studio di “Otto e mezzo” Letta mette sul tavolo con nonchalance un dossier scomodo, nelle ore del patto Renzi-Berlusconi: la legge sul conflitto d’interessi, «che gli italiani attendono da molto tempo».
Era un Letta tranquillo ma grintoso, quello che ieri sera si è fatto intervistare da Lilli Gruber per rispondere alle voci sul suo governo che vacillerebbe, dopo l’accordo a sorpresa tra il segretario del Pd e il Cavaliere, e sui boatos che si inseguono sul rimpasto che si fa, anzi non si fa, forse si fa un altro governo. «Adesso parlo io», era il titolo dell’intervista. Intendiamoci, ha voluto subito precisare il presidente del Consiglio, «non è che io abbia sempre taciuto: io parlo, agisco, faccio quello che è necessario per il Paese. Devo fare le cose, devo interpretare il mio ruolo al meglio». Ma certo, ha ammesso, con Renzi qualcosa è successo: «Ognuno c’ha il suo carattere. Tutti hanno capito che abbiamo due caratteri molto diversi. Lui ha una grande forza nell’interpretare il suo ruolo, io lavorerò perché questa forza sia indirizzata in positivo. Il Paese non ha bisogno di diatribe». Due caratteri diversi, una forza che va indirizzata bene ma il governo non corre pericoli, per tutto il 2014. Almeno così dice Letta, affidandosi alle parole di Renzi: «Io mi fido dei suoi impegni pubblici a lavorare insieme in questo anno che abbiamo davanti». Ma ci parla, con lui? «Ci ho parlato anche oggi. Il nostro Paese non può permettersi litigi tra chi ha responsabilità di primo piano».
Non ha detto, il presidente del Consiglio, se con il suo interlocutore dal carattere così distante dal suo ha trovato un accordo sul rimpasto del governo, anche se non ha aggirato la domanda della conduttrice e ha lasciato capire che sì, qualche poltrona cambierà occupante. L’ha presa alla lontana, spiegando che «il governo ha una squadra che iodifendo, a partire dal ministro Saccomanni, e che ha ottenuto risultati importanti». Poi però ha ammesso che certo, quando il suo governo è nato «il segretario del Pd era Bersani, Scelta Civica era unita sotto Monti e il Pdl era guidato da Berlusconi: ora le cose sono cambiate, direi che è naturale discutere degli equlibri che si devono cambiare». Dunque è naturale che con i quattro partiti che sostengono l’esecutivo si discuterà «di come ottenere migliori risultati e anche di nuovi ingressi». Ma il programma, gli ha chiesto maliziosamente la Gruber, lo scriverà lei o lo scriverà Renzi? Letta non si è scomposto: «In Germania il programma non l’ha deciso la Merkel ma i tre partiti che sostengono il governo: sarà così anche in Italia». E comunque, ha annunciato, «alla direzione del Pd che discuterà di questo tema io parteciperò».
Il patto con Berlusconi sulla legge elettorale lo ha spiazzato, ma lui non lo lascia intravedere e si dichiara felice del risultato. «Chi pensa che per durare un giorno di più io mi metta di traverso sulla legge elettorale si sbaglia. Prima delle europee dobbiamo vararla, e avere anche il primo voto sulla fine del bicameralismo perfetto. Modifiche? Io penso che se c’è un accordo largo alcune cose si possono modificare. Penso per esempio che i cittadini debbano essere più partecipi nella scelta dei parlamentari».
Tutto bene, dunque, ma forse è un sassolino che si toglie dalla scarpa, quell’accenno a sorpresa a una norma che farà fare a Berlusconi salto sulla sedia: il conflitto d’interessi. «A me piacerebbe che fosse nel programma» dice Letta. E aggiunge: «E’ molto tempo che gli italiani la aspettano, questa legge».
Non l’unico dossier che il premier si prepara ad aprire. Oggi, annuncia, il governo varerà un provvedimento per far rientrare i capitali nascosti nei forzieri delle banche svizzere. Niente scudi fiscali, spiega, «ma chi ha portato quei soldi all’estero oggi sa che forse non li potrà più usare, e noi dobbiamo rompere quel muro di anonimato e creare con delle aliquote normali un meccanismo di rientro di questi soldi». Chi vorrà riportare i capitali in Italia dovrà pagare una multa, perché «ci saranno anche delle sanzioni», ma il governo aprirà le porte perché «abbiamo bisognodi usare quelle tasse».

l’Unità 24.1.14
Letta: ora conflitto d’interessi
Il premier: vado avanti e nel patto di governo ci sarà la norma
«Legge elettorale, i cittadini devono poter scegliere»
Renzi: sì a modifiche con il consenso di tutti. «Se la riforma salta finisce la legislatura»
di Ninni Andriolo


ROMA Attende i contributi dei partiti, ma nell’attesa non rimane fermo e manda avanti l’azione di governo. «Sono assolutamente determinato a far ripartire il Paese» avverte il premier replicando a chi come Renzi parla di «fallimenti» dell’esecutivo. Ospite di Lilli Gruber, Letta ha sfoderato ieri sera l’arma della pacatezza e, attento a non polemizzare, ha replicato punto su punto alle stilettate del leader Pd.
In questi mesi «si è fermata la recessione ed è ripartita la crescita» ha sottolinea il premier. «Quarantamila persone hanno trovato lavoro grazie ai nostri incentivi» ha aggiunto. Ma le risposte al leader democratico sono state nel merito anche più forti. «Abbiamo iniziato a governare in una situazione complicatissima ha ricordo La situazione è ancora complicata ma di passi avanti ne abbiamo fatti». E questo a dispetto dei molti a cominciare da Berlusconi che «hanno provato a fare di tutto perché non riuscissimo ad andare avanti». Prima stoccata al Cavaliere che Renzi ha incontrato pochi giorni fa nella sede del Pd. La seconda? Il premier fa capire che oggetto del patto per il 2014 sarà anche il conflitto d’interessi. «Ora, con Berlusconi all’opposizione è più facile intervenire». Anche questa una frecciata indiretta a Renzi a ben vedere. «Anche il leader Pd ha lavorato per mettere in difficoltà il governo», chiede Lilli Gruber? «Oggi ha confermato, e io mi fido dei suoi impegni pubblici, l'impegno a lavorare insieme in questo anno», replica Letta.
Da buon incassatore qual è il premier sdrammatizza anche lo slittamento al patto di maggioranza imposto da Renzi. «Io non ho sempre taciuto» di fronte agli attacchi, ricorda, «è che valuto, agisco, faccio ciò che è necessario. Penso che ognuno deve fare bene il suo ruolo e io cerco di interpretarlo al meglio». E se «tutti hanno capito che abbiamo due caratteri diversi», aggiunge, «io lavorerò per indirizzare in positivo la grande forza di Renzi e per evitare polemiche e diatribe».
Il patto di governo, quindi. I tempi per siglarlo non saranno quelli che il premier aveva promesso, ma la parola d’ordine è non alzare i toni della polemica con il Pd mantenendo i nervi saldi. Lo slittamento determinato da Renzi? «Il programma c’è ed è quello illustrato alle Camere in occasione del voto di fiducia spiegano i collaboratori di Letta Il presidente del Consiglio può mandare avanti il lavoro ugualmente, in attesa che i partiti facciano decollare la legge elettorale e si determini il clima giusto per passare alla fase due dell’esecutivo».
A quel rilancio, cioè, che comprende, oltre alle scelte programmatiche, un restyling del governo. «La squadra funziona bene, ma si può migliorare», ha ammesso ieri Letta. Il possibile rimpasto non dovrebbe spingersi fino alla nascita di un Letta bis con dimissioni e nuovo incarico da parte del presidente della Repubblica. E della nuova compagine potranno far parte anche ministri renziani perché ricorda il premier da quando è nato il governo sono cambiate molte cose: il segretario Pd non è più Bersani, Scelta civica si è divisa in due, Berlusconi è passato all’opposizione. Nella composizione dell’esecutivo bisognerà prenderne atto.
Il premier, intanto, illustrerà a grandi linee a Bruxelles il lavoro fatto in queste settimane per definire Impegno 2014 in raccordo con i ministri interessati e con tutte le forze politiche di maggioranza. Certo non potrà mostrare alla Commissione Ue un accordo già sottoscritto e suggellato da un passaggio parlamentare anche se la «piattaforma è pronta».
La settimana prossima l’Aula della Camera dovrebbe discutere e approvare la riforma elettorale. E questo dovrebbe contribuire a migliorare il clima arroventato di questi giorni e rimettere al centro il patto. «Se c'è un accordo largo, alcuni aspetti della proposta di legge elettorale si possono modificare», sottolinea il premier che apre alle preferenze. «Bisogna che i cittadini si sentano più partecipi nella scelta dei parlamentari», afferma Letta. Che si mostra ottimista sulla possibilità che la riforma giunga in porto. Lo stop imposto da Renzi al Patto di maggioranza? Renzi teme che l’esecutivo possa precipitare in un limbo negativo d’immagine. E anche per dare il segnale inverso sarà importante il Consiglio dei ministri di oggi con le misure anticipate ieri da Saccomanni. Un’ occasione anche per difendere con forza il ministro dell’Economia.
E’ come se Letta volesse confermare che l’esecutivo ha una rotta e la segue senza attendere il calendario fissato dai partiti. Quello del Pd, in questo caso, che ha fissato per la prossima settimana le riunioni dei suoi gruppi dirigenti. Alla direzione del Pd» sul programma di governo «parteciperò anche io» annuncia Letta. Ancora. Gli screzi con Renzi? «Normale dialettica politica». «La fatica» vera è quella di dover «affrontare i problemi drammatici di un paese che ho preso in una situazione complicatissima». Il leader del Pd dopo di lui ha Palazzo Chigi? «L'ha smentito Renzi stesso» taglia corto il premier.

Corriere 24.1.14
Gli avvocati che hanno fatto ricorso alla Corte Costituzionale
«Faremo ricorso anche per abolire l’Italicum»
Hanno vinto la battaglia contro il Porcellum e ora annunciano quella contro l’Italicum


Hanno vinto la battaglia contro il Porcellum e ora annunciano quella contro l’Italicum. Gli avvocati Felice Besostri, Aldo Bozzi e Claudio Tani sono pronti a un nuovo ricorso alla Corte costituzionale. Perché il progetto di legge elettorale di Renzi e Berlusconi «è una proposta che aggrava i vizi di costituzionalità sanzionati dalla recente sentenza della Consulta».
Il premio di maggioranza, intanto. «Enorme», sottolineano gli avvocati milanesi: «La coalizione che otterrà il 35% dei voti beneficerà di un premio di maggioranza del 18%, arrivando al 53%. L’effetto parallelo è che il 65% di coloro che avranno votato contro la coalizione vincente , si dividerà solo il restante 47%». La seconda questione è quella delle (mancate) preferenze. Anche in questo caso, dice Besostri, «la nuova legge sarebbe solo una cosmesi della Calderoli». Il pool di avvocati che ha condotto la battaglia legale davanti a tutti gli organi di giudizio contro il Porcellum ieri s’è ritrovato per ripercorrere le tappe della vicenda in un incontro pubblico a Milano. «Una storia di impegno civile».

La Stampa 24.1.14
Se la Corte fa da balia ai politici
di Luigi La Spina


Era largamente prevedibile che il progetto di nuova legge elettorale presentato alla Camera dopo l’accordo tra Renzi e Berlusconi suscitasse polemiche e critiche. Come è giusto che il Parlamento rivendichi il diritto non solo di discuterlo senza imposizioni censorie, ma anche di approvare tutte quelle modifiche che possano migliorarne l’efficacia per garantire sia l’osservanza della Costituzione, sia il rispetto degli obiettivi.
Quelli di governabilità del sistema e di rappresentanza della volontà popolare.
Era anche prevedibile, forse, che sul testo, peraltro ancora non del tutto definito, si scatenasse una curiosa fiera della vanità ferita, tra ostinate invidie accademiche di star della politologia e rivendicazioni di primogenitura politica che risalgono a convegni colpevolmente perduti nella memoria. Non era davvero prevedibile, invece, che la Corte Costituzionale, dopo quasi dieci anni di silenzio sull’esecrato porcellum, si sia così innamorata del ruolo politico assunto attraverso la sentenza con la quale lo ha finalmente condannato, da esercitarlo addirittura preventivamente. Così da lasciar filtrare, certo in forma anonima, ma con assolute garanzie di autenticità e di larga condivisione, giudizi critici su una legge non solo non promulgata, ma addirittura ai primissimi passi del suo iter legislativo.
A pensarci bene, lo stupore deriva solo dall’ingenuità di chi ancora si attardi su quelle distinzioni di funzioni e su quella indipendenza dei poteri, previste nei sacri testi delle democrazie liberali, ma ormai retaggi culturali e pruderie di antichi cerimoniali da cui rifuggire nella nostra confusa Repubblica d’oggi. Ed è naturale che quando si imbocchi una scorciatoia promettente, rispetto a una più faticosa e oscura, il fresco entusiasmo rischi di far correre verso il precipizio.
Se la Consulta si fosse limitata allo scrupoloso rispetto dei limiti delle sue funzioni, senza indulgere al desiderio di essere applaudita da tutti gli italiani per la condanna di una legge odiosa e alla volontà di aiutare le forze politiche a cambiarla, ora non sarebbe costretta ad affannose e non richieste precisazioni sul dispositivo della sentenza. Non ci sarebbe la necessità di chiarire che il riferimento al sistema elettorale spagnolo, notoriamente senza preferenze, non significa una patente di costituzionalità a una legge che, in Italia, non le preveda. Con la risibile giustificazione che il richiamo alla norma iberica, in un dispositivo così meditato da richiedere settimane per essere reso noto, era solamente dovuto alla volontà di dimostrare che, nel mondo, esistono leggi elettorali di diverso tenore. Non ci sarebbe l’opportunità di raccomandare, sempre informalmente è ovvio, soglie di premi di maggioranza più alte. Non ci sarebbe la volontà di far conoscere e di far pesare, con un certo gusto intimidatorio, la larga maggioranza che queste opinioni raccoglierebbero tra i giudici della Corte.
Insomma, di invadere, per di più in anticipo, campi che sono di esclusiva competenza prima del Parlamento e, poi, di un Presidente della Repubblica che si è sempre dimostrato molto attento alla osservanza dei suoi compiti, tra cui, fondamentale, quello di far rispettare la Costituzione. In quel testo, sempre lodato con troppa ipocrisia e sempre trascurato quando fa comodo, non sono previste consulenze, ufficiali o ufficiose, da parte dei giudici a politici così maldestri da combinare, se lasciati soli, guai irreparabili. Le balie non vengono invocate neanche nelle latitanze più irriducibili di latte materno, figuriamoci tra senatori e deputati per cui è prevista la maggiore età.
Può essere, naturalmente, che le critiche alla mancanza di almeno una preferenza o ai limiti troppo bassi per ottenere il premio di maggioranza siano condivisibili. Può essere che i parlamentari modifichino, su questi punti, un testo che effettivamente corre rischi di costituzionalità. Può essere che il dibattito politico, quello tra gli accademici e tra i commentatori su giornali, sulle tv e nella rete illumini le menti dei legislatori. Ma come sarebbe bello se coloro che sono investiti di altissime responsabilità istituzionali osservassero un rigido silenzio sulle intenzioni altrui. A sbagliare bastano i politici. Non è il caso che lo facciano anche i supremi giudici.

l’Unità 24.1.14
L’Italicum non risponde alla sentenza della Consulta
di Michele Prospero


DUE ERANO I RILIEVI MESSI A PUNTO DALLA CONSULTA RIVENDICANDO LA LICEITÀ DEL SUO CONTROLLO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE sulla materia elettorale. Il primo stigmatizzava «la eccessiva sovra-rappresentazione» contenuta nel dispositivo premiale della legge Calderoli. Il secondo denunciava «il voto indiretto» come spoliazione del cittadino per effetto della mancanza del voto di preferenza. Su entrambi i nodi controversi, l’accordo siglato al Nazareno interviene con degli accorgimenti che solo formalmente sembrano rispondere alle richieste correttive auspicate dalla Corte.
Se questi ritocchi possono aggirare la scure del primo vaglio spettante al Capo dello Stato, che non può inoltrarsi nelle profondità abissali della questione elettorale, non paiono però davvero in grado di fornire una risposta coerente alle questioni cruciali, e cioè sostanziali, evidenziate dalla Consulta. Il carattere irragionevole del congegno (che incentiva la coalizione in vista del premio e poi però non prevede argini, come la sfiducia costruttiva ad esempio, per bloccare la frantumazione che interviene dopo il voto per l’acclarata incompatibilità politica dei contraenti) resta inalterato. Il sistema resta invariato nella sua logica competitiva (gara a induzione meccanica per vincere il premio) e nella sua spinta aggregante (tutte le sigle ospitate sotto lo stesso simbolo per aggiudicarsi subito la posta in palio grazie alla quota di per sé accessibile del 35 per cento dei voti). Le perplessità della Corte, non sul maggioritario come spontaneo prodotto della scelta dell’elettore (nel quadro cioè dell’eguale effetto possibile di ciascuna espressione di voto) ma sul meccanismo premiale che sforna un dispositivo «normativamente programmato per tale esito» maggioritario, rimangono senza una risposta efficace.
La contraddizione rimarcata tra premio per la governabilità (che pone il vincitore in condizione di esprimere anche le cariche istituzionali e di garanzia) e prevedibile disfacimento delle fragili coalizioni per un indomito ritorno dello spirito di frantumazione (quale sarà la tenuta reale di una ennesima alleanza sotto il segno del Cavaliere che va dalla Lega ad Alfano?) non è stata sciolta. Irragionevole rimane pertanto la previsione (con evidenti intenzioni dis-proporzionali) di ben tre diverse soglie di accesso alla ripartizione dei seggi in una legge che già prevede un abnorme premio di maggioranza. Quello che la Consulta chiama il «test di proporzionalità» tra due interessi costituzionalmente protetti (la governabilità e la rappresentanza) non viene in alcun modo superato positivamente.
In un sistema divenuto tripolare, la volontà di due attori rilevanti di stringere tra loro un accordo per imprimere una drastica torsione bipolare alla competizione si presta a delle disfunzionalità palesi. L’ibridazione tra unica tornata di voto (la gara per raggiungere un abbordabile 35 per cento) e la previsione di un secondo turno (con il ballottaggio eventuale) rende il disegno illogico, irrazionale, e per giunta senza calchi corrispondenti nelle democrazie consolidate. I due turni hanno un senso di semplificazione e di incentivo alla governabilità solo se prevedono dei collegi uninominali maggioritari. Quando invece già al primo turno si presentano coalizioni eterogenee, e la partita è ad elevato rischio (il premio al nemico), non c’è più la possibilità di calibrare il voto sincero e il voto strategico, che è il connotato principale del doppio turno alla francese.
Il virus che fa saltare il test di proporzionalità auspicato dalla Corte diventa palese se solo si fanno dei riferimenti puntuali non a degli scenari fantastici ma ai rapporti di forza in concreto oggi visibili, come quelli usciti dalle consultazioni dello scorso febbraio. Tutti i seggi del Parlamento sarebbero stati appannaggio delle tre forze che insieme hanno incassato solo il 72,5 per cento dei votanti. Fuori dalle aule sarebbero rimasti ben il 27,5 degli elettori. Nessun sistema (che per giunta si spaccia per una presunta ossatura proporzionale) lascia senza alcuna rappresentanza delle forze così ampie, circa 9 milioni e 600 mila votanti. Con questo congegno, la Lega benché preventivamente aggregata in una coalizione per non perire, con i suoi 1,4 milioni di voti sarebbe rimasta senza alcun seggio: con il 4,1 per cento è al di sotto della soglia del 5 per cento. Eppure la Lega figura addirittura come partito maggioritario in molti collegi del Nord (altro che ispirazione al modello spagnolo).
Con i suoi 3 milioni e mezzo di voti, la coalizione guidata da Monti sarebbe rimasta anch’essa con un pugno di mosche. E cioè senza seggi a disposizione perché, con il 10,5 per cento dei consensi, è al di sotto della quota del 12 per cento fissata come base minima utile per le coalizioni. Il sacrificio della rappresentanza è eccessivo. Nel caso di una sua affermazione al ballottaggio, il Pd con il 25 per cento avrebbe ottenuto da solo il 55 per cento dei seggi. Se avesse vinto Berlusconi, dal modesto 21 per cento dei voti (e con tante liste satellite al di sotto dello sbarramento) avrebbe intascato addirittura il 55 per cento dei parlamentari. Un premio del 34 per cento, farebbe impallidire la legge Acerbo.

l’Unità 24.1.14
«Non c’è alternanza di genere». Fronte rosa contro l’Italicum
Deputate e senatrici di diversi partiti denunciano: «Il testo non garantisce la presenza femminile»
Dalla minoranza Pd emendamenti contro le liste bloccate
Grillini pronti al blitz sulle preferenze
di Andrea Carugati


ROMA Alla vigilia del voto in commissione alla Camera sull’Italicum, previsto per stasera, scoppia il caso quote rosa.
Già, perché se è vero che la bozza che sarà adottata come testo base prevede un limite del 50% di candidature per ciascuno dei due sessi, ieri un fronte femminile vasto e bipartisan si è fatto sentire per spiegare che si tratta di una parità solo formale e non di sostanza. E che per avere un effettivo equilibrio è necessaria una norma che preveda l’alternanza uomo-donna nelle liste (che sono bloccate e dunque solo chi sta nei primi posti ha possibilità di passare) e la metà dei capilista di sesso femminile. Lo chiedono in una nota congiunta deputate di quasi tutti i partiti, da Roberta Agostini (Pd), a Dorina Bianchi (Ncd), e Elena Centemero (Fi). Sulla stessa linea anche Mara Carfagna e Alessandra Mussolini. «Lavoreremo per modificare il testo attraverso la presentazione di emendamenti. Non si tratta di una questione di quote ma di un avanzamento della nostra democrazia». «Mi piacerebbe che deputati e senatori condividessero questa priorità facendo sentire anche la loro voce», dice Valeria Fedeli, Pd, vicepresidente del Senato. Che ricorda come Renzi all’ultima direzione Pd avesse parlato esplicitamente di «alternanza uomo-donna» nelle liste.
La questione dunque è sul tavolo. E non è la sola. Un altro fronte bipartisan che si sta irrobustendo è quello che dice no alle liste bloccate. E che chiede le preferenze o, in alternativa, una quota di collegi uninominali. Su questa linea c’è la minoranza Pd, che ieri si è riunita e ha deciso di insistere con Renzi per chiedere anche l’innalzamento della soglia per il premio di maggioranza sopra il 35% e un abbassamento della quota d’ingresso dell’8% per i partiti non coalizzati. Sul fronte delle preferenze sono schierati anche Ncd, i popolari di Casini e Sel, mentre Scelta civica punta sui collegi uninominali. E poi ci sono i Cinquestelle che, nonostante l’Aventino ribadito da Grillo, sono pronti a un blitz in commissione (o in Aula) per approvare le preferenze, grazie al voto segreto, con l’obiettivo di far saltare il patto tra Renzi e Berlusconi.
Una mossa insidiosa, che ormai è alla luce del sole. Nelle ultime ore i grillini non hanno fatto mistero delle loro intenzioni, offrendo un prezioso assist alla minoranza Pd. Che intende tirare dritto: «Come Renzi è riuscito a convincere Berlusconi sul doppio turno, noi pensiamo che se ci convinciamo tutti insieme arriveremo al risultato che ci chiedono gli elettori delle primarie», spiega il bersaniano Alfredo D’Attorre. La replica dei renziani è secca: «Nessuna modifica senza l’ok degli altri contraenti». Oggi i membri Pd della commissione Affari costituzionali si riuniranno per fare il punto. L’obiettivo della minoranza è quella di riunire tutto il Pd nella battaglia, senza fughe in avanti con emendamenti «di corrente» che sono malvisti dall’ala dei Giovani turchi. Una ipotesi di mediazione potrebbe essere prevedere il 50% di collegi uninominali, come nel sistema tedesco. «Il gruppo Pd è unito», dice il capogruppo in commissione Emanuele Fiano. «Saremo tutti responsabili».
Anche gli alfaniani affilano le armi, sulle preferenze ma anche sulle soglie di sbarramento. «Servono correzioni, vogliamo superare il Parlamento dei nominati», dice il ministro Quagliariello. Insomma, si prevede una pioggia di emendamenti: il termine per la presentazione è lunedì, il 29 l’arrivo in Aula (l’obiettivo è chiudere il 31). Al Pd sarà affidato il compito di dirigere il traffico, cercando le possibili convergenze sulle modifiche da approvare.
Sul tavolo anche la delicata questione delle nuove circoscrizioni, che passano a circa 120 dalle 27 attuali. La bozza dell’Italicum prevede che il ridisegno spetti al Parlamento, ma ci sono vari problemi. Da un lato per via del rischio di una defatigante discussione sui confini delle circoscrizioni, che potrebbe allungare i tempi di approvazione della legge. Dall’altro perché Forza Italia non vorrebbe delegare il delicato al dossier al Viminale, dove siede Alfano. L’ipotesi di mediazione è che se ne occupi l’Interno, con un successivo parere del Parlamento.
Sul fronte delle soglie di sbarramento, cresce l’ipotesi di uno sconto per i piccoli in coalizione che non superassero il 5%: una mossa che potrebbe favorire sia la Lega (ieri Verdini ha visto Bossi) che Sel.

Repubblica 24.1.14
Perché l’Italicum va modificato
di Piero ignazi


IL TRENO delle riforme è partito e questa volta, ne sono convinti tutti, arriverà a destinazione. Bene. Ma ad una condizione: che cammin facendo si liberi delle zavorre e delle incrostazioni di una eccessiva intelligenza col nemico. Che non è Silvio Berlusconi, bensì il proporzionalismo camuffato.
La bozza uscita dai conciliabili tra Renzi e il Cavaliere — e in precedenza tra gli apripista Verdini e D’Alimonte — riporta intatti quasi tutte le caratteristiche, e i difetti, del Porcellum. Ha avuto ragione a rallegrarsi del parto l’ottimo Calederoli… Le liste bloccate rimangono, e non è questione se sono lunghe o corte: sempre bloccate sono. Il conteggio dei seggi da attribuire è ancora calcolato sui voti ottenuti nazionalmente e quindi, in linea di principio, la logica del sistema rimane proporzionale. Il premio di maggioranza, con il suo effetto distorcente, è mantenuto, proprio per ovviare all’impianto proporzionale. Solo che, mentre la Corte ha chiesto di limitarsi ad un premiolino, la Renzi-Berlusconi assegna un super-premio che può arrivare al 50% in più rispetto ai voti ottenuti. Facciamo due conti: se un partito o una coalizione arrivano primi con il 35% dei voti — la soglia minima — per garantirgli la maggioranza assoluta dei seggi gli si deve attribuire un bonus del 17% almeno, cioè la metà del 35%. Il ché vuol dire che per arrivare alla soglia magica della maggioranza assoluta bisogna regalare una quota pari alla metà dei voti ottenuti.
È questo quel premio “ragionevole” di cui parlava la Corte? Sembra proprio di no. Il punto è che per salvare sia il principio di proporzionalità tanto caro a Berlusconi (e anche a Grillo: potevano mettersi d’accordo i due…) che il bipolarismo, il premio di maggioranza non è stato toccato. Ma fermiamoci ancora sulla logica premiale così cara alla mentalità televisiva da quiz. Per quale motivo i premi sono pressoché sconosciuti nelle democrazie mature? La risposta è semplice: perché distorcono senza criterio la rappresentanza, e vengono adottati solo in circostanze eccezionali per la supposta debolezza del sistema politico. Ora, una nuova legge elettorale che apra finalmente una stagione riformatrice non può essere concepita in una logica emergenziale e soprattutto non devetener conto del panorama partitico esistente. Il gioco della “simulazione” dei risultati elettorali alla luce della nuova legge non è solo un esercizio spericolato come molti, a incominciare da Angelo Panebianco, hanno sostenuto, ma riflette anche un atteggiamento strumentale e miope di fronte ad una normativa che non va forgiata sull’esistente ma costruita per essere il sistema elettorale dei prossimi decenni.
Solo in Italia, a forza di modifiche strumentali come il Porcellum ci troviamo in vent’anni ad aver votato con tre sistemi diversi: proporzionale fino al 1992, maggioritario al 75% dal 1994 al 2011, proporzionale con premio dal 2006 al 2013. Nessun’altra democrazia ha subito cambiamenti così radicali. Il prossimo sistema non deve riflettere le convenienze di vittoria o di sopravvivenza di questo o quello (e la norma di salvaguardia per la Lega — ottenere rappresentanza se si supera la quota di sbarramento in almeno tre regioni — era veramente incredibile).
Deve essere un sistema che assicuri il miglior mix di rappresentanza e governabilità. Per questo è necessario che il treno della riforma cambi in corsa qualche vagone. Perché sono troppe le incongruenze e le storture. Del resto non stupisce più di tanto questo esito visto che, secondo quanto affermava Roberto D’Alimonte nella sua intervista a Repubblica ieri, Renzi ha accettato le posizioni di Berlusconi su quattro aspetti importanti quali il rifiuto del maggioritario in collegi uninominali con doppio turno, la bassa soglia per il conseguimento del bonus, il divieto di candidature multiple e la possibile resurrezione del vecchio sistema elettorale per il Senato (sistema proporzionale personalizzato attraverso collegi uninominali). Non si capisce allora in che cosa consistessero i punti fermi del Pd rispetto alla sua preferenza iniziale, il maggioritario con doppio turno alla francese, e alle tre originali proposte renziane. Comunque, almeno si introducano dei ragionevoli correttivi (e in casa Pd la componente di Civati ne ha già avanzati di costruttivi). Uno di questi, utile a superare l’impasse delle liste bloccate, che sono molto indigeste all’opinione pubblica — e sul Parlamento dei nominati la polemica grillina sarà fortissima — riporta alla introduzione di una legge sui partiti e, in particolare, su modalità aperte e democratiche (non necessariamente le primarie) per la selezione dei candidati. In questo modo si forzano i partiti alla trasparenza e i cittadini hanno la possibilità di seguire il percorso della scelta dei candidati. Come accade in Germania del resto, dove le liste nella scheda proporzionale sono bloccate.
Insomma, per una buona legge elettorale, di interesse collettivo e non di parte, e che contempli rappresentanza e governabilità, c’è ancora un bel po’ di lavoro da fare. E comunque tutti i miglioramenti necessari non devono arrestare il processo in corso. Questa volta bisogna arrivare in fondo, e arrivarci bene.

Il Sole 24.1.14
Sul filo del rasoio
di Stefano Folli


Da come si stanno mettendo le cose in Parlamento e dintorni, è chiaro che non è questo il momento per parlare di un altro governo (il cosiddetto Letta-bis). O è troppo tardi o troppo presto rispetto agli eventi, visto che la riforma elettorale tiene banco pur essendo ancora un rebus. Destinato però a chiarirsi presto.
A maggior ragione non ha senso riproporre adesso l'ipotesi estrema di un eventuale governo Renzi, affidato cioè al leader di maggioranza. Una prospettiva che contiene in sé una logica politica, ma oggi è del tutto fuori contesto. Tanto che lo stesso segretario del Pd ha avuto buon gioco a smentirla nell'intervista al Tg3. Mentre il premier Letta ostentava a La7 un'invidiabile serenità.
Tuttavia in politica ciò che è vero un giorno potrebbe non esserlo più un mese dopo. Cosa accadrebbe se la riforma elettorale fosse stravolta dalle faide parlamentari? Gli assetti di governo ne sarebbero di sicuro feriti in forme per ora non prevedibili. E infatti Renzi torna ad adombrare in quel caso la fine della legislatura. Ma è un po' un'arma a doppio taglio. Andare a votare con il proporzionale (la legge che è in vigore al momento) può andar bene a Berlusconi. Di sicuro piacerebbe ad Alfano, alla Lega e più di tutti – come ripete spesso – a Beppe Grillo. Viceversa a Renzi questa soluzione non può piacere affatto.
Il giovane leader ha costruito tutta la sua immagine di "decisore" intorno alla logica del maggioritario. Un pacchetto completo, comprendente la riforma del Titolo V e del Senato, omogeneo all'ambizione del segretario del Pd. Che senso avrebbe, in tale logica, rassegnarsi al fallimento e tornare alle urne con il vecchio proporzionale, un sistema elettorale privo dei requisiti indispensabili agli occhi di Renzi, a cominciare dalla «governabilità»? Il segretario ha ragione nel sottolineare che l'Italia sta vivendo forse l'ultima occasione per rinnovare le istituzioni, ma ci sono pochi dubbi che il naufragio del tentativo coinvolgerebbe anche la sua «leadership». Pur senza favorire nessuna diversa soluzione ai problemi del paese e di certo senza proteggere il governo in carica.
I dubbi di queste ore riguardano dunque le probabilità che la riforma elettorale sia approvata in Parlamento con qualche correttivo, sì, ma senza modifiche tali da snaturarne l'impianto. Si cammina su un filo sottile ed è difficile fare previsioni. Fra le correzioni accettabili c'è la riduzione della soglia utile a ottenere seggi quando si è in coalizione (dal 5 al 4 per cento). Potrebbe esserci un qualche innalzamento del «quorum» del 35 per cento, a parere di molti troppo basso. Ma la questione cardine, l'introduzione delle preferenze, è suscettibile sulla carta di scardinare la riforma, visto che almeno finora Berlusconi ha sempre detto «no».
Su questo spetta a Renzi trovare un compromesso. E non è un caso che il segretario faccia capire di non essere contrario per principio al correttivo. Lo fa per evitare che si crei una convergenza a lui ostile: le preferenze come grimaldello anti-riforma da parte di quanti hanno riscoperto quello che un tempo era l'emblema della cattiva politica. Minoranza Pd, una parte dei centristi e soprattutto «grillini»: il fronte che non ha nulla da guadagnare e molto da perdere dal successo politico renziano. Tanto più che anni di listoni bloccati (e parlamentari nominati) hanno determinato una certa insofferenza nell'opinione pubblica. Si vuole scegliere.
Poi esiste un altro aspetto: la fretta con cui l'asse Renzi-Berlusconi vuole approvare la riforma. Pochi giorni in omaggio allo spirito del «veni, vidi, vici». Può essere una buona idea per evitare la palude, ma può invece risultarne una sfida eccessiva ai gruppi che non credono nella proposta di legge com'è e vogliono correggerla.

il Sole 24.1.14
La «battaglia» tra i democratici
La minoranza Pd prova il braccio di ferro
I timori per le «ritorsioni» del segretario nella selezione delle candidature per la prossima legislatura
di Lina Palmerini


ROMA Il test cruciale su quanto Matteo Renzi controlli il gruppo parlamentare del Pd sarà risolto nelle prossime ore. Già questa mattina ci sarà una riunione dei deputati della Commissione Affari Costituzionali in cui sarà deciso che il filtro con il quale saranno selezionati gli emendamenti sarà quello del rispetto del patto con Forza Italia. La domanda è se lo accetterà anche la minoranza che ieri prometteva emendamenti in grado di "destrutturare" quel patto siglato da Renzi e Berlusconi. In realtà, la vera posta in gioco messa sul tavolo dal segretario del Pd non è solo la fine della legislatura ma chi entrerà nella prossima. Infatti, quello che più preoccupa la minoranza è che sarà Renzi a decidere chi sarà candidato e il rischio per quell'area di non avere sufficiente rappresentanza è piuttosto alto. Anche perché è vero che la legge elettorale uscita dalla sentenza della Consulta ammette una preferenza, ma spetta comunque al vertice del partito scegliere chi mettere in lista. E di certo il leader Pd ha mostrato – con la vicenda delle dimissioni di Cuperlo – una gestione senza scrupoli o timidezze.
Ma la questione è anche un'altra: quali sponde potrebbe trovare in Parlamento la minoranza del Pd? E quali numeri? In realtà, oltre il partito di Alfano e i centristi – pronti a dare battaglia sulle preferenze e le soglie – non sembra che Grillo voglia contribuire e anche Sel frena. Diceva Gennaro Migliore, capogruppo alla Camera: «Noi non facciamo trattative segrete, noi parliamo solo con chi rappresenta ufficialmente il Pd. Punto. Nel merito, vorremmo inserire anche il conflitto di interessi, innalzare la soglia per il premio al 40% e abbassare quelle di sbarramento sia per chi è in coalizione che per chi è fuori». Dunque, quella della minoranza appare più come una battaglia interna al Pd che nel Parlamento dove gli alleati sono numericamente scarsi. Certo c'è stato l'appoggio del premier sulle preferenze ma l'assist di Letta è per non perdere l'appoggio dei bersaniani al suo Governo e tenere un filo della partita che si gioca in Parlamento. L'aria, però, – almeno tra i meno oltranzisti – non era quella di smantellare quello che ha deciso la direzione del partito. Insomma, se nelle dichiarazioni di Alfredo D'Attorre si prometteva un vero braccio di ferro, nel gruppo – 293 deputati in tutto – il clima non era ancora quello della rivolta. Naturalmente lo scrutinio segreto apre scenari imponderabili ed è contro i possibili agguati che Renzi ha giocato il jolly del voto.
Intanto ieri, il capogruppo Roberto Speranza, area Cuperlo, si è dato molto da fare per accelerare l'iter della riforma conquistando la corsia parlamentare veloce e questa mattina sarà presente alla riunione dei deputati Pd della Commissione per tenere la linea del segretario sugli emendamenti. Una linea di cui ha parlato ieri Emanuele Fiano, che sta gestendo il braccio di ferro in Commissione, dove peraltro i "cuperliani" sono 13 e i "renziani" sono solo 8. «È evidente – diceva Fiano – che al di là di aspetti specifici della legge elettorale, è nella responsabilità di ognuno di noi tenere in conto l'accordo politico complessivo che ha portato a questa soluzione e che non può essere messo in discussione».
Ma ieri la minoranza Pd, dopo varie riunioni, ha comunque messo sul tavolo alcune proposte che quell'accordo politico rimette del tutto in discussione: via le liste bloccate, abbassare la soglia di sbarramento per i partiti non coalizzati, alzare la soglia per ottenere il premio di maggioranza e garantire un'alternanza di genere. Spiegava Alfredo D'Attorre: «Occorre alzare la soglia dal 35 al 40% per evitare rischi di incostituzionalità. E poi è difficile immaginare che un partito che prende 8 milioni di voti venga escluso. Occorre rendere eguale la soglia di sbarramento sia per chi si coalizza che per chi corre da solo. Noi chiederemo che, al di là delle correnti, questi emendamenti diventino comuni del Pd». Oggi comincia il primo round.


l’Unità 24.1.14
L’incontro al Nazareno il punto più basso del Pd
di Luciano Canfora


CARO DIRETTORE, NON ERA PREVEDIBILE CHE IL NEO SEGRETARIO PD SI ASSUMESSE IL RUOLO DI PORTAVOCE DEL CAVALIERE.
Lo ha invece dichiarato candidamente egli stesso quando ha detto: «Io avrei voluto reintrodurre nella legge elettorale le preferenze, ma Lui non ha voluto!».
Ed ora forse meglio si comprende quell’inverosimile «ringraziamento» al Cavaliere per essersi presentato di persona alla sede del Pd. È forse la prima volta nella storia della lotta politica in Italia per adottare il titolo del bel libro di Alfredo Oriani che un capopartito si attiene agli ordini del leader del partito avverso. Non paia eccessivo dire «si mette agli ordini» giacché la questione delle preferenze non è solo rilevante in sé nonché rivelatrice della cultura e forma mentis anti-liberale del cavaliere, ma si è trasformata, grazie al niet di lui accolto supinamente dal neosegretario Pd, in uno schiaffo alla Consulta.
Quale regalo maggiore poteva farsi a chi da vent’anni martella contro la magistratura di ogni ordine e grado?
La gravità di quel che è accaduto potrebbe forse indurre il Pd a riconquistare la propria dignità, dopo aver raggiunto il punto più basso della sua parabola nel momento in cui ha affidato a un indistinto gruppo di elettori di ogni provenienza l’elezione del proprio segretario politico. Prima che sia troppo tardi e la struttura stessa di quel partito venga travolta dopo essere stata umiliata.
Si è detto da ultimo che, nell’ambito dell’indistinto elettorato cui è stato affidato il compito di scegliere il segretario politico del Pd, un apporto rilevante sia venuto proprio grazie alla candidatura del sindaco di Firenze dagli elettori «cinque stelle», e che ciò vada salutato come un positivo allargamento della (futura) base elettorale del Pd. A questo punto ammesso che la cosa risponda a verità quei (futuri) voti sono già persi. L’operazione di svendita della segreteria si è dunque risolta rapidamente in una perdita secca.
Osservò Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere, riflettendo sulla lotta politica non soltanto italiana tra Otto e Novecento, che in realtà prima del profilarsi del movimento operaio organizzato i partiti non erano che un unico partito suddiviso in correnti più o meno concorrenti e orientate egli precisava da «una forza direttiva superiore»: che potrebbe essere talvolta anche un grande giornale in quanto portavoce accreditato e rispettato delle forze dominanti della società.
Forse siamo daccapo arrivati a quel punto.

Repubblica 24.1.14
Legge elettorale, stop dei “piccoli” “Il testo non può passare così”
Minoranza Pd, Sel e Sc insistono sulle preferenze
di Silvio Buzzanca


ROMA — «Cercherò di fare in modo che il provvedimento sia in aula per il 29. Dico cercherò perché sono un po’ scaramantico, le espressioni perentorie non mi piacciono mai». Francesco Paolo Sisto, il presidente della commissione Affari costituzionali che deve gestire la patata bollente della nuova legge elettorale, sui tempi mette le mani avanti. Perché se è vero che la conferenza dei capigruppo ha deciso che la Camera dovrebbe approvare il testo il 30 o il 31 gennaio, è anche vero che gli ostacoli non mancano.
In primis si perde già tempo in commissione, dove, causa fiducia sull’Imu, ieri non si è lavorato e non c’è stato il voto sull’adozione del testo base. Poi c’è il congresso di Sel. Problemi di procedura che, al momento, nascondono un po’ quelli politici. Il testo così come è stato congegnato e blindato dalla coppia Renzi-Berlusconi infatti non convince tutti. A partire dallaminoranza del Pd che ieri ha riunito le sue anime e ha deciso di dare battaglia sulla questione delle preferenze. E non solo.
Oggi cuperliani, civatiani e giovani turchi porteranno in direzione la richiesta che sia tutto il Pd, senza iniziative di corrente, a chiedere di ridare voce agli elettori. O, appunto, introducendo il voto di preferenza o usando i collegi uninominali. Civati , inoltre, apre un altro fronte e propone che con la legge elettorale si discuta del conflitto di interessi Ma le critiche della minoranza democratica si appuntano anche verso la soglia per ottenere il premio, il 35 per cento è troppo basso, e sulla soglia, l’8 per cento, troppo alto, per ottenere seggi senza coalizzarsi. In sintonia con queste richieste si muovono anche i montiani di Scelta civica, che non hanno sottoscritto la proposta, non vogliono perdere tempo, ma chiedono le stesse modifiche.
Richieste simili arrivano sempre dai deputati di Sel, da Fratelli d’Italia, dai diversi gruppi centristi e dal Nuovo centrodestra. Da questo partito si alza anche la voce critica di Roberto Formigoni che dice: «Parlo con tristezza ma con chiarezza: è un errore per l’Ncd aver firmato legge elettorale senza preferenze. Se non ci sono preferenze non c'è nessun voto».
Questi ostacoli comunque si erano già profilati all’orizzonte e diventeranno più o meno insormontabili nel momento in cui si dovrà votare in commissione. Ma non serve ad abbassare la tensione la dichiarazione del portavoce del Pd Lorenzo Guerini: «Ogni modifica al testodella legge elettorale può essere fatta, basta che abbia con se il fatto che non venga messo in discussione quanto concordato con tutti i soggetti politici che hanno stipulato l'accordo». Posizione che fa da contraltare al no di Forza Italia che attraverso il Mattinale fa sapere che «pacta servanda sunt» e non si tocca nulla.
Intanto i timonieri devono cercare di evitare i primi scogli tecnici. Il testo base presentato da Sisto porta con se due allegati che però non sono stati ancora depositati. Uno riguarda la definizione dei collegi in cui votare. Il primo problema da risolvere è quello di stabilire chi deve disegnare la nuova geografia elettorale. Il compito spetterebbe al Parlamento. Ma ieri, durante una riunione con Dario Franceschini e i vertici del gruppo democratico, si è deciso di votare una delega che affida al governo il compito di disegnare i collegi.
La questione è veramente importante. Al punto che il deputato piemontese Enrico Borghi ha già calcolato che, sulla base del testo in discussione, ben 37 province su 110 non sarebbero rappresentate. Nel frattempo si profila la grana della parità di genere. Le deputate, in modo trasversale, hanno approfondito la questione e si sono rese conto che la norma non le aiuta. E allora è partito il tam tam perché la legge preveda il 50 per cento dielette e non di candidate.

Repubblica 24.1.14
Cuperlo: “Ma visti i numeri in Parlamento, qualsiasi esecutivo nasca non sarà il nostro”
“Questo governo non funziona se ne deve fare subito un altro”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA — «Non si può più rinviare una ripartenza del governo, nei contenuti e nelle persone. Sulle riforme dico andiamo avanti, perfezioniamo il testo, questa volta non possiamo fallire». Gianni Cuperlo, leader della minoranza del Pd, si è dimesso dalla presidenza del partito sentendosi offeso da Renzi. Non torna sui suoi passi. Rilancia la battagliapolitica.
Cuperlo, la minoranza del Pd si metterà di traverso sulla riforma elettorale?
«No, è l’opposto. Dobbiamo essere d’impulso e arrivare in fondo. L’iniziativa di Renzi ha avuto il merito di scuotere l’albero. Dal mio punto di vista si poteva partire dalla maggioranza che sostiene il governo e poi allargare l’accordo a tutte le forze disposte a dialogare. Si è scelta una strada diversa. Adesso conta cercare la soluzione migliore».
Il sospetto è che vogliate che nulla cambi.
«Sospetto sbagliato. L’impegno è lavorare per una legge efficace e che alle motivazioni della Consulta dia una risposta convincente».
Nel merito, cosa chiedete?
«La legge non può risolvere alcuni problemi ma crearne di nuovi. Ci sono punti sui quali è possibile che il Parlamento migliori il testo-base e perfezioni l’accordo politico che è stato sottoscritto. Non è il puntiglio di una minoranza e nessuno vuole togliere a Renzi la paternità di un successo evidente se la legge arriva in porto. Ma alcune riserve sollevate da esperti autorevoli vanno raccolte e tradotte in una riforma che sia inattaccabile almeno sotto il profilo costituzionale».
Però sulle preferenze siete pronti alle barricate?
«Lavorare per evitare le liste bloccate e per una norma anti discriminatoria, perché l’equilibrio di genere sia effettivo, è interesse di molti, come un innalzamento della soglia del 35% per ottenere il premio di maggioranza. Sono snodi importanti».
E poi la minoranza si comporterà in modo disciplinato?
«Proviamo, tutto il Pd, a cercare l’intesa più larga su un numescussione limitato e concordato di modifiche che possano cambiare in meglio il tutto. Il mio impegno è per raggiungere questo risultato. Il Parlamento è il luogo in cui si votano le leggi dopo una direbbe per migliorare le cose che non vanno».
Non ci saranno franchi tiratori?
«Voglio ben sperare, saro da irresponsabili. Questo confronto deve avvenire alla luce del sole e, un passo alla volta, bisogna risolvere assieme gli aspetti che non vanno. Su temi come riforme costituzionali o legge elettorale è giusto che un gruppoparlamentare come il nostro ricerchi, difenda e garantisca la sua unità».
Il governo Letta è in sofferenza?
«Lo è non da oggi. Ho detto che in una fase cambiata sarebbegiusto che un programma per il 2014 coincidesse con una squadra in parte rinnovata. Se questo governo non è più in grado di servire al paese, si affronti il problema perché il dramma sociale è esplosivo. Questa svolta chiama in causa Palazzo Chigi e il primo partito della maggioranza».
Un governo Renzi?
«Renzi ha sempre dichiarato che non sarebbe mai approdato a Palazzo Chigi se non attraversouna prova elettorale: credo alle sue parole».
Il Pd sta logorando il governo?
«L’ho detto, il governo ha fatto cose buone ed errori, ma adesso è il momento di una sterzata, che per me deve partire da un impegno nella redistribuzione di risorse e diritti verso chi è in fondo alla scala».
Spetta alla minoranza la presidenza del partito? Potrebbe essere Bersani il nuovo presidente ?
«Intanto Bersani è tornato a casa e l’affetto per lui è stato grande. Per quanto mi riguarda non ho posto una questione di bon ton ma politica e di spirito di comunità in un partito. A me le battute piacciono, altro è l’accusa di strumentalità per aver espresso una posizione politica. Ho sempre espresso liberamente le mie convinzioni e continuerò a farlo. Il mio impegno adesso è rilanciare le ragioni di una sinistra rinnovata perché di questo c’è un enorme bisogno fuori e dentro il Pd».
Sembra più che mai in vista una scissione?
«Ma non scherziamo. Di cosa stiamo parlando? Non ci sarà nessuna scissione. Io credo nel Pd. E se il Pd fallisse, verrebbe meno la possibilità di riscossa e di riscatto per questo paese».

Repubblica 24.1.14
Il Partito democratico
Spunta Fabrizio Barca per la presidenza
La minoranza del Pd avverte il segretario: quel ruolo spetta a noi
di G. C.


ROMA — «Matteo ha una intolleranza insopportabile verso posizioni diverse dalle sue, mostra disprezzo per chi lo critica». Stefano Fassina torna ad attaccare Matteo Renzi. E i renziani contrattaccano, accusando l’ex vice ministro dell’Economia di volere tornare ai “caminetti” dei big del passato. Visto il clima di tensione scatenato dall’Italicum, il modello elettorale proposto dal segretario dopo l’accordo con Berlusconi Renzi vuole che la povere si depositi prima di proporre il nuovo presidente del partito. Cuperlo si è dimesso sentendosi offeso da una affermazione del leader, ora si cerca una figura che sia unitaria.
In pole position c’è Pierluigi Bersani, l’ex segretario attorno a cui tutto il Pd si è stretto durante la malattia. Ma un altro dei nomi che circolano è quello di Fabrizio Barca, l'ex ministro della Coesione territoriale, che ha girato le sezioni dem di tutta Italia per cercare di rimettere insieme il partito a pezzi dopo la vicenda dei 101 “franchi tiratori” che hanno tradito Prodi nella corsa per il Quirinale. Barca è stato un supporter di Pippo Civati. «Visto che ormai lo strappo c’è stato, allora ragioniamo al meglio propone Civati Qualcuno ha anche fatto il mio nome, ma ho declinato l’invito: ci tengo alla mia incolumità ...». Barca non è membro della direzione, né dell’assemblea ma potrebbe ugualmente essere proposto. Sandra Zampa, la vice presidente del Pd che con Matteo Ricci ha ora l’incarico di presidenza, scherza sul suo nome: «Non è arrivata nessuna telefonata da Renzi, io resto vice presidente e Renzi deciderà con l'assemblea...». Ma pensa a un identikit per il successore di Cuperlo: «Abbiamo bisogno di una persona molto generosa e capace di unire, un suggerimento io l’ho dato...». Per Zampa la persona giusta potrebbe essere Walter Tocci. Walter Veltroni, altro leader in pole, primo segretario e fondatore del Pd, è ritenuto troppo vicino a Renzi, mentre la presidenza appunto è un ruolo di garanzia che la minoranza punta a tenere. I cuperliani ieri hanno tenuto un’altra riunione sulla legge elettorale e sul rapporto con il governo: sull’Italicum daranno battaglia nel partito. Stamani del resto si parlerà nei gruppi parlamentari di riforma elettorale. Soprattutto hanno affrontato la questione del rapporto con il governo Letta. «Non serveun rimpastino ha ribadito Alfredo D’Attorre, bersaniano né una finta verifica, ma ci vuole un esecutivo in cui il Pd e Renzi si riconoscano, che unisca stabilità e efficacia. Del resto se l’impegno dell’esecutivo deve essere quello che vuole Renzi, il piano richiede non un anno di tempo ma almeno due». Lorenzo Guerini, il portavoce della segreteria, invita a non usare l’Italicum per riaprire il congresso dem. E le parlamentari del Pd e di Sel, da Michela Marzano, Sandra Zampa, Roberta Agostini a Titti Di Salvo, si mobilitano per chiedere davvero la parità di genere nei listini elettorali mentre così come la legge è formulata, si rischia una uguaglianza sbandierata e poi boicottata nei fatti.

il Fatto 24.1.14
L’ex ministro Fabrizio Barca
Ma quale B. Il guaio sono le preferenze
di Angela Vitaliano


Facciamo tutto ma, per favore, lasciamo all’elettore la possibilità di scegliere un nome e un cognome, di sapere chi è la persona alla quale si sta dando la propria preferenza”. Fabrizio Barca è a New York per partecipare ad un incontro organizzato presso le Nazioni Unite per discutere di “diseguaglianza e governance globale”. Lo incontriamo per fare due chiacchiere anche su quello che sta accadendo nel Pd. “È ragionevole che sia Renzi a condurre le trattative – dice il direttore del ministero dell’Economia – e non trovo assolutamente fuori luogo che abbia incontrato Berlusconi come esponente di Forza Italia. Ciò che, invece , mi lascia qualche margine di dubbio è perchè Matteo non abbia incontrato, sulla stessa questione, anche gli altri leader, da Vendola a Maroni, fino a Grillo”. Con alcuni (come il leader di Sel) ci sono stati incontri informali a pranzo, con altri (come il guru Cinque Stelle) è arrivato il no preventivo. Ma, insomma, per Barca il problema non è l’incontro con il Cavaliere ma il mancato incontro con gli altri che pure hanno voce in capitolo.
L’ESIGENZA, comunque, per Barca, resta ora quella di superare questa fase e di farlo al più presto: “Il paese deve tornare a parlare di ‘visioni’ e prospettive chiudendo la penosa vicenda della riforma elettorale di cui da troppo tempo si discute senza riuscire, però, a fare passi in avanti”. Ma si può avere una “visione” quando bisogna sedersi ancora a trattare con Silvio Berlusconi? “Questo, purtroppo, fa parte di quella tendenza ormai eccessivamente radicata in Italia e dalla quale deriva la specificità della nostra crisi che è, sì economica, ma non solo. – spiega Barca – Una parte del paese è convinta, infatti, che non ci sia assolutamente possibilità di cambiare le cose e che, dunque, sia meglio tenersi ciò che si ha, magari appoggiando chi garantisce, a suo modo, di lasciare le cose immutate. Il voto a Berlusconi risponde esattamente all’esigenza di quella parte di elettorato che non crede nel cambiamento e allora, chiede, perlomeno, il mantenimento di certi privilegi che sono proprio gli stessi che impediscono il superamento dei meccanismi che tendono ad affossarci”.

l’Unità 24.1.14
Epifani: «Serve un vero rilancio del governo»
Il premier avrà l’appoggio pieno del Pd quando il partito presenterà la sua proposta economica
Tutto si discute e le leggi si migliorano in Parlamento
di Maria Zegarelli

ROMA Gira tra le mani un foglio fitto di appunti, note sull’Italicum e dati economici. Guglielmo Epifani non sottovaluta i segnali, timidi, che iniziano ad arrivare dall’economia: «La caduta si è arrestata ma la ripresa è ancora molto debole, e l’occupazione continuerà ad essere l’emergenza di questo 2014». A questo dovrebbe servire il Patto 2014, ad affrontare le emergenze. Ma Renzi chiede tempo e Letta non riuscirà a chiudere prima di metà febbraio. Le chiedo se si arriverà davvero al patto di maggioranza.
«Il rilancio dell’azione di governo non è più rinviabile e deve partire dagli investimenti e dalla occupazione. Da questo punto di vista è necessaria un’accelerazione anche su tutte le misure già decise sia nella legge di stabilità, sia nei provvedimenti precedenti. Penso all’allentamento del patto di stabilità per i Comuni, alla restituzione del credito delle imprese, ai fidi di garanzia per allargare la liquidità, ai crediti di imposta su ricerca e innovazione fino ai fondi europei così come stati rimodulati. Se è vero che abbiamo davanti quindici mesi bisogna anche creare le condizioni per l’abbattimento del cuneo fiscale». Ma abbiamo davanti quindici mesi? «Nessuno mette in discussione questo orizzonte». Letta andrà in Europa senza il patto di maggioranza. Non è un segno di debolezza per il governo?
«Non credo che una settimana in più cambi le cose, il vero problema è quello di mettere mano ad un vero rilancio del programma e penso che al governo converrebbe concentrare le propria azione su alcuni obiettivi soltanto».
Renzi vuole l’ok da tutto il partito, ma c’è chi vede un tentativo del segretario di imporre la sua agenda anche a Letta. «Credo che sia corretto che il più grande partito del Paese, l’azionista di maggioranza del governo, affronti il tema nei suoi organismi di discussione e la direzione è la giusta sede di confronto. Il Pd deve arrivare ad una sua proposta da presentare al premier».
Epifani, il tema è il dualismo Letta-Renzi. Come si risolve questa guerra fredda? «Non credo sia questo il tema. Il tema è la situazione di stasi in cui siamo e dalla quale si deve uscire quanto prima per dare inizio a un’azione di governo forte, il tirare a campare non è una filosofia applicabile».
C’è anche, nel suo partito, chi spinge per mandare Renzi a Palazzo Chigi al posto di Letta.
«Mi sembra un’ipotesi che appassiona la stampa ma che Renzi ha negato nel modo più assoluto».
Quindi lei crede che dopo la direzione inizierà una fase di sostegno pieno e convinto al governo e si archivieranno le critiche quotidiane?
«Il governo avrà il sostegno pieno del Pd una volta che il partito presenterà la sua proposta al presidente del Consiglio, anche perché lo stesso percorso delle riforme è legato alla stabilità, le due cose si tengono insieme».
Si riparte con una nuova squadra di governo?
«Si riparte con un nuovo patto di maggioranza che si fonda su pochi ma incisivi punti. La questione dei nomi e di una eventuale nuova fiducia, che sono prerogativa del Presidente del Consiglio e del presidente della Repubblica, viene dopo la scelta delle priorità».
Il Ruby Ter è piombato sulla scena politica. Da Fi c’è già chi dice che questa inchiesta vuole affossare le riforme. Vede rischi concreti?
«Quando Renzi ha ripreso il dialogo con Fi non ci ho trovato nulla di anormale, d’altra parte la legislatura era iniziata proprio con un confronto sulle riforme. Anche quando si è trattato di applicare la legge Severino per la decadenza di Berlusconi noi non abbiamo mai inteso fare un attacco politico: in quel momento stavamo applicando una legge, niente altro che questo. È stato l’allora Pdl usare strumentalmente quella vicenda per far saltare il tavolo. Mi chiedo: può oggi Fi mandare di nuovo tutto all’aria? Spetta a loro decidere se vogliono partecipare ad un processo riformatore oppure no. Io mi auguro di sì».
Crede che stavolta Berlusconi terrà fede al patto?
«Giunto all’ultimo miglio si è quasi sempre sottratto agli impegni presi. Stavolta è giusto metterlo alla prova avendo la cautela che la storia impone».
Renzi ha sbagliato ad attaccare Cuperlo?
«Noi abbiamo discusso nei nostri organismi e alla fine abbiamo assunto delle scelte che da quel momento in poi sono di tutto il partito. Ma ci sono state anche posizioni diverse rispetto alla maggioranza e queste mi sembra abbiano tutte una loro forza. Quello che fonda una comunità non è la mancanza di confronto, ma il rispetto reciproco, tanto più verso chi ha idee diverse dalle nostre. Così come in un partito si sostiene con lealtà il segretario che ha vinto le primarie, avendo appunto, il senso reciproco dell’essere parte di una comunità politica». La minoranza Pd chiede le preferenze, ipartitini l’abbassamento della soglia. Su cosa si può intervenire senza far saltare tutto? «Partiamo da qui: siamo tutti vincolati al patto  stipulato dal segretario, ma non ho mai visto una legge che non si potesse migliorare in Parlamento, che non ha funzioni notarili. Naturalmente ricercando la condivisione. Per esempio: aver allegato al testo di legge le tabelle delle circoscrizioni si presta a molti problemi e non è un caso se non è mai successo prima. La soglia dell’8% apre un problema della rappresentanza in Parlamento perché questo vuol dire tenere fuori partiti che possono prendere anche tre milioni di voti. Quanto alle preferenze, se avessimo deciso da soli avremmo optato per il collegio uninominale e il doppio turno, ma non siamo da soli a decidere. E non c’è dubbio, e su questo il Parlamento può intervenire, che noi negli ultimi anni abbiamo detto che era giusto restituire ai cittadini la possibilità di scegliersi i propri rappresentanti. Se questo non avviene, si può aprire un ulteriore vuoto nella partecipazione al voto perché i cittadini si sentono meno liberi nella loro scelta».

La Stampa 24.1.14
La strada molto stretta di Vendola
di Riccardo Barenghi


Il partito di Vendola, nato 5 anni fa, oggi celebra il suo secondo congresso ma non vede un futuro roseo. Un partito reduce dal risultato delle elezioni politiche, un misero 3,2%, e dalla sconfitta della coalizione con il Pd di Bersani.
Una coalizione di centro-sinistra che non è riuscita a formare quel governo di cambiamento sul quale aveva puntato tutte le sue carte il leader di Sel. Inoltre, la nascita delle larghe intese assieme all’avversario storico Berlusconi, l’uscita di scena dello stesso Bersani, l’arrivo di Renzi che non è certamente in sintonia con le istanze della sinistra radicale, la legge elettorale che prevede una soglia troppo alta per sperare di entrare in Parlamento... Un quadro nefasto.
Sel ha poche strade davanti a sé per tentare di rimanere in vita. La prima, quella più lineare, sarà probabilmente enunciata oggi da Vendola. Si tratta di combattere in Parlamento affinché la soglia della nuova legge elettorale venga abbassata al 4 per cento per chi si presenta in coalizione (oggi è prevista al 5, tetto proibitivo per Sel stimata tra il 2 e il 3 per cento). Solo così si potrebbe tentare di nuovo l’avventura di un’alleanza con il Pd. Ma non è affatto detto che le pressioni di Sel riescano a modificare l’impianto blindato da Renzi e Berlusconi. Così come non è detto che, se anche ci riuscissero, sarebbe facile ottenere il 4 per cento dei voti. Il segretario del Pd domani sarà al congresso, si spera in una sua parola di rassicurazione...
Le altre strade ci sono ma non si dicono, almeno ufficialmente. Una è l’entrata nel Pd per creare una corrente di sinistra composta anche dagli attuali oppositori di Renzi: Cuperlo, Fassina (e Bersani e D’Alema). Strada più che impervia soprattutto perché significherebbe sancire definitivamente il fallimento politico di un progetto che pure qualche speranza aveva suscitato fino a qualche anno fa, quando i sondaggi attribuivano a Sel il 7-8 per cento dei consensi. Perché si sono perduti quei consensi è una domanda alla quale sarebbe riduttivo rispondere dando tutte le colpe a Bersani (che pure non ne è esente).
Oppure (esclusa l’ipotesi che la sinistra del Pd esca dal partito per entrare in Sel), ci sarebbe sempre il richiamo della foresta. Una scelta movimentista, magari benedetta da Fausto Bertinotti, Barbara Spinelli e Marco  Revelli, che potrebbe rimettere insieme i pezzi sparsi della sinistra radicale italiana: Sel, Rifondazione, i Verdi, Ingroia, addirittura Diliberto. Una prospettiva che Vendola vede come fumo negli occhi ma se in gioco ci fosse la sopravvivenza...
In ogni caso il primo banco di prova per Sel saranno le europee di maggio, dove potrà misurare la sua forza reale. E qui c’è un’altra battaglia preventiva da fare, cercare di abbassare quella soglia del 4 per cento che rende improbabile un arrivo a Bruxelles (non a caso il segretario di Rifondazione Ferrero sta pensando di candidarsi in Grecia). Il problema però è che ormai l’immagine politica di Sel risulta appannata, anche grazie a quella telefonata di Vendola con Girolamo Archinà, in cui il governatore pugliese si complimentava per il «balzo felino» con cui il dirigente dell’Ilva aveva strappato il microfono a un giornalista. A molti elettori di Sel quel balzo non è piaciuto affatto.

Giornalettismo 22.1.14
Marco Pannella e il grattacielo di morbidezza
Maretta nei radicali: l'ultima relazione del tesoriere fa emergere un tesoretto di ricchezze che stride con i conti (in rosso) del movimento
di Guido Tricarico

qui

Repubblica 24.1.14
Corridoio o finestrino?
di Sebastiano Messina


Splendido esempio di democrazia diretta, il referendum di Grillo sulla legge elettorale. Velocissimo: evitando di assillare i cittadini avvisandoli, che so, il giorno prima, lui ha convocato i votanti con un preavviso di mezz’ora e ha dato loro nove ore per rispondere alla domanda «proporzionale e maggioritario?» (quesito secco, come «minerale o frizzante?» e «corridoio o finestrino?»). Ma la novità rivoluzionaria è stata la «campagna informativa»: invece di dare la parola a un sostenitore del proporzionale e a uno del maggioritario, il complicato dilemma è stato illustrato da un solo esperto (casualmente, un proporzionalista convinto). E alla fine, con uno spoglio-lampo che non ha avuto bisogno di inutili scrutatori, ha vinto – indovinate – il proporzionale. Questa è democrazia, signori, non quella pagliacciata che chiamano Parlamento.

Repubblica 24.1.14
Blitz del collettivo “Comitato Politico 1921”: nove strade intitolate ai partigiani per l’anniversario del Pci
E la città plaude. Il sindaco: “Il sentimento di uguaglianza è nel nostro dna”
Nomi comunisti per le vie così ritorna a battere il cuore rosso di Livorno
di Matteo Pucciarelli


LIVORNO QUI CE n’è per tutti i gusti: quello ortodosso, quello massimalista, quello libertario, quello riformista e quello governista. Addirittura quello renziano, che adesso va per la maggiore dopo la sbornia bersaniana di un anno fa. Ognuno si sceglie il suo, ma poi alla fine l’elemento base sta in una parola che se la pronunci — in questa città — i voti non te li fa perdere ma semmai te li fa guadagnare: comunismo. E così l’iniziativa di un gruppo di ragazzi del “Comitato Politico 1921” (categoria: ortodossia pura) di rinominare nove vie intitolandole ai partigiani comunisti livornesi in occasione dell’anniversario del Partito Comunista d’Italia, tre giorni fa, è considerato un fatto normalissimo. «Che poi tra le altre cose sei di quei nomi sono già delle vie in altre zone», tiene a ribadire il sindaco Alessandro Cosimi, Pci-Pds-Ds-Pd e ora folgorato sulla via del collega fiorentino.
Le targhe alternative sono sempre lì, nel reticolo di strade che portano dal teatro Goldoni al teatro San Marco: via Ilio Barontini, piazza Oberdan Chiesa, piazza Otello Frangioni, via Primetta Cipolli, via Alcide Nocchi, piazza Aramis Guelfi, eccetera. Domani il tradizionale corteo in memoria di quel 1921 partirà dal Goldoni (dove si scisse il Psi) per arrivare al San Marco (dove nacque “il Partito”, dizione che resiste ancora), anche se anno dopo anno le presenze sono sempre meno e da esserci in migliaia adesso si parla di centinaia. È lo spirito dei tempi, che vale pure per la rossa Livorno: il secondo partito dopo il Pds-Ds-Pd non è più Rifondazione, adesso, ma il M5S, che alle scorse politiche prese il 27 per cento. «I vuoti in politica si colmano sempre, se la sinistra scompare arriva Grillo», non se ne scandalizza uno degli autori dell’affissione selvaggia, che parla sotto un ritratto di Sta-lin e accanto a una scritta in cirillico. «Il mio nome? Non importa, siamo un collettivo. Chi votiamo noi? Lasciamo libertà di scelta, ma di sicuro non crediamo sia possibile cambiare il sistema da dentro. A noi piace solo il Pci di una volta». Che però si presentava alle elezioni, «ma i tempi sonocambiati, la politica che serve alla gente adesso la fai dal basso, senza mischiarti nelle istituzioni».
Chi invece la politica la fa “dal-l’alto”, cioè il Pd, ha pure le sue grane. Non trovava un sostituto di Cosimi, giunto alla fine del secondo mandato, per le elezioni diprimavera. Parecchi rifiuti, uno dietro l’altro, alla fine si è immolato il consigliere regionale Marco Ruggeri. La questione non sembra essere se vincerà, ma con quale scarto. Il problema è, banalmente, che il porto è in crisi profonda e di soldi non ne girano più da un pezzo. Più che un onore, un onere. «Non direi che questa città è un’oasi della sinistra — commenta il sindaco uscente — ma è semplicemente un posto dove il sentimento di uguaglianza è forte, è nella storia, nel dna delle persone. Qui in percentuale abbiamo più case popolari che in ogni posto di Italia, tutte dignitose, pensate per i lavoratori».
La storia che sia ortodossi che riformisti raccontano è quella delle “Leggi Livornine”, quando il granduca di Toscana volendo popolare Livorno garantì libertà di culto e circolazione; arrivarono in migliaia, molti commerciarti ma pure molti disgraziati di allora. Un melting pot riuscito.
Succede allora che in città parlare di comunismo è parlare di sé e voler far parlare di sé. Come quando la scorsa estate il mausoleo di Ciano, imponente sacrario fascista sulle colline che sembra vigilare su Livorno, venne rivestito con una gigantesca bandiera. Cubana, però. Era un’altra ricorrenza, pure allora: il 26 luglio, la revoluciòn. O come le stime che i tatuatori fanno: dopo i soggetti tipo farfalline e delfini, al secondo posto stelle rosse, Che Guevara e stemma del Livorno calcio. Perché anche lì, tutto si lega: la curva Nord, la squadra, i cori contro Berlusconi e “Bella ciao”, immancabili. O come la scritta cubitale sulla Fortezza Nuova (centro città, anzi vetrina della città insieme al lungomare) vergata negli anni ‘70: recita un perentorio “Msi fuorilegge”, e puntualmente viene riverniciata. Da chi poi? Non importa, nessuno lo sa, ma è uguale alle targhe per i partigiani: è una cosa normalissima.
Alla fin fine però l’orgoglio del proprio essere (o voler sembrare) comunisti non supera quello dell’essere livornesi. L’intitolazione del Palasport dello scorso aprile lo ha dimostrato in modo definitivo, forse. La votazione online sul sito delTirreno si concluse con una finale a due: Antonio Gramsci contro Amedeo Modigliani. Discussione infiammata, addirittura accuse di brogli da parte dei gramsciani, alla fine il responso: vinse lo scultore livornese. Fosse stato pure comunista, sai che bellezza?

Repubblica 24.1.14
Interviene anche il “New York Times” “Sicuri che i grandi siano tutti uomini?”
“Vogliamo più donne” la sfida femminista sul Panthéon di Parigi
di Anais Ginori


PARIGI Voltaire, Rousseau, Zola o ancora Victor Hugo. Una lunga sfilata di nomi maschili. Per i turisti che entrano nel Panthéon, mausoleo della République, è impossibile non accorgersi della vistosa assenza di nomi femminili. Tra i settantuno eroi della patria ci sono solo due donne: il premio Nobel Marie Curie e Sophie Berthelot, ma quest’ultima in qualità dimoglie del chimico Marcellin. A scanso di equivoci, sulla facciata del monumento è scolpito: «Ai grandi uomini la Patria riconoscente». «Ma siamo sicuri che siano tutti grandi uomini?» si chiede polemicamente sul New York Times Robert Zaretsky, professore di Storia all’università di Houston, non convinto che tutti siano al posto giusto. L’accademico americano ha scritto un lungo commento per denunciare l’assenza di parità nel Panthéon ricordando che nell’abbazia di Westminster sono state invece sepolte molte donne, prima fra tutte la scrittrice Jane Austen.
La mancata parità del mausoleo francese non scandalizza solo ilNew York Times.Da mesi, è in corso un dibattito per “panthéoniser”, come si dice, una personalità femminile. Lo hanno chiesto a gran voce gruppi femministi ed è un impegno di François Hollande. Il presidente socialista deve decidere una nuova personalità che si sia particolarmente distinta per la Nazione. Una tradizione che fa parte della Quinta Repubblica e alla quale non vuole sottrarsi. Il suo predecessore, Nicolas Sarkozy, è stato al centro di polemiche per la scelta di Albert Camus, rifiutata dalla famiglia dello scrittore. Alla fine, ha dovuto ripiegare sul romanziere della Martinica, Aimé Césaire.
Questa volta la decisione dovrebbe essere più consensuale, anche perché si è svolta in autunno una consultazione online, lanciata proprio sul sito ufficiale del Panthéon. In cima alla popolarità sono finite appunto due donne: la rivoluzionaria Olympe de Gouges e la partigiana Germaine Tillion. Anche se in modo diverso, servirebbero a bilanciare la memoria nazionale. Nel Panthéonsono sepolti molti grandi protagonisti della Rivoluzione del 1789, ed è qui che è stato inumato l’eroe della Resistenza, Jean Moulin.
Un rapporto della Sovrintendenza raccomanda al Presidente di scegliere una “donna del ventesimo secolo” che si sia distinta per il suo “coraggio” e “l’impegno repubblicano”. Tra gli altri nomi proposti sulla consultazione online, sono apparse anche le scrittrici George Sand, Colette e Simone de Beauvoir. Alcuni gruppi del Nord e dirigenti dell’expartito comunista hanno avanzato la candidatura dell’operaia tessile ed eroina delle lotte sindacali Marthe Desrumaux. Lo scrittore Regis Debray ha caldeggiato la “nomina” la cantante Joséphine Baker. Il Presidente, che dovrebbe presto pronunciarsi, ha l’imbarazzo della scelta. Per entrare davvero nella Storia, suggerisce il professore americano, dovrebbe “panthéoniser” non una, ma due donne. Tanto per cominciare.

l’Unità 24.1.14
Israele
Peres e Netanyahu divisi sull’Iran. «Pronti alla pace», anzi no


Rohani divide le massime cariche d’Israele. L’atteggiamento del presidente iraniano, Hassan Rohani «non cambia» e «continua a essere deludente». Così il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha proseguito nella sua schermaglia a distanza ravvicinata con il presidente di Teheran anche lui presente al Forum di Davos. Dopo aver inviato dai suoi uffici di Tel Aviv un messaggio di fuoco contro lo «show» del presidente iraniano, che aveva tenuto poco prima il suo speech a Davos, accomodatosi nella poltrona degli ospiti speciali intervistati dal boss di Davos Klaus Schwab ha continuato nelle sue critiche. «Mentre Rohani parla del miglioramento delle tecnologie nel Paese impedisce agli iraniani la navigazione libera su Internet», e ancora «mentre parla di pace in Medio Oriente continua a non riconoscere l'esistenza dello Stato di Israele». E poi ancora, Teheran «resta uno stato aggressivo» e continua a «sostenere il terrorismo». Ma dello stesso avviso non è Shimon Peres. «Siamo pronti a raggiungere la pace con il popolo iraniano, storicamente non sono mai stati nostri nemici». Così il presidente di Israele nel corso di una conferenza stampa del World economic forum di Davos, in Svizzera. «Non siamo in cerca di alcuna guerra né di alcun confronto», ha aggiunto Peres, sottolineando che tocca all’Iran dimostrare al mondo di essere serio nelle sue affermazioni di non volersi dotare di armi nucleari. Ma a pochi metri da lui, Netanyahu rincara la dose contro Rohani: «L’Iran, con le sue Guardie rivoluzionarie sul terreno in Siria, sta facilitando la strage», denuncia il premier israeliano.

il Fatto 24.1.14
Evasione cinese
L’avvocato che svela i paradisi fiscali dei “principini rossi”
A Pechino il processo contro l’attivista che denuncia i cleptocrati legati al partito
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Pechino. Il tribunale del popolo numero 1 si trova a sudovest di Pechino. Di fronte, la collinetta artificiale del cimitero degli eroi della rivoluzione domina l'ampio viale che li divide. Ieri mattina il panorama era costellato da uomini della polizia e informatori in borghese. La vicina stazione della metro era controllata con cani anti-esplosivo e ogni incrocio era presidiato da una camionetta. All'interno del tribunale si svolgeva il processo di Xu Zhiyong, l'avvocato che da vent'anni si batte per i diritti civili. Alcuni diplomatici Ue sono riusciti ad entrare nell'edificio dichiarandosi preoccupati per l'attivista. È stato loro risposto che Xu era un cittadino cinese e che comunque nell'aula non era ammesso nessuno. Secondo quanto riportato dal suo avvocato, Xu Zhiyong avrebbe provato a parlare dei suoi ideali ma sarebbe stato interrotto. Allora l’imputato e il suo avvocato sono rimasti in silenzio, rifiutandosi di partecipare a quella che hanno definito una “farsa”.
TRA OGGI E DOPODOMANI si svolgeranno i processi di altri 6 attivisti del suo Movimento dei nuovi cittadini. Sono accusati di “disturbo dell'ordine pubblico” per aver organizzato manifestazioni che chiedevano che i funzionari pubblicassero redditi e averi. Fuori dal tribunale una ventina di persone provava a denunciare i torti subiti e a dimostrare il supporto per l'opera dell'avvocato che si è sempre schierato dalla parte dei più deboli e a favore del rispetto della legge.
“Abbiamo bisogno di persone come lui per continuare a sognare la nostra Cina”, ci ha confidato un'attivista del Movimento che presidiava il tribunale dalle sette di mattina per provare ad assistere al processo. Attivisti e giornalisti venivano continuamente spostati dalle forze dell'ordine. Ogni istante di tregua era sfruttato da chi aveva subito un torto per mostrare il cartello con la storia della sua ingiustizia subita. Un team di giornalisti investigativi legati a un think tank Usa è andato oltre, pubblicando l'analisi incrociata di ben 2,5 milioni di files. Un lavoro immane durato più di un anno che ha rivelato i nomi collegati a circa centomila aziende domiciliate in 10 giurisdizioni offshore. Emerge così che circa 37mila cittadini della “Grande Cina” (Repubblica Popolare, Hong Kong e Taiwan) si sono serviti dell'intermediazione dalle principali banche internazionali tra cui Ubs, Credit Suisse e Deutsche Bank – per aprire holding, trust e società di varia natura in paradisi fiscali. Inoltre fa nomi e cognomi dei principini rossi: le élite portano i loro capitali offshore. Tra questi il cognato del presidente Xi Jinping, i figli degli ex premier Wen Jiabao e Li Peng, il nipote dell'ex presidente Hu Jintao e addirittura il genero del “piccolo timoniere” Deng Xiaoping. Rischia di andare in fumo tutta la campagna per la frugalità lanciata dal presidente. E in fumo anche la favola che la nuova leadership sia impegnata in una lotta senza precedenti contro l'ingiustizia sociale e la corruzione. L'inchiesta è già censurata in Cina, Xu Zhiyong e i suoi sodali sono processati senza che gli venga garantito il diritto di difesa.

il Sole 24.1.14
Cina
Con Shanghai Pechino dà il via a 12 zone di libero scambio


Shanghai fa proseliti. Il Governo cinese ha infatti approvato l'apertura di altre 12 zone di libero scambio, da affiancare all'esperimento di Shanghai lanciato nel settembre dello scorso anno. Lo scrive l'agenzia di Stato ufficiale, Xinhua, facendo i nomi di due delle località scelte, la città di Tianjin e la provincia di Guangdong. Ancora misteriosi i nomi delle altre dieci free trade zones, anche se l'agenzia cinese elenca tre città (Suzhou, Wuxi, Hefei) e otto province (Zhejiang, Shandong, Liaoning, Henan, Fujian, Sichuan, Guangxi, Yunnan) che hanno manifestato interesse.
In particolare, una libera zona economica nel Guangdong sarebbe significativa perché raccoglierebbe non solo i porti di Shenzhen, Zhuhai e Guangzhou, ma secondo i primi progetti potrebbe estendersi fino a collegarsi con Hong Kong e Macao, le due regioni ad amministrazione speciale che darebbero al sistema dei commerci un carattere unico.
Quanto a Shanghai, secondo la Xinhua in marzo verranno introdotte nuove misure che realizzano le linee guida della People's Bank of China: tra queste la liberalizzazione dei tassi di cambio, l'allentamento dei controlli sull'utilizzo "cross-border" dello yuan, maggiore facilità di investimento in titoli stranieri. All'insegna della riforma finanziaria che è sempre stata al centro della free economic zone di Shanghai: e ora, con l'approvazione di 12 altre zone di libero scambio, è possibile che le riforme che le riguardano vengano estese a livello nazionale.

Repubblica 24.1.14
Kiev, i ribelli “armano” la piazza
Tregua con il presidente. Ma ormai l’estrema destra guida la rivolta
di Nicola Lombardozzi


KIEV— Dimenticate le folle colorate e paciose che sognavano l’Europa, cantando sotto la neve. Dopo l’ultimo mercoledì di guerra, i quattro morti, le centinaia di feriti, i quasi mille arresti, la Majdan è diventata cattiva e si prepara al peggio mentre la rivolta si estende in altre città, a Leopoli, Cerkassy, Zhitomir.
La piazza più grande di Kiev, occupata da due mesi da una folla di sostenitori della adesione alla Ue, ha mutato volto in una notte. Spariti i ragazzi con gadget e bandierine; prudentemente rintanate in casa davanti alla tv, le famigliole con bambini che venivano a curiosare; nessuna traccia dei pensionati, degli impiegati, della tanto entusiasta “gente comune”. Adesso si fa sul serio. I colori dominanti sono diventati il nero delle giacche imbottite e il verde militare di centinaia di elmetti da soldato spuntati chissà da dove. A presidiare la piazza della rivolta sono uomini dall’aspetto truce, e dall’aria ben addestrata. Agitano bastoni di legno, manganelli rubati ai poliziotti durante gli scontri, gigantesche chiavi inglesi, piedi di porco. Indossano passamontagna, portano alle braccia e alle ginocchia ingegnosi paracolpi fatti in casa con cartone e nastro adesivo. Sul palco non si esibiscono più vecchi cantanti folk o pop star come Ruslana che invitava alla «pace e all’autocontrollo». Si recitano piuttosto antiche preghiere che consolavano gli eserciti prima delle battaglie, o si intonano cupe canzoni patriottiche. Perfino la disordinata, pittoresca, tendopoli è diventata un campo militare. Le trincee fatte con il ghiaccio e la neve sono state perfezionate con il filo spinato. E una fila interminabile di mattoncini divelti è pronta per essere lanciata contro un eventuale attacco della polizia.
Lo scontro appare inevitabile a tutti. Perfino ai tre leader della rivolta che ieri sera hanno chiesto una tregua per trattare con il presidente Yanukovich. Chiedere adesso un’adesione alla Ue è ovviamente fuori discussione. Si cerca di ottenere qualche piccola vittoria per giustificare una ritirata dignitosa: un rimpasto del governo, l’annullamento delle durissime leggi anti-dissenso appena votate e copiate pari pari dalle leggi imposte in Russia da Putin due anni fa; una massiccia scarcerazione dei tanti manifestanti imprigionati. Il presidente prendetempo, annuncia il dibattito in Parlamento per martedì e il possibile cambio della guardia nell’ufficio del premier. Accenna anche a un possibile ritocco delle ultime leggi. E intanto ieri ha ricevuto una telefonata dal vicepresidente Usa, Joe Biden, che lo ha «invitato al dialogo e al compromesso».
Ma agli irriducibili che adesso controllano la Majdan non basta. Vogliono la vendetta per i quattro morti, pretendono elezioni anticipate. Soprattutto non sembrano intenzionati a seguire i tre leader che fino ad ora hanno trattato anche in loro nome. Compattatiin una nuova organizzazione battezzata “Settore destro”, diverse centinaia di militanti di estrema destra, paramilitari, naziskin, hanno ormai deciso di continuare la rivolta a oltranza. Artiom Skoropadskij, che tra insegne e bandiere vagamente neonaziste distribuisce caschi da operaio e tubi di ferro, non ha dubbi: «Ballare e cantare per due mesi non è servito. Adesso è il momento di combattere». E la linea dura della nuova Majdan è servita intanto a tirare il peggio dalle forze di polizia che certo hanno usato la mano pesante come non mai. Pestato giornalisti, denudato e lasciato nella neve un ragazzo che li aveva aggrediti, sparato bombe “assordanti”, infierito con i manganelli. Hanno pure sparato ad altezza d’uomo sui manifestanti? Non è facile da capire e anche sulla Majdan ci sono molti dubbi. Di certo comunque, due ragazzi sono morti colpiti da armi da fuoco. L’autopsia parla di «colpi sparati dall’alto» e di pallettoni da fucili da caccia «non in dotazione alle forze di polizia». E allude a una provocazione. Ma gli infiltrati e i provocatori potrebbero benissimo essere stati guidati dal regime come è capitato tante altre volte in passato. Un terzo ragazzo è morto precipitando da una torre. Un attivista pro Europa è stato ritrovato morto in un bosco di periferia. Un testimone giura di essere stato sequestrato insieme a lui e di essere stato picchiato. Storie confuse ma orrende che evocano esecuzioni degne delle peggiori dittature sudamericane. E che rendono la situazione sempre più esplosiva. Mentre i tre leader, sempre meno credibili, invocano «pazienza e serenità» e gli altririnforzano le difese.

Repubblica 24.1.14
Il sogno di Putin e le speranze dei giovani ucraini
di Bill Keller


AL MONDO servono i Nelson Mandela. Invece gli toccano i Vladimir Putin. Mentre si svolgevano i funerali dell’eroe sudafricano, il presidente russo forzava l’Ucraina ad aderire ad una nuova unione doganale e rafforzava il controllo sui media statali con la creazione di una nuova agenzia di stampa del Cremlino sotto la guida di un falco nazionalista e omofobo.
Non si tratta di iniziative isolate. Le mosse di Putin rientrano in uno schema di comportamento che da un paio d’anni a questa parte porta la Russia a prendere le distanze dall’Occidente: leggi che autorizzano ufficialmente gli atti di intimidazione verso gli omosessuali, la demonizzazione delle organizzazioni pro-democratiche, nuove leggi che estendono il reato di tradimento, limiti imposti alle adozioni dall’estero.
Non è solo una prova di forza: Putin sta cercando di contrapporsi all’Europa, di tornare indietro di 25 anni. Sulle possibili motivazioni di questo atteggiamento ci sono varie teorie: Putin è il ragazzo difficile che indossa l’uniforme del KGB per rivalsa e non se la toglie più. E’ il campione della realpolitik, cinico e calcolatore. E’ l’Uomo Sovietico, che continua a combattere la guerra fredda.
Da quando ha assunto la presidenza, nel 2012, Putin ha avuto sempre più l’impressione che le sue aperture nei confronti dell’Occidente non fossero accolte con il dovuto rispetto. La sua umiliazione e il suo risentimento si sono trasformati in un’antipatia ideologica che non è prettamente sovietica, ma profondamente russa. Non si lagna più dell’influenza politica e della supremazia economica dell’Occidente: la sua ostilità ha carattere profondamente spirituale. Negli ultimi due anni Putin è diventato più conservatore a livello ideologico, più propenso a considerare l’Europa decadente e estranea al mondo slavo orientale, cristiano ortodosso, cui appartengono sia la Russia che l’Ucraina. «E’ tolleranza senza limiti», dice Dmitri Trenin, del Carnegie Endowment for International Peace. «E’ laicismo. Putin giudica l’Europa post-cristiana, con la sovranità nazionale soppiantata dalle istituzioni sovranazionali».
Per valutare la portata dell’azione di Putin è utile fare un passo indietro. Nel luglio 1989, il presidente sovietico Mikhail Gorbaciov disse a Strasburgo che la Russia ormai sentiva di condividere la «casa comune europea» con i suoi rivali occidentali. Il rapporto tra loro doveva fondarsi sul rispetto e sul commercio, non più sul confronto e la deterrenza. «Il lungo inverno del conflitto mondiale sembra giungere al termine», scrisse all’epoca Jim Hoagland, inviato delWashington Post. Era opinione comune.
Quando l’Unione Sovietica si sfasciò, qualche anno dopo, l’Ucraina era la più grande delle 14 repubbliche liberate daldominio russo e molti ucraini vollero seguire la Russia sul cammino di Gorbaciov. «Lo slogan era “In Europa con la Russia”», spiega Roman Szporluk, ex direttore dellUkrainian Research Institute di Harvard. «Quest’idea ormai è superata».
A quasi 25 anni di distanza dalla «casa comune» di Gorbaciov, sembra che Putin voglia rovinare la famiglia europea: è vero che con gli ultimi anni di recessione e austerità l’Europa ha perso un po’ del suo fascino. Ma resta sempre allettante rispetto alla logora economia dell’Ucraina. I dimostranti di Piazza Indipendenza a Kiev rappresentano una generazione che ha studiato, lavorato e viaggiato in Polonia da quando quest’ultima è entrata in Europa, e che non vuole ritirarsi in una qualche reincarnazione dell’impero russo. Alle spalle hanno una fetta significativa dell’imprenditoria.
Può darsi che Putin riesca a catturare l’Ucraina, ma potrebbe finire per rammaricarsene: potrebbe soffermarsi sull’esperienza di Josef Stalin, che annesse l’Ucraina occidentale sottraendola alla Polonia. Stalin pensò di aver avuto una buona idea, ma finì per raddoppiare i suoi problemi: portò gli ucraini politicamente inquieti nella tenda sovietica lasciando la Polonia più forte e più omogenea, libera dai fermenti delle minoranza ucraina.
Analogamente se Putin fa entrare di prepotenza l’Ucraina nella sua alleanza, dovrà pacificare l’opinione pubblica del nuovo paese membro profondendo doni che non può permettersi di fare. Anche in questo caso gli animi dei giovani ucraini eurofili si inaspriranno, alimentando lo scontento già ampio tra la giovane generazione russa. Putin potrebbe imparare che un’Ucraina prigioniera è più un problema che un vantaggio.
(© New York Times News Service — Traduzione di Emilia Benghi)

Repubblica 24.1.14
Sudafrica
La giustizia riparatrice
di Tzvetan Todorov

I lavori della Commissione sudafricana per la Verità e la Riconciliazione sono stati accolti nei Paesi occidentali da un coro di opinioni favorevoli, e persino ammirate. Eppure, nessuno di quei governi si è mosso per modificare il proprio sistema giudiziario, temperando la giustizia punitiva, alla base dei loro sistemi giuridici, con una dose di quella «giustizia riparatrice» al cui principio si era ispirata la Commissione. La morte di Mandela ha poi suscitato una valanga di omaggi da parte dei capi di stato di tutto il mondo; ma c’è da dubitare che mettano in pratica i precetti che costituiscono il suo lascito.
A distinguere Mandela dagli altri oppositori dell’apartheid non è la sua intransigenza verso quel sistema politico, fondato sulla disuguaglianza degli abitanti del Paese, e neppure la durata o la determinazione del suo impegno. Ciò che ha reso unico il suo percorso e ne ha assicurato il successo, come retrospettivamente possiamo dire, è una rara combinazione di senso politico e virtù morale. Lo testimoniano diversi episodi della sua biografia.
Nel 1964 Nelson Mandela e i suoi compagni di lotta subiscono la condanna all’ergastolo, mentre nel Paese continua la repressione violenta di qualunque forma di protesta. A metà degli anni Settanta una nuova legge, che impone nelle scuole l’insegnamento in afrikans — la lingua dei padroni — provoca a Soweto una serie di manifestazioni, soffocate nel sangue. Dalla sua cella, Mandela invia un messaggio di solidarietà. Ma al tempo stesso, nelle poche ore libere dai lavori forzati impostigli dal regime penitenziario, si dedica a un’attività sorprendente: la lettura di libri sulla storia e la cultura della popolazione bianca che parla l’afrikans, e lo studio di questa lingua. Anche il suo comportamento nei confronti dei carcerieri è in netto contrasto con quello degli altri detenuti: anziché manifestare ostilità, cerca di comunicare con loro. Con questi gesti mostra di riconoscere non solo l’umanità delle vittime ma anche quella dei nemici. E scopre che i comportamenti arroganti dei carcerieri sono motivati non tanto da un senso di superiorità, quanto dalla paura di perdere i propri privilegi, ma soprattutto il terrore della vendetta di chi ha subito l’oppressione. Nelson Mandela dichiara allora: l’afrikanerè un africano, né più né meno dei suoi prigionieri neri.
Nel 1988, in seguito a un intervento medico (per tubercolosi) Mandela è separato dagli altri detenuti dell’Anc e nuovamente trasferito. I suoi compagni protestano, interpretando la misura come una vessazione; mentre al contrario Mandela non solo l’accetta, ma è soddisfatto della sua nuova condizione che gli consente di agire individualmente, senza subire le pressioni del gruppo. Perciò, pur senza prendere le distanze dal proprio partito, l’Anc, si affranca dalla sua sorveglianza.
All’inizio del 1989 il premier sudafricano Pieter Botha, rigido sostenitore dell’apartheid, è colpito da una congestione cerebrale e sente di non avere più molto tempo davanti a sé. Era già entrato in contatto epistolare con Mandela. Nel 1985 gli aveva offerto la libertà, a condizione che l’Anc rinunciasse alla violenza. Ma Mandela aveva rifiutato. Peraltro, benché non escludesse la violenza per principio, sull’esempio di Gandhi, era contrario a sacralizzarla, e pronto a non farne uso quando pensava di poter raggiungere lo stesso obiettivo con altri mezzi.
Nel luglio 1989 Botha lo invita a prendere un tè a casa sua. Nelson Mandela racconterà poi di essere stato colpito, più che dalle parole scambiate in quell’incontro, da due piccoli gesti: appena lo ha visto, Botha gli ha subito teso la mano, e gli ha poi servito personalmente il tè. Così Mandela ha scoperto di avere davanti a sé non l’incarnazione dell’apartheid, bensì un individuo. E si è convinto che il lavoro comune e il colloquio sono atti politici. Ha scelto allora di non tentare di imporsi con la forza, ma di ricercare una soluzione accettabile per entrambe le parti. In seguito riassumerà la sua posizione in due punti complementari: sì a uguali diritti a tutti (ossia l’abolizione dell’apartheid); no a una punizione collettiva della minoranza bianca.
Vale la pena di ricordare un ultimo episodio: nell’ottobre 1992 un gruppo di ex prigionieri dell’Anc, sospettati di aver collaborato col potere dei bianchi, denuncia le condizioni della loro detenzione. Davanti alle negazioni dei responsabili, Mandela taglia corto dicendo: «Per gran parte degli anni 1980, nei campi di prigionia dell’Anc le torture, i maltrattamenti e le umiliazioni erano moneta corrente». Aveva compreso che anche la più nobile delle cause non può legittimare azioni ignobili; e che la guerra ha una sua propria logica, in cui tutto si ripaga con la stessa moneta, e gli avversari tendono sempre più ad assomigliarsi. Questa sua consapevolezza lo porta, dopo il trionfo elettorale, a incoraggiare la via di una giustizia non punitiva ma riparatrice.
Nel bel discorso pronunciato alle esequie di Mandela, Barack Obama ha detto che ogni uomo di Stato dovrebbe chiedersi se nella propria vita abbia applicato bene la sua lezione. E ha constatato che mentre la lotta contro il razzismo può registrare qualche vittoria anche negli Stati Uniti, quella per la giustizia sociale, contro la povertà e la disuguaglianze, incontra tuttora robusti ostacoli. Ma Obama non ha detto nulla sui conflitti armati nei quali il suo Paese è tuttora impegnato, pure per nulla estranei a quello che è stato l’impegno di Mandela. Come si può affermare di ispirarsi al suo esempio — quello di riconoscere anche al nemico la comune umanità — quando di volta in volta tutti i governi americani hanno scelto di rinchiudere i loro nemici, veri o presunti, in campi di detenzione come quello di Guantanamo; di lanciare i loro droni indistintamente; di assoggettare a intercettazioni la popolazione del proprio Paese e i responsabili politici ed economici dei Paesi alleati? Tra le parole e gli atti c’è un abisso che la virtù morale di Mandela non può ammettere.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

il Fatto 24.1.14
Shoah, la memoria difficile e le colpe degli italiani
Il 27 gennaio sarà la Giornata della Memoria: in Italia è stata istituita con la legge numero 211 del 20 luglio 2000
Sul tema della memoria abbiamo messo a confronto le opinioni di due persone diverse per età e formazione: Furio Colombo, che ha scritto e firmato quella legge, e Silvia Truzzi, giornalista del Fatto
Lo spunto è un pamphlet di Elena Loewenthal, “Contro il giorno della memoria”, in questi giorni in libreria per le edizioni Add.


LUNEDÌ LA GIORNATA DEDICATA ALLE VITTIME DELL’OLOCAUSTO: UN DIALOGO SUL SENSO DELLA RICORRENZA, SUGLI USI E ABUSI DELLA STORIA CHE HANNO CARATTERIZZATO IL DIBATTITO PUBBLICO

FURIO COLOMBO Mi ha colpito la motivazione iniziale del libro di Elena Loewenthal. Che suona più o meno così: un bel giorno le istituzioni hanno un figlio e quel figlio è il Giorno della Memoria. Che assomiglia ai genitori in tutto: è retorico, noioso, ripetitivo, ricattatorio, ansioso di novità e spettacolo. Tutto ciò lo può fare perché lei immagina che le istituzioni partoriscano istituzioni. Questo però non è il caso del Giorno della Memoria, un'iniziativa solitaria, che per cinque anni ha tentato disperatamente di venire alla luce. È stato l'ultimo atto della legislatura 1996, mentre io avevo presentato la proposta all'inizio del mandato parlamentare. La Loewenthal non tocca mai, nell'analisi della genesi del Giorno della Memoria, quello che per me è stato un presupposto fondativo: cioè che la Shoah è un crimine italiano. Quel delitto c'è stato, e l'Italia è stata un complice essenziale. Vorrei precisare che la data del 27 gennaio è stata scelta perché Tullia Zevi, presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche, me l'ha chiesto con forza e persuasione. “Questa legge non può riguardare solo noi”, mi ha detto. “Il 27 gennaio comprende un numero più largo di perseguitati”. Io avrei voluto il 16 ottobre 1943, giorno del rastrellamento nel ghetto di Roma. Se fosse stato scelto il 16 ottobre, questo libretto contro il Giorno della Memoria non avrebbe potuto essere scritto. La mia ostinazione nel volere il 16 ottobre, tra l'altro, incontrò una forte ostilità dei miei colleghi parlamentari. Perché metteva a nudo quella verità di cui parlavo prima: la Shoah è un delitto italiano, che può avvenire a pochi passi dal Vaticano, senza che nessuno, o quasi, dica nulla. Il 27 gennaio era più ecumenico. In The Holocaust in italian culture (tradotto da Bollati Boringhieri l'anno scorso con il titolo Scolpitelo nei cuori), Robert Gordon, docente di Modern italian culture a Cambridge, si occupa proprio del cammino della legge per il Giorno della Memoria in Italia. L'autore prende le mosse da un libretto che avevo pubblicato nel 1991 con l’Europeo, come primo esempio di lavoro in cui in Italia si afferma il diritto di Israele a esistere. Contemporaneamente – infuriava la Guerra del Golfo – Chiara Ingrao guidava colonne di manifestanti per la pace che bruciavano bandiere di Israele. In quel libretto spiegavo le ragioni per cui l’Italia non aveva mai voluto vedere le proprie responsabilità nell'Olocausto, che sono anche nel discorso della Loewenthal. Ma sono precedute di vent'anni dalla prefazione che feci a The Italians and the Holocaust: Persecution, Rescue and Survival (1987, Nebraska University press) di Susan Zuccotti, in cui parlavo del rovesciamento che si è verificato nella cultura italiana, che a lungo ha celebrato la Resistenza ignorando la Shoah.
SILVIA TRUZZI Secondo la Fondazione che gestisce l’ex lager di Auschwitz sempre meno ragazzi tedeschi visitano il campo di concentramento. Lo Stern ha riportato un sondaggio, realizzato nel 2012 fra giovani tedeschi tra i 18 e i 29 anni: uno su cinque non sapeva dire cosa fosse accaduto ad Auschwitz. Dieter Rossmann, responsabile dell'Istruzione per l’Spd, ha commentato: “Occorre mettere a confronto le giovani generazioni con il passato della Germania, affinché tali tragedie non si ripetano. La visita ad almeno un lager dovrebbe diventare obbligatoria”. Racconto questo perché ho grandi perplessità sulla sacralizzazione della Storia e ancor più sull'idea di una memoria obbligatoria . Ricordare non è di per sé un rimedio contro i mali futuri: i genocidi avvenuti nel mondo dopo l'Olocausto (in Bosnia, per esempio) ne sono una prova. Ma soprattutto ogni imposizione, così come ogni censura, trova il proprio antidoto: l’obbligatorietà della memoria può essere controproducente. Auschwitz è il toponimo dell’inverno della Storia, da solo è in grado di evocare l'intera operazione di sterminio nazista. Ho avuto occasione di visitare il lager con un gruppo di studenti, in occasione del 60esimo anniversario della Liberazione. Ricordo questo tour – veloce, freddo in ogni senso, al seguito di una guida frettolosa che faceva lo slalom tra cataste di capelli e foto dei prigionieri – con un certo disagio. C’erano, quel giorno, molti capi di Stato, dunque è probabile che fosse una circostanza particolare. Però ebbi la netta impressione che tutti quei riti appesantissero, in termini di retorica, il significato di quel momento. E creassero anche negli studenti una frustrazione per l'impossibilità, nel frastuono della cerimonia, di provare vera empatia rispetto al luogo dove si trovavano. È vera l'obiezione che avanza la Loewenthal, a proposito dell'eccesso di enfasi che sovraccarica il Giorno della Memoria.
FURIO COLOMBO L’educazione alla vita di persone giovani non ha ancora scoperto modi migliori che mostrare ciò che è accaduto prima di loro. Vedo i limiti che ci possono essere nella “gita” ad Auschwitz, anche perché per forza è una situazione di cameratismo scolastico. Però mi rendo conto anche della modestia degli altri strumenti: qualche buon film, qualche buon libro, ma pochissime possibilità di rendere evidente ciò che davvero è accaduto. Allora quelle visite sono un'approssimazione immensamente modesta del toccare con mano, ma se riuscissero anche solo un poco ad arginare il riflusso del negazionismo di fatto, sarebbe già un buon risultato. La pedagogia non ha tantissimi strumenti a disposizione. Se le approssimazioni sono nel segno di non permettere che si faccia finta di nulla, credo che vadano tenute in considerazione. Non credo che queste gite dovrebbero essere obbligatorie, ma non c'è nulla di obbligatorio nemmeno nel Giorno della Memoria, che è un'indicazione. L'obbligatorietà, nella vita scolastica, di per sé è una mannaia. Vorrei però ricordare che Primo Levi accompagnò e fece da guida a un gruppo di studenti italiani in un suo ritorno ad Auschwitz, che esiste ancora in un film.
SILVIA TRUZZI C'è un altro passaggio, in Contro il giorno della memoria, che merita attenzione. Cioè quando l’autrice parla della “rimozione del lato oscuro che stava dietro al lieto fine”. E spiega che “ancora negli Anni Settanta, la celebrazione della memoria aveva per oggetto quasi esclusivo la Resistenza”. Ma è una cosa che, stando alle memorie liceali, è andata avanti per molto tempo: rammento i discorsi del 25 aprile, che disegnavano immancabilmente l’8 settembre come il momento di una scelta collettiva, del “tutti in montagna” e l’Italia come un Paese altro, dove quasi nessuno era stato fascista. Finita la guerra, abbiamo semplicemente finto di averla vinta. Nel suo libro L’Italia del silenzio, Gianni Oliva riporta le parole di un grande storico liberale, Rosario Romeo: “La resistenza, opera di pochi, è stata usata da tanti per evitare di fare i conti con il proprio passato”. Senza contare che Una guerra civile di Claudio Pavone, esce nel '91. Prima di allora l'espressione non esisteva, perché a lungo è stata proposta una rilettura del Ventennio in cui le responsabilità erano tutte del re e di Mussolini. Sempre Oliva fa notare che nei manuali scolastici si racconta di quando, nel ‘31, Mussolini obbligò i professori universitari a giurare fedeltà al regime. Allora si ricordano i 12 che si rifiutarono di giurare, senza spiegare che i professori universitari quell'anno in Italia erano 1.848. Cioè a dire: i 12 non sono statisticamente rilevanti. Il revisionismo e la rimozione sono soprattutto serviti per avvalorare, con David Bidussa, il mito degli italiani brava gente. E a dimenticare che nel passaggio alla Repubblica, una larghissima parte della classe dirigente ha mantenuto il posto che ricopriva durante il Ventennio.
FURIO COLOMBO Abbiamo attribuito alla Resistenza il compito di esentarci dalla responsabilità dal Fascismo, perfino per coloro che alla Resistenza non avevano partecipato: la famosa “zona grigia” di cui parla Enzo Forcella. La mancanza di epurazioni è dipesa molto dall’amnistia Togliatti: un saggio atto di governo, un pessimo atto di transizione verso la democrazia. È stato un esorcismo, un tentativo di far passare gli italiani per un popolo buono, “brava gente” appunto, sempre e da subito dalla parte giusta. Nessuno sembrava ricordare con quanto meticoloso scrupolo i fascisti di Salò si sono dati da fare per scovare e consegnare ai tedeschi ogni singolo cittadino italiano ebreo. Come dimostra il Centro di documentazione ebraica di Milano, il numero d'italiani che hanno incassato cinquemila lire come premio per avere fornito informazioni che hanno portato all'arresto di concittadini ebrei, è molto alto. È vero che è accaduto il contrario, ma c'è anche questa verità. Bisogna poi ricordare che nel mezzo di una guerra che stravolgeva l’Europa, i treni diretti ai campi di sterminio partivano regolarmente, in orario. Magari qualche passeggero moriva, ma il viaggio non perdeva un vagone né una coincidenza. All'organizzazione perfetta dello sterminio ha contribuito anche l’Italia. È questo che mi ha fatto dire – portando avanti l'iniziativa di istituire un Giorno della Memoria per prima cosa che la Shoah è un delitto anche italiano. Benché ci siamo abituati, forse anche per disprezzo verso il regime di Mussolini, a presentare l'Italia come l'alleato straccione dei nazisti, resta il fatto che l'Italia era l'altra grande potenza: sconfitta la Francia, assediata l’Inghilterra e occupato tutto il resto tranne la Svezia, l'Italia era l’altra potenza dell'Asse. Senza la partecipazione italiana – formale: le leggi razziali introdotte nel 1939, e materiale: gli arresti – la persecuzione contro gli ebrei non sarebbe potuta avvenire. Ci si poteva ribellare ai tedeschi? Lo dimostra l’esempio bulgaro. Il Re bulgaro era un Savoia – questo invece dimostra la capacità egemonica di quell'Italia stracciona – e le leggi razziali italiane furono mandate, per essere adottate, al Parlamento bulgaro. Il presidente del Parlamento ha immediatamente dichiarato: non faremo mai una cose del genere ai cittadini ebrei bulgari. Questo ci dice che avrebbe potuto non esserci una simbiosi di necessità tra Fascismo e razzismo: c’è stata per volontà del regime italiano.

CONTRO IL GIORNO DELLA MEMORIA, E. Loewenthal, Add; pagg. 93 10 euro
SCOLPITELO NEI CUORI, R.Gordon, Bollati Boringhieri; 370 pagg, 27 euro

Repubblica 24.1.14
Auschwitz non è un museo
Quello che la Shoah può ancora raccontare
Esiste un modo nuovo di parlare dell’Olocausto?
Saggi e riflessioni per il Giorno della Memoria ci provano
A partire dal viaggio nel lager di Georges Didi-Huberman
di Susanna Nierenstein


Smettiamo di considerare Auschwitz un museo perché Mein Kampf di Adolf Hitler, oltre a essere stato in questi giorni sdoganato dalla Baviera che sinora ne aveva vietato la pubblicazione, è già un bestseller tra gli ebook (in inglese ce ne sono sei versioni ed è al primo posto nella sezione “Political and Propaganda Psychology” di Amazon e al 12esimo in “Politics and Current Events” dell’iTunes Book Store oltre a essere tra i libri più letti nei paesi musulmani). Auschwitz non è un museo perché nel 2012 in Francia sono stati registrati 614 atti antisemiti, 1,6 al giorno, il 58 per cento in più dell’anno prima, tra cui aggressioni e uccisioni a mano armata spesso a sfondo israelofobico da parte di chi inneggia alla jihad. E perché in Ungheria e Grecia l’antisemitismo è rappresentato in parlamento. E in Italia ci sono onorevoli che parlano di complotto dei banchieri ebrei.
Auschwitz non è un museo perché c’è ancora molto da sapere e da chiarire dello sterminio nazista: per restare ai dati, l’United States Holocaust Memorial Museum di Washington, raccogliendo i risultati delle ricerche per l’enciclopedia in corso di pubblicazione, è arrivata solo quest’anno a focalizzare numeri scioccanti, di gran lunga superiori a quelli noti. Ha infatti catalogato 42.500 tra ghetti e lager realizzati dai nazisti in tutta Europa, alcuni campi dedicati allo sterminio, ma anche: 30.000 campi di lavori forzati, 1.150 ghetti, 1000 destinati ai prigionieri di guerra, 980 campi di concentramento, 1.000 di prigionia di guerra, a cui ne vanno aggiunti altre migliaia di più piccoli e meno noti, come i 500 bordelli con relative schiave del sesso, i lager (circa 90) destinati all’eutanasia dei vecchi e dei malati, e quelli per gli aborti forzosi, e ancora quelli di “donazione di sangue” (tolto ai bambini slavi – lasciati morire – per i soldati tedeschi feriti), e altri di “germanizzazione”, posti dove veniva raccolta un’infanzia soprattutto polacca e russa (dall’aspetto insomma razzialmente puro) presi dagli orfanotrofi o rapita alle famiglie: gli “elementi validi” erano dati in adozione a tedeschi, quelli scartati uccisi.
In questo sistema concentrazionario entrarono dai 15 ai 20 milioni di persone, e ne morirono tra i 7 e gli 8 (tra i 3,5 e i 4 gli ebrei), a cui vanno aggiunte le fucilazioni e le fosse comuni ad Est, che portano a 6 i milioni di ebrei uccisi. «Le cifre e le diverse tipologie dei campi sono state sorprendenti anche per noi» ci ha detto Geoffrey Mergaree direttore dell’enciclopedia, «a questo punto al fatto che i tedeschi non sapessero quel che stava avvenendo non può più credere nessuno”. Nella sola Berlino c’erano 3.000 centri dove erano detenuti gli ebrei, ad Amburgo 1.300. Questi numeri sono così immensi che finiscono quasi per annullarsi, per ubriacarci. Ma riguardano tutti singoli individui, con un nome e un cognome, una vita prima dell’annientamento, una realtà che può sfuggire se invece smettiamo di ragionare su come si arrivò alla rottura di civiltà europea, se musealizziamo il Giorno della Memoria.
Due libri diversissimi tra loro in uscita per il 27 di gennaio colgono bene il tema oltre il nuovo The Devil That Never Dies di Daniel Goldhagen incentrato sulle figure dei nuovi odiatori di ebrei, come Ysuf al-Qaradawi che nei suoi popolari sermoni su Al Jazeera predica la punizione degli ebrei per la loro corruzione, «dopo Hitler sarà per mano dei credenti (leggi musulmani ndr) che verrà portata a termine»: la cosa non scandalizza nessuno. Ma torniamo ai nostri due libri. Prima, brevemente, Scorzedi Georges Didi-Huberman (Nottetempo, trad. Anna Trocchi) filosofo e storico dell’arte francese, un racconto fotografico di un luogo dove sembra non ci sia più niente da vedere, Auschwitz Birkenau appunto, “museo della memoria” con i suoi allestimenti, ricostruzioni (come quella delle immagini prese di nascosto da un membro del Sonderkommando su un gruppo di prigionieri che corrono nudi verso le camere a gas sotto la minaccia dei soldati: manca nella messa in scena delle foto quella fuori fuoco, l’unica che poteva spiegare, evocare la circostanza travolgente in cui furono tutte scattate, in segreto, e salta anche il punto di vista dell’uomo – la porta della stessa camera a gas – che rischiò per documentare l’obbrobrio). Uno sguardo attento come quello di Didi-Huberman sconvolge l’asetticità del museo e recupera quel che i nazisti distrussero: coglie ad esempio i fiori nati dove riposano le ceneri del crematorio, le tracce – schegge e frammenti di ossa che la pioggia ha fatto risalire in superficie – dei massacri di massa nelle aree continuamente ricoperte di nuova terra. Auschwitz non è un museo, appunto. Gli esseri distrutti sono ancora lì – 12.000 assassinii al giorno durante l’estate ’44 ad esempio,aggiungiamo noi – nel più grande cimitero del mondo.
Attacca ancor più direttamente la sterilità di un retorico “dovere della memoria” e indica invece le strade da seguire (Come ricordare? recita il sottotitolo), lo storico francese Georges Bensoussan (grande indagatore della storia contemporanea ebraica e della Shoah, con alle spalle numerosi titoli e riconoscimenti). Il suo ampliamento deL’eredità di Auschwitz (Einaudi, trad. Camilla Testi, postfazione Mauro Bertani) porta non uno ma mille spunti su come vada corretta l’impostazione attuale che comunque continua a considerare la Shoah come lezione oscura sacralizzata, incarnazione di un male assoluto e folle, impossibile da indagare a fondo e da attualizzare. Difficile tirare fuori da questo testo fitto fitto di suggestioni e indicazioni, le cose essenziali. Eccone alcune. Primo, la Shoah non è affatto la ripetizione di tragedie ebraiche passate: è una cesura della civiltà europea, ma non è assolutamente un incidente della Storia, è un crimine bio-politico sviluppato da dentro l’idea dell’igiene del mondo a sua volta originata dal darwinismo sociale sviluppato nel XIX secolo, un fenomeno da tenere a mente, dice Bensoussan, anche mentre guardiamo l’oggi e la nostra deificazione della scienza. Ma per quanto il millenario antigiudaismo cristiano e l’antisemitismo nazista siano diversi, mette in guardia Bensoussan, essi non sono opposti: l’antigiudaismo cristiano ha preparato il terreno, ha introdotto l’identità demoniaca degli ebrei, e non solo quello (anche la limpieza del sangue richiesta nella Spagna del XV secolo).
Oltre a questo, c’è molto altro. Ovvio. Se il nemico per il nazismo è un oggetto biologico da eliminare, il progetto genocida è anche frutto di una visione millenarista e appunto demonizzante (come non pensare anche qui all’oggi, e alla definizione degli ebrei come figli di scimmie, all’assurda denuncia che i soldati israeliani distribuiscano caramelle avvelenate ai bambini palestinesi), tanto che con la ragione non si arriva a stabilire una casualità lineare: sono un milione i tasselli da mettere insieme. E Bensoussan ce li suggerisce chiedendo di fare Storia, non di ricordare. Lo sforzo di comprensione ci spinge a fare paragoni, sacrosanti ma non devono livellare, ogni genocidio ha la sua specificità. Quello degli ebrei, delle camere a gas, nasce dal ventre dell’Europa e dalla modernità: il terreno di ricerca, di archeologia storica è ancora in gran parte incolto, gli interrogativi che pone sono ancora molti, da rivolgere a se stessi e nelle scuole. Leggete Bensoussan e ve ne renderete conto.

Repubblica 24.1.14
Prima contro l’oblio. Da oggi pomeriggio online lo speciale su Anita B., il film di Roberto Faenza sul dopo-Shoah tratto dal libro Quanta stella c’è nel cielo di Edith Bruck. Incontro dialogo tra il regista e gli studenti del liceo Tasso di Roma, introdotto da Simonetta Fiori e guidato da Laura Pertici con la stessa Bruck, Moni Ovadia e il musicista Gabriele Coen

Repubblica 24.1.14
“Ricordiamo, ma senza retorica”
Bisognerebbe trovare una chiave per cambiare l’evento. Anche aprendosi agli altri genocidi del Novecento
di Simonetta Fiori


«Cerchiamo di usarla bene, questa memoria. E se la giornata del 27 gennaio non ha raggiunto l’effetto sperato vuol dire che non abbiamo lavorato bene». Anna Foa è una studiosa di storia degli ebrei. Figlia di Vittorio Foa e Lisetta Giua, proviene da una famiglia ebrea per parte di padre, s’è convertita formalmente all’ebraismo in età adulta, e ancora ricorda da bambina la nonna che l’ammoniva: «Con quel profilo i nazisti ti avrebbero rinchiuso nel lager». Ora, scherza, anche lei fa parte degli “officianti” della liturgia memoriale, di cui conosce tutti i rischi.
Da più parti si denuncia la stanchezza della memoria: un martirologio che rischia di non comunicare più nulla.
«Anche nel mondo ebraico era cominciata una riflessione di questo genere, ma poi s’è arenata. Purtroppo il diffondersi del negazionismo accresce negli ebrei un atteggiamento di difesa. E così si difende tutto, anche la retorica. Chi parla di “shoah business”, ossia degli investimenti di danaro intorno al ricordo dell’Olocausto, richiama elementi di realtà. È fondato il rischio di diventare professionisti della memoria. Bisogna dirlo senza farci spaventare dall’antisemitismo. Anche se poi questo è un enorme problema reale».
La retorica non funziona granché: lo vediamo anche dal proliferare dei siti negazionisti.
«Sì, anche se escludo che l’antisemitismo sia una reazione all’enfasi celebrativa. Però è sbagliato somministrare ai ragazzi una doccia di memoria dall’alto, come fosse una medicina».
Secondo lei la giornata del 27 gennaio va mantenuta?
«Credo che abbia avuto un effetto positivo, masia diventata troppo “ufficiale”, con un effetto di sovraccarico. Bisognerebbe trovare una chiave per cambiarne le caratteristiche. Anche aprendosi agli altri genocidi del Novecento, cosa che non è sempre ben vista all’interno del mondo ebraico: si teme la banalizzazione della Shoah. Quanto al 27, mio padre Vittorio diceva che non bisognava ricordare un giorno solo».
Oggi si pone il problema di come ricordare. Un libro appena uscito,Dopo i testimoni, s’interroga sulla memoria dopo la scomparsa degli ultimi sopravvissuti.
«Mi sembra folle l’idea, circolata da qualche parte, che si possano allevare dei ripetitori di memoria individuale. C’è invece bisogno di storia, come dicono Bensoussan e molti altri in quel volume. E c’è bisogno di storie: ricostruire vite cancellate».
Lei ne ha raccontato diverse in Portico d’Ottavia 13: tutte storie vere. Ma cosa pensa dell’efficacia delle fiction?
«C’è sempre il rischio di buttare un’ombra sulla realtà: ma è finzione o realtà? Quando scrivevo il mio libro, sono stata tentata di riempire i buchi con la immaginazione, ma poi ho pensato che con la Shoah non si poteva fare».
Un altro problema riguarda Aushwitz, trasformato in museo: freddo, asettico, pronto al consumo.
«Sì, condivido questa impressione. Sentire la spiegazione didascalica della guida mi ha dato fastidio. I luoghi hanno una loro forza sconvolgente perché evocano ciò che è accaduto. Se ascoltare questa storia non ti cambia niente dentro, allora è inutile ascoltarla».

Il Giornale 24.1.14
Il delirio eugenetico da Churchill a Hitler
Le teorie sul miglioramento della razza circolavano in tutto l'Occidente liberale. Il nazismo le fece diventare atroce realtà
Pubblichiamo, per gentile concessione della casa editrice Marcos y Marcos, uno stralcio del libro di Paolo Nori Si sente? (pagg. 194, euro 12) in libreria da oggi. Il libro raccoglie tre discorsi che lo scrittore ha tenuto durante i suoi viaggi ad Auschwitz ed esce in occasione del Giorno della memoria (istituito il 27 gennaio per ricordare le vittime del nazismo)
di Paolo Nori

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il Fatto 24.1.14
Solo capitalismo non è democrazia

Pubblichiamo uno stralcio del saggio “Può la civiltà sopravvivere al capitalismo reale?”, reso pubblico nel febbraio 2013, che fa parte de “I padroni dell’umanità”, ultima opera del filosofo e politologo americano
di Noam Chomsky

Quando parlo di “capitalismo reale” ho in mente qualcosa che esiste nella realtà e viene definito “capitalismo”. Gli Stati Uniti ne sono, per ovvie ragioni, l’esempio più importante. Il termine “capitalismo” è abbastanza vago da abbracciare svariate possibilità. È comunemente utilizzato in riferimento al sistema economico statunitense, il quale tuttavia prevede massicci interventi statali che vanno dai sussidi all’innovazione creativa, alle politiche del governo per salvare le banche “troppo grandi per fallire”, ai forti monopoli che limitano ulteriormente, e sempre di più, la dipendenza dal mercato. È bene ricordare l’entità delle deroghe del “capitalismo reale” alla dottrina ufficiale del “capitalismo di libero mercato”.
Per citare solo qualche caso, negli ultimi vent’anni la quota di utili delle 200 maggiori compagnie è aumentata in maniera vertiginosa, alimentando la natura oligopolistica dell’economica statunitense che mina direttamente i mercati, evitando la guerra dei prezzi con iniziative volte a una differenziazione spesso inutile dei prodotti attraverso massicce campagne pubblicitarie, operazione che a sua volta è tesa a minare i mercati nell’accezione ufficiale, i quali dovrebbero basarsi invece su consumatori informati che compiono scelte razionali. I computer e Internet, insieme ad altre componenti fondamentali della rivoluzione informatica, per decenni hanno fatto parte del settore statale (attraverso ricerca e sviluppo, sovvenzioni, approvvigionamento, e altri meccanismi simili), prima di essere ceduti alle imprese private perché li adeguassero ai mercati e al profitto. Stando agli economisti e alla stampa economica, la politica di salvataggio del governo, che ha garantito enormi benefici alle grandi banche, si aggira intorno ai 40 miliardi di dollari l’anno. Tuttavia, secondo un recente studio del Fondo monetario internazionale – per citare la stampa economica – forse “le maggiori banche degli Stati Uniti non sono per nulla redditizie” e “i miliardi di dollari che presumibilmente guadagnano per i loro azionisti sono quasi del tutto un dono dei contribuenti Usa”. Un’ulteriore prova è data dal giudizio del più autorevole giornalista economico del mondo anglofono, Martin Wolf del Financial Times, secondo il quale “un settore finanziario ormai fuori controllo sta divorando l’attuale mercato economico dall’interno, proprio come la larva del pompilide divora l’ospite nel quale è stata deposta”.
IL TERMINE “capitalismo” viene comunemente usato anche per designare sistemi in cui di fatto non ci sono capitalisti: ad esempio, il consorzio di cooperative Mondragón di proprietà dei lavoratori nei Paesi Baschi, oppure le aziende di proprietà dei lavoratori che si stanno diffondendo nella regione settentrionale dell’Ohio, spesso con l’appoggio dei conservatori; entrambi i casi sono stati oggetto di un importante studio di Gar Alperovitz.
Taluni utilizzano addirittura il termine “capitalismo” in riferimento alla democrazia propugnata da John Dewey, il maggiore filosofo sociale americano. Dewey sosteneva che i lavoratori dovessero essere “padroni del loro destino industriale” e che le istituzioni dovessero essere sottoposte al controllo pubblico, inclusi i mezzi di produzione, gli scambi, la pubblicità, i trasporti e le comunicazioni. Altrimenti, ammoniva Dewey, la politica continuerà a essere “l’ombra proiettata sulla società dai grandi interessi economici”.
Negli ultimi anni questa democrazia mutilata condannata da Dewey è stata ridotta in brandelli.
Ormai il controllo del governo si concentra unicamente al vertice della scala dei redditi, mentre la stragrande maggioranza di coloro che stanno “in basso” è stata di fatto privata di ogni diritto. L’attuale sistema politico-economico è una sorta di plutocrazia che si discosta molto dalla democrazia, se con tale termine intendiamo una forma di organizzazione politica in cui le scelte politiche sono sensibilmente influenzate dalla volontà pubblica.
Da anni è in corso un serio dibattito sulla compatibilità di principio tra capitalismo e democrazia. Se parliamo della democrazia del capitalismo reale è facile rispondere alla domanda: sono del tutto incompatibili. (...) Mi sembra improbabile che la civiltà possa sopravvivere al capitalismo reale e alla forma di democrazia fortemente ridimensionata che a esso si accompagna.
Con una democrazia funzionante le cose andrebbero diversamente? La riflessione su sistemi inesistenti è sterile speculazione, ma a mio avviso vi sono fondati motivi per ritenere di sì.

Noam Chomsky è nato Philadelphia il 7 dicembre 1928
I PADRONI DELL’UMANITÀ, Noam Chomsky, Ponte alle Grazie pagg. 272, 16,50€

La Stampa 24.1.14
Grande Guerra
1914, l’anno che uccise l’ottimismo
A cent’anni dall’estate fatale che segnò l’inizio della Grande guerra e la fine dell’ottimismo ottocentesco
E aprì la strada a un’era di creazione e distruzione
La fine dell’Austria-Ungheria: una sciagura tremendamente fisica e immane per 40 milioni di abitanti di varie etnie e religioni
di Enzo Bettiza


Ho avuto l’impressione, sfogliando giornali e guardando la televisione nei primi giorni di questo mese, che diversi rievocatori dell’anno 1914 tendessero a conferire a quella data uno smalto storico eccessivo e, per certi aspetti, anche un po’ ipocrita. Non sempre si riusciva a percepire nelle parole dei commentatori, spesso enigmatiche o superficiali, il distacco censorio che quella data sostanzialmente funesta avrebbe meritato di subire per tantissime ragioni.
La lustratura storicistica dava la sensazione di prevalere su una più opportuna e ben mirata caratura critica.
In quel fatidico 28 giugno 1914, santabarbara della prima guerra mondiale, l’attentatore serbo Gavrilo Princip non ancora ventenne, sparando all’arciduca Francesco Ferdinando in visita a Sarajevo, aveva non soltanto ucciso il nipote di Francesco Giuseppe ed erede al trono d’Austria. Aveva anche completato la tragica spirale di lutti familiari dell’imperatore triste. Lutti talmente e inesorabilmente puntuali da sembrare senza scampo, quasi cadenzati dal fato a partire dalla seconda metà dell’Ottocento in poi: il fratello Massimiliano fucilato in Messico, il figlio Rodolfo misteriosamente suicida a Mayerling, infine la moglie Elisabetta assassinata a Ginevra nel 1898. Quella processione di auguste pompe funebri, destinata ad accrescere in uno strano disordine (così lo ricordo) le bare nella viennese Cripta dei Cappuccini, doveva segnare l’inarrestabile cammino della monarchia absburgica verso il tunnel senza uscita del 1914-18. A prescindere dai saggi storiografici, la letteratura pura, in specie una certa alta letteratura crepuscolare mitteleuropea, da Hofmannsthal a Joseph Roth, fino alla surreale sommità di Kafka, non si spiegherebbe del tutto senza i forti e variegati umori etnici del rissoso bacino austroungarico.
Tutto quel mondo scomparso, distillato nei vagiti di una modernità incipiente, ma non sempre di facile accesso, rivive almeno in parte nelle odierne ricorrenze centenarie del 1914. Diversi studiosi sostengono che l’epoca sempre più incerta e violenta, in cui siamo già entrati, assomigli per tanti aspetti a quella che nel 1914 segnò la fine dell’Ottocento ottimista, preannunciando nel contempo un Novecento foriero di tutto il peggio che abbiamo conosciuto fino alla caduta del Muro di Berlino. Saremmo insomma alle soglie di un male di ritorno, un male sommerso ma di lunga data e lunghissima memoria, che non ha mai dimenticato la propria capacità e volontà di colpire e distruggere. In altre parole: una ripresa del nichilismo, che già ebbe in Nietzsche il suo geniale profeta, per il quale la volontà di potenza, cioè di distruzione o autodistruzione, ha sempre accompagnato come un’ombra corroborante quanto sinistra le conquiste «buone» della civiltà occidentale.
Era qui, è qui l’aura contagiosa e losca che avvertiamo spirare tuttora con sottile e malvagia longevità dai bassifondi, mai completamente disinquinati, del fatidico 1914. Creazione e distruzione, vita e morte sembrano quasi sorreggersi le une alle altre nella duplicità di una data equivoca, in una tensione che fin da allora preannunciava soprattutto guerre, rivoluzioni, carneficine e carestie. Dall’estate fatale del 1914 alla Grande guerra, come la si chiamò per tanto tempo, il passo fu breve. Trenta giorni dopo i colpi di pistola a Sarajevo, l’Europa precipiterà in un conflitto fratricida che non durerà quattro settimane, come si proclamava e scriveva a destra e manca, bensì quattro anni infernali: trincee spettrali, assalti alla baionetta contro mitragliatrici implacabili, gas tossici e primi bombardamenti aerei. Il tutto sfocerà in una carneficina mai vista prima di allora, con un conto umano spaventoso di sedici milioni di morti. Se gli scontri si fossero esauriti in un mese, come predicavano i politici sonnambuli dell’epoca, i caduti avrebbero a malapena raggiunto la cifra di cinquantamila.
Ma al di là d’ogni dato statistico, che doveva comunque incombere sul resoconto dei soldati morti in guerra e dei sopravvissuti in prigionia, si stagliava il grande naufragio che, insieme con la rivoluzione russa, doveva segnare la fine della fine dell’Ottocento europeo: il crollo e la dissoluzione dell’Austria-Ungheria. Fu quella una sciagura tremendamente fisica e immane. Sull’iceberg inatteso della Grande guerra colò a picco il Titanic austroungarico, il quale si estendeva per 666.868 chilometri quadrati dalle Bocche di Cattaro fino alla Bucovina: poco meno di 40 milioni d’abitanti di varia etnia, idiomi diversi e religioni spesso contrastanti. Il più vasto Paese d’Europa dopo la Russia oppure, come diceva Scipio Slataper, «il secondo impero slavo dopo quello russo».
In nessuna parte del continente, quanto nelle terre che fino al 1918 appartennero alla duplice monarchia, il violento inizio del Novecento doveva produrre tante inattese novità e altrettante paradossali assurdità. Il Titanic bicipite, inabissandosi, costrinse milioni di naufraghi a cercare scampo sulle zattere di nuovi Stati posticci, come la Ceco-Slovacchia o la Jugo-Slavia, o su relitti riemersi all’improvviso da un glorioso passato come la Polonia. Quel trasloco repentino da un ampio e tollerante impero sovrannazionale alle ristrette dimensioni di piccoli imperi multinazionali, con confini bizzarri e arbitrari, doveva da un giorno all’altro modificare in profondità il modo di vita, il sentimento della legge, perfino l’identità culturale e geografica di tantissime famiglie «absburgiche».
Il mio sguardo iniziale sul secolo si aprì dunque, fra ombre bivalenti e storie risentite e spesso nemiche, in una regione come la Dalmazia non lontana dal luogo in cui l’estremo Ottocento s’incenerì per un cortocircuito quasi casuale. La Bosnia, l’Erzegovina, Sarajevo erano lì, sull’angolo di casa, a un tiro di rivoltella regicida. L’arciduca ereditario, l’arciduchessa Sofia, l’attentatore Princip, i congiurati delle sette serbobosniache ispirate alle gesta dei terroristi russi erano per me, cullato dai racconti fiabeschi della servitù slava, fantasmi familiari ancorché non sempre afferrabili e comprensibili. I volti sempre cangianti di Francesco Giuseppe, di Francesco Ferdinando, di Gavrilo Princip mutavano espressione, smorfia, cipiglio, sguardo, a seconda dell’ottica e dei pregiudizi ideologici di chi li riproponeva alla mia fantasia smarrita nei labirinti di un mondo perduto. Dove non era dato mai di sapere in definitiva chi fosse l’eroe buono, chi l’intrigante cattivo, chi il neutrale cauto e astuto. Tutto mi appariva duplice, indefinibile, ma appunto perciò sommamente vivibile, come doveva essere stato con maggiore nettezza nelle terre imperial-regie in cui i genitori e gli avi erano cresciuti in un clima di sicurezza e serenità. L’ambiguità lucida, se vogliamo una sorta di bivalenza romanzesca perpetua, era la chiave segreta consegnata da una civiltà senza nome, da una capitale mutevole, da una cultura intrisa di psicanalisi e d’ironia ai cenacoli che non si facevano vedere perché evitavano di riunirsi con clamore e manifesti pubblici. Il riserbo doveva prevalere su ogni effimera tentazione esibizionistica.
Qui, è quasi impossibile dimenticare Musil, l’uomo senza qualità che in fondo era lui stesso. Si sa che l’impero austriaco, o austroungarico, o absburgico, era stato un impero piuttosto alla mano, tollerante, paziente, senza qualità eccelse, clericale e liberale o liberalclericale nello stesso tempo. Non a caso non ha saputo mai definirsi con un nome unico, uno solo, imprimibile nella memoria come République française o United Kingdom. Lo stesso Musil, il più austriaco degli scrittori austriaci, ha dovuto, per definirlo, inventarsi un neologismo insieme nostalgico, irrisorio e parodistico. Kakania: come dire tutto e niente.

La Stampa 24.1.14
Se il tempo non è un fiume ma un rubinetto che gocciola
Gli scienziati si accaniscono per dividerlo in frammenti sempre più piccoli alla base della nostra vita quotidiana

Un libro sul mondo degli orologi atomici
di Piero Bianucci

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Corriere 24.1.14
L’epopea della parola, dal papiro al web
La metamorfosi della scrittura e l’evoluzione nei secoli dei mezzi di comunicazione, dai graffiti sino all’era digitale


Claudio Benzoni nel suo libro Il carattere della parola (Benzoni Editore, pp. 272, e 18) racconta e analizza il modo di trasmettere emozioni, storie e pensieri. Partendo da lontano e percorrendo tutte le strade che hanno segnato lo sviluppo culturale e la metamorfosi della scrittura. I graffiti, i geroglifici, la stele di Rosetta, i papiri, i manoscritti, la pergamena. Il desiderio e il bisogno di comunicare, di lasciare una traccia, di raccontare, di allargare i confini del piccolo mondo quotidiano. Ecco allora l’invenzione della carta, i caratteri mobili creati da Johann Gutenberg e poi, secolo dopo secolo, i libri, i primi quotidiani, l’evoluzione dei giornali, le riviste, le agenzie di stampa, i personaggi, i controlli del potere, le battaglie per una libera informazione e la rivoluzione tecnologica e digitale. Un mondo che cambia ma che cerca di non dimenticare quel carattere forte e indelebile che la parola deve conservare.
Con una sobria narrazione, che rende la storia avvincente come un romanzo, Claudio Benzoni aiuta a scoprire un universo affascinante. Anche grazie all’ausilio di preziose immagini ci si ritrova a fare i conti con il torchio a vapore, con il primo quotidiano europeo, il «Leipziger Zeitung» di Lipsia, con «Il Monitore Italiano», uscito per la prima volta il 20 gennaio del 1798 e che tra i collaboratori vanterà Ugo Foscolo e Melchiorre Gioia o con «Il Secolo», nato nel 1866 grazie a Edoardo Sonzogno. Un’altra svolta storica? Per esempio la nascita, a Torino nel 1853, dell’agenzia di stampa Stefani. Poi il telegrafo, la rotativa, le testate giornalistiche che ancora sono in edicola. Pagina dopo pagina si comprende che quel bisogno di comunicare è da sempre nel dna dell’umanità. E in questi tempi ad alta tecnologia la parola deve mantenere o ritrovare forza e determinazione ricordandosi che il carattere non è solo un segno grafico. A prescindere dai mezzi usati, dai graffiti ad Internet.

Repubblica 24.1.14
Siamo tutti madri
Dall’ampolla di Paracelso ai genitori transgender la rivoluzione del concepimento
Figli in vitro, padri in gravidanza, uteri in affitto: la natura ha smesso di essere la sola custode dei limiti biologici La scienziata Aarathi Prasad spiega perché
di Marino Niola


«Le statistiche dicono che ogni quattro secondi una donna mette al mondo un bambino. Il problema è trovare quella donna e fermarla». La folgorante battuta è del comico inglese Henny Youngman. Oggi però trovare quella donna non basta più, perché a fare figli ci si sono messi in tanti. Uomini compresi. Come e perché il concepimento sia diventato una pratica trasversale, che va al di là dei sessi, dei generi e dell’età, lo racconta la genetista britannica Aarathi Prasad inStoria naturale del concepimento. Come la scienza può cambiare le regole del sesso (Bollati Boringhieri, pagg. 320, euro 22). Il sottotitolo contiene, di fatto, la chiave del libro. Perché la tesi di Prasad è che dall’antica idea della donna come madre per natura stiamo entrando in una nuova era della procreazione in cui a dettare legge non è più la natura, ma la scienza e la tecnologia che offrono agli individui una libertà di scelta finora impensabile. Nel senso che la fecondazione assistita sta progressivamente mettendo fuori gioco il pensiero unico della maternità. Quello che dalla notte dei tempi considera la donna il solo essere concepito per concepire.
Un’incubatrice ambulante. Una portatrice passiva. Lo dicono le parole stesse che nelle varie lingue si riferiscono alla generazione. A partire dal latino concipere— da cui il nostro concepimento, il francese e l’inglese conception, lo spagnolo concepción— che significa contenere qualcosa. Fino a termini come il tedesco Empfängnis, ricevere, o l’italiano gestare che ha il senso di portare. Come pure gravidanza, che ha il peso e la fatica nel nome. E persino un vocabolo apparentemente lontano come matrimonio, vuol dire letteralmente “compito della madre”. Un’idea quasi agricola della procreazione, specchio di una natura e di una società entrambe immutabili, che assegnano le parti una volta per tutte. Alla femmina quella di terra da seminare, al maschio il ruolo di seminatore. Proprio così Eschilo chiama il padre.
Eppure, anche prima dell’inseminazione assistita ci sono stati degli esploratori dell’avvenire che sono andati oltre le colonne d’Ercole della procreazione cosiddetta naturale. Nel Cinquecento il grande filosofo e alchimista Paracelso cercò di riprodurre l’origine della vita sigillando del seme maschile in un’ampollina di vetro e magnetizzandolo. Col risultato di ottenere una cosa che assomigliava a un feto. Una via di mezzo tra la larva e l’ectoplasma, chiamata homunculus, da impiantare in una giumenta che avrebbe dovuto fungere da utero in affitto. Insomma Paracelso può essere considerato il precursore della fecondazione in vitro. E il suo homunculus è a tutti gli effetti il cugino Itt di “Superbabe”, soprannome attribuito dall’Evening Newsa Louise Joy Brown, la prima bambina concepita in provetta nel luglio del 1978. E che adesso è sempremeno sola. Visto che negli Stati Uniti a nascere in laboratorio è un bambino su cento. E in Inghilterra addirittura uno su cinquanta.
Cifre che bastano da sole a dare l’idea del terremoto che sta rimettendo in discussione l’universo della parentela. Col risultato di riscrivere le mappe stesse del desiderio di genitorialità. Perché la natura ha smesso di essere la custode unica e inflessibile dei limiti ultimi dell’agire umano. E di conseguenza leggi, religioni e convenzioni sono costrette ad adeguarsi. Per non perdere del tutto il contatto con una realtà che corre più veloce di loro. E che Aarathi Prasad riesce a raccontare in maniera convincente e avvincente. Forte della sua doppia competenza. Quella di scienziata con un PhD in genetica molecolare all’Imperial College di Londra. E quella di autrice di programmi scientifici per Bbc e Channel Four. La sua verve, del resto, si evince dal titolo originale del libro, Like a virgin.
Che fa cortocircuitare la Madonna e Madonna. In nome del parto virginale. Di quella partenogenesi che oggi rappresenta la versione scientifica dell’immacolata concezione. Ma su cui gli uomini non hanno mai smesso di interrogarsi. Con gli strumenti della religione da una parte e con quelli della ricerca dall’altra. Dogma da accettare o enigma da risolvere. Non a caso Nietzsche diceva che tutto nella donna è un enigma, e tutto nella donna ha una soluzione. Che si chiama gravidanza.
Ma se la fecondazione artificiale daiSettanta ad oggi era apparsa uno strumento nuovo e potente nelle mani delle donne, la promessa di una sorta di autarchia generativa, Prasad dimostra che lo scenario sta cambiando velocemente. Nel verso delle pari opportunità riproduttive. Come dimostra il caso di Thomas Beatie, che nel 2008 è stato il primo transgender al mondo a dare alla luce una bambina, dopo essere diventato un maschio — senza però sottoporsi all’isterectomia — con l’aiuto di un ovulo di sua moglie Nancy e lo sperma di un donatore esterno. «Avere un bambino non è né maschile né femminile. È semplicemente umano», ha dichiarato allora ai giornali. E nello stesso anno, in Australia gli scienziati del Dipartimento di medicina del New South Wales, hanno creato il primo utero artificiale servendosi di un oggetto comunissimo ed economicissimo come un contenitore di plastica. Con buona pace della sacralità dell’utero materno. Da quel momento anche i maschietti possono far propria una rivendicazione femminista come «l’utero è mio e me lo gestisco io». E forse in un futuro neanche troppo lontano, il vero uomo sarà quello che affronta coraggiosamente i dolori del parto.
IL LIBRO Storia naturale del concepimento. Come la scienza può cambiare le regole del sesso, di Aarathi Prasad (Bollati Boringhieri, pagg. 320, euro 22)