sabato 25 gennaio 2014

La Stampa 25.1.14
Legge elettorale, sfida sulle preferenze. Franceschini: sarebbero un errore. L’esecutivo vara il decreto sul rientro dei capitali
Riforme, tutti contro tutti
Alfano annuncia emendamenti. Forza Italia: le liste bloccate non si toccano Renzi: basta parole, ora i fatti. Napolitano preoccupato: bisogna fare presto
Avvicinare gli elettori agli eletti
di Fabio Martini


Con una speditezza mai vista nella recente storia del Paese, la legge elettorale è usci-
ta dalla palude delle chiacchiere e sta arrivando al dunque. Ma la sacrosanta urgenza non può diventare fretta, anche perché nella bozza di compromesso resta una macchia che, col tempo, potrebbe rimanere indelebile: quella dei parlamentari nominati come prima dai capi-partito.
Da questo punto di vista a ben vedere, se si toglie il Senato, il cosiddetto «Italicum» somiglia assai al «Porcellum». Appartiene alla stessa famiglia concettuale: ne è un figlio minore.
Ma in questi anni il tormentone sulla legge elettorale ha finito per fissare nella testa dei cittadini-elettori un’ostilità che supera tutte le altre: quella contro le liste bloccate, che impediscono la libera scelta dei parlamentari. Certo, in una opinione pubblica sempre più informata e avvertita sulle cose della politica, hanno pesato anche altri deficit (premi cervellotici, liste lunghe dei candidati, un Senato copia inutilmente perfetta della Camera), ma è altrettanto vero che nel compromesso raggiunto nei giorni scorsi tra Matteo Renzi, Silvio Berlusconi e Angelino Alfano resta una zoppia che rischia di diventare invalidante: non viene accorciata la distanza tra elettore ed eletto.
In queste ore è in corso una offensiva del «partito delle preferenze», con argomenti meno integralisti rispetto a chi vorrebbe limitarsi a ripristinare senza varianti un regime
che nella fase finale della Prima Repubblica ha contribuito alla corrosione e alla fine alla corruzione del sistema politico. La caccia alle tangenti, oltre a rimpolpare le casse dei partiti a Roma, serviva soprattutto ad alimentare le cordate locali delle correnti di partito, macchine da guerra affamate di soldi per eleggere i propri candidati, nei Comuni, nelle Regioni, in Parlamento. Le preferenze, come sistema esclusivo di selezione, esistono solo in Grecia, ma alcuni deterrenti introdotti in questi anni nella legislazione italiana e un loro uso accorto potrebbero consentire di valutarne un ripristino anche per l’elezione di una quota di parlamentari. Non dimenticando che proprio con le preferenze si continuano a selezionare migliaia di consiglieri municipali, comunali, regionali e i parlamentari europei.
Nelle ultime ore si sta facendo strada l’idea di un solo capolista nominato e «bloccato» per ciascuna circoscrizione elettorale, mentre il resto dei candidati potrebbe essere scelto con le preferenze. Potrebbe essere una soluzione ma per evitare il rischio di un effetto «vorrei ma non posso», probabilmente andrebbe corroborata da un impegno formale da parte di tutti i partiti: una preselezione dei candidati con Primarie autentiche. Meglio, molto meglio, se previste per legge. In questi giorni sia Letta che Renzi (oltre ad Alfano e ai centristi che ne fanno una bandiera) hanno detto o fatto capire di essere favorevoli ad un ritorno temperato delle preferenze. Il leader del Pd aggiunge che a lui andrebbero bene, ma è Berlusconi che non le vuole. Non è una scusa, è vero. Il capo di Forza Italia, in cuor suo, ritiene che il sistema delle preferenze non gli consentirebbe di massimizzare il suo potenziale elettorale, perché i candidati di alcuni partiti concorrenti (il Nuovo centro destra ma persino l’Udc) potrebbero sottrargli molti voti. Il caso di Roberto Formigoni, passato con Alfano, è esemplare: come calamita di preferenze per una parte del mondo ciellino, l’ex Governatore avrebbe un appeal assai maggiore che come semplice candidato di una lista bloccata. Ma a questo punto anche Berlusconi, rientrato con piena soddisfazione in campo, è chiamato a qualche sacrificio. Anche perché il Cavaliere ha già espresso un veto significativo: quello contro i collegi uninominali. Un sistema che, in diverse declinazioni, è quello che consente la selezione dei parlamentari nei Paesi leader dell’Europa, Germania, Francia, Gran Bretagna. Al primo veto è stata data soddisfazione. Il secondo rischia di riaprire i giochi e di farli saltare.

l’Unità 25.1.14
Legge elettorale. E se non si facesse niente?
Come evitare un’altra bocciatura
di Massimo Luciani


E SE NON SI FACESSE NIENTE? E SE LASCIASSIMO PERDERE LA RIFORMA ELETTORALE? Chiederselo è legittimo, anzi è doveroso. La Corte costituzionale, nella sentenza che ha parzialmente demolito la legge Calderoli, lo ha detto chiaramente: a suo parere, dalle macerie della demolizione emergono comunque regole elettorali immediatamente applicabili, che diventerebbero concretamente operative con qualche semplice aggiustamento, che nemmeno richiederebbe l’intervento del legislatore.
Perché, allora, non ce le teniamo e non ci risparmiamo la fatica di immaginare un’alternativa? La risposta è nelle cose.
Forse non tutti, nella classe politica, hanno capito fino in fondo quale possa essere l’impatto della sentenza della Consulta sulla già indebolita legittimazione dei partiti e delle istituzioni rappresentative. Sono passati quasi dieci anni da che quella sciagurata legge è entrata in vigore e, nonostante le critiche degli studiosi e gli ammonimenti della stessa Corte (che già nel 2008 aveva ricordato i suoi problemi di costituzionalità), non si è fatto nulla, dando una pessima immagine della capacità decisionale della politica. Se il Parlamento continuasse a restare inerte, andando al proprio rinnovo con una legge (ri)scritta da altri, il prezzo che dovrebbe pagare in termini di credibilità sarebbe altissimo. Una nuova legge, insomma, è bene farla. Ma come?
Anche qui, forse, c’è chi non ha capito bene. Fare una nuova legge e vedersela dichiarare, poi, incostituzionale significa seguire una strada ancora peggiore di quella dell’inerzia, ancora più costosa in termini di legittimazione e di credibilità. Chi, all’inizio, ha parlato di una sentenza che lasciava campo aperto alle scelte del legislatore, insomma, ha sbagliato. E sbaglia ancor di più chi, oggi, continua a sottovalutare la portata prescrittiva dei princìpi stabiliti dalla Corte. Non si aiuta la riforma, mi sembra, mettendo la testa sotto la sabbia e ignorando i problemi.
I problemi (di costituzionalità) sono tre e sono chiarissimi: misura della soglia perché i grandi accedano al premio di maggioranza; misura della soglia perché i piccoli accedano alla ripartizione dei seggi; garanzia della scelta dei singoli parlamentari da parte degli elettori.
Soglia per il premio. Abbiamo letto, in questi giorni, interviste e commenti nei quali si osservava che sistemi come quello inglese o quello francese possono dare al vincitore una sovrarappresentazione molto maggiore di quella che sarebbe assicurata dal progetto del quale si discute da noi, che quindi sarebbe pienamente legittimo. Ho dei dubbi che questa osservazione sia metodologicamente corretta nella prospettiva della scienza politica, visto che cerca di proporre paragoni tra sistemi che hanno struttura e logica di funzionamento completamente diverse. Ma, soprattutto, sono sicuro che sia un errore nella prospettiva del diritto costituzionale. Anche qui basta fare la fatica di leggere la sentenza della Corte: se la base del sistema è di tipo proporzionale (e di tipo proporzionale, appunto, è quella di cui si discute), la distorsione della «funzione rappresentativa dell’assemblea» e dell’eguaglianza del voto anche in uscita ha dei limiti, passati i quali si determina un vizio di costituzionalità. La Corte non ha precisato quali siano questi limiti, ma se dobbiamo ragionare sulla loro misura dobbiamo farlo con il metodo giusto, non proponendo confronti che non hanno senso alla luce della giurisprudenza costituzionale.
Soglia per l’accesso alla ripartizione dei seggi. Anche qui, apparentemente, la Corte non ha stabilito un «numero» preciso. Ma anche qui basta leggere con attenzione la sua sentenza per capire di più: l’inusuale richiamo alla giurisprudenza del Tribunale costituzionale federale tedesco non sembra causale, e visto che per quel Tribunale una soglia del 5% è ragionevole, mentre non lo sarebbero soglie più elevate, non pare azzardato concludere che la nostra Corte ha inteso suggerire, implicitamente, che proprio quella è la misura giusta.
Potere di scelta degli elettori. Qui la Corte è stata nettissima: agli elettori deve essere assicurata una scelta «chiara» e «consapevole». In un passaggio molto importante si scrive questo: «è la circostanza che alla totalità dei parlamentari eletti, senza alcuna eccezione, manca il sostegno della indicazione personale dei cittadini, che ferisce la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione». A me sembra chiaro che la Corte ha inteso dirci che una (piccola) quota di eletti senza l’«indicazione personale dei cittadini» è ammissibile, ma che per il resto quell’indicazione è necessaria.
Ecco. Questi sono i problemi e su questi ci si deve misurare. Negarne la portata non significa fare un buon servizio alla causa della riforma. Della quale, invece, abbiamo tutti bisogno.

La Stampa 25.1.14
Boschi, per compleanno trattativa con Verdini
“Io unica donna al tavolo. Facciamo passi avanti”
di Francesca Schianchi


ROMA Alle cinque e mezza di sera, uscendo per ultima dall’aula della Commissione Affari costituzionali, dopo tre ore di discussione per riuscire ad adottare il testo base della legge elettorale, Maria Elena Boschi sospira ottimista: «Abbiamo fatto un passo avanti». Per oggi, la giornata di trattative è finita: «Stasera riesco a liberarmi per una cena con gli amici: è il mio compleanno», confida la deputata del Pd. Un treno per tornare a casa, a Firenze, e ritorno a Roma stamattina per un weekend di fuoco sulla legge: domani è previsto un incontro dei democratici, e i contatti proseguono pure con le altre forze politiche.
E lei, la deputata renziana, 33 anni, aretina di origine ma fiorentina d’adozione, avvocato specialista in diritto societario, di quegli incontri e di quei contatti è protagonista per il Pd. Responsabile riforme nella segreteria di Renzi, è lei l’unica donna a sedersi al tavolo delle trattative. Come ha fatto anche ieri, quando a metà mattina ha varcato il portone della sede di Forza Italia per incontrare Denis Verdini.
«Sono incontri sereni nei toni, ma tostissimi nei contenuti», dice di ritorno dal colloquio con il plenipotenziario berlusconiano, che pare non voglia cedere di un millimetro sulle preferenze. Incontri in cui lei, apprezzata si dice anche da Berlusconi, bella e giovane, si presenta con il sorriso delicato ma il piglio da avvocato in carriera: «Mi aiuta l’esperienza fatta nel mio lavoro: mi è capitato di affrontare trattative con professionisti più esperti di me, e spesso uomini».
Alla Camera, ha cominciato a farsi conoscere quando in Commissione affari costituzionali si occupò della legge sul finanziamento ai partiti. Renziana della prima ora alle prese con il tema cavallo di battaglia del sindaco, si è battuta per far passare emendamenti e accelerare l’iter della legge. Allora gli equilibri dentro al Pd erano diversi: «Tra i bersaniani mi pare ci sia chi cerca di fare melina», non faceva che denunciare.
La politica è una passione di famiglia (così si conobbero papà Pierluigi e mamma Stefania, tuttora vicesindaco del piccolo comune di Laterina): lei, maggiore di tre fratelli, trasferita nel capoluogo toscano per fare l’Università fonda, insieme all’altro renziano Francesco Bonifazi (oggi tesoriere del partito), l’associazione «Idea Firenze», attraverso cui incontra per la prima volta Renzi. E anche se alle primarie per il sindaco sostiene il dalemiano Michele Ventura, con il neo primo cittadino avrà occasione di incontrarsi ancora: frequenta la Leopolda, e lo stupisce quando, a una cena con amici comuni, forte della sua esperienza professionale, gli suggerisce la soluzione a un problema legato alla privatizzazione di una società. Inizia una collaborazione, diventa la responsabile dei comitati Renzi alle primarie del 2012, poi entra a Montecitorio indicata da lui. Fino alla segreteria, e alla delicata trattativa di oggi. Dove, spiega sorridente, il segreto è essere «fermamente gentili».

l’Unità 25.1.14
Berlusconi
Vent’anni di conflitto per i suoi interessi
Il premier rilancia il tema che ha diviso la politica (e la sinistra) per due decenni
Dalle accuse di «inciucio» al blind trust, passando per l’innocua legge Frattini
di Oreste Pivetta


Sono pronto a vendere le mie aziende, ad andare anche oltre il blind trust americano. Ho già detto che distinguerò con nettezza adamantina il mio ruolo di imprenditore, che peraltro è già alle mie spalle, e quello di leader politico». Così annunciò Berlusconi. Frase solenne. Fra poco più di due mesi se ne potrà celebrare il ventennale e chissà che la Rai non provveda con una delle sue fiction. Il cinema ha già provveduto, a varie riprese, come nel film di Altman, più vecchio ancora del giuramento di Berlusconi, storie violente che di solito si chiudevano nel sangue. Segno di una sensibilità diffusa. Rattazzi rimproverò Cavour per il dono di una trota pescata in acque demaniali. L’adamantino Berlusconi lasciò le sue imprese ai figlioli, il Milan all’amministratore Galliani e si tenne tutto. Alla fine si terrà anche il partito, che vorrebbe affidare al direttore del suo telegiornale.
Pochi mesi fa un intellettuale del valore di Paolo Flores d’Arcais denunciò sul Fatto quotidiano il silenzio sceso sul «conflitto d’interessi», locuzione, secondo il filosofo, addirittura cancellata dalle pagine del vocabolario italiano. Ovviamente avvertì dietro tanta censura il complotto della sinistra e di Napolitano. Enrico Letta lo ha smentito (nel solco di Bersani, che il conflitto di interessi lo avrebbe voluto al primo punto del suo governo, bocciato dai grillini). Letta ha scelto la televisione per annunciare agli italiani che il conflitto d’interessi è all’ordine del giorno, riannodando quel filo che corre lungo tutta l’esistenza della cosiddetta Seconda Repubblica, un filo che unisce promesse, buoni propositi, ipocriti progetti, scontri verbali e poco o niente di fatto, persino eventuali oscuri accordi, patti segreti (perché Berlusconi non dovesse temere la sorpresa di una legge che mettesse mano alle sue concessioni televisive).
L’Italia continua così a mostrarsi, tra Berlusconi, Prodi, D’Alema, Monti, Bersani, tra Ulivo, Forza Italia, Cinque Stelle, Popolo delle libertà e via con le sigle, la patria del conflitto d’interessi, questione che tocca non solo ovviamente il povero e condannato Silvio, ma un’infinità di personaggi, di imprese, di società, in alto e in basso nella scala sociale e nella graduatoria dei redditi, in una ragnatela che avvolge il Paese e lo impoverisce, perché non sono in ballo solo l’onore, l’onestà, l’indipendenza di questo o quello, ma è in gioco la pancia del Paese, è in discussione la capacità di attrarre investitori stranieri (poco disposti a mettersi in lite con il malaffare), sono in gioco gli interessi legittimi di una parte dei suoi cittadini, probabilmente quei cittadini meno furbi, quelli per bene, quelli più deboli. Berlusconi è solo l’erede di un sistema consolidato, un sistema che elude le regole del mercato, inibisce la concorrenza, premia il peggio, incoraggia il “sommerso”. Una malattia antica, ormai cronica. Eppure, per i tempi contemporanei, ci sarebbe la Costituzione, innanzitutto, e la Costituzione vincola il Parlamento a valutare l’eleggibilità dei suoi membri in base alla legge ordinaria. Valutò così bene nel 1994 la Giunta delle elezioni della Camera dei deputati da dichiarare legittima l’elezione di Berlusconi perché «se non c’è titolarità della persona fisica, non si pone alcun problema di eleggibilità, pur in presenza di eventuali partecipazioni azionarie». Berlusconi insomma di suo non aveva che qualche azione, Mediaset era come l’araba fenice: come impedire l’accesso al Parlamento di Berlusconi e di Mediaset (che infatti vide moltiplicarsi il proprio valore svariate volte). Da quel momento la discussione sul conflitto d’interessi diventò esercizio quotidiano, banco di prova di qualsiasi onorevole, berlusconiano o antiberlusconiano, toccando tutti, banchieri, finanzieri, politici, persino Massimo D’Alema, secondo la rumorosa denuncia di Fabrizio Cicchitto, che l’accusò di approfittare della poltrona di presidente del Copasir per attaccare Berlusconi e occultare allo stesso tempo il proprio passato, misteriosi «aspetti» evidentemente inquietanti di quel passato. Nel 1996 il senatore Passigli si ingegnò a proporre una legge che prevedeva come un funzionario pubblico con un patrimonio superiore a una certa somma dovesse affidarlo alla gestione di una società indipendente, dovesse insomma piegarsi alle regole del blind trust o fondo cieco. Non se ne fece nulla. Arrivò quindi il dimenticato Frattini, ministro della Funzione pubblica, con la sua legge, presentata nel 2001, approvata definitivamente tre anni dopo. Una legge molto semplice: l’imprenditore in conflitto avrebbe dovuto affidarsi a una persona di fiducia, anche a un figliolo o a una figliola o a tutti e due. Semplice, appunto.
Bersani, in campagna elettorale, non esitò a rilanciare. Letti i risultati, non mancò di riprendere il tema. Mancò il governo Bersani, mancò la legge. Letta ci riprova, forse per ribattere a Renzi, forse pure per rispondere alle critiche dell’Unione europea (siamo vicini al semestre italiano), Unione europea che ci ha sempre rimproverato le nostre tiepidezze legislative e, nel dettaglio, dai primi anni duemila, quella concentrazione di potere mediatico nelle mani di Berlusconi.
La legge Frattini resiste, malgrado abbia dimostrato tutta la propria inefficacia (come risulta anche dalle relazioni semestrali dell’Antitrust). Evidente, se è vero come ha scritto qualcuno che con il conflitto di interessi non si mangia, è anche vero che con il conflitto di interessi qualcuno ci mangia. A tutti si ricorda che l’etica pubblica non è una fantasia, ma è il presupposto di un’efficace azione di governo. Anche contro la crisi di oggi.

l’Unità 25.1.14
Stefano Passigli
È ora di fare sul serio una legge sul conflitto d’interessi
«Il centrodestra ha aggirato il nodo centrale, che resta l’incompatibilità. La mia legge diceva: vendere o dimettersi. Ma non siamo riusciti ad approvarla»
«Questione irrisolta, destinata a ripresentarsi»


Come padre si questa bataglia storica plaudo a Letta e spero molto. Ma dubito altrettanto che si arrivi alla meta». Già, chi meglio di Stefano Passigli, senatore e deputato tra il 1992 e il 1996, può spiegarci il tormentone del conflitto di interessi? Vi ha legato il suo nome e ci ha scritto anche un libro: Democrazia e conflitto di interessi. Il caso italiano (Ponte alle Grazie, 2001). E oggi da erede di Giovanni Sartori a Firenze continua la sua battaglia ex cathedra. Professor Passigli, con Letta ricompare il conflitto di interessi. Contento?
«È una questione carsica che appare, scompare, si inabissa e ricompare di nuovo. Una storia paradossale e incomprensibile, difficile da spiegare alla gente. La destra si vanta di averla fatta lei una legge, o meglio le leggi. Quelle di Frattini, intendo. La prima era una salvaguardia degli interessi da dirimere. Prevedeva un esame caso per caso, con l’intervento di una Authority e del Parlamento. Un modo per insabbiare tutto».
In che modo?
Si aggirava la questione di fondo: l’incompatibilità tra funzioni di governo, proprietà dei mass media e vendita di pubblicità. Su questo mattone si fondava invece la mia proposta di legge del 1994, approvata alla Camere nel 1995 e poi affondata dalla fine anticipata: vendere o dimettersi. Un principio che la destra ha sempre aggirato, sostenendo che magari un provvedimento a favore di Berlusconi poteva avvantaggiare più di un soggetto, o che occorreva un danno erariale per far scattare sanzioni».
Ora la questione viene rilanciata da Letta dentro il programma istituzionale... «Fa bene, perché è una questione sistemica. Ci vuole la riforma elettorale, purché tuteli anche i piccoli partiti, la riscrittura delle regole parlamentari e il conflitto di interessi che si lega ai diritti politici e all’eguaglianza dei cittadini».
Perché si è sempre fatto un buco nell’acqua e non si è mai andati fino in fondo? «Nel 1996 Prodi disse che la legge doveva farla il Parlamento. Allora andai da D’Alema per sollecitarlo: in fondo c’eravamo andati vicini nel 1995. Lui mi dice: abbiamo vinto per miracolo, perché la Lega ha corso da sola. Per-
ciò, proseguiva, il tema va inserito dentro la riforma istituzionale, con doppio turno e modifica della forma di governo. E poi: se attacchiamo il Cavaliere frontalmente non avremo alcuna riforma, e lui vittimizzato ne uscirà vincente. Bene, crolla la Commissione bicamerale, cade Prodi e D’Alema diventa premier...».
È il momento giusto, no?
«Già. Ritorno da D’Alema che afferma: la legge devono farla i partiti. E allora mi reco da Veltroni, segretario Ds, e dai capogruppo, Mussi e Salvi. Il ritornello è lo stesso: rischiamo di vittimizzare Berlusconi, abbiamo già perso il referendum sugli spot». Argomento valido?
«No, fittizio, anche se indubbiamente quella maggioranza era ormai precaria. Ma a questo punto accade qualcosa di impensabile: una nuova legge Frattini, quella sul blind trust. Con la quale si poteva conferire una società oggetto di conflitto a un amministratore temporaneo, o a un prestanome in un paradiso fiscale. Votiamo questa legge alla Camera! Salvo poi opporci al Senato e farla naufragare. Davvero
una storia di errori, incomprensioni e ignavie».
E arriviamo al 2006-2008. Di chi è la colpa stavolta?
«Anche allora vado da Prodi e suggerisco che una battaglia sul conflitto di interessi può compattare la maggioranza, legandola alla riforma della giustizia: rogatorie, prescrizione, falso in bliancio. Mastella, ministro, ci mette del suo. Frena tutto e il governo cade. Tutto da rifare e con in più la legge Gasparri, che è ancora lì».
Cambiamo scena. Come funziona negli Usa e negli altri paesi?
«Semplice, l’Autorità per l’etica nel governo intima dismissioni e incompatibilità: ad personam. La moglie di Johnson fu costretta in Texas a vendere una piccola televisione e casi come quello italiano sarebbero inconcepibili, per la sanzione etica dell’opinione pubblica. Lo stesso accade in Gran Bretagna, anche se in modo più informale. Mentre in Spagna e Germania ci sono incompatibilità rigide sulle professioni. E un avvocato del presidente del Consiglio in Parlamento come a suo tempo Ghedini sarebbe uno scandalo».

Corriere 25.1.14
Quella legge così urgente tante volte dimenticata
Conflitto d’interessi
Lo spaventapasseri della discordia
di Pierluigi Battista


Più che una dichiarazione politica, una formula magica, un abracadabra, un’allusione sovraccarica di sottintesi.
Da vent’anni, da quando Silvio Berlusconi ha indossato i panni del politico, «conflitto di interessi» è diventato  un termine chiave della Seconda Repubblica.
Ma è capriccioso: appare e scompare.
Di esso non si hanno notizie per mesi ed anni, poi improvvisamente segnali della sua presenza diventano incombenti. Anche adesso. Tutti ci eravamo dimenticati del «conflitto di interessi». Tutti, tranne Enrico Letta, che lo ha indicato come uno dei possibili impegni del suo governo. Così, all’improvviso.
No, all’improvviso proprio no. Meglio dire: all’indomani.
Sì, all’indomani dell’incontro tra Matteo Renzi e il leader di Forza Italia nella sede del Pd. Non un minuto prima. Ma solo un minuto dopo. C’è un’intesa con Berlusconi sulla legge elettorale e sulle riforme costituzionali per l’abolizione del Senato e del Titolo V? Allora le parti si invertono. Prima era Renzi a punzecchiare, a provocare, a collaudare la tenuta psicologica di un governo non amato e la cui presenza può ostacolare l’effetto-novità del neo segretario rottamatore. Ora, almeno per un giorno, è invece il capo del governo che all’improvviso sfodera l’argomento che potrebbe irritare Berlusconi: il conflitto di interessi, appunto. Non è Renzi che destabilizza Letta, ma Letta che destabilizza Renzi. Solo che in questo caso la destabilizzazione, per manifestarsi usa la password della discordia: il «conflitto di interessi».
Una password, non più il nucleo incandescente di un problema politico. Una democrazia liberale avrebbe dovuto trovare gli accorgimenti preventivi, per definire e sciogliere il conflitto di interessi che ingarbuglia l’azione di un magnate della televisione che diventa leader di uno schieramento e addirittura premier. Invece no, e i colpevoli dell’omissione sono due.
Il primo è ovviamente Berlusconi il quale, avendo constatato quanto il tema fosse e restasse del tutto indifferente all’opinione pubblica a lui favorevole, ne ha dedotto che dunque il problema non sussistesse o che al massimo, come è accaduto, dovesse essere regolato molto blandamente da una legge che peraltro richiedeva il sacrificio supremo delle cariche societarie del Milan. Colpevole anche lo schieramento a Berlusconi avverso, che ha sempre agitato il tema in modo strumentale e punitivo. O addirittura in modo autoassolutorio, attribuendo le molteplici sconfitte patite nel corso degli anni della Seconda Repubblica al fatale squilibrio di forze dovuto ai mezzi fantasticamente superiori del rivale politico e padrone di tre reti televisive.
«Non avete fatto la legge sul conflitto di interessi», è anzi stato il capo d’accusa più frequentemente rivolto al centrosinistra dopo il quinquennio del suo governo (anzi, dei suoi governi). Accusa non del tutto infondata, ma che nascondeva e continua a nascondere l’inconfessabile speranza di veder cancellato il nemico politico attraverso una legge. E nascondeva e continua a nascondere la difficoltà di conciliare un’equa soluzione dei conflitti di interessi con la libertà costituzionalmente sancita a tutti i cittadini di presentarsi alle elezioni. Fatto sta che a un certo punto il «conflitto di interessi» è stato come appaltato alle correnti più oltranziste della sinistra e agitato di volta in volta come spauracchio per costringere Berlusconi a più miti consigli. Il tema scompariva. E poi riaffiorava dal dibattito politico. Per anni. Come in questi giorni. In modo del tutto inatteso. Ma confermando la regola aurea per capire come e quando quel vessillo viene agitato: quando si vuole far saltare un’intesa con Berlusconi, metterlo all’angolo. Come sta accadendo adesso. Adesso che è praticamente impossibile fare in tempi rapidi, e per di più con la presenza determinante nel governo del centrodestra «diversamente berlusconiano» di Alfano, che tutto può fare tranne che cucire una legge contro Berlusconi e le sue aziende. Senza nessuna possibilità di realizzazione, ma con la forza evocativa di un lessico in cui ci siamo adagiati da vent’anni secondo uno schema oramai logorato e ripetitivo. Il «conflitto di interessi»: uno spaventapasseri piantato nel mezzo della politica italiana, e che forse non fa più paura a nessuno .

il Fatto 25.1.14
Silenzio del Colle, l’Italicum va bene così com’è
Napolitano parla poco della questione, ma è molto attivo tra le parti
di Eduardo Di Blasi


Ufficialmente il presidente della Repubblica è silenzioso. Anche la dichiarazione fatta arrivare ieri all’apertura del congresso di Sel a Rimini, quella “sulla necessità di pervenire al più presto all’approvazione di riforme istituzionali che rendano il nostro ordinamento più idoneo a fronteggiare, nel contesto europeo, le nuove esigenze poste dalla crisi e dalle sfide della competizione globale”, dice poco sulla effettiva prospettiva del patto Renzi-Berlusconi e sulle ricadute che questo potrà avere sulla prossima legge elettorale, sul governo, sulla tenuta dei gruppi parlamentari e in ultima analisi anche su quelle “riforme istituzionali”, da sempre indifferibili prima di essere poi differite.
SUL TEMA il capo dello Stato ha aperto un lungo campionario di dichiarazioni negli anni passati. Quando il Pd di Bersani e il Pdl di Berlusconi dichiararono di voler mettere mano alla legge elettorale, dal Quirinale arrivarono prima incitamenti all’azione, successivamente grida di impotente dolore davanti alla necessità, non recepita dai partiti, di archiviare il Porcellum. Napolitano lo ricordò nel durissimo discorso di insediamento in cui accusò i partiti tutti di non aver riformato la legge elettorale quando ne avrebbero avuto occasione, facendo precipitare il Parlamento in una crisi politica di difficile soluzione: “La mancata revisione di quella legge ha prodotto una gara accanita per la conquista, sul filo del rasoio, di quell’abnorme premio, il cui vincitore ha finito per non riuscire a governare una simile sovra-rappresentanza in Parlamento”, tuonò tra gli applausi scroscianti dell’aula che nelle legislature precedenti aveva archiviato leggi e richieste di referendum sul tema.
Adesso invece tace. Ma il suo è un silenzio operoso, fatto di incontri, consigli, richieste di informazioni. Tra le sue prerogative, ad esempio, non sfugge quella di dover vigilare sulla legge elettorale nella parte che riguarda le prescrizioni messe nero su bianco dalla Consulta. Sul tema, raccontano fonti politiche, il presidente non trova scogli né nella mancanza di preferenze né nello sbarramento in entrata per i singoli partiti (non coalizzati) all’8%. Sul tetto previsto per acquisire il premio di maggioranza (quello che nel Porcellum era “l’abnorme premio” non previsto di un tetto), forse sarebbe il caso di limarlo verso l’alto, al 37-38%.
Quello che però Napolitano dichiara pubblicamente, anche al congresso di Sel, è che le riforme vanno fatte tutte, anche quelle promesse su modifica del Titolo V e trasformazione del Senato in una Camera delle Regioni. Lo aveva già dichiarato a metà dicembre durante gli auguri di Natale e Capodanno con i rappresentanti delle istituzioni e delle forze politiche. Disse: “Riforme come quelle del superamento del bicameralismo paritario, dello snellimento del Parlamento, della semplificazione del processo legislativo, o come la revisione del Titolo V varato nel 2001, sono ormai questioni vitali per la funzionalità e il prestigio del nostro sistema democratico”, e chiarì anche quali forze politiche avrebbero dovuto intestarsi la riforma così concepita: “Tale convinzione era stata pienamente condivisa dalla maggioranza che fece nascere nell’aprile scorso il governo Letta”: Pd, Pdl e Scelta Civica. Anche adesso, con Forza Italia fuoriuscita dalla compagine di governo, Napolitano crede che quelle larghe intese possano tenere. Che arrivino a modificare la legge elettorale e addirittura abolire il Senato così come lo pensarono i costituenti.
CERTO NON C’È PIÙ molto da spendersi sull’intesa raggiunta. La partita legislativa attiene al Parlamento. Napolitano ufficialmente è spettatore. Ufficialmente fa anche sapere (anche a Sel) che l’intesa andrebbe raggiunta con il maggior numero possibile di soggetti politici. Certo, notano alcuni, artefice del governo Letta mica si può mettere a benedire l’asse Renzi-Berlusconi?

il Fatto 25.1.14
Legge elettorale
Preferenze e collegi, Verdini detta la linea al Pd
di Sara Nicoli


Come hanno creato i collegi? A cazzo. Hanno semplicemente preso quelli di 25 anni fa e li hanno buttati a caso su un foglio…”. Riccardo Nuti, M5S, fa capire così quanto sia cominciato male il confronto di ieri sulla legge elettorale in commissione alla Camera. Perchè restano le divisioni nel Pd sulle liste bloccate, l’emissario renziano Maria Elena Boschi è stata respinta da Denis Verdini sul fronte delle preferenze e Susanna Camusso ha mandato a dire al segretario del Nazaremo che alla Cgil l’Italicum non piace neanche un po’ perché non “garantisce la rappresentanza”. Renzi ha risposto con la solita litania: “È l’ultimo treno: se non passa, la legislatura finisce”. E aggiunto: “Meglio evitare, ma si può votare anche nel semestre europeo”. Nel frattempo Berlusconi lo esaltava: “Meno male che c’è Renzi, finalmente un interlocutore valido nel Pd”.
ECCO, in questo clima turbolento, ieri il testo base della legge è stato comunque adottato dalla commissione Affari costituzionali della Camera, con la contrarietà di M5S e Lega. E ci sono volute 4 ore di discussione per dirimere il primo scontro (Pd-Fi) sulla definizione dei collegi plurinominali. Questo perché, nonostante le rassicurazioni ottenute da Verdini sul no al ritorno delle preferenze (il ministro Franceschini le ha chiamate addirittura “un errore”), Forza Italia non ha affatto rinunciato a inserire tabelle con i collegi già disegnati nel testo base. Un tema delicatissimo, perché definire ampiezza e composizione dei territori di elezione influenza i risultati. Inevitabile, quindi, lo scoppio di una bagarre per il tentativo degli uomini del Cavaliere di forzare la mano sul tema, riprendendo i collegi del ’93 del Mattarellum, con l’unico scopo di velocizzare l’applicabilità della legge elettorale in caso di voto anticipato. “Sui tempi non vogliamo rischiare rinvii”, ha ammesso il presidente Francesco Paolo Sisto, che da relatore ha mantenuto il pugno fermo nonostante le richieste di quasi tutti i gruppi di introdurre già nel testo base la previsione di una delega al governo. Forza Italia, dicono, non si fida del governo che potrebbe allungare i tempi della preparazione dei collegi per allungarsi la vita. Ma allora perché siglare un accordo globale con Renzi anche su riforma del Senato e titolo V? Comunque, alla fine la Boschi ha ottenuto da Brunetta una timida apertura sulla delega al governo anche se il Pd presenterà un emendamento in tal senso così come ne verrà presentato un altro “abrogativo” delle tabelle dei collegi presentati nella bozza dai berluscones. Sulle quali Roberto Calderoli ha detto salacemente la sua: “Sarebbe utile sottoporre l'estensore della tabella a un test etilico e antidroga, sembrano scritti sotto effetto di sostanze stupefacenti”. Insomma, la battaglia è appena cominciata e già gli uomini del Cavaliere giocano di forzature e di colpi bassi, pur di rubare terreno all’avversario, nonostante l’accordo. Tanto che, a proposito di Lega, è tornata a circolare anche l’ipotesi di un emendamento, sempre dei berlusconiani, per salvare il Carroccio dall’estinzione parlamentare certa attraverso il meccanismo del “miglior perdente”, cosa che il Pd non ha alcuna intenzione di accettare. Ma quelli davvero attesi sono gli emendamenti del Pd. Il gruppo si riunirà domenica per tentare di trovare una linea condivisa. Gli obiettivi sono: aumentare il premio di maggioranza del 35% per evitare rischi di incostituzionalità, superare le liste bloccate, se non con le preferenze magari con i collegi uninominali o le primarie per legge e poi rivedere gli sbarramenti del 5 e dell'8%. Ma le modifiche andranno concordate con Ncd e Fi e saranno necessari altri compromessi.

il Fatto 25.1.14
Canfora sul patto (letale) con Silvio


Lo storico Luciano Canfora a pagina 16 de l’Unità di ieri bolla l’incontro Renzi-Berlusconi al Nazareno come “il punto più basso del Pd”. “È forse la prima volta nella storia politica della lotta in Italia - verga il professore - che un capopartito si attiene agli ordini del partito avverso”. Il capopartito di cui parla è quello del Pd, Renzi, che ha pubblicamente dichiarato come si sia dovuto accodare a Berlusconi sul niet alle preferenze. La struttura del Pd, dopo essere stata “umiliata” da tale gesto, potrebbe essere travolta. Il quotidiano vicino al partito, non avvedendosene, apre con un titolo di prima: “Letta: ora conflitto di interessi”. Letta chi?

il Fatto 25.1.14
Caro Renzi, non si decidono le regole con chi ha frodato il Paese
di Luisella Costamagna


Caro Segretario del Pd Matteo Renzi,
tempo fa, durante una puntata di Servizio Pubblico, feci un parallelo tra lei e il suo acerrimo nemico D’Alema. Del nutrito elenco di somiglianze faceva parte anche la vostra comune “sindrome di Stoccolma” nei confronti di Berlusconi – lei in visita ad Arcore, lui a Mediaset nel ’96, accolto dall’allora direttore di Canale 5 (e successivamente suo spin-doctor ripudiato) Giorgio Gori. Ora lei ha aggiunto un nuovo tassello: come per la Bicamerale dalemiana, ha stretto un accordo con Berlusconi sulla legge elettorale.
VA BENE che non si poteva non parlare anche con lui, in quanto leader di FI, ma perché soprattutto con lui? La proposta che poi ha portato alla direzione del Pd (con un ingiuntivo “prendere o lasciare”) e agli altri partiti è infatti nata dal vostro incontro e – differenza non irrilevante rispetto ai tempi della Bicamerale Berlusconi è fuori dal Parlamento perché condannato definitivamente e in attesa di affidamento ai servizi sociali. Come si possono decidere le regole della nostra democrazia con chi ha frodato il Paese ed è interdetto dai pubblici uffici?
Oltretutto facendosele imporre, come nel caso della rinuncia alle preferenze. Lo avete ammesso sia lei che la sua fedelissima Boschi: “C’è il veto di FI”. Pensare che, caro Renzi, nel programma con cui si presentò alle primarie del 2012 scrisse: “I deputati devono essere scelti tutti direttamente, nessuno escluso, dai cittadini”; e in quello delle primarie 2013: “Una legge elettorale che restituisca ai cittadini il sacrosanto diritto di scegliere a chi affidare i propri sogni, le proprie speranze, i propri progetti”. Poi ha incontrato Berlusconi e sono rimaste le liste bloccate. Più corte, certo, e “tanto poi faremo le primarie”. Ma gli elettori degli altri partiti che invece le primarie non le faranno? Niente scelta, beccatevi quello che decidono le segreterie.
Com’è che Berlusconi riesce sempre a stregarla? “Mi sono sempre divertito quando ho incontrato Berlusconi – scrisse nel suo libro Fuori! – un ospite cordiale e disponibile”, “una personalità incredibile, fuori dalla media, in tutti i sensi”, “qualcosa di buono, elegante, simpatico me la doveva dire”, fino all’ammissione: “In tanti mi dicono che dovrei essere più antiberlusconiano. Ma io non riesco a odiare Berlusconi, neanche sforzandomi. Non ce la faccio. È più forte di me”, “È consolante avere un comodo capro espiatorio, ma per me non può funzionare così. Berlusconi è il grande alibi per la sinistra italiana”.
SULL’ULTIMA frase sono d’accordo con lei: non su B. capro espiatorio (ma come le è venuto in mente?), bensì B. alibi della sinistra italiana. Perciò me la prendo con lei, e non con lui.
“Quando arrivi a certi livelli”, la cito ancora a proposito di Berlusconi, “ti circondano ruffiani e mezze calze, ma solo pochi veri amici che ti vogliono bene per quello che sei e non per quello che possono ottenere da te”. Ora lo sta provando anche lei. Apprezzerà che, almeno io, non mi unisca al coro.
Un cordiale saluto.

l’Unità 25.1.14
Cgil
Landini: stop al congresso
Camusso: no, già deciso
Fiom attacca, il leader replica: votato dal direttivo
Tensioni all’assemblea di Bologna
di Andrea Bonzi


BOLOGNA «Se non si vuole lasciare degenerare la situazione più di quanto questa non sia già degenerata, c’è una sola cosa seria da fare: sospendere il congresso e fare una consultazione vera sull’accordo sulla rappresentanza sindacale», siglato lo scorso 10 gennaio da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria. Va dritto al punto, Maurizio Landini, leader nazionale della Fiom, strappando un fragoroso applauso alla platea di delegati metalmeccanici riunita a Bologna per l’attivo emiliano-romagnolo. Un messaggio che ha un interlocutore ben preciso, la segretaria generale Cgil, Susanna Camusso, e che necessita «una risposta immediata», incalza Landini.
Altrimenti, questo è il pensiero del numero uno delle tute blu, «significherebbe violare lo statuto della Cgil. Non è previsto, infatti, che sia un congresso (fissato per i prossimi 6,7,8 maggio, ndr) a ratificare l’intesa siglata. Serve una consultazione chiara con assemblee tra tutti i lavoratori e le lavoratrici iscritti alla Cgil: saranno loro a decidere se confermare o ritirare la firma. Io sono pronto ad accettare il risultato». Se questa consultazione «non si farà osserva Landini -, io rispondo ai metalmeccanici e a nessun altro». L’accordo viene contestato dalla Fiom in quanto «limita le libertà sindacali, dando tra l’altro la possibilità di sanzionare i delegati», è l’accusa. Il testo, però, ha avuto già l’ok del direttivo Cgil, con 95 «sì», contro i 13 consensi all’emendamento sostenuto dalla sigla dei metalmeccanici. Ed è proprio quella votazione che viene considerata dai vertici del sindacato di Corso d’Italia la risposta migliore all’assalto della Fiom.
LA REPLICA DI CAMUSSO
Lo ribadisce la stessa Camusso in serata, ospite del congresso di Sel a Riccione. Dove, tra l’altro, si è visto anche il leader delle tute blu. «Landini sa bene che questa discussione al direttivo nazionale è stata fatta spiega il segretario Cgil, chiudendo la porta alla proposta dei metalmeccanici -. Il direttivo, che è il luogo della decisione, ha deciso che il congresso continua e che nelle assemblee si discute».
Lo scontro sulla democrazia interna, insomma, si fa rovente. Non è un caso che l’affondo arrivi in Emilia-Romagna, forse la regione dove la Fiom è più forte nelle fabbriche. Non è un caso neppure che sia Bruno Papignani, segretario regionale delle tute blu che pochi giorni fa aveva paragonato la democrazia interna al sindacato come «degna di Kim Il-Sung», ad alzare ancora di più il tiro, fino a chiedere la testa di Camusso.
«Con l’accordo del 10 gennaio e con il suo atteggiamento attacca Papignani dal palco -, noi dovremmo dire che la nostra segretaria è inadeguata al ruolo che ricopre». Una bordata accolta dalla platea con uno scroscio di applausi, mentre molti gridano «bravo». Più tardi, Landini frena: «Camusso non è in discussione, io critico le politiche della segretaria generale Cgil. Questa cosa di personalizzare lo scontro è fuorviante per i lavoratori». Ma la sostanza della giornata e dell’avviso al sindacato-madre non cambia.
Al tavolo dei relatori, insieme a Landini, ci sono il segretario regionale dell’Emilia-Romagna, Vincenzo Colla, e Danilo Gruppi, l’omologo bolognese. Impietriti, come conferma più tardi lo stesso Gruppi, che era seduto in platea: «Un clima così non mi è mai capitato di affrontarlo. Quella è la nostra gente, è un campanello di allarme forte. Sta andando in scena una guerra nel gruppo dirigente della Cgil, nel momento in cui la crisi morde di più: dovremmo spendere le nostre energie per alleviare la sofferenza sociale, non per discussioni autoreferenziali». Colla va oltre, e di fatto si smarca un po’ da quanto stabilito lo scorso 10 gennaio a Roma. La scarsa discussione sull’intesa è stato un «errore tragico», tanto che «Landini e altri segretari confederali ne hanno appreso i contenuti dal sito». Poi, l’invito ad abbassare i toni. Ma Colla che non manca di criticare le parole di Papignani viene interrotto più volte dai delegati, che lo contestano («Vai in fabbrica»). Abbastanza scontato che, tra i delegati serpeggi l’ipotesi di scissione dalla Cgil. Ma Landini, pur rivendicando di «agire sempre a viso aperto», chiude il capitolo: «la Fiom non uscirà mai dalla Cgil».
In serata, poi, si sono espressi anche altri segretari confederali, in linea con la Camusso. Agostino Megale, numero uno dei bancari Fisac Cgil, invita Landini «ad attenersi alle decisioni prese dal direttivo» e a «superare le divisioni», consentendo «quel congresso unitario che abbiamo annunciato». Per Stefania Crogi, segretaria generale della Flai, «chi chiede la sospensione del congresso non può pensare che le regole democratiche valgano a corrente alternata». Per Walter Schiavella, segretario della Fillea: «Quanto accaduto all’attivo dei quadri e delegati Fiom dell’Emilia Romagna, è il sintomo preoccupante che si sta passando il segno».

La Stampa 25.1.14
Vendola apre il congresso Sel Renzi lo snobba e diserta
Nichi avvisa Matteo «L’abbraccio
con il “Caimano” può stritolarti»
di Riccardo Barenghi


RICCIONE Usa la mano pesante e la voce dura, Nichi Vendola. Ce l’ha col Partito democratico che «non sarà il nostro destino» e che negli ultimi vent’anni si è dimostrato subalterno al berlusconismo. E in particolare con Matteo Renzi che rischia di «venire smontato dall’abbraccio col caimano, come è successo già in passato. Una sorta di maledi-
zione che perseguita la sinistra moderata». Vendola cerca di addolcire la polemica chiamandolo «l’amico Renzi», ma tanto amico non sembra. Appare infatti improbabile che oggi il leader del Pd venga a parlare a questo congresso. Lo stesso leader di Sel ci dice in serata che non sa se verrà, «forse ci sentiremo nella notte per decidere. Io comunque insisterò, non deve temere un’accoglienza ostile. D’altra parte se vogliamo ragionare su un’eventuale alleanza è meglio dirsi le cose con franchezza, anche se oggi siamo a una crisi nei rapporti col Pd». Certo, se Renzi non si facesse vedere, cadrebbe il principale momento di interesse politico di queste assise, ossia il confronto in diretta con Vendola non solo sulla legge elettorale ma più in generale sul futuro del centrosinistra italiano: «Se si continua a pensare che il guaio dell’Italia siano i piccoli partiti insiste Vendola non faremo molta strada. Anche perchè poi ci si ritrova nelle mani degli Scilipoti».
Oggi si vedrà, c’è chi dice che all’ultimo momento il leader Pd potrebbe presentarsi e spiazzare la platea: «Sarebbe una scelta intelligente da parte sua», chiosa Vendola. Ma dallo staff del sindaco fanno sapere che a Riccone verrà Stefano Bonaccini. In attesa di notizie Sel va avanti per la sua strada, che non si sa bene se sia quella giusta (come dice lo slogan congressuale). Non è facile d’altra parte trovarne una percorribile, vista la situazione politica e pure i sondaggi che non sono certo ottimistici (attualmente il partito viene stimato tra il 2-3%, soglia ben lontana da quel 5 per entrare in Parlamento così come dice la riforma di Renzi e Berlusconi). Una cosa comunque appare sicura: Sel non ha alcuna intenzione di entrare nel Pd per diventare un pezzetto della sua minoranza. Resterà un partito autonomo che dovrà trovare una via per sopravvivere nella giungla della politica italiana. Che, secondo il governatore pugliese, ancora non è stata capace di fare fino in fondo i conti con un «berlusconismo che ha corrotto moralmente e materialmente la vita pubblica». E anche qui Vendola parla del Pd, che paradossalmente continua a considerare il suo possibile alleato del futuro nonostante gli attribuisca la colpa della «piena sconfitta» nelle elezioni dell’anno scorso (e qui magari, fatte salve tutte le responsabilità di Bersani, un accenno di autocritica sarebbe stato ben accolto). La giungla italiana dunque ma anche quella europea, visto che tra quattro mesi si voterà per il Parlamento di Bruxelles. E qui si misurerà la forza reale del partito di Vendola. Che è ancora indeciso sulle alleanze. Vorrebbe entrare nel partito socialista europeo di Schultz ma sarebbe anche interessato e partecipare alla lista del leader della sinistra greca Tsipras, e comunque «siamo anche pronti a correre da soli col nostro simbolo». Come si vede, poche idee ma confuse.

il Fatto 25.1.14
Sel non finisce nel Pd, ma Vendola leva il suo nome
Intervento del segretario già intercettato al telefono con l’Ilva: Politica prona agli interessi economici”
Oggi arriva Renzi

di Sandra Amurri

Riccione. Nichi Vendola dal palco del Palacongressi di Riccione blindato dalla Digos per l’arrivo della Presidente della Camera Laura Boldrini apre il congresso nazionale del partito con le parole di Nelson Mandela: “I veri leader devono essere in grado di sacrificare tutto per il bene della loro gente”. Inizia la sua lunga disquisizione socio-filosofica sulla grande crisi politica economica e di valori che attanaglia il Paese. “La politica non si pone più le domande di fondo, si adatta alla plasticità degli interessi economici. Lo Stato sta cedendo al mercato la scelta di cosa è vita e cosa è morte invece di indicare vincoli e strategie delle scelte ambientali, qualità della produzione e del lavoro, con strategia intelligente. Le grandi famiglie industriali di questo Paese sono una forma di neo criminalità che impedisce lo sviluppo di una economia sana”. Chissà se tra queste vi sia anche la famiglia Riva. “Curare la febbre ambientale della nostra terra. Come? ”, si chiede. “Ripensando il senso e le forme della produzione”.
MENTRE LA FEBBRE è così alta da continuare a mietere vittime. Al Pd chiede: “Di cosa abbiamo paura? Di essere utopisti? Dobbiamo guardare diritto negli occhi il Caimano a cui la sinistra giocando a nascondino ha dato modo di controllare la partita. Il Pd promette rigore contabile e non giustizia sociale, non è una commedia degli equivoci? ”. Segue un accenno di autocritica: “Noi pur entrando in Parlamento abbiamo perso la scommessa, siamo precipitati nel pantano politico con la strada dell’intesa con l’avversario che ha prodotto il governo delle larghe intese. Il Pd non è né il mio né il nostro destino”. Segue la sola grande ovazione. “Il Pd rappresenta la scelta dell’alleato, è il nostro interlocutore, non la nostra resa. Non ci sciogliamo finché non nasce un cantiere della sinistra”. E finalmente si rivolge a Renzi: “Con rispetto e senza pregiudizi” dice che la critica alla riforma elettorale non è data dalla nostra sopravvivenza ma dal “comando politico che comprime la procedura democratica”. E prosegue: “L’intesa preventiva con Berlusconi non doveva esserci perchè non si parla con chi è ineleggibile”. Il Porcellum “inquina i pozzi della democrazia. Matteo non chiederci di cliccare un ‘mi piace’ perché hai fretta di fare una palingenesi”. Di Grillo, senza nominarlo dice: “I comici professionisti non sono la soluzione ma l’esplosione del problema”. E condivide uno dei cavalli di battaglia del M5S: il reddito minimo garantito auspicando che diventi una battaglia di governo come il tornare nelle piazze con le bandiere e non con i forconi. Rivolgendo lo sguardo alla Camusso seduta in prima fila dice: “La Cgil deve restituire dignità al lavoro”.
E SUL FUTURO di Sel parte dal simbolo: “Via il mio cognome. Non sono proprietario del partito. Sento l’orgoglio della schiena diritta, di non essere a libro paga di nessun padrone”. Il riferimento è all’inchiesta Ambiente Svenduto che lo vede indagato. “Se non avessi scoperchiato quei camini non sarei chiamato a rispondere di alcunchè. Il cancro mi ha fatto scegliere di scendere in politica perché ha toccato i miei affetti. Il fumo molesto del siderurgico, Taranto splendida e disperata, con lo sporco delle polveri industriali”. Per la prima volta non giustifica le risate con Archinà con la necessità di mediare in difesa dei posti di lavoro, ma evoca lo spettro del cancro, come se non vi fosse alcun nesso causale tra diritto al lavoro e alla salute. Vendola chiude benedicendo la “sua comunità” così: “Pensieri nuovi e fecondi, non siate tristi continuate in ciò che è giusto. Ambiamo alla bellezza”. Ma il vero destino politico di Sel resta nelle mani di Matteo Renzi, che interverrà oggi.

l’Unità 25.1.14
Vendola: «Caro Matteo, attento all’abbraccio del Caimano»
Il leader di Sel apre il congresso criticando Renzi sulle riforme
Alleanze: «Non ho intenzione di iscrivermi a nessuna corrente del Pd»
Il nodo della candidatura Tsipras
di Rachele Gonnelli


Provare a sciogliere i nodi, uscire dalla terra di mezzo. Lo dice anche Fabio Mussi, seduto tra i dirigenti di Sinistra ecologia e libertà in prima fila sulle poltroncine rosse del pala congressi di Riccione: l’obiettivo del congresso di Sel è questo. «Sapendo che non esistono soluzioni semplici o strade diritte, ma solo sentieri di montagna, in salita», dice indicando con gli occhi o forse con i baffi lo slogan che campeggia sul maxi schermo sopra il palco ancora vuoto, lo slogan del congresso: la strada giusta. Nichi Vendola arriva un po’ in ritardo a sala strapiena e prova a imboccare la direzione. Il suo lungo discorso cammina spedito ma le indicazioni più nette vengono dal gradimento dei passaggi chiave della sua relazione introduttiva durata oltre due ore. Due ore senza pause se non per accogliere la presidente Laura Boldrini e per alcuni lunghi applausi che interrompono e quasi sovrastano il flusso delle parole. Passaggi chiave che riguardano la collocazione europea, e quindi Martin Schulz o Alexis Tzipras, e il rapporto con il partito democratico.
È un’ovazione quando, dopo aver fatto gli auguri a Pier Luigi Bersani, Vendola confessa di trovare difficile orientarsi nella attuale geografia del Pd, tra quelle che chiama «le ragioni e gli oggetti della contesa interna». «Capisco soltanto dice che non ho alcuna voglia di iscrivermi a nessuna delle sue correnti interne, perché non è il mio e il nostro destino». «Sono il nostro interlocutore, sono il partito con cui governiamo parti rilevanti del Paese, non sono la nostra resa». Il presidente e fondatore di Sel non chiude la porta alla riapertura di quello che ai tempi di Bersani segretario veniva chiamato il cantiere della sinistra, un soggetto unico, ma sposta questa prospettiva in un eventuale futuro ora non esistente. Si rivolge poi direttamente a Matteo Renzi, atteso per oggi a Riccione e anche lì l’applausometro sale al rosso e pur riservandosi di valutare nuove alleanze locali per la prossima tornata di amministrative a partire da convergenze sui programmi, a Renzi manda un messaggio molto duro sulla proposta di legge elettorale «nulla di palingenetico in norme pasticciate e in odore di incostituzionalità» e sullo stile politico.
Parla di «livore nei confronti delle minoranze», ma «non è per una ragione di sopravvivenza ma di merito». Non ci sta a dover ambire solo a qualche diritto di tribuna e ricorda che Pietro Calamandrei, uno dei padri costituenti, fu eletto da un partito d’azione che riscuoteva appena l’1,5 per cento dei voti. Anche Sel, fa notare, pur con numeri modesti ha saputo imprimere anche svolte importanti e colpi a segno per tutto il centrosinistra. Sel lo dice chiaramente con nuovi applausi si presenterà con il proprio simbolo senza più il suo nome, «mi sono stancato di sventolare come bandiera», é la battuta. Molte, sostiene ancora, sono state le forze che hanno spinto e sono riuscite a far deragliare il treno di Italia bene Comune e si sono espresse in una «selvaggia lotta» anche dentro il Pd. Si trattava di seppellire definitivamente il Porcellum, non certo lo ripetono anche altri interventi attraverso una riforma con «abnorme premio di maggioranza e altrettanto abnormi soglie di sbarramento». Inoltre non è proprio piaciuto l’ultimo «spregiudicato accordo con l’avversario», quell’incontro «dai contorni opachi» con Silvio Berlusconi senza neanche ricordare il suo basilare conflitto di interessi. Si fa notare che non sono certo i piccoli partiti ad avanzare veti e ricatti, anzi si penalizza l’alleato piccolo grazie al quale si è finora raggiunto il premio di maggioranza. «Attento dice Vendola sempre rivolto a Renzi all’abbraccio del Caimano che risorge come una fenice».
In sala l’unico dirigente del Pd ad ascoltare le critiche aspre è Goffredo Bettini, che comunque, in qualità di osservatore renziano, non nota nella reprimenda di Vendola alcuna malevolenza che infici la presenza del segretario Pd, atteso per oggi. Se poi verrà o parlerà non è dato sapere, l’uomo è abbastanza umorale, si dice.
Quanto poi al nodo di come andare alle elezioni europee, il tema per il momento resta abbastanza ingarbugliato. L’invito è a guardare alla Luna, cioè agli equilibri tecnocratici che si stanno riformando in Europa con la prosecuzione delle politiche dell’austerity e il risorgere speculare dei populismi e dei movimenti neonazisti e di estrema destra, e non attardarsi sulla questione dei leader europei. Schulz per Vendola resta «una speranza», il Pse fondamentale per trovare equilibri politici più avanzati. Il segretario di Syriza in Grecia, un compagno di battaglia fin dai tempi di Genova nel 2001. Ma il problema è la Gue, il gruppo della Sinistra Europea che supporta e sponsorizza la sua candidatura come presidente e campione della resistenza alle politiche della troika. Questa sponsorizzazione della Gue, fa notare Vendola rivolgendosi direttamente a Barbara Spinelli che insieme ad altri intellettuali ha fatto appello per la creazione di una lista della società civile che lo sostenga, al momento «è una gabbia». Fa riferimento a un raggruppamento fortemente ideologico, a tratti nostalgico come ricorda Franco Giordano persino del muro di Berlino, e ne riduce la carica dirompente.
In serata, quasi a risposta alle parole di Vendola, lo stesso Alexis Tsipras fa sapere però di accettare la proposta di candidatura in Italia per una lista dei movimenti e comunque non strettamente targata Gue. Vendola però, passando in sala stampa, dice che dovrà valutare meglio cosa significa. Certo, i 900 delegati del congresso hanno applaudito il leader greco molto più del segretario dell’Spd. Vendola ci rifletterà nella notte, attendendo anche una telefonata che confermi o meno l’arrivo di Renzi oggi a Riccione.

Repubblica 25.1.14
“Pronti all’alleanza con il Pd alle europee anche senza il simbolo”
Vendola: il governo Letta resta la risposta sbagliata
intervista di Giovanna Casadio


È il secondo congresso, il primo di fondazione fu nel 2010. È cominciato ieri e si concluderà domani a Riccione
Sono 35 mila gli iscritti a “Sinistra ecologia e libertà”: i delegati al congresso sono 900 e il 48% sono donne

ROMA — «Con il Pd ci vuole un’alleanza certo, però non una confluenza, e sulla base dell’innovazione, che è parola-chiave». Nichi Vendola ha aperto ieri il secondo congresso di “Sinistra ecologia e libertà” a Riccione. Un bilancio difficile per il partito della sinistra, che si era preparato ad andare al governo con Bersani, e si è ritrovato all’opposizione dell’esecutivo di larghe intese.
Vendola, la strada di Sel è stretta: nel vostro futuro c’è il Pd o il movimentismo?
«Francamente mi pare che la strada dell’Italia sia stretta, perché è molto grande il rischio che la sinistra per l’ennesima volta si consegni alla destra e offra al berlusconismo gli strumenti del riposizionamento e della speranza di vittoria. Il modo in cui ci si avvicina alla materia elettorale è per me abbastanza sconvolgente. Di realismo in realismo fino alla catastrofe finale. Ai Soloni che si chiedono dove Sel andrà a parare, rispondo: il problema è dove va parare questo paese e l’Europa».
Lei ha detto che il Pd di Renzi finirà stritolato dall’abbraccio con il caimano Berlusconi.
«Non è la mia preoccupazione principale lo stato di salute del Pd, ma della democrazia italiana. Il Porcellum è stato il modo in cui la destra ha avvelenato i pozzi. Oggi bisognerebbe partire dalla ricerca di un sistema che consenta di accorciare le distanze tra i cittadini e le istituzioni, di curare quel male oscuro che si presenta in forma di populismo e di forconi. E invece...
E invece?
«Ci troviamo di fronte al combinato disposto di un abnorme premio di maggioranza e di altissime soglie di sbarramento. Questa è l’ingordigia dei grandi partiti. Esprime un tratto illiberale di disprezzo per le minoranze. È mai possibile che Berlusconi e Renzi convergano nell’indicare nei piccoli partiti la causa della crisi italiana! Berlusconi governa da 20 anni questo paese, ha costruito lo scilipotismo, la compravendita di frazioni di ceto politico, i grandi partiti hanno condiviso privatizzazioni e precarizzazione del lavoro, e la colpa dello schianto è dei piccoli partiti? È una favola inascoltabile».
Anche lei quindi vuole le preferenze?
«Le preferenze sono scansate da chi ha una visione monopolista della politica. Il “modello Italicum” è un sistema elettorale fortemente lesivo del pluralismo politico, ed è per Berlusconi un calcolo interessato; da parte di Renzi è una miopia. Sarà divertente capire cosa pensa chi vuole i voti dei piccoli partiti per guadagnare il premio di maggioranza ma non vuole i piccoli partiti».
Comunque nel futuro di Sel resta l’alleanza con i Democratici?
«Non va mai più confusa alleanza con confluenza. Il mio destino e quello di Sel non è il Pd. Ma costruiremo un’alleanza sulla base di un’idea chiara di innovazione della società, sapendo che non esiste neppure vagamente la sinistra, se non mette nell’agenda la lotta contro la povertà di reddito, di diritti, di qualità sociale. E in Europa i processi spaventosi di impoverimento sono la foto delle conseguenze delle politiche di austerity come dicono Tsipras e Schulz».
Però alle europee andrete da soli?
«Una cosa per volta. Ora è il tempo del congresso, possiamo andare con il nostro simbolo ma non siamo neppure ammalati di boria di partito. Se ci sono le condizioni per un allargamento e un’apertura, ci saremo. Non ho mai lavorato con l’orizzonte della bottega».
Questo è l’ultimo congresso di Sel?
«Lo escludo».
Letta va sempre mandato a casa al più presto o qualcosa sta facendo?
«Le nuove privatizzazioni camminano sulle macerie delle vecchie. Questo governo è la risposta sbagliata ai problemi del paese, finisce col consumare le speranze residue in un cambiamento razionale che non sia la vandea dei forconi».
Perché vuole togliere il suo nome dal simbolo in tempi di leadership forti?
«Perché era l’indicazione di una storia, non l’espressione di un partito padronale: vorrei essere libero dall’incombenza di essere una specie di bandiera».

il Fatto 25.1.14
Regalo Bankitalia
Sì alla fiducia ma tra le proteste
Espulsi i deputati Cinquestelle per il sit-in in aula
Non si puà ostacolare la legge che per le grandi banche vale oltre 4 miliardi di euro. Pagati da noi
di Ste. Fel.


La fiducia c'è, dopo il Senato anche la Camera vota sulla conversione in legge del decreto Imu-Bankitalia che “crea il presupposto di un inaccettabile maxi-regalo alle grandi banche di cui i cittadini non tarderanno a chiedere conto”, come dice Daniele Capezzone di Forza Italia, presidente della commissione Finanze. Il Movimento Cinque Stelle protesta, con un sit-in dentro Montecitorio, quattro deputati vengono espulsi perché cercavano di impedire ai loro colleghi di votare. Ma non serve: il governo Letta ha voluto blindare con la fiducia questa legge e la maggioranza si dimostra compatta, 355 voti a favore, 144 contrari e un astenuto. Non si registrano commenti dall’Abi, l’associazione delle banche italiane, forse perché i principali banchieri sono impegnati al World Economic Forum di Davos, in Svizzera, ma si immagina l’esultanza. È la più grossa vittoria della lobby del credito che pure ha ottenuto tante piccole soddisfazioni in questi mesi. Manca ancora il voto finale, atteso per martedì, ma quello della fiducia era il passaggio decisivo. I malumori dentro il Pd – rari ma presenti – sono stati silenziati e l’appoggio è risultato granitico.
L’INTENTO DEL GOVERNO sembra nobile: fare chiarezza su quanto vale la Banca d’Italia, il cui capitale è rimasto quello (quasi simbolico) stabilito nel 1936, 300 milioni di lire, 156 mila euro. Le quote sono distribuite tra le principali banche italiane, Intesa e Unicredit ne possiedono insieme oltre la metà, il 52,4 per cento. Visto che il valore reale era difficile da determinare, ma sicuramente superiore a quello simbolico di 156 mila euro, ogni banca valutava in bilancio le proprie quote a prezzi diversi. E così interviene il governo a fare chiarezza.
NOBILE PRINCIPIO, conseguenze molto discusse. Un comitato di saggi stima che il valore corretto, considerando i dividendi futuri attesi, non è 156 mila euro ma 7,5 miliardi. Si procede quindi a un aumento di capitale ma, ovviamente, non sono le banche azioniste a tirare fuori i soldi, si prelevano dalle riserve, cioè si usano capitali che sono della Banca d’Italia e, indirettamente, dello Stato (che, per statuto, incassa dividendi in base alle riserve). Finora, ogni anno, le banche hanno incassato dividendi bassi, circa 70 milioni di euro nel complesso, pari allo 0,5 per cento dei rendimenti degli investimenti e delle riserve di Bankitalia. La quota massima era il 4, ma per prassi ci si fermava sotto, appunto intorno allo 0,5. Ora il limite massimo sale al 6 per cento. Perché, visto che già il 4 sembrava un tetto alto? Mistero. Con le nuove regole, le banche private potrebbero ottenere quest’anno circa 450 milioni di euro invece che i 70 del 2013. Ma questo è solo il primo favore.
Il secondo è riservato agli istituti più grossi: la Banca d’Italia può ricomprarsi le quote in eccesso rispetto al limite massimo, fissato dalla nuova legge, che è il 3 per cento. Questo significa che Intesa e Unicredit possono sperare di ricevere da via Nazionale, 3,5 miliardi in totale. Soldi veri, non mere rivalutazioni contabili. E molto preziosi nell’anno in cui le banche sono sottoposte al severo esame della Bce di Mario Draghi, in vista del progetto di Unione bancaria europea. Le quote sopra il 3 per cento, dice la legge, non danno però diritto al dividendo proporzionale, quindi Intesa e Unicredit hanno un forte incentivo a chiedere alla Banca d’Italia di ricomprarsi le azioni che detengono.
IN TEORIA la questione delle quote di Bankitalia doveva risolversi in un altro modo: la legge sul risparmio del 2005 prevedeva che lo Stato si riprendesse le quote detenute dalle banche, anche per dare maggiore credibilità all’azione di vigilanza della Banca d’Italia che oggi è formalmente di proprietà dei vigilati. Niente da fare: il regolamento attuativo non è mai arrivato, avrebbe creato troppi fastidi alle banche. E così oggi cambia la legge andando in direzione completamente opposta: dopo la rivalutazione, lo Stato non potrà mai rientrare in possesso di una Banca d’Italia che vale 7,5 miliardi invece che 156 mila. Lo scenario (per ora solo teorico) che la legge auspica è quella della public company, azionariato diffuso tra banche e investitori, anche internazionali, con la attività della banca centrale comunque garantita nella sua indipendenza dallo statuto.
Il governatore Ignazio Visco, che tanto spesso ha censurato i comportamenti predatori delle banche italiane, da Davos non commenta la rivalutazione, ma avverte: l’esame europeo della Bce potrebbe portare a fusioni tra i gruppi più deboli. Unicredit e Intesa, grazie all’intervento del governo e del Parlamento a loro favore, possono invece guardare al futuro con un certo ottimismo.
 
il Fatto 25.1.14
Fare cassa
Poste, ecco la privatizzazione truffa
di Giorgio Meletti


La maggioranza rimane allo Stato e c'è la novità importantissima dell'azionariato ai dipendenti. Tutto diverso dagli anni '90”. Nella felicità di Annamaria Furlan, segretaria confederale della Cisl, c'è la sintesi perfetta del disastro che il ministro dell'Economia Saccomanni ha impostato ieri con il via libera alla vendita del 40 per cento delle azioni di Poste Italiane e del 49 per cento dell'Enav, l'ente del traffico aereo.
DI NUOVO NON C'È niente. La privatizzazione delle Poste l'ha annunciata nel 1991 un predecessore di Saccomanni, Guido Carli, con il solito tono “basta chiacchiere, passiamo ai fatti”. La vendita di pacchetti di minoranza, per fare cassa senza smettere di comandare e far rubare, è un brevetto degli esordi della seconda Repubblica. L'Enel è ancora controllato dallo Stato ma è “privatizzato” dal 1999, e già allora con la brillante variante dei dipendenti che si comprano le azioni, indotti addirittura a spendersi l'anticipo del Tfr: le azioni furono piazzate a prezzo stellare (“dobbiamo entrare in Europa”) da un altro predecessore di Saccomanni, l'oggi giudice costituzionale e pensionato di platino Giuliano Amato. Le azioni crollarono subito dopo questa sua frase: “Il prezzo di collocamento non dovrebbe portare a delusioni”. Molti dipendenti Enel hanno poi perso anche il lavoro perché, stando in Borsa, bisogna essere competitivi tagliando gli organici.
Quella delle azioni ai dipendenti è una favola triste. La Cisl si battè come una leonessa, a suo tempo, perchè venissero date le azioni ai dipendenti dell'Alitalia, un'altra società di cui si piazzò in Borsa un pacchetto di minoranza per non ostacolare politici e “portaborse delegati” nei loro furti. Fu l'allora capo della Cgil, Sergio Cofferati, a mettersi di traverso: molti hanno poi perso il lavoro nel disastro Alitalia, ma non i risparmi.
Il fatto è che la Cisl è vocata a comandare nelle aziende statali. Vuoi mettere la oscura fatica di tutelare tutti con la distribuzione di promozioni agli amici? Il premier Enrico Letta annuncia per le Poste la Mitbestimmung alla tedesca, ma c'è sempre stata, con qualche differenza. Su al nord una legge impone che in tutte le società per azioni la metà del consiglio di sorveglianza siano dipendenti eletti dai loro colleghi (e non designati dal sindacato) e senza costringerli a comprare azioni. Alle Poste Giovanni Ialongo, 70 anni, è presidente da cinque anni, nominato dalla Cisl di cui è stato il capo. In forza della Mitbestimmung alla vaccinara era stato prima presidente dell'Ipost, l'istituto previdenziale dei postini. È anche grazie a lui che oggi i contribuenti devono pagare un miliardo all'anno per ripianare il buco dell'Ipost. Una cifra pari ai profitti che Poste italiane fanno da quando l'amministratore delegato Massimo Sarmi ha trasformato le rete di 14 mila sportelli in un grande supermarket della finanza, e i 140 mila dipendenti in consulenti finanziari pagati come postini.
SARMI ARRIVA AL VERTICE nel 2002, in quota Gianfranco Fini, e ha la ricetta del successo. Cala il traffico postale? Riduco i postini. Il servizio postale, con meno postini e meno sportelli, fa schifo? Bene, manderanno meno lettere. Ci sono meno lettere? Taglio ancora. Perché dare un servizio decente, visto che non c'è concorrenza? Sarmi si vanta di essere “il gruppo postale più redditizio a livello europeo”, cosa che suona misteriosa a chiunque veda un ufficio postale. Ma ha un senso. Ieri Saccomanni ha detto che deve “prolungare la convenzione con la Cassa Depositi e Prestiti”. É il momento magico. Anche quando privatizzarono le autostrade allungarono le concessioni. Le Poste raccolgono ogni anno circa 45 miliardi di risparmio postale per la Cdp. Per il disturbo Sarmi prende 1,6 miliardi all'anno. Una rendita che adesso va garantita per rendere appetibili le azioni. Fino ad ora gli utili restavano allo Stato. Adesso, invece, per incassare 4-5 miliardi (pochi, maledetti e subito che ridurranno il debito pubblico dello 0,45 per cento), bisogna promettere ai mitici privati di continuare per sempre a peggiorare il servizio postale e a spolpare l'azienda. Per dare il dividendo ai fondi pensione americani.

l’Unità 25.1.14
Precari scuola, l’incubo del taglio alla greca
Ferie non più monetizzabili 1000-1200 euro di perdita l’anno
Lo Stato non ha ancora pagato gli stipendi di dicembre e novembre per le supplenze brevi
di Andrea Comaschi


Sos scuola pubblica. I 150 euro «tornati» nella busta paga degli insegnanti di ruolo, dopo la mezza sollevazione provocata dall’annuncio del governo di volerli tagliare, non esauriscono il lungo elenco dei nodi da sciogliere per garantire un minimo di qualità alla vita in classe. Prima fra questi, la scelta che toglierà a circa 130mila precari da 1000 a 1200 euro l’anno, cancellando il diritto a vedere monetizzate le ferie non godute. Senza contare il mancato pagamento degli stipendi di dicembre e spesso novembre per le supplenze brevi, su cui solo ora sta intervenendo il ministero. E come ben racconta Valentina Mascaretti, bolognese, 34 anni, precaria da sette, supplente in un liceo di Imola: «Vivere con questa incertezza sui pagamenti diventa difficile. La mia salvezza? Non avere figli, e lo stipendio di mio marito. Ma già così si tira la cinghia».
Tanti aspetti del lavoro da precaria del resto «lo rendono molto più stressante di quello dei colleghi di ruolo». Tra i diritti degli uni e degli altri «c’è un abisso», non si contano le disparità che il ministero non pensa affatto a colmare. Una su tutte, appunto quella del mancato pagamento delle ferie non godute. I precari non possono prenderle, visto che vengono licenziati ogni estate: se in precedenza queste ferie perse venivano compensate, la spending review 2012 ha stabilito che non possono essere monetizzate. Sarà così dal 2014, anche quelle per il 2012-13 sono in forse. La giustificazione? Ai precari vengono conteggiate come ferie Natale e Pasqua, cosa che non accade con i colleghi di ruolo.
«Di fatto, si tratta di una decurtazione dello stipendio attuale accusa Raffaella Morsia della Flc-Cgil Emilia-Romagna -, i precari subiscono un taglio alla greca. Un’ingiustizia contro cui ora la Flc nazionale avvierà una serie di cause pilota». C’è poi l’abuso dei contratti a termine, contro cui ha puntato il dito a dicembre la Corte Europea di Giustizia. Anche questo Valentina lo ha subìto sulla propria pelle, «ho lavorato nella stessa scuola per un anno, ma con un contratto rinnovato 5 volte». Riassumendo: «Lavoriamo proprio come chi è di ruolo,
anzi forse per farci accettare pure di più. Molti di noi hanno master o dottorati, abbiamo investito molto sulla nostra formazione. Ma non godiamo degli stessi diritti degli altri docenti».
In un quadro complessivo già tanto drammatico si inserisce l’ultimo sfregio, lo stipendio fantasma per chi non ha ottenuto una cattedra dal Provveditorato (annuale, da settembre a giugno o agosto) e ha quindi atteso le chiamate degli istituti per spezzoni o supplenze brevi. Che poi brevi magari non sono, visto che coprono malattie ma anche maternità o congedi annuali per motivi di studio. Il loro stipendio però, a differenza di quello dei precari con cattedra del Provveditorato, è pagato dalle singole scuole, che devono avere i fondi dal ministero. E proprio questi fondi sono il problema.
«Già lo stipendio di settembre è arrivato solo grazie a un’erogazione straordinaria del ministero spiega Morsia. Il sindacato ne ha sollecitata un’altra entro dicembre, ma non c'è stata». «Il 20 dicembre la scuola ci ha comunicato che lo stipendio sarebbe arrivato più avanti, non si sapeva quando ricorda infatti Valentina -: è stato un trauma. Niente regali di Natale. Mi era capitato una volta di vedere la busta paga in ritardo, ma quest’anno abbiamo toccato il fondo. Per fortuna ci sono i 1370 euro di mio marito, insegnante pure lui ma di ruolo: visto che io non ho certezze, siamo entrati nell’ottica di contare solo su quello per le spese quotidiane. Poi mia madre, che è pensionata, ogni tanto mi aiuta. Ma sono arrabbiata, davvero arrabbiata: non ho un’indipendenza, e se avessi anche solo un figlio non ce la faremmo con quello che costa la vita a Bologna».
Solo il 17 gennaio viale Trastevere ha sbloccato i fondi, Valentina i 1000 euro di novembre li ha visti dunque solo il 23 gennaio, insieme a quelli di dicembre. Ma la partita non è affatto chiusa, «tra pochi mesi il problema si riproporrà, perché per il 2013 i soldi li hanno trovati anticipando risorse del 2014. Sottratte oltretutto punta il dito Morsia ad altri capitoli di spesa della scuola, come i fondi per i Consigli d’Istituto e per l’offerta formativa: siamo al cannibalismo. Ed è incredibile che chi lavora per lo Stato non sia retribuito: siamo alla negazione dei diritti e dei valori di legalità che proprio a scuola si dovrebbero insegnare».
«La situazione rimane critica, altroché, rischiamo un blocco dei pagamenti nei prossimi mesi attacca il segretario nazionale Flc Domenico Pantaleo -. Perché sulla scuola si continua a tagliare: tagli nascosti, ma sempre tagli sono, che pesano sulla stessa sopravvivenza di questi precari. Non solo, togliere risorse ad altre voci farà sì che gli istituti saranno sempre più costretti a chiedere un contributo alle famiglie. Il ministro Carrozza sa tutto questo?»

il Fatto 25.1.14
Concorso truccato, 12 anni per avere giustizia
Università, il Consiglio di Stato dà ragione al prof: la selezione doveva vincerla lui
Ma ormai è prossimo alla pensione
di Carlo Di Foggia


Quando l'ho fatto non è che fossi proprio un centenario... ”. Per avere giustizia, il professor Francesco Loperfido, docente associato di cardiologia all'università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, ha dovuto aspettare un po’: 12 anni. Tanto c'è voluto perché i giudici amministrativi mettessero la parola fine a un concorso trascinatosi per oltre un decennio, e che lo ha visto contrapposto al professor Stefano Favale, nel frattempo divenuto primario di Cardiologia del Policlinico Bari in concomitanza con l'uscita di scena di Paolo Rizzon, ora sotto processo con l’accusa di aver pilotato i concorsi di Cardiologia in tutta Italia fra la fine degli anni Novanta e il 2002.
A Bari, Loperfido e Favale concorrevano all’idoneità da ordinario, poi ottenuta da quest'ultimo. Ora il Consiglio di Stato ha definitivamente ribaltato tutto. “Potrò andare in pensione, fra un anno, con l’idoneità che mi spettava, ma di cui ovviamente non me ne faccio molto... ”, sorride Loperfido. Quasi non ci sperava più.
NEL 2007, dopo un primo round di ricorsi amministrativi, lo stesso Consiglio di Stato aveva annullato le valutazioni fatte dalla commissione esaminatrice del concorso che avevano assegnato a Favale il secondo posto. L’anno dopo, dovendo rispettare l’obbligo, l’allora rettore Giovanni Girone ordina una nuova valutazione, che però affida alla stessa commissione contestata, che ovviamente conferma i risultati. La decisione viene quindi nuovamente annullata dal Tar della Puglia, che ribadisce le numerose anomalie nei giudizi. “Motivi di opportunità e trasparenza imponevano al rettore di affidare il giudizio a una nuova commissione”, scrivono i giudici, visto che la precedente non solo “ha abbondantemente dimostrato di ritenere di non dover rendere conto del proprio operato a nessun organo o autorità”, ma anche di “non essere in grado di mantenere, nonostante i rilievi della giustizia amministrativa, serenità e imparzialità di giudizio”.
La valutazione si doveva quindi ripetere. Ma, ancora una volta, nessuno si muove per riaprire i risultati. Favale ricorre invece in appello. Perderà anche lì, e si vedrà rispondere dai giudici che il danno in realtà l’ha subito il suo concorrente.
I RICORSI INCROCIATI sono continuati fino alla sentenza “definitiva”, arrivata lo scorso 16 gennaio, che ha concesso l’idoneità al professor Lo-perfido e chiuso definitivamente il contenzioso: “Si ritiene – scrivono i giudici – che ormai non residuerebbe comunque in capo all’Università degli Studi di Bari alcun apprezzabile margine di valutazione per pervenire a un esito diverso rispetto alla nomina del prof. Loperfido”. L’altro candidato dovrebbe decadere, come previsto dalla prima sentenza.
In realtà i dubbi erano sorti già nel 2005, dopo la pubblicazione dei giudizi, che risultavano equivalenti nonostante curricula ed esperienze diverse dei candidati, tanto da spingere il rettore Girone a chiedere un ulteriore parere a una commissione straordinaria. Favale, si legge nelle diverse sentenze, aveva dovuto sottoporsi a una prova didattica perché all’epoca dei fatti non rivestiva il ruolo di professore associato, diversamente da Loperfido. La commissione, pur confermando le anomalie dei giudizi, aveva però riconosciuto la legittimità dei risultati, ed evidenziato come “nella votazione finale non si possa prescindere da una certa liberà dei votanti”. “Non voglio entrare nel merito di quello che è successo – spiega Loperfido – posso solo dire che le sentenze parlano da sole”. A novembre del 2015 andrà in pensione. “Quello che ho fatto non mi è servito a molto, anche se all’epoca non potevo immaginare di dover aspettare un tempo infinito per ottenere giustizia”.

La Stampa 25.1.14
Sbarre, ballatoi e celle
Roma, ieri un morto in un incendio. Due vittime nel 2001
Quel residence-alveare trappola per immigrati
di Maria Corbi


ROMA Un’altra volta. La stessa tragedia di 13 anni fa. Un altro incendio nello stesso residence-alveare, sei piani stipati di mini appartamenti affollato di stranieri che non possono permettersi altro. Tragedia annunciata in via Pieve di Cadore, nel cuore del quartiere Monte Mario.
Era la mattina del 25 agosto del 2001 quando persero la vita due persone. Ieri un uomo romeno è bruciato all’alba insieme al suo appartamento e altre tre persone sono rimaste gravemente ferite (tra cui un agente di polizia). In mezzo a queste due date pochi controlli e non efficaci, il silenzio di chi doveva controllare, l’identi-
ca disperazione di chi non fa tante domande e tanti problemi pur di avere un tetto sulla testa. L’emergenza abitativa della città che nessuno ha contrastato. Lo stesso brivido: poteva essere una strage. Ancora non si capiscono le cause di quello che è successo. Forse una bombola del gas. Per ricostruire l’accaduto i vigili del fuoco hanno attivato il Nucleo Investigazione Antincendio.
Residence Pordoi, un nome che evoca le altezze di una montagna. E in fondo qui siamo a Monte Mario, che sovrasta a nord la capitale. Costruito negli Anni 70 come convitto per studenti e poi trasformato in residence.«Abusivo» secondo la denuncia della circoscrizione nel 1991. E anche quando nel ’95 si indagò sui contratti capestro fatti firmare agli immigrati tutto finì in nulla.
127 loculi su sei piani, ballatoi-corridoio che uniscono le stanze, sbarre a porte e finestre. Come un carcere. Qui vive gente dello Sri Lanka, Bangladesh, Romania e Albania, italiani (anche 22 nuclei familiari in emergenza abitativa di cui si occupa una cooperativa per conto di Roma Capitale, ma nessuno di questi è stato coinvolto dall’incendio).
«Pago un affitto di 400 euro per 15 metri quadri. Non ho un contratto regolare, registrato. E non c’è alcuna sicurezza. Anche io ho la bombola del gas a casa ma la chiudo bene ogni notte», spiega Manoy, cingalese. «In questo palazzo non c’è il gas centralizzato». Shirley, filippina, paga 365 euro di affitto l’estate e 415 l’inverno». Ornella,romana, racconta: «Siamo in emergenza abitativa, io e il mio compagno. Abbiamo uno degli appartamenti più grandi ma lo svantaggio è che è senza aria, come una grotta».
Molti appartamenti sono gestiti da un’agenzia per il vecchio proprietario dell’immobile. L’assenza del gas centralizzato è riconducibile ai lavori effettuati per la realizzazione della galleria Giovanni XXIII. Chi ci abita dovrebbe utilizzare i fornelli elettrici, «perché c’è il divieto ad usare bombole a gas», spiega un ragazzo albanese. Cynthia, cingalese, piange davanti al palazzo. «Viviamo come topi, con la paura che possa accadere qualcosa di brutto. Sono stanze piccolissime ma è l’unico posto che possiamo permetterci senza andare fuori Roma».
Parla di «condizioni di vita al limite della dignità umana», Marta Bonafoni vice capogruppo di Per il Lazio al consiglio regionale. «Così ci raccontano dal XIV municipio». «Immigrati e italiani bisognosi (specie studenti), sono costretti spiega a vivere dentro loculi, specie di arnie dove il rischio tragedia è altissimo. A quanto ci risulta, il Residence è di proprietà di un privato che (dietro pagamento di affitto, naturalmente) ha acconsentito al sovraffollamento del locale. Una situazione che andrebbe avanti dagli Anni 70: il Municipio, infatti, sostiene che la questione si trova da tempo sotto la lente di ingrandimento delle istituzioni locali. E’ indispensabile intervenire per fare piena luce sulle condizioni di vita del Residence: una specie di buco nero in mezzo ai palazzi della “Roma bene”. Una vergogna».

Repubblica 25.1.14
L’anno giudiziario
La Cassazione lancia l’allarme carceri “L’unica soluzione ormai è l’indulto”
E pesa il ventennio berlusconiano: “La delegittimazione produce sfiducia”
di Liana Milella


ROMA — C’è il fantasma di Berlusconi nell’aula magna della Cassazione. C’è tutto il peso del “suo” ventennio giudiziario e dello scontro titanico con i magistrati. Al primo presidente della Suprema Corte Giorgio Santacroce basta una frase per fissare l’inedia dell’immobilismo, «non c’era uno spazio praticabile per vere opzioni riformatrici». Tutto si è fermato in una bolla, da una parte lui sempre furibondo contro le toghe (come oggi, del resto), dall’altra i magistrati arroccati in difesa. Nell’anno di grazia 2014 non resta che pesare le macerie e misurare l’entità del danno. Devastante, a sentire Santacroce. «La delegittimazione gratuita e faziosa, goccia dopo goccia, ha provocato una progressiva sfiducia nell’operato dei giudici e nel controllo di legalità loro demandato». Cita Einstein il primo magistrato d’Italia quando lo scienziato dice che «è più facile disintegrare un atomo che un pregiudizio». Vent’anni di invettive contro la magistratura hanno prodotto «una forte prevenzione» contro di essa. Addirittura al punto che «molte iniziative giudiziarie suscitano perplessità e discussione nell’uomo della strada che si chiede smarrito se, a parte le lungaggini dei processi, non ci sia qualcosa che non funzioni nel modo di amministrare la giustizia in Italia». Un danno epocale perché «non c’è società civile senza il presidio e il baluardo dell’ordine giudiziario».
Non fosse che per questa amara constatazione —che non arriva certo da uno di Magistratura democratica, ma da un moderato di Unicost, votato al Csm dalla destra della politica e delle toghe — ha ancora senso la formale e paludata cerimonia di apertura dell’anno giudiziario nel palazzaccio di piazza Cavour. Un rito «né inutile, né obsoleto» dice Santacroce. Stavolta tocca dargli ragione perché la fotografia della magistratura e della giustizia in Italia che ne esce dovrebbe preoccupare assai il palazzo della politica. A cominciare dalla richiesta più forte che arriva proprio da Santacroce. Un indulto. Che lui motiva così: «Nell’attesa di riforme di sistema sidovrebbe adottare un rimedio straordinario che consenta di ridurre con immediatezza il numero dei detenuti. Per ottenere questo risultato non c’è altra via che l’indulto». A prevenire le scontate obiezioni, Santacroce spiega che «esso non libera chi merita di essere liberato, ma scarcera chi non merita di stare in carcere ed essere trattato in modo inumano e degradante». Lo dice poco dopo le 11, davanti al presidente Napolitano, che sulla necessità di un gesto di clemenza, a ottobre aveva inviato il suo unico messaggio alle Camere. Quando la giornata sta per chiudersi risulta evidente dalle agenzie di stampa che il suo messaggio è un flop. Solo una mezza dozzina di politici ne parla. L’indulto,supportato da riforme che non lo trasformino solo in uno svuota-carceri che poi si riempiono a stretto giro come nel 2006, piace al Guardasigilli Anna Maria Cancellieri, ma non piace al vice presidente del Csm Michele Vietti che lo liquida con un «se ne può fare a meno». Il leghista Matteo Salvini minaccia su Fb: «Se voterete una roba simile non vi lasceremo respirare e occuperemo il Parlamento giorno e notte». D’accordo solo i Radicali e il Pd Manconi. Pure il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli è freddo perché «la storia recente dimostra che non ha mai risolto il problema delle carceri».
Tanto vale allora badare al resto. Visto che, per usare la battuta di Vietti, «troppo si è detto e poco si è fatto» sulla giustizia. Di chi è la colpa? Il procuratore generale Gianfranco Ciani accusa apertamente la politica, parla di un «vuoto», di una sua «debolezza» a fare le riforme. Non sono i magistrati ad aver fatto un passo troppo in avanti, e tantomeno ad agire con fini politici, è la politica che si è tirata indietro. La riprova sta nel lungo elenco delle emergenze. Al primo posto delle quali c’è, adesso e innanzitutto, la minaccia di morte di Riina contro il pm Di Matteo. Ciani chiede alle istituzioni «di farsene carico», con «una risposta unanime e della massima fermezza».
L’elenco delle emergenze è lungo. Proprio come ogni anno. In cima c’è la prescrizione, «la riforma delle riforme» la etichetta Santacroce. Cita le ripetute bacchettate dell’Ocse, che «deplora l’alta percentuale di delitti di corruzione dichiarati estinti». C’è ancora la mancanza del reato di tortura. C’è la mancata riforma del processo in contumacia (si va avanti se l’imputato sa che il giudizio è in corso). C’è soprattutto un intervento, anche costituzionale (articolo 111), sui ricorsi in Cassazione che invece dovrebbero essere rigidamente filtrati.
A compensare le critiche per l’immobilismo e i ritardi della politica, i magistrati si autocriticano. Sul tema dell’apparire e su quello del come fare giustizia. Santacroce: «Sentirsi sempre meno potere e sempre più servizio come vuole la Costituzione, abbandonare inammissibili protagonismi e comportamenti improntati a scarso equilibrio, assumere improprie missioni catartiche e fuorvianti smanie di bonifiche politiche e sociali». In una parola, «il magistrato deve essere umile», come raccomandava Piero Calamandrei. Il pg Ciani, il titolare dell’azione disciplinare, picchia sul «falso mito della popolarità» e raccomanda «di agire nel più assoluto riserbo, lontano dai riflettori». Certo non è casuale la citazione del giurista Giovanni Fiandaca: «La giustizia penale non ha per compito di processare la storia, ma giudica fatti ed esseri umani». Berlusconi ovviamente non c’è, ma questa considerazione gli piacerebbe di certo.

Corriere 25.1.14
Da Camilleri a Flores d’Arcais, appello per Tsipras presidente


Alexis Tsipras, leader del partito della sinistra radicale greca Syriza, candidato alla presidenza della Commissione europea. L’appello ha già riscosso oltre seimila adesioni dopo essere stato promosso nei giorni scorsi da Andrea Camilleri, Paolo Flores d’Arcais, Luciano Gallino, Marco Revelli, Barbara Spinelli e Guido Viale. L’idea è di impegnarsi per una lista autonoma della società civile alle elezioni europee del 25 maggio, che candidi Tsipras alla presidenza di Bruxelles. «Il suo Paese, la Grecia, — si legge nell’appello — è stato utilizzato come cavia durante la crisi ed è stato messo a terra: in quanto tale è nostro portabandiera. Tsipras ha detto che l’Europa, se vuol sopravvivere, deve cambiare fondamentalmente». Il testo si può firmare sul sito www.micromega.net

il Fatto 25.1.14
Investitura
Tutta la sinistra d’Europa nelle mani dell’arrabbiato greco
Tsipras, leader di Syriza, candidato alla presidenza della Commissione Ue
di Roberta Zunini


Con una lettera su carta intestata del partito, il leader della sinistra greca Syriza, il 38enne Alexis Tsipras, ha risposto positivamente agli intellettuali, giornalisti ed esponenti della società civile italiana che attraverso la rivista MicroMega, diretta da Paolo Floris d'Arcais, hanno lanciato un appello per la creazione di una lista che appoggi la sua candidatura alla presidenza della Commissione europea in vista delle scadenze del prossimo maggio. L'ultimo intervento, dopo quelli di Paolo Flores d'Arcais e di Barbara Spinelli, è stato firmato da Andrea Camilleri. Intervistato dal quotidiano Avgi, vicino a Syriza, lo scrittore ha appoggiato la formazione di una lista transnazionale per Tsipras “per celebrare di nuovo l'Europa unita... che non può continuare a vivere ricattata dal valore dell'euro”. Nella lettera, Alexis (come viene chiamato in patria) si dichiara onorato: “Volevo prima di tutto ringraziarvi per la fiducia verso di me e verso il Partito della Sinistra Europea proponendomi di mettermi in primo piano in una lista in Italia...
In Grecia, in Italia e nell’Europa del Sud in genere siamo testimoni di una crisi senza precedenti, che è stata imposta attraverso una dura austerità che ha fatto esplodere a livelli storici la disoccupazione, ha dissolto lo stato sociale e annullato i diritti politici, economici, sociali e sindacali conquistati”. Ha quindi citato la riflessione di Camilleri a proposito dell’Europa un tempo regno della creatività e dell’arte, e quella di Luciano Gallino sul colpo di stato realizzato da banchieri e governi. Tsipras però elenca 3 condizioni per non fallire: “La lista si costituisce dal basso, con l’iniziativa dei movimenti, degli intellettuali, della società civile”. Non si escluda nessuno: “Si devono chiamare a sostenerla innanzitutto i semplici cittadini, tutte le associazioni e le forze organizzate interessate”. Maggior impegno di ogni cittadino affinché “in queste elezioni si cambino gli equilibri a favore delle forze del lavoro, contro le forze del capitale e dei mercati... ”. E si congeda con saluti fraterni.

Repubblica 25.1.14
Sfida aperta fra generali e jihadisti addio alle speranze di piazza Tahrir
La primavera scippata prima dagli islamici e poi dall’esercito
di Bernardo Valli


GLI attentati del Cairo sono avvenuti alla vigilia dell’anniversario della rivoluzione di piazza Tahrir. Sono passati infatti tre anni dall’inizio della primavera egiziana cominciata il 25 gennaio 2011.
LE ESPLOSIONI sulle sponde del Nilo, con i morti e i feriti che hanno provocato, appaiono come il sinistro segnale annunciante la fine di quell’insurrezione pacifica, disarmata, senza ghigliottine e plotoni d’esecuzione. Per la verità era già stata ormai da tempo repressa e dispersa, anche se speranze e illusioni stentano a morire. Ad appassirla sono stati i numerosi inganni e tradimenti. La primavera araba, in Egitto e altrove (solo la Tunisia per ora si salva) è caduta in quella grande, micidiale trappola che è la guerra in seno all’Islam. Un conflitto di religione, come l’Europa ha conosciuto nella sua storia. Piazza Tahrir è stata una vampata di dignità e tolleranza laica sfuggita per un po’, non per molto, a quella tenzone. Là, in piazza Tahrir, si è manifestata l’aspirazione a vere riforme della società civile. È stato un sussulto represso a ondate, spesso nel sangue. È tuttavia la fine senza il silenzio rassegnato che segue una rivoluzione fallita, la tragica conclusione senza un ordine rigoroso, orgoglio della controrivoluzione vincente. La restaurazione in corso è dunque incerta, agitata, contestata.
Le forze armate dispongono di tutti i mezzi necessari per imporre la loro “democrazia”. Nessuno ne dubita. Hanno l’appoggio di larga parte della popolazione ansiosa di ritornare alla stabilità. Anche questo è evidente. Ma i militari onnipotenti non esercitano un’influenza sufficiente per rassicurare l’intero paese. Non possono tenerlo al guinzaglio. Ci sono tanti morti alle loro spalle, più di mille il solo 14 agosto scorso tra i sostenitori di Morsi, il presidente deposto il mese precedente, il 3luglio: e quindi i conti da regolare sono tanti, e tante sono le rivincite che si stanno tramando, e tante le collere da sfogare. I generali hanno sfidato, decimato, cercato di disperdere, la principale organizzazione che si oppone al loro potere, la confraternita dei Fratelli musulmani: ci sono in parte riusciti, e tuttavia le frange di quella congregazione con profonde radici nella popolazione sfuggono al controllo. Sfuggono all’ampia rete poliziesca, ai mukabarat, anche i movimenti laici, minoritari ed emarginati a suo tempo nelle elezioni dai Fratelli musulmani, ma adesso diventati spesso loro compagni nell’illegalità o nella clandestinità. La tensione creata dalla repressione mette inoltre in circolazione gruppi terroristici indipendenti, come i jihadisti che hanno rivendicato gli attentati del Cairo.
Il 25 gennaio 2011 dalla mia finestra vedevo la manifestazione come da un palco di prima fila. Le nuvole dei lacrimogeni invadevano la mia camera d’albergo; le grida dei giovani in fuga e dei poliziotti all’inseguimento mi raggiungevano ben distinte. Ma non ebbi l’impressione di assistere a una rivolta che avrebbe sconvolto il paese, e scosso l’intero mondo arabo. Non pensavo che quei giovani potessero trascinare la società civile inerte in un’insurrezione capace di cacciare dal potere Hosni Mubarak, da trent’anni raìs discusso ma inamovibile. I generali avrebbero messo fine a quella ricreazione. Mi sbagliavo, e tanti come me quel giorno non hanno saputo valutare gli avvenimenti che avevano sotto gli occhi. Sono bastate poche ore, pochi giorni, perché ci rendessimo conto che in piazza Tahrir non avevamo assistito soltanto a una manifestazione.
Benché dotati di ben altri strumenti, neppure i militari hanno saputo valutare tre anni dopo il risultato del referendum (14-15 gennaio) sulla nuova Costituzione. Doveva essere un plebiscito in favore del loro regime e soprattutto un invito al generale Abdel Fattah Al — Sisi, l’uomo forte del momento, a presentarsi come candidato alla presidenza della Repubblica. Sei mesi dopo la destituzione di Mohammed Morsi, il presidente islamista, l’esercito voleva una larga partecipazione al fine di dimostrare l’approvazione popolare di quello che i media occidentali chiamavano colpo di Stato, ed altresì della messa al bando dei Fratelli musulmani cacciati dal potere e accusati di terrorismo. Dunque un pre-voto per il generale Sisi, destinato allapiù alta carica dello Stato, e una legittimazione del nuovo regime.
L’esercito ha impegnato nell’operazione tutti i suoi mezzi di persuasione. Propaganda e repressione. Gli inviti a votare “si”, insieme al ritratto del generale Sisi, hanno tappezzato il Cairo. Giornali, radio, televisioni hanno martellato i cinquantatré milioni di elettori esortandoli a recarsi alle urne per dimostrare il loro patriottismo. E coloro che hanno osato, nelle settimane o nei giorni precedenti il referendum, predicare l’astensione sotto l’influenza clandestina dei Fratelli musulmani, o dei rari movimenti laici dissociatisi dall’azione dei militari, sono stati arrestati o dissuasi con maniere forti. Bambini in uniforme militare, con la mano sul cuore, hanno supplicato — dai teleschermi pubblici e privati — padri, madri e fratelli maggiori a dare quel “si” prezioso all’amato Egitto in pericolo. Seguivano immagini di attentati terroristici e di arresti dei colpevoli islamisti.
La pessima prova dei Fratelli musulmani al governo e le manifestazioni di simpatia rivolte algenerale Sisi hanno fatto pensare a una grande affluenza alle urne. Anche piazza Tahrir è stata strumentalizzata. Il ritratto del generale Sisi è stato esposto al centro, addobbato dei colori nazionali, e riverito come un leader carismatico, un giorno degno successore di Nasser, Sadat e Mubarak. Con quelle cerimonie i militari hanno cercato di impadronirsi della rivoluzione che avevano osteggiato: prima imponendosi al governo senza grande successo, poi portando al potere con le elezioni i Fratelli musulmani, estranei alla rivoluzione, e infine mettendo fuori legge questi ultimi, accusati di terrorismo, benché si fossero rivelati soltanto incapaci di gestire il paese.
Più del 97 % dei votanti si sono espressi in favore della nuova Costituzione. Una maggioranza impressionante di “si”. Troppo massiccia per non far nascere qualche sospetto. Il risultato sarebbe apparso eccessivo persino ai tempi dei rais. Ma i “si” contavano poco. L’affluenza era la vera prova del consenso popolare: e il quoziente annunciato non è stato esaltante: 36%, vale a dire un egiziano su tre è andato alle urne. Poco più del 32% registrato nel 2012, quando si trattava di approvare un’altra versione della Costituzione, durante la presidenza di Morsi. Ma meno del 41% al primo voto post-rivoluzionario del marzo 2011. Il generale Sisi sperava probabilmente in uno slancio popolare più generoso. Insomma il plebiscito è stato un po’ deludente. L’affluenza ha rivelato che gli umori dell’Egitto non sono quelli espressi sotto lo sguardo vigile dei militari. Scippata sia dai Fratelli Musulmani sia dai militari piazza Tahrir fa ancora sognare una parte dell’Egitto.

il Sole 25.1.14
Allarme a Pechino. Il rafforzamento dello yuan sta incrementando in modo anomalo i flussi di valuta estera
I capitali speculativi preoccupano la Cina
di Rita Fatiguso


PECHINO. C'è uno spauracchio che agita il sonno dei vertici cinesi, più della crescita del Pil inchiodata al 7,7, più della voragine del debito degli enti locali che sta erodendo il sistema creditizio, inclusi giganti come Icbc e China Trust.
È l'andamento della bilancia dei pagamenti o, meglio, la presenza sempre più evidente di anomalie nell'inflow di hot money. Anomalie così gravi da far pensare all'introduzione in Cina della Tobin Tax: l'ha ventilato il vice governatore della Banca centrale a inizio anno, Yi Gang, che è anche capo di Safe (State administration of Foreign Exchange), in un articolo su Qiushi, rivista del Partito comunista, l'ha ribadito ieri Guan Tao, che di Safe è il responsabile del Dipartimento della bilancia dei pagamenti, in un briefing allo State Council, rigorosamente in cinese.
Anomalie destinate ad acutizzarsi con il temuto tapering degli Usa che mette ancor più a rischio la volatilità dello yuan, un tema che è rimbalzato tra i gruppi di lavoro del World economic forum di Pechino, con le dichiarazioni di Liu Mingkang, ex presidente della China Banking Regulatory Commission, secondo cui «il taglio alle misure di stimolo creerà una volatilità enorme».
In conferenza Guan Tao ha detto che «la Cina non ha visto alcun impatto sostanziale sui flussi transfrontalieri di capitali, finora, e ha la capacità di resistere a qualsiasi urto possibile in futuro, date le sue ampie riserve valutarie». Tanto ampie, da poter essere il vero problema: le riserve della nazione hanno toccato la cifra record di 3.820 miliardi dollari a fine dicembre. Quelle in valuta estera hanno toccato il record di 508 miliardi di dollari nel 2013, indicando il fiume di denaro affluito in Cina a fronte di movimenti di merci e investimenti. Perfino il National bureau of statistic lunedì scorso quando ha rivelato i numeri dell'andamento cinese del 2013 ha dovuto rispondere alle domande sui picchi sospetti di maggio e novembre: crescita anomala dell'import-export presumibilmente gonfiato per permettere i movimenti di valuta estera.
Per non parlare dell'effetto yuan, l'oscillazione può divergere al massimo del'1% contro il dollaro, il fixing è gestito dalla Banca centrale, ma nel 2013 la moneta di Pechino si è apprezzata del 2,9%, funzionando da potente calamita per i capitali speculativi.
La moneta di Pechino, pur essendo non convertibile - il Terzo Plenum ha deciso che lo sarà entro il 2020 - è diventata, negli ultimi mesi, l'ottava moneta più scambiata al mondo. Il commercio globale in yuan ha raggiunto quota 764 miliardi di dollari, + 57% rispetto al 2012.
C'è qualcosa che non funziona e nemmeno Guan Tao può ingnorarlo quando ammette la pressione sul fronte cross border. Per questo la Cina sta meditando misure drastiche, tra cui il prelievo sulle operazioni in valuta estera una tantum, proprio per frenare i flussi speculativi di capitale.
Le cifre diffuse ieri da Safe rivelano che gli afflussi netti di valuta estera da scambi e degli investimenti continueranno ad affrontare una continua pressione anche nel 2014, mettendo a segno continui surplus. La Cina ha accumulato un surplus di 138,8 miliardi dollari sul versante bilancia commerciale e un surplus di 199,2 miliardi dollari in conto capitale nei primi nove mesi dello scorso anno.
Il temuto tapering di Washington potrebbe rappresentare un ulteriore problema.
Il National bureau of statistic ha detto di aver attivato la presenza di un meccanismo capillare per monitorare online l'attività delle aziende, perché «l'apertura dei mercati non vuol dire - ha detto ieri Guan Tao - che non ci saranno controlli».
Ma la vera domanda che la Cina si pone è: ci si può gettare in mare aperto con la garanzia matematica di aver salva la vita?

Corriere 25.1.14
La provocazione di Barbour
«Il tempo? Non esiste»
di Matteo Persivale


Il professor Julian Barbour ha i modi pacati, il maglione sportivo e il sorriso timido da gentleman della campagna inglese, ma nella sua fattoria poco lontano da Oxford — l’università dove insegna — il fisico 76enne passa la maggior parte del tempo a pensare a un problema che affascina i filosofi — ancor più degli scienziati — dall’antichità: il tempo. La conclusione del prof. Barbour, resa popolare dal suo libro La fine del tempo. La rivoluzione fisica prossima ventura (Einaudi) è oggetto di vivace discussione da parte dei colleghi, è che il tempo non esiste. O meglio, che il tempo non scorre, composto com’è da una sequenza di istanti (l’«adesso») che noi ordiniamo in una sequenza comprensibile e che chiamiamo «tempo». Un dibattito filosofico — prima ancora che scientifico — che la cultura occidentale porta con sé, senza soluzione — almeno finché fisica quantistica e teoria della relatività non verranno finalmente armonizzate — dai tempi di Parmenide, V secolo prima di Cristo. Non c’è bisogno di sottoscrivere la teoria del professor Barbour per concludere che, paradossalmente, gli orologi come strumento di misurazione della nostra illusione — di qualcosa che non esiste — diventano ancora più importanti. Almeno da quando la tecnologia ci ha mostrato che un orologio al quarzo in omaggio con il fustino del detersivo è più preciso del più elegante orologio meccanico, e da quando tutti noi portiamo in tasca un telefono con incorporato un orologio altrettanto preciso, quello che portiamo al polso è un accessorio, un ricordo di una persona alla quale vogliamo bene, uno — è una brutta parola — status symbol. Tante cose, tutte distinte dal segnare il tempo. Perché come diceva un altro grande scienziato, Richard Feynman, «il tempo è la cosa che succede quando non succede nient’altro».

l’Unità 25.1.14
Memoria e memorie
di Moni Ovadia


UN PAIO D’ANNI FA FUI INVITATO DALL’ASSOCIAZIONE BENE RUWANDA A PARTECIPARE AD UNA GIORNATA DI MEMORIA DEL GENOCIDIO DEL POPOLO TUTSI, nel ricorrere del suo anniversario. In quell’occasione ebbi modo di incontrare la signora Yolande Mukagasana, testimone del genocidio del suo popolo, militante della Memoria e candidata al Premio Nobel per la Pace.
Yolande nel genocidio ha perduto marito e figli, lei stessa si è salvata miracolosamente grazie all’aiuto di una donna Hutu. Incontrandola, rimasi profondamente impressionato dalla luce intensa del suo volto e dalle sue parole pacate e ferme nell’esprimere il dolore per l’ignobile opera di negazionismo che è stata avviata anche nei confronti del genocidio dei Tutsi.
Ebbene sì! Puo suonare incredibile ma il negazionismo non è rivolto solo contro il martirio gli ebrei, ma anche contro altre vittime di stermini. Mentre parlavo con Yolande Mukagasana, un singolare dettaglio mi colpì, il fatto che lei portasse al collo, come ciondolo, una vistosa stella di Davide. Vincendo il riserbo le chiesi perché indossasse quella stella e lei mi rispose: «Noi dobbiamo fare come gli ebrei!».
Evidentemente Yolande si riferiva al Senso della Memoria che ha permesso al popolo ebraico di non soccombere alla violenza, all’annientamento e all’oblio, ma di rispondere alle tenebre dell’odio con una cultura di conoscenza e di vita.
Per uscire da un equivoco molto diffuso, ovvero che l’istituzione del Giorno della Memoria sia ad usum degli ebrei, è bene chiarire con fermezza che non è così! Lo specifico ebraico della memoria vive nelle sinagoghe e nelle case di studio. La teoria e la Pratica della Memoria ebraica nascono 3500 anni fa in occasione del primo scampato sterminio progettato nel deserto del Sinai dal re Amalek, il progenitore di tutti gli antisemiti irriducibili.
A seguito di quell’evento viene consegnato ai b’nei israel, i figli di Israel, il monito «yizkhor!», (ricorderai!). Questa e la ragione del suo carattere originale ed irrinunciabile, 3500 anni di pensiero.
Il Giorno della Memoria deve servire all’Europa che, in misura maggiore o minore, ha nutrito e accolto nelle proprie fibre intime carnefici, collaborazionisti, delatori zone grigie ed indifferenti, deve indurre a riflettere criticamente pro bono della qualità del presente e del futuro sollecitando a porsi la grande domanda che non è «perché abbiamo fatto questo agli ebrei, ai rom, ai menomati, agli omosessuali, agli slavi, agli anti fascisti, ai testimoni di Geova», bensì «perché abbiamo fatto questo a noi stessi? Come abbiamo potuto ridurci a questo infame degrado?».
Quanto agli ebrei devono capire che la memoria della Shoah non deve garantire primazie, ma deve illuminare tutti i genocidi e gli stermini, quelli di prima e quelli di dopo e portarli in primo piano, non relegarli sullo sfondo, inoltre bisogna capire che ogni uso strumentale, propagandistico, bassamente retorico della Shoah è il miglior modo per destituirla di verità e di universalità.

La Stampa 25.1.14
Troppa simpatia per quel rabbino collaborazionista
Quell’ebreo “ingiusto” complice dei carnefici
di Marco Belpoliti


Sono passati quasi trent’anni dall’uscita di Shoah, il film di Claude Lan-
zmann che ha modificato la nostra percezione dello sterminio ebraico, mettendo in primo piano le vittime, i sopravissuti di quell’evento. Ora il regista francese si presenta con un lungometraggio, L’ultimo degli ingiusti.
Il film pone al centro della scena Benjamin Murmelstein, l’ultimo Decano di Theresienstadt, un uomo che Primo Levi avrebbe posto nella zona grigia, tra le vittime che collaborarono con i carnefici, come il suo analogo, il Decano di Lodz, Rumkowski, cui ha dedicato pagine memorabili in I sommersi e i salvati. Perché? Cos’è accaduto?
Sono la prima e l’ultima scena a definire il senso del film. Il regista francese, ottantenne, è sulla banchina della stazione di Bohusovice, la fermata di Theresienstadt, il ghetto-vetrina del nazismo, mostrato a tutto il mondo negli anni Quaranta del XX secolo quale esempio positivo di ciò che il Terzo Reich faceva agli ebrei. Legge un testo. Nell’ultima sequenza, girata quarant’anni fa nel 1975, Lanzmann è a Roma, davanti all’Arco di Tito, in compagnia di Benjamin Murmelstein, capo del Consiglio ebraico. Camminano insieme. Dopo aver parlato per un’ora e mezzo con voce stentorea e foga impressionante, l’unico testimone della deportazione, vista dal punto di vista di chi mediava con i tedeschi e dirigeva il ghetto, sopravvissuto al gas, al processo in Cecoslovacchia, in esilio a Roma da trent’anni, persona non gradita in Israele, prende sottobraccio il regista. Lanzmann gli passa una mano sulla spalla.
In Shoah la figura di Murmelstein era stata omessa. Il Decano, personaggio discusso e discutibile, è morto da un pezzo. Ma ora è come resuscitato usando il vecchio materiale. Sono trascorsi quarant’anni da quell’incontro, e trenta dall’uscita di Shoah. È mutata l’idea di memoria. Murmelstein, finita la guerra, era un uomo che, come disse Gershom Scholem, gli ebrei in Israele avrebbero volentieri impiccato per collaborazionismo. Adesso è invece un testimone. Non un giusto, come Levi o Wiesel, ma, come dice di sé, un «ingiusto». Definizione perfetta: uno che ha tenuto in piedi il ghetto di Theresienstadt, perché così salvava se stesso (e insieme migliaia di ebrei).
Nel film appare un uomo affascinante, duro, cinico, sarcastico. Lanzmann a tratti appare perplesso. Gli chiede: perché lei è scampato? Lui risponde: perché ero come Scheherazade, perché continuavo a raccontare una storia per non morire. Murmelstein, si capisce dai gesti e dalla voce, non si faceva scrupoli per continuare a mantenere aperto il ghetto. Non s’opponeva ai trasporti verso le camere a gas. Non poteva, certo. Come la narratrice delle Mille e una notte, aveva un solo scopo: evitare l’esecuzione. Lanzmann gli chiede: e il suo rapporto
Primo Levi lo avrebbe messo nella «zona grigia», Lanzmann ne è rimasto affascinato
con il potere? Il Decano risponde: ma quale potere, io avevo il potere di chi non ha potere. Ma poi ammette: a chi non piace il potere? Appare il nome di Rumkowski, il folle re del ghetto di Lodt, che emetteva francobolli con il suo ritratto e anche monete. Murmelstein rigetta il paragone. Più avanti Lanzmann torna alla carica, ma senza incalzarlo fino in fondo. Parla del film girato dai nazisti nel ghetto, dove si vedono bambini cui viene servito il pane coi guanti bianchi. Commenta: una follia! Murmelstein non reagisce. Per lui conta il risultato: i nazisti non hanno liquidato il ghetto. Ci sono stati treni da lì diretti ad Auschwitz, ma alla fine lui e gli altri rimasti si sono salvi. L’ebreo esiliato a Roma piace al regista. L’ha sedotto.
Nel 1985 questo ritratto non era mostrabile. Non si poteva. Ancora troppe polemiche: la responsabilità dei capi ebraici nello sterminio, il negazionismo, la discussione intorno alla «banalità del male» di Hannah Arendt. E poi soprattutto un’altra idea della memoria. L’epicità tragica di Shoah. Contro la filosofa ebrea Murmelstein fa un affondo: Eichmann banale? Io l’ho conosciuto: un demonio! Chissà se ha letto davvero il libro della Arendt? Certo lo fraintende.

La Stampa 25.1.14
Claude Lanzmann
“Ecco perché riabilito il rabbino collaborazionista”
Intervista al regista di “Shoah” che in “L’ultimo degli ingiusti” incontra il capo del “ghetto modello” di Theresienstadt accusato dagli ebrei di aver aiutato i nazisti
di Fulvia Caprara


PARIGI Nell’hotel parigino a due passi da Place Vendôme dove i divi del cinema francese entrano ed escono dalle stanze delle interviste come in una pochade, l’apparizione di Claude Lanzmann, classe 1925, organizzatore della Resistenza francese, intellettuale, cineasta, giornalista amico di Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, ha un impatto sacrale. Il tono delle voci si abbassa, chi è in piedi si accosta al muro per fare spazio, chi sta facendo qualcosa si blocca. Severo, diretto, imperativo, l’autore di Shoah, la pellicola lunga 10 ore e 13 minuti che l’ha impegnato a tempo pieno per 12 anni, evento fondamentale nella ricostruzione della storia dell’Olocausto, evita il tono ieratico da grande vecchio e, più che alle domande rispettose, è interessato al confronto e alla provocazione: «La moda di oggi impone di comportarsi come se la morte non esistesse, io, invece, sono convinto che esista e che, alla fine, sia lei a vincere».
Corpo a corpo con la morte
Il corpo a corpo riguarda tutti e ognuno, sembra dire Lanzmann, fa la sua parte, compreso Benjamin Murmelstein, ultimo capo del Consiglio Ebraico del ghetto di Theresienstadt, l’unico ad aver vinto quel match uscendo vivo dall’inferno: «Murmelstein fu nominato decano nel 1944, era un uomo di bellissimo aspetto e dalla mente brillante, il più capace fra i decani e forse il più coraggioso... Nonostante fosse riuscito a tenere aperto il ghetto fino agli ultimi giorni della guerra e avesse salvato la popolazione dalle marce della morte ordinate da Hitler, su di lui si concentrò l’odio di una parte dei sopravvissuti». Sebbene in possesso di un passaporto diplomatico della Croce Rossa, Murmelstein non si diede alla fuga, fu arrestato e imprigionato dalle autorità ceche dopo che alcuni ebrei lo avevano accusato di collaborare con il nemico, rimase in galera per 18 mesi e ne uscì prosciolto da tutte le imputazioni. Alla sua «testimonianza preziosa», al suo ruolo apparentemente contraddittorio, alla sua complessa figura umana, Lanzmann ha dedicato Le dernier des injustes L’ultimo degli ingiusti, da domani nelle sale italiane: «Non ho fatto questo film per le giovani generazioni, dentro c’è qualcosa di molto più complicato di un disegno educativo. Girarlo è servito ad apprendere, nei dettagli, cose che ignoravamo sul senso più profondo con cui i nazisti praticavano la corruzione. Posso dire che comprendiamo il significato della soluzione finale più in questo film che in Shoah».
Il faccia a faccia, a Roma, tra Murmelstein e Lanzmann, risale al 1975: «L’ho incontrato prima di iniziare Shoah, sono stato con lui una settimana, passeggiando per la città e girando chilometri di pellicola, ma non sapevo ancora bene cosa fare di quel materiale...». Per Shoah non andava bene perchè «quello è un film epico, attraversato, dall’inizio alla fine, dal senso di una tragedia immane», eppure l’intervista a Murmelstein, con tutti i suoi interrogativi aperti, andava ripresa e approfondita. Nel 2012 Lanzmann torna a Theresiestadt, un «luogo sinistro», a 60 km da Praga, recupera il vecchio colloquio e analizza la storia della città «che Hitler regalò
agli ebrei», in realtà il luogo della grande menzogna, quello dove vennero deportate le ultime figure di spicco della cultura ebraica, prima dell’esecuzione, più lontano, a Est: «I veri collaborazionisti, coloro che abbracciarono l’ideologia nazista, come ad esempio i collaborazionisti francesi, non esistevano tra gli ebrei, tranne forse a Varsavia, dove c’era il gruppo dei “Tredici”...».Dopo ore di brillante conversazione, racconta il regista, Murmelstein ammise: «Non ci rendevamo conto di quello che stava succedendo, non ci pensavamo».
Contro la Arendt
Chi invece sapeva tutto, e bene, era Adolf Eichmann, che incaricò Murmelstein di organizzare l’emigrazione forzata degli ebrei austriaci, dall’estate del ’38 fino allo scoppio della guerra. Il capovolgimento della teoria della filosofa Hannah Arendt sulla «banalità del male» è uno dei punti a cui Lanzmann tiene di più: «Quello di Eichmann fu un processo sommario, basato sull’ignoranza. Non fu nemmeno dimostrata la sua diretta partecipazione alla Notte dei Cristalli... La Arendt sputò ogni genere di assurdità su questo argomento..». Il protagonista del film, l’ultimo degli ingiusti, «combattè con tutte le sue forze, fino alla fine, contro gli assassini. Come ha detto lui stesso, i nazisti volevano fare di lui un burattinaio, ma il burattinaio aveva imparato a muoversi i fili da solo». Alla fine, grazie al suo impegno, oltre 123mila ebrei riuscirono a mettersi in salvo. A Cannes, dove il film ha avuto la sua anteprima trionfale, Lanzmann ha incontrato il presidente di giuria Steven Spielberg, di cui aveva a suo tempo criticato Schindler’s list: «Abbiamo pranzato insieme e siamo diventati amici, ha visto L’ultimo degli ingiusti e mi ha scritto che era stata una rivelazione».

La Stampa 25.1.14
Margarethe Von Trotta
“Hannah Arendt la forza del pensiero”
di Simonetta Robiony


ROMA Margarethe Von Trotta comincia raccontando quanto le sarebbe dispiaciuto se il suo ultimo film, quello sulla filosofa Hannah Arendt, non fosse uscito in Italia, dopo esser stato distribuito in mezzo mondo, aver vinto in Giappone il premio come migliore opera 2013, esser finito ai primi posti nella classifica del New York Times. «L’Italia è il mio Paese preferito - dice la VonTrotta - per il suo cinema e per l’aiuto alla mia carriera ottenuto con il Leone d’ oro per Anni di piombo, a Venezia». Hannah Arendt ce l’ha fatta, sia pure in maniera anomala: esce con la Ripley’s per la Giornata della Memoria, il 27 e il 28. «Ho impiegato oltre otto anni a realizzarlo perché non era facile portare sullo schermo un dibattito di idee, ma la Arendt meritava lo sforzo. Il suo libro La banalità del male assume col tempo sempre maggiore importanza mentre le polemiche si fanno più sfumate».
Girato benissimo in lingua inglese e tedesca, interpretato da Barbara Sukova, il film trascina e affascina. La storia scritta dalla Von Trotta con la sceneggiatrice Pam Katz si concentra su quattro anni della vita della Arendt, dal 1961 al 1964, quando ottiene dal New Yorker di andare a Gerusalemme a seguire il processo a Adolf Eichmann, criminale di guerra nazista catturato dagli israeliani. Partita da New York con l’obiettivo di scrivere un semplice reportage la Arendt si trovò a comporre un saggio filosofico, il famoso La banalità del male che le provocò accuse, inimicizie, sospetti, soprattutto da parte degli altri ebrei. Due i punti più controversi della sua tesi. Il primo: non è vero che per compiere il male assoluto quale è stata la shoah sia necessario essere mostri: Eichmann era un ometto insignificante. Il secondo: non è vero che gli ebrei si opposero in ogni modo alla Shoah: alcuni dei loro capi, ritenendo di proteggere i loro compagni, scesero a compromessi che peggiorarono la situazione. «Il punto è che la Arendt aveva capito quanto fosse importante per l’uomo pensare con la propria testa dice la Von Trotta -. Il pensiero è l’atto che ci distingue e lei questo diritto al pensiero lo ha difeso in ogni modo, fino a essere considerata arrogante, presuntuosa, aristocratica e perciò lontana dalla sua gente».

il Fatto 25.1.14
Il giorno della Memoria
L’“altra” Shoah la devastazione del popolo rom
500 mila le vittime Sinti del III Reich
Come per ogni ritualizzazione si corre il rischio della museificazione e della falsa coscienza
Ricordare l’Olocausto non può esser alibi per dimenticarsi degli altri
di Moni Ovadia e Marco Rovelli


Il Giorno della Memoria è stato istituito nel giorno in cui 69 anni fa i soldati dell'Armata Rossa abbatterono i cancelli del lager di Auschwitz e vi entrarono rivelandone l'orrore. E sacrosanto è stato aver stabilito un giorno in cui ricordare quell'abisso incancellabile. Ma, come per ogni ritualizzazione, quella ferita sanguinante si scontra con il rischio della museificazione da una parte e della falsa coscienza dall'altra.
Le attività e le manifestazioni di questa Giornata riguardano in maniera soverchiante la Shoah, ovvero lo sterminio degli ebrei, al punto da oscurare quasi gli eccidi e le sofferenze subìte dalle altre vittime della ferocia nazista: i rom, gli omosessuali, i menomati, gli antifascisti a vario titolo, i testimoni di Geova, gli slavi, i militari italiani che rifiutarono di servire il governo fantoccio di Salò.
NESSUN POLITICO AD AUSCHWITZ HA MAI DETTO: “MI SENTO ROM”
Ricordare l'unicità della Shoah non può essere l'alibi per dimenticarsi degli altri. I rom, in particolare, sono stati per lunghissimo tempo misconosciuti nel loro status di vittime: e se oggi non c'è quasi un politico occidentale che non voglia mostrarsi amico degli ebrei e soprattutto degli israeliani, quasi nessuno di essi è disposto a identificarsi con i rom. Nessuno dei rappresentanti politici dei paesi occidentali ha il coraggio di uscire da una visita al lager di Auschwitz dichiarando: “Mi sento rom”; molti, però, si affrettano ad affermare: “Mi sento israeliano”. Ora sia chiaro, nessuno vuole ignorare o sottovalutare lo specifico antisemita del nazifascismo e sminuire l'immane dimensione della Shoah. Ciò che è inaccettabile è il deliberato sottacere delle sofferenze dei rom e dei sinti anch'essi destinati al genocidio. È intollerabile che si discrimini fra le sofferenze di esseri umani che subirono la stessa tragica sorte. I rom sono vittime secolari dell'occultamento della loro identità e della loro memoria, oltre che essere vittime di un'antichissima persecuzione. Essi non hanno terra, non hanno un governo potente che parli per loro, sono tuttora gli “zingari” reietti: perché mai dunque riconoscere piena dignità alle loro inenarrabili sofferenze? La cultura orale dei rom, del resto, diversamente dalla cultura ebraica fondata sulla Scrittura, ha facilitato il compito della dimenticanza: non c'è stato che un soffio di vento, niente più che questo, nulla che sia conservato e degno di conservazione. Solo con fatica si è imposto il nome dello sterminio nazista dei rom: Porrajmos. Il merito di questo va al grande intellettuale rom inglese Ian Hancock, linguista e fra le altre cose rappresentante del popolo rom presso le Nazioni Unite. Il termine “Porrajmos”, nella lingua di alcuni romanì, “devastazione”. Ma la lingua romanes ha molte articolazioni, corrispondenti alla disseminazione dei suoi numerosissimi gruppi e sottogruppi: perciò capita che un significante abbia significati diversi per diversi rom. Da Jovica Jovic, grande fisarmonicista rom serbo, abbiamo appreso che quel termine, nel “suo” romanes, ha un significato sessuale osceno. Così per Jovica quel termine è inusabile, e offensivo: impossibile per lui ricordare i suoi zii morti ad Auschwitz con quel termine. Una vicenda paradossale, questa, direttamente legata alla dispersione e alla secolare marginalizzazione e inferiorizzazione dei rom.
Per rispetto nei confronti dei rom come Jovica crediamo dunque che dovremmo cominciare a trovare un altro termine, che non sia l'ennesimo affronto alla memoria proprio là dove la memoria dovrebbe essere sacralizzata e conservata.
Samudaripen è il termine alternativo che molti rom propongono: significa “tutti morti”, e non ha implicazioni imbarazzanti per nessuno. Per domani le associazioni 21 luglio e Sucar Drom hanno organizzato un convegno a Roma intitolato proprio Samudaripen: può essere un buon inizio, per avere finalmente un nome, e un nome giusto, per l'Orrore dimenticato.

Repubblica 25.1.14
Carnefice e padre modello, ecco i segreti di Himmler
Scoop della “Welt”: ritrovate centinaia di lettere del capo delle SS. Erano in una cassaforte di una banca a Tel Aviv
di Andrea Targuini


BERLINO «Saluti dal tuo Heini, Marga», oppure «saluti e bacini alla bambolina di papino». Così, come un normale, banale padre di famiglia, Heinrich Himmler scriveva alla moglie e alla figlia prediletta. Ma in missive precedenti alla consorte sfogava spesso il suo odio violento per gli ebrei, «radice di tutti i mali della patria, da eliminare tutti». Per sessantanove anni, dal suo suicidio a oggi, di quell’epistolario privato, una mole enorme di lettere tra lui e la famiglia, si era persa ogni traccia. Adesso le lettere dimenticate di Himmler sono riemerse come dal nulla, a casa di un vecchio israeliano discendente di sopravvissuti alla Shoah, e ora sono custodite nelle casseforti di una banca a Tel Aviv. È lo scoop di Die Welt.
Centinaia di lettere e cartoline scritte di suo pugno o dalla moglie, foto che lui inviava a lei dalle ispezioni delle truppe delle Waffen-SS o dalle visite nei campi della morte, persino il lascito del figlio adottivo.Die Weltha trovato una mole enorme di materiale. Il ricordo dell’orrore riemerge da quelle vecchie pagine e cartoline ingiallite, e dalle foto in bianco e nero che scattava con la Leica. Una mole enorme di oggetti sopravvissuti al tempo e dimenticati per decenni. Adesso, proprio mentre si avvicina la Giornata della memoria, ci conducono nel privato e del quotidiano di uno dei massimi gerarchi del Terzo Reich.
Lettere, cartoline, foto di famiglia o scattate durante il “lavoro”: dal 1927 al 1945 — dai primi anni di matrimonio fino a quando egli, catturato dai G. I. americani travestito da soldato semplice, si uccise con una capsula di cianuro avendo capito che stava per essere scoperto — ilcapo delle SS, dell’Ufficio Centrale per la sicurezza del Reich e della Gestapo, gestore supremo dell’Olocausto narra ogni aspetto di sé. Emerge, evocando Hannah Arendt, la “banalità del male”. Ecco la cartolina scritta alla figlia il 15 maggio 1944, tre settimane prima dello sbarco alleato in Normandia. O le lettere in cui rassicurava Marga sul futuro, o foto di lui in ispezione nel-l’Est occupato, nei campi di sterminio a bordo di una Mercedes scoperta, col casco in cuoio da automobilista sportivo. È tutto materiale autentico, ha assicurato Michael Hollmann, presidente del Bundesarchiv, l’archivio federale che è l’istituzione responsabile di tutti gli scritti lasciati dai capi della tirannide. E le lettere di Himmler riscoperte sono al momento il più importante documento privato di uno dei massimi gerarchi: di Hitler, del capo della Luftwaffe e numero due ufficiale Hermann Goering, di Martin Bormann non resta nulla. Solo Joseph Goebbels lasciò una marea di scritti, ma tutti discorsi e materiale di propaganda dell’odio.
Diversamente da Goebbels, la cui moglie Magda era quasi la first lady del Reich, o da Goering che celebrò nozze quasi hollywoodiane con l’attrice Emmy Sonnemann, Himmler tenne la famiglia lontana dalle luci della ribalta. Ebbe anche lui un lungo flirt con la segretaria, ma non trascurò mai la moglie. Cui narrava l’importanza della “soluzione finale”, e spiegava fino all’ultimo la sua fede nella vittoria finale. In un capolavoro maligno di doppiezza, continuava a giurarci nelle lettere anche mentre in segreto offriva agli angloamericani una pace separata con o senza Hitler, tentando di salvarsi dalla resa dei conti con la Storia. Le lettere non ci offrono nuove scoperte, ma il loro valore di testimonianza diretta del massimo esecutore della Shoah è agghiacciante.

il Fatto 25.1.14
Giorno della Memoria
I danesi che dissero no


IL POPOLO CHE DISSE NO, Bo Lidegaard, Garzanti pagg. 341 © € 28

CI SI POTEVA ribellare alla follia dello sterminio del popolo ebraico, organizzato con chirurgica determinazione e altrettanta precisione dai nazisti? La storia del Novecento italiano porta l’atroce ferita delle leggi razziali: ma è un vulnus che abbiamo rimosso dalla coscienza collettiva con un maquillage frettoloso, immediatamente dopo la fine della guerra. Il giornalista Bo Lidegaard, con “ Il popolo che disse n o”, ci ricorda la storia del suo Paese, la Danimarca, occupata da Hitler “pacificamente” (il re e il governo rimasero in carica) dalla primavera del 1940. Quando nel ‘43 cominciò a diffondersi la notizia di un rastrellamento degli ebrei danesi scattò, immediata, un’o p e ra - zione di solidarietà: per due settimane gli ebrei vennero nascosti e aiutati da cittadini comuni. Il bilancio è questo: su 7000 ebrei, 6500 riescono a salvarsi dai dalla deportazione raggiungendo la Svezia. Dunque ecco la risposta: opporsi era possibile.
SiT

Corriere 25.1.14
Legge sul negazionismo: tutti i dubbi degli storici
di Antonio Carioti


Il termine «negazionista» viene usato per designare chi sostiene che non sarebbero mai esistite le camere a gas nei lager nazisti. Leggi che puniscono simili mistificatori (a volte anche in riferimento ad altri genocidi, come quello degli armeni) esistono in una ventina di Paesi, tra cui Francia, Germania, Polonia, Austria, Israele, Argentina, Svizzera, Belgio. Ma il progetto di legge n. 54 del Senato, che l’aula di palazzo Madama ha inserito nel calendario dei lavori la prossima settimana, è assai più ambizioso: prevede la reclusione fino a tre anni per chi neghi o minimizzi crimini di guerra o contro l’umanità come definiti dallo statuto della Corte penale internazionale dell’Aia. Un perimetro molto ampio, che pone vari problemi. Tant’è vero che la Società degli storici contemporaneisti (Sissco) e tre centri di ricerca (Istituto per la storia del movimento di Liberazione, Fondazione Basso e Istituto Sturzo) hanno chiesto di evitare un’approvazione affrettata, domandando un incontro al presidente del Senato, Pietro Grasso, per illustrare gli aspetti «inutili, inapplicabili e dannosi» del disegno di legge. Gli studiosi affermano che la verità storica non può essere «sottoposta a decisioni politiche» e che il negazionismo va combattuto sul piano culturale e sociale, non per via giudiziaria. Il rischio, sostengono, è dare visibilità «proprio alle posizioni che si vorrebbero contrastare». Anche tra i politici, del resto, le perplessità non mancano. Il senatore Carlo Giovanardi, del Nuovo centrodestra, teme che si affidi alla Corte dell’Aia il compito di stabilire una verità assoluta su molti fatti controversi (le denunce per crimini di guerra sono migliaia), mettendo al bando ogni «lettura diversa» degli avvenimenti. Perciò Giovanardi insiste per limitare la portata della norma alla sola Shoah: un’ipotesi condivisa dal senatore di Forza Italia, Lucio Malan, che pure ha chiesto che il progetto andasse in calendario. «Nel dibattito in aula — sostiene Malan — il testo potrà essere cambiato per circoscrivere i fatti la cui negazione diventa reato. Anch’io ho proposto emendamenti in tal senso. Ma è importante che si giunga presto all’approvazione. Chi dichiara che l’Olocausto non è avvenuto è di fatto complice delle SS, poiché nascondere lo sterminio era appunto uno dei loro scopi». Sottolinea l’esigenza di fare in fretta anche la senatrice Silvana Amati del Partito democratico, prima firmataria della proposta: «Non ho nulla in contrario a modificare il testo per evitare gli inconvenienti temuti da Giovanardi, ma mi pare che gli storici sottovalutino il pericolo dell’antisemitismo montante, al quale bisogna opporsi con fermezza». Condivide la preoccupazione Liliana Picciotto, studiosa della Shoah: «Non so quale possa essere la soluzione giuridica, ma penso che sia utile dare un segnale politico per contrastare comportamenti che minano le basi della nostra coscienza collettiva» (nella foto Afp una manifestazione di armeni in memoria del genocidio ).

Repubblica 25.1.14
La legge sul negazionismo che inquieta gli storici
Torna al Senato il ddl secondo cui è reato “cancellare” la Shoah. Ma è già polemica
di Roberto Brunelli


Alla fine, la domanda è semplice: chi nega l’orrore della Shoah può essere perseguito dalla legge? Oppure, per estensione: la verità storica può essere determinata dal codice penale? Ovviamente non è un caso che il dibattito torni d’attualità a pochi giorni dal Giorno della Memoria (che cade dopodomani, il 27 gennaio), ridestando di colpo la politica italiana sui temi dell’Olocausto: fatto sta che ieri l’altro l’aula del Senato ha “iscritto d’urgenza” nel calendario dei suoi lavori il ddl 54 («contrasto e repressione dei crimini di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra», prima firma Silvana Amati del Pd), che torna a prevedere l’introduzione nel codice penale del reato di negazionismo.
Ma ancora una volta il passaggio rischia di essere tutt’altro che indolore. Come d’altronde successe ad ottobre, quando non solo votarono contro il disegno di legge i Cinquestelle e il Psi, ma espresse fortissimi critiche la quasi totalità degli storici contemporaneisti italiani, i quali — attraverso una nota ufficiale della Sissco, la società che li raccoglie — parlarono di una norma «ambigua e di difficile attuazione», temendo in sovrappiù «l’estensione della pena a chiunque negli l’esistenza di crimini di guerra o di genocidio», ossia allargando lo spettro ben oltre la Shoah. Oggi il dibattito rischia di riproporsi negli stessi termini. «Il testo è migliorabile», ha messo le mani in avanti Lucio Malan di Forza Italia parlando in aula, dove il disegno dovrebbe approdare martedì o mercoledì. Ma si sente in dovere di precisare, Malan, che «è doveroso esaminare il ddl perché il 27 gennaio si celebra la Giornata della Memoria, e negare l’esistenza dell’Olocausto non può lasciare indifferenti le nostre coscienze». Tuttavia il quadro, nei palazzi, è tutt’altro che limpido. Se da una parte è esploso il Nuovo centrodestra con Carlo Giovanardi e Fabrizio Cicchitto, («è una legge liberticida, un delirio da regime totalitario»), dall’altra si registrano, sottotraccia, non pochi mal di pancia dentro lo stesso Pd. Nelle cui fila da una parte sono stati elaborati alcuni emendamenti tesi a “migliorare” il testo, mentre dall’altra vi è chi è fortemente sensibile agli argomenti degli storici.
Tre mesi fa, quando il tema fu rilanciato dalla coincidenza dei furori che si erano creati intorno agli ipotetici funerali di Erich Priebke e del settantesimo anniversario del rastrellamento nazista nel ghetto di Roma, è stato Carlo Ginzburg, che ha dedicato molte e sofferte pagine al tema della persecuzione, a esprimersi, attraverso un’intervista aRepubblica, nel modo più netto: «Quello contro il negazionismo è un disegno di legge inaccettabile. E reputo dilettantesco il modo con cui la classe politica l’ha riproposto, senza tenere conto delle serie obiezioni mosse in passato». Obiezione numero uno, secondo Ginzburg: «È inammissibile imporre per legge un limite alla ricerca». È un «punto di principio che prescinde dal contenuto», dice lo storico, e questo nonostante (o proprio perché) «le tesi dei negazionisti siano ignobili dal punto di vista morale e politico». Altrettanto duro Adriano Prosperi: «Questa non è solo una legge sbagliata: una norma penale contro un reato d’opinione non può entrare nel codice di un paese erede dei principi dell’Illuminismo senza alterarlo in modo sostanziale». Come dire: è la cultura a determinare la storia, non il codice.

l’Unità 25.1.14
«Io palestinese oltre quel muro»
La battaglia per la pace dell’architetta Suad Amiry vincitrice del Premio Nonino
Riceverà oggi il riconoscimento, occasione per raccontare il suo rapporto con l’Italia
ma soprattutto l’attività della sua associazione per la tutela e la salvaguardia della cultura del suo paese
di Suad Amiry


Oggi nella sede delle distillerie Nonino, a Ronchi di Percoto, verranno consegnati i Premi Nonino 2014 all’architetta palestinese Suad Amiry, allo scrittore portoghese Antonio Lobo Antunes, allo psichiatra Giuseppe Dell’Acqua e al filosofo francese Michel Serres. In questa pagina pubblichiamo il discorso che Suad Amiry terrà oggi alla cerimonia («La cultura dirà Adonis, consegnandole il Premio è l’arma più incisiva e efficace per uscire dalla catastrofe umana e civile dell’Oriente. È l’arma scelta da molti artisti, sulle rive di questa unica terra della profezia, per uscire in Palestina dall’orrore della guerra e della distruzione verso la serenità della pace e della libertà») e un breve saluto del filosofo francese Michel Serres.

QUANDO ERO UNA RAGAZZINA MIA MADRE MI FECE UN BEL VESTITO A MAGLIA. Ero così ansiosa di indossarlo che ho fatto impazzire mia madre tormentandola: «Quando sarà pronto il mio vestito? Ci stai ancora lavorando? Perché ci vuole tanto tempo?» fin da piccola ho anche imparato quanti sforzi, tempo e concentrazione ci sono voluti a mia madre per farmi quel vestito: e che, dopo tutto, era solo un vestito da bambina. E mi chiedo quanti sforzi, quanto tempo e quanta gente ha dovuto lavorare giorno e notte per permettermi di essere qui di fronte a voi oggi: perché la strada fra la Nonino Distillatori a Percoto – Italia e i piccoli villaggi Palestinesi dove lavoro non è proprio la strada fra la scintillante New York e Milano. Perché i villaggi in cui io e Riwaq lavoriamo a malapena hanno la luce! Ma questi due posti hanno una cosa in comune: in entrambi c’è gente che lavora con amore e passione e potrei aggiungere con ossessione.
La Famiglia Nonino
Sono veramente onorata e grata di essere di fronte a voi tutti oggi. Prima di spiegare perché questo premio significa moltissimo per me, permettetemi di dire un grande grazie a tutti i membri della Famiglia Nonino. Le donne sono certamente capaci di costruire un Impero ma quello che più mi sorprende è come siano riuscite a farlo restare una famiglia: una famiglia grande e inclusiva. E per tutti noi, in particolare per un Palestinese non c’è sensazione migliore e più calda che sentirsi a casa. Mi sento già parte della Famiglia Nonino. Grazie per aver notato il piccolo barlume di speranza che viene dall’oscurità della Palestina. A Giannola, Benito, Cristina, Antonella ed Elisabetta dico che non sono proprio la viticoltrice che ha recuperato i vitigni ma faccio parte di un’organizzazione: Riwaq, che ha restaurato molti edifici storici e molti centri storici nella Palestina rurale!
All’illustre Giuria del Premio Nonino dico: grazie per tutto il duro lavoro e la ricerca che dovete aver fatto per scoprirmi! Ma posso anche scherzosamente dire che avete fatto un eccellente lavoro assegnando a me il premio.
Vorrei ringraziare la prima famiglia che mi ha adottato in Italia: la mia Famiglia Feltrinelli e in particolare i miei cari Inga e Carlo Feltrinelli, ma un grazie molto speciale va anche ad Alberto Rollo che è stato fonte di ispirazione per i miei scritti e anche alla mia cara amica Sonia Folin, e alla mia traduttrice e curatrice Maria Nadotti. Voglio ringraziare la mia amica Laila Shahid che mi ha incoraggiato in ogni aspetto della mia vita, e ultimo, ma non meno importante, il mio caro marito Salim Tamari.
Amo l’Italia, e con il Premio Nonino l’Italia mi ricambia
Questo Premio significa moltissimo per me perché è un Premio italiano. Perché è vero che sono nata Palestinese, ma ho arbitrariamente deciso che sono italiana: amo tantissimo l’Italia e con questo Premio l’Italia mi ricambia!
Se mi chiedete che cos’è l’Occupazione vi dirò che riguarda l’isolamento. Se c’è qualcosa di cui i Palestinesi soffrono è l’essere isolati dal mondo e circondati da un insensato muro di cemento alto otto metri.
Questo Premio, quindi, non è un riconoscimento per Suad Amiry, questo Premio è un riconoscimento per la Palestina. È dire ai Palestinesi sì, nonostante l’oscurità di questo mondo vi vediamo ancora, e sì, possiamo sentire le vostre sofferenze.
Colloqui di pace, Riwaq e i miei scritti su Pace, Architettura e Letteratura
Dopo aver superato il primo piacevole shock per aver ricevuto il Premio Nonino Risit D’Âur, nonostante non abbia mai prodotto uva, mi sono resa conto che il premio mi veniva assegnato per il mio lavoro per la Pace, il mio lavoro a Riwaq e i miei scritti.
Quando ho partecipato per la prima volta ai Colloqui di Pace Israelo-Palestinesi a Washington Dc (fra il 1991 e il 1993), avevo in programma di restare incinta, ma ho dato la priorità ai negoziati perché credevo che fare pace fra Israeliani e Palestinesi fosse più importante che mettere al mondo una o più persone! Ero piena si speranze, allora, che il processo di Pace avrebbe portato a uno stato Palestinese. Naturalmente il fatto di essere l’unica donna al tavolo dei negoziati (sia da parte Palestinese che da parte Israeliana) mi ha dato molta visibilità, mi ha messo al centro dell’attenzione con tutta la notorietà che ne consegue. Ma quando mi sono resa conto quanto poco seri fossero gli Israeliani sul dividere la terra con i suoi proprietari, ho deciso di abbandonare la vita pubblica. Ho deciso che mi mancava la mia solitudine, la natura e lavorare nel mio giardino! Perciò sono andata a lavorare in giardino e ho piantato alcuni alberi da frutta. Desidero che sappiate che mentre i negoziati con Israele finora sono durati 23 anni (1991 – 2014) e non hanno dato alcun frutto (al contrario sono diventati una scusa per Israele per prendersi sempre più terra, costruire insediamenti e prendersi la Gerusalemme Esa Araba), nel frattempo i limoni e le rose che ho piantato, dal 1993 hanno dato molti frutti e mazzi di fiori!
Il Centro per la Conservazione Architettonica (www.Riwaq.org), è un’organizzazione non governativa ong che ho fondato nel 1991 per documentare, restaurare edifici storici e ridare vita a circa 50 centri storici abbandonati nella Palestina Rurale.
Ho lasciato la sua direzione per due anni allo scopo di far pace con Israele. Tuttavia, nel corso degli ultimi 23 anni di negoziati con Israele, Riwaq ha documentato, restaurato e rinnovato centinaia di centri culturali, centri femminili e di comunità e molte aree di gioco per bambini. Riwaq finora ha creato migliaia e migliaia di posti di lavoro per Palestinesi e restaurato circa 50 centri storici in piccoli villaggi.
Da quando ho scritto il mio primo libro Sharon e mia suocera, e fino al mio ultimo libro Golda ha dormito qui (Feltrinelli), ho usato humour e ironia come modo di resistere all’occupazione israeliana, ma anche per dare nomi e volti ai Palestinesi, da qui la mia propensione a scrivere della vita di ogni giorno e della gente comune in Palestina: la gente che è stata demonizzata e stereotipata: la gente che ingiustamente è stata associata con la morte quando in realtà è gente che ama la vita e vuole vivere.
I miei scritti riguardano la vita mondana e quotidiana in Palestina e questo è il motivo per cui questo premio è per gli Eroi dei miei libri: per Murad, l’operaio Palestinese che con un grande sorriso mi dice: «Anche costruendo un muro alto otto metri nessuno mi potrà impedire di trovare un lavoro».
Per Umm Salim: la mia defunta suocera che insisteva a vestirsi come se stesse andando a una festa e ad abbellire la tavola con dei fiori anche quando eravamo sotto coprifuoco da 42 giorni! Per il mio cane Nura il cui passaporto della Gerusalemme Israeliana mi ha aiutata a entrare nella vietata Gerusalemme Araba. E per Huda Imam e George Bisharat nella cui casa visse il primo ministro israeliano Golda Meir, da cui il mio ultimo libro Golda ha dormito qui. Insisto a conservare i miei valori umani nonostante tutta la follia e la rudezza che ci sono intorno a me.

il Fatto 25.1.14
Idee e o caciocavalli?
Il pensiero confuso di Scalfari filosofo
Lo studioso Bucci, che ha scoperto i plagi di Galimberti, stronca l’opera del Fondatore
di fd’e


Il pensiero debolissimo di ES, al secolo Eugenio Scalfari. “Intellettuale dilettante” che celebra senza sosta “la festosa incoerenza delle idee”. Dopo aver colpito un altro pilastro “repubblicano”, nel senso editoriale di Umberto Galimberti e dei suoi plagi, lo studioso Francesco Bucci si sottopone a uno sforzo titanico: passare in rassegna il pensiero filosofico di Scalfari nelle varie produzioni del Fondatore, che già dai titoli vola altissimo: Incontro con Io, Alla ricerca della morale perduta, Attualità dell’Illuminismo, L’uomo che non credeva in Dio, Per l’alto mare aperto, Scuote l’anima mia Eros.
Il risultato è spietato ed esilarante allo stesso tempo, e rigorosamente scientifico. Nonostante l’impegno, le citazioni e l’analisi, ES, come viene definito dall’autore, s’imprigiona da solo in una gabbia di “intima contraddittorietà” e “complessiva insensatezza”. Il cruccio scalfariano è la fine della modernità. Il suo punto di partenza è “un crocianesimo di risulta”. E qui il Filosofo Fondatore incappa nel primo scoglio. Si professa illuminista e crociano ma “come può un illuminista come Es non solo amare Croce, ma sposarne addirittura lo storicismo? ”.
BUCCI SCAVA a fondo nelle opere scalfariane, da poco raccolte addirittura in un prestigioso Meridiano, e sulla questione della modernità scolpisce uno strepitoso quadro sinottico. Nel conto totale, e muovendosi con disinvoltura da un sentiero all’altro, ES si smentisce e contraddice con ben sette date fissate per l’inizio della modernità. Una volta è il XV secolo con la negazione della metafisica (Rinascimento), un’altra ancora è il XVI secolo con il relativismo (Montaigne). Poi, in un vortice caotico più che speculativo: XVI-XVII secolo raffigurazione dell’io cangiante (Shakespeare) ; XVII secolo gnoseologia razionalista (Cartesio) ; XVII secolo scienza (Galileo) ; XVII secolo romanzo (Cervantes) ; illuminismo (Diderot, Voltaire).
La modernità comincia per sette volte nella storia dell’umanità. Come se ci fossero sette Natali, anziché uno solo, per i cattolici. Comincia per sette volte e termina in sei modi diversi. Non solo. Ma avrebbe, la modernità, pure tre culmini (Montaigne, l’illuminismo e Leopardi) e un baricentro (Goethe). Scalfari è un instancabile pensatore omnibus che mischia e confonde il relativismo e il realismo, esalta Platone ma dimentica Aristotele, s’impegna finanche a moralizzare l’impossibile, cioè Nietzsche. I suoi testi sono tra “il diario spirituale adolescenziale, con cui spesso i giovani dialogano con loro stessi ponendosi le eterne domande prive di risposta, e la tesina scolastica”. L’altro cruccio del Filosofo Fondatore, FF, è la morale e qui il compito, nota Bucci, è “proibitivo”. Un obiettivo fallito dalle “menti dei massimi pensatori dell’umanità”. Ma Scalfari non demorde. La sua fortuna è che “un dilettante che diletta solo se stesso”. FF. ES. che mi hai portato a fare sopra alla filosofia se non me la spieghi?

L’INTELLETTUALE DILETTANTE, Francesco Bucci, Dante Alighieri pagg. 157© € 14,50

l’Unità 25.1.14
Chomsky il dissidente
Il celebre linguista a Roma: la lingua è neutrale, gli umani no
di Teresa Numerico


ROMA. È UNA STAR NOAM CHOMSKY. Tra i più noti intellettuali americani viventi. A 85 anni è più fotografato di un’attrice candidata agli oscar. È a Roma per il festival della scienza dove ieri sera ha partecipato alla talk opera su di lui e stasera terrà una lectio magistralis sul tema de Il linguaggio come organo della mente. Entrambi gli eventi hanno da tempo esaurito i biglietti. Nel foyer dell’Auditorium un maxischermo permetterà agli interessati di partecipare.
L’inconsueta timidezza e disponibilità di Chomsky stride un po’ con i tempi ferrei dell’organizzazione che lo spinge verso altri impegni inderogabili. È il prezzo della celebrità. Ma è sempre lui. Lo stesso che si oppose alla guerra in Vietnam, che subì vari arresti, che ha appoggiato tutti i movimenti di opposizione negli Usa e altrove, fino a Occupy, di cui ha detto che hanno creato qualcosa che non esisteva prima: «un sistema di mutuo supporto, cooperazione e spazi aperti alla discussione».
Come Che Guevara, diventa duro senza perdere la tenerezza quando contesta il sistema di potere vigente. Secondo Chomsky siamo in piena lotta di classe: ricchi e potenti contro poveri e emarginati. Denuncia l’attestarsi delle plutocrazie occidentali che perseguono quella che Adam Smith definiva la turpe massima «tutto per noi stessi e nulla per gli altri», perseguita dai padroni dell’umanità. Un sistema di potere che abbandona il patto sociale come sostiene Mario Draghi in un’intervista al Wall Street Journal e scambia il benessere di pochi per il bene della società. Chomsky cita un recente report di Oxfam secondo cui 85 ricchi guadagnano tanto quanto 3 miliardi e mezzo di persone, mentre il 70% più povero della popolazione americana non ha possibilità di intervenire su come vengono prese le decisioni politiche. La democrazia è in pericolo in tutto l’occidente. In Italia è stata definitivamente compromessa secondo Chomsky da quando venne nominato Mario Monti, un tecnico, Presidente del Consiglio senza nessuna investitura popolare.
Ma chi sono i padroni dell’umanità? Sono banchieri, finanzieri, capitani di industria e burocrati che decidono le sorti dei paesi nel chiuso delle loro stanze senza confronto con l’opinione pubblica, aiutati da intellettuali organici e subalterni.
Cosa si può fare, gli chiedono? Bisogna sovvertire il sistema di potere attuale e attribuire di nuovo alla collettività e all’opinione pubblica la capacità di incidere su come verranno prese le decisioni. Da dissidente Chomsky non smette di avere fiducia nell’umanità e nella forza degli intellettuali. Non condivide probabilmente quella visione aspra e pessimista dell’ultimo film di Martin Scorsese, The wolf of Wall Street, dove i lupi della finanza possono arricchirsi pazzamente perché sono gli ideologi di una società vuota fatta di ricchezza facile e irrefrenabilità del desiderio. Sono solo interpreti fortunati di una danza tribale e violenta che tutti vorrebbero saper ballare.
Il linguaggio, per Chomsky, è uno strumento neutrale, può essere usato da Gandhi o da Hitler. È una posizione tradisce la sua storia di studioso: esisterebbe una grammatica universale innata che detta le regole delle possibili forme del linguaggio. Chomsky continua a credere nelle sue teorie; i recenti studi sull’apprendimento della lingua madre dimostrerebbero che la struttura grammaticale prescinderebbe dalla fonetica e da ogni carattere empirico delle singole lingue. Alla provocazione sulla impossibilità di dimostrare i suoi risultati risponde con consapevolezza e umiltà. Ma che significa dimostrare? Assumere principi, osservare e valutare le conseguenze e secondo lui anche molti studi neuroscientifici e psicolinguistici potrebbero essere usati come parziali conferme delle sue intuizioni. Il dibattito continua e manifesta la fertilità della sua posizione. Nella discussione, però, preme l’attualità. Gli intellettuali hanno fatto abbastanza? Le nuove tecnologie hanno abbassato il livello della lingua e la possibilità di conoscenza?
Sugli intellettuali Chomsky mantiene una posizione molto netta. Quelli dissidenti sono apprezzabili, quelli di regime riprovevoli. Ma aggiunge una chiosa rivoluzionaria. 25 anni fa cadeva il muro di Berlino. Tutti apprezziamo gli intellettuali che si sono battuti contro i regimi totalitari dell’Europa dell’Est. Ma non vale lo stesso per i dissidenti interni o per quelli oppositori di regimi «amici», come in America Latina. Sono 25 anni che è avvenuto anche l’eccidio dei sacerdoti gesuiti e degli studenti in El Salvador ad opera di forze colluse col potere americano e nessuno in Usa si affannerà a ricordare quell’ingiustizia subita.
Su stampa e nuove tecnologie della comunicazione Chomsky mantiene una posizione salomonica. La rete offre opportunità e comporta rischi. Sebbene le tecniche di propaganda siano le stesse, sia pure adottando nuovi metodi, l’immediatezza nel reperire le notizie in rete ha interferito con la profondità del giornalismo, riducendo la visione d’insieme e la capacità di offrire un’interpretazione del mondo. Tuttavia al centro resta la responsabilità di chi legge e di chi scrive: è la sua fiducia nella natura umana.
Con un caveat: nella biblioteca di biologia del Mit quasi tutto quello che vi si legge è provato e verificato, mentre quello che si trova su internet proviene dalla testa delle persone senza controlli o mediazioni.

Corriere 25.1.14
L’(auto)ironia premia lo stile di «Gazebo»
di Aldo Grasso


Solo alla banda «Gazebo» poteva riuscire l’impresa di rendere televisivamente simpatico un deputato del M5S, di contagiarlo con lo spirito leggero e (auto)ironico del programma. È andata così: Angelo Tofalo, «cittadino» campano eletto alla Camera, ha postato sulla sua pagina Facebook la schermata della propria area riservata all’interno del sito del Movimento, da cui era possibile votare per la consultazione interna sui pro- getti per la legge elettorale. Da qui l’idea dello scherzo: Diego Bianchi e Andrea Salerno hanno finto di hackerare (o, detta meglio, «bucare») l’account di Tofalo, accedendo grazie alla password «o sole mio» e meditando di votare al posto suo.
Apriti cielo! Dimostrando ben poco senso dell’ironia, i social si sono scatenati: tweet allarmati, post su Facebook, telefonate preoccupate al numero di Tofalo. Il più rilassato è sembrato lo stesso Tofalo, che è poi intervenuto in trasmissione per scherzare sulla gag e rassicurare sulla tenuta della privacy dei suoi dati personali. Smascherare gli eccessi dei social ma anche dare visibilità alle cose più divertenti, raccontare gli aspetti più surreali della comunicazione politica infiltrandosi nel «circo mediatico», in questo caso quello che seguiva Beppe Grillo in dialogo con la stampa estera e poi a piedi per le vie di Roma: sono queste le cose che riescono meglio a «Gazebo». Non sempre le idee che nascono sul web poi trovano una forma televisiva che funziona: non era sfida facile trasferire lo spirito dei video di «Tolleranza Zoro» su un canale come Rai3 (giovedì, ore 23.10). Invece il programma è cresciuto con il tempo, Diego Bianchi ha saputo inventarsi uno stile e una sua cifra distintiva, con quel «format» del fermo immagine telecomandato che diventa punteggiatura del racconto, strumento per passare dalle riprese on the road al dialogo in studio.